ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Pubblichiamo l'appello dei giuristi italiani che invoca il rispetto del diritto internazionale per la tutela dei diritti umani e la persecuzione dei crimini contro l'umanità, Giustizia Insieme è tra i firmatari.
***APPELLO GIURISTI per GAZA: rescoconto dell'organizzazione*** (1 ottobre 2025)
In allegato l’elenco aggiornato e definitivo delle adesioni all'iniziativa promossa fra il 22 settembre ed il 1 ottobre 2025, anche per eventuale ulteriore diffusione.
Si contano 3135 giuristi fra magistrati, avvocati, professori universitari e altri studiosi del diritto.
Scorrendo i tanti nomi, le diverse funzioni e la provenienza di chi ha aderito all'iniziativa, siamo confortati nel sapere, e grati di poter far sapere, che la tutela dei diritti fondamentali continua ad essere un impegno trasversale e condiviso.
Questa breve iniziativa naturalmente non esaurisce la necessità di continuare a custodire il patrimonio giuridico, prezioso e fragile, della tutela dei diritti umani attraverso gli strumenti del diritto internazionale pubblico e del diritto internazionale penale. Né quella di rendere riconoscibile e utile il nostro impegno come magistrati, anche attraverso le tante altre possibili forme che l'ANM ha individuato e saprà continuare ad individuare.
Grazie...
(e un ringraziamento speciale a Bianca Agostini, Sara Posa e Alessia Mussi: senza il loro aiuto non ce l'avremmo fatta)
Valeria Bolici, Marco Imperato
PS. Ci scusiamo se non tutti gli aderenti sono stati inclusi nella lista o se c’è ancora qualche errore refuso: la gestione delle adesioni è stata resa difficoltosa dalla travolgente risposta, e la abbiamo gestita come meglio potevamo.
APPELLO dei GIURISTI per GAZA
Di fronte alle notizie sulla violazione sistematica e protratta del diritto alla vita e degli altri diritti fondamentali della popolazione civile di Gaza, il silenzio ha smesso da tempo di essere un’opzione.
Come giuristi, sentiamo il dovere di ricordare che lo Stato italiano, per Costituzione e per legge, e con l’adesione a trattati e convenzioni, ha scelto la tutela dei diritti fondamentali e la persecuzione dei crimini internazionali.
Le ragioni di questa scelta sono tra l’altro compendiate nello Statuto della Corte Penale Internazionale, firmato a Roma nel 1998, sottoscritto da 125 Paesi, e ratificato con legge dello Stato nel 1999.
Vogliamo ricordare queste ragioni, unitamente ai rappresentanti dell’Avvocatura e dell’Università che vorranno aderire, leggendo ogni giorno - nelle aule d’udienza e in quelle universitarie - il preambolo allo Statuto della Corte Penale Internazionale, per testimoniare che le coscienze di chi ogni giorno contribuisce all’amministrazione della giustizia non sono indifferenti alle ingiustizie perpetrate nei confronti dei più deboli, e per fare appello a tutte le istituzioni perché si pretenda il rispetto del diritto e dei diritti fondamentali dei civili.
Questo il testo che vorremmo leggere ogni giorno pubblicamente nelle aule di udienza:
“Suicidi in carcere, un pesante fardello”. Così ha esordito il Ministro della giustizia, Carlo Nordio in Parlamento, rispondendo al question- time sempre alla stessa domanda, posta male per la verità, dato che nessuno degli interroganti ha incalzato il Ministro sulle questioni che stanno a monte dei suicidi e che ne costituiscono l’inesorabile matrice.
L’indirizzo politico espresso dal Governo (sicurezza collettiva e certezza della pena) ha in realtà prodotto una proliferazione di figure di reato anche per fatti “bagatellari” (di scarsa rilevanza criminale) con costanti violazioni del principio di proporzionalità (tra condotta illecita e sanzione) costantemente richiamato dalla Corte Costituzionale e sul quale è tornato “a bomba” l’Ufficio del Massimario della Cass. nella sua recente relazione n. 33/2025, esprimendo un parere critico sul cd. “Decreto Sicurezza” e censurando anche l’emanazione di dette norme penali, in assenza dei presupposti di “necessità e urgenza” previsti dalla Costituzione come specifici presupposti necessari dell’emanazione di norme per decreto.
Effetto precipuo di detto indirizzo politico è stato la ciclica presentazione di decisioni legislative ricadenti sul “sistema penale” in entrambe le sue componenti: sostanziale- comprensivo della fase esecutiva della pena- e processuale, con vari effetti infausti: 1- aumento delle figure di reato punite con la detenzione (il c.d. decreto “Rave”, i reati previsti dalle norme “anti immigrazione”, gli aggravamenti di pena previsti dal decreto cd. “Caivano”), 2- perdurante assenza di opportuna ponderazione tra il danno effettivamente minacciato dall’autore della singola condotta del caso di specie e quello previsto dalla norma astratta: ponderazione sulla base di dati statistici fondati sul campo, in quanto rivelatori di una effettiva reiterabilità di quel reato che dovrebbe essere alla base, per altro, proprio di un sistema penale cd. “law and order”).
In questa temperie, i detenuti rimangono spettri in cosante attesa di una risposta ad una domanda rivolta al Direttore dell’Istituto, al Magistrato di Sorveglianza, al Giudice dell’esecuzione o in attesa della conclusione di un procedimento avanti il Tribunale di sorveglianza (competente a decidere sull’applicazione di una misura alternativa alla pena detentiva). E resta sempre al fondo la domanda perché continuano a uccidersi o si autoledono dentro un sistema penitenziario destinato, invece, a garantirne il reinserimento sociale, come prevede espressamente l’ordinamento penitenziario (artt. 1. 13), preludio del fine rieducativo della pena sancito dall’art. 27 c.3 Costituzione.
Eppure dal 1931 al 2002 lo Stato ha mantenuto un costante impegno a garantire dette finalità, nonostante le emergenze del terrorismo degli “anni di piombo” 70/ 80 e delle stragi degli anni 90, e ciò fino agli anni 2000 (vedi decreto del presidente della repubblica del 30 giugno 2000, n. 230 con cui è stato emanato il regolamento d’esecuzione dell’ Ordinamento penitenziario regolato, con legge 26 luglio 1975, n. 354 e successive modifiche, tra cui la fondamentale L. n. 663/1986 (cd. legge Gozzini con cui sono state rimodulate le misure alternative alla pena detentiva.
Può dirsi che si profila una costante scelta del legislatore di mantenere la pena detentiva in carcere come extrema ratio, cui ricorrere, in caso di fallimento di forme alternative di esecuzione della pena inflitta dal giudice con la condanna conseguente al riconoscimento del reato e del suo autore.
Nella camera oscura della prognosi che compete al Magistrato di Sorveglianza o al Giudice della esecuzione, però, va considerato che l’osservazione della personalità del condannato dovrà avvenire sulla base della costante analisi dei dati raccolti dagli operatori del gruppo di osservazione (interno all’istituto) durante tutto il corso dell’esecuzione della pena (psicologi, psichiatri o altri medici specialisti come neurologi), al fine di ottenere un’ osservazione fondata della personalità del paziente, attraverso i dati raccolti. E Infine il decidente (Magistrato o Tribunale di Sorveglianza) dovrà esprimere una prognosi motivata sul possibile - o meno - mutamento della personalità del detenuto.
Specializzazione, motivazione e competenza costituiscono, perciò, gli elementi che devono concorrere nel fondare una prognosi positiva: essenziale per ottenere un qualunque beneficio che passo dopo passo valga a costruire un reinserimento sociale effettivo ed efficace di ogni individuo recluso in espiazione di pena.
Rimane essenziale, perciò, che il detenuto avverta il senso e il fine dell’attività di analisi che viene compiuta su di lui, come è di rilevanza vitale che gli operatori contribuiscano a stabilire una qualche connessione con il mondo esterno (con il mercato del lavoro o comunque con il settore di attività per la quale il paziente ha mostrato interesse o dimostrato una qualche esperienza già maturata).
L’attesa, il silenzio, l’indifferenza o peggio eventuali violenze subite all’interno dell’istituto costituiscono le peggiori incrinature della descritta attività di osservazione e del processo di reinserimento in atto.
E proprio l’assottigliarsi della speranza e la mancanza di certezze all’esterno del carcere, sono all’origine della perdita di identità e anche del significato della pena che si sta scontando, non soltanto la mancanza di uno spazio vitale sufficiente e che ne costituisce un’aggravante indiscutibile.
In Commissione Giustizia della Camera la Ministra della Giustizia Cartabia ha affermato: ” Penso sia opportuna una seria riflessione sul sistema sanzionatorio che ci orienti verso il superamento dell’idea del carcere come unica effettiva risposta al reato. La certezza della pena non è la certezza del carcere” [il Dubbio 16/3/2021].
Non sembra di poter affermare che l’alluvionale produzione di nuove figure di reato punite con pena detentiva costituiscano -oggi- espressione dell’indirizzo politico dell’attuale governo e ci si chiede come alleggerire il “fardello” che reca sulle spalle la comunità tutta.
Ora che la “questione detenuti” è diventata di rilievo nazionale, c’è da sperare che la domanda per un posto di Magistrato di Sorveglianza non sia considerato più da fior di colleghi della Magistratura della cognizione come equivalente a “spezzarsi la carriera” perché un “ufficio di sine cure”.
Immagine: Josh Estey, Human rights, Indonesia 2009 via Wikimedia Commons.
Mettiamo a disposizione delle lettrici e dei lettori il nuovo fascicolo di Giustizia Insieme
Questioni attuali di diritto tributario tra normativa e giurisprudenza
a cura di Enrico Manzon e Giuseppe Melis, con i contributi di Milena Balsamo, Loredana Carpentieri, Laura Castaldi, Stefano Civardi, Paola Coppola, Andrea Giovanardi, Alessandro Giovannini, Graziella Glendi, Matteo Golisano, Alberto Marcheselli, Giuseppe Melis, Massimo Francesco Orzan, Andrea Penta, Francesco Pepe, Alessio Persiani, Roberto Succio, Edoardo Traversa.
Introduzione
di Enrico Manzon e Giuseppe Melis
Il diritto tributario italiano è, tradizionalmente, un perpetuum mobile.
Tuttavia, negli ultimi anni il moto si è accelerato sia sul versante normativo che, corrispondentemente, su quello giurisprudenziale. Il legislatore ha fatto delle scelte fortemente innovative che, alla verifica attuativa, hanno ricevuto risposte non sempre consonanti della giurisprudenza, in particolare di legittimità. Peraltro non mancano le novità sul versante del diritto unionale, de jure condito e de jure condendo.
Abbiamo individuato quattro “aree tematiche”, rispettivamente dedicate ai principi, alle leggi d’imposta, al processo ed al diritto dell’Unione europea. In questo quadro sistematico si è ritenuto opportuno ripubblicare alcuni contributi già comparsi in questa Rivista nei mesi scorsi.
Così organizzato, il fascicolo si prefigge dunque di rappresentare la temperie attuale, con particolare attenzione alle criticità che se ne evidenziano, costituendo una “guida” mirata alle questioni di maggior rilievo teorico ovvero pratico.
La maestria degli Autori dà lo spessore scientifico alla pubblicazione; per questo e per la loro generosità vogliamo manifestare la nostra profonda gratitudine.
Uno speciale ringraziamento va al dott. Matteo Golisano, che, con la consueta abilità, ha curato l’editing.
Tutti i fascicoli di Giustizia Insieme si possono leggere e scaricare gratuitamente a questo link: https://www.giustiziainsieme.it/it/fascicoli
Immagine: Benjamin Walter Spiers, Un pezzo della vecchia Londra, acquerello e matita su carta, 1890, collezione privata.
Natura del rapporto giuridico e limiti all’efficacia nel tempo delle pronunce di incostituzionalità (nota a Cass., sez. I civ, 16 aprile 2025 n. 10057)
di Ludovico Di Benedetto e Fabio Conti[i]
Sommario: 1 - Sintesi del fatto; 2 - Il quadro normativo rilevante; 3.1 - I cardini della decisione: la natura del rapporto giuridico; 3.2 - Segue: i rapporti esauriti e i limiti all’efficacia temporale delle pronunce di incostituzionalità; 4 - Conclusioni: le peculiarità del rapporto depositeria-amministrazione.
1. Sintesi del fatto
La ricostruzione della vicenda sottesa alla pronuncia in commento passa per il collegamento di plurime pronunce del giudice ordinario.
Il contenzioso origina dal ricorso proposto dalla società privata per ottenere la differenza tra quanto liquidato dall’amministrazione prefettizia ai sensi dell’art. 38 del d.l. 269/2003[ii] e il maggior importo spettante applicando le tariffe di cui all’art. 12 del dpr 571/1982, ratione temporis applicabili a seguito della declaratoria di incostituzionalità del menzionato art. 38 (C. cost. n. 92 del 2013). Gli emolumenti derivano dall’attività di custodia dei veicoli sequestrati in via amministrativa a seguito di violazione del codice della strada svolta nel corso degli anni dalla ricorrente.
Questo primo giudizio si è concluso a sfavore del privato (ord. Trib. Roma n. 2834 del 2020), avendo l’organo giudicante ritenuto che il rapporto tra amministrazione e depositeria fosse esaurito in quanto non era stato avversato davanti al giudice amministrativo il provvedimento della prefettura; come tale rimaneva insensibile alla naturale efficacia retroattiva della pronuncia di incostituzionalità.
Proposto appello avverso la decisione di prima cure, il giudice di secondo grado (sent. App. Roma n. 3881 del 2024) ha statuito l’invalidità della precedente delibazione, decidendo a favore della società appellante. A parere del collegio, infatti, la relazione giuridica tra parte privata e soggetto pubblico - connotata da diritto-obbligo - non poteva dirsi esaurita, visto che, vertendosi in tema di quantificazione del pagamento di somme dovute per l’espletamento di un servizio pubblico, non avrebbe avuto alcun rilievo l’impugnazione della decisione amministrativa di cui all’art. 38. Di esaurimento del rapporto si sarebbe potuto allora parlare solo se fosse occorsa una res iudicata o una prescrizione estintiva decennale, entrambe assenti nella fattispecie de qua.
A questo punto, il contenzioso è proseguito innanzi alla Suprema Corte di cassazione con la pronuncia in analisi.
Il gravame mosso dalla parte pubblica è stato proposto attorno, ancora una volta, al tema della natura del rapporto giuridico e, di conseguenza, all’esaurimento del medesimo ai fini dell’efficacia della sentenza della Consulta. Ebbene, il supremo consesso di legittimità ha dato torto all’amministrazione, avallando il dictum di secondo grado. Secondo la Corte, il meccanismo congegnato dal legislatore con l’art. 38 del d.l. 269/2003 doveva ritenersi composto di due momenti, uno pubblicistico sull’an debeatur fissato dal provvedimento prefettizio, fondante interessi legittimi e dunque di competenza del giudice amministrativo, ma, per decorrenza dei termini, oramai insensibile a qualsiasi sopravvenienza, persino alla declaratoria di incostituzionalità; e uno privatistico sul quantum debeatur derivante dallo stesso art. 38, concernente un diritto di credito soggetto alla giurisdizione ordinaria e ancora permeabile alle pronunce della Corte costituzionale, in quanto non prescritto (né coperto da giudicato).
La pronuncia in parola si mostra quindi di primario interesse per comprendere la natura del rapporto incardinato sull’art. 38 cit. e per trattare del tema, caro al diritto costituzionale, dei limiti all’efficacia nel tempo delle sentenze del giudice delle leggi. Per una migliore analisi della fattispecie, merita un excursus la cornice normativa che fa da retroterra alla vicenda in oggetto; sarà così più agevole comprendere le tematiche connesse.
2. Il quadro normativo rilevante
Il diritto comune in materia di gestione dei beni mobili sequestrati in via amministrativa è fissato nel dpr 571/1982[iii]. In tema di autoveicoli, tale risalente testo trova oggi applicazione in ogni caso in cui, per qualsiasi ragione, non vi sia spazio per la normativa del codice della strada[iv].
A fronte della regola generale di cui all’art. 7 c. 1 del dpr 571/82, che prevede la custodia dei beni sequestrati presso l’ufficio cui appartiene l’organo sequestrante, le disposizioni successive, assecondando il principio derogatorio scolpito all’art. 7 c. 3, prescrivono l’individuazione di un soggetto pubblico o privato che assuma le vesti di custode ad hoc (art. 8 c. 1). È il prefetto territorialmente competente a procedere ad una ricognizione degli operatori che possono ricoprire quest’ultimo incarico, a cadenza annuale (art. 8 c. 2).
Il profilo attinente alle spese di custodia è regolato dagli artt. 11 e 12. Nel dettaglio, una volta che sia divenuto inoppugnabile il provvedimento di confisca oppure che sia disposta la restituzione del bene, il custode, con apposita istanza, può chiedere la liquidazione del quantum all’amministrazione prefettizia, che lo calcola sulla base delle tariffe fissate dal prefetto (e degli usi locali). È fatto comunque salvo il diritto di ripetizione di quanto pagato a danno del trasgressore (art. 11 c. 2).
Agli artt. 13, 14 e 16 si rinviene la disciplina della restituzione delle res[v], mentre all’art. 15 viene sancita la regola secondo cui, divenuto definitivo il provvedimento ablatorio, il bene sequestrato va alienato (o distrutto)[vi].
Col tempo, il meccanismo immaginato dal dpr 571/82, a causa della carenza di risorse e della lentezza delle procedure, ha portato ad un considerevole aumento dei veicoli depositati presso custodi privati, con corrispondente lievitazione degli oneri finanziari. Onde far fronte a questa emergenza e facilitare l’avvio del nuovo sistema eretto dal codice della strada, il legislatore è intervenuto, inaugurando la fase delle alienazioni straordinarie.
Con l’art. 38, commi 2 e seguenti, del d.l. 269/2003[vii] - da cui origina il nostro contenzioso - è stata costruita una procedura di alienazione coattiva ope legis dei veicoli sequestrati[viii] aventi precise caratteristiche indicate dal testo di legge. Nello specifico, il comma 2 delimita l’ambito applicativo oggettivo, prevedendo che la procedura coinvolga esclusivamente i mezzi sequestrati a seguito di violazione del codice della strada[ix], immatricolati da almeno 5 anni e collocati presso i depositi di cui al dpr del 1982 da almeno 2 anni[x], purché sprovvisti di interesse storico o collezionistico. Ebbene, tali mezzi sono ex lege alienati ai medesimi custodi, anche ai soli fini della rottamazione, secondo elenchi disposti su base provinciale dalle prefetture, persino se non sottoposti a confisca e carenti della documentazione sullo stato di conservazione. L’efficacia traslativa discende dalla notificazione al depositario.
Il quantum della cessione è calcolato dalle amministrazioni in modo cumulativo, tenuto conto delle condizioni di conservazione, del tipo di veicolo, degli eventuali oneri di rottamazione (comma 4), compensandolo con i costi di custodia che, per espressa eccezione legislativa (comma 6), sono rivisti in deroga (e a ribasso) delle tariffe di cui al dpr 571/82.
Come accennato in apertura di questo scritto, il sistema brevemente descritto è stato tuttavia colpito da censura di incostituzionalità, con la sentenza n. 92/2013. In sintesi, il giudice delle leggi ha radicato la pronuncia sul fatto che col decreto-legge richiamato si sia snaturata l’originaria relazione p.a.-custode, imponendo a quest’ultimo - in assenza del suo consenso - di rendersi cessionario dei veicoli, derogando per giunta in peius alle tariffe che regolavano il suo corrispettivo. L’intervento legislativo ha, in questo modo, frustrato l’aspettativa del privato, aggiungendo oneri non prevedibili ad un rapporto di durata e comportando, peraltro, una sperequazione tra rapporti di custodia che, in quanto concernenti veicoli immatricolati o detenuti da più tempo, rimangono assoggettati al regime del 1982 e quegli altri che, seppur esauriti, rientrando nella cornice applicativa delineata, sono regolati dal decreto del 2003. Sebbene sia dunque pacifico l’assunto che una norma retroattiva in materia extrapenale possa essere costituzionalmente legittima, nella specie difetta quel fondamentale requisito di ragionevolezza (art. 3 Cost.), declinato nei termini di un giusto bilanciamento tra le posizioni in gioco, che avrebbe reso immune da vizi la novella.
La normativa comune, fissata dal dpr 571/82, ha visto così ampliarsi il suo raggio di applicazione, essendo stata invalidata la norma speciale per opera del giudice delle leggi[xi]; di conseguenza, avrebbero dovuto applicarsi le tariffe custodiali ratione temporis vigenti di cui all’art. 12, al posto dei criteri di calcolo fissati dal ricordato art. 38 c. 6. Che è quanto poi domandato dall’attore nella fattispecie in commento[xii].
3.1. I cardini della decisione: la natura del rapporto giuridico
L’ordinanza in discorso poggia la sua delibazione su due ordini di ragioni, intimamente connessi: la natura privatistica del rapporto tra depositeria e amministrazione e il suo mancato esaurimento.
Partiamo dal primo segmento del ragionamento del collegio, ossia dalla natura del rapporto. Secondo la Cassazione, essa sarebbe identica sia che si versi nel sistema ordinario di gestione dei beni sequestrati fissato dall’art. 8 del dpr 571/1982, sia che si applichi il modello eccezionale di cui all’art. 38 del d.l. 269/2003. Questa equivalenza non pare convincente.
L’inquadramento giuridico della natura del rapporto che si instaura tra prefettura e custode in forza del sopra citato art. 8 non è invero operazione facile. Da un canto, troviamo i custodi che sono, testualmente, “obbligati” a conservare il mezzo e per la cui attività hanno diritto ad un compenso monetario; dall’altro l’ente pubblico che, in base al dato legislativo, “individua” e “riconosce” i soggetti a cui affidare la custodia. Sulla sola scorta del dato letterale, dunque, parrebbe che la prefettura sia chiamata ad emanare un provvedimento meramente accertativo; eppure, un’interpretazione sistematica e teleologica porta alla diversa conclusione che si tratti di atto costitutivo, della specie delle autorizzazioni. Difatti, con la sua attività, la prefettura amplia in senso favorevole la sfera giuridica dei custodi, conferendo loro la possibilità di essere coinvolti nel servizio di conservazione dei veicoli, su loro istanza e, dunque, sulla base di una loro precisa manifestazione di volontà; possibilità che in precedenza non potevano all’evidenza sfruttare, a causa di limiti giuridici.
A prescindere dalla natura ricognitiva o costitutiva dell’intervento pubblico, in ogni caso è certo che la relazione de quaè autoritativa; e anche l’ordinanza in commento è del medesimo avviso.
L’autorizzazione, più precisamente, si potrebbe atteggiare a precondizione di un rapporto paritetico tra p.a. e custode, fonte di reciproche obbligazioni di stampo negoziale (art. 1766 e ss. c.c.)[xiii], specialmente sul versante dei corrispettivi, ciò che avviene comunemente in materia di servizi pubblici. Giova peraltro rammentare che, come riconosce il giudice della nomofilachia, in C. cost. 92/2013 si parla di rapporto iure privatorum, derivante da un accordo contrattuale. È pur vero che i contratti della p.a. vanno formati per iscritto a pena di nullità (art. 1350 c.c. e artt. 16 e 17 r.d. 2440/23) e, nella fattispecie, manca un testo negoziale. Pertanto, si potrebbe pensare di inquadrare la situazione in un rapporto obbligatorio ex lege oppure in un contratto di fatto, che ripete la disciplina codicistica per il solo profilo della relazione bilaterale[xiv].
Pure su questo aspetto, dunque, al di là di queste ultime criticità, nella sostanza, il dictum della Cassazione pare assecondabile. Lo è meno quando applica lo stesso ragionamento in riferimento all’alienazione straordinaria di cui al d.l. del 2003.
In questa evenienza, a nostro avviso, il rapporto tra amministrazione e depositeria è unitario e integralmente attratto alla sfera del diritto pubblico, connotato, da un lato, da un potere autoritativo conferito dalla legge al fine di contrarre l’esposizione debitoria maturata negli anni (a mezzo dell’alienazione-compensazione), e, dall’altro, da un interesse legittimo della depositeria al corretto impiego del medesimo.
Qui, infatti, non si tratta più dell’espletamento di un servizio di interesse generale a cui fa da contraltare un diritto soggettivo di credito, ma di un’alienazione coattiva ope legis di certi beni a favore della depositeria che ne aveva assunto la custodia. L’autorizzazione di cui al dpr 571 cit. rimane sullo sfondo, come presupposto di fatto valido per individuare, in primo luogo, i soggetti destinatari dell’alienazione e, in secondo luogo, i veicoli da cedere; non assume invece alcun ruolo nel colorare la relazione alienante-alienatario.
Il provvedimento di liquidazione ex art. 38 è pedissequo adempimento della legge e possiede tutti i caratteri propri del provvedimento amministrativo idoneo a modificare situazioni giuridiche altrui, senza necessità di alcun consenso del destinatario.
Che i due contesti siano ben distinti, lo ammette espressamente il collegio giudicante, nel momento in cui qualifica come “innovazione”[xv] del rapporto l’intervento del legislatore del 2003: appunto, sostituzione legale della preesistente relazione quasi negoziale, con una nuova di matrice autoritativa. L’elemento discriminante tra le due sta in questo, che mentre nella prima il soggetto privato esprime la sua volontà di inserirsi nel circuito delle depositerie amministrative, formalizzando un’istanza che spetterà alla prefettura vagliare discrezionalmente; nella seconda, invece, questo non avviene: la depositeria - già autorizzata - non può evitare l’alienazione e i connessi pagamenti, se non avversando l’atto d’imperio davanti al giudice amministrativo, ciò che ha rappresentato peraltro l’elemento cruciale della pronuncia di incostituzionalità dell’art. 38.
A quest’ultimo proposito, inoltre, non è affatto corretto ritenere, come fa l’ordinanza, che l’intervento della Consulta sia ricaduto “solo sulle disposizioni che trattavano del corrispettivo dell’alienazione al custode-acquirente”[xvi], dal momento che il dictum del giudice delle leggi, colpendo il comma 2 dell’art. 38, ha riguardato primariamente il meccanismo sostanziale di (imprevedibile e irragionevole) cessione coattiva e, solo in seconda battuta, il profilo del compenso.
Nemmeno pare convincente la scissione proposta dal giudice di legittimità tra la fase sull’an - pubblicistica - e quella sul quantum - privatistica. Questo distinguo è coerente se si guarda all’ordinaria relazione radicata sul dpr del 1982. Non lo è rispetto all’alienazione separata, dove il pagamento (di norma in compensazione col prezzo della cessione) è un tutt’uno, sia dal punto di vista formale che sostanziale, con l’alienazione. Elementi utili in tal senso si evincono dalla vicenda sottesa la sent. n. 8182 del 2023 del Consiglio di Stato, espressamente accantonata dalla Cassazione, sulla base dell’errore processuale di fondo della mancata eccezione di difetto di giurisdizione. Il Consiglio di Stato, in quel contenzioso originato dall’impugnativa del provvedimento prefettizio ex art. 38, ha negato la distinzione tra una potestà valutativa sull’an debeatur ed una sul quantum.
Il giudice amministrativo ha interpretato la normativa in materia come fonte di un unitario potere, da riversare in un solo atto provvedimentale, non scorporabile. Infatti, in quella sede, dichiarata annullata la statuizione della pubblica amministrazione, quest’ultima doveva riaprire l’intero procedimento valutativo.
Ora, secondo la teoria generale del diritto, il potere giuridico è da annoverare tra le posizioni soggettive[xvii]vantaggiose e dinamiche. Esso consiste nella capacità, riconosciuta necessariamente dalla legge[xviii] in capo ad un soggetto, di incidere unilateralmente sulla realtà normativa con un atto consapevole, creando, modificando o estinguendo situazioni giuridiche. Chi ne è titolare viene a trovarsi in una posizione di preminenza e può liberamente decidere di concretizzare il potere in certi comportamenti, i quali, una volta attuati, muteranno la situazione preesistente[xix]. Il bene sotteso al potere è proprio la modificazione della realtà giuridica.
Il potere trova il suo terreno d’elezione in un contrasto giuridico tra interessi. L’ordinamento conferisce primazia ad uno di essi non risolvendo direttamente il conflitto (come avviene per i diritti soggettivi) ma consentendo, tramite norme strumentali, ad un soggetto - il titolare del potere, appunto - di emanare un comando volto a comporre il dissidio.
I suoi caratteri tipici sono i seguenti: imprescrittibilità, non venendo meno col tempo (ma la legge potrebbe fissare un termine di decadenza); inalienabilità, non essendo deducibile in atti dispositivi; non tutelabilità giuridica, non essendo passibile di per sé di azioni giudiziali (persino di accertamento mero: art. 24 Cost.), potendo prescriversi, alienarsi o tutelarsi solo il diritto relativo ai singoli beni, giammai il potere come tale; e, quel che qui più rileva, unitarietà, dato lo scopo cui esso è servente[xx].
Si faccia infatti attenzione: la posizione di potestà è unica, pur essendo molteplici le forme concrete in cui si può inveterare. Semmai è la discrezionalità che, in base al disposto legislativo, può riguardare diverse sfaccettature dell’esercizio concreto del potere (an, quid, quando, quomodo), ma quest’ultimo rimarrà sempre un qualcosa di unitario.
Pertanto, laddove il Consiglio di Stato ha ripudiato la scissione tra un potere sul se ed un altro sul quanto, ha affermato cosa condivisibile e applicabile al presente caso, perché il potere costruito dalla legge è un tutt’uno ed è destinato ad un fine unico (nel caso di specie, il pagamento delle somme).
3.2. Segue: i rapporti esauriti e i limiti all’efficacia temporale delle pronunce di incostituzionalità
Il secondo perno della decisione in commento si appunta, come accennato, sul tema dell’efficacia temporale delle sentenze dichiarative di illegittimità costituzionale. La questione costituisce, sin dalla nascita della Corte costituzionale, un terreno di costante riflessione dottrinale[xxi] e di persistente problematicità ermeneutica anche nella più recente esperienza giurisprudenziale[xxii].
Un rapido excursus del quadro normativo permette di cogliere appieno la complessità sistemica del tema. L’art. 136 Cost. prevede che, a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma di legge o di un atto avente forza di legge, la disposizione colpita dalla pronuncia perda efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione.
Una formulazione apparentemente chiara, ma che si è subito rivelata foriera di ambiguità interpretative: intesa in senso strettamente ex nunc, essa avrebbe impedito al giudice a quo di applicare la pronuncia della Corte ai rapporti ancora pendenti, determinando una frattura tra il sindacato costituzionale e la tutela effettiva delle situazioni soggettive. Ne sarebbe derivata, altresì, una grave disfunzione del sistema, disincentivando le parti a promuovere l’incidente di costituzionalità, poiché la norma dichiarata illegittima avrebbe continuato a produrre effetti sino alla formale caducazione.
Da qui la necessità di un ripensamento sistematico sulla portata temporale delle decisioni di accoglimento. Tale esigenza trovò risposta nell’interpretazione evolutiva dell’art. 136 Cost., operata per il tramite dell’art. 30 c. 3 l. n. 87/1953, il quale stabilisce che le norme dichiarate incostituzionali “non possono avere applicazione” dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. Con tale precisazione, il legislatore ha consentito una lettura sostanzialmente ex tunc dell’efficacia della pronuncia ablativa, restituendo coerenza sistemica al sindacato di costituzionalità, concepito non come fonte di innovazione normativa ma quale strumento di rimozione di norme invalide sin dall’origine.
Il rapporto tra l’art. 30 c. 3 della legge del 1953 e l’art. 136 della Costituzione è stato oggetto, fin dagli albori, di numerosi arresti della Corte costituzionale[xxiii], che hanno affrontato in profondità la più ampia questione dell’efficacia temporale delle pronunce di illegittimità costituzionale, riconducendo sin dall’origine la declaratoria di accoglimento al modello concettuale della decisione di annullamento. Al contempo, il giudice delle leggi ha più volte sottolineato la distinzione strutturale tra l’abrogazione e la dichiarazione di incostituzionalità: mentre la prima - evento ordinamentale fisiologico - determina la cessazione della vigenza della norma solo a partire dall’entrata in vigore della norma abrogante; la seconda - vicenda ordinamentale patologica - incide direttamente sull’esistenza giuridica della norma sin dall’origine, determinandone la cessazione di efficacia ex tunc, ma con effetti giuridici che decorrono dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza. Da tale premessa la giurisprudenza costituzionale ha desunto la possibilità che la pronuncia incida anche su rapporti giuridici sorti anteriormente, salvo i limiti rappresentati dal giudicato, dalle eccezioni previste dalla legge e dalle situazioni giuridiche ormai consolidate e divenute intangibili.
A partire dagli anni Sessanta, infatti, sia la giurisprudenza costituzionale[xxiv] che quella di merito[xxv] hanno progressivamente elaborato il concetto di rapporto esaurito, individuandolo quale imprescindibile limite alla retroattività delle pronunce di accoglimento. Con tale espressione si fa riferimento a quelle situazioni giuridiche, sorte sotto la vigenza della norma dichiarata incostituzionale, che si sono consolidate per effetto di eventi ai quali l’ordinamento riconosce efficacia definitiva. Rientrano in questa categoria, a titolo esemplificativo, le decisioni giudiziarie passate in giudicato, i provvedimenti amministrativi non più impugnabili, il completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, nonché il decorso dei termini di prescrizione o decadenza, che impediscono l’esercizio di qualsiasi azione o rimedio. La ratio di tale impostazione risiede nell’esigenza di salvaguardare la stabilità e la certezza del diritto, evitando che la declaratoria di illegittimità costituzionale possa incidere retroattivamente su situazioni ormai cristallizzate e sottratte a ogni ulteriore contestazione. Tale principio opera in modo generale e trasversale: nessuna decisione di accoglimento della Consulta può incidere su situazioni ormai definite e concluse prima della pubblicazione della pronuncia stessa.
Sul piano sistematico, pertanto, la dichiarazione di illegittimità costituzionale produce effetti retroattivi, ma in modo temperato e circoscritto, senza compromettere gli assetti giuridici divenuti irrevocabili. In tal modo si realizza in concreto il limite dei rapporti esauriti, quale strumento di bilanciamento tra l’esigenza di rimuovere dall’ordinamento le norme contrarie alla Costituzione e la necessità di preservare la stabilità e la certezza dei rapporti giuridici consolidati.
Per completezza, va rilevato come, nel tempo, la dottrina[xxvi] abbia iniziato a manifestare crescente perplessità verso una rigida applicazione del principio di retroattività delle sentenze di accoglimento, prospettando l’esigenza di una graduazione degli effetti temporali in funzione di un più attento bilanciamento tra i valori costituzionali coinvolti. In tale ottica, si è sostenuto che la retroattività non debba essere intesa come regola assoluta e inderogabile, ma piuttosto come principio suscettibile di modulazioni finalizzate a garantire la massima tutela dell’ordinamento costituzionale violato, senza ledere in modo irreparabile altri principi di pari rango. Il dibattito si è intensificato con le pronunce nn. 10 e 70 del 2015 della Corte costituzionale. Con la prima[xxvii], la Corte ha riconosciuto espressamente la possibilità di limitare gli effetti retroattivi della propria decisione, in quanto necessaria per evitare la compromissione irreparabile di diritti o valori costituzionali concorrenti. Di segno opposto la sentenza n. 70[xxviii], con la quale la declaratoria di illegittimità è stata pronunciata senza modulazioni, con effetti integralmente retroattivi ex tunc.
In tale contesto teorico e giurisprudenziale si colloca l’ordinanza qui in commento, che rappresenta un’importante occasione di verifica concreta del perimetro applicativo del principio di retroattività delle decisioni di illegittimità costituzionale, nonché del valore sistemico attribuito alla categoria dei rapporti esauriti. La Suprema Corte, pur consapevole della natura eccezionale della disciplina dettata dall’art. 38 del d.l. n. 269/2003, ritiene che la declaratoria di incostituzionalità contenuta nella sentenza n. 92/2013 della Corte costituzionale abbia riaperto la possibilità per il depositario di agire in giudizio al fine di ottenere la differenza tra quanto percepito sulla base del regime forfettario e quanto sarebbe spettato in base alle tariffe ordinarie. Tale ricostruzione si fonda sulla qualificazione del credito vantato dal custode come diritto soggettivo perfetto e, in quanto tale, non intaccato dal decorso del tempo né dalla mancata impugnazione del provvedimento amministrativo di liquidazione. Tuttavia, un simile approccio solleva non pochi interrogativi, specie se confrontato con l’elaborazione giurisprudenziale consolidata in tema di rapporti esauriti, così come esaminata nell’ambito di questo paragrafo. La Corte costituzionale ha infatti ripetutamente chiarito che l’effetto retroattivo della pronuncia di illegittimità costituzionale, pur avendo natura generale, incontra precisi limiti di ordine sistemico e assiologico, fra i quali assume rilievo primario la salvaguardia delle situazioni giuridiche divenute intangibili o comunque della stabilizzazione degli effetti giuridici prodotti. Nel caso di specie, la vicenda si caratterizzava per la presenza di un decreto prefettizio che aveva formalmente liquidato il compenso e la cui esecuzione, mediante integrale pagamento, risultava già avvenuta da parte dell’amministrazione, in un momento anteriore rispetto alla pubblicazione della sentenza n. 92/2013. Tali circostanze, alla luce dei principi elaborati dalla Corte costituzionale, sembrerebbero integrare una tipica ipotesi di rapporto esaurito, insuscettibile di essere riaperto a seguito della pronuncia di incostituzionalità, proprio in virtù dell’esigenza di garantire certezza e stabilità all’ordinamento. L’ordinanza in analisi, pur animata dall’intento di assicurare un pieno ristoro a favore della depositeria sembra così ridimensionare la funzione garantistica del principio dei rapporti esauriti, finendo per attribuire alla pronuncia costituzionale un’efficacia espansiva tale da incidere su situazioni giuridiche ormai definite e, fino ad allora, non più contestate. In questa prospettiva, l’arresto della Cassazione sollecita una riflessione più ampia sul ruolo della Corte costituzionale come custode della legalità sostanziale e sul margine di discrezionalità interpretativa spettante ai giudici comuni nell’individuare il punto di equilibrio tra effettività del sindacato costituzionale e garanzia della certezza del diritto. Si conferma quanto ancora aperta e complessa sia la questione dell’efficacia temporale delle sentenze ablative e, in particolare, del difficile bilanciamento tra il principio di retroattività e la stabilità dei rapporti giuridici che il concetto di esaurimento intende tutelare. Essa richiama, in ultima analisi, la necessità di un uso ponderato e coerente di questo principio, onde evitare che il ripristino della legalità costituzionale si traduca paradossalmente in una lesione dell’affidamento legittimo e dell’ordine giuridico già stabilizzato.
4. Conclusioni: le peculiarità del rapporto depositeria-amministrazione
A questo punto possiamo sintetizzare la motivazione della decisione qui in oggetto, al fine di chiarire l’iter logico-argomentativo seguito dalla Corte di cassazione e proporre alcune conclusioni.
L’ordinanza ribadisce diffusamente la qualificazione del credito vantato dal custode come diritto soggettivo perfetto, richiamandosi espressamente alla sentenza della Corte costituzionale n. 92/2013. Tale impostazione, per quanto condivisibile sotto il profilo della tutela della posizione delle depositerie, le cui prerogative erano state significativamente alterate dall’introduzione della disciplina eccezionale di cui al d.l. n. 269/2003, suscita tuttavia alcune riserve nella sua automatica estensione alla distinta pretesa creditoria relativa alla “corretta determinazione del compenso” - per riprendere le parole della stessa Corte di cassazione[xxix]. Come già rimarcato, il provvedimento prefettizio di alienazione straordinaria, adottato ai sensi dell’art. 38 del d.l. n. 269/2003, presenta i tratti tipici dell’atto amministrativo autoritativo. In questa ottica, quindi, la posizione della depositeria si configura quale interesse legittimo volto a pretendere il corretto esercizio del potere discrezionale attribuito all’amministrazione. Indissolubilmente collegata a tale fase è, però, anche quella della liquidazione delle spese di custodia. La separazione operata dall’ordinanza tra la fase di alienazione (ritenuta eventualmente esaurita per mancata impugnazione) e quella della determinazione del compenso appare difficilmente sostenibile: la disciplina speciale dell’art. 38 configura infatti un procedimento unitario, caratterizzato da un nesso funzionale inscindibile tra l’esercizio del potere amministrativo volto alla cessione coattiva dei veicoli e la contestuale definizione dell’importo spettante al custode, come peraltro sostenuto dalla giurisprudenza amministrativa più avveduta[xxx].
Ancor più rilevante è il principio, ribadito dal Consiglio di Stato, secondo cui non è ammissibile scindere artificialmente il procedimento di individuazione dei veicoli oggetto di alienazione da quello concernente la determinazione del corrispettivo spettante al custode: entrambi i profili devono essere esaminati congiuntamente e decisi contestualmente, in quanto il potere pubblico è uno solo. Ne consegue che, laddove risulti perfezionato il procedimento di alienazione e sia stato adottato il decreto prefettizio contenente anche la determinazione del compenso dovuto, il rapporto giuridico deve ritenersi integralmente esaurito. Tanto più in presenza di un pagamento effettuato dall’amministrazione in esecuzione del decreto stesso, elemento che assume rilevanza dirimente ai fini della qualificazione del rapporto come definitivamente estinto.
Da ultimo, si rende opportuna una considerazione in merito alle tempistiche. Alla luce delle argomentazioni fin qui esposte, il procedimento previsto dall’art. 38 del d.l. 269/2003 fa sorgere il diritto di credito del depositario esclusivamente al momento della conclusione dell’intero procedimento, con l’una fase che presuppone necessariamente l’esaurimento dell’altra.
Ad avviso di chi scrive, si tratta dell’unico diritto di credito (diritto soggettivo perfetto) suscettibile di prescrizione in assenza di impugnazione del decreto prefettizio di liquidazione.
Nel caso in esame, considerato che l’atto non è stato oggetto di impugnazione e che il compenso liquidato è stato integralmente corrisposto prima della pubblicazione della sentenza del giudice delle leggi, seppur secondo i criteri forfettari allora vigenti, il rapporto tra la depositeria e l’amministrazione deve ritenersi definitivamente estinto, senza ulteriori obblighi o pretese reciproche.
Argomentare, come fa il giudice di legittimità, che la titolarità di un diritto soggettivo perfetto consenta alla depositeria di esigere la differenza tra quanto percepito in via forfettaria e quanto sarebbe spettato secondo la disciplina ordinaria, rappresenta una posizione senz’altro autorevole, ma che merita di essere attentamente valutata alla luce del principio di certezza del diritto. Quest’ultimo, come chiarito dalla Corte costituzionale nell’interpretazione sistematica dell’art. 136 Cost. e dell’art. 30 della legge n. 87/1953[xxxi], impone di considerare preclusa l’incidenza retroattiva delle pronunce di illegittimità costituzionale sui rapporti ormai esauriti. In tale prospettiva, la posizione adottata dalla Suprema Corte rischia di attenuare il valore garantistico di tale limite, il cui presidio è essenziale per assicurare la stabilità e l’affidamento nei rapporti giuridici consolidati.
[i] Ferma la progettazione comune, i paragrafi 1, 2 e 3.1 sono opera di Ludovico Di Benedetto, i 3.2 e 4 di Fabio Conti.
[ii] Su cui si rinvia subito infra, al paragrafo successivo.
[iii] Il decreto è stato varato quando era ancora vigente la precedente regolamentazione organica di cui al dpr 393/1959 (recante il testo unico delle norme sulla circolazione stradale), che tuttavia non prefigurava sanzioni reali; il referente normativo del potere cautelare amministrativo andava infatti rinvenuto all’esterno di questa cornice e, precisamente, nei commi 2 e 3 dell’art. 13 l. 689/1981.
[iv] Le disposizioni codicistiche di nostro interesse si rinvengono negli artt. 213 e 214 bis. Ogniqualvolta sia prescritta la sanzione della confisca del veicolo, l’organo accertatore ne dispone il sequestro a fini cautelari. Le successive norme si appuntano sulle modalità gestorie del mezzo, onde garantirne un’adeguata conservazione, preferibilmente, non onerosa per la p.a., incentrandosi sull’obbligo di custodia in capo al medesimo trasgressore oppure, se non possibile, al custode-acquirente, selezionato all’esito di una gara pubblica.
[v] Qualora l’avente diritto non ritiri la cosa entro sei mesi da quando l’atto che ne dispone la restituzione è divenuto inoppugnabile, l’amministrazione ne ordina la vendita e accantona le somme così ricavate (art. 16). Questa norma, tuttavia, dovrebbe oggi ritenersi abrogata, dal momento che per i veicoli abbandonati esiste una disciplina speciale di cui al dpr 189/2001, che vede coinvolto in prima battuta il demanio.
[vi] Ovviamente il denaro ottenuto dalla vendita va devoluto all’erario. Se il bene sequestrato è di interesse storico o artistico può essere acquisito al patrimonio indisponibile dello Stato (art. 15 c. 3); ai commi successivi viene dettagliata la sorte di altre tipologie di beni che qui possiamo tralasciare. In base al successivo art. 17, le procedure di alienazione seguono la disciplina della contabilità di Stato (cfr. r.d. 2440/1923).
Nel complesso, pertanto, le differenze rispetto al meccanismo delineato dal codice della strada sono lampanti: alla gara competitiva, si sostituisce una valutazione imperativa e discrezionale del prefetto nel selezionare i depositi; all’accordo negoziale, la fissazione unilaterale amministrativa delle tariffe; all’unicità dell’aggiudicatario, la pluralità delle depositerie. Comunque, resta inteso che, in ogni caso in cui non si raggiunga, nel contesto provinciale, la sottoscrizione del contratto ex art. 214 bis cds, o questo per qualsiasi causa risulti inefficace, la disciplina a cui fare riferimento resta quella del dpr ricordato.
[vii] Convertito con modifiche nella l. 326/2003.
[viii] Compresi quelli fermati e confiscati. La sequenza ivi delineata prevale pure sulle procedure speciali di alienazione eccezionalmente attivate dalle singole prefetture e si applica al loro posto (comma 10).
[ix] Assieme a quelli non alienati per la mancanza di acquirenti.
[x] Rispetto al 30 settembre 2003.
[xi] Cfr. Amoroso G., Parodi G., Il giudizio costituzionale, Milano, 2020, 455 e ss. e Celotto A., Modugno F., La giustizia costituzionale, in Modugno F. (a cura di), Diritto pubblico, Torino, 2016, 754 e ss.
[xii] Il legislatore, al fine di evitare un aggravio della finanza pubblica, si è nuovamente attivato, sfruttando lo stesso istituto dell’alienazione straordinaria, ma, memore del dictum della Consulta, vi ha apportato alcuni correttivi (cfr. l. 147/2013, art. 1 commi 444 e seguenti). Il nuovo procedimento ha un ambito di applicazione quasi equipollente a quello del 2003 (veicoli sequestrati, fermati, confiscati o non alienati per mancanza di acquirenti giacenti in deposito da almeno 2 anni, stavolta anche se di interesse storico-collezionistico), mentre è del tutto identico il meccanismo giuridico (alienazione massiva al custode).
Gli aspetti innovativi sono rappresentati dal coinvolgimento del proprietario (comma 445) e dal ruolo del custode (comma 446). Infatti, sotto il primo versante, redatto e pubblicato ad opera della prefettura l’elenco dei mezzi nelle condizioni descritte, il titolare del bene ha l’onere di ritirarlo entro 60 giorni dalla pubblicazione del menzionato elenco, pagando contestualmente il compenso al custode.
In riferimento al secondo profilo, decorso inutilmente il termine per il ritiro, la prefettura invia una proposta contrattuale di alienazione cumulativa al custode con valenza transattiva (gli artt. 1965 e ss. c.c. sono espressamente richiamati), che può essere accettata o meno, salvaguardando dunque la posizione della controparte; con essa, viene fissato il corrispettivo della cessione, considerando il tipo e le condizioni del veicolo e gli oneri di rottamazione, al netto di quanto dovuto al privato per il servizio di custodia (comma 447).
[xiii] Da ciò scaturiscono conseguenze giuridiche di sicuro rilievo. Sul versante del diritto pubblico, per esempio, la relazione p.a.-custode potrebbe essere formalizzata in un accordo sostitutivo ex art. 11 l. 241/90. Sul fronte civilistico, troveranno applicazione le regole codicistiche sul rapporto contrattuale (in primis, le norme sulla responsabilità - artt. 1218 e ss. c.c.). Per approfondimenti, sia concesso rimandare a Natoli U., I contratti reali, Milano, 1975, passim, e a Majello U., Custodia e deposito, Napoli,1958, passim.
[xiv] Bianca C. M., Diritto civile. I contratti, Milano, 2019, 29 e ss.; Irti N., Scambi senza accordo, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, II, 1998, 347 e ss.; Angelici C., voce Rapporti contrattuali di fatto, in Enciclopedia giuridica Treccani, XXV, Roma, 1991, 8 e ss.
[xv] Punto 4 dell’ordinanza.
[xvi] Punto 8.1. Tralasciamo l’ambiguo riferimento al custode-acquirente, figura, come indicato in nota, avulsa dal contesto di cui discorriamo.
[xvii] L’idea del potere come situazione giuridica è prevalente: Cerri A., voce Potere e potestà, in Enciclopedia giuridica, XVI, Roma, 1998, 1 e Romano A., Giurisdizione amministrativa e limiti della giurisdizione ordinaria, Milano, 1975, 118. Altri però lo ritengono concetto avulso da quella categoria, definendolo ora come forza giuridica ordinamentale - Miele G., Potere, diritto soggettivo e interesse, in Rivista di diritto commerciale, I, 1944, 116 - ora come fattispecie normativa dinamica - Guarino G., Potere giuridico e diritto soggettivo, Napoli, 1990, 249.
Si è consapevoli del dibattito circa la distinzione tra posizioni e situazioni soggettive (si vedano per esempio Scoca F. G., L’interesse legittimo. Storia e teoria, Torino, 2017, 448 e Giannini M. S., Diritto amministrativo, Milano, 1970, 65), ma qui, per evitare di appesantire la trattazione, si preferisce superare il tema ed usare le due espressioni come sinonimi.
[xviii] La stretta tipicità dei poteri è riconosciuta da tempo dalla dottrina. Per tutti, Santi Romano, Poteri. Potestà, in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1983, 198: “i poteri non esistono se non per disposizione del diritto oggettivo”. Tale carattere trova fondamento sul piano sostanziale, nel principio generale di eccezionalità dell’autotutela privata, desumibile dai vari esempi disseminati nel codice civile e nelle fattispecie penali della “ragion fattasi” con violenza sulle persone o sulle cose (artt. 392 e 393 c.p., inseriti al Libro II nel Titolo III sui reati contro l’amministrazione della giustizia); sul piano processuale, nell’art. 2908 c.c., che fissa la tipicità delle azioni costitutive.
[xix] Modugno F., Diritto pubblico, Torino, 2017, 614.
[xx] Su quest’ultimo punto si traggono preziosi elementi da Romano S., Poteri. Potestà, op. cit., 190.
[xxi] Calamandrei P., L’illegittimità costituzionale delle leggi nel processo civile, Padova, 1950, passim; Esposito C., Il controllo giurisdizionale sulla costituzionalità delle leggi in Italia, in Esposito C., La Costituzione italiana, Padova, 1954, passim; Ruotolo M., La dimensione temporale dell’invalidità della legge, Padova, 2000, passim.
[xxii] C. cost. nn. 10/2015, 70/2015, 178/2015 e 1/2014.
[xxiii] Ex multis, C. cost. nn. 127/1966, 58/1967 e 49/1970.
[xxiv] Cfr. decisioni della nota precedente.
[xxv] Cass. 22.6.1963, in Giurisprudenza Italiana, I, 1963, 1386; Cass. n. 2577/1971, in Foro italiano, I, 1971, 2148.
[xxvi] Modugno F., Considerazioni sul tema, in AA.VV., Effetti temporali delle sentenze della Corte costituzionale anche con riferimento alle esperienze straniere, Milano, 1989, 23; Luciani M., Il dissolvimento della retroattività. Una questione fondamentale del diritto intertemporale nella prospettiva delle vicende delle leggi di incentivazione economica, in Giurisprudenza italiana, IV, 2007, 1832.
[xxvii] Pronunciata in materia tributaria, la sentenza esclude la retroattività dell’incostituzionalità per la grave menomazione dell’equilibrio di bilancio che ne sarebbe discesa (art. 81 Cost.).
[xxviii] In tema di rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici.
[xxix] Punto 10 dell’ordinanza.
[xxx] Cons. St., Sez. III, n. 8182/2023, già citata nel corpo, e n. 6257/2022.
[xxxi] Corte Cost. n. 49/1970, 26/1969, n. 58/1967, n. 127/1966. Queste sono sentenze molto eterogenee per materia, ma in tutte la Corte sottolinea l’esigenza che vi sia una salvaguardia del principio della certezza del diritto.
Sommario: 1. Gli affari con Israele e la tesi del Lawfare. 2. Alcune recenti iniziative sui rapporti di affari con Israele per le insidie del Lawfare “inverso”. 3. Illecito permanente e nullità dei rapporti di affari.
1. Gli affari con Israele e la tesi del Lawfare
È possibile fare affari con uno Stato che viola sistematicamente il diritto internazionale (generale, pattizio e umanitario) ed è addirittura sotto accertamento giudiziale per crimini di guerra, contro l’umanità e persino per genocidio?
Stando alla storia delle sanzioni internazionali e nazionali, si dovrebbe senza indugio rispondere di no (del resto, basti pensare alla vicenda degli embarghi verso il Sud Africa dell’apartheid)[1].
Ci si riferisce, però, a Israele, verso il quale queste sanzioni non sembra che siano utilizzate.
Tutto parte dal Parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia del luglio 2024 (case 186), dove, per la prima volta, sono delineati gli obblighi degli Stati terzi, aderenti all’ONU, nell’agire per non aiutare un altro Stato, per l’appunto Israele, autore di illeciti internazionali. Secondo il ragionamento della Corte (paragrafi 273-283), tali obblighi sarebbero sostanziali, quindi non eludibili per “buona fede” nelle relazioni internazionali, e comunque vincolanti nel porre fine a violazioni di norme di ius cogens. Ne deriverebbe il dovere di sospensione o interruzione di qualsiasi affare con quello Stato.
Questo inedito enunciato è stato letto in due modi totalmente contrapposti.
Da un lato, esso è considerato coerente con il diritto internazionale generale e con la stessa tradizione giuridica del secondo Dopoguerra, risultando comprovato, per di più, da innumerevoli accertamenti delle condotte israeliane nel negare ai palestinesi il diritto all’autodeterminazione, legittimando forme di apartheid, occupando e colonizzando territori estranei alla sua sovranità, violando le regole umanitarie negli attacchi militari e nell’occupazione territoriale, per di più non da oggi ma dal 1967, dunque nella modalità dell’ “illecito continuato e permanente”[2].
Dall’altro, secondo i difensori di Israele, a partire dagli USA, il parere sarebbe privo di efficacia non solo perché non vincolante, ma soprattutto perché arbitrario, in quanto manifestazione di Lawfare[3]. Detto altrimenti, le denunce a carico dello Stato ebraico certificherebbero un “uso strumentale del diritto come arma” (appunto Lawfare), nelle modalità originariamente teorizzate e – tuttora – praticate paradossalmente dagli USA, e successivamente fatte proprie dalla Cina con la formula equivalente “falu zahn”[4], ovvero come guerra asimmetrica (nelle aule di giustizia o nei consessi internazionali), per colpire “legalmente” – senza ricorrere alla violenza e alla forza militare – paesi le cui decisioni, ancorché democraticamente assunte, contrasterebbero con interessi dominanti a livello mondiale. Contro Israele, il Lawfare sarebbe mosso dall’interesse a negarne il “diritto di esistere”, negazione comprovata dalla provenienza delle più recenti iniziative, attivate da nemici “storici” dell’ebraismo (rectius, del sionismo), come il Sud Africa, il Nicaragua e soprattutto l’Iran, quest’ultimo notoriamente favorevole ad Hamas, Hezbollah e Houthi[5]. Al contrario, proprio a causa della manifesta strumentalizzazione Lawfare, la condotta israeliana, in particolare dopo gli attacchi terroristici dell’ottobre 2023, rappresenterebbe una “legittima difesa” consapevolmente sproporzionata e non conforme al diritto “degli altri”, ma resa necessaria dalla “sopravvivenza” dello Stato nell’accerchiamento mediorientale dei suoi nemici. In proposito, un giornalista italiano, convinto assertore della tesi, ha evocato una storica formula di Golda Meir, che sinterizzerebbe l’assunto: «vi perdoneremo perché ci avete uccisi, ma non vi perdoneremo perché ci avete costretti a uccidere i vostri figli»[6]. La “necessità” – ancorché sproporzionata – prevarrebbe sulla “legalità”.
Ora, certamente il Lawfare nasce come strumentalizzazione del diritto, in primis internazionale, da parte di uno o più Stati, contro le decisioni democraticamente assunte da un altro Stato. E, in effetti, Israele è uno Stato, le cui decisioni sono votate democraticamente. Da ultimo, per esempio, l’annessione della Cisgiordania è stata democraticamente deliberata a larghissima maggioranza dalla Knesset, il parlamento israeliano.
Alcuni ineludibili dettagli, però, sfuggono alla tesi del Lawfare a danno di Israele.
Sono tre.
In primo luogo, lo Stato “vittima” del Lawfare deve essere caratterizzato, oltre che dal decidere democraticamente, anche da quello di rispettare il diritto e le relazioni internazionali con tutti gli altri Stati, inclusi i suoi “nemici” (si pensi al Brasile della Presidente eletta Dilma Rousseff e ai suoi rapporti con gli USA nella promozione, del tutto legale, dei BRICS, ostacolata poi dalle vicende giudiziarie che hanno colpito la sua maggioranza, rivelatesi in gran parte infondate, costruite ad arte e sollecitate da interessi, soprattutto statunitensi, contrapposti ai BRICS[7]).
Rispetto a tale requisito, Israele è uno Stato democratico “a metà”, non solo per la sua matrice religiosa, che comunque permea di sé il diritto e le sue figurazioni giuridiche alimentando inevitabilmente asimmetrie fra ebrei e musulmani[8], ma soprattutto perché esso esplicitamente rifiuta l’apertura al diritto internazionale, in primis umanitario e di pace, quale parametro integrativo della legittimità delle proprie azioni, riconoscendosi, così, in un costituzionalismo denominato “di esclusione” (per il dato di escludere, dallo spettro della legittimità e della tutela dei diritti umani, i parametri internazionali umanitari e di pace verso altri soggetti diversi dagli ebrei)[9].
In secondo luogo, il Lawfare si attiva in contesti di pace e non invece di conflitto (dove entrano in gioco lo ius in bello e lo ius ad bellum), ancor meno se risalente e cronico come quello israelo-palestinese, segnato da complessità giuridiche internazionali senza pari nel panorama mondiale[10].
In terzo luogo e infine, il Lawfare si fonda sulla violazione del principio di proporzionalità nelle proprie azioni a danno degli altri, non certo nel suo contrario, vale a dire nella rivendicazione del rispetto della proporzionalità a garanzia di tutti, come esattamente fanno, non da oggi, le Istituzioni ONU nei confronti di Israele. Di fatto, è Israele che viola il principio di proporzionalità, tra l’altro evocando costrutti paradossali come quello della legittima difesa necessariamente fondata sulla “legittima sproporzione” per annientare il nemico (categoria di matrice nazista, inventata – come noto - da Albert Speer[11]).
2. Alcune recenti iniziative sui rapporti di affari con Israele per le inside del Lawfare “inverso”
In definitiva, sul piano della semantica e della comparazione costituzionali, la tesi del Lawfare appare molto debole, se non inconsistente.
Questo spiega perché, dopo quella decisione del 2024 della Corte Internazionale di Giustizia, la doppia tesi della legittimità delle condotte israeliane in Palestina e a Gaza, e della natura Lawfare delle misure contro di esse, emerga sempre meno convincente sia in dottrina[12] che in giurisprudenza[13].
Particolarmente interessante, in merito, è il dibattito in Olanda e in Norvegia.
Nel febbraio 2024, la Corte d’Appello dell’Aja ha ordinato al Governo olandese di interrompere l’esportazione di componenti dell’aereo F-35 verso Israele, a seguito di un reclamo presentato da tre ONG. Questa decisione è stata impugnata dinanzi alla Corte Suprema olandese, che ha esaminato il caso il 6 settembre 2024 ed è ancora pendente. A seguito della sentenza dell’Alta Corte, tuttavia, le autorità olandesi hanno sospeso le esportazioni dirette a Israele[14]. I ricorrenti, però, hanno intentato, dopo il parere della Corte Internazionale, una nuova causa, sostenendo che il Governo olandese stesse in realtà eludendo la sentenza, attraverso una tipica “triangolazione” contrattuale, cioè inviando quelle componenti dell’F-35 negli Stati Uniti, a loro volta impegnati a destinarle comunque a Israele. Anche questo secondo caso risulta ancora pendente.
La vicenda è emblematica, nella misura in cui mette in luce un processo decisionale esattamente inverso alla tesi del Lawfare a danno di Israele: si elude, strumentalizzandolo, il diritto nazionale e internazionale, nella riscontrata modalità della “triangolazione” contrattuale, non contro Israele, bensì a suo favore e a discapito delle misure o sanzioni, indicate dalle autorità internazionali competenti.
Non a caso, un tal genere di logica da Lawfare “inverso” è stato denunciato da diversi esperti ONU perché espressivo del potenziale sovvertimento dell’ordine giuridico internazionale, esautorandolo nella sua funzione addirittura di ius cogens oltre che di parametro condiviso di “buona fede” nelle condotte statali[15].
La medesima preoccupazione di Lawfare “inverso” ha spinto il più grande e ricco Fondo sovrano del mondo, quello norvegese, a vendere le sue quote di Caterpillar, nota azienda statunitense di mezzi da costruzione, escludendola pure dai propri investimenti, per il fatto di fornire, sempre in “triangolazione” contrattuale, i suoi prodotti e servizi a Israele nella demolizione degli edifici di Gaza e della Cisgiordania[16].
Sulla medesima linea di preoccupazione, infine, si sono mossi i 209 diplomatici europei, che hanno scritto ai Leader UE affinché decidano finalmente di sospendere tutti i rapporti di affari con Israele, in forza dell’art. 2 dell’Accordo di associazione tra UE e Israele del 2000, dove si richiede il permanente rispetto dei diritti umani in tutti i contesti, condizione evidentemente non rispettata con gli illeciti permanenti accertati dall’ONU[17].
Nel dettaglio, la richiesta diplomatica invita a sospendere o revocare unilateralmente:
- le licenze di esportazione di armi verso Israele;
- il finanziamento di progetti cofinanziati a livello nazionale che coinvolgono entità israeliane;
- gli accordi di ricerca congiunta con istituzioni e organismi di ricerca israeliani;
- il commercio di beni e servizi con gli insediamenti illegali;
- i collegamenti societari con entità operanti negli insediamenti illegali;
- l’uso dello spazio aereo europeo per navi e aerei militari israeliani;
- i centri dati e le piattaforme, con sede in Europa, utilizzate da Israele[18].
3. Illecito permanente e nullità dei rapporti di affari
In effetti, è una circostanza molto rara, nel panorama del diritto internazionale, quella di uno Stato che opera in modalità di “illecito continuato e permanente”. Conviene spiegarlo sinteticamente. Nel diritto internazionale, tra i quattro crimini di genocidio, contro l’umanità, di guerra e di aggressione non sussiste né c.d. “gerarchia” né c.d. “esclusività”. Che cosa significa? Lo spiegano le Convenzioni in materia e le Corti internazionali che le hanno applicate[19]. Ma indirettamente lo ha spiegato anche la Corte costituzionale italiana nella famosa sentenza n. 238/2014, riferita alla Germania per i suoi crimini nazisti[20].
In breve, vuol dire tre cose.
- L’assenza di “gerarchia” implica che nessuno di questi crimini detiene una precostituita maggiore rilevanza o priorità punitiva rispetto agli altri, dato che tutti, anche se singolarmente considerati, identificano “i più gravi illeciti in assoluto” per la comunità internazionale, offendendo, tutti, la dignità del genere umano.
- L’assenza di “esclusività”, invece, comporta che ogni singolo atto dello Stato e ogni singola condotta dei suoi organi e agenti (inclusi i militari) può costituire elemento contemporaneamente identificativo di più di uno dei quattro crimini internazionali, senza che l’accertamento di un tipo (per es. il crimine di aggressione) implichi l’esclusione dell’altro (per es. il genocidio).
- Infine, questi due caratteri possono coesistere con la commissione di altri illeciti internazionali, dalla semplice violazione del diritto internazionale pattizio e generale all’occupazione illegale, alla violazione sistematica di specifici diritti umani.
Ecco allora che, se, nel tempo, le condotte di uno Stato maturano come “cumulo” di tutti questi illeciti internazionali, quello Stato finisce col versare in una situazione di “illecito continuato e permanente”.
Israele detiene siffatto non invidiabile primato.
Di qui, la puntualizzazione della domanda di apertura: è possibile intrattenere relazioni di profitto con l’autore di un “illecito continuato e permanente”?
Per Governo e imprese italiane, la risposta alla domanda è: sì, si possono, anzi si devono fare affari con Israele, perché, ha testualmente spiegato la Presidente del Consiglio dei Ministri, in questo modo si «mantiene il dialogo» per una soluzione dei problemi su Gaza[21].
Dunque, in nome del “dialogo”, risultano confermati e non invece sospesi, men che meno revocati, gli accordi di cooperazione internazionale, a contenuto commerciale e militare, fra Italia e Stato israeliano, a partire dal Memorandum d’intesa, ratificato con la l. n. 95/2005[22], per risalire all’Accordo di sicurezza, del 1987, mai ratificato con legge e tenuto segreto per oltre vent’anni[23], e giungere a quello di Pubblica sicurezza, ratificato con la l. n. 86/2017, tutti – tra l’altro – produttivi di oneri a carico della finanza pubblica, come testualmente si deduce dai loro contenuti.
Allo stesso modo, come spiegato sempre dal Governo in sede parlamentare[24], restano in vita i contratti privati di fornitura di prestazioni, militati e non, fra imprese italiane e israeliane, con la sola (inconcludente) misura di non promuoverne di nuovi.
Insomma: con uno Stato che versa in una condotta di “illecito continuato e permanente”, nulla cambia rispetto al passato.
E tutto questo con buona pace di una specifica disposizione di legge, l’art. 1, comma 6, della l. n. 185/1990, con cui si vieta «l’esportazione ed il transito di materiali di armamento ai Paesi in stato di conflitto armato, la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione, e verso i Paesi i cui governi sono responsabili di accertate violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti dell’uomo», dove, si badi bene, per “materiali d’armamento” si intende qualsiasi tipo di prestazione negoziale (di diritto pubblico o privato), utile appunto ad “armare” ossia a confezionare strumenti e modalità di offesa militare: quindi, anche attività come cessione di know-how, formazione tecnologica, scambio di buone pratiche, esercitazioni ecc… Insomma tutto.
Eppure quell’art. 1 evoca l’art. 11 della Costituzione, il quale, a sua volta, nel ripudiare la guerra, ripudia anche l’offesa alla libertà degli altri popoli, offesa in corso in Palestina e Gaza con l’ “illecito continuato e permanente” di Israele.
Ma niente: il “dialogo” con Israele si pone al di sopra della Costituzione. Il che, se può aver qualche margine di ammissibilità per uno Stato sovrano, diventa incomprensibile per le imprese private, il cui statuto giuridico non è certo quello di “dialogare” bensì di fare profitti.
Stando così le cose, però, tre domande si pongono all’attenzione.
La prima: perché lo stesso trattamento di “dialogo”, da parte di Governo e imprese italiane, non è stato offerto anche alla Russia, altro Stato agente in violazione deliberata del diritto internazionale? Su questo, nessuno ha fornito risposte, sicché l’enigma resta.
L’enigma, poi, si infittisce con la seconda domanda: nella vicenda dell’Ucraina, la fornitura di materiali d’armamento al Governo di Kiev ha funzionato allo stesso modo? Qui la risposta è no ed è paradossale, se non surreale, nel suo contenuto. In quella vicenda, difatti, Governo e imprese, per aiutare lo Stato aggredito, hanno richiesto un’apposita normativa in “deroga” alla citata l. n. 185/1990 (che impedisce affari commerciali in contesti di conflitto e violazione dell’art. 11 Cost.), procedendo, come noto, con il d.l. n. 14/2022, convertito in l. n. 28/2022, dove – tra l’altro – le prestazioni contrattuali sono state tassativamente identificate in quelle «non letali» e di «sola protezione». Ecco il surreale: per un verso, nei confronti di uno Stato aggredito e non incriminato di alcun “illecito continuativo e permanente” (come l’Ucraina), si provvede a fare affari, ma con apposita legge di deroga e nei limiti delle forniture “non letali”; per l’altro verso, nei riguardi di uno Stato aggressore incriminato addirittura di “illecito continuato e permanente” (come Israele), si continua a fare affari senza apposita legge di deroga e senza vincoli di “sola protezione” e di usi “non letali”, in nome del … dialogo con … l’aggressore.
La terza domanda diventa ineludibile: fare affari con uno Stato incriminato di “illeciti continuati e permanenti” è legittimo nell’ordinamento giuridico internazionale e in quello nazionale italiano?
Prima di rispondere a questa domanda, è necessaria una precisazione. Nella vicenda di Israele a Gaza, si sta consumando una sorta di “sostituzione” delle categorie giuridiche. Come accennato, Israele sostiene di esercitare un legittimo diritto di difesa nei confronti di Hamas, qualificato “gruppo terroristico” a seguito degli attacchi subiti il 7 ottobre 2023. Tel Aviv, in sintesi, dichiara di operare in un contesto non di “guerra fra Stati” né di “aggressione territoriale”, bensì di “guerra al terrorismo”, legittimante l’invasione militare di Gaza. Eppure la fattispecie della “guerra al terrorismo” non esiste nel diritto internazionale: è una “invenzione” degli USA, dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001.
Ciononostante, il costrutto lessicale ha coinvolto pure l’Unione europea e, in particolare la Francia.
La UE ha messo al bando Hamas come “gruppo terroristico”, con connesse sanzioni economiche nei suoi riguardi. A sua volta, il Presidente francese Macron, subito dopo il 7 ottobre 2023, ha fatto di più: ha equiparato il governo di Hamas, a Gaza, con lo Stato islamico dell’ISIS (Daesh), tra Iraq e Siria.
Israele, in continuità con la sua visione del Lawfare, si è appropriata di tali classificazioni “a-legali”, producendo un cortocircuito giuridico, i cui effetti devastanti riempiono la cronaca di questi ultimi mesi.
In primo luogo, gli inquadramenti euro-americani, come accennato, non sono in nulla conformi al diritto internazionale, alla luce di un importante risoluzione della Corte Internazionale di Giustizia del 2004 (case 131), in cui l’autorità giurisdizionale ONU aveva chiarito che, se uno Stato ha il diritto e il dovere di rispondere ad atti di violenza contro la sua popolazione civile (quali sono stati gli attacchi del 7 ottobre), le misure adottate «devono comunque rimanere conformi al diritto internazionale» (§ 141 della risoluzione), in particolare con l’art. 48 del Protocollo I della Convenzione di Ginevra del 1977, secondo cui «allo scopo di assicurare il rispetto e la protezione della popolazione civile e dei beni di carattere civile, le Parti in conflitto dovranno fare, in ogni momento, distinzione fra la popolazione civile e i combattenti, nonché fra i beni di carattere civile e gli obiettivi militari, e, di conseguenza, dirigere le operazioni soltanto contro obiettivi militari»: il che vuol dire non inventarsi “guerre” non previste dal diritto, come quella “al terrorismo”.
In secondo luogo, la parificazione di Hamas al Daesh ha fatto venir meno la prevista distinzione fra civili e militari, sicché chiunque dipenda da Hamas, per esempio come semplice funzionario di una sua struttura amministrativa, finisce con l’essere rubricato quale “terrorista”. Non a caso, Israele, nel contesto di Gaza, utilizza volutamente un’altra formula linguistica, sconosciuta al diritto internazionale, quella di “militante di Hamas”, per dar concretezza a siffatta corrispondenza e annichilendo alla radice la differenza tra civile e militare (considerato che, in assenza di certezza sul parametro precostituito di definizione, chiunque può assurgere a “militante” di Hamas).
In terzo luogo, con questa confusione, le sanzioni europee contro Hamas si sono tradotte in uno stigma su Gaza a favore di Israele, mettendo in difficoltà le cancellerie europee nel modificare questo regime sanzionatorio, per estenderlo allo Stato che viola il diritto internazionale.
In questo scenario, l’Italia ha ritenuto implicitamente di riconoscersi nelle qualificazioni unilaterali della vicenda di Gaza, con Hamas terrorista e Israele vittima, ignorando, in tal modo, il diritto internazionale[25].
Non a caso, dopo il vertice dei Ministri degli Esteri europei del 29 agosto 2025 sullo stato di carestia a Gaza, anch’esso denunciato dall’ONU[26], il Governo ha annunciato l’introduzione di sanzioni non contro Israele né contro il Governo o i suoi ministri, bensì contro i coloni “violenti” [27]: categoria assai indeterminata – quella dei coloni “violenti” – di cui non si comprende nulla di come sarà individuata, sulla base di quali parametri (italiani? israeliani?), a seguito di quali condotte (in Israele, in Cisgiordania, altrove?) e sulla base di quali accertamenti (per mezzo delle autorità israeliane o di un corpo internazionale?), dato anche il numero infimo di controlli e procedimenti israeliani a carico per l’appunto dei coloni[28].
Lo hanno fatto anche le imprese private italiane, in particolare Leonardo Spa[29], che continua a inserire Israele tra i “paesi normali”, ossia rispettosi del diritto e dei diritti, con cui fare affari.
C’è un piccolo particolare, però.
Non solo Israele versa, proprio in base al diritto internazionale, in una condotta, come accennato, di “illecito continuato e permanente”, ma il diritto che viola rientra nello ius cogens non derogabile né dagli Stati né dai privati, perché risalente al 1945: si tratta dello ius cogens del mantenimento della pace e del rispetto del genere umano.
Pertanto, è mai possibile fare affari nella violazione dello ius cogens? Evidentemente no.
Lo si desume dagli artt. 53 e 27 della Convenzione di Vienna sulla interpretazione dei trattati, del 1969: qualsiasi accordo, sia internazionale che di diritto interno, che miri a eludere lo ius cogens è nullo ab initio. Questo vale per gli accordi tra Italia e Israele ma vale anche per i contratti di diritto privato delle imprese, dato che lo ius cogens corrisponde alla “norme imperative”, indicate per la nullità dei contratti dagli artt. 1418 e 1419 Cod. civ., e a quelle “ad applicazione necessaria”, previste dalla disciplina dei contratti internazionali (cfr., per es., l’art. 16 della l. n. 218/1995, e l’art. 9 del Regolamento UE c.d. “Roma I”).
Nullo ab initio sta a indicare che, di fronte allo ius cogens, non vale neppure il principio del tempus regit actum ossia della considerazione del “quando” l’accordo o il contratto è stato stipulato o ha prodotto i suoi effetti, rispetto alla violazione appunto dello ius cogens.
D’altra parte, se la condotta israeliana versa in un “illecito continuato e permanente”, risalente addirittura al 1967, non c’è “quando” successivo che possa giustificare la violazione italiana dello ius cogens. A maggior ragione neppure la citata l. n. 185/1990 può fungere da “cappello protettivo” degli affari con Israele, risultando comunque successiva al 1967.
La nullità ab initio colpisce inesorabilmente tutto: causa, motivi ed effetti di accordi e contratti.
Ma allora come si spiega che l’Italia continui a fare affari con Israele?
Invero, la risposta è molto semplice e, in parte, già fornita. Per quanto concerne lo Stato, esso elude lo ius cogens attraverso l’uso di categorie non presenti nel diritto internazionale (nel senso di dire che si “dialoga con” – rectius, si aiuta – Israele perché porta avanti una legittima “guerra al terrorismo”). Per quanto concerne le imprese, esse eludono lo ius cogens attraverso il classico stratagemma delle “scatole cinesi”, del tutto simile alla richiamata “triangolazione” contrattuale denunciata in Olanda come Lawfare “inverso”: un’impresa italiana fa un contratto con un contraente intermedio che, a sua volta, fa il contratto con Israele e le sue imprese, per portare a compimento gli affari di quella italiana; il contraente intermedio può coincidere con un’impresa controllata da quella italiana (nel caso, per esempio, di gruppi societari) oppure in un’impresa straniera non israeliana (per esempio, francese), vincolata a corrispondere o condividere parte dei suoi profitti, di derivazione israeliana, con quella italiana.
Esistono rimedi contro queste elusioni? Si, tanto a livello internazionale che nazionale.
A livello internazionale valgono i richiami al “concorso” degli Stati agli illeciti e persino ai crimini di altri Stati, di cui ha fatto cenno la decisione della Corte Internazionale di Giustizia del luglio 2024. A livello nazionale italiano, entrano in gioco, oltre agli artt. dal 1418 al 1421 Cod. civ., gli artt. 1343 e 1344 Cod. civ. secondo cui tutti i contratti che eludono lo ius cogens sono illeciti sia nella “causa” (che è quella di fare affari con uno Stato che consuma “illeciti continuati e permanenti”) sia nella “frode alla legge” (dato che la modalità contrattuale delle “scatole cinesi” diventa il «mezzo per eludere l’applicazione della norma imperativa»)[30].
Se il rimedio internazionale può essere attivato solo dagli Stati, quello nazionale sulla nullità, invece, può essere promosso da qualsiasi soggetto che abbia “interesse” a far rispettare quello ius cogens, ovvero da qualsiasi essere umano. Scenari futuri di azione contro questi contratti nulli sembrano prefigurarsi anche in Italia, come minimo per tre ragioni:
- perché – sia detto a conclusione – l’Italia si riconosce nel “ripudio” non solo della guerra ma anche dell’offesa alla libertà di altri popoli (art. 11 Cost.) e gli illeciti israeliani consistono in un’offesa alla libertà di un altro popolo;
- perché l’Italia si riconosce nel diritto umano alla pace[31], ignoto al costituzionalismo israeliano;
- e la pace è il “bene della vita” che tutti hanno il dovere di far salvaguardare in tutte le sedi, anche davanti ai tribunali.
[1] Cfr. G. Felbermayr, A. Kirilakha, C. Syropoulos, E. Yalcin e Y.V. Yotov, The Global Sanctions Data Base (Gsdb); H. Attia e J. Grauvogel, International Sanctions Termination, 1990–2018: Introducing the IST dataset, in Journal of Peace Research, 60 (4), 2022, 709-719.
[2] Cfr., per il quadro d’insieme, UN, The question of Palestine.
[3] In Italia, l’ipotesi del Lawfare è sostenuta da D. Elber, Due pesi e due misure: il diritto internazionale e Israele, Livorno, Belfiore, 2020. Per un utile inquadramento delle implicazioni connesse all’utilizzo di questa categoria giuridico-morale, si v. E. Loefflad, The United States, Israel, and the Affective Lives of Moral Injury A Genealogy of Lawfare’s Emotional Presuppositions, in Athena. Critical Inquiries in Law, Philosophy and Globalization, 5(1), 1–55.
[4] O.F. Kittrie, Lawfare: law as a weapon of war, New York, Oxford Univ. Press, 2016.
[5] S. Saeidi, Iran’s Hezbollah and Citizenship Politics: The Surprises of Islamization Projects in Post-2009 Iran, in Women and the Islamic Republic: How Gendered Citizenship Conditions the Iranian State, Cambridge, Cambridge Univ. Press, 2022, 163-188; T. Juneau, Iran’s policy towards the Houthis in Yemen: a limited return on a modest investment, in International Affairs, 92 (3), 2016, 647-663; E. Skare, Iran, Hamas, and Islamic Jihad: A marriage of convenience, in European Council of Foreign Relations, 18 dicembre 2023.
[6] Si tratta di Giuliano Ferrara, in un editoriale de Il Foglio del 28 agosto 2025, riprodotto da Adriano Sofri nella sua pagina FB.
[7] V. Vegh Weiss, What does Lawfare mean in Latin America? A new framework for understanding the criminalization of progressive political leaders, in Punishment & Society, 2023, 25(4), 909–933.
[8] Cfr. in merito, A. Perrilli, Laicità “non-occidentali”. Tradizioni religione e costruzione della sfera pubblica in Israele e Turchia, Bologna, Bologna Univ. Press, 2025.
[9] Cfr. M. Masri, The Dynamics of Exclusionary Constitutionalism, London, Hart, 2017.
[10] Cfr. N. Erakat, Justice for Some: Law and the Question of Palestine, Stanford, Stanford Univ. Press, 2019.
[11] Cfr. A. Speer, Lo Stato schiavo. La presa di potere delle SS, trad. it., Milano, Mondadori, 1985.
[12] Cfr., in Italia, M. Carducci, I contratti italiani di vendita d’armi a Israele sono nulli?, in www.LaCostituzione.info, 9 aprile 2024.
[13] J. Hartmann, L. Köhne, V. Widdig, Arms Exports and Access to Justice: Enforcing International Law through Domestic Courts, in EJIL: Talk!, 25 ottobre 2024.
[14] Si v. il sito https://opiniojuris.org/.
[15] Cfr. UN experts warn international order on a knife’s edge, urge States to comply with ICJ Advisory Opinion, in https://www.ohchr.org/en/statements-and-speeches/2024, 18 settembre 2024.
[16] Norges Bank, Decisions on exclusion, 25 agosto 2025.
[17] Cfr. CEPS, Open Letter Calling for immediate implementation of EU measures against Israel’s unlawful actions in Gaza & the West Bank, in https://www.ceps.eu/, 26 agosto 2025. Sulla vicenda dell’Accordo UE-Israele, cfr. M. Gatti, La mancata sospensione dell’Accordo di cooperazione UE-Israele, in SidiBlog, 30 giugno 2025.
[18] La traduzione in italiano delle richieste si legge in Pressenza. International Press Agency, del 28 agosto 2025.
[19] Cfr. K.J. Heller et al. (eds), The Oxford Handbook of International Criminal Law, Oxford, Oxford Academic, 2020.
[20] In particolare, nei passaggi della decisione, che collegano ius cogens, rispetto della dignità della persona umana e inammissibilità di qualsiasi crimine internazionale come fattispecie insindacabile e non giustiziabile.
[21] Cfr. Camera dei Deputati, Respinta mozione opposizioni su cooperazione militare con Israele, 17 luglio 2025.
[22] Cfr. i commenti di Action for Peace e di Manlio Dinucci in Jura gentium (La questione palestinese, a cura di F. Ciafaloni, C. Nachira), 2005.
[23] Cfr. L’accordo di collaborazione militare tra Italia e Israele finalmente pubblico grazie ad un’azione legale, 2 agosto 2025.
[24] Cfr., per esempio, Camera dei Deputati, atto n. 491 del 7 maggio 2025.
[25] Se leggano le difese dell’Avvocatura dello Stato a giustificazione del mancato seguito italiano al parere della Corte Internazionale di Giustizia del luglio 2024, nel giudizio amministrativo intentato da un avvocato contro il Governo (cfr. la documentazione in Comitato per la Difesa del Diritto Internazionale in Palestina).
[26] Cfr. IPC, Famine confirmed in Gaza Governorate, projected to expand, 15 agosto 2025.
[27] Cfr. M. Cremonesi, A. Logroscino, Israele, la mossa del Governo italiano: «Sanzioni contro i coloni violenti», ne Il Corriere della Sera, 30 agosto 2025.
[28] J. Sharon, NGO says only 6% of police probes of settler violence it was party to ended in charges, in The Times of Israel, 22 gennaio 2024.
[29] Cfr. Leonardo, Diritti umani (contenente Codice etico e Carta dei valori di Gruppo).
[30] Cfr. S. Pagliantini (a cura di), Le forme della nullità, Torino, Giappichelli, 2009.
[31] A. Papisca, La pace come diritto umano fondamentale, in Pace, Diritti dell’Uomo, Diritti dei Popoli, 1(1), 1987, 37-43.
Immagine: foto di Daniel Maleck Lewy via Wikimedia Commons.
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