ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il doppio limite del potere di mitigazione climatica dell’Italia dopo le sentenze CEDU del 9 aprile 2024
di Maralice Cunha Verciano
Sommario: 1. Premessa: Il riparto di competenza del potere di mitigazione climatica tra Stati e UE – 2. I limiti al potere di mitigazione climatica dopo le sentenze CEDU del 9 aprile 2024 – 3. Il doppio limite del potere di mitigazione climatica dello Stato tra diritto UE e CEDU – 4. La competenza della UE in merito al doppio limite esistente – 5. Conclusione 1: il rispetto dei requisiti CEDU non viola il diritto UE – 6. Conclusione 2: i requisiti CEDU garantiscono anche il neminem laedere.
1. Premessa: Il riparto di competenza del potere di mitigazione climatica tra Stati e UE
Com’è noto, il potere statale di mitigazione climatica trova fondamento nell’art. 2 UNFCCC del 1992, con riguardo all’obiettivo definitivo da conseguire attraverso la riduzione delle emissioni di gas serra, e nell’art. 2 dell’Accordo di Parigi del 2015, con riguardo alla soglia concordata del pericolo da non superare nell’aumento delle temperature medie globali[i].
Queste due fonti vincolano tutte le parti aderenti ai due accordi.
Di conseguenza, vincolano sia l’Italia e che la UE, in quanto entrambe hanno ratificato l’UNFCCC e l’Accordo di Parigi.
Nella UE, il potere di mitigazione climatica è previsto anche dall’art. 191 TFUE, in un quadro di competenze concorrenti con gli Stati membri, contraddistinto altresì dalla clausola di miglior tutela ambientale e della salute, prevista dall’art. 193 TFUE.
Questo significa che la distribuzione dei contenuti della competenza è retta dal principio di sussidiarietà fra UE e Stati, ma fatta salva comunque la facoltà statale di integrare in melius i contenuti del proprio potere di mitigazione, alla luce appunto dell’art. 193 TFUE.
2. I limiti al potere di mitigazione climatica dopo le sentenze CEDU del 9 aprile 2024
Tuttavia, dopo le due sentenze della Corte europea dei diritti umani del 9 aprile 2024 “Verein KlimaSeniorinnen vs. Svizzera” (53600/20) e “Duarte Agostinho et al. vs. Portogallo et al.” (39371/20), la materia del potere statale di mitigazione climatica statale è stata acquisita anche all’interno dell’art. 8 CEDU.
In particolare, la Corte di Strasburgo ha stabilito che tutti gli Stati membri del Consiglio d’Europa, indipendentemente se aderenti o meno alla UE, sono tenuti a rispettare una serie di “requisiti necessari” di esercizio del potere di mitigazione climatica, che fungono da limite esterno al loro margine di apprezzamento, in quanto servono a garantire la tutela intertemporale e intergenerazionale dei diritti umani presidiati dall’art. 8 CEDU, ai fini dell’effettivo rispetto degli obiettivi di cui agli artt. 2 UNFCCC e 2 Accordo di Parigi.
Il contenuto di questi “requisiti necessari” è descritto e scandito nei §§ 441-444, 543, 550 e 571 della sentenza “Verein KlimaSeniorinnen vs. Svizzera”.
Infatti, nel § 441 si legge che «ogni Stato ha la propria quota di responsabilità nell’adottare misure per affrontare il cambiamento climatico e che l’adozione di tali misure è determinata dalle capacità dello Stato stesso piuttosto che da un’azione (o omissione) specifica di un altro Stato», mentre, nel § 444, si specifica che il «test rilevante» [della capacità dello Stato nella sua mitigazione climatica] è quello di «avere una reale prospettiva di alterare l’esito o di mitigare il danno [del cambiamento climatico antropogenico]». Collegato al § 444 è poi il § 571, dove si riconosce che l’IPCC «ha sottolineato l’importanza dei bilanci del carbonio» (ossia il Carbon Budget residuo), nel quadro del «principio delle responsabilità comuni ma differenziate ai sensi dell’UNFCCC e dell’Accordo di Parigi», che «richiede agli Stati di agire sulla base dell’equità e in conformità con le rispettive capacità». Infine, nel § 550 si elencano i cinque “requisiti” necessari affinché quanto indicato nei §§ 441-444 e § 571 sia concretamente realizzato. Eccoli elencati: «[Spetta a ciascuno Stato individuare]
(a) il carbon budget residuo, o un altro metodo equivalente di quantificazione delle future emissioni di gas serra, in linea con l’obiettivo generale degli impegni nazionali e/o globali di mitigazione dei cambiamenti climatici;
(b) [gli] obiettivi e percorsi intermedi di riduzione delle emissioni di gas serra (per settore o altre metodologie pertinenti) che siano ritenuti in grado, in linea di principio, di soddisfare gli obiettivi nazionali complessivi di riduzione dei gas serra entro i tempi stabiliti nelle politiche nazionali;
(c) [le] prove che dimostrino che si stanno debitamente rispettando, o si è in procinto rispettare, gli obiettivi di riduzione dei gas serra pertinenti;
(d) l’aggiornamento degli obiettivi di riduzione dei gas serra pertinenti con la dovuta diligenza e sulla base delle migliori prove disponibili;
(e) [la descrizione delle azioni per intervenire] tempestivamente, in modo appropriato e coerente nell’elaborazione e nell’attuazione della legislazione e delle misure pertinenti».
Tutto questo, conclude il giudice europeo, limita dall’esterno il “margine di apprezzamento” dello Stato membro, a garanzia appunto dell’effettività intertemporale e intergenerazionale dell’art. 8 CEDU.
La Corte, inoltre, ha specificato che tutte «le autorità nazionali competenti, siano esse a livello legislativo, esecutivo o giudiziario», devono tenere «in debita considerazione» tali “requisiti necessari”, affinché lo Stato operi «entro il suo margine di apprezzamento».
Pertanto, questo compito di accertamento e verifica spetta anche al giudice nazionale, come chiarito pure dalla sentenza “Duarte Agostinho et al. vs. Portogallo et al.”.
La tesi che tale vincolo non sussisterebbe per l’Italia, in nome della separazione dei poteri, risulta priva di fondamento costituzionale[ii].
Al contrario, il potere di mitigazione climatica dello Stato aderente alla CEDU conosce un limite assoluto, riguardante i “requisiti necessari” indicati dalla Corte, finalizzato – tale limite - a garantire nel tempo l’art. 8 CEDU e l’effettivo conseguimento degli obiettivi dell’art. 2 UNFCCC e dell’art. 2 Accordo di Parigi.
In più, questo limite assoluto è pienamente conforme con la Costituzione italiana (nello specifico, con gli artt. 9, 32 e 41 Cost.), come risulta dal quadro di confronto sinottico, elaborato dall’Osservatorio di comparazione interformanti sul contenzioso climatico italiano[iii].
3. Il doppio limite del potere di mitigazione climatica dello Stato tra diritto UE e CEDU
Per gli Stati aderenti alla Consiglio d’Europa (CoE) e alla CEDU, ma contemporaneamente membri della UE, i limiti ai sensi dell’art. 8 CEDU si aggiungono ai limiti di competenza, fissati dagli artt. 191 e 193 TFUE, con la puntualizzazione, però, che, mentre i limiti CEDU sono assoluti perché posti come vincoli esterni al margine di apprezzamento dello Stato, in nome per l’appunto dei diritti umani, quelli della UE sono invece relativi, perché riguardanti non i vincoli esterni bensì i contenuti interni delle competenze concorrenti, una volta esercitate secondo sussidiarietà e integrazione in melius ex art. 193 TFUE.
Il quadro che ne consegue può essere così di seguito rappresentato.
4. La competenza della UE in merito al doppio limite esistente
La coesistenza di questo doppio limite (assoluto esterno e relativo interno) riguarda solo ed esclusivamente gli Stati aderenti al CoE che sono anche membri della UE.
Su siffatta coesistenza, la UE non ha alcun titolo a intervenire, per diverse ragioni:
- perché la UE non è membro della CEDU e dunque non soggiace a “requisiti necessari” sui limiti assoluti del margine di apprezzamento, indicati dalla Corte di Strasburgo;
- perché qualsiasi intervento della UE su tali limiti assoluti CEDU si porrebbe in contrasto con l’art. 4 n. 2 TUE, in merito al rispetto, da parte dalla UE, delle identità nazionali degli Stati e, con esse, dalla loro sovrana sottoposizione ai vincoli di tutela dei diritti, indicati dalla Corte di Strasburgo;
- perché qualsiasi intervento della UE violerebbe anche l’art. 6 n. 2 TUE, attivando una competenza europea non prevista dai Trattati sui poteri statali di mitigazione climatica, per di più in assenza di adesione unionale alla CEDU;
- perché la tutela dei diritti umani (anche se di matrice convenzionale) funge comunque da controlimite a qualsiasi potere UE;
- perché, infine, l’art. 193 TFUE consente allo Stato membro di fare comunque meglio della UE e il rispetto dei limiti assoluti a tutela dell’art. 8 CEDU è indubbiamente un’integrazione in melius del potere statale di mitigazione climatica.
5. Conclusione 1: il rispetto dei requisiti CEDU non viola il diritto UE
Si deve, allora, concludere che l’Italia, in quanto Stato membro sia della UE che del CoE,
- soggiace ai limiti assoluti esterni della CEDU,
- è dunque tenuta a rispettare i “requisiti necessari”, scanditi dalla Corte di Strasburgo nei §§ 441-444, 543, 550 e 571 della sentenza “Verein KlimaSeniorinnen vs. Svizzera”,
- indipendentemente dai contenuti delle competenze esercitate dalla UE, che operano, invece, come limiti relativi interni,
- nei cui confronti l’Italia è comunque abilitata a un potere di mitigazione climatica in melius, nei termini dell’art. 193 TFUE,
- sicché il rispetto, da parte dell’Italia, dei “requisiti necessari” CEDU del potere statale di mitigazione climatica non viola il diritto UE.
Del resto, qualsiasi tentativo mirante a ridimensionare i vincoli CEDU, anche in nome del diritto UE e magari al fine di eludere o disapplicare i “requisiti necessari” dei §§ 441-444, 543, 550 e 571 della sentenza “Verein KlimaSeniorinnen vs. Svizzera”, dovrebbe comunque passare al vaglio della Corte costituzionale, eccependo ipotesi di violazione di un qualche parametro costituzionale.
Il che, sia detto per inciso, apparirebbe assai improbabile e incomprensibile dopo la riforma degli artt. 9 e 41 Cost. e l’interpretazione “monito”, su di essi fornita dalla Consulta nella sentenza n. 105/2024, dove si parla di nuovi “vincoli” e “limiti” al potere pubblico e privato, in nome dell’interesse delle generazioni future[iv].
6. Conclusione 2: i requisiti CEDU garantiscono anche il neminem laedere
Al contrario, i limiti assoluti esterni al “margine di apprezzamento” degli Stati membri del CoE risultano funzionali alla persistenza del principio del neminem laedere, anch’esso limite esterno a qualsiasi potere pubblico e privato secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale italiana e come richiesto persino dal Green Deal europeo che sul “non nuocere” fonda la propria normativa di mitigazione climatica conforme agli artt. 191 e 193 TFUE[v].
Valgano, in merito, i seguenti riscontri costituzionali italiani.
La Consulta, non da ieri, ha osservato che l’art. 2043 Cod. civ. risulta funzionare da «norma in bianco» che, da un lato, espressamente e chiaramente indica l’obbligazione risarcitoria, conseguente al fatto doloso o colposo, ma, dall’altro, non individua i beni giuridici la cui lesione è vietata, essendo l’illiceità oggettiva del fatto, che condiziona il sorgere della detta obbligazione, indicata unicamente attraverso l’“ingiustizia” del danno prodotto dall’illecito. La disposizione codicistica, di conseguenza, «contiene una norma giuridica secondaria», ha chiarito la Corte (sent. n. 184/1986, rimasta da allora immutata[vi]) la cui applicazione «presuppone l’esistenza di una norma giuridica primaria», da rinvenire nelle disposizioni costituzionali, a partire dall’art. 32 Cost. ma anche, in virtù dell’art. 117 comma 1 Cost., anche nella CEDU e, per il caso specifico della mitigazione climatica, nell’art. 8 CEDU.
Ecco, allora, che i “requisiti necessari”, scanditi dalla Corte di Strasburgo nei §§ 441-444, 543, 550 e 571 della sentenza “Verein KlimaSeniorinnen vs. Svizzera”, altro non rappresentano che il catalogo degli elementi di integrazione dell’art. 2043 Cod. civ. in ordine ai beni giuridici (ex art. 8 CEDU) la cui lesione è vietata nelle misure statali di mitigazione climatica.
1 Cfr. M. Cunha Verciano, La discrezionalità del potere nella lotta al cambiamento climatico, in www.federalismi.it, n. 28/2023.
2 Da ultimo, su questa tesi ma ignorando i citati §§ 441-444, 543, 550 e 571 della sentenza “Verein KlimaSeniorinnen vs. Svizzera”, cfr. G. Scarselli, Contenzioso climatico e giurisdizione, in questa Rivista, 26 novembre 2024.
3 Cfr. Comparazione interformanti tra la sentenza del caso "Giudizio Universale", le decisioni "climatiche" CEDU e ITLOS del 2024 e la giurisprudenza costituzionale (Rapporto 1/2024), in https://www.contenziosoclimaticoitaliano.it/osservatorio-e-bibliografia/.
4 Su questo “monito” della sentenza costituzionale n. 105/2024, cfr. i commenti del 25 giugno 2024, nell’ “Osservatorio sul Costituzionalismo Ambientale” (OCA) della rivista DPCE online, rispettivamente di M. Carducci e di G. Giorgini Pignatiello, nonché, da ultimo, G. Vivoli, L’eterna provvisorietà di misure straordinarie è (ed era) incostituzionale, in AmbienteDiritto, 4/2024.
5 Cfr. il Considerando n. 9 del Regolamento UE n. 2021/1119.
6 Cfr. M. Carducci, I sei contenuti di tutela del diritto alla salute e l’inabrogabilità dell’obbligazione riparatoria e della risarcibilità per via giurisdizionale, secondo la Corte costituzionale (2024), in https://www.contenziosoclimaticoitaliano.it/la-dottrina-giuridica/m-z/ (sub voce: Neminem laedere e art. 2043 Cod. civ. (nella giurisprudenza costituzionale).
Questo contributo è frutto del lavoro di sintesi, svolto per Contenzioso climatico italiano, Osservatorio di comparazione interformanti a cura degli Studenti magistrali di Diritto comparato dei cambiamenti climatici dell'Università del Salento, e messo a disposizione alle lettrici e ai lettori di Questa Rivista. Si veda anche Istituzione dell’Osservatorio di comparazione interformanti sul contenzioso climatico italiano.
Foto via Wikimedia Commons.
La separazione delle carriere: repetita iuvant!
di Armando Spataro
Sommario: 1. L’incubo che non scompare - 2. Le balle a sostegno dell’impostura: i giudici appiattiti sulle tesi dei p.m., la “riforma-Falcone”, il giusto processo ex art.111 Cost., il sorteggio dei membri togati dei due CSM e dell’Alta Corte Disciplinare - 3. Paulo Sergio Pinto de Albuquerque, un grande giurista e la sua deludente intervista - 4. La diversità di storia e cultura giuridica dei Paesi europei; 5. Ovunque esiste la separazione delle carriere, il PM dipende dall’Esecutivo (tranne che in Portogallo) - 6. La situazione in Portogallo - 7. Le istituzioni europee guardano al sistema italiano come un modello da realizzare ovunque: le “passerelle” dalla funzione di PM quella dei giudici, e viceversa, fanno crescere le garanzie dei cittadini - 8. Il silenzio colpevole dei “separatisti” - 9. L’impegno contro questa riforma? Testimonianza di dignità e coerenza.
1. L’incubo che non scompare
Il 16 gennaio la Camera dei Deputati ha approvato in prima deliberazione il Disegno di Legge Costituzionale presentato dal Presidente del Consiglio dei Ministri (Meloni) e dal Ministro della Giustizia Nordio, intitolato “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare”. La proposta ha per principale oggetto la separazione delle carriere dei magistrati: l’approvazione è avvenuta con 174 voti favorevoli, 92 contrari e 5 astenuti, dunque con una percentuale di adesioni che non supera i due terzi dei 400 componenti elettivi della Camera e che difficilmente potrà mutare nelle prossime altre tre letture e votazioni, anche presso il Senato, composto da 200 componenti elettivi. In sostanza, pur potendosi dare per scontata la approvazione finale della proposta di separazione delle carriere dei magistrati e delle previsioni ad essa connesse, bisognerà sin d’ora prepararsi ad un deciso impegno in sede referendaria, ai sensi dell’art. 138 Costituzione, perché questa orrida proposta finisca su un binario morto.
Dopo la ricordata prima approvazione del 16 gennaio, si sono sprecati i commenti dai toni trionfalistici di Nordio e di altri politici appartenenti alla maggioranza di governo, anche in onore e ricordo di Silvio Berlusconi! Ma chi la pensa in senso opposto non ha risparmiato i doverosi toni allarmistici.
Chi scrive, interviene da anni sul tema della separazione delle carriere per sottolinearne la sua natura di “impostura” anacronistica e irrisoria: in Treccani si spiega che con il termine impostura si intende la tecnica di “inganno e menzogna per trarne profitto”.
Vorrei provare allora ad intervenire su argomenti che i sedicenti giuristi favorevoli alla separazione delle carriere – che d’ora in avanti chiamerò “separatisti” – hanno ignorato (o “ignorano”), evitando anche di rispondere a precisi stimoli di chi la pensa diversamente da loro (gli “unionisti”).
2. Le balle a sostegno dell’impostura: i giudici appiattiti sulle tesi dei p.m., la “riforma-Falcone”, il giusto processo ex art.111 Cost., il sorteggio dei membri togati dei due CSM e dell’Alta Corte Disciplinare.
Non parliamo dunque del fatto che l’appartenenza alla stessa “famiglia” determinerebbe contiguità tra giudici e p.m., condizionando i primi e determinandone l’“appiattimento” sulle tesi dei p.m. e la predisposizione a prestare maggior attenzione alle richieste dell’accusa. Basta ricordare in proposito le parole di Francesco Saverio Borrelli [[1]], secondo cui il sospetto artificioso di “gratuita proclività” del giudice a simpatizzare per le tesi dell’accusatore è da respingere, in quanto fondato su “diffidenze plebee che scorgono ovunque collusioni”.
È anche falso che la separazione delle carriere favorirebbe la maggiore efficacia dell’azione del P.M., tanto che anche Giovanni Falcone avrebbe auspicato una legge in proposito: un noto giornalista è arrivato a proporre che questa legge in fieri sia definita “Riforma Falcone” ed in molti poi, a favore della loro tesi, citano alcuni passaggi di un intervento di Falcone del 1989. Ma è una citazione fuorviante ed un’interpretazione errata di frasi estrapolate da un testo ben più ampio, la cui lettura completa dimostra che Falcone teorizzava la necessità di una più accentuata specializzazione del P.M. nella direzione della polizia giudiziaria, rispetto a quanto richiesto nel regime vigente prima del codice di rito del 1988. Lo hanno confermato la scrittrice giornalista Marcelle Padovani, che con il collega scrisse un libro importante, nonché magistrati come Ayala, Grasso e Natoli che con Falcone avevano a lungo collaborato a Palermo. In ogni caso, la più sicura conferma della sua contrarietà alla separazione delle carriere la diede Falcone stesso chiedendo e ottenendo più volte di passare dalla funzione requirente a quella giudicante e viceversa: da giudice istruttore era anche diventato procuratore della Repubblica aggiunto, funzione che esercitava quando fu chiamato da Martelli al ministero. E analoghi mutamenti di funzione hanno chiesto e ottenuto altre vittime di mafia e terrorismo come Paolo Borsellino e Guido Galli, nonché altri magistrati cui tanto deve il nostro paese come il citato Francesco Saverio Borrelli.
Né potrebbero trarsi argomenti a sostegno della separazione dal testo dell’art. 111 Cost.
La parità delle parti, di cui parla il secondo comma, non si gioca sul piano istituzionale: l’avvocato è un privato professionista vincolato dal solo mandato a difendere, che lo obbliga a ricercare l’assoluzione o, comunque, l’esito più conveniente per il proprio assistito, che lo retribuisce per questo, ed è figura diversa dal P.M., che è un’autorità giudiziaria indipendente, non riducibile al ruolo di “avvocato della polizia” definizione tanto cara al Ministro Nordio. Non a caso il PM è obbligato a svolgere indagini anche a favore dell’imputato: egli, infatti, non agisce sempre in vista della condanna ma dell’accertamento della verità. E questo è un carattere essenziale della sua attività professionale che lo accomunerà comunque al giudice, anche nella malaugurata ipotesi di entrata in vigore della separazione: un carattere che si chiama “cultura giurisdizionale”, definizione ritenuta dai separatisti un mero slogan.
A questo punto, però, non voglio entrare in contraddizione con la dichiarata volontà di approfondire argomenti diversi da quelli quotidianamente oggetto di dispute giornalistiche e di confronti urlati nei talk show serali, come i dati numerici relativi al tramutamento di funzione i quali dimostrano che di fatto non vi è bisogno di mutamenti ulteriori della disciplina o come l’importanza di un’unica formazione dei magistrati e un unico CSM che ne regoli ed amministri le carriere.
Per non parlare della vergogna (non riesco a definirla diversamente) del sorteggio previsto per designare i membri togati dell’altra Corte Disciplinare e dei due CSM, così evitare gli effetti critici della esistenza dell’ANM e delle sue correnti : qualcuno, anzi, vorrebbe sciogliere l’una e le altre per contrastare indicibili accordi, comunque ben diversi – aggiunge chi scrive – da quelli che in questi giorni stanno caratterizzando l’individuazione di quattro giudici da eleggere quali componenti della Corte Costituzionale: ma nessuno ne parla!
3. Paulo Sergio Pinto de Albuquerque, un grande giurista e la sua deludente intervista
Parliamo allora di altro, parliamo della situazione ordinamentale degli altri Stati europei e degli Stati Uniti.
Lo spunto per tornare su questo quasi inesplorato (o mal esplorato) argomento è nato da una intervista rilasciata dal prof. Paulo S. Pinto de Albuquerque, pubblicata l’11 gennaio 2024 su "Il Riformista PQM", di cui è direttore responsabile l'ex presidente della Unione Camere Penali, avv. Gian Domenico Caiazza, uno dei più duri “separatisti” a me noti. Paulo Sergio Pinto de Albuquerque è professore portoghese ordinario di Diritto Penale e Diritti Umani all’Università di Lisbona, con almeno 40 anni di esperienza come giudice nazionale e internazionale, avvocato e attivista per i diritti umani.
È stato esperto del Gruppo di Stati contro la Corruzione (Greco) nel biennio 2009/2010 e giudice della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo dal 2011 al 2020. Personalmente ho avuto l'onore di contribuire con un mio intervento ad un volume edito nel 2021, “I diritti Umani in una prospettiva Europea – Opinioni dissenzienti e concorrenti, 2016-2020”, di Paulo Sergio Pinto de Albuquerque, a cura di Andrea Saccucci, con prefazione di Raffaele Sabato e Gilberto Feltri.
Per tutto questo, rimasi profondamente deluso nel leggere l'intervista in cui la proposta di legge Meloni-Nordio sulla separazione delle carriere viene da lui definita "eccellente" con ulteriori e plurimi elogi: «sono un sostenitore della separazione delle carriere, perché essa contribuisce in modo significativo alla piena realizzazione del principio accusatorio, della presunzione di innocenza e del giusto processo. Inoltre, la separazione delle carriere contribuisce anche alla valorizzazione della magistratura del Pubblico Ministero. In Portogallo, prima della separazione delle carriere, la carriera del Pubblico Ministero era una carriera preparatoria per la carriera giudiziaria. Questo comportava, tra l’altro, due conseguenze molto negative. Prima di tutto, la carriera del Pubblico Ministero veniva considerata una carriera di minor valore, il che diminuiva la rilevanza istituzionale e il prestigio sociale della carriera del Pubblico Ministero. In secondo luogo, la carriera preparatoria del magistrato del Ministero Pubblico creava tra i giudici un pregiudizio endemico favorevole all’accusa, il che danneggiava gravemente il principio accusatorio, la presunzione di innocenza e il giusto processo. Queste conseguenze negative sono state definitivamente eliminate dalla separazione delle carriere.»
Alla domanda sul rischio che la riforma italiana, modificando profondamente l’attuale quadro costituzionale e l’equilibrio tra i poteri dello Stato, potrebbe finire con l’incidere sulla indipendenza al potere giudiziario, riducendo le garanzie e i diritti di libertà dei cittadini, Paulo Sergio Pinto de Albuquerque affermava di non condividere queste preoccupazioni: «La separazione delle carriere rafforza l’indipendenza del potere giudiziario e aumenta le garanzie per i cittadini, come ho già spiegato nella risposta precedente. Questa è l’esperienza vissuta quotidianamente nei tribunali portoghesi».
In Portogallo – egli precisava – la separazione delle carriere non ha contribuito a una logica securitaria del Pubblico Ministero e tanto meno al suo allontanamento dalla “cultura della giurisdizione”, perché il Pubblico Ministero, nel quadro costituzionale portoghese, è una magistratura indipendente dal governo. La competenza di rappresentanza dello Stato, in particolare nei tribunali civili e nei tribunali amministrativi e fiscali, è strettamente legata alla difesa della legalità democratica, che è anche attribuita dalla legge al Pubblico Ministero. «Perché, anche in questi casi, il Pubblico Ministero agisce in modo imparziale e indipendente, non comandato da alcun organo specifico dell’apparato statale. Secondo la Costituzione portoghese, il Pubblico Ministero gode di autonomia rispetto agli altri organi del potere centrale, regionale e locale. L’autonomia del Pubblico Ministero si caratterizza per il suo vincolo a criteri di legalità e obiettività e per la soggezione esclusiva dei magistrati del Pubblico Ministero alle direttive, ordini e istruzioni previsti nel loro statuto, nell’ambito della loro gerarchia interna. È importante sottolineare che, nel processo penale, il Pubblico Ministero deve esercitare l’azione penale orientato dal principio di legalità, indagando il caso sia a carico che a discarico».
Tutto ciò perché, a quasi 50 anni dalla riforma che ha istituito la separazione organica tra la carriera dei giudici e quella del Pubblico Ministero, «i magistrati del Pubblico Ministero in Portogallo non si sentono sottoposti al controllo del potere esecutivo, né esprimono pubblicamente alcun disagio a questo proposito. La separazione delle carriere è stata una conquista fondamentale della democrazia portoghese, che ha avuto pieno successo nella pratica. Su questo sono d’accordo i giudici, i magistrati del Pubblico Ministero, gli avvocati e, in generale, la società civile».
Quest’ultimo giudizio, come si dirà appresso, non è affatto condiviso in Portogallo e comunque confesso che quella intervista, nell’ovvio rispetto del pensiero di Paulo Sergio Pinto de Albuquerque, appena letta, mi lasciò davvero senza parole: la giornata era iniziata male, ma fortunatamente scrissi al grande giurista, esponendogli le mie perplessità e determinando il suo apprezzamento per la correttezza del mio approccio.
4. La diversità di storia e cultura giuridica dei Paesi europei
Sono molti gli argomenti di segno opposto a quelli usati da Paulo Sergio Pinto de Albuquerque che si potrebbero qui precisare (e di cui – come ho detto – da molti anni parlo e scrivo), ma francamente preferisco evitare limitandomi a precisare quanto sia errato ritenere che il funzionamento (ammesso che di questo si tratti in Portogallo) di scelte ordinamentali in un Paese ne legittimi l'adozione anche in altri Stati. Non possono trascurarsi, infatti, le diverse storie e differenze di cultura giuridica e degli ordinamenti giudiziari europei nei quali – in caso di pm separato dai giudici – esiste comunque la figura del Giudice Istruttore (titolare indipendente delle indagini), da noi cancellata da vari decenni.
È gratuito affermare, dunque, che la separazione delle carriere si impone anche in Italia poiché si tratta dell’assetto ordinamentale esistente o nettamente prevalente negli ordinamenti degli altri Stati a democrazia avanzata, Stati Uniti inclusi, senza che ciò comporti dipendenza del PM dal potere esecutivo e il condizionamento delle indagini ([2]).
Questa è un’affermazione gratuita che, in modo stupefacente, viene utilizzata anche da autorevoli commentatori e da giuristi favorevoli alla separazione, i quali – tuttavia – non possono non conoscerne la natura di mero slogan, né ignorare quanto essa sia priva totalmente di fondamento. Ma purtroppo, si tratta di una delle tante affermazioni sistematicamente utilizzate “contro” la magistratura che hanno determinato, grazie a martellanti campagne di opinione, convinzioni tanto radicate quanto errate.
Ed aggiungiamo che è un’affermazione anche incoerente e contraddittoria rispetto a quanto si legge nella relazione di accompagnamento al DDL costituzionale Nordio-Meloni: «Sui temi della separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti, della esistenza e regolamentazione di Consigli Superiori, nonché sulla materia disciplinare, le soluzioni adottate da parte di altri Stati membri dell’Unione Europea sono variegate e non emergono linee prevalenti. Sono assai varie anche le scelte normative dei diversi Stat, risultando la materia oggetto di disciplina articolata a livello nazionale con interazione di disposizioni costituzionali, ordinamentali e di rito processuale».
È sufficiente, infatti, un’analisi anche superficiale della situazione internazionale o degli ordinamenti degli Stati più evoluti per verificare che la realtà è abbastanza diversa da quella che spesso sentiamo raccontare in Italia. È chiaro, peraltro, che un confronto di questo tipo non è sempre utile se solo si considera che spesso esiste una radicale differenza tra gli ordinamenti presi in considerazione, frutto di tradizioni giuridiche ed evoluzioni storiche peculiari di ciascun paese. Basti pensare al fatto che in Gran Bretagna manca del tutto un pubblico ministero come noi lo intendiamo.
Non si comprende, dunque, come il Ministro Nordio possa avere dichiarato che «nei paesi anglosassoni le carriere sono separate e la magistratura non si sente umiliata» [[3]].
Tra l’altro, il prof. Alessandro Pizzorusso, a proposito di indipendenza del pubblico ministero, affermava l’irrilevanza del dato numerico relativo ai paesi che seguono l’una o l’altra impostazione: «se così non fosse, quando l’Inghilterra era l’unico paese in cui esisteva la democrazia parlamentare, si sarebbe potuto invocare l’argomento comparatistico per dimostrare l’opportunità di instaurare la monarchia assoluta, che era la forma allora assolutamente prevalente». Però possono egualmente trarsi, dalla comparazione ordinamentale, degli spunti generali per la questione che qui interessa, utili a verificare che, nel panorama internazionale, gli ordinamenti che conoscono la separazione delle carriere non costituiscono affatto la maggioranza. Inoltre – ed il dato è molto significativo ai fini che qui interessano – all’estero accade spesso che chi abbia maturato esperienze professionali di pubblico ministero acquisisce una sorta di titolo preferenziale per accedere alla carriera giudicante: dunque, quell’esperienza viene considerata molto positivamente.
5.Ovunque esiste la separazione delle carriere, il PM dipende dall’Esecutivo (tranne che in Portogallo)
Ma, soprattutto, non può non considerarsi che, ove esiste la separazione delle carriere, questa porta con sé la dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo, una conseguenza assolutamente preoccupante, pur se non sgradita ad alcuni accademici come il prof. G. Di Federico [[4]] e persino all’avv. Gian Domenico Caiazza, già presidente della Unione Camere Penali, che nel corso di un confronto con lo scrivente [[5]] ha manifestato la propria indifferenza a tale ipotesi.
Ecco, schematicamente, con inevitabile sommarietà, la realtà di alcuni Stati europei (all’Italia geograficamente più vicini) e degli Stati Uniti, cioè di Stati i cui livelli di democrazia, pur nella diversità ordinamentale, sono sicuramente omogenei rispetto ai nostri:
· in Austria, il PM è organizzato come autorità amministrativa, è gerarchicamente strutturato ed è nominato dal Ministro di Giustizia, da cui dipende. Esiste interscambiabilità dei ruoli;
· in Belgio, il PM è nominato dal Re ed il passaggio da una carriera all’altra può avvenire solo per decisione dell’esecutivo, da cui, comunque, riceve direttive di carattere generale; anche il passaggio da una carriera all’altro può avvenire, per i PM, soltanto per decisione dell’esecutivo;
· in Germania chi esercita la funzione requirente riveste uno status di funzionario statale dipendente, nominato dall’esecutivo ed ha garanzie diminuite rispetto ai giudici; le carriere di giudici e dei pubblici ministeri, inoltre, sono separate, ma l’interscambio è comunque possibile, pur se non è frequente e, per lo più, avviene in un’unica direzione (da PM a Giudice). Lo statuto subordinato del PM ha portato la Corte di Giustizia UE ad affermare che i PM tedeschi, in quanto non totalmente indipendenti perché soggetti al potere di istruzione del ministro, non possono essere qualificati come autorità giudiziaria ai fini della possibilità di emettere Mandati di Arresto Europei (casi riuniti C-508/18 e C-82/19 PPU). Insomma, certe scelte si pagano.
· in Francia, la carriera è unica, è possibile passare da una funzione all’altra, ma il pubblico ministero, pur inserito nell’ordinamento giudiziario, dipende dall’esecutivo, è sottoposto a forme di controllo di tipo gerarchico-burocratico da parte del Ministro della Giustizia, ha un limitato controllo della polizia giudiziaria. Peraltro, i problemi che derivano dalla collocazione del p.m. sono oggi, in quel paese, all’attenzione della pubblica opinione e si è avviata una discussione sulla riforma del P.M., anche alla luce di due durissime condanne della Corte Europea dei diritti dell’uomo (Moulin c. Francia del 2010 e Vasis c. Francia del 2013). Pur tra resistenze politiche manifestatesi dopo incriminazioni “eccellenti” avvenute anche in un recente passato, si tende a conferire al P.M. maggiore autonomia dall’Esecutivo.
Nel novembre 2013, ad esempio, è stato reso noto il rapporto della Commissione Ministeriale presieduta dal Procuratore Generale Onorario presso la Corte di Cassazione, Jean-Luis Nadal e composta anche da giudici, presidenti di Corte d’Appello e di Tribunale. Orbene, il rapporto, premessa la necessità di garantire l’indipendenza del Pubblico Ministero, ha sottolineato, innanzitutto, proprio la necessaria priorità della unificazione effettiva delle carriere dei giudici e dei P.M. (“Proposta n. 1: Iscrivere nella Costituzione il principio dell’unità della magistratura”), eliminando ogni ambiguità ed affidandone la completa gestione al Consiglio Superiore della Magistratura, senza interferenze dell’esecutivo. Ciò al fine di «garantire ai cittadini una giustizia indipendente, uguale per tutti e liberata da ogni sospetto». Dal luglio 2013, comunque, a seguito di una legge voluta dal Ministro della Giustizia pro tempore Christiane Taubira (poi dimessasi perché contraria alla “costituzionalizzazione dell’emergenza” antiterroristica), è vietato al Ministro della Giustizia di indirizzare ai pubblici ministeri linee guida in relazione a specifici casi concreti (ora, può solo formulare linee generali).È stato intanto presentato un progetto di riforma che prevede di rafforzare i poteri del CSM nella nomina dei procuratori (che allo stato è totalmente nelle mani dell’esecutivo), ma esso langue nel Parlamento francese;
· in Spagna, le carriere sono costituzionalmente separate senza possibilità di interscambio. Esiste una certa dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo;
· in Inghilterra e Galles, come si è già detto, non esiste il pubblico ministero nelle forme da noi tradizionalmente conosciute, ma il Crown Prosecution Service che consiglia la Polizia la quale ha da sempre l’iniziativa penale e può nominare un avvocato da cui far rappresentare le sue ragioni. Non è dunque corretto neppure quanto affermato dall’avv. Francesco Petrelli (Il Dubbio, 30 agosto 2023), secondo cui anche in Gran Bretagna il PM sarebbe separato dal Giudice;
· in Svizzera le carriere sono separate e non vi si accede mediante concorso, ma a seguito di elezione. L’esistenza di un ordinamento federale e di diversi ordinamenti statali e, dunque, di regole molto diverse tra loro, impedisce di approfondire il discorso in questa sede. Non è prevista alcuna forma di passaggio dalla carriera requirente e quella giudicante e viceversa;
· in Olanda, previa frequentazione di corsi di aggiornamento, è possibile passare dalla magistratura giudicante all’ufficio del p.m. (e viceversa), ma il PM è sottoposto alle direttive dell’esecutivo per l’esercizio discrezionale dell’azione penale;
· in Polonia, la riforma della Prokuratura del 2016 ha interrotto e invertito un percorso che era in atto dal 2009 e mirava ad un ufficio indipendente del PM: il ruolo del Ministro della Giustizia è stato riunificato con quello del Procuratore generale, in modo da accentrare nella stessa persona maggiori poteri di indagine ed intervento diretto in casi specifici pendenti presso le giurisdizioni. Una concentrazione di potere che ha comportato l’eliminazione di qualsiasi forma di indipendenza interna per i singoli procuratori. Ne ha parlato Maria Rosaria Guglielmi, in un importante articolo [[6]] in cui sono citate le osservazioni della Commissione di Venezia, le decisioni della Corte Edu e i rapporti della Commissione Europea sulle condizioni di dipendenza dal potere politico dei pubblici ministeri anche in Bulgaria e Romania, in un contesto di enorme pressione sui giudici. In Polonia, peraltro, il 19 gennaio 2024, il governo Tusk ha presentato una proposta legislativa per separare le funzioni del Procuratore Generale da quelle del Ministro della Giustizia, che invece erano state riunite sotto il precedente governo (con effetti evidenti sull'indipendenza): ciò fa parte dello sforzo di rimettere la Polonia sui binari dello Stato di diritto;
· l’ordinamento statunitense, pur se notoriamente molto diverso dal nostro, permette comunque riflessioni interessanti sul tema in esame: si divide in un sistema di giustizia federale, ove predomina la nomina da parte del Presidente degli Stati Uniti, ed un sistema di giustizia statale ove predomina il sistema elettorale. Orbene, pur in questa situazione di radicale differenza rispetto al nostro sistema, è possibile verificare la esistenza di una interscambiabilità tra i ruoli di giudici e pubblici ministeri che coinvolge anche l’avvocatura, dalla quale, come si sa, spesso provengono i pubblici ministeri e i giudici
Dunque, una riflessione può trarsi dall’analisi, pur sommaria, del panorama internazionale: ovunque la carriera del PM sia separata da quella del giudice, non solo il PM stesso dipende dall’esecutivo, ma esiste un giudice istruttore indipendente. Così è in Francia e Spagna ove il ruolo del pubblico ministero italiano è esercitato (non senza qualche occasione di polemica con i pubblici ministeri) dal giudice istruttore, figura da tempo soppressa nel nostro sistema. Evidentemente anche in quegli ordinamenti vi è necessità di un organo investigativo che sia totalmente indipendente dall’esecutivo.
6. La situazione in Portogallo
A questo punto, una situazione particolare che merita qualche precisazione è proprio quella del Portogallo (cui ha fatto riferimento nella citata intervista Paulo Sergio Pinto de Albuquerque) ove, sin dalla “Rivoluzione dei garofani” (1974), vige un sistema di separazione delle carriere tra giudicanti e requirenti, senza sottoposizione di questi ultimi al potere esecutivo. Orbene, questo sistema ha determinato esattamente, nel corso della sua pluridecennale applicazione, quel progressivo affievolimento della cultura giurisdizionale dei p.m., che è l’oggetto delle preoccupazioni della magistratura italiana. Ne ha parlato spesso, anche in Italia, un esperto magistrato portoghese, Antonio Cluny, dirigente di Medel, il quale ha spiegato che attorno alla fine degli anni ’80 – inizio anni ’90, proprio quando l’ufficio del P.M. ha iniziato a sviluppare un’attività giudiziaria indipendente e capace di mettere in crisi la tradizionale impunità del potere economico e politico, si sono levate “autorevoli” voci a mettere in dubbio la legittimità democratica dell’ufficio del fiscal (il nostro P.M.), la diversa natura di quest’organo rispetto al potere giudiziario, la possibilità dei titolari di dare direttive alla polizia criminale e la stessa possibilità di iniziativa autonoma nel promovimento dell’azione penale. Il dibattito in questione – ha dichiarato il magistrato portoghese – aveva determinato il rischio di dar vita ad un modello di privatizzazione dell’indagine, del processo penale e della giustizia penale, auspicato dalla parte più conservatrice dell’opinione pubblica e da una parte dell’avvocatura. Ma la separazione delle carriere, pur in un regime di indipendenza dall’esecutivo del P.M., ha prodotto in Portogallo una divisione nella cultura professionale dei giudici e dei magistrati del fiscal. I pubblici ministeri hanno sviluppato una tendenza pratica a valorizzare eccessivamente gli obiettivi della sicurezza a detrimento dei valori della giustizia, mentre i giudici hanno sviluppato un’attitudine formalista che li conduce spesso ad assumere una posizione di semplici arbitri, anche quando i casi loro sottoposti esigerebbero un loro diretto intervento ed impegno per il raggiungimento degli obiettivi di giustizia. È stata vanificata, dunque, l’originaria intenzione del legislatore di rafforzare le garanzie dei cittadini di fronte alla legge e si è compromessa l’efficacia del processo penale. Parallelamente, infine, si è sviluppata e si è progressivamente acuita una tendenza al pregiudizio corporativo che ha innescato pericolose tensioni tra giudici, magistrati del fiscal e avvocati.
Ecco dimostrate, dunque, la perversione della specializzazione, la frammentazione dei mestieri, la perdita della visione globale e coordinata della giurisdizione. Ma sono argomenti e sforzi di approfondimento del tutto ignorati dai separatisti che continuiamo a sollecitare.
Del resto, sarebbe sufficiente un’analisi anche superficiale della situazione internazionale o degli ordinamenti degli Stati più evoluti per verificare che la realtà è abbastanza diversa da quella che spesso sentiamo descrivere in Italia.
7. Le istituzioni europee guardano al sistema italiano come un modello da realizzare ovunque: le “passerelle” dalla funzione di PM quella dei giudici, e viceversa, fanno crescere le garanzie dei cittadini
Ma il prof. Paulo Sergio Pinto del Albuquerque, e non solo lui, sembra poi trascurare altri importanti aspetti dei principi sovranazionali affermati in Europa:
· il primo è costituito dalla Raccomandazione REC (2000)19 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sul “Ruolo del Pubblico Ministero nell’ordinamento penale”, adottata il 6 ottobre 2000, ove si prevede (al punto 18) che «…se l’ordinamento giuridico lo consente, gli Stati devono prendere provvedimenti concreti al fine di consentire ad una stessa persona di svolgere successivamente le funzioni di pubblico ministero e quelle di giudice, o viceversa. Tali cambiamenti di funzione possono intervenire solo su richiesta formale della persona interessata e nel rispetto delle garanzie».
Si afferma, inoltre, sempre nella Raccomandazione (parte “esposizione dei motivi”), che «La possibilità di “passerelle” tra le funzioni di giudice e quelle di Pubblico Ministero si basa sulla constatazione della complementarità dei mandati degli uni e degli altri, ma anche sulla similitudine delle garanzie che devono essere offerte in termini di qualifica, di competenza, di statuto. Ciò costituisce una garanzia anche per i membri dell’ufficio del pubblico ministero».
· È importante un altro documento, cioè il nuovo parere 9 (2014) del Consiglio Consultivo dei Procuratori Europei destinato al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, approvato a Roma il 17 dicembre 2014, avente ad oggetto “Norme e principi europei concernenti il Pubblico Ministero”, contenente la cosiddetta “Carta di Roma” ed una nota esplicativa dettagliata dei principi contenuti nella Carta stessa.
In questo importante documento, pur non essendo mai formalmente citate la necessità di unicità delle carriere di pubblici ministeri e giudici e la possibilità del conseguente interscambio di funzioni (implicitamente auspicate), sono con forza ribaditi tutti i principi che in tal senso depongono e che vengono qui illustrati.
· Ma va anche ricordata, in ordine al tema di cui qui si discute, la creazione della Procura Europea (EPPO) che, con sede in Lussemburgo, è entrata in funzione dal 1°giugno 2021, almeno per il momento è competente esclusivamente ad indagare e perseguire gli autori di reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione dinanzi alle ordinarie giurisdizioni nazionali degli Stati partecipanti e secondo le regole processuali di questi ultimi.
Si tratta di un’importante istituzione sovranazionale, utile per far meglio funzionare la collaborazione internazionale tra gli stati europei, ma anche con Eurojust ed Europol.
Orbene, è significativo che, anche per rendere omogenee le legislazioni europee in tema di giustizia, la normativa che riguarda l’EPPO impegna gli Stati Europei a bandire specifici interpelli ai rispettivi magistrati per diventarne componenti, prevedendo che questi ultimi possono esercitare – negli stati di provenienza – funzioni sia giudicanti che inquirenti: nell’ultimo interpello bandito in Italia, ad esempio., alla luce anche della normativa interna, vi sono stati vari giudici che hanno chiesto di diventare pubblici ministeri nell’EPPO.
8.Il silenzio colpevole dei “separatisti”
Rivolgendomi ora ai “separatisti”, più che a Paulo Sergio Pinto de Albuquerque, viene naturale domandare: “ma le conoscete le prospettive del Consiglio d’Europa, tra i cui scopi vi è quello di promuovere la democrazia ed i diritti umani? E lo sapete come è costituita la Procura Europea e quali sono le sue competenze e quelle di altri organismi sovranazionali?”.
E loro? Rispondono con il silenzio, incapaci di confutare o spiegare.
Ha scritto ancora Maria Rosaria Guglielmi [[7]]: «Nello spazio comune europeo, la garanzia di tutela dei diritti e dello Stato di diritto comporta una riduzione degli spazi di manovra autonomi per interventi strutturali che possano compromettere la capacità dei sistemi giudiziari nazionali di operare nella loro funzione di effettiva garanzia. La prospettiva europea è dunque la cartina di tornasole per valutare l’impatto e le ricadute di tutte le modifiche che incidono sulla qualità ed efficacia della giurisdizione. Ciò che oggi l’Europa ci chiede è valutare ogni riforma istituzionale alla luce dei principi dello Stato di diritto, come insieme dei valori non negoziabili che sono a fondamento dell’Unione: fra questi, l’indipendenza dei sistemi giudiziari e degli attori della giurisdizione, che deve garantire l’effettiva tutela dei diritti e dei singoli contro ogni arbitrio del potere».
E, al di là dell’EPPO, negli ultimi anni sono stati compiuti in Europa altri passi concreti verso la realizzazione di un’effettiva rete di cooperazione giudiziaria nel campo criminale. Sono stati infatti costituiti organismi di polizia, amministrativi e giudiziari di indubbia importanza (Europol, Rete giudiziaria europea e relativi “punti di contatto” tra le autorità giudiziarie degli Stati membri dell’Unione, magistrati di collegamento, Olaf nel settore antifrode, Eurojust, Corte Penale internazionale permanente) ed è noto che si discute della creazione di un vero e proprio Corpus Juris che dovrebbe dar vita ad un diritto penale sostanziale minimo, comune a tutti gli Stati membri.
In questa prospettiva, come ha ricordato Ignazio Juan Patrone, già presidente di Medel, si pone in tutta la sua evidenza, non solo per l’Italia, il problema della garanzia di indipendenza che dovrà essere riconosciuta ai magistrati che, a vario livello, esercitano ed eserciteranno la funzione di P.M. in tutti gli organismi giudiziari sovranazionali ed internazionali che sono stati rapidamente (ed un po’tumultuosamente) creati nel corso del decennio scorso o di cui – in altri casi – ancora si discute.
Orbene, valutando il “senso di marcia” della evoluzione in atto, i poteri di ingerenza nelle funzioni giudiziarie di indagine che inevitabilmente saranno attribuiti agli organismi internazionali, i loro compiti di coordinamento, di impulso ed iniziativa rispetto agli organi inquirenti nazionali ed in settori criminali di indubbio ed oggettivo rilievo, appare evidente che la preservazione del nostro attuale assetto ordinamentale potrà garantire la presenza in quegli organismi di magistrati italiani indipendenti dall’esecutivo ed animati da quella cultura giurisdizionale di cui si è fin qui più volte parlato per dimostrare che non è certo una formula vuota.
9. L’impegno contro questa riforma? Testimonianza di dignità e coerenza
Una cultura e un modello costituzionale ed ordinamentale che, invece, nel nostro Paese viene ciclicamente messo in discussione – quasi mai per buone ragioni – nonostante gli eccezionali risultati conseguiti nel contrasto di terrorismo, mafia, corruzione ed ogni alto tipo di grave reato e che l’Italia, invidiata per questo nel contesto internazionale, dovrebbe invece preoccuparsi di diffondere nel resto di Europa.
Ci sarebbe molto altro di cui parlare a proposito dei rischi derivanti dalla separazione delle carriere: ad esempio, del possibile netto vanificarsi del principio di obbligatorietà dell’azione penale da parte del PM che rischierà di trasformarsi in un organo amministrativo, della bulimia legislativa che determina una pioggia di interventi di Governo e Parlamento in cui anche gli accademici hanno difficoltà ad orientarsi, delle politiche in tema di immigrazione e sicurezza, della discussione in corso sugli “scudi” da creare con legge per le forze dell’ordine alla faccia del principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, e di tanto altro ancora.
Mi fermo qui, scusandomi per la lunghezza di questo intervento: ma devo anche riprendere a studiare – con approfondimenti – i primi anni della carriera di Bob Dylan, visto che dal 23 gennaio dovremo preoccuparci di vedere nelle sale A complete unknown (parole tratte da una strofa di “Like a rolling stone”).
Perché ho citato Dylan? Per affidarvi un appello in nome della dignità. Eccolo:
Dignity
(versione originale completa in The best of Bob Dylan - Vol. 2 del 2000)
Il grasso la cerca in una lama d’acciaio,
il magro la cerca nel suo ultimo pasto,
un guscio d’uomo la cerca in un campo di cotone,
la dignità.
Il saggio la cerca in un filo d’erba,
il giovane la cerca nelle ombre che passano,
il povero cerca di scorgerla oltre un vetro dipinto,
la dignità.
Ho cercato in lungo, ho cercato in largo,
ho cercato dovunque sapevo,
ho chiesto ai poliziotti dovunque andavo,
avete visto la dignità?
Non ho un posto dove sparire, non possiedo un cappotto,
in mezzo a un fiume burrascoso, su una barca che non sta ferma,
sto cercando di leggere un biglietto lasciato da qualcuno
sulla dignità.
Mi hanno fatto vedere una foto e mi sono messo a ridere,
la dignità non si è mai fatta fotografare.
Ho avuto conti in rosso e conti in pari,
sono stato nella valle dei sogni fatti d’ossa lasciate a disseccare.
Quante strade, quanto in gioco,
quanti vicoli ciechi, io sono in riva al lago,
qualche volte mi chiedo cosa mai ci vuole
per trovare la dignità.
Le parole di Dylan potrebbero riguardare tutti noi: insomma non è più tempo di compromessi e di quietismi. È tempo di testimoniare la propria dignità e coerenza, secondo la propria sensibilità e coscienza!
Sul tema si leggano anche: Audizione di Claudio Castelli in materia di separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura, L'audizione di Armando Spataro alla Camera dei Deputati del 25 gennaio 2024 sulla separazione delle carriere dei magistrati, Collegialità del giudice della misura cautelare e separazione delle carriere: due tasselli di uno stesso mosaico di Costantino De Robbio, Mozione sul d.d.l. costituzionale in materia di separazione delle carriere, Separazione delle carriere a Costituzione invariata. Problemi applicativi dell’art. 12 della legge n. 71 del 2022 di Pasquale Serrao d’Aquino, La separazione della carriera dei magistrati: la proposta di riforma e il referendum di Paola Filippi, La separazione delle carriere dei magistrati: una proposta di riforma anacronistica ed inutile di Armando Spataro, La separazione delle carriere dei magistrati? una riforma da evitare di Armando Spataro, La mafia si combatte con investimenti tecnologici, non con la separazione delle carriere di Maurizio De Lucia, Separazione delle funzioni dei magistrati vs. celerità dei processi e tutela dei diritti. Intervista di Marta Agostini al prof. David Brunelli; Una riforma che porterà il pm sotto l’esecutivo di Ernesto Carbone, Riforme e assetto costituzionale della magistratura di Giuseppe Santalucia, Separare... cosa? di Marcello Basilico,
[1]. MicroMega n. 1/2003.
[2]. La parte che segue è in buona parte tratta dal libro “Loro dicono, noi diciamo” (Laterza, 2024) di cui sono co-autori i professori Gustavo Zagrebelsky (sul “premierato”), Francesco Pallante (sull’“autonomia regionale”) ed Armando Spataro (sulla “giustizia”).
[3]. Dichiarazioni rese nel corso del Taormina Book Festival (La Stampa, 23.6.2024)
[4]. Intervista pubblicata il 3 luglio 2016 su Il Giornale di Sicilia.
[5]. Roma, 11 settembre 2023 – Confronto organizzato dall’ANM - Sezione Autonoma dei Magistrati a riposo.
[6] Un pubblico ministero “finalmente separato”? Una scelta per poco o per nulla consapevole della posta in gioco. E l’Europa ce lo dimostra (Questione Giustizia, 27/07/2023);
[7]. Art. citato.
Potere, arte, cultura: una conversazione con Andrea Segre
di Marco Dell’Utri
L’incontro con il regista de La grande ambizione diviene l’occasione per una conversazione a trecentosessanta gradi sul cinema, sul racconto del potere e delle sue ramificazioni e articolazioni. Un dialogo sulla funzione politica dell’arte, sulla creatività della nostalgia e sullo smarrimento del senso dell’umanità della vita. Nel discorso che tocca i temi della tecnica cinematografica si insinua, improvviso, il richiamo alla ‘magia’ del cinema, così come al mistero che anima il risveglio delle energie collettive e l’urgenza di riscoprire il significato e il valore di ciò che è autenticamente ‘popolare’. La vicenda affrontata nel film su Berlinguer diviene quindi l’occasione, non solo per la rievocazione di un periodo storico e di una stagione ricchissima per la storia civile e culturale del nostro paese, ma anche - come un contrappunto - per un’analisi dello stato della politica e della cultura contemporanee. Transfemminismo, climate change, consumismo, pacifismo, populismo, antipatriarcato, razzismo e fascismo divengono, in rapida sintesi, i punti attorno ai quali si annodano i fili di un discorso politico; i titoli o i capitoli di un libro che al lettore curioso è richiesto, nella serena clausura della sua meditazione, di cominciare a scrivere.
Raggiungo Andrea Segre mentre è all’estero, impegnato nella presentazione di un suo documentario (Molecole) di alcuni anni fa.
Un appuntamento non facile da definire: il successo de La grande ambizione ha imposto ad Andrea ritmi serratissimi tra viaggi e spostamenti per la promozione.
E iniziamo col parlare di quello.
AS - Quando c'è un impatto pubblico ampio si finisce per essere un po’ attanagliati, però d'altronde si fanno i film anche per quello.
MD - È la tua prima volta a questo livello di pubblico?
AS - Questi numeri non li ho mai toccati. Anche gli altri film hanno sempre avuto un pubblico. Per quanto non sia ovviamente solo una questione di quantità, anche gli altri film, pur non avendo raggiunto questi numeri, avevano comunque sempre avuto un pubblico. Il massimo raggiunto dagli altri film era stato 100.000 spettatori, 500.000 non era mai capitato
MD - Considerato che sei anche uno scrittore, hai sospeso tutto…
AS - Mi piace molto scrivere; mia mamma era molto preoccupata da piccolo perché pensava che io fossi grafomane. Il tempo della scrittura è un tempo veramente e profondamente ‘antimoderno' e ha necessariamente bisogno di una sospensione.
MD - Ultimamente ho avuto modo di rivedere L'ordine delle cose e Welcome Venice: mi sono sembrati film abbastanza diversi da La grande ambizione e ti volevo chiedere se ci fosse un legame, un filo logico tra i tuoi film, o se invece appartengono ad esperienze tra loro autonome.
AD - Sono abbastanza diversi da quale punto di vista, secondo te? Secondo me hanno tanti elementi che li uniscono, benché ‘Berlinguer’ abbia avuto un suo specifico processo produttivo e una sua relazione con la storia. Tuttavia, il loro nucleo profondo consiste nell’osservare come le persone che vivono schiacciate da meccanismi di potere più forti di loro si relazionano con quei meccanismi, come riescono a conciliare il rapporto tra l'intimo e il politico, perché in fondo anche Berlinguer e il suo popolo vivono un profondo schiacciamento delle loro libertà. Poi c'è chi dice - ed è comprensibile - che fosse necessario bloccare quel progetto di cambiamento perché il rischio che l'Italia potesse finire sotto l’influenza di Mosca era più alto, per cui andava bloccato tutto. Tutto questo ha un suo perché.
MD - Dunque, si può dire che il cuore (o, in ogni caso, la nota ricorrente) del tuo cinema è il rapporto con il potere?
AS - Tu vorresti che il rapporto con un potere che influisce così tanto sulla tua vita fosse qualcos'altro, che la tua vita potesse dire o raggiungere qualcos'altro. Ma quel potere te lo impedisce e tu provi anche a reagire, ma fai molta fatica a contraddirlo. Il funzionario de L’ordine delle cose è chiamato a far funzionare il potere (ovviamente), ma lui capisce che le cose non vanno, che non è bello. Il pescatore di Welcome Venice non sa neanche perché rifiuta il potere che lo sta schiacciando (cioè sa perché, nella misura in cui non sa dove altro cercare un senso alla propria vita), però d'altra parte capisce anche che il fratello che lo contrasta ha un motivo, ha un perché nello stare dentro quel potere economico: non lo fa per cattiveria, lo fa perché funziona così, perché quella casa paterna piena di umidità, puzza di pesce e sofferenza, d’improvviso è diventata la chance di un business. E allora, perché fermarsi? Berlinguer sa che il potere non gli permetterà di realizzare la trasformazione socialista della società - come lui vorrebbe e come tantissime persone lo spingono a fare. Però non si ferma e s’inventa addirittura il compromesso storico che è un profondo tentativo di dialogo con il potere, fino all’iper-potenza (purtroppo non modificabile) che si rivela in occasione dell'uccisione di Moro. A me interessa molto come stanno gli esseri umani che sono incastrati lì dentro, che capiscono quanto sia sbagliata quell'iperpotenza, e che si interrogano sulle possibilità di modificarla. Allora ci rimangono dentro e, mentre ci rimangono dentro, esprimono una contropotenza, producono delle trasformazioni contro quelle potenze pur facendo un’enorme fatica a produrle in maniera strutturale.
MD - La tua analisi delle dinamiche del potere, di queste microfisiche del potere e delle controreazioni che innesca, è molto foucaultiana. In questo senso, secondo me, il tuo cinema è un cinema autenticamente ‘politico’.
AS - Puoi immaginare come si sia sentito Berlinguer quando ha visto le immagini del bombardamento sulla Moneda a Santiago del Cile?
MD - Non c'è dubbio.
AS - Credo che il ragionamento di Berlinguer sia stato molto chiaro: cosa posso fare io? Se continuo a sostenere una politica democratica realmente progressista; se continuo a far crescere il mio potere elettorale; se conquisto (come penso che sia possibile) la maggioranza delle classi medio-basse del paese e arrivo al 50% mi bombardano. Oppure mi ammazzano in un incidente stradale.
MD - Come peraltro si è tentato di far succedere… Insomma, è chiara la prospettiva politica del tuo cinema. Voglio però rispondere alla tua domanda sul perché mi è sembrato che La grande ambizione fosse un film diverso dai due precedenti. Ne L’ordine delle cose e in Welcome Venice mi è parso dominante il sentimento della perdita del senso di umanità (e, verosimilmente, credo ci sia un nesso significativo con la tua impostazione sul potere). Ne L'ordine delle cose, quel funzionario un po’ nevrotico (molte delle tue inquadrature si soffermano sulle sue manie di mettere a posto le cose, appunto ‘in ordine’, come in quel dettaglio della collezione di boccettine) sembra a un certo punto percepire (grazie all’incontro con gli occhi di una giovane migrante) gli automatismi che lo muovono nel gestire l’immigrazione di esseri umani come una qualunque operazione di import-export: e tuttavia, alla fine rinuncia a farsi travolgere da quel sentimento d’affetto (o di solidarietà) profondo e antico. In Welcome Venice, si avverte, nel pescatore, il fatto che la perdita del suo lavoro corrisponde allo smarrimento della sua unica dimensione aggregativa, sociale, ma soprattutto familiare: tu stesso racconti come, attraverso quella trasmissione generazionale di tecniche imparate dal fratello più grande e tramandate al nipote, il pescatore riesca a riallacciare in qualche modo i rapporti con la figlia che erano stati violentemente interrotti nel passato. Insomma, questo sentimento della perdita del senso di un mondo a misura d’uomo ha una sua potente dimensione nostalgica… come si avverte anche nella lingua veneta, che tu conservi nei dialoghi sottotitolati.
AS - Io credo molto nella potenza creativa della nostalgia.
MD - Infatti, mi domandavo se, rispetto a quei due primi film, la riproposizione della storia de La grande ambizione non abbia viceversa costituito, al di là della sua dimensione nostalgica, la ricerca di un rapporto più 'costruttivo’ con la realtà rispetto a quei precedenti.
AS - In effetti, attraverso la proiezione nelle sale de La grande ambizione abbiamo agganciato un'energia che è andata certamente oltre il nostro controllo. Il fatto di 150.000 ventenni che sono venuti a vedere il film era veramente il sogno più alto che uno potesse avere. Io avevo fatto vedere il film a dei ventenni mentre lo montavo: speravo che interagisse con loro, che lo capissero, ma che il film potesse generare una nostalgia creativa in dei ragazzi era veramente una cosa che, se l'avessi programmata, non l’avrei fatta così bene. Sono quelle cose che il cinema fa senza che tu le capisca fino in fondo. Quello che è successo, e che sta succedendo nel rapporto con i giovani, io lo ricollego a quello che io stesso ho sentito mentre studiavo questa storia: io avvertivo che questa vicenda mi parlava dell'oggi, di una mancanza, di una voglia, mi parlava di urgenze a cui non sappiamo più come rispondere, ed è quello che mi mandava avanti. Però non ho programmato di fare un film affinché i ragazzi potessero trarre energia politica da questo film. Non l’ho programmato, ma è successo. Perché il cinema ha la potenza di far succedere delle cose. Poi, se vai a vedere, probabilmente è successo perché io sentivo quelle cose e quindi ho scelto delle immagini che corrispondevano a questo sentire. Non so esattamente qual è l'immagine che è riuscita a far nascere questo tipo di emozione e di energie che poi il film ha scatenato.
MD - È possibile che possa dipendere dalla figura storica di Berlinguer?
AS - È certamente possibile che sia la figura di Berlinguer o il paragone con le figure della politica di oggi. Tuttavia, questa mi appare una spiegazione superficiale: non bastava questo per arrivare a queste cifre. 500.000 sono tante; considera che se ne aggiungono 5-6.000 al giorno, per cui arriveremo a 600/700.000 persone. Questo vuol dire uno su 100. È tanto. È una cifra veramente consistente, soprattutto perché non sono click da tastiera: sono esseri umani che vanno in sala, è molto diverso. È probabile, quindi, che tutto sia dovuto alla combinazione tra la figura di Berlinguer, la potenza creativa straordinaria di Elio (Germano), e però anche l'interazione con i volti, i primi piani del repertorio. Quello credo che abbia avuto una sua specifica potenza. Portarti con gli attori e con un attento lavoro di ricostruzione cinematografica dentro a un mondo, e poi ritrovare lì le facce vere di chi ti guarda e ti dice come stava. Questo forse ha creato questa connessione.
MD - Lì, dal punto di vista tecnico, c’è anche la tua esperienza di documentarista.
AS - Sì. Adesso ancora non lo so. Ma dovrò rivedere il film fra due o tre mesi per capire. Perché quando, dopo due o tre mesi, rivedi quello che hai fatto, allora capisci cosa è successo. Però una cosa su cui ho sempre istintivamente portato la mia attenzione è su cosa dicono gli occhi e i volti delle persone quando stanno zitte, e quelle persone per me sono sia attori che non-attori. Anzi, più sono non-attori, meglio è; perché così non stanno controllando e non stanno filtrando. Gli attori più potenti per me sono quelli che sembra non facciano niente, mentre invece fanno tutto; quelli che, pur sottraendo tutto, hanno un pensiero talmente denso che ti arriva senza usare la faccia per dirtelo. Questo per me è potente; è quello che succede alle persone normali quando agganciano la dimensione cinematografica in maniera inconsapevole; sono i protagonisti dei documentari, che non si difendono dalla telecamera come facciamo noi diventando imbarazzati o falsi.
MD - Maschere…
AS - Si. Sciolgono quelle maschere per una magia che è legata al cinema e che io aiuto nella mia interazione, ovviamente, ma non so esattamente come si crea, non c'è regola precisa con cui si crea, però so sentire quando una persona perde la maschera e vedo nei suoi occhi quello che sta pensando della sua vita. In quel momento io lo vedo immediatamente, torno dalle riprese e dico al montatore «è successo!». E il montatore lo trova, è una cosa che senti sulla pelle.
MD - Un fatto intuitivo.
AD - Questo accesso intuitivo alla profondità è quello che il grandissimo attore sa costruire e che il documentario ti permette di incontrare in maniera magica e imprevedibile. Ma soltanto quando l'hai incontrata il documentario diventa cinema, è quello che in fondo ho cercato nei materiali d'archivio, cioè riguardando i volti dei materiali di archivio insieme a Jacopo Quadri. Noi ci siamo emozionati lì dove non c'era la maschera ma c'erano le persone che ti dicevano perché erano contente o erano tristi di far parte di quell'ideale. E questo è un aggancio emotivo diretto tra individuo e politica che è quello che manca ai ragazzi.
MD - Intendi i ragazzi di oggi?
AS - L’altro giorno ero in piazza a vedere la manifestazione per la Palestina; era piena di ragazzini di vent’anni con bandiere con falce e martello di otto partiti comunisti diversi.
MD - La sensazione è l’insufficienza di un’analisi (come si diceva una volta...), il difetto di una coscienza.
AS - In questo caso sì. Ma anche in questa frase che hai appena detto - e che io condivido - stiamo un po’ tarpando le ali a una cosa che invece costituisce un'espressione importante, una cosa assolutamente nuova che, seppure consideriamo un po’ debole, non è così debole. Nelle due grandi espressioni dei movimenti giovanili di oggi - il climate change e il transfemminismo - c'è una potenza creativa nuova che non esisteva negli anni ’70, perché il femminismo non era ‘transfemminismo’ e non era questione di genere legata a un'identità variabile, ma era un antipatriarcato puro. Chiaramente il transfemminismo di oggi è figlio del femminismo degli anni ’70, così come il movimento contro il climate change è figlio dell'ambientalismo degli anni ’80. Però si avvertono gli elementi di rapporto con l’identità e con il futuro completamente diversi. Questi ragazzi hanno un rapporto nuovo con la volontà di rendere politica la libertà di genere, difficile da ritrovare negli anni ’70; e una volontà di ricollegare la frustrazione di questa libertà ai meccanismi di potere economico. Individuano nel capitale ciò che produce la mancanza di questa libertà e combattono quello che il capitale ha fatto fino ad ora, ossia fingere che il capitale assicuri la libertà di genere attraverso la società dello spettacolo. In alcuni pride c'è ancora questo abbaglio, c'è ancora la Coca-Cola che ti sponsorizza per fare il tuo ballo in libertà. Invece, in Non Una di Meno e nei pride più consapevoli questa falsità è smascherata e raccontata molto bene; nel movimento contro il climate change invece c'è il rapporto con la certezza di un’assenza di futuro che trasforma radicalmente il pensiero politico e che è proprio l'opposto del Sol dell'avvenire.
MD - Siamo in ogni caso dentro la logica del consumo come idea generale: del consumo dei prodotti dell’industria come quello delle risorse fisiche disponibili. A distanza di oltre cent’anni siamo sempre dentro le logiche della volontà di potenza…
AS - Ci sono dei collegamenti. Quello che non ha avuto un suo sviluppo, perché schiacciato dalla violenza devastante del potere, è il pacifismo, rimasto incastrato dentro al conflitto bellico. I movimento pro Pal non fanno pacifismo, per esempio, per quanto io ovviamente capisca bene i motivi della rabbia dei pro Pal.
MD - Si tratta di una rabbia che sembra esprimersi rinnovando le ragioni del conflitto.
AS - Rispetto al mondo di oggi, la guerra fredda, in confronto, è una passeggiata.
MD - La minaccia incombente, non realizzata, trattiene. Oggi, invece, la violenza si agisce, non si minaccia.
AS - Dovrebbe succedere qualcosa che riesca a riaccendere la potenza del pacifismo. È l'unica cosa che può cambiare l'ordine della potenza bellica di questo momento. È la prima volta che tutti i parlamenti di tutte le democrazie occidentali votano senza nessun problema l’aumento del budget bellico per la produzione di armi.
MD - Se non capisco male, Andrea, mi sembra che proprio il congelamento della passione politica - soprattutto nella gran parte delle generazioni più giovani a partire dagli anni ‘80 e ’90 - abbia costituito l’innesco per il recupero degli anni ’70. È possibile affermare che il film su Berlinguer sia anche il film su una società politicamente più appassionata?
AS - Sì. In realtà, dentro agli anni ‘70 del PCI (ma non agli anni ‘70 del Movimento, che è un altro pezzo enorme degli anni ’70) io ho sentito la connessione fra tre mancanze autentiche dell'oggi; cioè fra tre elementi che oggi non si connettono: la comunità, l’ideale e l'organizzazione. Oggi possiamo avere degli ideali, ma non riusciamo a renderli veramente unitari in una comunità ampia; diventano ideali frammentari. Dall'altra parte, anche se questa comunità cresce, si mantiene separata dalla dimensione dell’organizzazione politica e non sa come influire sul mondo. Questo mi ha interessato molto, non la celebrazione di Berlinguer e del PCI in sé.
MD - Questo mi pare fosse abbastanza chiaro. Tuttavia, il richiamo a quel periodo è pur sempre la rievocazione di un’esperienza di sconfitta: alla fine, il potere (l’iper-potere come dici tu) è sempre più potente delle realtà più piccole e frammentate. Mi domando dove il tuo film pensi di individuare le fonti di energia per tornare a imboccare la strada di un’alternativa, o di più alternative.
AS - Io penso che il racconto degli sconfitti del potere - che però sono consapevoli della violenza e che tentano una reazione, per poi essere ancora una volta bloccati - contribuisca a nutrire il potenziale di reazione di chi subisce il potere senza rinunciare a produrre comunque qualche cambiamento. Il fatto che esistano delle energie di opposizione alle clausure del razzismo e della discriminazione, costantemente perseguiti dalle politiche migratorie, ha intanto salvato la vita a tante persone e riesce a costituire spesso un ostacolo alle cadute peggiori. Si tratta di dinamiche del potere che esistono dalla comparsa dell’uomo in poi.
MD - Quando parli del racconto come antidoto, del racconto delle esperienze di sconfitta come testimonianza dovuta dai contemporanei, mi ricordi Walter Benjamin: la necessità, da lui raccomandata, di contrastare la giurisprudenza dei vincitori, la sua evocazione del simbolo dell’Angelus Novus di Paul Klee, l’Angelo della Storia con il viso rivolto alle rovine del passato nell’atto di ricomporre l’infranto, eppure irresistibilmente attratto dalla tempesta (la ‘tempesta del progresso’) che spira dal paradiso. Benjamin e Foucault sono riserve di pensiero politico che hanno attraversato il Novecento, ma che ancora appaiono capaci di enorme ispirazione.
AS - Del resto, anche il PCI in quegli anni produsse una pressione sociale capace di ottenere miglioramenti: non è che quella storia non abbia ottenuto niente.
MD - Al contrario direi: probabilmente la stagione degli anni ‘70 ha coinciso con una parentesi politica in cui, per la prima volta, la Costituzione ha trovato una sua realizzazione concreta. Penso allo statuto dei lavoratori, all’introduzione del divorzio, alla riforma della famiglia, all’aborto, alla riscrittura del governo della scuola in senso partecipativo, al servizio sanitario pubblico, alla riforma delle carceri e all’abolizione degli ospedali psichiatrici, insomma alle grandi conquiste politiche e civili di quegli anni straordinari. Tutto questo mi fa pensare che solo la passione politica - come forma di energia collettiva - è in grado di concepire e realizzare concretamente conquiste autenticamente ‘popolari’, utili alla gente.
AS - Stavo arrivando proprio al termine popolare: il vero punto è che in fondo quello che io racconto è sempre il popolo, cioè il soggetto passivo del potere, tendenzialmente è la classe privilegiata (il cardinale/il re/il grande imprenditore) che tende a passivizzare il suddito/cliente/consumatore e a fargli credere che stando con lui starà meglio.
MD - Sono tecniche antiche…
AS - Nel momento in cui esistono dei movimenti, delle pressioni al cambiamento che invertono questo rapporto e dicono al popolo «no, non devi accettarlo, perché hai altri diritti, altri spazi, altre possibilità, altre felicità», questo produce dei cambiamenti strutturali potenti. Per fare questo ci vogliono convergenze, figure, idee, organizzazioni veramente forti.
MD - Pensi che all’arte spetti questo compito, questo racconto, questa sollecitazione?
AS - L’arte può collaborare. Svelare la sudditanza del popolo e dire che il popolo ha il diritto di prendersi dei diritti anche attraverso la consapevolezza della fatica di rovesciare il potere; credo che l’arte possa aiutare a dire questo. In questo senso, il termine popolare è veramente un termine importantissimo. Quando Berlinguer parla delle «masse popolari» intende questo. «L’alleanza tra le masse popolari» è il sovvertimento dell’ordine delle cose.
MD - Siamo all’esatto contrario del populismo: un sottile crinale che fa una differenza enorme: dove il popolo, da soggetto della trasformazione, ne diviene propriamente l’oggetto.
AS - Qui bisogna fare attenzione: il termine ‘populismo’ viene utilizzato (infiltrato) dal potere per sminuire il ruolo del popolo. La conseguenza delle denunce del populismo facilmente si traduce nell’affermazione secondo cui il popolo è scemo e noi intellettuali di sinistra - utilizziamo pure questa categoria…
MD - …logora…
AS - … sì, logora - cadiamo nel rischio istintivo di dire «quelli che votano Trump sono scemi» perché lui è un populista e usa il popolo come oggetto passivo e loro gli vanno dietro. Tendenzialmente poi il popolo si sente autorizzato a votare Trump e ad essere scemo. Il termine ‘popolare’ sta ricrescendo molto in Francia, ad esempio. Facendo una ricerca per il nuovo documentario che sto pensando di fare ho visto che questo termine (l’azione popolare, l’ecologia popolare, la giustizia popolare, il movimento popolare per le case, il Nuovo Fronte Popolare) sta ritornando con un suo valore e credo che sia molto importante farlo ritornare perché è l’unico vero modo per dire che è lì, in quelli che oggi pensiamo si stiano facendo fregare, che stanno tutte le energie necessarie, non possono stare soltanto nei salotti, nelle università o nelle case dei registi.
MD - Questo è il grande problema: trattiamo, anche qui, temi importanti e delicati entrando in un dialogo utile anche con riferimenti essenziali della nostra storia culturale (Foucault, Benjamin, Klee); e questo, in forme che possono apparire anche molto autoreferenziali (l’intellettuale di sinistra, il radical chic… secondo l’intollerabile linguaggio che gira intorno): non lo vedi il rischio che l’arte e la cultura continuino a rimanere inaccessibili alla maggior parte del popolo? O, addirittura, un interesse specifico a lasciare che il popolo rimanga lontano da una comunicazione artistica o culturale che non sia di mera evasione o di consumo?
AS - Ci sono alcuni segnali di contrasto. Uno su cento inizia a essere popolo. Anche altri segnali come, ad esempio, un film intelligente come Il ragazzo dai pantaloni rosa, ma anche l’exploit dei film di Cortellesi o di Garrone. Comunque c’è una volontà, uno spazio per un cinema, diciamo, di attenzione civile che pone delle domande, che, nel mio caso, è cinema politico e negli altri due casi lo sfiora; un cinema che dice «attenzione, che nel popolo c’è un desiderio di essere attraversati da una consapevolezza e da una voglia di attivazione finora sopite». Ricordiamoci che il 40% delle persone non va a votare. C’è un pezzo molto grande di addormentamento, che tuttavia rimane in attesa. E poi si articola in varie esperienze di piccole comunità frammentate che non si organizzano per diventare politica. Io giro l’Italia con grande piacere con i miei film e in ogni città trovo sempre delle comunità che si organizzano, che tentano un’azione. E queste comunità non sono borghesi.
MD - Se le energie popolari intercettate dal cinema (dall’arte o, comunque, dalla cultura) non riescono a trovare uno sbocco politico in una proposta organica, la responsabilità storica della sinistra è enorme. Comincio a pensare che l’idea che vengano distrutti sistematicamente progetti politici di emancipazione non sia tanto un caso: non sarà che c’è qualcosa che lo rende inevitabile?
AS - Sicuramente la sinistra ha rinunciato a essere autenticamente popolare. Anche il solo fatto che abbiano chiuso più di seimila case del popolo è una follia. Perché l’hanno fatto?
MD - Se non ricordo male quel tuo funzionario che andava in Libia a trattare sull’immigrazione era un funzionario di un governo di sinistra, non era forse la sinistra che pagava la Libia per tenersi la gente?
AS - In quel caso era la sinistra, ma lo hanno fatto tutti. Quando lo ha fatto Minniti erano tutti contenti, perché così si fermava la destra facendo una cosa più cattiva della destra.
MD - Questa è la strada che porta alla distruzione.
AS - Varie persone mi dicevano «perché hai fatto un film contro Minniti?», ma io ho iniziato a farlo ben prima, ho iniziato a scriverlo nel 2014 ed è uscito nel 2017.
MD - In realtà, poi, un film, come qualsiasi opera d’arte, non è mai un resoconto di quello che succede.
AS - Però uscì in contemporanea a quei fatti di cronaca.
MD - Sembrava fatto apposta…
AS - La gente ha pensato che fosse fatto apposta per attaccare Minniti, e anche gente, diciamo, di sinistra mi diceva «ma perché hai fatto un film contro Minniti proprio adesso? L’unica possibilità per fermare la destra…», questo era il ragionamento. Se arrivi a questo punto sei veramente disperato, se arrivi a pensare che mettersi d’accordo con le milizie che ammazzano le persone nei lager è il modo per fermare la destra stai proprio lontanissimo.
MD - Sono quelle idee che lasciano pensare all’UR-fascismo, al ‘fascismo oggettivo’ che va al di là del fascismo storico, di cui parlava Umberto Eco. E che mi pare taglino trasversalmente la destra e la sinistra politica. A me sembra che dietro questi rigurgiti di fascismo (nel rifiuto, in forme anche violente, del cambiamento, della diversità) ci sia un grande rimosso, che solo apparentemente è privato o domestico. Si tratta del rimosso della donna come figurazione della disfunzionalità, della distruzione, della destabilizzazione. Il fatto che la donna pretenda di sottrarsi ai vincoli dei suoi ruoli antichi di madre, moglie e custode del focolare domestico, sembra generare un rifiuto (quasi) istintivo, non sempre consapevole, ma realissimo. Niente aborto, ma anche - contraddittoriamente - niente lavoro possibile per le donne-madri: la società competitiva è inadatta a qualunque inserimento sociale decente della donna. Non parliamo dell’intolleranza nei confronti dell’omosessualità (come si scorge con evidenza nel rifiuto di farne la radice di un progetto di comunità familiare) o dei percorsi di transizione di genere. Mi sembra che al fondo di questa sotterranea (ma riconoscibile) ostilità all’abbandono della famiglia classica vi sia un grande rimosso. La società sembra accettare con riluttanza (quasi con un senso tragico) l’idea che la donna (simbolo antropologico della diversità) possa condividere con l’uomo una nuova idea di soggettività (mi pare che il recentissimo Conclave di Edward Berger - altro regista degli anni ’70 - abbia còlto con una certa precisione questo aspetto). Copernico ha tolto all’umanità la centralità nell’universo; Darwin, la centralità tra le specie animali; Freud la centralità della coscienza. Prima che l’intelligenza artificiale compia la sua quarta rivoluzione, la crisi sembra attraversare l’umanità al suo interno, nell’ultima resistenza del maschio all’idea di non essere più padrone in casa sua. Si tratta cambiamenti antropologici profondissimi e radicali: non pensi che anche il rifiuto di questo cambiamento, la conservazione della società patriarcale (l’ultimo disperato tentativo di salvare qualcosa di un’identità morente), sia uno degli elementi psicologici più profondi di questo ritorno dell’UR-fascismo?
AS - Ci sono delle cose che riconosco. Forse sono ottimista nel vedere la potenza modificante della nuova generazione. E tu dirai: «ma cosa stai dicendo, Giulia Cecchettin è di una nuova generazione ed è stata uccisa dal fidanzato!». Però mi sembra che questo rapporto uomo-donna, che conferma certamente una direzione di presenza di fascismo e di patriarcato dentro alla famiglia e alla società, non abbia spazio dentro alla generazione di mia figlia che ha vent’anni. Mi sembra veramente impossibile che abbia spazio dentro di loro, però forse è un mio ottimismo. È talmente tanto potente la loro necessità di sentire riconosciuta come inestricabile la mia libertà di essere quello che voglio da un punto di vista anche sessuale e di genere che non capisco come possa attecchire questo fascismo maschilista di cui tu parli.
MD - Tuttavia, le proposte politiche di conservazione culturale (non voglio parlare sempre di fascismo) sembrano riscuotere enormi consensi un po’ dappertutto, non solo in Italia: pensa alla Germania, alla Francia, agli Stati Uniti.
AS - Sì, ma non per questa questione, ma per la paura dell’altro.
MD - Ma non si tratta sempre - quanto all’immigrato, allo straniero, così come al disabile, all’omosessuale - di altre figure della diversità, che la donna, da sempre, rappresenta antropologicamente?
AS - In realtà, io credo che sia stata la potenza del movimento dei popoli a fornire occasioni e nuove energie ai fascisti. Quando io presentai il mio primo progetto di documentario sulla Libia in Rai mi dissero: capiamo la tua emozione per questa povera gente, ma è una cosa temporanea di cui pochi si occupano. Era il 2008. Si pensava che fosse un fenomeno transitorio. Non pensavano che fosse l’inizio di una trasformazione globale gigantesca.
MD - La realtà è che se non si acquista questa prospettiva più ampia, se non si comprende che il fenomeno migratorio ha radici storicamente e culturalmente profondissime (benché molto precise), non si riuscirà mai ad elaborare politiche adeguate. Ancora una volta: non sarà che c’è qualcosa che rende inevitabile quest’incapacità?
AS - Essendosi preparati a questa cosa solo con lo sguardo miope dell’umanitario (poveretti, dobbiamo salvarli) - qualcosa che, ovviamente, va comunque tutelato dall’aggressione dei razzisti - saremo sempre deboli e perdenti. Uno dei libri fondamentali dei miei studi è Lo spettacolo del dolore di Luc Boltanski: un libro di socio-semiotica che mi ha illuminato. Nel momento in cui raccontiamo una persona come vittima stiamo facendo la stessa cosa di quando la raccontiamo come nemico; la stiamo passivizzando, oggettivizzando e trasformandola in una cosa utile solo a una nostra direzione morale.
MD - Questo è un po’ l’effetto di quella tradizionale confusione che spesso si fa tra carità e solidarietà.
AS - Aver reagito a questo cambiamento globale gigantesco per cui per mia figlia oggi che io dica «quel bar è gestito da cinesi» o «in trattoria, in cucina c’è un bengalese» non è più una notizia, dieci anni fa lo era. È inevitabile che questo crei scompensi. Aver reagito a questo, non con una progettualità politica di integrazione, ma soltanto attraverso l’umanitarismo di eroi alla Mimmo Lucano o Gino Strada non ha funzionato.
MD - Torno a dire: non posso credere che una forza di sinistra non sia realmente in grado di gestire l’immigrazione in maniera corretta e funzionale a una fruttuosa integrazione (o ‘interazione’ come direbbe Gustavo Zagrebelsky) tra comunità di provenienza culturale e geografica diversa; che non abbia ancora avuto la capacità e le energie morali e culturali per sollecitare studi avanzati e progetti raffinati capaci di fare questo.
AS - L’altro giorno parlavo con il giovane segretario della CGIL di Mestre e lui mi ha raccontato che, quattro anni fa, a un certo punto ha detto: «andiamo alla Fincantieri, troviamo tre operai bengalesi e iniziamo a costruire dei delegati stranieri perché non ha nessun senso che noi siamo a Mestre e non abbiamo delegati stranieri». E tutti gli hanno detto: «ma come farai?». Ebbene, ci è riuscito e oggi hanno cinquecento delegati di venticinque nazionalità diverse. È un lavoro enorme. Ma d’altronde quanto enorme era il lavoro che in passato hanno dovuto fare il movimento operaio e socialista, i sindacati, etc. La sinistra non ha capito che questa trasformazione epocale e irreversibile del movimento dei proletari di tutto il mondo era una cosa di cui occuparsi profondamente e non lasciarla alle ONG o ai santi.
MD - Da quello che dici mi sembra di intuire, nel tuo pensiero, un barlume di ottimismo, che io scorgo nella fiducia (non nell’ordine ma) nella forza delle cose. Alla fine, la ‘forza delle cose’ (per riandare a Simone de Beauvoir) è tale che qualunque ordine non potrà resistere, per cui occorre prepararsi anche politicamente a questo. Sei d’accordo?
AS - Sì. C’è un mio libro che esce in questi giorni si chiama Scritti mediterranei, sono quindici anni di appunti lungo la frontiera di un ragazzo giovane che inizia a muoversi dentro quelle storie e prova a raccontarle. Sono questi diari lungo la frontiera che ho deciso di intervallare con dei momenti di respiro dove racconto la vita di mia figlia più piccola, che ha sei anni e vive all’Esquilino a Roma. Mentre l’Europa e il mondo costruiva la follia antidemocratica e disumana delle politiche migratorie costruendo i germi del fascismo – perché abituare la gente all’idea che sia normale chiudere altri esseri umani in un lager o affondarli per fermarli significa far crescere il germe del fascismo, dire «sì, sappiamo che muoiono, ma così si fermano» è dire che è normale che altri esseri umani per la tua libertà muoiano, quindi trasformandosi in fascisti - nel frattempo, la società in cui cresce mia figlia è inevitabilmente frutto dei movimenti di emancipazione cresciuti in questi anni, perché i movimenti trovano altre strade. Purtroppo, passando attraverso morte e discriminazione, però trovano altre strade e dunque contribuiscono a costruire un cambiamento anche dentro alla violenza e alla fatica del rapporto con il potere. Anche solo il fatto che per mia figlia sia normale giocare al parchetto con bambini di sette nazionalità diverse è un pezzo di quel cambiamento.
MD - È certamente un dato di partenza. Per chiudere con una nota (solo apparentemente leggera) ho letto una battuta di Nanni Moretti secondo cui tu, negli anni Settanta, avresti combattuto il compromesso storico. Mi pare un’affermazione che sembrerebbe addirittura attribuirti un’identità ‘rivoluzionaria’. Peraltro, io credo che oggi Nanni Moretti non girerebbe più Io sono un autarchico o Ecce bombo; oppure, probabilmente, li girerebbe in modo diverso. Che ne pensi?
AS - Non riesco a capire se io lo sminuisco e sbaglio. Io ho visto due elementi positivi in quella provocazione. In primo luogo, che questo è un film non fatto dalla sua generazione, ma dalla nostra. Questo ha aiutato il film. Non è la celebrazione di una cosa che loro hanno vissuto e adesso ci dicono quanto era bella. L’altra parte positiva è che questo film non è fatto da berlingueriani duri e puri, ma da persone che non si sono neanche chieste se io fossi berlingueriano o meno. È un tipo di rapporto diverso con quella storia. Piuttosto, da quello che mi dici (ma anche da quello che mi hanno detto altre persone) devo forse dedurre che lui volesse rimproverarmi la celebrazione di una figura non proprio così edificante?
MD - No, affatto. Io credo che Moretti fosse berlingueriano all’epoca e che fosse piuttosto polemico nei confronti di quella parte della generazione degli anni Settanta che nei suoi film veniva rappresentata – vado per slogan – con quelle posture un po’ bohémien, da rivoluzionari inconcludenti, un po’ oblomoviani, da lui totalmente rigettate. Quindi io penso che Moretti fosse senz’altro berlingueriano. Io, peraltro, me lo ricordo bene Berlinguer: moltissime persone lo consideravano un traditore.
AS - Non so se dalla gran parte delle persone.
MD - Da un bel pezzo sicuramente.
AS - Da un pezzo rilevante soprattutto di generazioni un po’ più giovani di lui, ma da un punto di vista strettamente storico lui ha scritto l’articolo sul Compromesso storico nel ’73 e nel ’75-’76 il PCI ha avuto il massimo storico dei voti. Che la sua idea non fosse perdente è certificato da quello. La bestia che gli si infila in mezzo è Andreotti.
MD - Tu dici Andreotti, ma certamente non solo lui…
AS - Secondo me lì Berlinguer ha sbagliato ad accettare il governo con Andreotti, doveva provare a giocare un po’ più alto; è chiaro che ha avuto paura delle BR che erano entrate, in modo molto violento, anche nel suo mondo. Questo è un altro racconto che in Italia non abbiamo avuto il coraggio di fare. Non abbiamo mai fatto il racconto di chi erano le BR, non quelle di Curcio, ma quelle di Mario Moretti, dal ’75 in poi. Si va dentro alla materia grigia dello stato. Non esiste un film su questo.
MD - Può essere un’idea utile per il tuo lavoro. Le BR furono in primo luogo certamente degli assassini. Autoproclamarsi un’avanguardia rivoluzionaria in una società che pure stava facendo grandi passi avanti sulla strada della democrazia politica - e senza neppure accorgersi della distanza che li separava dalla gente comune - fu ingenuo, miope e, da ultimo, criminale.
AS - L’altro film che non abbiamo mai fatto è il rapporto tra MSI e Ordine nuovo dal ’69 in poi.
MD - E i servizi deviati…
AS - Io penso che il Compromesso storico fosse stato ben capito dal popolo, perlomeno dalle Case del popolo e da un pezzo di mondo cattolico. I comunisti andavano a messa, certo non tutti, ma non c’erano dodici milioni di atei. È questo che ha agganciato la proposta del Compromesso storico a quel risultato elettorale.
MD - Quella società non esiste più.
AS - Quando Berlinguer ha iniziato a fare l’accordo con Andreotti, Moro l’ha fatto rosolare dentro quell’accordo finché poi non si è reso conto che la situazione era troppo grave e ha provato a bloccarla; quella situazione grave era diventata più potente di lui e l’ha ucciso, l’errore è stato quello. Lui doveva alzarsi da quella scena del dialogo con Andreotti e dire «io non ti voto».
MD - Non pensi che fosse un errore non lavorare per la liberazione di Moro?
AS - Era già troppo tardi.
MD - E forse anche pericoloso.
AS - Lui capisce, quando viene sequestrato Moro, che ha sbagliato a cercare il dialogo con Andreotti e quel pezzo di potere: era troppo. Doveva essere il nemico da scardinare per poi convincere pezzi di DC a staccarsi.
MD - Compito immane…
AS - Tanti pezzi di DC si sono staccati e hanno creato delle liste a parte, hanno iniziato a sostenere sindaci socialisti, stava succedendo nel paese. A livello nazionale era un’altra storia.
MD - Non si è mai battuto abbastanza sul ruolo di Craxi nel rapporto tra il PCI e la DC: fu un agente strategico.
AS - Sarebbe un altro film da fare, dopo il ’79, ma non credo che farò un sequel.
Le ultime battute della conversazione con Andrea Segre lasciano emergere un vago sentimento di rammarico per le storie che non sono state (ancora) raccontate e per quelle che (forse) non lo saranno mai.
Davvero il tempo ‘antimoderno’ richiesto dalla scrittura, parrebbe ritagliare i limiti che segnano la forma di ogni possibilità creativa. E tuttavia, rimane ancora il tempo delle brevi sospensioni, dello scarto dalle consuete premure e dell’inattesa fortuna di un incontro.
Immagine: Paul Klee, Angelus Novus, olio e acquerello su carta, 1920, Museo d'Israele, Gerusalemme.
Su Questa Rivista, si veda Berlinguer - La grande ambizione. Recensione di Giovanni Zaccaro.
Non ho letto il libro, ma ho visto il film
Sono ancora tra noi. Recensione a M il figlio del secolo
di Morena Plazzi
Non ho ancora letto M il figlio del secolo di Antonio Scurati, il primo dei quattro libri che ricostruiscono, con grande capacità narrativa, la vita di Benito Mussolini dai primi anni del ventesimo secolo fino a piazzale Loreto.
Ho visto, anzi sto seguendo la serie televisiva attualmente in onda su Sky che tratta dal primo di questi quattro libri, e di questo voglio parlare. Sono arrivata a metà di quella che, più che serie televisiva sarebbe da definire una lunga opera cinematografica che si svilupperà in 8 puntate; ne scrivo ben sicura che non vi siano rischi di “spoilerare” il tragico finale che a tutti è ben noto.
Probabilmente meno nota o meglio meno raccontata è la nascita del fascismo, a partire dai Fasci Italiani di combattimento: un pezzo della nostra storia narrata da Antonio Scurati attraverso la persona di Benito Mussolini e ora tradotta, con un lavoro di regia di qualità decisamente notevole, nelle mirabolanti scene della serie televisiva.
Vengo al punto: non ho letto i libri forse perché li avevano già letti in tanti e quindi ne avevo sentito già tanto parlare, rinviando quindi il momento in cui mi ci sarei impegnata ed anche per questa serie televisiva, pure preceduta da recensioni estremamente positive dopo la proiezione al Festival del Cinema di Venezia, nutrivo qualche dubbio per una campagna promozionale molto incentrata su dichiarazioni di Luca Marinelli, l’attore che interpreta Mussolini, sulla sua difficoltà o chiamiamola così sofferenza nell’affrontare quel ruolo; sentendolo ripetere tante volte mi dava l’idea di una manovra pubblicitaria, un po’ esasperata, che mi induceva più ad allontanarmi che avvicinarmi al prodotto.
Riserve e dubbi che sono stati impetuosamente superati dall'impatto con una esperienza visiva e sonora assolutamente diverse dal solito, non solo perché decisamente superiori nella qualità tecnica ma perché capaci di condurre, attraverso lo strumento tecnico, dritti al pensiero.
E così, pur con la difficoltà che deriva dalla visione di scene esplicitamente violente, ci si ritrova, o almeno è andata così per me, in una rappresentazione della nascita del fascismo impregnata di sangue e scandita dal passo militare delle camice nere; tutto questo accompagnato da un'ambientazione visivamente davvero particolare, con un uso di colori e scenari molto scuri, ma di un nero che vira al giallo, di ombre che prevalgono sulla luce, di inserzioni e di immagini che sembrano d'epoca ma non lo sono, ed altre che sono proprio spezzoni originali, e si sovrappongono perfettamente all’attuale, con un montaggio serrato nell’avvicendarsi di momenti privati e pubblici, a catturare inesorabilmente l'attenzione di chi è spettatore, ma anche risucchiato nel procedere della storia.
Infine, alla fine di tutto, sei per necessità costretto a fermare il pensiero su quello che hai visto, ti vedi forzato a ragionare su quanto davvero sai della nascita del fascismo. Non si può fare altro perché quello che hai appena visto narrare, lo sai, è riproduzione pirotecnica della storia del tuo Paese. I miei nonni abitavano l’Italia, in quegli anni, e ben presto seppero chi erano i fascisti. È la storia delle condizioni che hanno creato e favorito quel regime, di chi ha scelto, pensando fosse tale, il quieto vivere, e di quelli, pochi, che opponendosi caddero.
La serie è in 8 episodi, e si concluderà, tra due settimane, con l’omicidio Matteotti ed il discorso in Parlamento di Mussolini del 3 gennaio 1925[1], la data di nascita del regime fascista. Seguirò questi episodi fino alla fine, non c’è dubbio: assistere alla nascita del regime puntando su figure e personaggi che nella loro eccessività ci spingono a riflettere, seriamente, su quello che accadde, è il filo conduttore di questa serie televisiva.
È impossibile ignorare, in questo racconto, la parola come incitamento alla violenza, l'indifferenza ai destini delle vittime, la spinta ad avanzare, a qualsiasi costo.
Rifulgono, nel racconto, la debolezza, la miopia e l'incapacità della politica ufficiale di leggere e comprendere fino in fondo quello che il movimento fascista stava preparando, benché esso fin dal primo ingresso in Parlamento manifestasse senza censure l’insofferenza per ogni regola democratica, l’avversione per le istituzioni nelle quali era entrata con l’aiuto di Giolitti, immediatamente sfiduciato.
L’ambizione e la sfrontatezza della persona, la carambolesca capacità di dire qualunque cosa ed il suo contrario, il sostegno di un capitale spaventato dai socialisti, la falsa rassicurazione per i timori sorti nella “pancia” piccolo borghese italiana.
Tutto questo, con ritmo incalzante, sottolineato da una colonna sonora che porta la firma di Tom Rowlands (Chemical Brothers) ci arriva attraverso lampi tra luce e buio, attraverso frenetiche conversazioni, nel passaggio dall'italiano forbito, agli inni fascisti, alle espressioni dialettali tra Mussolini e la moglie Rachele.
E poi, quella che i tecnici chiamano “la rottura della quarta parete”, espressione derivata dal teatro dove la quarta parete è immaginata come il confine invisibile tra gli attori sul palco ed il pubblico. Nel cinema questa barriera una volta che viene rotta crea un'interazione diretta fra il protagonista e lo spettatore che viene così investito del pensiero, dei retroscena, dei dubbi financo del protagonista.
Se fosse una storia di sola fantasia (come non pensare al cattivissimo Frank Underwood di House of Cards?) si potrebbe anche correre il rischio di creare un rivolo di simpatia per il protagonista; non è così, non può essere così con il dittatore fascista. Al contrario, è solo l’ulteriore svelarsi del progetto di scalata al potere assoluto, dittatoriale, di Benito Mussolini e questo rende impossibile ogni forma di empatia con l’istrionico Marinelli.
Forse perché lui stesso ti avvisa: «Mi avete amato follemente. Per 20 anni mi avete adorato e temuto come una divinità, e poi mi avete odiato follemente perché mi amavate ancora. Mi avete ridicolizzato. Scempiato i miei resti perché di quel folle amore avevate paura. Anche da morto. Ma ditemi a che cosa è servito. Guardatevi intorno. Siamo ancora tra voi.»
[1] Su questa rivista, nell’anniversario: 3 gennaio 1925. Un triste ricordo che deve illuminare il presente di Enrico Manzon.
Il punteggio equalizzato per l’immatricolazione ai corsi di laurea in Medicina, Chirurgia e Odontoiatria (nota a Cons. di Stato, Sez. VII, 4 ottobre 2024, n. 8005)
di Carmine Filicetti
Sommario: 1. La vicenda giuridica – 2. Le questioni preliminari – 3. L’iter concorsuale – 4. Il punteggio equalizzato - 5. Il diritto allo studio - 6. Il giudizio di primo grado - 7. La decisone del Consiglio di Stato - 8. Considerazioni conclusive
1. La vicenda giuridica
La sentenza in commento interviene sul tema delle modalità d’ammissione ai corsi di laurea a numero chiuso degli aspiranti medici che, puntualmente, ogni anno, genera un considerevole contenzioso[1].
Nel caso specifico, il Consiglio di Stato si è occupato della questione attinente ai criteri valutativi utilizzati all’interno delle prove d’esame necessarie per accedere ai Corsi di laurea in Medicina, Chirurgia e Odontoiatria, indette con Decreto del Ministero dell’università e della ricerca del 24 settembre 2022, n. 1107.
Il candidato, in ragione del punteggio ottenuto nella graduatoria unica nazionale, non utile ad immatricolarsi in una delle sedi universitarie prescelte, ha agito in sede d’appello in via principale, dopo che in primo grado l’impugnazione era stata parzialmente accolta (Tar Lazio, sede di Roma, Sez. III, n. 863/2024)[2], pur non disponendo nulla circa la sua ammissione ai corsi di laurea in sovrannumero, oltre a non aver ordinato la ripetizione della prova.
Il giudizio si perfezionava con gli atti di costituzione degli enti resistenti - Ministero dell'Università e della Ricerca, Presidenza del Consiglio, diverse università ed il Consorzio interuniversitario sistemi integrati (Cisia) - e delle parti private che, per quanto di rispettivo interesse, hanno appellato la sentenza di primo grado in via incidentale contestando l’accoglimento del ricorso nel merito e censurando la mancata dichiarazione di inammissibilità per carenza di interesse ad agire, in ragione del mancato superamento della prova di resistenza e per non avere dichiarato il difetto di legittimazione passiva della Presidenza del Consiglio dei ministri e del Ministero della salute.
2. Le questioni preliminari
Il Collegio, prima di entrare nel merito della vicenda, ha analizzato le questioni preliminari concernenti l’interesse ad agire del ricorrente e la legittimazione passiva delle amministrazioni pubbliche governative diverse dal Ministero dell’Università e della Ricerca.
Tali eccezioni, devolute in secondo grado a mezzo di appelli incidentali, non sono state ritenute fondate. Il Consiglio di Stato ha asserito quanto già disposto dal Tar e, relativamente al primo profilo, ha ritenuto superato il vaglio della prova di resistenza[3], considerata non già un mero adempimento formale quanto piuttosto un vero e proprio onus probandi che, ai sensi dell’art. 2697 c.c., grava sulla parte ricorrente ed incide sulla sussistenza, o meno, dell’interesse ad agire in giudizio.
Ha poi sottolineato come le censure mosse hanno riguardato non solo i motivi di impugnazione dell’intera procedura concorsuale, ma anche quelli relativi alla prova d’esame. Dunque, dall’accoglimento di una o dell’altra censura si sarebbe certamente ottenuto il medesimo effetto: la reintegrazione del ricorrente nella chance di conseguire il bene della vita perseguito, dato dall’immatricolazione in un corso di laurea a numero programmato nell’anno accademico 2023-2024[4].
Quanto alla censura relativa alla qualità di «pubblica amministrazione che ha emesso l’atto impugnato», ai sensi dell’art. 41, comma 2, cod. proc. amm., le parti resistenti hanno ritenuto la chiamata in giudizio della Presidenza del Consiglio dei ministri superflua in quanto amministrazione a cui non è ascrivibile una diretta paternità degli atti. Nondimeno, per il secondo decisore, tale considerazione non doveva essere intesa in senso restrittivo, poiché la Presidenza seppur non abbia emanato direttamente gli atti impugnati, ha certamente contribuito a riceverne gli effetti in quanto amministrazione concorrente alla loro formazione o comunque coinvolta nell’iter procedimentale degli stessi, a mezzo di atti presupposti, consequenziali o connessi e utilizzati nella fase programmatoria del fabbisogno professionale del settore sanitario[5]. Da tale base è, poi, stata stabilita l’offerta annua di posti per relativi corsi di laurea, i cui atti sono stati impugnati con il ricorso di primo grado unitamente a quelli della prova di ammissione, con motivi riproposti con l’appello principale.
Inoltre, aggiunge il giudice, le amministrazioni hanno manifestato il proprio interesse a resistere[6] già con la costituzione nel giudizio di primo grado e, poi, con gli appelli incidentali autonomi, il tutto a dimostrazione che le medesime hanno riconosciuto a pieno il ruolo di parte resistente e di essere destinatarie delle domande di annullamento proposte nei loro confronti.
3. L’iter concorsuale
Superati i profili preliminari, conformi al primo grado di giudizio, appare opportuno effettuare una breve disamina della vicenda concorsuale. Nella sentenza oggetto di gravame, il giudice di prime cure, si era espresso per l’illegittimità del criterio posto alla base dell’attribuzione del punteggio previsto dalla normativa concorsuale inserita nel citato decreto d’indizione delle prove. Tale atto ha previsto che per l’anno accademico 2023/2024 l’ammissione dei candidati[7], sarebbe avvenuta a seguito di superamento di apposita prova d’esame cd. TOLC (acronimo di Test OnLine Cisia) quale strumento utile a determinare i punteggi dei candidati da far, poi, confluire nel procedimento di formazione delle graduatorie di accesso ai corsi a numero programmato nazionale. Sono stati ammessi a partecipare ai TOLC, ai fini dell’accesso ai corsi di laurea, i candidati iscritti al quarto o al quinto anno delle scuole secondarie di secondo grado italiane o quelli che erano in possesso di un diploma rilasciato in Italia da un istituto di istruzione secondaria di secondo grado.
La gestione della procedura selettiva è stata affidata al Consorzio Interuniversitario Sistemi integrati per l’accesso (per l’appunto il Cisia), ovvero organo di orientamento universitario e soggetto giuridico cui deve essere attribuita la paternità del nuovo modello scientifico stante alla base del criterio di selezione per le immatricolazioni. Non a caso le censure più rilevanti mosse dall’appellante, sia in primo che in secondo grado, riguardavano la modalità di attribuzione dei punteggi delle prove che, per tale sessione, si sono caratterizzate per l’utilizzo di un sistema “equalizzato”, predisposto dal Cisia e adottato dal Ministero competente[8].
Vi è da precisare che per l’annualità 2023 le sessioni propedeutiche all’ammissione ai corsi di laurea sono state fissate nel mese di aprile e nel mese di luglio e hanno avuto luogo secondo modalità e tempi definiti dal calendario adottato con decreto della competente Direzione generale del Ministero: ai fini della formazione delle graduatorie di accesso ai corsi di laurea a numero programmato nazionale disciplinati dal predetto decreto è stato utilizzato, su istanza del candidato, il miglior punteggio ottenuto nelle due sessioni disponibili per l’anno accademico 2023/2024.
Per ciascuna sessione dei TOLC la somministrazione dei test è stata effettuata in presenza, presso la sede scelta dal candidato all’atto della iscrizione alla prova. I test sono stati erogati per ciascun candidato, mediante la piattaforma informatica Cisia, in apposite postazioni, predisposte dagli atenei secondo le modalità definite con successivo decreto della competente Direzione generale del Ministero. Successivamente, i candidati hanno presentato la domanda di inserimento in graduatoria, ai sensi della lettera b) dell’art. 5 del citato D.M. n. 1107/2022.
Per quanto riguarda la strutturazione dei quesiti, le prove erogate nelle due sessioni hanno riguardato argomenti relativi alle sezioni di cui all’allegato 1 al D.M. n. 1107/2022[9], il test TOLC è stato sostenuto in una qualsiasi sede scelta dal candidato all’atto dell’iscrizione, anche se diversa da quella in cui il candidato si sarebbe poi immatricolato.
Ricostruito l’iter concorsuale, è d’obbligo analizzare la metodologia utilizzata per il calcolo dei risultati delle prove degli aspiranti medici: il punteggio equalizzato, strumento dichiarato capace di «misura(re) la difficoltà della prova», ed ottenuto secondo il «modello scientifico e il sistema di attribuzione dei punteggi equalizzati», enunciato nell’allegato 2 al decreto ministeriale richiamato[10].
4. Il punteggio equalizzato
Il MUR con l’introduzione del modello scientifico del sistema di attribuzione dei punteggi equalizzati[11], si è posto come obiettivo quello di avere un indicatore capace di armonizzare la facilità delle prove[12] e parametrare le risposte fornite in ragione della difficoltà (o facilità) di ciascun quesito[13], estratto da una banca dati previamente formata e composta da 1700 quiz.
L’obiettivo perseguito era quello di porre i candidati in condizioni di parità[14], nella prevista prospettiva della ripetibilità della prova stessa oltre che della diversità dei quesiti che la compongono. A tal proposito, per ogni quesito è stato misurato il relativo livello di difficoltà, attraverso l’attribuzione di un coefficiente di facilità fondato su un criterio di carattere statistico, incentrato sulla media dei punteggi registrati nella prima sessione, ovvero quella di aprile (ridenominata in base alla normativa concorsuale «periodo di calibrazione»). La somma dei coefficienti di difficoltà dei quesiti di cui si è composta ciascuna prova è stata poi sottratta dal valore massimo ottenibile in base alle risposte esatte (50) e il risultato così ottenuto è stato infine aggiunto al punteggio risultante dalle risposte date dal candidato.
Ciò posto, le modalità di funzionamento e di valutazione sono state puntualmente descritte nel D.M. n. 1107/2022 che, nella sezione apposita relativa alla valutazione delle prove con punteggio equalizzato, stabiliva come «Il punteggio che viene assegnato al partecipante, detto punteggio equalizzato, è ottenuto sommando il punteggio ottenuto dal partecipante con le risposte date ai quesiti, detto punteggio non equalizzato, e un numero che misura la difficoltà della prova, chiamato coefficiente di equalizzazione della prova».
È comprensibile come tale meccanismo, utilizzato per la prima volta nella sessione in narrativa e caratterizzato da una forte vocazione matematica, sia stato oggetto di pesanti censure. Non a caso entrambe le difese, di ambo i lati, sono state affiancate da relazione tecnica a sostegno delle diverse tesi. Parte appellante ha contestato la funzione uniformatrice auspicata dall’amministrazione in quanto tale criterio, a suo dire, era stato capace di alterare la par condicio tra i concorrenti[15] venendo meno al suo fine dichiarato di armonizzare la prova.
5. Il diritto allo studio
Compresi i principali profili di merito attinenti alla metodologia utilizzata per la scelta dei candidati
più validi, di natura strettamente tecnica e forse poco utile a far comprendere, in tale sede, gli interessi posti in gioco, è necessario descrivere la più ampia cornice del diritto allo studio[16], ove deve essere calata la presente vertenza.
Il punto cardine della materia, a livello nazionale, è certamente quello rinvenuto all’interno del dettato costituzionale pacificamente individuato nell’art. 34 Cost., che sancisce come «la scuola è aperta a tutti», e prosegue con la previsione dell’obbligatorietà e gratuità dell’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni (co. 2) e del diritto dei capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, di raggiungere i gradi più alti degli studi (co. 3) e chiude gravando la Repubblica del compito di rendere effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso (co. 4) [17].
Ai fini del presente commento occorre soffermarsi, in particolar modo, sul co. 3 dell’art. 34 Cost., ove si configura un sistema utile a garantire la meritocrazia dei più capaci, aldilà della propria condizione di partenza[18] al fine di garantire il principio d’uguaglianza, in ossequio all’art. 3 Cost., co. 2, oltre quanto previsto all’art. 9, co. 1, ove è dichiarato che «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica».
Ulteriori disposizioni costituzionali vengono, poi, richiamate dallo stesso Tar Lazio nella sentenza di primo grado e poi riformata dalla pronuncia in commento: «Tali previsioni non soltanto attuano il principio personalistico (art. 2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”), ma si rivelano funzionali all’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà richiamati dal medesimo art. 2, in vista dello svolgimento da parte di ciascuno “secondo le proprie possibilità e la propria scelta, [di] un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società».
Il tutto in ossequio a quanto previsto ed avallato dalla Corte Costituzionale, la quale nel 2002 ha fatto proprio il principio di “diritto allo studio” inteso come «il diritto di studiare, nelle strutture a ciò deputate, al fine di acquisire o di arricchire competenze anche in funzione di una mobilità sociale e professionale, è d'altra parte strumento essenziale perché sia assicurata a ciascuno, in una società aperta, la possibilità di sviluppare la propria personalità, secondo i principi espressi negli artt. 2, 3 e 4 della Costituzione»[19] e sempre nella stessa sentenza, ha anche chiarito quelli che devono essere i criteri per accedere all’istruzione superiore[20] .
Anche a livello sovranazionale le considerazioni restano ferme e univoche, il diritto all’istruzione è sancito dall’art. 2 del protocollo addizionale alla CEDU, secondo cui «il diritto all’istruzione non può essere rifiutato a nessuno». Sul punto la Corte EDU[21] ha, allora, precisato che il suddetto diritto non è assoluto, potendo essere sottoposto a limitazioni, purché queste siano prevedibili e perseguano un obiettivo legittimo capace di azionare un filtro utile a garantire l’ingresso soltanto a quei soggetti adatti ad assicurare un elevato livello di professionalità.
Anche la Corte di Giustizia si è occupata dei corsi universitari a numero chiuso, nello specifico caso Bressol (C-73/08), nell’ambito di una controversia insorta nell’ordinamento belga relativamente alle restrizioni previste per l’accesso di studenti stranieri ai corsi di formazione medica e paramedica, caratterizzate dalla previsione di un livello massimo di studenti ammissibili stabilito per decreto, nonché dall’estrazione a sorte, da parte degli istituti interessati, ai fini dell’ingresso nel predetto contingente. In quella sede la Corte si era limitata a stabilire il principio generale per cui «Le restrizioni all’accesso ai detti studi, introdotte da uno Stato membro, devono essere [...] limitate a quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi perseguiti e devono consentire un accesso sufficientemente ampio per i detti studenti agli studi superiori», demandando al giudice del rinvio la mera verifica delle modalità «di selezione degli studenti non residenti si limiti all’estrazione a sorte e, in tal caso, se tale modalità di selezione fondata non sulle capacità dei candidati interessati, bensì sull’alea, risulti necessaria ai fini del raggiungimento degli obiettivi perseguiti». Nel caso sottoposto alla Corte di Giustizia, da cui prende le mosse il Tar Lazio per la decisione di primo grado, poi appellata, è certamente lampante l’elemento aleatorio, che ben si identifica con la scelta di estrarre “a sorte” i candidati da selezionare. Nondimeno, il giudice di primo grado, partendo da tale massimo concetto di alea ha delineato tutta una serie di argomentazioni utili a ritenere la procedura de qua afflitta da elementi aleatori o quantomeno discutibili, tale da viziarne il meccanismo di selezione.
Chiarito, dunque, il quadro nazionale e sovranazionale, entro il quale il giudice amministrativo è stato chiamato ad operare, è necessario soffermarsi sulle previsioni del caso, in primo e secondo grado, della sentenza in commento.
6. Il giudizio di primo grado
L’accoglimento del ricorso da parte del Tar e poi riformato dal secondo giudicante, partiva dal presupposto che, nel contesto di principio poc’anzi richiamato, un sistema di selezione dei più meritevoli da ammettere ai corsi superiori ma caratterizzato da elementi fortemente aleatori avrebbe avuto come conseguenza quella di smentire il dettato costituzionale che garantisce, ai capaci e meritevoli, l’accesso agli studi superiori.
Nella sentenza impugnata, il primo giudice, in riferimento all’alea si era espresso nettamente a sfavore del meccanismo equalizzato, in quanto a suo dire questo non era in grado di soddisfare le esigenze selettive poiché presentava: «elementi di alea che, da un lato, non sono giustificati da esigenze oggettive della selezione e, dall’altro, non consentono un ordinamento degli aspiranti sulla base della sola performance, essendo la relativa posizione influenzata, in maniera anche significativa e determinante l’accesso ai corsi di laurea, dall’attribuzione di un fattore di parametrazione del punteggio che limita, in modo per ciascuno diverso, il punteggio massimo raggiungibile e che mina, pertanto, la par condicio tra i candidati».
Ulteriori spunti sono emersi dalla relazione tecnica depositata dal Cisia in primo grado, dalla quale il giudice aveva estratto gli aspetti principali del criterio equalizzato quali: «una banca dati composta di 1.700 quesiti quindi, sarebbero (in base a quanto affermato da Cisia, ancorché vi sia agli atti obiettiva evidenza) state composte prove (intese come insieme di quesiti da sottoporre ai candidati) valutate ex ante analoghe in termini di difficoltà assegnata dagli esperti e identiche per struttura; all’esito della prima sessione di esami è stato calcato il coefficiente di equalizzazione dei singoli quesiti, e quindi delle prove, sottraendo dal numero dei quesiti, 50, la somma dei punteggi medi (arrotondati ai centesimi) ottenuti dai quesiti nel periodo di calibrazione. Il punteggio equalizzato è, quindi, ottenuto sommando il punteggio grezzo, dato dalla sommatoria del risultato ottenuto sulla base delle risposte esatte (1 punto), omesse (0 punti) o errate (-0,25 punti), e il coefficiente di equalizzazione; il coefficiente di equalizzazione è stato calcolato sottoponendo ciascun quesito a una popolazione, suddivisa in cluster, analoga alla popolazione nazionale iscritta al test;- il coefficiente calcolato al termine della sessione di aprile è stato utilizzato anche per la determinazione del punteggio equalizzato nella sessione di luglio».
In virtù di tali assunti era arrivato a convincersi del fatto che le prove somministrate ai candidati non erano omogenee quanto a difficoltà complessiva individuata attraverso il coefficiente di equalizzazione. Il tutto veniva, invece, smentito dalla resistente Cisia che affermava come la tendenziale omogeneità delle prove sarebbe stata assicurata attraverso un duplice criterio: il primo, attinente all’attribuzione di un livello di difficoltà ai quesiti componenti le prove, determinato in base a una valutazione ex ante; successivamente, tale primo gradiente di difficoltà veniva corretto attraverso il metodo statistico, sulla base delle percentuali di successo nelle risposte effettivamente riscontrate nel corso della prima sessione di aprile cd. periodo di calibrazione.
La difesa delle resistenti non aveva convinto appieno il Tar che, sulla base di tali presupposti, si era persuaso per l’inomogeneità delle prove quanto a difficoltà complessiva individuata attraverso il coefficiente di equalizzazione, che aveva precluso la possibilità di raggiungere il «punteggio massimo conseguibile», a causa di un «fattore, non controllabile dal candidato, di premialità o penalizzazione suscettibile, di per sé, di influenzare l’accesso o l’esclusione dai corsi», oltre che di porre lo stesso candidato «in una situazione di partenza diversa l’uno dall’altro e del tutto affidata al caso».
Di conseguenza, il vaglio di legittimità del sistema equalizzato non risultava superato e pertanto ne seguiva l’annullamento di tutti quegli atti connessi e consequenziali al citato D.M di indizione delle prove, ivi compresi i bandi di concorso per l’accesso ai corsi di laurea e della graduatoria unica nazionale del concorso per l’ammissione al Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia e in Odontoiatria e Protesi Dentaria per l’anno accademico 2023/2024. Tuttavia, come anticipato in premessa, l’accoglimento risultava parziale in quanto escludeva la caducazione degli atti posti in essere in esecuzione degli atti annullati e, in particolare, delle immatricolazioni già avvenute e di quelle in via di perfezionamento per il succitato anno accademico, negando così l’immatricolazione in soprannumero dei candidati utilmente collocati in graduatoria, per non essere stato dimostrato «un nesso di implicazione diretta tra l’adozione del meccanismo di equalizzazione e la mancata ammissione ai corsi per quanto riguarda parte ricorrente». Inoltre, non veniva prevista alcuna ripetizione della prova, rispetto alla quale è stato considerato ostativo l’aspetto organizzativo e venivano esclusi gli effetti invalidanti nei confronti delle immatricolazioni «già avvenute e di quelle in via di perfezionamento» sulla base della graduatoria annullata nonché degli eventuali scorrimenti[22].
Ciò posto, il candidato rimasto escluso in sovrannumero, proponeva appello al secondo giudice che ripercorreva il primo grado di giudizio.
7. La decisone del Consiglio di Stato
Come precedentemente esposto, la sentenza di primo grado ha giudicato illegittimo il modello scientifico che presiedeva al sistema di attribuzione del punteggio equalizzato, sulla cui base veniva definito l’ordine di graduatoria.
Tuttavia, il Consiglio di Stato ha rinvenuto elementi in senso contrario, direttamente ricavabili dal sistema di attribuzione dei punteggi equalizzati. Si è, infatti, evidenziato come lo strumento era stato concepito in funzione della «ripetibilità delle prove» prevista dalla normativa concorsuale, per cui il fatto che ogni candidato avrebbe potuto partecipare ad una doppia sessione di test legittimava l’utilizzo di una formula astrattamente capace di “migliorarsi” tra una sessione e l’altra.
Il giudice ha, poi, ricostruito la forbice dell’intervallo numerico entro il quale il meccanismo operava[23], tale elaborazione ha consentito al giudicante di demolire l’assunto del Tar circa l’esito della prova demandata «ad un fattore non controllabile dal candidato e pertanto non dipendente dalle sue capacità, a causa del diverso coefficiente di equalizzazione applicabile a ciascuna prova».
L’equalizzazione, dunque, avrebbe garantito la giusta parametrazione dei quesiti operata su base statistica e gli scostamenti di punteggio rispetto al massimo ottenibile sarebbero stati frutto di un «fondamento razionale in un inoppugnabile e non contestato sistema di misurazione della difficoltà dei quesiti avente base statistica».
In estrema sintesi la procedura è stata ritenuta salvabile poiché in linea con il principio di parità, garantito da un sistema di formazione del punteggio finale capace di tener conto del potenziale fattore di alterazione della parità di trattamento dei candidati, insito nell’estrazione causale dalla relativa banca dati di quesiti di diverso livello di difficoltà e dunque nel potenziale differente livello di difficoltà di ciascuna prova nel suo complesso.
Il Collegio ha visto, in senso opposto al Tar, nel coefficiente di equalizzazione una vera e propria funzione omogenizzante utile a garantire il riequilibrio del diverso livello difficoltà della prova e di correzione della casualità insita nel suo meccanismo di formazione; il tutto in coerenza con i canoni di par condicio, di selezione imparziale a stampo meritocratico che sul piano della legittimità amministrativa regolano il funzionamento dei pubblici concorsi.
Viene, poi, respinto energicamente l’automatismo secondo il quale «qualsiasi equalizzazione comporterebbe una distorsione», anzi ne viene sottolineata la funzione correttiva svolta dal coefficiente rispetto al diverso livello di difficoltà delle prove sostenute.
Vengono, poi, superate le ulteriori contestazioni di carattere tecnico di parte appellante, supportate dalla relazione prodotta, ma smentite dalle controdeduzioni del Cisia. Esse riguardavano rispettivamente le scelte di: impostare l’equalizzazione a livello dei singoli quesiti; limitare la rilevazione (il c.d. periodo di calibrazione) alla sola sessione di aprile e non anche a quella di luglio; ridurre l’ampiezza della banca dati; impostare il sistema di calcolo dei coefficienti di difficoltà dei quesiti con arrotondamento alla seconda cifra decimale. Tutte considerazioni che non hanno trovato presa nel giudizio di appello.
Ancora, ritenute inammissibili, sono state le ulteriori censure riproposte con l’appello principale, ex art. 101, comma 2, cod. proc. amm., relative alla scelta dell’amministrazione di non aver somministrato quesiti differenti per ognuna delle due sessioni, non scongiurando il rischio di una fuga di domande tra la prima e la seconda sessione di prove. Il rischio palesato era quello di attribuire un vantaggio ai partecipanti delle rispettive prove ledendo la par condicio, sulla base del criterio di pericolo astratto[24]. Tuttavia, il ricorrente non avendo specificato la sessione di suo interesse è decaduto dalla possibilità di approfondimento di una eventuale lesione del suo interesse legittimo.
Il giudice, poi, rinviene nella possibilità dei candidati di scegliere a quale sessione partecipare un importate appiglio in termini di equità di trattamento. Il fatto che l’art. 8, comma 2, del decreto ministeriale del 24 settembre 2022, n. 1107, aveva previsto tale circostanza è utilizzata del giudicante per escludere qualsiasi forma di illegittimità relativa ai coefficienti di facilità dei quesiti, calcolati unicamente al termine della sessione di aprile, sulla base delle risposte fornite dai candidati che vi avevano partecipato, e non anche in base agli esiti delle prove della sessione di luglio.
Sempre inammissibili sono state ritenute le censure relative alla ripartizione del tempo a disposizione dei candidati (90 minuti) in base alle 4 sezioni in cui era articolata la prova, raccolte all’interno del d.d. n. 1925/2022, che aveva previsto che «ogni sezione ha un tempo prestabilito, al termine del tempo di una sezione il candidato deve procedere e avviare la successiva (…); il candidato può utilizzare tutto il tempo assegnato a ciascuna sezione o chiuderla in anticipo rinunciando al tempo residuo»[25]. Tuttavia, di tali aspetti, secondo il Collegio non sono state prodotte le allegazioni utili a dimostrare il pregiudizio del ricorrente[26].
Infine, sono state ritenute generiche ed infondate le censure relative al preteso sottodimensionamento dei posti a disposizione per l’immatricolazione nei corsi di laurea a numero programmato per l’anno accademico in contestazione[27], poiché attinenti a profili di carattere discrezionale, ai sensi dell’art. 3, comma 2, della legge 2 agosto 1999, n. 264[28]. Il giudice ha ribadito come la valutazione relativa ai posti da mettere a bando risponda ad esigenze di tipo organizzativo, non sindacabili in sede giurisdizionale e non ascrivibili ad alcun sintomo di eccesso di potere, ha poi troncato la censura mossa, anche, in ragione dello sforzo numerico compiuto dall’amministrazione che si è adoperata a bandire 19.544 posti per l’anno accademico 2023-2024, quando, in realtà, in sede governativa, ne erano stati ritenuti sufficienti 18.133[29].
In definitiva, il Consiglio di Stato ha sancito che il meccanismo di attribuzione dei punteggi utilizzato è risultato coerente con i canoni guida di imparzialità e parità di condizioni che sul piano della legittimità amministrativa presiedono al funzionamento dei concorsi pubblici: la sentenza non lascia spazio alcuno circa la validità del sistema di equalizzazione dei punteggi.
8. Considerazioni conclusive
La pronuncia in commento si è adoperata per legittimare l’operato delle amministrazioni coinvolte circa l’utilizzo di un innovativo sistema di calibrazione dei punteggi, demolito in primo grado e energicamente riabilitato in secondo.
Le considerazioni del Consiglio di Stato, seppur ampliamente motivate, attengono principalmente ad aspetti tecnici circa le modalità di funzionamento del metodo equalizzatore estratti dalla relazione presentata dal Consorzio Interuniversitario Sistemi Integrati per l’Accesso, poiché tali erano i principali profili di merito portati dinanzi all’attenzione del giudicante.
Tuttavia, mettendo da parte i profili tecnici, supra analizzati, e legittimati dal massimo organo della giustizia amministrativa, in tale sede sorge spontaneo spostare l’attenzione sulle finalità del sistema, orientato ad assicurare l’effettività del diritto allo studio e la selezione dei più capaci e meritevoli.
Se è vero che la necessità del filtro all’ingresso sia utile a garantire una scrematura degli aspiranti medici e che questo, per come descritto, sia compatibile con la normativa nazionale ed europea, non è da sottovalutare l’aspetto relativo alla somministrazione di quiz a batteria quale strumento (aldilà del metodo utilizzato per il calcolo del punteggio) potenzialmente dannoso nei confronti di tutti quegli studenti contraddistinti da una mancanza di prontezza e di caratteristiche necessarie al superamento di una prova di tale impostazione che risulta, tra l’altro, lontana dal profilo umanistico dei corsi di laurea degli aspiranti medici.
Ciò posto, appare pretestuoso pensare che soltanto chi sia in grado di cimentarsi con successo in una selezione così asettica sia poi effettivamente coincidente con quel soggetto che, con maggiore probabilità, raggiungerà con successo la conclusione del percorso di studi e potrà, in prospettiva, maggiormente contribuire al progresso della società, visto anche l’aspetto umano che deve caratterizzare il futuro medico.
Ovviamente, per chi scrive, tali motivazioni non devono indurre ad abbandonare il criterio della capacità e del merito che deve sempre guidare l’amministrazione nella configurazione dei sistemi di accesso ai corsi a numero programmato, in modo che siano assicurati l’imparzialità e il buon andamento dell’attività amministrativa (art. 97 Cost.) in un contesto caratterizzato dall’esigenza di assicurare l’equilibrio di bilancio (artt. 81 e 97 Cost.).
Tuttavia, il contenzioso legato al sistema d’ingresso ai corsi di medicina non è certo novità dell’ultima sessione[30]. Il ricorso giurisdizionale, spesse volte in doppio grado di giudizio, è quasi divenuto passaggio obbligatorio per il candidato che voglia avere un’ulteriore possibilità di immatricolazione al corso di laurea ambito. Tale aggiuntiva chance confluisce in una richiesta economica alla famiglia utile a garantire all’aspirante medico, che non sia nella condizione economica di presentare un ricorso individuale, la partecipazione come candidato-ricorrente ad azioni massive di tutela giurisdizionale in forma collettiva, organizzate da professionisti che raggruppano tutti quegli interessi comuni agli esclusi e che tentano di cristallizzare le medesime ragioni all’interno di un singolo atto capace di tutelare contemporaneamente diversi interessi e, allo stesso tempo, di abbattere i costi della giustizia amministrativa.
In tal senso appare opportuno effettuare una riflessione sull’utilità del modello a “quiz” per l’accesso ai corsi di studi, destinati alla formazione del personale medico e quindi, in definitiva, alla spiegazione di meccanismi atti ad assicurare, attraverso l’individuazione delle risorse umane da destinare al settore sanitario, l’attuazione del diritto fondamentale alla salute (art. 32 Cost.), risultando del tutto evidente che una selezione influenzata da fattori casuali delle suddette risorse non potrebbe in alcun modo ritenersi confacente all’obbligo della Repubblica, costituzionalmente sancito, di tutelare tale diritto.
L’accesso ai corsi di laurea in commento va, poi, analizzato nella prospettiva d’ingresso dei futuri medici all’interno degli organici della pubblica amministrazione[31], notoriamente segnati da gravi carenze: basti pensare al blocco del turn overche sin dai primi anni 2000[32], e poi con maggiore intensità dal 2010, ha contribuito alla costante riduzione del numero dei dipendenti pubblici e al progressivo invecchiamento della forza lavoro impiegata[33]. Il quadro è stato notevolmente aggravato dalle successive politiche di austerity seguenti alla crisi del 2008 che hanno, di fatto, sancito un pesante blocco assunzionale[34]. Tali politiche hanno visivamente segnato i più giovani i quali hanno scontato un pesante sbarramento all’accesso del mondo lavorativo, ivi compresi i camici bianchi. Il risultato ottenuto è stato quello di un ritardo nel ricambio generazionale, con logico deterioramento della qualità delle competenze e delle professionalità a servizio dell’amministrazione[35], il tutto in un momento cruciale poiché coincidente con il processo di transizione digitale[36]. Negli anni più recenti, a partire dalla legge delega n. 124/2015, il legislatore ha tentato di spezzare il trend negativo delle assunzioni pubbliche introducendo elementi di innovazione, superando il concetto di «dotazione organica» in favore della più ponderata nozione di «piani di fabbisogno del personale»[37], la quale, per come accennato anche nella sentenza in commento, è demandata a scelte discrezionali. Nell’opera di riassetto organizzativo il legislatore con il decreto legislativo n. 75 del 2017 ha operato modifiche sostanziali al decreto legislativo 165 del 2001 (agli artt. 6[38] e 6-ter[39]) implementando la disciplina dei piani fabbisogni di personale e, con la l. 56/2019, ha poi previsto che le amministrazioni nella redazione del piano del fabbisogno debbano tener conto anche «dell’esigenza di assicurare l’effettivo ricambio generazionale e la migliore organizzazione del lavoro, nonché, in via prioritaria, di reclutare figure professionali con elevate competenze»[40].
Tale breve ricostruzione è valida per rimarcare come gli interventi normativi dell’ultimo decennio siano orientati verso una rotta capace di rimpolpare le maglie dell’amministrazione, tuttavia, nel sistema di accesso alle professioni sanitarie, tale fine viene ostacolato dalle difficoltà generate dai meccanismi d’accesso. Gli studenti, in spesse occasioni, hanno attuato sistemi evasivi del sistema nazionale dei test, tramite iscrizione ad università dell’Ue maggiormente permissive in termini di entrata, per poi rientrare all’interno del sistema nazionale con il riconoscimento degli esami conseguiti all’estero[41] o, in ipotesi più estreme, abbandonando definitivamente la penisola e permanendo stabilmente ove si sono condotti gli studi esteri.
Ancora, numerosi medici, già affermati, hanno deciso di abbandonare il sistema nazionale per recarsi in paesi arabi, ove è garantito un altissimo livello di welfare oltre che a tutta una serie di vantaggi dal punto di vista retributivo e di qualità degli ambienti del lavoro[42].
Tali forti rigidità all’ingresso del sistema non appaiono, in definitiva, in linea con quelle che sono le reali esigenze del Paese; d’altro canto, il sistema a numero chiuso garantisce una maggiore qualità degli insegnamenti che, come già ribadito, attengono a beni di rango primario.
È allora auspicabile una riforma del sistema e, in tal senso, l’esecutivo ha preso atto di tali criticità e proprio lo scorso novembre è stata discussa in Senato la riforma dell’accesso a Medicina, Odontoiatria e Veterinaria. Il disegno mira a potenziare il SSN, incrementando il numero e la qualità dei professionisti sanitari e a tale scopo ha delegato il Governo ad introdurre un accesso libero al primo semestre dei corsi di laurea, eliminando quindi lo sbarramento all’ingresso, con un’ulteriore selezione per il secondo semestre, basata su esami e una graduatoria nazionale di merito.
Secondo la nuova impostazione, dunque, la selezione avverrà al termine di un primo semestre comune a tutti gli iscritti e solo dopo tale periodo verrà stabilito chi potrà proseguire in ragione degli esami svolti e del conseguimento dei relativi crediti negli insegnamenti ritenuti cruciali per il prosieguo del percorso universitario. Attualmente il provvedimento è nelle mani della Camera, successivamente, serviranno alcuni provvedimenti attuativi da parte del ministero e l’auspicata modifica al sistema d’accesso sarà operativa già dal 2025/26 soltanto se l’iter approvativo verrà ultimato prima dell’estate 2025, in caso contrario l’attuazione slitterà certamente al 2026[43].
[1] Tra le questioni più significative che hanno visto intervenire il Giudice amministrativo si segnala in particolare quella relativa all’anonimato delle prove, che ha originato le pronunce dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato del 20 novembre 2013, nn. 26, 27 e 28 con riferimento alla modalità di ammissione per l’a.a. 2010/2011, e della Sez. VI, n. 15/2015 per l’a.a. 2014/2015. Sul tema dell’anonimato nelle prove di concorso, il giudice amministrativo ha stabilito come questi sia corollario del principio costituzionale di uguaglianza nonché di quelli del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione, la quale deve operare le proprie valutazioni senza lasciare alcuno spazio a rischi di condizionamenti esterni e dunque garantendo la par condicio tra i candidati; tale criterio, costituendo applicazione di precetti costituzionali, assume una valenza generale ed incondizionata, mirando esso in sostanza ad assicurare la piena trasparenza di ogni pubblica procedura selettiva e costituendone uno dei cardini portanti. Qualora l’Amministrazione si discosti in modo percepibile dall’osservanza delle norme in materia di anonimato delle prove scritte di concorso, si determina una illegittimità di per se rilevante e insanabile, venendo in rilievo una condotta già ex ante implicitamente considerata come offensiva in quanto appunto connotata dall’attitudine a porre in pericolo o anche soltanto minacciare il bene protetto dalle regole stesse; mutuando la antica terminologia penalistica, può affermarsi che la violazione dell’anonimato da parte della commissione nei pubblici concorsi comporta una illegittimità da pericolo c.d. astratto e cioè un vizio derivante da una violazione della presupposta norma d’azione irrimediabilmente sanzionato dall’ordinamento in via presuntiva, senza necessità di accertare l’effettiva lesione dell’imparzialità in sede di correzione.
[2] In senso opposto alla sentenza in commento, invece, la vicenda riguardante l’ammissione relativa all’anno accademico 2018/2019. In quell’occasione il Tar aveva dichiarato inammissibile il ricorso proposto per l’annullamento del D.M. 337/18 (ovvero il bando che definiva le modalità per l’accesso al corso di laurea in medicina e chirurgia e al corso di odontoiatria e protesi dentaria per l’a. a. 2018/2019). Tuttavia, in secondo grado, la decisione veniva totalmente ribaltata sulla scorta di un duplice profilo attinente: “da un lato, quella di consentire agli Atenei, sotto il profilo organizzativo, la possibilità di garantire un’offerta formativa compatibile con le proprie risorse strumentali e umane, dall’altro, quella di assicurare l’accesso al predetto corso ai soggetti in possesso delle cognizioni tecniche e delle capacità attitudinali necessarie per la proficua frequenza di corsi universitari di così elevato livello formativo”. Cons. Stato, Sez. VII, n. 8213/2022.
[3] Per tale superamento si intende quel bisogno effettivo di tutela giurisdizionale e, come tale, rilevante quale condizione dell’azione ex art. 100 c.p.c., nel senso che l’annullamento degli atti gravati deve risultare idoneo ad arrecare al ricorrente un’effettiva utilità. Sul punto per consolidata giurisprudenza nelle controversie relative alla contestazione dei risultati di un concorso pubblico non può prescindersi - ai fini della verifica della sussistenza di un concreto ed attuale interesse al ricorso - dalla c.d. prova di resistenza, dovendo, infatti, il ricorrente principale dimostrare (o comunque quantomeno fornire un principio di prova in ordine al) la possibilità di ottenere un collocamento in graduatoria in posizione utile in caso di eventuale accoglimento dei motivi di ricorso proposti, essendo altrimenti inammissibile la domanda formulata. Infatti, il candidato, che impugna i risultati di una procedura concorsuale, ha l'onere di dimostrare il suo interesse, attuale e concreto, a contestare la graduatoria, non potendo egli far valere, quale defensor legitimitatis, un astratto interesse dell'ordinamento ad una corretta formulazione della graduatoria, se tale corretta formulazione non comporti per lui alcun apprezzabile risultato concreto. (ex multis, C.G.A., 4 marzo 2019, n. 201; Cons. Stato, sez. V, 23 agosto 2019 n. 5837; sez. IV, 2 settembre 2011, n. 4963 e 20 maggio 2009, n. 3099; sez. III, 5 febbraio 2014 n. 571).
[4] Sul punto Cons. Stato, VII, 26 giugno 2023, nn. 6237 e 6238.
[5] V. nota n. 28.
[6] V. Cons. Stato, Ad. plen., 9 novembre 2021, n. 22.
[7] Per candidati si intendono i soggetti dei Paesi UE e dei Paesi non UE di cui all’art. 39, comma 5, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, nonché dei Paesi non UE residenti all’estero ai corsi laurea magistrale a ciclo unico di medicina e chirurgia, odontoiatria e protesi dentaria e medicina veterinaria in lingua italiana di cui all'articolo 1, comma 1, lettera a), della legge 2 agosto 1999, n. 264.
[8] Ai sensi dell’art. 6, c. 4, D.M. n. 1107/2022, infatti, è stato previsto che: “Al candidato che ha sostenuto il test TOLC è assegnato un punteggio c.d. “equalizzato” che è ottenuto sommando il punteggio conseguito dal candidato con le risposte fornite ai quesiti 8 (punteggio c.d. “non equalizzato”) e un numero che misura la difficoltà della prova denominato “coefficiente di equalizzazione della prova”. L’attribuzione del punteggio non equalizzato avviene come segue: - 1,00 punti per ogni risposta esatta; - meno 0,25 punti per ogni risposta errata; - 0 punti per ogni risposta omessa. Il modello scientifico e i criteri di valutazione delle prove secondo il coefficiente di equalizzazione sono disciplinati nell’Allegato 2, che costituisce parte integrante del presente decreto.”
[9] Nello specifico riguardavano: competenze di lettura e conoscenze acquisite negli studi, biologia, chimica, fisica, matematica e ragionamento.
[10] Ai sensi dell’allegato 2 del D.M. n. 1107 del 24 settembre 2022, Modello scientifico e sistema di attribuzione dei punteggi equalizzati, questi viene descritto come: “Il nuovo sistema di accesso prevede un cambiamento sostanziale rispetto al modello previgente ed ha l’obiettivo di realizzare una selezione in ingresso equa ed efficace, che garantisca pari opportunità di accesso, ripetibilità delle prove e possibilità di attingere a strumenti di miglioramento della preparazione iniziale. Coerentemente con tale obiettivo, il nuovo modello di selezione ed accesso costituirà altresì un efficace strumento di orientamento che supporterà i partecipanti nella scelta consapevole del proprio percorso formativo. La predisposizione e la custodia dei quesiti è conseguente agli obiettivi posti alla base del modello scientifico. Elemento essenziale del modello, garantito dal CISIA, è costituito dal costante monitoraggio e dall’analisi dei risultati al fine di migliorare nel tempo la capacità orientativa e la capacità predittiva del test. Più nel dettaglio le prove saranno composte da quesiti la cui effettiva difficoltà sarà determinata a valle dell’erogazione. I punteggi assegnati ai partecipanti sono calcolati introducendo un coefficiente di equalizzazione che tiene conto delle difficoltà misurate dei singoli quesiti e rende equa la comparazione di tutte le prove sostenute, anche se composte da quesiti diversi e svolte in momenti diversi. Ne consegue che i quesiti presenti nelle prove devono necessariamente costituire una banca dati riservata non pubblica, di proprietà del CISIA, progressivamente alimentata e aggiornata, in grado di soddisfare l’esigenza di migliorare e mantenere nel tempo la qualità della selezione. Anche in presenza di una banca dati riservata, è possibile comunque garantire tutti gli elementi di trasparenza attraverso la comunicazione dei criteri e dei singoli argomenti con cui si costruisce il test e delle procedure attraverso le quali si garantisce l’analoga difficoltà/selettività dei test sostenuti e la pubblicazione di esercitazioni molto simili al test per argomenti e difficoltà. In casi motivati sarà comunque garantito l’accesso secondo modalità stabilite dagli Atenei e dal CISIA.”
[11] Il punteggio equalizzato della prova (𝑃𝑒𝑞) di ogni partecipante si ottiene sommando al punteggio non equalizzato della prova (𝑃𝑛𝑒) il coefficiente di equalizzazione della prova (𝐶𝑒𝑞). V. Decreto Ministeriale n. 1107/2022, all. 2.
[12] Si definisce coefficiente di facilità di una prova (𝐶𝑑𝐹𝑃) la somma dei coefficienti di facilità dei 𝑘 quesiti (𝐶𝑑𝐹𝑖) che la compongono. V. Decreto Ministeriale n. 1107/2022, all. 2.
[13] Si definisce coefficiente di facilità (CdF) di un quesito erogato il valor medio dei punteggi ottenuti per quello specifico quesito dagli 𝑁partecipanti ai quali il quesito è stato somministrato durante il periodo di calibrazione. V. Decreto Ministeriale n. 1107/2022, all. 2.
[14] V. nota successiva.
[15] Le norme relative alla condizione di parità che deve essere sempre garantita in sede concorsuale sono rinvenibili nei canoni dell’art. 97 della Costituzione; nei principi di cui all’art. 1 della L. 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi) in relazione ai generali canoni volti a guidare l’intera attività amministrativa; nella disciplina di dettaglio del D.P.R. 9 maggio 1994, N. 487 (Regolamento recante norme sull'accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi).
[16] Interessante ricostruzione sul tema del diritto allo studio - nel quadro dei principi costituzionali fondamentali, della giurisprudenza costituzionale, nonché della più recente legislazione statale e regionale – è effettuata da M. ROSINI, Capacità, merito e carenza di mezzi. Riflessioni critiche sul diritto allo studio, in Federalismi, 2022.
[17] Autorevoli commenti dell’art. 34 Cost.: M. BENVENUTI, Articolo 34, in F. CLEMENTI, L. CUOCOLO, F. ROSA, G.E. VIGEVANI (a cura di), La Costituzione italiana. Commento articolo per articolo, Bologna 2021, p. 238ss.; Q. CAMERLENGO, Art. 34 Cost., in S. BARTOLE, R. BIN (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, Padova 2008, p. 341ss; A. POGGI, Art. 34, in R. BIFULCO, A. CELOTTO, M. OLIVETTI (a cura di), Commentario alla Costituzione, vol. I, Torino 2006, p. 704ss.; B. CARAVITA, Art. 33 e 34, in V. CRISAFULLI, L. PALADIN (a cura di), Commentario breve alla Costituzione, Padova 1990, p. 232; S. CASSESE, A. MURA, Art. 33 e 34, in M. BESSONE, L. MONTUSCHI, D. VINCENZI AMATO, S. CASSESE, A. MURA, Rapporti etico-sociali. Commentario della Costituzione, diretto da G. Branca, Roma 1976, p. 252 ss.
[18] F. GRANDI, L’accesso ai più alti gradi dell’istruzione (il diritto allo studio attraverso la lente del principio personalista), in M. DELLA MORTE (a cura di), La dis-eguaglianza nello Stato costituzionale, Quaderni del Gruppo di Pisa, Napoli 2016, p. 61.
[19] Corte cost. 29 maggio 2002, n. 219, punto 4 del Considerato in diritto.
[20] Per il giudice della legalità costituzionale delle leggi: “Il diritto allo studio comporta non solo il diritto di tutti di accedere gratuitamente alla istruzione inferiore, ma altresì quello – in un sistema in cui "la scuola è aperta a tutti" (art. 34, primo comma, della Costituzione) – di accedere, in base alle proprie capacità e ai propri meriti, ai "gradi più alti degli studi" (art. 34, terzo comma): espressione, quest’ultima, in cui deve ritenersi incluso ogni livello e ogni ambito di formazione previsti dall’ordinamento”. Con la conseguenza che “Il legislatore [...] può regolare l’accesso agli studi, anche orientandolo e variamente incentivandolo o limitandolo in relazione a requisiti di capacità e di merito, sempre in condizioni di eguaglianza, e anche in vista di obiettivi di utilità sociale”, Corte cost. cit., n. 219 ripresa dalla più recente Corte cost. 19.3.2021, n. 42.
[21] Nei punti 48 e 49 della sentenza 2 aprile 2013 Tarantino e altri c. Italia: “48. The Court further considers that these restrictions conform to the legitimate aim of achieving high levels of professionalism, by ensuring a minimum and adequate education level in universities running in appropriate conditions, which is in the general interest. 49. As to the proportionality of the restrictions, firstly in relation to the entrance examination, the Court notes that assessing candidates through relevant tests in order to identify the most meritorious students is a proportionate measure to ensure a minimum and adequate education level in the universities”.
[22] Cfr. ex multis: T.A.R., Lazio, Roma, III n. 18980/2023; T.A.R. Lazio, Roma, III, n. 11328/2021, pagg. da 17 a 19; T.A.R. Lazio, Roma, III, 7 giugno n. 7358/2022; Cons.St., VI, n. 2296/2022; Cons. St., VI, n. 2302/2022, p. 3.2.
[23] V. punti nn. 10 e 11 della sentenza in nota.
[24] V. nota n. 1.
[25] Art. 4, comma 7, lett. b, del decreto direttoriale del 30 novembre 2022, n. 1925, recante la definizione delle modalità di svolgimento della prova d’esame.
[26] Si è anche tentato di specificare come il meccanismo avrebbe inciso sulla posizione di tutti i partecipanti in ragione di un palesato interesse astratto alla mera legalità amministrativa, non coerente con le caratteristiche di giurisdizione di tipo soggettivo quale quella amministrativa. Cfr. Cons. Stato, Ad. plen., 13 aprile 2015, n. 4.
[27] Per l’anno accademico 2018/2019 si era invece stabilito come “Considerato che l’aumento dei posti complessivi nelle Università italiane per detti corsi di laurea, disposto sia pur a partire dell’a. acc. 2019/2020, è indizio serio e non revocabile in dubbio della fondatezza della censura sul sottodimensionamento dei posti fin qui resi disponibili, compresi quelli per cui è causa, cosa, questa, che non smentisce, ma rende l’accesso programmato ai corsi medesimi fondato su numeri dell’offerta formativa, al contempo più realistici in sé ed adeguati ai prevedibili fabbisogni sanitari futuri”. Cons. Stato, sez. VI, ord. 25 luglio 2019 n. 3784.
[28] Nello specifico la norma individua “la valutazione dell'offerta potenziale, al fine di determinare i posti disponibili di cui alle lettere a), b) e c) del comma 1, è effettuata sulla base: a) dei seguenti parametri: 1) posti nelle aule; 2) attrezzature e laboratori scientifici per la didattica; 3) personale docente; 4) personale tecnico; 5) servizi di assistenza e tutorato; b) del numero dei tirocini attivabili e dei posti disponibili nei laboratori e nelle aule attrezzate per le attività pratiche, nel caso di corsi di studio per i quali gli ordinamenti didattici prevedono l'obbligo di tirocinio come parte integrante del percorso formativo, di attività tecnico-pratiche e di laboratorio; c) delle modalità di partecipazione degli studenti alle attività formative obbligatorie, delle possibilità di organizzare, in più turni, le attività didattiche nei laboratori e nelle aule attrezzate, nonché dell'utilizzo di tecnologie e metodologie per la formazione a distanza.”
[29] G. GENTILE, Il reclutamento pubblico: aspetti organizzativi, modelli di selezione e nuovi assetti, Giappichelli Editore, 2023, p. 27 e ss., ove si sottolinea come la programmazione del fabbisogno di personale costituisce il momento strategico in cui le amministrazioni pubbliche danno vita alla mappa delle professionalità che, poi, troveranno un concreto riscontro nel momento della redazione del bando di concorso. Sul tema tra i tanti, S. GASPARRINI, Conoscere per reclutare, in Giorn. dir. amm., 2021, p. 337 ss.; G. VECCHI, Fabbisogni e change management nella PA: per un reclutamento selettivo basato su progetti di riorganizzazione, in U. CARABELLI, L. ZOPPOLI (a cura di), Rinnovamento delle PA e nuovo reclutamento, in Riv. giur. lav., Quad. 6, 2021, p. 21 ss.; H. BONURA, Pianificazione e analisi dei fabbisogni, in Il lavoro pubblico, a cura di G. AMOROSO, V. DI CERBO, L. FIORILLO, A. MARESCA, Collana «Le fonti del diritto italiano», Giuffrè Francis Lefebvre, Milano, 2019, p. 321 ss.; M. ESPOSITO, Sisifo unchained? La pianificazione delle risorse umane nel lavoro pubblico: antiche questioni (irrisolte) e nomenclature “di seconda mano”, in Lav. pubbl. amm., 3, 2018, p. 67; A. RICCOBONO, La nuova disciplina sugli organici tra opportunità e occasioni mancate, in Il lavoro alle dipendenze della P.A. dopo la “Riforma Madia”, a cura di A. GARILLI, A. RICCOBONO, C. DE MARCO, A. BELLAVISTA, M. MARINELLI, M. NICOLOSI, A. GABRIELE, Cedam, Padova, 2018, p. 21 ss.; M. D’ONGHIA, Organizzazione degli uffici e superamento delle dotazioni organiche, in M. ESPOSITO, V. LUCIANI, A. ZOPPOLI, L. ZOPPOLI (a cura di), La riforma dei rapporti di lavoro nelle pubbliche amministrazioni. Commento alle innovazioni della XVII legislatura (2013-2018) con particolare riferimento ai d.lgs. n. 74 e 75 del 25 maggio 2017 (c.d. Riforma Madia), cit., p. 77 ss.
[30] Cfr. note nn. 1 e 2.
[31] Sul tema, A. MARRA, I pubblici impiegati tra vecchi e nuovi concorsi, in Riv. trim. dir. pubbl., 1, 2019, p. 233 s.; S. PEDRABISSI, Il procedimento concorsuale nel prisma dei saperi necessari alla Pubblica Amministrazione, in Var. tem. dir. lav., 1, 2020, p. 127 ss.; A. BOSCATI, Dalle esigenze dell’organizzazione alle modalità di reclutamento: punti critici della disciplina vigente e possibili interventi di riforma, in U. CARABELLI, L. ZOPPOLI (a cura di), Rinnovamento delle PA e nuovo reclutamento, in Riv. giur. lav., Quad. 6, 2021, p. 55; S. GASPARRINI, Conoscere per reclutare, in Giorn. dir. amm., 2021, p. 337 ss.
[32] Il blocco delle assunzioni ha inizio formalmente con l’art. 19 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (legge finanziaria 2002) per poi proseguire con più vigore dal 2010.
[33] Cfr. RAPPORTO INAPP 2021, Lavoro, formazione e società in Italia nel passaggio all’era post Covid-19, maggio 2021, p. 98, relativamente all’innalzamento dell’età media dei dipendenti pubblici (da 44,8 a 50,72) e all’incidenza del numero dei dipendenti pubblici rispetto alla popolazione (il più basso d’Europa con il 5,5%, rispetto all’8,4% della Francia, al 5,8% della Germania, e al 6,7% della Spagna). V. anche RAGIONERIA GENERALE DELLO STATO, La distribuzione per classi di età e andamento dell’età media nel periodo 2003-2019, 2020; CORTE DEI CONTI, Relazione sul costo del lavoro pubblico 2020, in www.cortedeiconti.it; FORUM PA, Lavoro pubblico 2021, giugno 2021, in www. forumpa.it; CAMERA DEI DEPUTATI – SERVIZIO STUDI XVIII LEGISLATURA, Concorsi, limiti assunzionali e dotazioni organiche nella P.A., 22 luglio 2022. In chiave comparata con gli apparati pubblici europei, v. anche R. REALFONZO, A. VISCIONE, Costi ed efficienza dell’amministrazione pubblica italiana nel confronto internazionale, in Riv. giur. lav., I, 2015, p. 497 ss.
[34] Conseguentemente è scaturita una diminuzione di unità di personale, ma anche una contrazione della spesa pubblica per stipendi di 1,8 miliardi di euro in dieci anni tra il 2008 e il 2018 (Fonte: EUROSTAT). Negli anni successivi allo sblocco del turn over, i dati aggregati per comparto hanno evidenziato significative diversità all’interno dell’apparato del pubblico impiego: a fronte di una diminuzione costante del numero dei dipendenti nelle Funzioni Centrali e Locali, si è invece assistiti, dal 2018, ad una crescita delle assunzioni nel comparto sanità, cfr. COMITATO SCIENTIFICO PER LA VALUTAZIONE DELL’IMPATTO DELLE RIFORME IN MATERIA DI CAPITALE UMANO PUBBLICO, Rapporto 2022, p. 11
[35] M. D’ONGHIA, La centralità della pianificazione dei fabbisogni e del sistema di reclutamento per una pubblica amministrazione efficiente, in Var. tem. dir. lav., 1, 2020, p. 76.
[36] Sul tema L. ZOPPOLI, P. MONDA, Innovazioni tecnologiche e lavoro nelle pubbliche amministrazioni, in Dir. rel. ind., 2, 2020; C. ACOCELLA, A. DI MARTINO, Il rinnovamento delle competenze nell’amministrazione digitale, in Riv. di Digital Politics, 1-2, 2022, p. 93 ss.; S. STACCA, La selezione del personale pubblico al tempo delle tecnologie digitali, paper presentato al Convegno AIPDA 2019, aipda.it.
[37] Si v. R. GUIZZARDI, Come cambia il rapporto tra dotazione organica, fabbisogno triennale e assunzioni a seguito dell’entrata in vigore della riforma della PA, in Aziendaitalia – Il Personale, n. 6/2017, pp. 333-338. Per una analisi sul superamento delle dotazioni organiche si V. anche M. D’ONGHIA, Organizzazione degli uffici e superamento delle dotazioni organiche, in M. ESPOSITO, V. LUCIANI, A. ZOPPOLI (a cura di), La riforma dei rapporti di lavoro nelle pubbliche amministrazioni. Cit., p. 77 e ss; A. BOSCATI, Il reclutamento riformato, in A. BOSCATI, A. ZILLI (a cura di), Il reclutamento nella p.a. dall’emergenza alla nuova normalità, cit., p. 64
[38] L’art. 6, d.lgs. n. 165/2001, come modificato dall’art. 4, d.lgs. n. 75/2017 (in attuazione della direttiva generale posta dall’art. 17, comma 1, lett. q) della legge delega n. 124/2015 e volta ad un «progressivo superamento della dotazione organica come limite alle assunzioni».
[39] Con le Linee di indirizzo per la predisposizione dei piani dei fabbisogni di personale da parte delle PA previste dall’art. 6-ter – adottate con decreto del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze il 9 maggio 2018 – sono stati elaborati i «criteri che le pubbliche amministrazioni devono seguire nella elaborazione del Piano Triennale». Sul punto V. G. GENTILE, Il reclutamento del personale pubblico, in M. ESPOSITO, V. LUCIANI, A. ZOPPOLI (a cura di), La riforma dei rapporti di lavoro nelle pubbliche amministrazioni. Commento alle innovazioni della XVII legislatura (2013-2018) con particolare riferimento ai d.lgs. nn. 74 e 75 del 25 maggio 20 17 (c.d. riforma Madia), Torino, 2018, p. 95 e ss.
[40] La cd. “Legge concretezza” all’art. 3, legge 19 giugno 2019, n. 56, fa riferimento a «figure professionali con elevate competenze in materia di: a) digitalizzazione; b) razionalizzazione e semplificazione dei processi e dei procedimenti amministrativi; c) qualità dei servizi pubblici; d) gestione dei fondi strutturali e della capacità di investimento; e) contrattualistica pubblica; f) controllo di gestione e attività ispettiva; g) contabilità pubblica e gestione finanziaria» (per un commento, cfr. V. TALAMO, Il pubblico impiego, in Giorn. dir. amm., 2, 2019, p. 176; B.G. MATTARELLA, La concretezza dell’amministrazione e quella della legge, in Giorn. dir. amm., 6, 2019, pp. 714-718; A. ZILLI, Alla ricerca dell’efficienza delle pp.aa., tra concorrenza, mille proroghe e bilancio, in Lav. giur., 3, 2020, p. 226 ss.).
[41] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, Sent. n. 2746/2015, ove il giudice stabiliva che “È illegittima la delibera con la quale il Consiglio di Corso di laurea in medicina e chirurgia di una università italiana respinge l’istanza avanzata da studenti iscritti al primo anno di studi di Facoltà di medicina di una università straniera, volta ad ottenere il trasferimento presso l’università italiana con iscrizione ad anno successivo al primo del corso di laurea in medicina e chirurgia con la motivazione che tali studenti, provenendo da università straniere, non avrebbero superato in Italia l’esame di ammissione al corso di laurea in medicina e chirurgia, requisito essenziale previsto dal manifesto degli studi (L. n. 264/1999)”. Confermando la sentenza del Tar Abruzzo, L'Aquila, sez. I, 37/2014; in senso conforme Cons. Stato n. 2744/2015.
[42] Dati analizzati dall'Associazione dei medici di origine straniera in Italia (Amsi) e l'Unione medica euro mediterranea (Umem): dei 450 professionisti della sanità italiani e dei 50 europei residenti in Italia che nell’ultimo trimestre hanno iniziato a programmare un lavoro nei Paesi del Golfo, 250 sono medici specialisti, 150 sono infermieri e 100 sono medici generici, fisioterapisti, farmacisti, podologi e dietisti, 2023.
[43] Come anche riportato in www.ilsole24ore.com/art/test-d-ingresso-medicina-addio-piu-dopo-l-ok-senato-riforma-AGijpPRB .
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