Potere, arte, cultura: una conversazione con Andrea Segre
di Marco Dell’Utri
L’incontro con il regista de La grande ambizione diviene l’occasione per una conversazione a trecentosessanta gradi sul cinema, sul racconto del potere e delle sue ramificazioni e articolazioni. Un dialogo sulla funzione politica dell’arte, sulla creatività della nostalgia e sullo smarrimento del senso dell’umanità della vita. Nel discorso che tocca i temi della tecnica cinematografica si insinua, improvviso, il richiamo alla ‘magia’ del cinema, così come al mistero che anima il risveglio delle energie collettive e l’urgenza di riscoprire il significato e il valore di ciò che è autenticamente ‘popolare’. La vicenda affrontata nel film su Berlinguer diviene quindi l’occasione, non solo per la rievocazione di un periodo storico e di una stagione ricchissima per la storia civile e culturale del nostro paese, ma anche - come un contrappunto - per un’analisi dello stato della politica e della cultura contemporanee. Transfemminismo, climate change, consumismo, pacifismo, populismo, antipatriarcato, razzismo e fascismo divengono, in rapida sintesi, i punti attorno ai quali si annodano i fili di un discorso politico; i titoli o i capitoli di un libro che al lettore curioso è richiesto, nella serena clausura della sua meditazione, di cominciare a scrivere.
Raggiungo Andrea Segre mentre è all’estero, impegnato nella presentazione di un suo documentario (Molecole) di alcuni anni fa.
Un appuntamento non facile da definire: il successo de La grande ambizione ha imposto ad Andrea ritmi serratissimi tra viaggi e spostamenti per la promozione.
E iniziamo col parlare di quello.
AS - Quando c'è un impatto pubblico ampio si finisce per essere un po’ attanagliati, però d'altronde si fanno i film anche per quello.
MD - È la tua prima volta a questo livello di pubblico?
AS - Questi numeri non li ho mai toccati. Anche gli altri film hanno sempre avuto un pubblico. Per quanto non sia ovviamente solo una questione di quantità, anche gli altri film, pur non avendo raggiunto questi numeri, avevano comunque sempre avuto un pubblico. Il massimo raggiunto dagli altri film era stato 100.000 spettatori, 500.000 non era mai capitato
MD - Considerato che sei anche uno scrittore, hai sospeso tutto…
AS - Mi piace molto scrivere; mia mamma era molto preoccupata da piccolo perché pensava che io fossi grafomane. Il tempo della scrittura è un tempo veramente e profondamente ‘antimoderno' e ha necessariamente bisogno di una sospensione.
MD - Ultimamente ho avuto modo di rivedere L'ordine delle cose e Welcome Venice: mi sono sembrati film abbastanza diversi da La grande ambizione e ti volevo chiedere se ci fosse un legame, un filo logico tra i tuoi film, o se invece appartengono ad esperienze tra loro autonome.
AD - Sono abbastanza diversi da quale punto di vista, secondo te? Secondo me hanno tanti elementi che li uniscono, benché ‘Berlinguer’ abbia avuto un suo specifico processo produttivo e una sua relazione con la storia. Tuttavia, il loro nucleo profondo consiste nell’osservare come le persone che vivono schiacciate da meccanismi di potere più forti di loro si relazionano con quei meccanismi, come riescono a conciliare il rapporto tra l'intimo e il politico, perché in fondo anche Berlinguer e il suo popolo vivono un profondo schiacciamento delle loro libertà. Poi c'è chi dice - ed è comprensibile - che fosse necessario bloccare quel progetto di cambiamento perché il rischio che l'Italia potesse finire sotto l’influenza di Mosca era più alto, per cui andava bloccato tutto. Tutto questo ha un suo perché.
MD - Dunque, si può dire che il cuore (o, in ogni caso, la nota ricorrente) del tuo cinema è il rapporto con il potere?
AS - Tu vorresti che il rapporto con un potere che influisce così tanto sulla tua vita fosse qualcos'altro, che la tua vita potesse dire o raggiungere qualcos'altro. Ma quel potere te lo impedisce e tu provi anche a reagire, ma fai molta fatica a contraddirlo. Il funzionario de L’ordine delle cose è chiamato a far funzionare il potere (ovviamente), ma lui capisce che le cose non vanno, che non è bello. Il pescatore di Welcome Venice non sa neanche perché rifiuta il potere che lo sta schiacciando (cioè sa perché, nella misura in cui non sa dove altro cercare un senso alla propria vita), però d'altra parte capisce anche che il fratello che lo contrasta ha un motivo, ha un perché nello stare dentro quel potere economico: non lo fa per cattiveria, lo fa perché funziona così, perché quella casa paterna piena di umidità, puzza di pesce e sofferenza, d’improvviso è diventata la chance di un business. E allora, perché fermarsi? Berlinguer sa che il potere non gli permetterà di realizzare la trasformazione socialista della società - come lui vorrebbe e come tantissime persone lo spingono a fare. Però non si ferma e s’inventa addirittura il compromesso storico che è un profondo tentativo di dialogo con il potere, fino all’iper-potenza (purtroppo non modificabile) che si rivela in occasione dell'uccisione di Moro. A me interessa molto come stanno gli esseri umani che sono incastrati lì dentro, che capiscono quanto sia sbagliata quell'iperpotenza, e che si interrogano sulle possibilità di modificarla. Allora ci rimangono dentro e, mentre ci rimangono dentro, esprimono una contropotenza, producono delle trasformazioni contro quelle potenze pur facendo un’enorme fatica a produrle in maniera strutturale.
MD - La tua analisi delle dinamiche del potere, di queste microfisiche del potere e delle controreazioni che innesca, è molto foucaultiana. In questo senso, secondo me, il tuo cinema è un cinema autenticamente ‘politico’.
AS - Puoi immaginare come si sia sentito Berlinguer quando ha visto le immagini del bombardamento sulla Moneda a Santiago del Cile?
MD - Non c'è dubbio.
AS - Credo che il ragionamento di Berlinguer sia stato molto chiaro: cosa posso fare io? Se continuo a sostenere una politica democratica realmente progressista; se continuo a far crescere il mio potere elettorale; se conquisto (come penso che sia possibile) la maggioranza delle classi medio-basse del paese e arrivo al 50% mi bombardano. Oppure mi ammazzano in un incidente stradale.
MD - Come peraltro si è tentato di far succedere… Insomma, è chiara la prospettiva politica del tuo cinema. Voglio però rispondere alla tua domanda sul perché mi è sembrato che La grande ambizione fosse un film diverso dai due precedenti. Ne L’ordine delle cose e in Welcome Venice mi è parso dominante il sentimento della perdita del senso di umanità (e, verosimilmente, credo ci sia un nesso significativo con la tua impostazione sul potere). Ne L'ordine delle cose, quel funzionario un po’ nevrotico (molte delle tue inquadrature si soffermano sulle sue manie di mettere a posto le cose, appunto ‘in ordine’, come in quel dettaglio della collezione di boccettine) sembra a un certo punto percepire (grazie all’incontro con gli occhi di una giovane migrante) gli automatismi che lo muovono nel gestire l’immigrazione di esseri umani come una qualunque operazione di import-export: e tuttavia, alla fine rinuncia a farsi travolgere da quel sentimento d’affetto (o di solidarietà) profondo e antico. In Welcome Venice, si avverte, nel pescatore, il fatto che la perdita del suo lavoro corrisponde allo smarrimento della sua unica dimensione aggregativa, sociale, ma soprattutto familiare: tu stesso racconti come, attraverso quella trasmissione generazionale di tecniche imparate dal fratello più grande e tramandate al nipote, il pescatore riesca a riallacciare in qualche modo i rapporti con la figlia che erano stati violentemente interrotti nel passato. Insomma, questo sentimento della perdita del senso di un mondo a misura d’uomo ha una sua potente dimensione nostalgica… come si avverte anche nella lingua veneta, che tu conservi nei dialoghi sottotitolati.
AS - Io credo molto nella potenza creativa della nostalgia.
MD - Infatti, mi domandavo se, rispetto a quei due primi film, la riproposizione della storia de La grande ambizione non abbia viceversa costituito, al di là della sua dimensione nostalgica, la ricerca di un rapporto più 'costruttivo’ con la realtà rispetto a quei precedenti.
AS - In effetti, attraverso la proiezione nelle sale de La grande ambizione abbiamo agganciato un'energia che è andata certamente oltre il nostro controllo. Il fatto di 150.000 ventenni che sono venuti a vedere il film era veramente il sogno più alto che uno potesse avere. Io avevo fatto vedere il film a dei ventenni mentre lo montavo: speravo che interagisse con loro, che lo capissero, ma che il film potesse generare una nostalgia creativa in dei ragazzi era veramente una cosa che, se l'avessi programmata, non l’avrei fatta così bene. Sono quelle cose che il cinema fa senza che tu le capisca fino in fondo. Quello che è successo, e che sta succedendo nel rapporto con i giovani, io lo ricollego a quello che io stesso ho sentito mentre studiavo questa storia: io avvertivo che questa vicenda mi parlava dell'oggi, di una mancanza, di una voglia, mi parlava di urgenze a cui non sappiamo più come rispondere, ed è quello che mi mandava avanti. Però non ho programmato di fare un film affinché i ragazzi potessero trarre energia politica da questo film. Non l’ho programmato, ma è successo. Perché il cinema ha la potenza di far succedere delle cose. Poi, se vai a vedere, probabilmente è successo perché io sentivo quelle cose e quindi ho scelto delle immagini che corrispondevano a questo sentire. Non so esattamente qual è l'immagine che è riuscita a far nascere questo tipo di emozione e di energie che poi il film ha scatenato.
MD - È possibile che possa dipendere dalla figura storica di Berlinguer?
AS - È certamente possibile che sia la figura di Berlinguer o il paragone con le figure della politica di oggi. Tuttavia, questa mi appare una spiegazione superficiale: non bastava questo per arrivare a queste cifre. 500.000 sono tante; considera che se ne aggiungono 5-6.000 al giorno, per cui arriveremo a 600/700.000 persone. Questo vuol dire uno su 100. È tanto. È una cifra veramente consistente, soprattutto perché non sono click da tastiera: sono esseri umani che vanno in sala, è molto diverso. È probabile, quindi, che tutto sia dovuto alla combinazione tra la figura di Berlinguer, la potenza creativa straordinaria di Elio (Germano), e però anche l'interazione con i volti, i primi piani del repertorio. Quello credo che abbia avuto una sua specifica potenza. Portarti con gli attori e con un attento lavoro di ricostruzione cinematografica dentro a un mondo, e poi ritrovare lì le facce vere di chi ti guarda e ti dice come stava. Questo forse ha creato questa connessione.
MD - Lì, dal punto di vista tecnico, c’è anche la tua esperienza di documentarista.
AS - Sì. Adesso ancora non lo so. Ma dovrò rivedere il film fra due o tre mesi per capire. Perché quando, dopo due o tre mesi, rivedi quello che hai fatto, allora capisci cosa è successo. Però una cosa su cui ho sempre istintivamente portato la mia attenzione è su cosa dicono gli occhi e i volti delle persone quando stanno zitte, e quelle persone per me sono sia attori che non-attori. Anzi, più sono non-attori, meglio è; perché così non stanno controllando e non stanno filtrando. Gli attori più potenti per me sono quelli che sembra non facciano niente, mentre invece fanno tutto; quelli che, pur sottraendo tutto, hanno un pensiero talmente denso che ti arriva senza usare la faccia per dirtelo. Questo per me è potente; è quello che succede alle persone normali quando agganciano la dimensione cinematografica in maniera inconsapevole; sono i protagonisti dei documentari, che non si difendono dalla telecamera come facciamo noi diventando imbarazzati o falsi.
MD - Maschere…
AS - Si. Sciolgono quelle maschere per una magia che è legata al cinema e che io aiuto nella mia interazione, ovviamente, ma non so esattamente come si crea, non c'è regola precisa con cui si crea, però so sentire quando una persona perde la maschera e vedo nei suoi occhi quello che sta pensando della sua vita. In quel momento io lo vedo immediatamente, torno dalle riprese e dico al montatore «è successo!». E il montatore lo trova, è una cosa che senti sulla pelle.
MD - Un fatto intuitivo.
AD - Questo accesso intuitivo alla profondità è quello che il grandissimo attore sa costruire e che il documentario ti permette di incontrare in maniera magica e imprevedibile. Ma soltanto quando l'hai incontrata il documentario diventa cinema, è quello che in fondo ho cercato nei materiali d'archivio, cioè riguardando i volti dei materiali di archivio insieme a Jacopo Quadri. Noi ci siamo emozionati lì dove non c'era la maschera ma c'erano le persone che ti dicevano perché erano contente o erano tristi di far parte di quell'ideale. E questo è un aggancio emotivo diretto tra individuo e politica che è quello che manca ai ragazzi.
MD - Intendi i ragazzi di oggi?
AS - L’altro giorno ero in piazza a vedere la manifestazione per la Palestina; era piena di ragazzini di vent’anni con bandiere con falce e martello di otto partiti comunisti diversi.
MD - La sensazione è l’insufficienza di un’analisi (come si diceva una volta...), il difetto di una coscienza.
AS - In questo caso sì. Ma anche in questa frase che hai appena detto - e che io condivido - stiamo un po’ tarpando le ali a una cosa che invece costituisce un'espressione importante, una cosa assolutamente nuova che, seppure consideriamo un po’ debole, non è così debole. Nelle due grandi espressioni dei movimenti giovanili di oggi - il climate change e il transfemminismo - c'è una potenza creativa nuova che non esisteva negli anni ’70, perché il femminismo non era ‘transfemminismo’ e non era questione di genere legata a un'identità variabile, ma era un antipatriarcato puro. Chiaramente il transfemminismo di oggi è figlio del femminismo degli anni ’70, così come il movimento contro il climate change è figlio dell'ambientalismo degli anni ’80. Però si avvertono gli elementi di rapporto con l’identità e con il futuro completamente diversi. Questi ragazzi hanno un rapporto nuovo con la volontà di rendere politica la libertà di genere, difficile da ritrovare negli anni ’70; e una volontà di ricollegare la frustrazione di questa libertà ai meccanismi di potere economico. Individuano nel capitale ciò che produce la mancanza di questa libertà e combattono quello che il capitale ha fatto fino ad ora, ossia fingere che il capitale assicuri la libertà di genere attraverso la società dello spettacolo. In alcuni pride c'è ancora questo abbaglio, c'è ancora la Coca-Cola che ti sponsorizza per fare il tuo ballo in libertà. Invece, in Non Una di Meno e nei pride più consapevoli questa falsità è smascherata e raccontata molto bene; nel movimento contro il climate change invece c'è il rapporto con la certezza di un’assenza di futuro che trasforma radicalmente il pensiero politico e che è proprio l'opposto del Sol dell'avvenire.
MD - Siamo in ogni caso dentro la logica del consumo come idea generale: del consumo dei prodotti dell’industria come quello delle risorse fisiche disponibili. A distanza di oltre cent’anni siamo sempre dentro le logiche della volontà di potenza…
AS - Ci sono dei collegamenti. Quello che non ha avuto un suo sviluppo, perché schiacciato dalla violenza devastante del potere, è il pacifismo, rimasto incastrato dentro al conflitto bellico. I movimento pro Pal non fanno pacifismo, per esempio, per quanto io ovviamente capisca bene i motivi della rabbia dei pro Pal.
MD - Si tratta di una rabbia che sembra esprimersi rinnovando le ragioni del conflitto.
AS - Rispetto al mondo di oggi, la guerra fredda, in confronto, è una passeggiata.
MD - La minaccia incombente, non realizzata, trattiene. Oggi, invece, la violenza si agisce, non si minaccia.
AS - Dovrebbe succedere qualcosa che riesca a riaccendere la potenza del pacifismo. È l'unica cosa che può cambiare l'ordine della potenza bellica di questo momento. È la prima volta che tutti i parlamenti di tutte le democrazie occidentali votano senza nessun problema l’aumento del budget bellico per la produzione di armi.
MD - Se non capisco male, Andrea, mi sembra che proprio il congelamento della passione politica - soprattutto nella gran parte delle generazioni più giovani a partire dagli anni ‘80 e ’90 - abbia costituito l’innesco per il recupero degli anni ’70. È possibile affermare che il film su Berlinguer sia anche il film su una società politicamente più appassionata?
AS - Sì. In realtà, dentro agli anni ‘70 del PCI (ma non agli anni ‘70 del Movimento, che è un altro pezzo enorme degli anni ’70) io ho sentito la connessione fra tre mancanze autentiche dell'oggi; cioè fra tre elementi che oggi non si connettono: la comunità, l’ideale e l'organizzazione. Oggi possiamo avere degli ideali, ma non riusciamo a renderli veramente unitari in una comunità ampia; diventano ideali frammentari. Dall'altra parte, anche se questa comunità cresce, si mantiene separata dalla dimensione dell’organizzazione politica e non sa come influire sul mondo. Questo mi ha interessato molto, non la celebrazione di Berlinguer e del PCI in sé.
MD - Questo mi pare fosse abbastanza chiaro. Tuttavia, il richiamo a quel periodo è pur sempre la rievocazione di un’esperienza di sconfitta: alla fine, il potere (l’iper-potere come dici tu) è sempre più potente delle realtà più piccole e frammentate. Mi domando dove il tuo film pensi di individuare le fonti di energia per tornare a imboccare la strada di un’alternativa, o di più alternative.
AS - Io penso che il racconto degli sconfitti del potere - che però sono consapevoli della violenza e che tentano una reazione, per poi essere ancora una volta bloccati - contribuisca a nutrire il potenziale di reazione di chi subisce il potere senza rinunciare a produrre comunque qualche cambiamento. Il fatto che esistano delle energie di opposizione alle clausure del razzismo e della discriminazione, costantemente perseguiti dalle politiche migratorie, ha intanto salvato la vita a tante persone e riesce a costituire spesso un ostacolo alle cadute peggiori. Si tratta di dinamiche del potere che esistono dalla comparsa dell’uomo in poi.
MD - Quando parli del racconto come antidoto, del racconto delle esperienze di sconfitta come testimonianza dovuta dai contemporanei, mi ricordi Walter Benjamin: la necessità, da lui raccomandata, di contrastare la giurisprudenza dei vincitori, la sua evocazione del simbolo dell’Angelus Novus di Paul Klee, l’Angelo della Storia con il viso rivolto alle rovine del passato nell’atto di ricomporre l’infranto, eppure irresistibilmente attratto dalla tempesta (la ‘tempesta del progresso’) che spira dal paradiso. Benjamin e Foucault sono riserve di pensiero politico che hanno attraversato il Novecento, ma che ancora appaiono capaci di enorme ispirazione.

AS - Del resto, anche il PCI in quegli anni produsse una pressione sociale capace di ottenere miglioramenti: non è che quella storia non abbia ottenuto niente.
MD - Al contrario direi: probabilmente la stagione degli anni ‘70 ha coinciso con una parentesi politica in cui, per la prima volta, la Costituzione ha trovato una sua realizzazione concreta. Penso allo statuto dei lavoratori, all’introduzione del divorzio, alla riforma della famiglia, all’aborto, alla riscrittura del governo della scuola in senso partecipativo, al servizio sanitario pubblico, alla riforma delle carceri e all’abolizione degli ospedali psichiatrici, insomma alle grandi conquiste politiche e civili di quegli anni straordinari. Tutto questo mi fa pensare che solo la passione politica - come forma di energia collettiva - è in grado di concepire e realizzare concretamente conquiste autenticamente ‘popolari’, utili alla gente.
AS - Stavo arrivando proprio al termine popolare: il vero punto è che in fondo quello che io racconto è sempre il popolo, cioè il soggetto passivo del potere, tendenzialmente è la classe privilegiata (il cardinale/il re/il grande imprenditore) che tende a passivizzare il suddito/cliente/consumatore e a fargli credere che stando con lui starà meglio.
MD - Sono tecniche antiche…
AS - Nel momento in cui esistono dei movimenti, delle pressioni al cambiamento che invertono questo rapporto e dicono al popolo «no, non devi accettarlo, perché hai altri diritti, altri spazi, altre possibilità, altre felicità», questo produce dei cambiamenti strutturali potenti. Per fare questo ci vogliono convergenze, figure, idee, organizzazioni veramente forti.
MD - Pensi che all’arte spetti questo compito, questo racconto, questa sollecitazione?
AS - L’arte può collaborare. Svelare la sudditanza del popolo e dire che il popolo ha il diritto di prendersi dei diritti anche attraverso la consapevolezza della fatica di rovesciare il potere; credo che l’arte possa aiutare a dire questo. In questo senso, il termine popolare è veramente un termine importantissimo. Quando Berlinguer parla delle «masse popolari» intende questo. «L’alleanza tra le masse popolari» è il sovvertimento dell’ordine delle cose.
MD - Siamo all’esatto contrario del populismo: un sottile crinale che fa una differenza enorme: dove il popolo, da soggetto della trasformazione, ne diviene propriamente l’oggetto.
AS - Qui bisogna fare attenzione: il termine ‘populismo’ viene utilizzato (infiltrato) dal potere per sminuire il ruolo del popolo. La conseguenza delle denunce del populismo facilmente si traduce nell’affermazione secondo cui il popolo è scemo e noi intellettuali di sinistra - utilizziamo pure questa categoria…
MD - …logora…
AS - … sì, logora - cadiamo nel rischio istintivo di dire «quelli che votano Trump sono scemi» perché lui è un populista e usa il popolo come oggetto passivo e loro gli vanno dietro. Tendenzialmente poi il popolo si sente autorizzato a votare Trump e ad essere scemo. Il termine ‘popolare’ sta ricrescendo molto in Francia, ad esempio. Facendo una ricerca per il nuovo documentario che sto pensando di fare ho visto che questo termine (l’azione popolare, l’ecologia popolare, la giustizia popolare, il movimento popolare per le case, il Nuovo Fronte Popolare) sta ritornando con un suo valore e credo che sia molto importante farlo ritornare perché è l’unico vero modo per dire che è lì, in quelli che oggi pensiamo si stiano facendo fregare, che stanno tutte le energie necessarie, non possono stare soltanto nei salotti, nelle università o nelle case dei registi.
MD - Questo è il grande problema: trattiamo, anche qui, temi importanti e delicati entrando in un dialogo utile anche con riferimenti essenziali della nostra storia culturale (Foucault, Benjamin, Klee); e questo, in forme che possono apparire anche molto autoreferenziali (l’intellettuale di sinistra, il radical chic… secondo l’intollerabile linguaggio che gira intorno): non lo vedi il rischio che l’arte e la cultura continuino a rimanere inaccessibili alla maggior parte del popolo? O, addirittura, un interesse specifico a lasciare che il popolo rimanga lontano da una comunicazione artistica o culturale che non sia di mera evasione o di consumo?
AS - Ci sono alcuni segnali di contrasto. Uno su cento inizia a essere popolo. Anche altri segnali come, ad esempio, un film intelligente come Il ragazzo dai pantaloni rosa, ma anche l’exploit dei film di Cortellesi o di Garrone. Comunque c’è una volontà, uno spazio per un cinema, diciamo, di attenzione civile che pone delle domande, che, nel mio caso, è cinema politico e negli altri due casi lo sfiora; un cinema che dice «attenzione, che nel popolo c’è un desiderio di essere attraversati da una consapevolezza e da una voglia di attivazione finora sopite». Ricordiamoci che il 40% delle persone non va a votare. C’è un pezzo molto grande di addormentamento, che tuttavia rimane in attesa. E poi si articola in varie esperienze di piccole comunità frammentate che non si organizzano per diventare politica. Io giro l’Italia con grande piacere con i miei film e in ogni città trovo sempre delle comunità che si organizzano, che tentano un’azione. E queste comunità non sono borghesi.
MD - Se le energie popolari intercettate dal cinema (dall’arte o, comunque, dalla cultura) non riescono a trovare uno sbocco politico in una proposta organica, la responsabilità storica della sinistra è enorme. Comincio a pensare che l’idea che vengano distrutti sistematicamente progetti politici di emancipazione non sia tanto un caso: non sarà che c’è qualcosa che lo rende inevitabile?
AS - Sicuramente la sinistra ha rinunciato a essere autenticamente popolare. Anche il solo fatto che abbiano chiuso più di seimila case del popolo è una follia. Perché l’hanno fatto?
MD - Se non ricordo male quel tuo funzionario che andava in Libia a trattare sull’immigrazione era un funzionario di un governo di sinistra, non era forse la sinistra che pagava la Libia per tenersi la gente?
AS - In quel caso era la sinistra, ma lo hanno fatto tutti. Quando lo ha fatto Minniti erano tutti contenti, perché così si fermava la destra facendo una cosa più cattiva della destra.
MD - Questa è la strada che porta alla distruzione.
AS - Varie persone mi dicevano «perché hai fatto un film contro Minniti?», ma io ho iniziato a farlo ben prima, ho iniziato a scriverlo nel 2014 ed è uscito nel 2017.
MD - In realtà, poi, un film, come qualsiasi opera d’arte, non è mai un resoconto di quello che succede.
AS - Però uscì in contemporanea a quei fatti di cronaca.
MD - Sembrava fatto apposta…
AS - La gente ha pensato che fosse fatto apposta per attaccare Minniti, e anche gente, diciamo, di sinistra mi diceva «ma perché hai fatto un film contro Minniti proprio adesso? L’unica possibilità per fermare la destra…», questo era il ragionamento. Se arrivi a questo punto sei veramente disperato, se arrivi a pensare che mettersi d’accordo con le milizie che ammazzano le persone nei lager è il modo per fermare la destra stai proprio lontanissimo.
MD - Sono quelle idee che lasciano pensare all’UR-fascismo, al ‘fascismo oggettivo’ che va al di là del fascismo storico, di cui parlava Umberto Eco. E che mi pare taglino trasversalmente la destra e la sinistra politica. A me sembra che dietro questi rigurgiti di fascismo (nel rifiuto, in forme anche violente, del cambiamento, della diversità) ci sia un grande rimosso, che solo apparentemente è privato o domestico. Si tratta del rimosso della donna come figurazione della disfunzionalità, della distruzione, della destabilizzazione. Il fatto che la donna pretenda di sottrarsi ai vincoli dei suoi ruoli antichi di madre, moglie e custode del focolare domestico, sembra generare un rifiuto (quasi) istintivo, non sempre consapevole, ma realissimo. Niente aborto, ma anche - contraddittoriamente - niente lavoro possibile per le donne-madri: la società competitiva è inadatta a qualunque inserimento sociale decente della donna. Non parliamo dell’intolleranza nei confronti dell’omosessualità (come si scorge con evidenza nel rifiuto di farne la radice di un progetto di comunità familiare) o dei percorsi di transizione di genere. Mi sembra che al fondo di questa sotterranea (ma riconoscibile) ostilità all’abbandono della famiglia classica vi sia un grande rimosso. La società sembra accettare con riluttanza (quasi con un senso tragico) l’idea che la donna (simbolo antropologico della diversità) possa condividere con l’uomo una nuova idea di soggettività (mi pare che il recentissimo Conclave di Edward Berger - altro regista degli anni ’70 - abbia còlto con una certa precisione questo aspetto). Copernico ha tolto all’umanità la centralità nell’universo; Darwin, la centralità tra le specie animali; Freud la centralità della coscienza. Prima che l’intelligenza artificiale compia la sua quarta rivoluzione, la crisi sembra attraversare l’umanità al suo interno, nell’ultima resistenza del maschio all’idea di non essere più padrone in casa sua. Si tratta cambiamenti antropologici profondissimi e radicali: non pensi che anche il rifiuto di questo cambiamento, la conservazione della società patriarcale (l’ultimo disperato tentativo di salvare qualcosa di un’identità morente), sia uno degli elementi psicologici più profondi di questo ritorno dell’UR-fascismo?
AS - Ci sono delle cose che riconosco. Forse sono ottimista nel vedere la potenza modificante della nuova generazione. E tu dirai: «ma cosa stai dicendo, Giulia Cecchettin è di una nuova generazione ed è stata uccisa dal fidanzato!». Però mi sembra che questo rapporto uomo-donna, che conferma certamente una direzione di presenza di fascismo e di patriarcato dentro alla famiglia e alla società, non abbia spazio dentro alla generazione di mia figlia che ha vent’anni. Mi sembra veramente impossibile che abbia spazio dentro di loro, però forse è un mio ottimismo. È talmente tanto potente la loro necessità di sentire riconosciuta come inestricabile la mia libertà di essere quello che voglio da un punto di vista anche sessuale e di genere che non capisco come possa attecchire questo fascismo maschilista di cui tu parli.
MD - Tuttavia, le proposte politiche di conservazione culturale (non voglio parlare sempre di fascismo) sembrano riscuotere enormi consensi un po’ dappertutto, non solo in Italia: pensa alla Germania, alla Francia, agli Stati Uniti.
AS - Sì, ma non per questa questione, ma per la paura dell’altro.
MD - Ma non si tratta sempre - quanto all’immigrato, allo straniero, così come al disabile, all’omosessuale - di altre figure della diversità, che la donna, da sempre, rappresenta antropologicamente?
AS - In realtà, io credo che sia stata la potenza del movimento dei popoli a fornire occasioni e nuove energie ai fascisti. Quando io presentai il mio primo progetto di documentario sulla Libia in Rai mi dissero: capiamo la tua emozione per questa povera gente, ma è una cosa temporanea di cui pochi si occupano. Era il 2008. Si pensava che fosse un fenomeno transitorio. Non pensavano che fosse l’inizio di una trasformazione globale gigantesca.
MD - La realtà è che se non si acquista questa prospettiva più ampia, se non si comprende che il fenomeno migratorio ha radici storicamente e culturalmente profondissime (benché molto precise), non si riuscirà mai ad elaborare politiche adeguate. Ancora una volta: non sarà che c’è qualcosa che rende inevitabile quest’incapacità?
AS - Essendosi preparati a questa cosa solo con lo sguardo miope dell’umanitario (poveretti, dobbiamo salvarli) - qualcosa che, ovviamente, va comunque tutelato dall’aggressione dei razzisti - saremo sempre deboli e perdenti. Uno dei libri fondamentali dei miei studi è Lo spettacolo del dolore di Luc Boltanski: un libro di socio-semiotica che mi ha illuminato. Nel momento in cui raccontiamo una persona come vittima stiamo facendo la stessa cosa di quando la raccontiamo come nemico; la stiamo passivizzando, oggettivizzando e trasformandola in una cosa utile solo a una nostra direzione morale.
MD - Questo è un po’ l’effetto di quella tradizionale confusione che spesso si fa tra carità e solidarietà.
AS - Aver reagito a questo cambiamento globale gigantesco per cui per mia figlia oggi che io dica «quel bar è gestito da cinesi» o «in trattoria, in cucina c’è un bengalese» non è più una notizia, dieci anni fa lo era. È inevitabile che questo crei scompensi. Aver reagito a questo, non con una progettualità politica di integrazione, ma soltanto attraverso l’umanitarismo di eroi alla Mimmo Lucano o Gino Strada non ha funzionato.
MD - Torno a dire: non posso credere che una forza di sinistra non sia realmente in grado di gestire l’immigrazione in maniera corretta e funzionale a una fruttuosa integrazione (o ‘interazione’ come direbbe Gustavo Zagrebelsky) tra comunità di provenienza culturale e geografica diversa; che non abbia ancora avuto la capacità e le energie morali e culturali per sollecitare studi avanzati e progetti raffinati capaci di fare questo.
AS - L’altro giorno parlavo con il giovane segretario della CGIL di Mestre e lui mi ha raccontato che, quattro anni fa, a un certo punto ha detto: «andiamo alla Fincantieri, troviamo tre operai bengalesi e iniziamo a costruire dei delegati stranieri perché non ha nessun senso che noi siamo a Mestre e non abbiamo delegati stranieri». E tutti gli hanno detto: «ma come farai?». Ebbene, ci è riuscito e oggi hanno cinquecento delegati di venticinque nazionalità diverse. È un lavoro enorme. Ma d’altronde quanto enorme era il lavoro che in passato hanno dovuto fare il movimento operaio e socialista, i sindacati, etc. La sinistra non ha capito che questa trasformazione epocale e irreversibile del movimento dei proletari di tutto il mondo era una cosa di cui occuparsi profondamente e non lasciarla alle ONG o ai santi.
MD - Da quello che dici mi sembra di intuire, nel tuo pensiero, un barlume di ottimismo, che io scorgo nella fiducia (non nell’ordine ma) nella forza delle cose. Alla fine, la ‘forza delle cose’ (per riandare a Simone de Beauvoir) è tale che qualunque ordine non potrà resistere, per cui occorre prepararsi anche politicamente a questo. Sei d’accordo?
AS - Sì. C’è un mio libro che esce in questi giorni si chiama Scritti mediterranei, sono quindici anni di appunti lungo la frontiera di un ragazzo giovane che inizia a muoversi dentro quelle storie e prova a raccontarle. Sono questi diari lungo la frontiera che ho deciso di intervallare con dei momenti di respiro dove racconto la vita di mia figlia più piccola, che ha sei anni e vive all’Esquilino a Roma. Mentre l’Europa e il mondo costruiva la follia antidemocratica e disumana delle politiche migratorie costruendo i germi del fascismo – perché abituare la gente all’idea che sia normale chiudere altri esseri umani in un lager o affondarli per fermarli significa far crescere il germe del fascismo, dire «sì, sappiamo che muoiono, ma così si fermano» è dire che è normale che altri esseri umani per la tua libertà muoiano, quindi trasformandosi in fascisti - nel frattempo, la società in cui cresce mia figlia è inevitabilmente frutto dei movimenti di emancipazione cresciuti in questi anni, perché i movimenti trovano altre strade. Purtroppo, passando attraverso morte e discriminazione, però trovano altre strade e dunque contribuiscono a costruire un cambiamento anche dentro alla violenza e alla fatica del rapporto con il potere. Anche solo il fatto che per mia figlia sia normale giocare al parchetto con bambini di sette nazionalità diverse è un pezzo di quel cambiamento.
MD - È certamente un dato di partenza. Per chiudere con una nota (solo apparentemente leggera) ho letto una battuta di Nanni Moretti secondo cui tu, negli anni Settanta, avresti combattuto il compromesso storico. Mi pare un’affermazione che sembrerebbe addirittura attribuirti un’identità ‘rivoluzionaria’. Peraltro, io credo che oggi Nanni Moretti non girerebbe più Io sono un autarchico o Ecce bombo; oppure, probabilmente, li girerebbe in modo diverso. Che ne pensi?
AS - Non riesco a capire se io lo sminuisco e sbaglio. Io ho visto due elementi positivi in quella provocazione. In primo luogo, che questo è un film non fatto dalla sua generazione, ma dalla nostra. Questo ha aiutato il film. Non è la celebrazione di una cosa che loro hanno vissuto e adesso ci dicono quanto era bella. L’altra parte positiva è che questo film non è fatto da berlingueriani duri e puri, ma da persone che non si sono neanche chieste se io fossi berlingueriano o meno. È un tipo di rapporto diverso con quella storia. Piuttosto, da quello che mi dici (ma anche da quello che mi hanno detto altre persone) devo forse dedurre che lui volesse rimproverarmi la celebrazione di una figura non proprio così edificante?
MD - No, affatto. Io credo che Moretti fosse berlingueriano all’epoca e che fosse piuttosto polemico nei confronti di quella parte della generazione degli anni Settanta che nei suoi film veniva rappresentata – vado per slogan – con quelle posture un po’ bohémien, da rivoluzionari inconcludenti, un po’ oblomoviani, da lui totalmente rigettate. Quindi io penso che Moretti fosse senz’altro berlingueriano. Io, peraltro, me lo ricordo bene Berlinguer: moltissime persone lo consideravano un traditore.
AS - Non so se dalla gran parte delle persone.
MD - Da un bel pezzo sicuramente.
AS - Da un pezzo rilevante soprattutto di generazioni un po’ più giovani di lui, ma da un punto di vista strettamente storico lui ha scritto l’articolo sul Compromesso storico nel ’73 e nel ’75-’76 il PCI ha avuto il massimo storico dei voti. Che la sua idea non fosse perdente è certificato da quello. La bestia che gli si infila in mezzo è Andreotti.
MD - Tu dici Andreotti, ma certamente non solo lui…
AS - Secondo me lì Berlinguer ha sbagliato ad accettare il governo con Andreotti, doveva provare a giocare un po’ più alto; è chiaro che ha avuto paura delle BR che erano entrate, in modo molto violento, anche nel suo mondo. Questo è un altro racconto che in Italia non abbiamo avuto il coraggio di fare. Non abbiamo mai fatto il racconto di chi erano le BR, non quelle di Curcio, ma quelle di Mario Moretti, dal ’75 in poi. Si va dentro alla materia grigia dello stato. Non esiste un film su questo.
MD - Può essere un’idea utile per il tuo lavoro. Le BR furono in primo luogo certamente degli assassini. Autoproclamarsi un’avanguardia rivoluzionaria in una società che pure stava facendo grandi passi avanti sulla strada della democrazia politica - e senza neppure accorgersi della distanza che li separava dalla gente comune - fu ingenuo, miope e, da ultimo, criminale.
AS - L’altro film che non abbiamo mai fatto è il rapporto tra MSI e Ordine nuovo dal ’69 in poi.
MD - E i servizi deviati…
AS - Io penso che il Compromesso storico fosse stato ben capito dal popolo, perlomeno dalle Case del popolo e da un pezzo di mondo cattolico. I comunisti andavano a messa, certo non tutti, ma non c’erano dodici milioni di atei. È questo che ha agganciato la proposta del Compromesso storico a quel risultato elettorale.
MD - Quella società non esiste più.
AS - Quando Berlinguer ha iniziato a fare l’accordo con Andreotti, Moro l’ha fatto rosolare dentro quell’accordo finché poi non si è reso conto che la situazione era troppo grave e ha provato a bloccarla; quella situazione grave era diventata più potente di lui e l’ha ucciso, l’errore è stato quello. Lui doveva alzarsi da quella scena del dialogo con Andreotti e dire «io non ti voto».
MD - Non pensi che fosse un errore non lavorare per la liberazione di Moro?
AS - Era già troppo tardi.
MD - E forse anche pericoloso.
AS - Lui capisce, quando viene sequestrato Moro, che ha sbagliato a cercare il dialogo con Andreotti e quel pezzo di potere: era troppo. Doveva essere il nemico da scardinare per poi convincere pezzi di DC a staccarsi.
MD - Compito immane…
AS - Tanti pezzi di DC si sono staccati e hanno creato delle liste a parte, hanno iniziato a sostenere sindaci socialisti, stava succedendo nel paese. A livello nazionale era un’altra storia.
MD - Non si è mai battuto abbastanza sul ruolo di Craxi nel rapporto tra il PCI e la DC: fu un agente strategico.
AS - Sarebbe un altro film da fare, dopo il ’79, ma non credo che farò un sequel.
Le ultime battute della conversazione con Andrea Segre lasciano emergere un vago sentimento di rammarico per le storie che non sono state (ancora) raccontate e per quelle che (forse) non lo saranno mai.
Davvero il tempo ‘antimoderno’ richiesto dalla scrittura, parrebbe ritagliare i limiti che segnano la forma di ogni possibilità creativa. E tuttavia, rimane ancora il tempo delle brevi sospensioni, dello scarto dalle consuete premure e dell’inattesa fortuna di un incontro.
Immagine: Paul Klee, Angelus Novus, olio e acquerello su carta, 1920, Museo d'Israele, Gerusalemme.
Su Questa Rivista, si veda Berlinguer - La grande ambizione. Recensione di Giovanni Zaccaro.