ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Focus sui programmi di scambio internazionale tra magistrati - 2. Il tirocinio presso il desk italiano di Eurojust “Giovanni Falcone e Paolo Borsellino”
di Federica La Chioma
[L’articolo segue a I programmi di scambio internazionali tra le Autorità Giudiziarie di Marco Alma e all’Editoriale dedicato all'iniziativa]
Sommario: 1. Introduzione - 2. Mandato d’arresto europeo - 3. Estradizione - 4. Ordine europeo di indagine - 5. Sequestro e confisca all’estero - 6. Conflitto di giurisdizioni - 7. Reati informatici e/o commessi con mezzi informatici - 8. Conclusioni.
1. Introduzione
Questo contributo intende rassegnare una sintesi delle principali attività, di carattere prettamente giurisdizionale ovvero speculativo-compilativo, da me svolte nel corso del tirocinio della durata di quattro mesi che ho avuto l’opportunità di svolgere presso il Desk italiano ad Eurojust “Giovanni Falcone e Paolo Borsellino” nel corso dei periodi 19.04.2022-29.07.2022 e 26.09.2022-15.10.2022 sotto la direzione del Membro Nazionale dott. Filippo Spiezia ed in affiancamento ai magistrati assistenti dott.ri Silvio Franz, Teresa Magno, Aldo Ingangi, agli esperti nazionali distaccati Dir. PP Sergio Orlandi, Mar. C. GdF Marco Mosele, T. Col. CC Simone Martano e con la collaborazione delle assistenti sig.re e dott.sse Annamaria Petrucci, Daniela Menozzi, Marina Cociancich.
Occorre premettere che l’avvio del tirocinio è stato preceduto dalla mia partecipazione a tre sessioni di formazione ad opera di personale in servizio presso le funzioni di Human resources and Operation Units dell’Agenzia, prodromiche allo svolgimento delle attività assegnate e relative a Induction training for newcomers, Data protection regulation e CMS training. Tali brevi corsi mi hanno infatti permesso di apprendere anzitutto la struttura, il mandato ed il funzionamento dell’ente di assegnazione del tirocinio, in modo da consentirne lo svolgimento più proficuo e consapevole.
Invero, con riferimento al primo aspetto, la cui illustrazione è stata integrata anche dalla lettura della Relazione Annuale per il 2021 messa a disposizione dal Membro Nazionale dott. Spiezia, è stato fornito un inquadramento generale di Eurojust, quale agenzia di cooperazione giudiziaria dell’Unione Europea, ne sono stati approfonditi gli organi (segnatamente il College, l’Ufficio di Presidenza, il Consiglio di Amministrazione, il Direttore Amministrativo) e le relative unità, sia operative che di gestione delle risorse umane e finanziarie, con le quali avrei avuto modo di confrontarmi giornalmente nello svolgimento dell’ordinaria attività di tirocinante assegnata ad un Desk nazionale. È stato inoltre illustrato il metodo di formazione e archiviazione digitale dei procedimenti tramite Case Managemente System o CMS, con particolare riguardo alla materia della gestione dei dati personali in essi contenuti, alla luce delle regole di procedura adottate dal College con propria decisione del 20.12.2019, che costituisce un esempio di lex specialis rispetto al Regolamento (UE) 2018/1725 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 ottobre 2018, sulla tutela delle persone fisiche in relazione al trattamento dei dati personali da parte delle istituzioni, degli organi e degli organismi dell’Unione e sulla libera circolazione di tali dati, e che abroga il regolamento (CE) n. 45/2001 e la decisione n. 1247/2002/CE, che ha riconosciuto il diritto del titolare del dato personale a ricevere comunicazione chiara e trasparente del trattamento da parte del suo responsabile (Data Protectcion Officer), a richiedere l’accesso allo stesso, a promuoverne la cancellazione o la correzione in caso di errori.
Con riferimento invece al secondo aspetto, concernente il mandato dell’Agenzia, è stato affrontato direttamente con il Membro Nazionale dott. Spiezia, anche mediante l’analisi di alcuni contributi dottrinari[1], l’excursus storico, politico e normativo che ha portato all’approvazione del Regolamento (UE) 2018/1727 che istituisce l’Agenzia dell’Unione Europea per la cooperazione giudiziaria penale (Eurojust) e che sostituisce e abroga la decisione 2002/187/GAI del Consiglio.
Tale strumento normativo, direttamente applicabile in tutti gli Stati membri, ha chiarito che funzione di Eurojust è “sostenere e potenziare il coordinamento e la cooperazione tra le autorità nazionali responsabili delle indagini e dell’azione penale contro la criminalità grave che interessa due o più Stati membri o che richiede un’azione penale su basi comuni, sulla scorta delle operazioni effettuate e delle informazioni fornite dalle autorità degli Stati membri e dall’Agenzia dell’Unione europea per la cooperazione nell’attività di contrasto (Europol)”.
Tale mandato si esplica mediante una pluralità di funzioni operative, che comprendono attività di informazione, assistenza, promozione delle indagini presso le competenti autorità nazionali che abbiano in corso indagini o procedimenti in grado di incidere su scala unionale, consultazione, sia con le autorità nazionali che con altre istituzioni, organi ed organismi dell’Unione Europea, collaborazione anche ai fini dell’implementazione delle banche dati dell’European Judicial Network (EJN) ed anche con il neoistituito European Public Prosecutor Office (EPPO), supporto anche operativo, tecnico e finanziario, ad esempio per il tramite della costituzione di squadre investigative comuni (SIC) o per la prestazione di servizi di interpretariato o ancora per la concertazione di azioni comuni.
Nell’assolvimento di tali funzioni Eurojust può chiedere, specificandone i motivi, che le autorità competenti degli Stati membri interessati avviino un’indagine od un’azione penale per fatti precisi, o che concentrino i relativi procedimenti presso l’una o l’altra autorità, ovvero che si coordinino fra loro o che infine intraprendano azioni concordate, sempre informandone l’Agenzia.
Al fine di consentirmi di cogliere, sin dall’inizio, le variegate potenzialità operative di Eurojust appena sintetizzate è stata calendarizzata, da parte del Membro Nazionale dott. Spiezia, la realizzazione di alcuni incontri tematici con i componenti del Desk, volti all’immediato inquadramento e all’approfondimento – anche per il tramite della condivisione di presentazioni in power point[2] e di manuali operativi[3] nonché dello studio di contributi di fonte normativa e dottrinaria[4] – di alcuni istituti di maggiore rilievo pratico nell’ambito della cooperazione giudiziaria internazionale o di alcune materie particolarmente sensibili fra quelle rientranti nella competenza dell’Agenzia.
In particolare sono stati svolti, mediante mirate interlocuzioni nonché mediante visite presso la sede delle altre istituzioni interessate, dialoghi tematici in materia di:
- ordine di indagine europeo ed altri strumenti di cooperazione per l'acquisizione della prova in ambito europeo ed internazionale, fra cui quelli previsti dalla Convenzione stabilita dal Consiglio conformemente all’art. 34 del Trattato sull’Unione Europea, relativa all’assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati membri dell’Unione Europea, firmata a Bruxelles il 29 maggio 2000, con il dott. Ingangi;
- sequestro e confisca all'estero e quadro normativo ed amministrativo di riferimento (regolamenti, circolari, intese operative) con il dott. Franz;
- prova digitale, data retention e relative questioni applicative con la dott.ssa Magno;
- mandato d’arresto europeo e rapporti con il Ministero della Giustizia con la dott.ssa Magno;
- lotta al terrorismo (quadro normativo internazionale ed unionale, strategie di contrasto e di prevenzione, strumenti di cooperazione giudiziaria, esame di alcuni casi pratici) con il Dir. PP Orlandi;
- squadre investigative comuni (funzione, normativa di riferimento, formalità costitutive e modalità di gestione) con il Mar. C. GdF Mosele;
- Europol (mandato, struttura, modalità di raccordo con Eurojust) con il T. Col. CC Martano;
- sintesi sul coordinamento investigativo sovranazionale con il Membro Nazionale dott. Spiezia.
Con riferimento infine al terzo fra gli aspetti sopra evidenziati, relativo al funzionamento di Eurojust, dopo essere stata opportunamente introdotta sia personalmente ai colleghi di nazionalità straniera che collettivamente dinanzi al College, ho avuto l’occasione di immergermi nella vita dell’Agenzia, di cui ho avuto modo di cogliere sia l’operatività rivolta all’esterno che quella tesa a regolare la propria struttura interna.
Sono stata infatti ammessa a partecipare alle riunioni del Desk italiano indette nel corso del periodo di tirocinio dal Membro Nazionale dott. Spiezia, in particolare al fine di approvare il Terzo Progetto Organizzativo nonché di condividere le schede sull’attività di Eurojust destinate a confluire nella pubblicazione della Scuola Superiore della Magistratura lanciata in occasione della ricorrenza del ventennale della fondazione dell’Agenzia, celebrata mediante la programmazione da parte della medesima SSM di un apposito corso a Bari nei giorni 13 e 14 ottobre 2022.
Tali occasioni di condivisione mi hanno fornito l’opportunità di addentrarmi pienamente nelle dinamiche di funzionamento del medesimo Desk, permettendomi di comprenderne meglio le regole di organizzazione e gli ambiti di attività, finalizzati alla fornitura di tutti i servizi necessari ed utili ad assicurare il migliore coordinamento investigativo in tutti i casi di criminalità transnazionale e di terrorismo.
Provvista dunque di questi ineludibili strumenti di conoscenza, sono stata messa in condizione di sviluppare una mia operatività interna al Desk, ritagliata secondo le disposizioni impartite di volta in volta dal Membro Nazionale dott. Spiezia, anche in conformità degli interessi maturati e delle curiosità da me espresse d, e sotto la guida degli Assistenti ed Esperti Distaccati, che con garbo e spontanea generosità hanno sempre fornito preziosi consigli e suggerimenti.
Dunque nel corso dei menzionati periodi di tirocinio sono stata incaricata di avviare e completare lo studio di numerosi casi pendenti presso il Desk al fine di procedere ad una loro revisione, volta alla redazione di proposte operative e/o definitorie da condividere con i rispettivi titolari nonché eventualmente, previa autorizzazione di questi ultimi, con i magistrati stessi assegnatari dei procedimenti nazionali dai quali originavano le richieste di assistenza giudiziaria, relative alle più varie fattispecie delittuose (fra cui particolarmente numerose sono risultate essere quelle afferenti alla criminalità organizzata di stampo ‘ndranghetista e camorristico, all’associazione finalizzata al traffico di armi e stupefacenti, al riciclaggio di proventi illeciti, al trasferimento fraudolento di valori ed altre utilità) e insistenti verso i più diversi Paesi (oltre agli Stati Membri dell’Unione Europea infatti sono risultati coinvolti nelle procedure assegnate alla scrivente anche il Regno Unito, l’Albania, la Svizzera, l’Armenia, il Brasile, gli Stati Uniti, l’Australia).
Analogamente sono stata incaricata di procedere alla iniziale trattazione di procedure di nuova iscrizione, in modo da poter sviluppare autonome iniziative di gestione delle richieste di assistenza pervenute in relazione alle più varie fattispecie delittuose (come si è visto spesso di competenza distrettuale).
In un caso, poi, ho assunto il duplice ruolo da un lato di autorità nazionale redattrice di una complessa rogatoria internazionale in materia di criminalità finanziaria transnazionale, trasmessa per il tramite di Eurojust all’autorità extraeuropea competente, e dall’altro di tirocinante affiancata ai titolari della procedura aperta presso la stessa Agenzia per le esigenze di cooperazione internazionale. Queste ultime in particolare si sono tradotte nell’organizzazione di una riunione di coordinamento presso la sede di Eurojust e nella predisposizione del modulo investigativo, condiviso con le autorità giudiziarie del Paese estero richiesto di compiere gli accertamenti, più adatto a raccogliere emergenze suscettibili di utilizzazione congiunta presso tutti i Paesi coinvolti.
La trattazione dei casi sin qui esposti ha dunque comportato, oltre che lo studio della corposa corrispondenza intercorsa con le autorità nazionali e con i corrispettivi Desk stranieri e della documentazione trasmessa a corredo delle istanze di cooperazione avanzate, anche la partecipazione a numerose riunioni di coordinamento a carattere bilaterale e multilaterale, alla presenza, oltre che dei rappresentanti dell’Agenzia e delle autorità giudiziarie coinvolte (fra cui anche in talune occasioni i Procuratori Europei Delegati o PED), pure di esponenti della polizia giudiziaria.
Due delle menzionate riunioni di coordinamento sono state finanche condotte autonomamente da me, così come, in talune occasione, ho pure avuto modo di partecipare alla verifica della regolare esecuzione di contestuali provvedimenti di perquisizione, sequestro e di misure cautelari personali e reali presso più Stati nel corso di action days durante i quali Eurojust ha funzionato da coordination centre per le autorità giudiziarie e di polizia coinvolte in indagini fra loro collegate.
La gestione da parte mia delle procedure sin qui menzionate, pur se foriera di numerosi adempimenti di natura operativa (quali la tempestiva tenuta della corrispondenza, l’approfondita preparazione delle riunioni di coordinamento e, all’esito, l’esaustiva rendicontazione finale tramite brevi sintesi o follow up aggiuntive ai verbali redatti dal personale di Operation Unit a ciò appositamente deputato o l’assistenza alla redazione di ordini di indagine europeo in conformità a quanto deciso nel corso dei meeting), è tuttavia stata sempre accompagnata da una rielaborazione teorica delle materie affrontate.
L’assegnazione di numerosi casi per fini di diretta trattazione ovvero di mero studio e/o revisione ha infatti invariabilmente costituito per me un’occasione di approfondimento dei diversi ambiti nei quali si sviluppa la cooperazione giudiziaria in materia penale, che come dinanzi rammentato sono stati oggetto di appositi confronti tematici calendarizzati con tutti i componenti del Desk in ragione della specifica competenza sviluppata e/o assegnata a ciascuno o che sono stati oggetto di puntuale rielaborazione scritta in note riepilogative, schede o pareri, in alcuni casi anche destinati, previa rilettura e/o approvazione da parte del Membro Nazionale dott. Spiezia, alla diffusione agli Uffici di Procura sparsi sul territorio nazionale.
Tale è stato il caso della nota riepilogativa redatta in occasione della diffusione del Cybercrime Judicial Monitor, la pubblicazione annuale destinata a magistrati e forze dell’ordine impegnati nella lotta ai reati informatici e ai reati commessi con mezzi informatici trasmessa dall’EJCN (European Judicial Cybercrime Network) o del parere in tema di conflitti di giurisdizioni, redatto in occasione della trattazione di una procedura relativa all’omicidio di un cittadino italiano commessa da cittadini stranieri sul territorio di uno Stato terzo.
Inoltre la rielaborazione delle materie trattate in occasione della cogestione delle procedure a me assegnate mi ha permesso di intervenire ad alcune riunioni organizzate dai gruppi di lavoro istituiti all’interno di Eurojust, quale quella dedicata all’esame della disciplina degli agenti sotto copertura ai sensi dell’art. 21 del decreto legislativo n. 108 del 21 giugno 2017, che ha recepito in Italia la Direttiva 2014/41/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 3 aprile 2014 relativa all'ordine europeo di indagine penale o dell’avvio di procedimenti in base all’own iniative dell’Agenzia alla luce dell’art. 2, comma 3 del Regolamento (Ue) 2018/1727 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 14 novembre 2018 che istituisce l’Agenzia dell’Unione europea per la cooperazione giudiziaria penale (Eurojust) e che sostituisce e abroga la decisione 2002/187/GAI del Consiglio.
Inoltre, in ragione delle conoscenze acquisite nel corso del tirocinio, ho avuto modo di partecipare, su designazione del Membro Nazionale dott. Spiezia, al Corso di Alta Formazione per Amministratori giudiziari di aziende e beni sequestrati e confiscati (AFAG) – X edizione organizzato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, presentando una relazione sul tema delle procedure di esecuzione dei provvedimenti nazionali di sequestro e confisca all’estero a seguito dell’entrata in vigore del Regolamento (UE) 2018/1805 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 14 novembre 2018, relativo al riconoscimento reciproco dei provvedimenti di congelamento e di confisca.
Le procedure a me affidate, invero, sono state sempre trattate avendo riguardo all’inquadramento sistemico degli istituti di volta in volta rilevanti nell’ambito delle disposizioni speciali contenute negli strumenti di diritto internazionale pattizio ovvero nelle fonti di diritto dell’Unione Europea vigenti. Tanto è stato assicurato in conformità alla fondamentale norma contenuta nell’art. 696 c.p.p., che, nell’aprire il Titolo I del Libro XI del codice di procedura penale, nella sua versione riformata per effetto del decreto legislativo n. 149 del 3 ottobre 2017, che ha dato esecuzione alla legge delega n. 149 del 21 luglio 2016 di modifica del Libro XI del codice di procedura penale in materia di rapporti giurisdizionali con autorità straniere, ha stabilito il principio della prevalenza del diritto dell’Unione Europea (per i Paesi che ne sono membri) nonché del diritto internazionale di fonte pattizia o consuetudinaria (per tutti gli altri), assegnando dunque alla disciplina codicistica un carattere di sussidiarietà, peraltro superabile per effetto del potere del Ministero della Giustizia di non dare corso alle richieste che non presentino idonee garanzie di reciprocità.
Passerò dunque in rassegna i principali istituti oggetto di studio da parte mia nel corso del tirocinio, corredandoli di un breve descrizione della loro declinazione applicativa – depurata dei dati sensibili e personali rilevanti – in relazione ai casi aperti presso il Desk italiano dei quali è stata autorizzata la consultazione da parte mia.
2. Estradizione
L’estradizione costituisce la procedura volta alla consegna ad uno Stato estero di una persona per l’esecuzione di una sentenza straniera di condanna a pena detentiva o di altro provvedimento restrittivo della libertà personale. La stessa è attualmente disciplinata dagli artt. 697 e segg. c.p.p., ove non trovino applicazione, ai sensi dell’art. 696 c.p.p., le norme relative al mandato d’arresto europeo per gli Stati membri dell’Unione Europea o, per quelli che non ne fanno parte, le specifiche norme di diritto internazionale previste da fonte pattizia o, in subordine, consuetudinaria.
Nel corso del tirocinio sono state affrontate da me le principali innovazioni introdotte dalla legge di riforma del Titolo I del Libro XI del codice di procedura italiano al processo bifasico (in parte amministrativo, nelle fasi di apertura e chiusura, in parte giudiziario) della procedura di estradizione, consistite prevalentemente:
relativamente al procedimento di estradizione passiva:
- nel riconoscimento espresso del dovere, gravante sull’autorità giudiziaria al momento del primo contatto con l’estradando, di procedere al suo interrogatorio, alla presenza del difensore e, ove necessario, di un interprete (artt. 703, comma 2 e 717, comma 1 c.p.p.);
- nella previsione di una scansione temporale rigorosa (sebbene di natura ordinatoria) ed oggi ridotta degli adempimenti gravanti sull’autorità giurisdizionale e su quella ministeriale (artt.703, comma 1, 704 comma 2, 706, comma 1, 708, comma 1, 716, comma 2 c.p.p.);
- nella esplicitazione della possibilità per l’autorità giurisdizionale di richiedere direttamente all’autorità richiedente eventuale documentazione integrativa a corredo della domanda, incluso il provvedimento di commutazione della pena di morte che fosse stata inflitta al condannato di cui è richiesta la consegna (art. 700, comma 2, lett. b-bis c.p.p.), nonché dei criteri che quella ministeriale deve seguire per fissare un ordine di priorità nel caso di concorrenti richieste di estradizione (art. 697 comma 2 c.p.p.);
relativamente al procedimento di estradizione attiva:
- nella previsione di una causa di sospensione del processo avviato in Italia in relazione ai reati per i quali non possa farsi luogo all’estradizione in attuazione del principio di specialità (art. 721, comma 2 c.p.p.), salvo il compimento di atti urgenti, l’assunzione di prove non rinviabili nonché di quelle che possano determinare il proscioglimento per fatti anteriori alla consegna (art. 721, comma 4 c.p.p.);
- nella previsione dei casi in cui non opera il principio di specialità, per effetto del consenso all’estensione da parte dello Stato richiesto o dell’estradando, espressa in forma esplicita o per facta concludentia (art. 721, comma 5 c.p.p.);
- nel computo del periodo di detenzione sofferta all’estero ai fini della determinazione del termine di fase e del termine massimo di custodia cautelare (art. 722 c.p.p.) e della riparazione per ingiusta detenzione (art. 722 bis c.p.p.).
Il mio coinvolgimento nella gestione di un caso relativo alla richiesta di estradizione avanzata da parte dell’autorità giudiziaria statunitense di un cittadino ungherese detenuto presso l’autorità giudiziaria italiana ha costituito l’occasione per approfondire il principio espresso nella sentenza resa il 6 settembre 2016 dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea nel caso Petruhhin, C-182/15 (ECLI:EU:C:2016:630), in forza del quale “quando a uno Stato membro nel quale si sia recato un cittadino dell’Unione avente la cittadinanza di un altro Stato membro viene presentata una domanda di estradizione da parte di uno Stato terzo con il quale il primo Stato membro ha concluso un accordo di estradizione, esso è tenuto a informare lo Stato membro del quale il predetto cittadino ha la cittadinanza e, se del caso, su domanda di quest’ultimo Stato membro, a consegnargli tale cittadino, conformemente alle disposizioni della decisione quadro 2002/584, purché detto Stato membro sia competente, in forza del suo diritto nazionale, a perseguire tale persona per fatti commessi fuori dal suo territorio nazionale. Nell’ipotesi in cui a uno Stato membro venga presentata una domanda di uno Stato terzo diretta a ottenere l’estradizione di un cittadino di un altro Stato membro, il primo Stato membro deve verificare che l’estradizione non recherà pregiudizio ai diritti di cui all’articolo 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.”
3. Mandato d’arresto europeo
L’assegnazione a me dello studio di un caso relativo all’esecuzione in Italia di un mandato d’arresto europeo emesso dall’autorità giudiziaria tedesca, concorrente con quello – successivo e dunque recessivo – emesso dall’autorità giudiziaria maltese, ha rappresentato un’utile occasione per approfondire il menzionato istituto, che consiste nella decisione emessa dall’autorità giudiziaria di uno Stato membro dell’Unione europea in vista dell’arresto e della consegna da parte di altro Stato membro di una persona, al fine dell’esercizio nei suoi confronti di azioni giudiziarie in materia penale o dell’esecuzione di una pena privativa della libertà personale.
Tale istituto, disciplinato dalla legge del 22 aprile 2005, n. 69 recante disposizioni per conformare il diritto interno alla Decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio del 13 giugno 2002 relativa al mandato di arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri, è sintomatico del mutual trust esistente fra gli Stati membri dell’Unione Europea, nella quale è ormai assicurata la libera circolazione delle persone, dei beni, dei servizi, dei capitali, ma anche dei provvedimenti giudiziari validamente emessi dalle autorità nazionali. Infatti il MAE si segnala in quanto, a differenza dell’estradizione, la sua emissione ed esecuzione sono riservate all’autorità giudiziaria, residuando al Ministro della Giustizia solo una funzione amministrativa di ricezione dei MAE da eseguire in Italia e di trasmissione (previa opportuna traduzione) dei MAE emessi dai giudici italiani.
L’approfondimento di un caso concernente la richiesta di consegna all’autorità giudiziaria italiana, in forza di apposito titolo cautelare custodiale, di un indagato residente nel Regno Unito mi ha consentito di approfondire il relativo procedimento applicabile a seguito della fuoriuscita di tale ultimo Stato dall’Unione Europea. Venuta meno l’operatività del MAE, nel caso di specie trova infatti applicazione il titolo VII del Trade and Cooperation Ageement che regola i rapporti fra l’Unione Europea e la Gran Bretagna a seguito della Brexit.
L’art. 596 del TCA in particolare prevede l’istituto della “consegna” o surrender, destinato a sostituire l’analogo istituto del mandato d’arresto europeo, favorendo un sistema agevolato di estradizione tra gli Stati membri dell’Unione ed il Regno Unito, che prevede infatti limitate cause di rifiuto (analoghe a quelle previste a fronte di un MAE) ed una procedura limitata nel tempo. Secondo i termini dell’Accordo inoltre anche la nuova procedura di surrender è regolata dal principio di proporzionalità, in quanto la consegna deve essere necessaria e proporzionata, tenuto conto dei diritti dell’indagato/imputato e della vittima, considerata la gravità dell’atto e la probabile pena che verrebbe inflitta nonché la possibilità che il soggetto da consegnare possa affrontare lunghi periodi di detenzione preventiva. L'Accordo prevede inoltre che gli Stati prendano in considerazione la possibilità di intraprendere azioni meno coercitive rispetto al processo di consegna, come il rinvio del caso alle proprie autorità giudiziarie, ove opportuno.
In base all'Accordo, poi, può essere emessa una richiesta di consegna in relazione a qualsiasi reato che comporti una pena detentiva per un periodo massimo di almeno dodici mesi o, nel caso in cui sia stata emessa una sentenza o una misura coercitiva, di almeno quattro mesi. La consegna, come il MAE, è dunque soggetta al concetto di “doppia incriminazione”, secondo cui il reato per cui è attivata la procedura debba essere perseguito in entrambe le giurisdizioni. Tuttavia l’Accordo comprende un elenco di reati particolarmente gravi per i quali la doppia incriminazione è presunta, analogo a quello previsto per il MAE.
Una delle caratteristiche principali del sistema di consegna è poi l’eccezione di nazionalità, in base a cui gli Stati possono scegliere di rifiutare di consegnare i propri cittadini o di farlo solo in determinate circostanze. L'Accordo prevede tuttavia una disposizione che impone a qualsiasi Stato membro che rifiuti l'estradizione di prendere in considerazione l'avvio di un procedimento contro un proprio cittadino che sia commisurato all’oggetto della procedura di consegna tenendo conto del parere dello Stato emittente.
L’Accordo prevede altresì un lungo elenco di altri motivi in base ai quali uno Stato può rifiutarsi di eseguire un mandato di consegna, che possono essere applicabili in particolari circostanze, come allorché il fatto per cui si procede sia già perseguito dallo Stato di esecuzione, o nel caso in cui vi sia motivo di ritenere che il mandato sia stato emesso con finalità persecutorie in relazione a razza, religione o orientamento sessuale.
In sostanza dunque occorre seguire una procedura mutuata dalla disciplina del MAE e basata sui seguenti passaggi:
- la richiesta di consegna deve essere trasmessa all’autorità del Regno Unito (normalmente in formato elettronico);
- l’autorità britannica competente emette un certificato all’esito della verifica del test di proporzionalità;
- segue l’arresto da parte delle autorità britanniche;
- si insatura così un subprocedimento finalizzato alla concessione o meno del trasferimento, che prevede l’audizione del consegnando volta ad accertare se lo stesso acconsenta al trasferimento ed, in caso contrario, la valutazione di competenza da parte del giudice nel termine di 21 giorni dall’arresto;
- all’esito la consegna sarà effettuata nel termine di 10 giorni dall’emissione dell’ordine.
4. Ordine europeo di indagine
L’assegnazione a fini di studio o di diretta trattazione di numerose procedure aventi ad oggetto la richiesta di facilitazione da parte del Desk italiano di Eurojust alla trasmissione di ordini europei di indagine provenienti dall’autorità giudiziaria italiana verso l’autorità giudiziaria straniera o viceversa ha costituito per me l’occasione per approfondire il citato istituto, espressione del principio del mutuo riconoscimento all’interno dell’Unione europea.
In forza di tale principio, infatti, per la prima volta enunciato nella sentenza della Corte di Giustizia, Cassis de Dijon, del 20 febbraio 1979, C-120/78, i beni ed i servizi prodotti all’interno di qualunque Paese dell’Unione Europea possano circolare liberamente in ciascuno Stato membro, costituendo l’Unione un unico spazio interno di libertà, sicurezza e giustizia. Tale principio ha dunque trovato negli anni applicazione anche al settore giustizia, nel quale si è progressivamente ritenuto che esso dovesse riferirsi anche ai provvedimenti giurisdizionali di natura decisoria (si veda la già menzionata Decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d'arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri ad esempio per il tramite del mandato d’arresto europeo) e ordinatoria in relazione all’acquisizione di atti di indagine e prove.
Dunque tale principio è stato esteso anche al settore della cooperazione giudiziaria internazionale in materia penale, nel quale si è affermata, in virtù della Direttiva 2014/41/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 3 aprile 2014 relativa all'ordine europeo di indagine penale, l'istituzione di un sistema di acquisizione delle prove nelle fattispecie aventi dimensione transfrontaliera fondato sulla emissione di uno strumento – appunto l’ordine di indagine europeo – destinato a circolare liberamente fra i Paesi dell’Unione.
Esso può definirsi (art. 1 della Direttiva) come la decisione giudiziaria emessa o convalidata da un’autorità competente di uno Stato membro o Stato di emissione per compiere uno o più atti di indagine specifici in un altro Stato membro o Stato di esecuzione al fine di acquisire prove ovvero per ottenere prove già in possesso delle autorità competenti di quest’ultimo. Sullo Stato ricevente grava infatti un obbligo di esecuzione come se l’ordine fosse stato emesso dalle proprie autorità, salvi i casi di rifiuto di esecuzione giustificato:
1. da ragioni meramente formali (in realtà riconducibili alla sola incompetenza ai sensi dell’art. 9, comma 3 della direttiva, in forza del quale lo Stato di esecuzione restituisce l’OEI non emesso dalle autorità a ciò legittimate. In tutti gli altri casi in cui non siano rispettate le formalità previste dalla direttiva è consigliabile, ai sensi dell’art. 9, comma 6, il ricorso ad apposite consultazioni con qualsiasi mezzo appropriato finalizzate a dare la migliore esecuzione all’ordine);
2. da ragioni sostanziali, riferibili alle cause facoltative ma tassative di diniego di esecuzione previste dall’art. 11, rispetto alle quali tuttavia permane l’obbligo dello Stato ricevente di consultare con qualsiasi mezzo appropriato l'autorità di emissione a cui richiedere, se del caso, qualsiasi informazione necessaria a prevenire il proprio rifiuto.
Il ricorso a consultazioni fra le autorità coinvolte nell’emissione dell’OIE è raccomandato anche per il caso in cui non siano rispettati i principi di necessità, proporzionalità e non aggravamento della procedura per l’acquisizione della prova all’estero che presiedono l’emissione dell’ordine. Tali principi, infatti, pur se previsti quali condizione dell’emissione dell’OIE dall’art. 6, non integrano, in caso di loro violazione, causa legittima di diniego di esecuzione, limitandosi a dispiegare efficacia quale possibili cause di ritiro dell’ordine da parte dello Stato di emissione.
Vige dunque nell’attuale ordinamento unionale un principio di conservazione dell’efficacia dell’OIE, che si manifesta anche nella previsione, introdotta dall’art. 10, che, nel caso in cui sia richiesto un atto di indagine non disponibile o non previsto nello Stato di esecuzione, le autorità di quest’ultime debbano ricorrere all’atto di indagine alternativo previsto dal loro ordinamento interno, potendo solo, in caso di assoluta indisponibilità, limitarsi ad informare lo Stato di esecuzione che non è stato possibile fornire l’assistenza richiesta.
La peculiare efficacia dell’OIE all’interno dell’Unione Europea, dunque, sorretta dall’applicazione del principio del mutuo riconoscimento, si giustifica con la circostanza che esso possa essere emesso solo in relazione alle più gravi fattispecie penali, costituite da reati punibili nello Stato di emissione con una pena detentiva o una misura privativa della libertà personale della durata massima non inferiore a tre anni ovvero inclusi nella apposita lista contenuta nella Sezione G.3 dell’Allegato A alla direttiva, che costituisce l’esemplare standardizzato di decreto da utilizzare per la redazione di un OIE.
Tale precisazione peraltro si riferisce non soltanto al caso in cui l’ordine venga emesso nell’ambito di un procedimento penale avente ad oggetto l’accertamento di un reato incluso fra quelli sin qui menzionati; esso infatti, ai sensi dell’art. 4, lett. c, può essere anche emesso nell’ambito di procedimenti avviati in relazione all’accertamento di tali reati, quali i procedimenti di prevenzione domestici che presuppongono la consumazione di un reato, in disparte il suo accertamento.
Dunque i casi in cui l’OIE non possa essere emesso appaiono limitati ai seguenti, che tuttavia, attesa la vastità della casistica, appaiono avere carattere esemplificativo e non tassativo:
1. emissione da o verso uno Stato che non abbia recepito la direttiva (o che ne sia uscito, come il Regno Unito);
2. emissione in relazione a reati non ricadenti nella Sezione G.3 dell’Allegato A alla direttiva;
3. emissione finalizzata all’esecuzione dei seguenti provvedimenti:
- notifica degli atti del procedimento penale: essa rimane disciplinata dall’art. 5 della già richiamata Convenzione relativa all’assistenza giudiziaria in materia penale tra gli Stati membri dell’Unione europea, firmata a Bruxelles il 29 maggio 2000, eseguita in Italia con decreto legislativo 5 aprile 2017, n. 52. L’OIE potrà essere utilizzato solo per le notifiche attinenti all’atto di indagine da compiere all’estero e funzionali alla sua esecuzione;
- scambio spontaneo di informazioni, che resta disciplinato dall’art. 7 della medesima Convenzione;
- sequestri finalizzati alla confisca e provvedimenti di confisca, disciplinati dal Regolamento (UE) 2018/1805 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 14 novembre 2018 relativo al riconoscimento reciproco dei provvedimenti di congelamento e di confisca;
- istituzione delle squadre investigative comuni per l’acquisizione di prove nell’ambito delle stesse che trovano regolamentazione specifica nel decreto legislativo 15 febbraio 2016, n. 34 attuativo della Decisione quadro 2002/465/GAI;
- scambio di informazioni estratte dal casellario giudiziale, rispetto al quale continuano a trovare applicazione i decreti legislativi 12 maggio 2016 n. 74 e n. 75, attuativi della Decisione Quadro 2009/315/GAI, relativa all’organizzazione e al contenuto degli scambi fra gli Stati membri di informazioni estratte dal casellario giudiziale;
- denuncia di trasferimento dei procedimenti penali, di cui all’art. 21 della Convenzione di assistenza giudiziaria in materia penale del Consiglio d’Europa, firmata a Strasburgo il 20 aprile 1959.
Una disciplina specifica è infine prevista dalla direttiva per l’esecuzione degli OIE finalizzati all’esecuzione di:
- trasferimento temporaneo nello Stato di emissione di persone detenute ai fini di un atto d'indagine;
- audizione mediante videoconferenza o altra trasmissione audiovisiva;
- audizione mediante teleconferenza;
- informazioni relative a conti bancari e altri conti finanziari;
- atti di indagine che implicano l'acquisizione di elementi di prova in tempo reale, in modo continuo e per un periodo determinato;
- operazioni di infiltrazione;
mentre una peculiare disciplina è prevista per l’emissione degli OIE avente ad oggetto l’esecuzione di operazioni di intercettazione.
La direttiva ha trovato attuazione in Italia con il decreto legislativo 21 giugno 2017, n. 108 recante norme di attuazione della direttiva 2014/41/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 3 aprile 2014, relativa all'ordine europeo di indagine penale, che ha opportunamente distinto la procedura passiva di ricezione dell’OIE trasmesso da altra autorità di emissione da quella attiva di esecuzione e trasmissione di un OIE ad altro Stato membro.
Con riferimento alla procedura passiva, il decreto ha individuato nel Procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto nel quale devono essere compiuti gli atti richiesti (o del distretto nel quale deve compiersi il maggior numero di atti richiesti, o che ha eseguito ordini di cui il successivo costituisca completamento ed integrazione) l’autorità deputata al riconoscimento, con decreto motivato, dell’ordine di indagine nel termine di trenta giorni dalla sua ricezione o entro il diverso termine indicato dall’autorità di emissione, e comunque non oltre sessanta giorni (mentre un termine di cinque giorni è imposto per la trasmissione della ricevuta di ricezione dell’ordine). La trasmissione della copia dell’OIE al Ministero della Giustizia, prevista dal decreto, non ha dunque finalità esecutive ma di mera verifica statistica del flusso di richieste provenienti dall’estero.
Nell’intento di contemperare le esigenze del rispetto della riservatezza delle attività richieste con quelle di coordinamento interno in materie particolarmente sensibili il decreto ha altresì previsto che della ricezione dell’OIE il Procuratore della Repubblica informi il Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo ai fini del coordinamento investigativo in caso di indagini relative ai delitti di cui all'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater del codice di procedura penale.
Con riferimento alla procedura attiva, per la quale restano salvi gli obblighi di coordinamento con il Procuratore Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, il decreto ha inteso chiarire:
- il contenuto dell’OIE (artt. 30 e 31), che, fra le altre cose, impone una sintetica descrizione del fatto per cui si procede e dei soggetti a carico dei quali si procede, non già al fine di consentire all’autorità di esecuzione una (inammissibile) delibazione sulla richiesta avanzata (incompatibile con l’accoglimento del principio del mutuo riconoscimento) bensì al fine di contestualizzare meglio l’attività di indagine da svolgere, a cui sono ammessi a partecipare, ove ne abbiano fatto richiesta, le autorità dello Stato di emissione;
- le modalità della sua trasmissione idonee a garantire l’autenticità della provenienza, anche con l'ausilio dell’autorità centrale se necessario, rappresentata dal Ministero. Tuttavia l’autorità di emissione può ricorrere anche al sistema di telecomunicazione della Rete Giudiziaria Europea, alla cui rete di Punti di Contatto (accessibile al sito https://www.ejn-crimjust.europa.eu/ejn2021/Home/EN ) è possibile chiedere assistenza anche per l’individuazione dell’autorità di esecuzione. Sul sito della Rete Giudiziaria Europea sono altresì disponibili i modelli (in formato editabile) di Allegato A, B, e C, contenenti rispettivamente l’ordine di indagine, la conferma di ricezione e la notifica di intercettazioni non necessitanti di assistenza tecnica.
Attività di facilitazione alla trasmissione e assistenza all’esecuzione è rimessa anche ad Eurojust, che ha messo a disposizione sul proprio sito una Nota congiunta di Eurojust e della Rete giudiziaria europea sull'applicazione pratica dell'ordine europeo d'indagine.
Particolarmente rilevante nella prassi è infine la previsione contenuta nell’art. 32, comma 4 del decreto, che impone la trasmissione dell’OIE nella lingua ufficiale dello Stato di esecuzione o nella lingua appositamente indicata dall’autorità di esecuzione. La disposizione deve essere interpretata nel senso che debba essere tradotta nella lingua dello Stato di esecuzione non solo la lettera di trasmissione, bensì l’intero ordine. Esso dunque andrà individuato in quello disponibile nella lingua del Paese di esecuzione fra quelli previsti nell’apposita sezione del sito della Rete Giudiziaria Europea, del quale sarà poi cura dell’autorità di emissione riempire – sempre nella lingua dello Stato di esecuzione – le parti motive, con l’indicazione, in particolare, della prova richiesta e delle specifiche modalità della sua esecuzione.
Il rispetto delle formalità previste dal legislatore consentirà dunque la piena utilizzabilità degli atti di indagine e delle prove acquisite all’estero in virtù di un OIE redatto conformemente al decreto legislativo, ai sensi dell’art. 36 del medesimo.
Merita evidenziare come, avendo assistito gli assegnatari nella gestione di procedure aperte presso Eurojust per la facilitazione nella trasmissione ovvero per la esecuzione di OIE, io stessa sono stata incentivata a redigerne alcuni, in qualità di Pubblico Ministero nazionale, finalizzati alla richiesta di acquisizione di chat criptate attraverso il sistema SkyECC, che sono stati trasmessi per l’esecuzione alla competente autorità giudiziaria francese per il tramite di Eurojust, come da accordo assunto in seno all’Agenzia stessa e comunicato a tutti gli Uffici di Procura con apposita nota del Membro Nazionale. A tal proposito nel corso del tirocinio ho anche approfondito la tematica dell’utilizzabilità delle prove in tal modo assunte, anche grazie alla circolazione della giurisprudenza di merito e di legittimità che il Desk italiano è impegnato a raccogliere con l’ausilio e la collaborazione delle autorità giudiziarie nazionali, alla quale è pure impegnato a riversare i frutti di tale preziosa opera di collazione e ragionato riordino.
Inoltre nel corso del tirocinio ho avuto modo di affrontare, sia in virtù della partecipazione ad un coordination meeting involgente un ufficio delegato della Procura Europea che in forza della assegnazione di una procedura promossa da altro Procuratore Delegato Europeo, la questione relativa alla possibilità di emissione da parte di tali Uffici di un ordine di indagine verso Stati europei rispettivamente aderenti e non aderenti all’istituzione dell’EPPO.
In tale ultimo caso la trasmissione di un EIO ai fini dell’esecuzione, per il tramite di Eurojust, da parte del Procuratore Europeo Delegato verso uno Stato non aderente alla cooperazione rafforzata relativa all’istituzione di EPPO, ha imposto di prendere in considerazione la nota del Consiglio dell’Unione Europea relativa alle notifiche di cui all’art. 105, comma 3 del Regolamento UE 2017/1939 istitutivo dell’EPPO, in forza delle quali l’Italia ha notificato EPPO quale autorità deputata all’applicazione, nei confronti dei Paesi non aderenti alla cooperazione rafforzata, della Direttiva 2014/41/UE in materia di ordine di indagine europeo, prevedendo dunque tale strumento normativo come applicabile pure ai rapporti fra EPPO ed i Paesi non aderenti alla cooperazione rafforzata, in seno alla quale è stata istituita la Procura Europea.
Analogamente, la medesima questione è stata affrontata in occasione dello studio di una procedura, prevenuta in occasione del turno estivo, trasmessa dall’Ufficio di un Procuratore Delegato italiano, avente ad oggetto la richiesta di facilitazione alla trasmissione di una rogatoria verso un Paese terzo. Anche in questo caso, infatti, è stato osservato come, ai sensi dell’art. 104, comma 4 del Regolamento UE 2017/1939, è stata rilasciata dall’Italia la dichiarazione concernente la notifica di EPPO quale autorità competente in relazione alla Convenzione europea di mutua assistenza in materia penale firmata a Strasburgo il 1959, di cui anche lo Stato richiesto è parte. In particolare, le richieste trasmesse o indirizzate all’EPPO sono interpretate come riferibili allo Stato membro UE di appartenenza del PED. Conseguentemente, per la richiesta di assistenza giudiziaria verso il Paese terzo in questione è stata correttamente utilizzata come base legale la Convenzione di amicizia e buon vicinato vigente fra l’Italia e lo Stato terzo.
5. Sequestro e confisca all’estero
L’assegnazione a me di un caso avente ad oggetto la facilitazione alla trasmissione di un certificato di congelamento emesso dall’autorità giudiziaria tedesca, avente ad oggetto il sequestro di un conto corrente e di un immobile localizzati in Italia, ha costituito l’occasione per approfondire l’istituto dell’esecuzione sul territorio di uno Stato membro dell’Unione Europea di un provvedimento – cautelare o definitivo, basato su una precedente statuizione di responsabilità o non conviction based – a carattere ablatorio emesso dall’autorità giudiziaria di un altro Stato membro.
Viene in tal caso in rilievo il Regolamento (UE) 2018/1805 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 14 novembre 2018 relativo al riconoscimento reciproco dei provvedimenti di congelamento e di confisca, applicabile a tutti i Paesi dell’Unione Europea ad accezione della Danimarca e dell’Irlanda (a cui continuano ad applicarsi la Decisione quadro 2003/577/GAI del Consiglio del 22 luglio 2003 relativa all'esecuzione nell’Unione Europea dei provvedimenti di blocco dei beni o di sequestro probatorio e la Decisione quadro 2006/783/GAI del Consiglio del 6 ottobre 2006 relativa all'applicazione del principio del reciproco riconoscimento delle decisioni di confisca). Tale Regolamento, infatti, situandosi nel solco del già citato mutual trust fra le giurisdizioni dell’Unione Europea, ha previsto il riconoscimento reciproco da parte di tutti gli Stati membri (ad eccezione dei due soli richiamati) dei provvedimenti di congelamento (da intendersi quali decreti di sequestro preventivo, essendo il sequestro con finalità probatoria disciplinato dalla Decisione quadro 2003/577/GAI) e di confisca validamente emessi dalle rispettive autorità nazionali “nel quadro di un procedimento in materia penale” e dunque non solo nell’ambito di procedimenti finalizzati all’accertamento giudiziario della responsabilità penale per specifici fatti criminosi.
Tale ultima specificazione, espressamente voluta dall’Italia nel corso delle negoziazioni per l’approvazione finale del testo, consente oggi il riconoscimento all’interno dell’Unione Europea dei provvedimenti di sequestro e confisca emessi nell’ambito dei procedimenti di prevenzione dal giudice italiano, che, invero, pur non essendo volti all’accertamento della responsabilità penale, presuppongono una modalità illecita di arricchimento che l’ordinamento non può tollerare in quanto riconducibile (salvo onere della prova contraria) ad una accumulazione illecita di ricchezza discendente da attività delittuose.
Onere dell’autorità richiedente l’esecuzione del provvedimento ablatorio all’estero sarà dunque la compilazione di un certificato di congelamento o confisca da trasmettere all’autorità centrale designata, da individuarsi, in Italia, nel Ministero della Giustizia, che tuttavia, in forza di apposita Intesa Operativa all’esito dell’incontro tra la Direzione Generale per la Cooperazione Internazionale del Ministero della Giustizia ed il Desk italiano di Eurojust ai fini dell’applicazione del Regolamento EU 1805/18, può avvalersi di quest’ultima Agenzia quale snodo di ricezione dei certificati ove la loro esecuzione sia connessa all’esecuzione di misure cautelari personali o di attività di indagine quali perquisizioni, audizione di testimoni, intercettazioni.
Merita inoltre di essere segnalata sul tema la Circolare in tema di attuazione del Regolamento (UE) 2018/1805 relativo al riconoscimento reciproco dei provvedimenti di congelamento e confisca del Ministero della Giustizia, che, nel ricostruire il contenuto del Regolamento, ne ha chiarito le modalità di esecuzione in Italia, costituendo un agevole strumento di consultazione per la soluzione delle diverse questioni applicative sorte in relazione al funzionamento pratico del nuovo istituto.
6. Conflitto di giurisdizioni
Nel corso del tirocinio, avendo affiancato il collega assegnatario di una procedura relativa ad un grave delitto di sangue perseguito contemporaneamente dalle autorità dello Stato di origine della vittima e da quelle dello Stato ove il fatto è avvenuto, in relazione al quale ha anche avuto modo di partecipare ad un coordination meeting alla presenza di rappresentanti della Procura Generale presso la Corte d’Appello di Roma, ha avuto l’opportunità di affrontare la complessa questione del conflitto di giurisdizioni, che origina dal principio del divieto di bis in idem stabilito dall’art. 54 dell’Accordo di Schengen, in forza del quale “una persona che sia stata giudicata con sentenza definitiva in una Parte contraente non può essere sottoposta ad un procedimento penale per i medesimi fatti in un’altra Parte contraente a condizione che, in caso di condanna, la pena sia stata eseguita o sia effettivamente in corso di esecuzione attualmente o, secondo la legge dello Stato contraente di condanna, non possa più essere eseguita.”
I contenuti dell’Accordo di Schengen costituiscono infatti a pieno titolo diritto dell’Unione Europea a seguito del Protocollo sull’integrazione dell’acquis di Schengen nell’ambito dell’Unione Europea, allegato al Trattato di Amsterdam.
Il principio, che impone di scongiurare il verificarsi di una doppia incriminazione e di una doppia condanna per il medesimo fatto di reato, è posto a salvaguardia della libertà dell’individuo dinanzi all’autorità della res iudicata all’esito di un giusto processo svoltosi secondo la legge (fair trial, presidiato dal combinato disposto degli artt. 4 del Protocollo 7 alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, 50 della carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea e 6, comma 2 del Trattato sull’Unione Europea) nonché a garanzia del principio di unitarietà dell’ordinamento unionale avverso il pericolo di giudicati confliggenti (secondo il dovere di loyal cooperation imposto dall’art. 4, comma 3 del Trattato dell’Unione Europea ai singoli Stati Membri).
L’importanza del principio dunque è tale che l’Unione Europea ha inteso assicurarne non solo la protezione ma anche la prevenzione attraverso la predisposizione di adeguati strumenti volti a consentire una gestione dei procedimenti suscettibili di esitare in una doppia condanna per i medesimi fatti tale da evitare questo rischio.
Si definiscono dunque procedimenti paralleli quelli che, versando nella fase procedimentale o in quella processuale, siano condotti in due o più Stati Membri in relazione ai medesimi fatti nei quali sia implicata la medesima persona (art. 3, lett. a della Decisione Quadro 2009/948/GAI del Consiglio del 30 novembre 2009 sulla prevenzione e la risoluzione dei conflitti relativi all’esercizio della giurisdizione nei procedimenti penali).
L’eventualità che essi possano sfociare in un bis in idem è dunque astrattamente elevata, ma è di fatto preclusa dalla previsione del ricorso agli strumenti di prevenzione e risoluzione indicati dalla menzionata Decisione Quadro 2009/948/GAI del Consiglio del 30 novembre 2009, sintetizzabili nell’auspicio, espresso dal suo quarto considerando, che abbiano luogo “consultazioni dirette tra le autorità competenti degli Stati membri allo scopo di raggiungere un consenso su una soluzione efficace volta ad evitare le conseguenze negative derivanti da procedimenti penali paralleli ed evitare perdite di tempo e risorse delle autorità competenti interessate.” Obiettivo delle consultazioni dovrebbe infatti essere la concentrazione dei procedimenti penali in un unico Stato membro, ad esempio mediante il trasferimento del procedimento penale dinanzi alla giurisdizione dello Stato che, in virtù degli enunciati criteri, come di volta in volta declinati, appaia prevalente.
Ove tale consenso non venga raggiunto dagli Stati interessati, potrebbe farsi ricorso ad Eurojust, che, ai sensi dell’art. 4 comma 4 del Regolamento (UE) 2018/1727 del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 novembre 2018, che istituisce l’Agenzia dell’Unione europea per la cooperazione giudiziaria penale (Eurojust) e che sostituisce e abroga la decisione 2002/187/GAI del Consiglio, in caso di disaccordo fra le parti coinvolte, può formulare un parere non vincolante circa lo Stato presso il quale debba concentrarsi la giurisdizione.
La circostanza che l’individuazione della giurisdizione prevalente sia raccomandata da Eurojust, opportunamente informato ai sensi dell’art. 21, comma 6, lett. a del suo Regolamento istitutivo, in virtù del quale le autorità nazionali competenti informano i rispettivi membri nazionali in ordine ai casi in cui sono sorti o possono sorgere conflitti di giurisdizione, trova giustificazione nel principio, espresso all’undicesimo considerando della Decisione quadro, secondo cui nessuno Stato membro dovrebbe essere obbligato a rinunciare o a esercitare la competenza giurisdizionale contro la sua volontà. Finché non sia raggiunto un consenso sulla concentrazione dei procedimenti penali, le autorità competenti degli Stati membri dovrebbero poter proseguire un procedimento penale per qualsiasi reato che rientri nella loro giurisdizione nazionale, in osservanza del principio di obbligatorietà dell’azione penale e del divieto di denegata giustizia.
Nondimeno, esse dovrebbero sempre osservare, non appena abbiano fondato motivo di ritenere che si stia conducendo un procedimento penale parallelo in un altro Stato membro per gli stessi fatti in cui è implicata la stessa persona e che potrebbe dar luogo ad una pronuncia definitiva in due o più Stati membri, l’obbligo, sancito dall’art. 5 della Decisione quadro, di prendere contatti con l’autorità competente dell’altro Stato membro, a cui farebbe da contraltare l’obbligo, per quest’ultima, di rispondere alla richiesta presentata, ai sensi dell’art. 6. Il contatto diretto tra le autorità individuate dai singoli Stati membri, in sede di esecuzione, come competenti a condurre le consultazioni finalizzate alla prevenzione e risoluzione dei conflitti di giurisdizione dovrebbe essere il principio informatore della cooperazione istituita dalla Decisione quadro, che assiste gli Stati membri nell’individuazione dei criteri a cui tali autorità dovrebbero ispirarsi.
Essi sono infatti tratti dagli orientamenti pubblicati nella Relazione annuale 2003 di Eurojust ed elaborati ad uso degli operatori del settore mediante la pubblicazione di apposite Linee Guida per decidere quale giurisdizione dovrebbe procedere, come da ultimo aggiornate.
Fra i criteri suggeriti, si segnalano quello del luogo in cui si è verificato prevalentemente il fatto costituente reato, il luogo in cui si è subita la maggior parte dei danni, il luogo in cui si trova l’indagato o l’imputato e la possibilità di assicurare la sua consegna o estradizione in altre giurisdizioni, la cittadinanza o la residenza dell’indagato o dell’imputato, gli interessi rilevanti delle vittime e dei testimoni, l’ammissibilità degli elementi probatori o possibili ritardi.
La decisione quadro ha trovato attuazione in Italia con il decreto legislativo 15 febbraio 2016, n. 29, che in realtà, lungi dal limitarsi a recepire nell’ordinamento italiano una fonte di diritto dell’Unione Europea, ha contribuito all’attuazione del principio del mutuo riconoscimento nel settore della cooperazione giudiziaria penale. Esso merita infatti di essere letto alla luce dell’ulteriore decreto legislativo 7 settembre 2010 n. 161, che, nel dare attuazione alla Decisione quadro 2008/909/GAI, relativa al reciproco riconoscimento delle sentenze penali che irrogano pene detentive o misure privative della libertà personale ai fini della loro esecuzione dell’Unione Europea, ha consentito di superare il presupposto di cui all’art. 737 c.p.p. dell’impossibilità del riconoscimento della sentenza straniera quando risulti un procedimento in corso in Italia per gli stessi fatti contro la stessa persona. Il decreto n. 29/2016 ha inteso infatti risolvere i casi di procedimenti paralleli mediante una soluzione quanto più concordata della litispendenza internazionale.
Essa si basa dunque sui seguenti principi, rispetto ai quali vengono di volta in volta in esame distinte autorità competenti (autorità procedente o Procura Generale presso la Corte di Appello):
1. obbligo di informazione: l’autorità giudiziaria italiana procedente che abbia fondato motivo di ritenere la pendenza, presso un altro Stato membro o presso altro Stato individuato mediante il ricorso alla Rete Giudiziaria Europea, di un procedimento relativo ai medesimi fatti ed alle medesime persone è tenta a prendere contatti in forma scritta con l’autorità straniera procedente, volti al duplice obiettivo di:
- riscontrare l’effettiva pendenza e, in caso affermativo;
- avviare le consultazioni finalizzate all’eventuale concentrazione dei procedimenti penali in un unico Stato membro.
L’autorità contattata è gravata dall’obbligo di dare risposta entro il termine o senza ritardo, in ogni caso con urgenza qualora l’indagato o imputato per cui si procede siano detenuti;
2. obbligo di risposta: l’autorità contattata è tenuta a:
- dare risposta;
- esprimersi entro il termine o senza ritardo, in ogni caso con urgenza qualora l’indagato o imputato per cui si procede siano detenuti.
- fornire tutte le informazioni necessarie a individuare l’oggetto e lo stato del procedimento;
3. obbligo di consultazioni: accertata l’esistenza di procedimenti paralleli, l’autorità giudiziaria contattante prosegue il procedimento, che non è soggetto a sospensione se non relativamente alla pronuncia della sentenza. Essa, tuttavia, rimette la questione della litispendenza internazionale al Procuratore Generale presso la Corte d’Appello nel cui distretto ha sede la prima (o l’autorità contattata, nel caso in cui l’autorità giudiziaria italiana sia stata investita di una richiesta di informazioni dall’autorità di altro Stato membro). A sua volta il Procuratore Generale presso la Corte d’Appello informa il Ministero della Giustizia, che entro dieci giorni può opporsi alla concentrazione dei procedimenti qualora essa violi la sicurezza o altri interessi essenziali dello Stato. In caso contrario il Procuratore generale può proseguire le consultazioni con la corrispondente autorità straniera, ispirandosi ai criteri già enunciati ed eventualmente scambiando con quest’ultima informazioni sugli atti rilevanti compiuti nel corso del processo, a meno che ciò comprometta interessi nazionali essenziali in materia di sicurezza o la sicurezza di una persona;
4. facoltà di cooperazione con Eurojust: sebbene, ai sensi del citato Regolamento istitutivo, le autorità nazionali siano obbligate a dare comunicazione ai rispettivi Membri Nazionali presso Eurojust ogniqualvolta possano insorgere conflitti di giurisdizione, esse in ogni momento possono – ma non sono obbligate a – sottoporre la questione all’Agenzia.
All’esito della procedura le parti possono convenire la concentrazione dei procedimenti, che verrà comunicata al Ministro della Giustizia e determinerà la traslatio iudicii verso il foro ritenuto più appropriato, le cui autorità dovranno computare l’eventuale periodo di custodia già patito ai fini del calcolo dei termini di durata massima della custodia cautelare nonché dell’eventuale pena espiata senza titolo e potranno utilizzare gli atti probatori eventualmente già compiuti, se assunti non in dispregio dei divieti interni. La concentrazione dei procedimenti presso altra autorità determinerà la sopravvenienza di una causa di improcedibilità del procedimento trasferito all’estero.
Nel caso in cui non venga raggiunto un accordo, ciascun processo o procedimento seguirà il suo corso, almeno sino alla pronuncia di una sentenza passata in giudicato in relazione al medesimo fatto (come definito da copiosa giurisprudenza, costituzionale – ad esempio Corte Costit. n. 102/2016 – e dell’Unione Europea – ad esempio CGUE, Grande Sezione, 29 giugno 2016, Kossowski, C-486/149) che obbligherà il giudice a pronunciare sentenza di non luogo a procedere o di proscioglimento ai sensi dell’art. 649 c.p.p..
7. Reati informatici e/o commessi con mezzi informatici
Tra le attività di carattere compilativo da me svolte nel corso del tirocinio di essere segnalato quello svolto in relazione alla redazione di una sintesi, ad uso degli Uffici di Procura del territorio nazionale, degli esiti raggiunti dall’EJCN (European Judicial Cybercrime Network), che ha lanciato nella primavera del 2022 la settima edizione del Cybercrime Judicial Monitor (in seguito CJM), la pubblicazione annuale destinata a magistrati e forze dell’ordine impegnati nella lotta ai reati informatici e ai reati commessi con mezzi informatici.
Il documento consta di quattro sezioni, di cui la prima dedicata alla rassegna delle principali novità legislative registrate nel 2021 in materia di criminalità informatica e prova digitale.
In proposito merita segnalare l’adozione, da parte del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, del Secondo Protocollo Addizionale alla Convenzione di Budapest sulla Criminalità Informatica del 23.11.2021, che è stato sottoscritto il 17.11.2021 ed aperto alla firma degli Stati dal 12.5.2022. Il Protocollo costituirà, per gli Stati che lo ratificheranno, la base legale sulla quale fondare richieste di assistenza volte all’acquisizione dei dati di registrazione direttamente verso i service provider localizzati presso ordinamenti stranieri nonché forme di cooperazione dirette da Stato a Stato, specie a fronte di situazioni di emergenza. Esso, inoltre, estenderà specificamente alle indagini in materia di criminalità informatica il ricorso a strumenti di cooperazione quali la videoconferenza e le squadre investigative comuni ed è dunque auspicabile che, nell’attuazione di tali strategie, le autorità nazionali possano avvalersi della lunga e trasversale esperienza maturata nella gestione di tali strumenti di cooperazione da parte di Eurojust a fronte delle richieste di assistenza sinora avanzate nei più diversificati settori di indagine.
Si segnala inoltre l’adozione, da parte del Parlamento Europeo e del Consiglio, di una proposta di regolamento per l’armonizzazione delle legislazioni in materia di intelligenza artificiale nonché del regolamento (EU) 2021/1232 del 14.7.2021, che consentirà provvisoriamente ai fornitori di servizi di comunicazione destinati alla diffusione generalizzata (come la posta elettronica o la messaggeria istantanea), di derogare ad alcune disposizioni contenute nella direttiva 2022/58/EC al fine di continuare a monitorare, segnalare e rimuovere, sino al 3.8.2021, materiale digitale a carattere pedopornografico. Sono tuttavia in corso i lavori finalizzati all’adozione di una normativa di settore a carattere permanente.
Sul piano nazionale si segnala l’adozione, da parte della Francia, della legge n. 478/2021, che ha specificamente introdotto la fattispecie di sextortion, nonché l’adozione, da parte dell’Irlanda, di un emendamento al Money Laudering and Terrorism Financing Act, che per la prima volta qualifica i fornitori di criptovalute come istituzioni finanziarie, come tali soggetti agli obblighi (primo fra tutti quello di registrazione) dinanzi all’authority di settore, costituita dalla Banca Centrale irlandese. Anche sotto tale aspetto, dunque, merita di essere raccomandato un approccio investigativo particolarmente attento agli aspetti di transnazionalità della fattispecie, che possa condurre a ritenere configurabile il reato di abusivo esercizio dell’attività finanziaria, per la parte di condotta consumata in Irlanda, da parte di fornitori di servizi di cripovaluta che, per la restante parte delle condotte, ad esempio a carattere associativo, siano destinati ad essere giudicati in Italia in base alla legge italiana. L’expertise maturata da Eurojust nel supporto alle autorità nazionali impegnate in indagini connesse nonché nella gestione degli eventuali conflitti di giurisdizione che possano derivarne rende prevedibile anche in relazione a tale materia un rinnovato ricorso all’assistenza giudiziaria fruibile per il tramite dell’Agenzia.
Sul piano della legislazione domestica si segnala inoltre l’adozione, da parte della Repubblica Slovacca, la legge n. 236/2021 di introduzione del reato di molestia informatica nonché della legge n. 312/2020, che ha inserito la definizione di criptovaluta (quale mezzo di pagamento) nel codice penale ed ha previsto, oltre all’ordine di conservazione e disvelamento dei dati, anche quello di sequestro, da intendersi quale provvedimento del Pubblico Ministero o del giudice avente ad oggetto l’ablazione (sotto forma di consegna della password e di ogni altro codice di accesso) dei dati informatici integranti moneta elettronica che abbiano costituito strumento o profitto del reato. Dunque le autorità nazionali competenti sono incentivate a considerare, in presenza dei presupposti di legge, l’emissione dei corrispondenti provvedimenti interni, che potranno essere portati ad esecuzione nella Repubblica Slovacca (quale Stato nel quale si trovi il server che fornisca il servizio di criptovaluta), anche per il tramite di Eurojust.
La seconda sezione del CJM è riservata all’esame di alcuni casi giurisprudenziali, fra cui si segnala la sentenza della Corte d’Appello irlandese (2021) IECA 45 in materia di agenti sotto copertura, da ritenersi scriminati nella misura in cui la loro attività non si sia limitata ad una sollecitazione o ad un incoraggiamento a commettere fatti integranti reati, preannunciati o avviati anche qualora non abbiano ancora integrato la soglia del tentativo punibile, ma si sia estesa al punto da configurare un vero e proprio entrapment, ossia una induzione a commettere reati, propria dell’agent provocateur.
Ancora, si segnala la pronuncia della Corte Suprema spagnola STS n. 395/2021, che ha ammesso la configurabilità del concorso di reati anche in materia di produzione di materiale pedopornografico, anche se involgente il medesimo minore, ove reiterata in distinte condotte distanziate nel tempo, nonché la pronuncia della Corte Distrettuale di Oslo del 2.11.2021, che ha ammesso (seppure con pronuncia non ancora divenuta irrevocabile) l’utilizzabilità processuale delle chat scambiate sulla piattaforma Encrochat.
La terza sezione del CJM presenta alcune sentenze in materia di trattamento dei dati personali rese dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, fra cui si segnala quella pubblicata nel caso C-746/18 “Prokuratuur”, che ha ribadito l’incompatibilità con il diritto dell’Unione Europea (nella specie, l’art. 15(1) della Direttiva 2002/58/EC) della legislazione nazionale che affidi all’ufficio del Pubblico Ministero il potere di autorizzare l’accesso ai dati di traffico nel corso di un procedimento penale.
Da ultimo la quarta sezione del CJM affronta il tema delle indagini in materia di attacco informatico mediante virus o ransomware, individuando quali cruciali strumenti di contrasto la denuncia delle presunte persone offese, la conservazione delle prove digitali e l’investigazione da parte di personale specializzato della polizia giudiziaria.
La sinergia tra questi fattori è tuttavia spesso inficiata dalla sussistenza di confliggenti interessi, dal momento che le vittime aspirano prevalentemente alla rapida reintegrazione dello strumento informatico utilizzato, anche a costo della dispersione delle tracce del reato commesso su di esso, spesso anche al fine di prevenire il danno reputazionale subito, mentre le autorità preposte alla repressione penale necessitano della cristallizzazione del quadro investigativo, anche ove questa richieda la disconnessione del sistema informatico oggetto di attacco.
Dalla rassegna delle legislazioni degli Stati coinvolti nella redazione del report è emerso che nessuna di esse si sia dotata, in materia di ransomware, di disposizioni sostanziali ad hoc (avvalendosi invece ciascuna delle fattispecie già esistenti, riportate nel quadro sinottico presente nel CJM), mentre dal punto di vista procedurale i diversi ordinamenti contemplano disposizioni a carattere generale, che tuttavia andrebbero implementate mediante la diffusione di buone prassi.
Fra queste ultime appaiono particolarmente virtuose quelle che, sulla falsariga della disciplina in materia di segnalazioni antiriciclaggio, prevedano obblighi di denuncia in capo agli operatori del settore, che tuttavia andrebbero contemperate con la necessaria preservazione del segreto investigativo, che impedisce uno scambio sic et simpliciter di informazioni fra autorità pubbliche (organi di polizia giudiziaria e magistratura) e private (utenti o fornitori di servizi informatici esposti al ransomware).
Da ultimo si osserva come il carattere transnazionale di tali attacchi informatici suggerisca una immediata centralizzazione dell’attività investigativa (come correttamente prevedono oggi le norme in materia di reati informatici di competenza distrettuale) nonché la creazione di specifici punti di contatto per lo svolgimento delle indagini, che agevolerebbe anche la definizione di modelli di denuncia quanto più standardizzati, attesa la necessità di acquisizione immediata di informazioni tecniche e puntuali.
Anche sotto questo aspetto dunque l’intervento di Eurojust, teso all’assistenza e al raccordo fra le diverse autorità nazionali impegnate nel contrasto a fenomeni criminali ormai globalizzati, specie a seguito dell’insorgere della crisi pandemica, che ha incrementato il ricorso a forme di comunicazione virtuali, appare quanto mai sfidante ed auspicabile.
8. Conclusioni
La rassegna degli istituti sin qui svolta ha consentito di individuare solo alcune delle tematiche afferenti la cooperazione internazionale con le quali ho avuto modo di confrontarmi nel corso del tirocinio, durante il quale tuttavia molteplici sono state le sollecitazioni provenienti dal Membro Nazionale dott. Spiezia alla riflessione e all’approfondimento.
Basti a tal fine menzionare i numerosi report a me sottoposti, provenienti sia da Eurojust (e.g. Eurojust Report on Money Laundering del 29.04.2022, Joint report of Eurojust and the European Judicial Network on the extradition of EU citizens to third countries del novembre 2020) che da Europol (e.g. Online Jihadist propaganda: 2021 in review, European Unione Terroism situation and trend report 2022), nonché la condivisione, per il tramite dell’accesso alla posta istituzionale di Eurojust, delle iniziative disseminate dal magistrato di collegamento ucraino in relazione alla gravissima crisi politica ed umanitaria determinatasi a seguito dell’aggressione russa.
Fra queste ultime merita in particolare segnalare la costituzione, presso Eurojust, di una squadra investigativa comune composta, oltre che dalle competenti autorità dell’Ucraina, della Lituania, della Polonia, della Lettonia, dell’Estonia e della Slovacchia, anche dall’Ufficio del Pubblico Ministero presso la Corte Penale Internazionale e finalizzata alla repressione dei crimini internazionali asseritamente commessi sul suolo ucraino, che ha comportato la riflessione sui temi di grande attualità quale quello della formazione della prova digitale e della sua catalogazione e conservazione.
Tale iniziativa mi ha inoltre motivato ad affrontare la tematica delle modalità di repressione dei cosiddetti crimina iuris gentium, resa vieppiù attuale dalla costituzione, con decreto ministeriale del 22 marzo 2022, della Commissione Palazzo e Pocar, finalizzata all’esame delle iniziative già proposte per la compiuta attuazione dello Statuto di Roma e alla stesura di un Codice dei crimini interazionali che ne assicuri il compiuto adattamento, i cui lavori hanno condotto, il 20 giugno 2022, alla redazione di una Relazione finale che pure ha costituito oggetto di studio da parte mia.
Conclusivamente dunque il completamento del tirocinio preso il Desk italiano “Giovanni Falcone e Paolo Borsellino”, sia per la pregevolezza delle tematiche affrontate, di grande impatto non solo giuridico ma anche storico, sia per lo spessore umano e professionale degli operatori incontrati, che ha avuto spesso modo di manifestarsi anche nel corso di occasioni conviviali estranee alle sedi prettamente istituzionali e lavorative, alle quali sono stata sempre calorosamente invitata a partecipare, ha costituito per me la compiuta realizzazione di un’esperienza formativa di grande valore ed estrema preziosità, in quanto in grado di apportare al mio bagaglio umano e specialistico la rinnovata consapevolezza che le società umane, tanto più ove basate sul diritto, debbano fondarsi sulla solidarietà reciproca, in ossequio al principio, al quale ambisco ad ispirarmi nello svolgimento della mia stessa quotidiana attività lavorativa, secondo cui un giudice senza umanità è un giudice senza giustizia[5].
[1] Segnatamente DEL MONTE, M. (2021), Understanding Eurojust: The European Union Agency for criminal justice cooperation, in EPRS – European Parliamentary Research Service, PE 690.615, pp. 1-12, SALAZAR, L. (2019), La riforma di Eurojust e i suoi riflessi sull’ordinamento italiano, in Diritto penale contemporaneo, 1/2019, pp. 43-55, MANGENOT, M. (2009), European games and institutional innovation: the making of Eurojust (1996-2004), in GSPE Working Papers, 5/2009, pp. 1-16.
[2] In particolare in materia di terrorismo e di ordine di congelamento e confisca all’estero.
[3] In particolare la versione, aggiornata al dicembre 2021, della Guida Operativa alle squadre investigative comuni (JITs Practical Guide) realizzata dall’EU Network of National Experts on joint Investigation Teams (JITs network).
[4] Quali URBINATI, F. (2021), La riforma del mandato d’arresto europeo, in Archivio Penale, 1/2021, pp. 1-26 e PICCIOTTI, V. (2021), La riforma del mandato d’arresto europeo. Note di sintesi a margine del d.lgs. 2 febbraio 2021, n. 10, in Legislazione penale, ISSN:2421-552X, pp. 1-40, BARGIS, M. (2020), Estradizione e cittadino di uno Stato dell’Associazione Europea di Libero Scambio (AELS): la Corte di Giustizia applica per analogia la sentenza Petruhhin, in Sistema Penale, luglio 2020, MAUGERI, A. M. (2019), Il Regolamento (UE) 2018/1805 per il reciproco riconoscimento dei provvedimenti di congelamento e di confisca: una pietra angolare per la cooperazione e l’efficienza, in Diritto penale contemporaneo, disponibile sul sito https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/6411-il-regolamento-ue-20181805-per-il-reciproco-riconoscimento-dei-provvedimenti-di-congelamento-e-di-c, pp. 1-40, DE AMICIS, G. (2019), Lineamenti della riforma del Libro XI del Codice di procedura penale, in Diritto Penale Contemporaneo, disponibile sul sito https://archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/6637-lineamenti-della-riforma-del-libro-xi-del-codice-di-procedura-penale, pp. 1-29, Modifica del libro XI del codice di procedura penale n materia di rapporti giurisdizionali con autorità straniere, Atto del Governo n. 434, Schede di lettura, Servizio Studi della Camera dei Deputati, settembre 2017.
[5] Libero BOVIO, Napoli 8.6.1883-26.5.1942.
Giustizia insieme e il valore dell’accoglienza - 3. Il fenomeno (im)migratorio e le sfide per l’ordinamento giuridico
di Domenico Carbonari
Sommario: 1. Premessa: la difficile regolamentazione di un fenomeno umano (oltre che criminale) complesso. – 2. La disciplina normativa internazionale: il soccorso in mare. – 2.1. Prima fase: soccorso e recupero dei naufraghi. La delimitazione delle zone SAR. - 2.2. Gli interventi nelle zone SAR: problemi di coordinamento tra i navigli privati e lo Stato. - 2.3. Seconda fase: indicazione del POS e avvio delle operazioni di sbarco. – 3. Normativa italiana: il T.U. Immigrazione e fonti normative secondarie. – 4. Ultimi sviluppi in materia di sbarchi: i decreti interministeriali di divieto di sbarco.
1. Premessa: la difficile regolamentazione di un fenomeno umano (oltre che criminale) complesso.
L’impatto del fenomeno migratorio ha posto la disciplina generale sull’immigrazione al c.d. stress test, che ne impone una valutazione in termini di coerenza e di efficacia. E’ pacifica la tendenza legislativa e amministrativa a restringere il campo delle esigenze di tutela, allorquando si verificano situazioni emergenziali o, quantomeno, ritenute tali.
L’approccio disarmonico adottato dall’ordinamento è, in realtà, la conseguenza di un’analisi in chiave prettamente emergenziale del fenomeno migratorio, che sembra quasi giustificare, in modo paradossale, gli interventi disorganici dell’ultimo periodo. La disciplina sugli sbarchi e sul controllo delle partenze ne è un chiaro esempio, perché incentrata sulla stipula di accordi internazionali con i paesi africani rivieraschi, tra questi la Libia, e sulla deroga amministrativa alle regole di assegnazione del c.d. place of safety (d’ora in poi POS), in evidente contrasto con le convenzioni internazionali.
Il sistema del diritto vigente e il contesto storico-sociale non sono sufficienti a conformare la volontà legislativa ad un determinato risultato, perché è necessario considerare e fronteggiare un fenomeno nella prospettiva della sua futura stabilizzazione[1]. Tuttavia, se difetta questa stabilità, il legislatore dovrebbe quantomeno abbandonare il criterio dell’emergenza e definire un assetto normativo flessibile, fondato su principi e regole generali ricavabili dal diritto internazionale generale e pattizio, oltre che dai principi elaborati dalla giurisprudenza, sia nazionale che internazionale.
2. La disciplina normativa internazionale.
Il tema delle ricerche e del soccorso in mare è stato oggetto di diversi interventi della comunità internazionale, al fine di disciplinare – in certa misura limitare - l’ambito di discrezionalità degli Stati[2]. Il risultato di tali sforzi dovrebbe essere l’armonizzazione delle prassi dei singoli Stati, tenuti all’adempimento degli obblighi primari cogenti in relazione alla tutela dei diritti fondamentali degli individui[3].
La rilevanza dei diritti, e in particolare la salvaguardia della vita in mare, è il presupposto teleologico di ogni intervento di soccorso in mare, a tal punto che le Convenzioni impongono agli Stati di intervenire anche nel caso di incidenti che si verificano «al di fuori della proprio regione (SAR) fino a quando l’RCC responsabile della regione o un altro RCC in una posizione migliore intervenga a gestire il caso»[4]. La tutela dei diritti fondamentali assurge, quindi, a parametro necessario dell’azione di soccorso in mare, anche in una zona Search and rescue (da ora in poi SAR) rientrante nella competenza di altro Stato.
Non è un caso, infatti, che il legislatore internazionale ha avvertito l’esigenza di specificare, in seno alla Convezione SAR[5], che l’assistenza a chi è in pericolo in mare prescinde dalla nazionalità o dallo statuto della persona e, ancora, delle circostanze in cui si è trovata[6]. In altri termini, il sistema del soccorso in mare è informato all’esigenza di tutelare la persona fisica, statuendo obblighi che assurgono a principi generali non derogabili da norme nazionali finalizzate al contrasto dell’immigrazione irregolare e/o alla repressione del traffico o della tratta di esseri umani.
La stessa direzione finalistica è impressa dalla definizione di “soccorso” fornita dalla Convenzione SAR[7], intesa come“un’operazione per recuperare persone in pericolo, per provvedere alle loro prime necessità mediche o di altro tipo e portarle in un luogo sicuro”. In particolare, gli Stati devono garantire, specie se in supporto dei natanti privati, che i “sopravvissuti assistiti siano sbarcati dalla nave che li ha assistiti e condotti in luogo sicuro”.
Dalla formulazione normativa se ne inferisce che le operazioni di soccorso hanno una struttura unitaria, senza che si possa distinguere la fase del salvataggio da quella dello sbarco presso un luogo sicuro[8]. L’esigenza di tutela dei diritti fondamentali spiega anche il principio affermato dalla giurisprudenza di legittimità, per la quale «l’obbligo di prestare soccorso dettato dalla Convezione internazionale Sar di Amburgo non si esaurisce nell’atto di sottrarre ai naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (c.d. place of safety)»[9].
Pertanto, i principi che informano il diritto internazionale del mare possono essere considerati, ad un tempo, regole operative e parametri di legittimità rispetto alle normative nazionali che prevedano, animate dall’esigenza di tutelare la sovranità statale, norme derogatorie eccezionali rispetto ai suddetti obblighi di intervento. Nell’ordinamento giuridico italiano, in particolare, le regole del diritto del mare assurgono a principi generali, di rango superiore alla legge, in virtù del combinato disposto degli artt. 10, 11 e 117 Cost.: le fonti subordinate alla Costituzione o alla legge primaria non condizionano la cogenza di queste regole[10].
Per una agevole comprensione del quadro normativo, reso complesso dalla quantità delle fonti, è opportuno scindere, idealmente, l’unitaria operazione di soccorso in mare in più fasi: 1) soccorso e recupero dei naufraghi; 2) consegna in luogo sicuro e sbarco dei sopravvissuti da una nave; 3) accoglienza e avvio delle fasi di identificazione. Quest’ultima fase attiene, in particolare, al momento successivo della collocazione dei migranti nei centri di accoglienza o negli hotspots.
2.1. Prima fase: soccorso e recupero dei naufraghi. La delimitazione delle zone SAR.
Il primo intervento in mare non pone particolari questioni interpretative.
Una volta ricevuta la richiesta di soccorso, le imbarcazioni degli Stati rivieraschi o i natanti privati hanno l’obbligo di prestare soccorso alle persone in pericolo. L’art. 98 della Convezione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (d’ora in poi Convenzione UNCLOS[11]), rubricato “obbligo di prestare soccorso”, statuisce che gli Stati parte devono “esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri: a) presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo; b) proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa”.
La Convenzione delinea, dunque, un obbligo positivo di tipo verticale e, al contempo, orizzontale. Nel primo senso, gli effetti si producono sul singolo Stato e si riverberano a cascata sul comandante del natante battente bandiera dello Stato interessato. In particolare, le autorità nazionali hanno il dovere di vigilare sullo svolgimento delle operazioni di soccorso e recupero, specie se poste in essere da soggetti privati[12].
Il suddetto obbligo ha anche carattere orizzontale e grava sul singolo comandante, il quale è tenuto ad intervenire quando, secondo ragionevolezza, l’intervento non mette a “repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri” o, comunque, quando la nave si trovi “nella posizione di essere in grado di prestare assistenza”[13].
La posizione del comandante della nave e degli Stati è stata consolidata, altresì, dagli emendamenti apposti dall’IMO, che all’obbligo di intervento del primo ha accompagnato il dovere di cooperazione in capo ai secondi. Ed infatti, gli Stati devono sollevare, nel minor tempo possibile, i privati dai relativi oneri e garantire ai soggetti soccorsi di essere trasferiti in luogo sicuro.
Il meccanismo di soccorso e salvataggio opera automaticamente quando i soccorsi vengono attivati nell’ambito delle acque territoriali dello Stato. Tuttavia, già dalla fine degli anni ’70 si è rilevato che la sovranità territoriale lasciava scoperti gli incidenti che si verificavano nelle acque internazionali. Per tal motivo, la comunità internazionale ha previsto che ogni Stato stabilisca, in accordo con gli Stati confinanti, le rispettive zone di ricerca e di salvataggio (cc.dd. SAR)[14], la cui ampiezza prescinde dai confini territoriali delineati.
2.2. Gli interventi nelle zone SAR: problemi di coordinamento tra i natanti privati e lo Stato.
Con la previsione delle zone SAR, il legislatore internazionale ha, ulteriormente, specificato il quadro degli obblighi dello Stato, perché tenuto al coordinamento delle operazioni di soccorso nella stessa zona[15]. Il criterio operativo impiegato consente, da un lato, la celere individuazione di un luogo sicuro “entro un termine ragionevole” e, dall’altro, la proficua cooperazione tra gli Stati confinanti.
Entro la propria zona SAR, gli Stati godono di flessibilità nell’adozione delle misure concrete per fronteggiare il pericolo, anche al fine di “assicurare che i comandanti delle navi che forniscono assistenza siano sollevati dalle loro responsabilità all’interno di un tempo ragionevole e con il minor impatto possibile sulla nave”[16].
Ulteriore criticità verificatasi nella prassi riguardava i casi in cui le autorità nazionali non assolvevano agli obblighi di soccorso nella propria zona SAR, talvolta a causa dell’inadeguatezza dei mezzi aereo-navali o dell’instabilità politica del Paese o, ancora, in ragione della categoria di soggetti da soccorrere. Per colmare il vulnus di tutela, il legislatore internazionale ha valorizzato il principio del c.d. centro di coordinamento del primo contatto, per il quale gli Stati hanno il dovere di adoperarsi per “coprire anche incidenti al di fuori della propria regione fino a quando l’RCC responsabile della regione in cui fornita l’assistenza o un altro RRC in una posizione migliore intervenga a gestire il caso accettandone la responsabilità”.
Tale principio assurge anche a criterio di risoluzione delle questioni di coordinamento, perché si basa sulla considerazione che l’RRC responsabile della zona SAR dovrebbe assumere il coordinamento delle operazioni con le correlate responsabilità, tra cui l’indicazione del luogo sicuro. In assenza di intervento dell’RRC competente, il primo RRC è responsabile fino a quando il secondo non ne abbia assunto il controllo.
Deve ritenersi, inoltre, che lo Stato di primo contatto non sia, necessariamente, quello di bandiera della nave ausiliatrice, bensì lo Stato cui fa capo il primo RCC contattato. Questa soluzione è sicuramente la più conforme alla ratio di tutela dei soggetti in pericolo in mare, cui sono informate tutte le Convenzione e che non può subire elusioni (ciò potrebbe accadere nei casi nella prassi molto frequente in cui lo Stato di bandiera sia distante dal luogo del salvataggio)[17].
In particolare, nel caso del soccorso dei migranti nel mediterraneo centrale, va osservato che, sebbene si possa affermare un “dovere” di soccorso delle autorità libiche, queste non sempre vi hanno ottemperato, anche perché lo Stato non ha ratificato la Convezione SAR. Ciò ha comportato l’assunzione di un più gravoso onere di intervento in mare da parte delle autorità italiane e dell’UE, concretizzatosi anche nelle operazioni di soccorso collettivo Mare Nostrum, Sophia, Triton e Triton plus e, da ultimo, Eunavformed.
2.3. Seconda fase: indicazione del POS e avvio delle operazioni di sbarco.
Avvenuto il soccorso e il salvataggio, le autorità nazionali devono indicare il POS (place of safety) o posto sicuro: questo ulteriore passaggio costituisce il frammento finale dell’unitaria operazione di soccorso.
Quest’ultimo pone, invero, le questioni interpretative e operative più complesse. Basti pensare al tema delle caratteristiche che il POS deve possedere o, ancora, all’indicazione del POS al natante privato che soccorre i migranti in pericolo, specie quando l’operazione viene eseguita in assenza di coordinamento delle autorità marittime dello Stato cui viene inoltrata richiesta di indicazione del posto sicuro.
Sotto il profilo teleologico, dalla Risoluzione MSC 167-78 si evince che la ratio dell’indicazione del POS è la garanzia che, in ogni caso, un luogo sicuro venga fornito entro un termine ragionevole, perché è solo con lo sbarco che cessa lo stato di pericolo per le persone soccorse. La richiesta deve essere rivolta, in primo luogo, al responsabile della zona SAR in cui avviene il salvataggio[18]; nel caso di mancata risposta, il comandante della nave potrà rivolgersi ai centri di altri Stati.
Si dà atto che, talvolta, la disciplina in questione è stata applicata in modo non coerente e/o conforme ai principi del diritto internazionale del mare, come nel caso della mancata indicazione del POS ad un natante battente bandiera di uno Stato diverso per presunte ragioni organizzative o di sicurezza.
Per superare le incertezze applicative, la Risoluzione ha fornito una serie di elementi esplicativi, tra cui la stessa definizione di place of safety[19]: luogo in cui “la sicurezza della vita dei sopravvissuti non è più minacciata e in cui le primarie necessità umane possono essere soddisfatte”, essendo dallo stesso “possibile organizzare il trasporto per la destinazione successiva o finale dei sopravvissuti”. La precisazione si è resa necessaria a causa della prassi dei c.d. respingimenti in mare[20], posti in essere dagli Stati rivieraschi verso le coste di partenza o, comunque, oltre la propria zona SAR.
La questione è tornata oggetto di dibattito con riguardo all’indicazione di un porto libico quale posto sicuro. La dottrina e la giurisprudenza[21] hanno unanimemente fornito una risposta negativa, perché, per un verso, dalle fonti internazionali emerge che luogo sicuro non può essere quello di partenza o provenienza dei naufraghi, specie laddove questi abbiano il timore di subire pregiudizi. Per altro verso – come sostenuto anche dal Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa[22] - l’inadeguatezza dei porti libici è conseguenza delle detenzioni arbitrarie, torture, estorsioni, lavori forzati, violenze sessuali, ed altri trattamenti inumani e degradanti cui i migranti vengono continuamente sottoposti proprio in quel territorio.
Un secondo elemento chiarificatore attiene all’inadeguatezza e al carattere temporaneo della presenza sulla nave ausiliaria quale luogo sicuro: “non deve essere considerata un luogo di sicurezza solo perché i sopravvissuti non sono più in pericolo immediato una volta a bordo della nave”[23]. Il legislatore internazionale ha sopito ogni dubbio circa la possibilità che le autorità nazionali, nell’intento di impedire lo sbarco o in attesa di accordi di ridistribuzione dei migranti, ritengano la nave ausiliaria che ha prestato soccorso come posto sicuro ai sensi della Convenzione SAR.
Di recente, le autorità nazionali italiane hanno giustificato il divieto di sbarco anche in considerazione della (presunta) idoneità del natante e dell’equipaggio nel fronteggiare la situazione a bordo della nave, nel predisporre luoghi di accoglienza e nell’apprestare cure medico-assistenziali. E’ vero che, «in via provvisoria, fintantoché i naufraghi non siano stati sbarcati, anche la nave che presta soccorso può essere considerata un luogo sicuro», tuttavia la decisone statale non deve prescindere dal contesto di precarietà e dalla condizione di vulnerabilità in cui versano i migranti e dalla natura, appunto provvisoria ed emergenziale, del primo soccorso.
La Risoluzione specifica, altresì, che “la nave che assiste o un'altra nave deve essere in grado di trasportare i sopravvissuti in un luogo di sicurezza. Tuttavia, se svolgere questa funzione fosse un disagio per la nave, gli RCC dovrebbero farlo tentando di organizzare altre alternative ragionevoli per questo scopo”. L’impiego del termine “disagio” non è casuale, perché alle condizioni di precarietà dei migranti soccorsi si aggiunge la valutazione delle condizioni della nave che interviene.
Quanto detto si interseca con un’altra questione, priva di rilevanza, relativa alla (eventuale) sovrapposizione giuridica e terminologica tra porto sicuro e porto vicino. Ed infatti, premesso che il posto sicuro è quello in cui è possibile tutelare le situazioni giuridiche soggettive dei migranti, si osserva che non sempre può definirsi tale un porto geograficamente vicino, come nel caso dei porti libici o tunisini.
Deve osservarsi, inoltre, che la suddetta distinzione non è avallata da alcuna Convenzione in materia di soccorso in mare[24], attesa la difficoltà di conciliare i diversi fattori che influiscono sullo svolgimento dell’attività di soccorso e salvataggio, tra cui il numero di persone da salvare, le condizioni metereologiche avverse, la rotta del natante e l’impossibilità di stabilire a priori la misura della distanza giuridica o materiale. Contesto reso più incerto, secondo la dottrina, dalla situazione di quei natanti che «non possiedono una rotta predefinita, come quelle delle ONG e i cui capitani si trovano a dover dare preminenza alla sicurezza e alla protezione dei naufraghi soccorsi in mare»[25].
3. Normativa italiana: il T.U. Immigrazione e fonti normative secondarie.
La normativa italiana è caratterizzata dalla eterogeneità delle fonti. La sedes materiae del soccorso e dello sbarco dei migranti si rinviene negli artt. 10 ss. T.U. Immigrazione, i quali sono informati al criterio del “fenomeno patologico”, per cui le autorità nazionali presumono l’esistenza di una condizione di irregolarità. La collocazione sistematica delle suddette disposizioni non pone alcun dubbio al riguardo: sono contenute nel Capo II relativo al controllo delle frontiere, del respingimento e dell’espulsione.
L’attenzione degli interpreti si è rivolta gli artt. 10 ter e 11 T.U. Immigrazione, il cui comma 1 ter [26] - oggi abrogato - prevedeva il potere del Ministro dell'interno di limitare o vietare l'ingresso, il transito o la sosta di navi nel mare territoriale al ricorrere di due presupposti: a) motivi di ordine e sicurezza pubblica; b) sussistenza delle condizioni di cui all'articolo 19, paragrafo 2, lettera g), della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare. Alla violazione del suddetto provvedimento conseguivano effetti amministrativi e penali, quest’ultimi ove il comandante della nave avesse violato il divieto di transito.
Il legislatore ha tentato, implicitamente, di relazionare le due disposizioni in termini di specialità, per cui il comma 1 ter avrebbe trovato applicazione nell’ipotesi in cui l’ingresso o la sosta “apparivano” contrari all’ordine pubblico o alla sicurezza pubblica. Questa impostazione avrebbe comportato, quindi, una sorta di abrogazione tacita dell’art. 10 ter, tutte le volte in cui ad essere soccorsi in mare fossero stati migranti e l’intervento gestito da navi battenti bandiera straniera.
Della nuova norma, la dottrina[27] ha censurato l’incompatibilità con il diritto internazionale del mare, perché il presupposto legittimante della “chiusura dei porti” veniva individuato nella presenza a bordo di immigrati irregolari. Le conseguenze erano ovvie: l’eccessiva anticipazione della repressione penale, al punto da impedire lo sbarco ai migranti soccorsi, e, quantomeno sotto il profilo sociologico, la preventiva criminalizzazione dell’operato delle ONG[28]. Si è sostenuto, inoltre, che la scelta normativa in questione avrebbe inciso, in modo notevole, sulla instaurazione e sullo svolgimento dei processi amministrativi e penali, a causa del paventato incremento dei provvedimenti ministeriali di divieto[29].
Da non escludere, altresì, i rischi derivanti dalla eventuale “de-strutturazione” del giudizio penale, causata dalla surrogazione della valutazione incidentale sulla legittimità del provvedimento amministrativo con l’obbligo del giudice penale di esprimersi sugli atti discrezionali, presupposti della fattispecie criminosa, talvolta espressione di scelte politiche o di alta amministrazione di carattere opinabile[30].
Prima dell’abrogazione avvenuta con il D.L. n. 130/2020[31], della disposizione è stata offerta un’interpretazione conforme alle norme convenzionali, nella specie leggendo in combinato disposto il citato comma 1 ter con gli artt. 18 e 19, paragrafo 2, lettera g), Convenzione UNCLOS. Le norme pattizie identificano le nozioni di “passaggio pregiudizievole” e “passaggio inoffensivo”: il primo caso consiste nell’attività di “carico o scarico di […] persone in violazione delle leggi e dei regolamenti […] di immigrazione vigenti nello Stato costiero”; il secondo consente, invece, la “fermata e l’ancoraggio, ma soltanto se questi […] sono resi necessari da forza maggiore o da condizioni di difficoltà oppure sono finalizzati a prestare soccorso a persone, navi o aeromobili in pericolo”.
Il principio di sovranità consente allo Stato di regolare, in senso limitativo, l’ingresso, il transito e la sosta nelle proprie acque territoriali, salvo le ipotesi in cui fatti di forza maggiore o esigenze di soccorso alle persone impongono di fornire riparo al natante privato. Il bilanciamento tra contrapposti interessi vede, dunque, la sovranità statale cedere di fronte alla necessità della salvaguardia della vita dei migranti naufraghi, a maggior ragione se la presenza o il trasporto delle persone sulle navi deve essere temporaneo (cfr. Risoluzione MSC 167-78, punto 6.13).
Conclusione, questa, corroborata sia sotto il profilo strutturale dell’unitarietà dell’operazione di soccorso e salvataggio, che termina con lo sbarco dei naufraghi presso il POS, sia sotto il profilo soggettivo: chiunque sia stato soccorso in mare vive una condizione di vulnerabilità, che non viene meno per la sola presenza o permanenza sul natante.
L’art. 11, comma 1 ter, T.U. Immigrazione, ha inoltre sollevato dubbi di compatibilità con il principio del non respingimento (c.d. non refoulement), nella specie sotto forma di respingimenti collettivi[32]. Invero, nel momento in cui un provvedimento interministeriale nega l’accesso o il transito ad un porto italiano, si configurerebbe una forma di respingimento indiretto - contrario agli artt. 4 del Protocollo Addizionale n. 4 della CEDU e 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 – che impedisce ai migranti di accedere alla protezione internazionale. Ed infatti, per il giudice europeo non sono legittime misure che «possano produrre l’effetto di rinviare un richiedente asilo o un rifugiato verso le frontiere di un territorio in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate»[33].
Le suddette argomentazioni avrebbero escluso l’applicabilità dell’abrogato comma 1 ter dell’art. 11 alle fattispecie in cui l’ingresso o la sosta nelle acque territoriali avesse riguardato una nave soccorritrice di migranti in mare, perché non è legittima una presunzione di contrarietà all’ordine pubblico o alla sicurezza. Stessa conclusione se si considerano le altre norme dell’art. 11, il cui campo applicativo coincide con le attività di potenziamento e coordinamento delle frontiere, piuttosto che con le operazioni soccorso e successiva identificazione dei migranti.
È evidente, allora, che la fase della gestione del soccorso e dello sbarco va sussunta nell’art. 10 ter, il quale dispone l’identificazione dello straniero “giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare”. Non solo la disposizione non crea alcuna distinzione tra navi straniere e italiane, ma individua anche gli adempimenti successivi a carico delle autorità nazionali, tra cui lo sbarco – previa concessione del POS da parte dell’autorità competente - e l’accoglienza presso centri in cui è assicurata l’informazione sulla protezione internazionale.
4. Ultimi sviluppi in materia di sbarchi: i decreti interministeriali di divieto di sbarco.
Più di recente, le autorità ministeriali hanno esercitato il potere di vietare il transito o la sosta nelle acque territoriali italiane ai natanti che trasportano migranti, nell’intento – almeno così dichiarato - di non favorire le pratiche di immigrazione clandestina e contestare il fenomeno criminale del traffico di esseri umani. Tuttavia, al di là dell’obiettivo programmatico, i contenuti e le conseguenze giuridiche dei suddetti decreti hanno riproposto il tema dell’obbligo di indicazione del POS e della gestione degli sbarchi.
Nella specie, l’ingresso delle navi delle ONG nelle acque territoriali è stato consentito – seppure dopo notevoli esitazioni e contraddizioni - al fine di trovare riparo in presenza di condizioni metereologiche avverse. Successivamente, è stato autorizzato lo sbarco dei soli minori e dei soggetti in condizioni di salute precarie, ordinando alle navi di riprendere il largo con a bordo i restanti migranti. La decisione politica è stata definita, dai primi commentatori, come una forma di “ammissione selettiva”, in aperto contrasto con la disciplina convenzionale e con il divieto di non respingimento collettivo.
In questa sede, è opportuno analizzare i possibili fattori di criticità dei suddetti decreti, seguendone la non corretta impostazione della scomposizione giuridica e materiale dell’operazione di soccorso e salvataggio in due momenti. Ed infatti, le autorità italiane hanno riconosciuto la possibilità di apprestare immediata assistenza ai soli vulnerabili, negando però l’indicazione del POS, sul presupposto che l’obbligo gravasse in capo alle autorità dello Stato di bandiera del natante.
Il mancato accoglimento delle richieste dei natanti privati è stato giustificato dalla circostanza che le “operazioni in mare [sono] avvenute al di fuori dell’area SAR di responsabilità italiana, rilevando come tali operazioni siano state effettuate in mancanza di qualsivoglia istruzione e forma di coordinamento da parte della competente Autorità SAR”. Per ciò solo, “il transito e la sosta nel mare territoriale si configurano come pregiudizievoli per l’ordine e la sicurezza pubblica, ai sensi dell’art. 1, comma 2, D.L. 130/2020”. La presunzione accolta dalle autorità ministeriali è distonica sia rispetto al mancato intervento delle autorità SAR di altri Stati (ad es. Malta, Libia o Tunisia) sia all’impossibilità di chiedere l’intervento delle autorità di paesi (ad esempio Libia) in cui le precarie condizioni geo-politiche e/o la complessiva instabilità politica della regione non lo consentivano.
La prima criticità si rinviene nella scelta di consentire l’accesso ai soli vulnerabili e di negarlo a coloro che non erano valutabili come tali, non assumendo così la responsabilità dello sbarco. Di contro, l’espressione “operazioni di soccorso e salvataggio” comprende anche l’indicazione del POS e il conseguente sbarco, per cui le autorità italiane hanno assunto, fittiziamente, la responsabilità della sola messa in sicurezza dei più fragili, rimettendo invece l’esecuzione dello sbarco dei restanti naufraghi alla competenza degli Stati della bandiera.
In secondo luogo, deve rilevarsi l’inosservanza del principio c.d. dello Stato di primo contatto. Sulla scorta delle norme convenzionali[34], è legittimo che un natante chieda l’intervento di un RCC diverso da quello della zona SAR in cui avviene il salvataggio, con obbligo del primo di “coprire anche incidenti al di fuori della propria regione”. Lo Stato contattato per secondo, pur se non ha coordinato o partecipato alle operazioni, non può esimersi dal fornire un supporto in quanto geograficamente più vicino. Concludere in senso difforme condurrebbe all’elusione del principio del centro di coordinamento di “primo contatto” e ad un vuoto di tutela delle situazioni soggettive delle persone salvate[35].
Nel momento in cui si ordina alle navi di riprendere il largo, si innesca un ulteriore momento di crisi della disciplina in questione: viene perpetrata la violazione del principio di non discriminazione e, con esso, del divieto di respingimento collettivo. Non solo si crea una disparità di trattamento tra soggetti che sono da ritenersi tutti in pericolo, ma le autorità ministeriali adottano una nozione di vulnerabilità restrittiva, inclusiva solo delle categorie dei minori e di coloro in situazioni precarie di salute. Appare più coerente considerare vulnerabili, secondo una logica rimediale, tutti coloro che sono stati salvati in mare, a prescindere dalla sussistenza di specifiche condizioni[36] (cfr. punto 6.13 Risoluzione: “una nave ausiliaria non deve essere considerata un luogo di sicurezza solo perché i sopravvissuti non sono più in pericolo immediato una volta a bordo della nave”).
Alla medesima conclusione si perviene considerando il combinato disposto degli artt. 1 T.U. Immigrazione (diritti degli stranieri) e 92 Convezione UNCLOS secondo cui la nave è soggetta alla giurisdizione dello Stato della bandiera, “salvo casi eccezionali specificamente previsti da trattati internazionali o dalla presente Convenzione”. In sintesi no n può escludersi la sottoposizione alla giurisdizione dello Stato costiero del natante privato che ha soccorso in mare i migranti, atteso che solo così è possibile svolgere pienamente tutte quelle attività necessarie e funzionali alla tutela dei diritti umani.
All’opposto, ai migranti “respinti” è stata di fatto negata la possibilità di attivare la procedura della protezione internazionale. Come ribadito anche dalla giurisprudenza di legittimità, una nave in mare non è un luogo sicuro (o quantomeno lo è solo temporaneamente) e non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone, tra cui quello di presentare domanda di protezione internazionale, «operazione che non può certamente essere effettuata sulla nave»[37]. A sostegno si può dedurre il già citato art. 10 ter del T.U. Immigrazione, il quale impone alle autorità nazionali di discernere la posizione dei richiedenti asilo da coloro per i quali difettano i presupposti di legge.
Anche a voler ammettere che i migranti possano attivare la procedura di protezione internazionale a bordo della nave, si osserva però che la condotta delle autorità italiane condurrebbe, ipso facto, alla creazione di una nuova regola internazionale. Invero, l’art. 13 del Regolamento di Dublino III verrebbe interpretato nel senso di radicare la competenza per l’accoglimento delle relative richieste sugli Stati di bandiera delle navi, perché queste sono considerate dal diritto internazionale “a tutti gli effetti territorio dello Stato”.
Questa prassi, tuttavia, non può essere avallata, perché la Corte EDU richiede agli Stati di applicare i Regolamenti di Dublino in modo conforme alla Convezione, risultando ingiustificato il respingimento sotto qualsiasi forma, anche c.d. indiretto[38]. Anche la Raccomandazione della Commissione europea (23 settembre 2020) ribadisce che le normative nazionali non possono alterare l’obbligo sulla ricerca e soccorso in mare, nonostante gli Stati di bandiera abbiano una responsabilità relativa al controllo dei requisiti per la registrazione della nave.
Invocare la competenza degli Stati di bandiera, nell’intento di porre sui comandanti delle navi l’onere di raggiungerne i relativi porti di attracco, contrasta con le regole generali in tema di obbligo di indicazione del POS contenute anche nella Risoluzione[39]. Può ritenersi, inoltre, concreto il rischio che gli Stati aggravino, eccessivamente, le condizioni del natante ausiliario, dovendo gli stessi organizzare in tal caso delle “alternative ragionevoli”.
[1] I fattori che connotano di complessità il fenomeno migratorio sono di due tipi, rispettivamente, spaziale-temporale e sociologico. Sul punto, D. G. Carbonari, Vulnerabilità delle donne vittima di tratta: la Cassazione riconosce lo status di rifugiato in virtù dell’appartenenza ad un gruppo sociale discriminato, in questa rivista, 22 marzo 2022.
[2] N. Parisi, I limiti posti dal diritto internazionale alle scelte di penalizzazione del legislatore interno in materia di immigrazione irregolare, in R. Sicurella (a cura di), Il controllo penale dell’immigrazione irregolare: esigenze di tutela, tentazioni simboliche, imperativi garantistici, Torino, 2012, pp. 55 ss.
[3] In tal senso, Cass., sez. VI, del 16.12.2021, n. 15869.
[4] Linee guida contenute nella Risoluzione MSC 167-78, riportante gli emendamenti dell’Organizzazione Marittime Internazionale (IMO)al regolamento SOLAS V/33 (Convenzione Internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974) e all’allegato alla Convenzione SAR, paragrafo 3.1.9.
[5] Convezione di Amburgo sulla ricerca ed il soccorso marittimi del 1979, ratificata dall’Italia con legge del 3 aprile 1989, n. 147, punto 2.1.10.
[6] Si tratta di una regola generale intimamente connessa al principio di non discriminazione.
[7] Convenzione di Amburgo sulla ricerca ed il soccorso marittimo cit., paragrafi 1.3.2 e 3.1.
[8] La scissione giuridica e materiale dell’operazione di soccorso e salvataggio è una delle censura mosse al decreto interministeriale del 4 novembre 2022.
[9] Cass., III sez., del 20.02.2020, n. 6626.
[10] Allo stesso risultato si perviene in considerazione della vincolatività dei c.d. pacta sunt servanda, presidiati a livello costituzionale dall’art. 117 Cost.
[11] Convenzione sottoscritta a Montego Bay nel 1982, ratificata dall’Italia con legge 2 dicembre 1994, n. 689.
[12] L’art. 98, comma 2, della Convenzione UNCLOS recita che “ogni Stato costiero promuove la costituzione e il funzionamento permanente di un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea, quando le circostanze lo richiedono, collabora a questo fine con gli Stati adiacenti tramite accordi regionali”.
[13] In tal senso, il Capitolo R, del regolamento 33 relativo alla Convezione Internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 (Convenzione SOLAS), ratificata con legge del 23 maggio 1980, n. 131.
[14] Convenzione SAR, capitolo 2.1.5
[15] Sempre la Convezione SAR prevede che “qualora vengano informati che una persona è in pericolo in mare, in una zona in cui una Parte assicura il coordinamento generale delle operazioni di ricerca e di salvataggio, le autorità responsabili di detta Parte adottano immediatamente le misure necessarie per fornire tutta l’assistenza possibile”.
[16] Risoluzione MSC 167-78, emendamento 2.6
[17] Soluzione, questa, non condivisa da chi sostiene che, così ragionando, i comandanti delle navi delle ONG godrebbero della libertà o dell’arbitrio nella individuazione dell’autorità SAR da contattare.
[18] Per l'Italia, il place of safety è determinato dall'Autorità SAR in coordinamento con il Ministero dell'Interno (IMRCC).
[19] V. punto 6.12 Risoluzione MSC 167-78.
[20] I respingimenti in mare costituiscono violazione del divieto di ricondurre le persone verso luoghi nei quali la loro vita, la loro incolumità e la loro libertà sarebbero minacciate, oppure nei quali sarebbero sottoposte a pene o a trattamenti inumani o degradanti. Rilevano gli artt. 3 e 14 CEDU, art. 33 della Convenzione di Ginevra, art. 19 CDFUE, art. 19, commi 1, 1 bis e 2 d.lgs. 286/98.
[21] Di recente, il GUP del Tribunale di Napoli, con sentenza n. 1621/2021, ha sostenuto che, «al fine di sgombrare il campo da un possibile equivoco di fondo, è necessario affermare che la Libia non poteva e non può, allora come ora, essere considerata porto sicuro». Nello stesso senso, anche le sentenze del GUP del Tribunale di Messina, della Corte d’assise di Milano del 10 ottobre 2017 (caso Matammud), Cass., Sez. V, del 12 settembre 2019, n. 48250 e, infine, Cass., sez. III, del 16 gennaio 2020, n. 6626.
[22] V. Raccomandazione Lives Saved. Rights protected. Bridging the protection gap for refugees and migrants in the Mediterranean, del 2019.
[23] V. Risoluzione MSC 167-78, punto 6.13. Nello stesso senso, Cass., sez. VI, del 16.12.2021, n. 15869, per la quale una nave «non può quindi essere qualificato "luogo sicuro", per evidente mancanza di tale presupposto, una nave in mare che, oltre ad essere in balia degli eventi metereologici avversi, non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse».
[24] Il concetto di porto sicuro è impiegato, invece, dal diritto internazionale marittimo nel caso di collisioni tra navi, limitazioni per definire un arcipelago o le acque territoriali, porti dove ormeggiare per riparare guasti che stanno causando danni ambientali e sversamenti in mare di sostanze tossiche o per definire la “più vicina rappresentanza diplomatica dello stato di bandiera”. Deve darsi conto dell’impiego, da parte della giurisprudenza internazionale, del concetto di “minima deviazione possibile”, cui si fa ricorso nell’intento di limitare i danni economici di mercantili e armatori e ridurre il lasso di tempo in cui un'imbarcazione inadeguata si trova a navigare sovraccarica di esseri umani.
[25] F. Floris, Porti sicuri e sbarchi incerti. I “buchi neri” del diritto internazionale del mare, in Redattore Sociale, 3 luglio 2019.
[26] Introdotto con il decreto legge del 14 giugno 2019, n. 53, convertito in legge n. 77/2019.
[27] S. Calabria, Respingimenti in mare dopo il cd. decreto sicurezza-bis (ed in particolare alla luce del comma 1-ter dell’art. 11 del d.lgs n. 286/1998), in www.questionegiustizia.it, 29 luglio 2019; A. Natale, A proposito del decreto sicurezza bis, in www.questionegiustizia.it, 20 giungo 2019. Inoltre, il comma 1 ter sanzionava penalmente condotte già stigmatizzate dall’art. 83 del codice della navigazione. Ulteriori profili di criticità, rilevati anche dal Capo dello Stato, attenevano alla indeterminatezza relativa alla tipologia delle navi da sanzionare, al contenuto della condotta di ingresso o sosta e ai motivi della presenza di soggetti soccorsi sulle navi.
[28] Si è discusso, infatti, di elevato uso simbolico della leva penale.
[29] Incideva sulla complessità del tema anche il discrimine tra le ipotesi in cui viene adottato il provvedimento ministeriale di divieto e quelle in cui non è fisiologicamente possibile adottarlo, come nel caso dei c.d. sbarchi autonomi o fantasma.
[30]Sul punto, L. Masera, La criminalizzazione delle ONG ed il valore della solidarietà in uno Stato democratico, in www.federalismi.it, del 25 marzo 2019; P. De Sena – F. De Vittori, La minaccia italiana di bloccare gli sbarchi dei migranti e il diritto internazionale, in Quaderni di SIDIBlog, 2017-2018.
[31] Non con poche perplessità manifestate dalla Cassazione, perché vengono riproposti alcuni aspetti problematici comuni alla precedente normativa del 2019.
[32] Tra tutti, S. Calabria, Respingimenti in mare dopo il cd. decreto sicurezza-bis (ed in particolare alla luce del comma 1-ter dell’art. 11 del d.lgs n. 286/1998), cit.
[33] Il non refoulement è un principio di diritto internazionale consuetudinario, nonché «norma di ius cogens: non subisce alcuna deroga ed è imperativa». Corte EDU, Grande Camera, sentenza 26 febbraio 2008, Saadi c. Italia; Corte EDU, Grande Camera, sentenza del 23 febbraio 2012, Hirsi ed altri c. Italia. Nella più recente giurisprudenza nazionale, Cass., Sez. VI, del 16.12.2021, n. 15869 e GUP del Tribunale di Napoli, con sentenza n. 1621/2021.
[34] Punto 6.7 della Risoluzione MSC 167-78.
[35] Nella specie, la mancanza di coordinamento o istruzione è stata considerata delle Autorità italiane, per ciò solo, quale violazione delle norme internazionali, in particolare dell’art. 19 Convezione UNCLOS, perché espressione della “intenzione reale di trasferire in Italia le persone a bordo piuttosto che assicurare loro la più tempestiva salvezza”. Le criticità sono conseguenza anche della mancata ratifica degli emendamenti da parte dello Stato maltese.
[36] Al riguardo, la Corte EDU esprime una nozione di vulnerabilità “per categorie”. Bisogna valutare i bisogni concreti e addivenire ad una classificazione dei soggetti. Se ne inferisce che la vulnerabilità è una “nozione relazionale”, nella quale ricondurre soggetti o gruppi che si esaminano in relazione al contesto in cui si trovano. Sul tema, F.R. Partipilo, Porti chiusi alle navi umanitarie: diritti e obblighi di Stati e capitani, in www.sistemapenale.it, 8.11.2022.
[37] Cass., III sez., del 20.02.2020, n. 6626.
[38] In questo senso, depongono una serie di fonti internazionali che negano la responsabilità e la competenza del comandante della nave circa la determinazione dello status dei migranti. V. Guida sul salvataggio in mare, redatta congiuntamente da IMO, UNHCR e Camera di Commercio Internazionale.
[39] C. Favilli, La stagione dei porti semichiusi: ammissione selettiva, respingimenti collettivi e responsabilità dello Sato di bandiera, in www.questionegiustizia.it, 8 novembre 2022.
Tutta un’altra storia
Recensione di Dino Petralia
Si può decidere di scrivere per inseguire un sogno, per lanciare una protesta, un’accusa sociale, oppure per consacrare una confessione o togliersi uno scrupolo. Ma si può scrivere anche per omaggio, confezionando una storia dedicata, un dono al sentimento di riconoscenza. Ed è il caso di “Tutta un’altra storia”, racconto di verità intima di un figlio che ha perso il padre per mano mafiosa e che, con orgogliosa resistenza, ma senza salvifici velleitarismi, asseconda con la scrittura l’affettuosa presunzione di cambiare la tragica vicenda, ricostruendola a modo suo nel doloroso intento di riappropriarsi del genitore.
Per la cronaca Antonino Burrafato, sottufficiale degli Agenti di Custodia - così all’epoca si chiamava l’odierna Polizia Penitenziaria - matricolista in servizio al carcere dei Cavallacci di Termini Imerese, fu assassinato il 29 giugno 1982 da quattro sicari di Cosa Nostra perché considerato “colpevole” di avere tempestivamente effettuato la notifica di un provvedimento cautelare al detenuto Leoluca Bagarella, così di fatto impedendo l’esecuzione di un permesso di necessità che il boss avrebbe dovuto fruire per recarsi in visita al genitore morente. Per la mafia una sollecitudine ritenuta insolente e offensiva, tanto da avere innescato un verdetto di morte per lo scrupoloso brigadiere. Collaborazioni interne al sodalizio consentirono successivamente di svelare fatti e movente fino al definitivo giudizio penale.
Senza svelare nulla di un libro in bilico tra realtà e immaginazione, gradevole e commovente insieme, cadenzato in una scrittura graziosamente espressiva anche nel vezzo camilleriano di intercalare qua e là vocaboli dialettali siciliani così da radicarne efficacemente - ed orgogliosamente - la matrice isolana, può dirsi che appaiono sostanzialmente pagine dense di vita familiare, autobiografiche nel privato e nel pubblico, un libro organizzato come un girotondo intorno ad una figura amatissima e autorevolmente protettiva, quella di papà Nino, e ingegnosamente arricchito di un altro sé di famiglia, che il narratore fa debuttare come suo gemello, Nicola. Sfrontato ed estroso, attraente nei suoi slanci e trascinante, un fratello inventato in cui specchiarsi e interrogarsi, la sparizione del quale, ad un tratto della storia, acuisce la curiosità di approfondirne la conoscenza attraverso i suoi appunti che lui Totò freneticamente legge ricostruendo stati d’animo e scoprendone insondate e gratificanti virtù morali e sociali.
Una seconda figura compare poi nel solco del racconto ed è quella del Commissario Galvano, poliziotto ed investigatore verace in perfetto stile siculo, amico fedelissimo del padre, ben conscio del rischio corso da questi per l’affronto fatto in carcere al capomafia corleonese e latore in casa Burrafato della notizia che il solerte brigadiere era ormai nel mirino di Cosa Nostra. Dipinto caratterialmente crudo e di brusche maniere, l’alone del suo profilo è tuttavia quello di schietta e protettiva sincerità per l’amico Nino; è Galvano alla fine ad essere scelto dall’autore per fare da collante all’intera storia, dialogando con padre e figlio come un intimo familiare e raccontando col silenzio delle sue carte investigative, incustodite sul tavolo di casa Burrafato, la trama del delitto come fosse tutta un’altra storia, e non quella tragica dell’irreprensibile brigadiere.
Il delicato intento di Totò è dunque quello di ricostruire con la penna i fatti come se accaduti al suo cospetto, nell’illusione che un calore corale - quello che invece è mancato sulla strada del delitto - possa essere d’ausilio al passaggio; e così, dopo avere anticipato tra le pagine sanguinanti premonizioni, finisce per coagularle tutte nel finale, dove, senza tempo o meglio in un tempo contemporaneo del prima e del dopo, compaiono tutti come personaggi e interpreti di una tragedia accanto al papà in abito scuro, in una toccante composizione scenica in cui fa da sfondo l’istituto dei Cavallacci già intestato al V. Brig. Antonino Burrafato.
Pagine da leggere tutte d’un fiato, senza cedimenti ma con la fierezza della partecipazione, quella stessa fierezza di chi ha indossato una divisa grigio sbiadito, quasi un grigio topo con la mente e il cuore di fedele servitore dello Stato.
Introduzione a un dibattito sul tema dell’autonomia differenziata*
di Enrico Zampetti
Il tema di oggi è di stretta attualità considerato che, negli ultimi giorni dello scorso anno, il Ministro per gli Affari regionali e le Autonomie ha trasmesso alla Presidenza del Consiglio dei Ministri il testo del disegno di legge recante l’attuazione dell’articolo 116 co. 3 Cost. Attualmente risulta presentato al Senato un disegno di legge dell’opposizione per l’attuazione del medesimo articolo 116 co. 3 Cost. e, presumibilmente, nel prossimo futuro ne saranno presentanti degli altri.
Non possono qui essere tratteggiate, neppure per cenni, le varie tappe che hanno sinora caratterizzato il processo di autonomia differenziata (che, ad oggi, non risulta perfezionato per nessuna Regione), ma un dato può essere evidenziato: rispetto al momento iniziale si è progressivamente allargata la platea delle Regioni interessate alla differenziazione, sicchè ad oggi l’autonomia differenziata assume la rilevanza di un fenomeno più generale, non esclusivamente circoscritto alle Regioni del Nord, ma esteso anche ad altre Regioni che, quantomeno in via astratta e potenziale, vedono nel regionalismo differenziato un possibile rilancio del sistema autonomistico, anche nell’ottica di un superamento degli squilibri esistenti.
Al contempo, all’aumento delle Regioni interessate è corrisposto un progressivo aumento delle materie coinvolte dal processo di differenziazione, sino a registrare iniziative riguardanti tutte e ventitré le materie indicate dalla norma costituzionale.
In questo contesto di più ampio interesse per l’autonomia differenziata, si avverte, dunque, l’esigenza di una legge quadro che garantisca una procedura unica e uniforme. Ciò non è affatto scontato perché, se è vero che anche in passato era stata avanzata la proposta di una legge quadro (si vedano, ad esempio, le iniziative del 2007 sotto il Governo Prodi e del 2019 sotto il governo Conte II), in altre occasioni il processo per ottenere l’autonomia differenziata si è avviato in diretta attuazione dell’articolo 116 co.3 (si pensi, ad esempio, alle preintese del febbraio 2018 a seguito dei referendum indetti da Lombardia e Veneto). Peraltro, anche in dottrina si registrano differenti orientamenti: accanto a posizioni che invocano la necessità di una legge quadro per ragioni di uniformità, altre la escludono sul presupposto che l’art. 116, co. 3, ponga soltanto un problema d’interpretazione ma non di attuazione costituzionale.
Ad ogni modo, tanto l’attuazione diretta dell’articolo 116 co. 3 Cost. quanto la sua attuazione attraverso una legge quadro devono misurarsi con una serie di questioni che variamente interessano il tema dell’autonomia differenziata e sulla base delle quali vanno esaminate e valutate anche le recenti proposte. Resta inteso - ma è forse superfluo sottolinearlo - che la questione più generale e rilevante richiede di inquadrare l’autonomia differenziata nell’ambito dei principi di unità e solidarietà sanciti a livello costituzionale, nell’ambizioso obiettivo di assicurare l’uguaglianza nella differenziazione. Al di là di questo aspetto centrale sul quale si concentra da sempre il dibattito sull’autonomia differenziata, più in dettaglio possono individuarsi alcuni profili problematici che passo sinteticamente ad esporre e che verranno in parte ripresi e approfonditi dalle successive relazioni.
Oggetto dell’autonomia differenziata.
L’autonomia differenziata riguarda tanto le competenze legislative quanto le competenze amministrative. Per quanto riguarda le prime, l’elemento di criticità concerne essenzialmente la quantità di materie che possono interessare il processo autonomistico. Se infatti il processo di differenziazione può coinvolgere astrattamente tutte le materie richiamate dall’articolo 116 Cost., è stato sottolineato che, ove la devoluzione dovesse interessarle tutte contestualmente, ciò rischierebbe di alterare le competenze legislative sancite a livello costituzionale, in deroga al procedimento di revisione previsto dall’art. 138 Cost.
Sotto un altro aspetto, si è espressa preoccupazione per la devoluzione di materie relative ad interessi (avvertiti come) unitari e difficilmente frazionabili (il riferimento è, ad esempio, alle materie coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, porti e aeroporti civili, istruzione, sanità, commercio con l’estero, produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia). Anche nel tentativo di superare questa preoccupazione, si è talvolta sostenuto che, più che la materia nella sua astrattezza, la proposta regionale debba individuare gli obiettivi o le politiche che si intendono concretamente perseguire con l’autonomia differenziata, di modo che, in fase di intesa, si possano più agevolmente individuare le modalità di realizzazione di quegli obiettivi o di quelle politiche.
Per quanto riguarda le competenze amministrative, va precisato che il conferimento alle Regioni di funzioni amministrative non è esclusivo appannaggio dell’autonomia differenziata, ma si determina anche in base all’articolo 118 della Costituzione in applicazione dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. Si è così sottolineato che la Regione potrebbe risultare titolare di funzioni amministrative sia in applicazione dell’articolo 118 Cost. che dell’articolo 116, co.3, Cost., con la differenza che, in quest’ultimo caso, le competenze amministrative sarebbero modificabili soltanto mediante il procedimento previsto dalla relativa norma costituzionale.
Ruolo del Parlamento.
Un’ulteriore preoccupazione riguarda il ruolo del Parlamento nel processo di autonomia differenziata. Emerge, in particolare, il seguente interrogativo: la legge contemplata dall’articolo 116 Cost., che approva l’intesa a maggioranza assoluta, può emendare l’intesa o richiederne modifiche, ovvero deve approvarla o rifiutarla in blocco? L’orientamento maggioritario sembra configurare la legge in esame come una legge di mera ratifica, al pari delle leggi che approvano le intese con le confessioni religiose diverse dalla cattolica. Al contempo, le varie proposte succedutesi nel tempo, tra cui anche le ultime, cercano di recuperare il ruolo del Parlamento attraverso il coinvolgimento delle competenti commissioni parlamentari, per lo più chiamandole ad esprimere pareri durante la fase di costruzione dell’intesa. Occorre verificare se e in che termini questo coinvolgimento possa ritenersi adeguato e sufficiente, ma di questo non possiamo occuparci in questa sede.
Il sistema di finanziamento.
Il sistema di finanziamento dell’autonomia differenziata dovrebbe essere coerente con quanto previsto dall’articolo 119 Cost., e in particolare con il principio di corrispondenza tra funzioni e risorse secondo il quale le funzioni attribuite agli enti territoriali sono finanziate con tributi propri, compartecipazione al gettito di tributi erariali riferibile al territorio regionale, fondi perequativi. Tuttavia, è noto come il federalismo fiscale non risulti ancora compiutamente attuato e come tale inattuazione sia stata ulteriormente determinata dalla crisi economica e dal contesto pandemico. Talvolta, si è così assistito ad un accentramento delle competenze e della gestione delle risorse, che anch’esso ha contribuito ad impedire il passaggio da un sistema a finanza derivata a un sistema effettivamente incentrato sull’autonomia finanziaria degli enti territoriali. In estrema sintesi, (anche) il sistema di finanziamento dell’autonomia differenziata sconta e risente della mancata piena attuazione dell’articolo 119 Cost.
In ogni caso, si devono adeguatamente sottolineare le finalità perequative che pervadono l’articolo 119 Cost. e che vengono a tradursi nella necessaria redistribuzione del gettito raccolto a livello regionale. Sotto questo profilo, alcune criticità possono riguardare il c.d. residuo fiscale, ossia la differenza tra quanto un territorio versa allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Proprio nell’ottica della perequazione, vanno così valutate eventuali rivendicazioni delle Regioni con più alto residuo fiscale a trattenere una maggiore percentuale del gettito prodotto nei rispettivi territori, considerato che siffatte rivendicazioni potrebbero sottrarre alla finanza pubblica risorse da redistribuire in ottica perequativa. Di questo aspetto si è occupata anche la Corte costituzionale con la sentenza n. 118 del 2015.
I livelli essenziali delle prestazioni (LEP).
Un ulteriore elemento di criticità riguarda i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale (LEP).
Si tratta del profilo che più ha acceso il dibattito di questi ultimi giorni. Volendo semplificare al massimo, l’interrogativo di fondo è il seguente: si può procedere con l’autonomia differenziata anche se non siano stati previamente definiti i LEP oppure è necessario prima definire i LEP e soltanto dopo attivare il processo di differenziazione?
Va subito precisato, anche perché il dibattito odierno può fuorviare, che la definizione dei LEP è prevista dalla Costituzione a prescindere dall’autonomia differenziata, a presidio di quegli elementi unificanti con cui il principio autonomistico deve necessariamente convivere. In quest’ottica, come sancisce la legge 42 del 2009 sul c.d federalismo fiscale, la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni incide anche sui criteri di allocazione delle risorse perché implica il passaggio dal criterio della spesa storica al criterio incentrato sui fabbisogni e i costi standard. Come noto, attualmente i LEP non risultano ancora definiti in via generale, con una duplice implicazione: non si sa con esattezza quali siano i livelli essenziali delle prestazioni, salvo dedurli per alcuni settori dalla normazione positiva; si ostacola il passaggio dal criterio della spesa storica al criterio dei fabbisogni e costi standard.
Ma veniamo più da vicino al rapporto tra LEP e autonomia differenziata: ove anche si ritenga che, da un punto di vista formale, la (previa) definizione dei LEP non condizioni l’autonomia differenziata, è indubbio che la previa definizione dei LEP, e quindi la previa determinazione dei fabbisogni e costi standard, venga avvertita come presupposto necessario del processo di autonomia differenziata, proprio per evitare che si perpetui l’applicazione del criterio della spesa storica: ossia un criterio che, basandosi su quanto si è speso negli anni precedenti, non è affatto detto che assicuri le risorse necessarie per garantire l’erogazione dei servizi secondo predeterminati standard qualitativo-quantitativi. In sostanza, come emerge dal dibattito di questi giorni, se il processo di autonomia dovesse avviarsi e completarsi senza che siano stati previamente definiti i LEP, il divario già esistente tra le Regioni rischierebbe di restare tale e si sarebbe persa un’occasione nell’ottica dell’uniforme garanzia dei diritti civili e sociali.
Ebbene, l’ultima legge di bilancio, ai commi 791 e ss., ha previsto che i LEP debbano essere definiti entro un termine ben preciso e che “l'attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia di cui all'articolo 116, terzo comma, della Costituzione, relative a materie o ambiti di materie riferibili, ai sensi del comma 793, lettera c), del presente articolo, ai diritti civili e sociali che devono essere garantiti in tutto il territorio nazionale, è consentita subordinatamente alla determinazione dei relativi livelli essenziali delle prestazioni (LEP)”, subordinando così il processo di autonomia differenziata alla previa determinazione dei LEP. Resta inteso che, per garantire uniformemente i diritti civili e sociali, anche nella prospettiva dell’autonomia differenziata, non è sufficiente la preventiva definizione dei LEP, ma è altresì necessario lo stanziamento delle relative risorse e la previsione dei meccanismi attraverso cui assicurarne il concreto finanziamento. Una definizione dei LEP alla quale non si accompagni lo stanziamento delle risorse lascerebbe pressochè inalterata l’attuale situazione.
* * *
Questi, sia pur sommariamente indicati, sono alcuni degli aspetti che richiedono una rinnovata riflessione sull’autonomia differenziata nell’attuale contesto di riferimento e che ci hanno indotto ad organizzare questo incontro di approfondimento. Mi fermo qui per lasciare spazio ai nostri relatori che, da varie angolazioni tratteranno alcuni degli aspetti che ho cercato di sintetizzare in questa breve introduzione.
Interverranno subito i professori Francesco Manganaro e Fabrizio Tigano che dovranno lascarci a beve perché impegnati nel Consiglio direttivo dell’Associazione italiana professori di diritto amministrativo. In particolare, il prof. Francesco Manganaro ci illustrerà se e in che termini il regionalismo differenziato riesca a conciliare l’autonomia con il superamento dei divari regionali, mentre il prof. Fabrizio Tigano si concentrerà anche sui rapporti tra autonomia differenziata e autonomie speciali. Seguiranno, in ragione delle tematiche trattate, gli interventi del prof. Antonio Bartolini sul principio autonomistico, del prof. Alessandro Cioffi sui LEP, della prof.ssa Chiara Cacciavillani e del prof. Pier Luigi Portaluri sulle implicazioni dell’autonomia differenziata rispettivamente per la materia sanitaria e la materia governo del territorio. Al termine ascolteremo le conclusioni della prof.ssa Maria Alessandra Sandulli.
* Lo scritto riproduce l’introduzione al Seminario Novità e possibilità dell’autonomia differenziata nelle più recenti proposte di riforma, organizzato dal Comitato di redazione della sezione Diritto e Processo Amministrativo di questa Rivista e tenutosi il 9 gennaio 2023.
Gli approfondimenti della dottrina sulla riforma Cartabia - 4. La giustizia riparativa. L’impatto della riforma Cartabia sui Tribunali: criticità e possibili soluzioni
di Roberta Palmisano
Sommario: Premessa. - 1. Principi sovranazionali in materia di giustizia riparativa. - 2. Principi sovranazionali in materia di Probation e sanzioni di comunità. - 3. Legislazione interna e prospettiva carcerocentrica prima della riforma Cartabia. - 4. Novità introdotte dalla riforma Cartabia e limiti alla effettiva realizzazione di un sistema di pene in comunità. - 5. Esperienza del Tribunale di Roma.
Premessa
La Costituzione dedica l’art. 27 comma 3 alla funzione della pena affermando che essa deve “tendere alla rieducazione del condannato” e “non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. La norma, utilizzando il termine “condannato”, sembrava prendere in considerazione la fase esecutiva della pena[1].
Fin dall’inizio degli anni ’90 del secolo scorso la Corte Costituzionale ha però chiarito che: “la necessità costituzionale che la pena debba "tendere" a rieducare, lungi dal rappresentare una mera generica tendenza riferita al solo trattamento, indica invece proprio una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue” (C. Cost., Sent. n. 313/1990).
Il principio di rieducazione e risocializzazione del reo, incentrato sul trattamento individualizzato, si affianca al diritto della società ad essere tutelata. Il percorso non può che essere progressivo e il risultato non può essere realizzato senza il concorso della società tutta, cui l’art. 27 è rivolto.
L’apporto di enti e istituzioni del territorio nel percorso di reinserimento è previsto dall’ordinamento penitenziario (art. 1 comma 6) e, in applicazione del principio di sussidiarietà sancito all’art. 18 della Costituzione, le norme del Regolamento n. 230/2000 si fondano sulla collaborazione della comunità sociale.
Di questo apporto la Magistratura di Sorveglianza fa applicazione quotidiana dal 1975 con la interazione degli Uffici di Esecuzione Penale esterna e la partecipazione attiva di enti e associazioni alla vita del carcere e, anche se in misura molto minore, nei percorsi di affidamento in prova e di detenzione domiciliare.
Molte volte non vi è ragione per riservare questa sinergia ad una fase successiva all’esecuzione della sentenza, che può essere tardiva.
Attuare strategie preventive di protezione sociale (negli ambiti dell’assistenza sociale e della tutela della salute) è fondamentale per arginare la recidiva perché la libertà dal bisogno non è solo un’esigenza personale ma è anche il presupposto necessario per un valido inserimento dell’individuo nella collettività. Attraverso la tutela del singolo si tende a realizzare un obiettivo di carattere collettivo.
Le possibilità di riuscita dipendono però dall’impegno finanziario e organizzativo investito nella creazione e nel funzionamento di strutture e servizi indispensabili e dal coinvolgimento delle comunità locali (scuola, imprese …).
Nel nostro Paese l’introduzione di benefici premiali e misure alternative alla detenzione è stata sempre motivata dalla necessità di sfollamento delle strutture penitenziarie ed è mancato un vero investimento nell’inclusione sociale, unione di principi teorici e misure concrete.
Il giudice della cognizione si interroga ogni giorno su cosa sia a lui demandato nella difficile sfida di “tendere” a reintegrare nella società le persone che entrano nel circuito penale, cerca di comprendere perché una vita deraglia e si chiede come offrire la possibilità di rivisitare le proprie scelte e farne di diverse.
Da questi interrogativi e dal timore che la più attenta e defatigante attività processuale possa risultare quasi vana, è nato il proposito di valorizzare gli strumenti che prevedono percorsi di responsabilizzazione nell’ambito della comunità.
Questi strumenti, nonostante Raccomandazioni e Risoluzioni adottate da organismi internazionali li indicassero già da tempo e l’Italia fosse stata già sanzionata con la sentenza Sulejmanovic c. Italia in data 16.7.2009 per la situazione di sovraffollamento grave[2], sono stati introdotti dal legislatore in adempimento dell’obbligo imposto dalla Corte EDU, con la sentenza pilota Torreggiani ed altri c. Italia in data 4.12.2012, di introdurre nell’ordinamento italiano “un insieme appropriato di sanzioni o misure applicate nella comunità, graduate in termini di gravità”.
Il percorso ha portato il Tribunale di Roma a sottoscrivere prima l’Accordo di collaborazione in data 4 marzo 2020 e poi l’Accordo di Rete in data 5 maggio 2022 con i quali le istituzioni del territorio si impegnano ad assicurare continuità assistenziale e una più efficace e tempestiva presa in carico dei soggetti vulnerabili entrati nel circuito penale, al fine di arginare il rischio di recidiva, impegnandosi anche a curare la informazione e la formazione e ad accendere un riflettore sull’importanza delle risorse.
Questo modello, realizzato ben prima dell’entrata in vigore del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150[3], rappresenta anche un valido supporto a disposizione del giudice nell’affrontare le ricadute della riforma sull’attività giurisdizionale.
1. Principi sovranazionali in materia di giustizia riparativa
Le Raccomandazioni del Consiglio d’Europa, la cui elaborazione è curata da esperti nazionali e da esperti direttamente scelti dal Consiglio d’Europa, costituiscono una sorta di consolidamento degli standard più diffusi fra i 47 Stati membri. Ciò che viene raccomandato è condiviso come modello di riferimento cui conformare progressivamente gli ordinamenti statuali e costituisce un riferimento per la Corte europea dei Diritti dell’Uomo. Circolarmente nella stesura delle Raccomandazioni si tengono in considerazione le massime consolidate della Corte EDU.
Quanto ai programmi di giustizia riparativa, basati sull’incontro, guidato da un mediatore, tra autore e vittima volto al superamento del conflitto e al raggiungimento di un accordo di riparazione, la Raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa n. R(85)11 concernente la “Posizione delle vittime nell'ambito del diritto penale e della procedura penale” raccomanda agli Stati di prevedere a livello legislativo ed operativo una serie di misure a tutela delle vittime, in tutte le fasi del procedimento e in particolare raccomanda di prendere atto dei vantaggi che possono presentare i sistemi di mediazione e di conciliazione e anche la Raccomandazione R(87)21 concernente “L’assistenza alle vittime e la prevenzione della vittimizzazione” incoraggia le esperienze di mediazione tra il reo e vittima con particolare attenzione agli interessi delle vittime.
Il Consiglio d’Europa, con la Raccomandazione n. (99)19, ha poi definito la mediazione in ambito penale come un “procedimento che permette alla vittima e al reo di partecipare attivamente, se vi consentono liberamente, alla soluzione delle difficoltà derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo indipendente” specificando che “ogni procedimento riparativo deve essere posto in atto soltanto con il libero e volontario consenso delle parti, consenso che le parti possono ritirare in ogni momento”.
Anche la Raccomandazione R(2010)1 concernente le Regole del Consiglio d’Europa in materia di Probation nella parte VI fa riferimento sia all’assistenza alle vittime che a prassi di giustizia riparativa.
La Risoluzione dell’Economic and Social Council delle Nazioni Unite n. 1998/23 sulla "Cooperazione internazionale tesa alla riduzione del sovraffollamento delle prigioni ed alla promozione di pene alternative" raccomanda agli Stati membri di ricorrere allo sviluppo di forme di pena non custodiali e - se possibile - a soluzioni amichevoli dei conflitti di minore gravità, attraverso l’uso della mediazione, l’accettazione di forme di riparazione civilistiche o accordi di reintegrazione economica in favore della vittima con parte del reddito del reo o compensazione con lavori espletati dal reo in favore della vittima stessa, la Risoluzione sullo “Sviluppo ed attuazione di interventi di mediazione e giustizia riparativa nell'ambito della giustizia penale” (Economic and social Council delle Nazioni Unite n. 1999/26) riafferma come la risoluzione di piccole dispute e reati può essere ricercata ricorrendo alla mediazione ed altre forme di giustizia riparativa, e la Risoluzione sui “Principi base circa l’applicazione di programmi di giustizia riparativa nell’ambito penale” (Economic and Social Council delle Nazioni Unite n. 15/2002) nel prendere atto del lavoro svolto dal Gruppo di esperti sulla giustizia riparativa, incoraggia gli Stati membri a sviluppare programmi in tal senso e a supportarsi a vicenda per avviare ricerche, valutazioni, scambi di esperienze.
La necessità di promuovere l’adozione di strumenti riparativi è stata affermata dalle Nazioni Unite anche con la Dichiarazione di Vienna, adottata a conclusione dei lavori del Decimo Congresso Internazionale delle Nazioni Unite sulla Prevenzione del Crimine e sul Trattamento dei Rei, svoltosi a Vienna dal 10 al 17 aprile 2000 che all’art. 28 recita "Incoraggiamo lo sviluppo di politiche di giustizia riparatrice, di procedure e di programmi rispettosi dei diritti, dei bisogni e degli interessi delle vittime, dei delinquenti, delle comunità e di tutte le altre parti".
La Decisione quadro del Consiglio dell’Unione europea relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale (2001/220/GAI del 15 marzo 2001) adottata nell’ambito del cosiddetto Terzo Pilastro dell’Unione europea, sulla scorta delle determinazioni assunte nel vertice di Tampère (15-16 ottobre 1999), chiarisce che la mediazione nelle cause penali è la ricerca – prima o durante lo svolgimento del procedimento penale – di una soluzione negoziata tra la vittima e l’autore del reato con la mediazione di una persona competente. Gli Stati si impegnano a realizzare servizi specializzati che rispondano ai bisogni della vittima in ogni fase del procedimento, adoperandosi affinché la stessa non abbia a subire pregiudizi ulteriori e inutili pressioni e si impegnano ad assicurare l’adeguata formazione professionale degli operatori. Gli Stati sono vincolati ad introdurre le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie ai fini dell’attuazione della decisione quadro, entro scadenze vincolanti e precisamente: entro il 22 marzo 2002 la predisposizione delle necessarie disposizioni attuative, di ordine legislativo, regolamentare e amministrativo; entro il 22 marzo 2004 la definizione delle garanzie in materia di comunicazione e di assistenza specifica alla vittima; entro il 22 marzo 2006 la implementazione della mediazione nell’ambito dei procedimenti penali e l’indicazione dei reati ritenuti idonei per questo tipo di misure, nonché la garanzia che eventuali accordi raggiunti tra la vittima e l’autore del reato nel corso della mediazione vengano presi in considerazione nell’ambito dei procedimenti penali.
La Direttiva del Parlamento europeo 2012/29/UE, approvata dal Consiglio dell’Unione europea il 25 ottobre 2012, sostituendo la Decisione Quadro 2001/220/GAI impone agli Stati membri, entro il 16 novembre 2015, di creare le condizioni perché le vittime possano giovarsi di servizi di giustizia riparativa, apprestando garanzie volte ad evitare la vittimizzazione secondaria e ripetuta e l’intimidazione. In particolare all’art. 12 riconosce diritti e garanzie nel contesto dei servizi di giustizia riparativa definendo quest'ultima come “qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all'autore del reato di partecipare attivamente, previo consenso libero ed informato, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l'aiuto di un terzo imparziale” alla quale ricorrere soltanto nell’interesse della vittima.
Il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria approfondì il tema già nell’ambito della Commissione di studio "Mediazione penale e giustizia riparativa" istituita presso il Dap nel 2005 che concluse i suoi lavori adottando le “Linee di indirizzo sull’applicazione nell’ambito dell’esecuzione penale di condannati adulti di modelli di giustizia ripartiva che risultino conformi alle Raccomandazioni delle Nazioni Unite e del Consiglio d’Europa” istituendo il 21.1.2009 l’Osservatorio nazionale permanente presso la Direzione generale dell’Esecuzione Penale Esterna del Dap, per il coordinamento e il monitoraggio delle esperienze in ambito riparativo. Successivamente le Linee di indirizzo emanate il 17.5.2019 dal Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità definite dallo stesso Capo Dipartimento “un primo sforzo per definire le peculiarità e ordinare aggiornare e integrare le migliori esperienze maturate in materia nel settore degli adulti e in quello minorile”.
La richiesta di introduzioni di strumenti normativi nazionali rimase però inevasa e irrisolto rimase, oltre al problema delle condizioni di accesso ai servizi di giustizia riparativa, quello della formazione dei mediatori, dell’istituzione di un albo dei mediatori e dei requisiti indispensabili per il loro accreditamento.
Soltanto la riforma Cartabia ha introdotto una disciplina organica della giustizia riparativa (cfr. Titolo IV del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150) prevedendo l’invio ai Centri di giustizia riparativa (art. 129-bis c.p.p.) in ogni stato e grado del procedimento, anche d’ufficio, qualora sia “utile alla risoluzione delle questioni derivanti dal fatto per cui si procede e non comporti un pericolo concreto per gli interessati e per l’accertamento dei fatti”.
È previsto in particolare lo svolgimento di programmi di giustizia riparativa nell’ambito della Map (art. 464-bis comma 4 lett c c.p.p) e la remissione tacita della querela (art. 152 comma 2 c.p.) e la concessione della pena sospesa (art. 163 comma 4 c.p.) nei casi in cui il querelante ha partecipato al programma di giustizia riparativa con esito riparatorio.
La riparazione nel corso del procedimento penale, come accade in altri Paesi europei, è divenuta quindi completamento del percorso rieducativo.
2.Principi sovranazionali in materia di Probation e sanzioni di comunità
Fin dall’inizio degli anni ’90 il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa R(1992)16, “constatato il considerevole sviluppo all'interno degli Stati membri dei ricorso alle sanzioni e misure penati la cui esecuzione ha luogo nella comunità” e “considerato che tali sanzioni e misure costituiscono mezzi importanti di lotta alla criminalità e che le stesse evitano gli effetti negativi della carcerazione” raccomandava ai Governi degli Stati membri di ispirarsi alle Regole europee sulle sanzioni e misure alternative alla detenzione, la cui applicazione “deve mirare alla conservazione di un equilibrio necessario e auspicabile tra, da una parte, le esigenze di difesa della società, nel suo duplice aspetto di protezione dell'ordine pubblico e di applicazione di norme che tendano a riparare il danno causato alla vittima, e dall'altra, il tenere in debito conto le necessità del reo in termini di reinserimento sociale”.
L’ambizioso impianto della Raccomandazione risente molto della visione italiana anche perché alla sua elaborazione prese parte in modo fondamentale il direttore dell’epoca dell’Ufficio Studi del Dap, Luigi Daga.
Alla Raccomandazione sono allegate le Regole, il Glossario, e il Memorandum esplicativo, approvati congiuntamente.
La Raccomandazione R(1992)16 offre la definizione delle “sanzioni o misure che mantengono il reo nella comunità e comportano alcune restrizioni della sua libertà attraverso l’imposizione di condizioni e obblighi, che sono messe in opera da organi indicati a tal fine dalla legge” specificando che le sanzioni pecuniarie non ricadono in questa definizione.
La definizione ricomprende una molteplicità di ipotesi e la Raccomandazione si occupa anche delle misure applicate prima della condanna. La loro applicazione deve essere basata sulla gestione di programmi personalizzati e lo sviluppo di un’appropriata relazione professionale fra il reo, il supervisore e le organizzazioni interne alla comunità (Regola 70).
Con l’espressione supervisione si intende sia l’attività di aiuto che mira a mantenere il reo nella comunità, sia l’azione che assicura il rispetto degli obblighi imposti al reo.
È poi seguita la Raccomandazione R(2000)22 sul Miglioramento delle Sanzioni e Misure di comunità e, nel 2010, la Raccomandazione R(2010)1 Regole del Consiglio d’Europa in materia di Probation che detta i principi sui quali deve essere improntato il lavoro degli Uffici di Probation. Essi “hanno lo scopo di ridurre la recidiva instaurando rapporti positivi con gli autori di reato, al fine di assicurare la loro presa in carico (anche con un controllo, se necessario), la loro guida e la loro assistenza per favorire la riuscita del loro reinserimento sociale. Il Probation in questo modo contribuisce alla sicurezza collettiva ed alla buona amministrazione della giustizia” (Regola n.1).
È descritto il rapporto con i servizi territoriali: “I servizi di Probation incoraggiano e facilitano i servizi sociali ad assumere le loro responsabilità per quanto riguarda l’assistenza da offrire agli autori di reato in quanto membri della società” (Regola 38) e con la magistratura “I servizi di Probation comunicano regolarmente con le autorità giudiziarie per determinare le situazioni in cui questo tipo di collaborazione può essere utile” (Regola 42) e tra le modalità di interazione si menziona la conclusione di Accordi (Regola 40).
Sono molto chiare le indicazioni riguardo la necessità di assicurare risorse adeguate:
“La struttura, lo status e le risorse dei servizi di Probation devono corrispondere al volume dei compiti e delle responsabilità che ad essi sono affidati e devono riflettere l’importanza del servizio pubblico che assicurano” (Regola 18)
“Gli operatori dei servizi di Probation devono essere in numero sufficiente per poter svolgere efficientemente la loro missione. Il numero di casi che ogni operatore deve trattare deve permettergli di sorvegliare, guidare e assistere efficacemente gli autori di reato in maniera umana e, se opportuno, di lavorare con le loro famiglie e, eventualmente, con le vittime. Se la domanda è eccessiva, è responsabilità della direzione cercare soluzioni ed indicare al personale i compiti prioritari” (Regola n. 29).
Tra i principi generali (Regola 16) vi è quello di incoraggiare la ricerca scientifica, i cui risultati devono orientare le politiche e le prassi in materia di Probation.
La Raccomandazione si occupa anche dell’importanza di un orientamento culturale:
“Le autorità competenti ed i servizi di Probation informano i media ed il grande pubblico in merito all’azione dei servizi di Probation, al fine di far meglio comprendere il loro ruolo ed il loro valore per la società” (Regola 17)
“I servizi di Probation devono agire in maniera tale da guadagnare la credibilità degli altri organi di giustizia e della società civile per lo status ed il lavoro svolto dal loro personale. Le autorità competenti si sforzano di agevolare il raggiungimento di tale scopo, fornendo risorse adeguate, facendo in modo che il personale sia selezionato e assunto in maniera mirata, correttamente remunerato e posto sotto l’autorità di una direzione competente” (Regola n. 21).
È previsto che l’imputato partecipi in modo attivo “I presunti autori di reato devono avere la possibilità di partecipare alla redazione del rapporto, nel quale si deve riflettere il loro parere; il contenuto del rapporto deve essere comunicato loro personalmente o per il tramite del loro avvocato” (Regola 44) e particolare rilievo è dato all’attività di Probation nei confronti degli autori di reato di nazionalità straniera.
La parte V è dedicata al processo di supervisione e le successive sezioni sono dedicate al lavoro con le vittime, alle prassi di giustizia riparativa e alle procedure di presentazione di reclami, ispezioni e controlli.
L’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa ha poi adottato la Risoluzione 1938(2013), secondo la quale le sanzioni applicate in comunità dovrebbero rappresentare la pena di prima scelta, salvi i casi di reati gravi.
In accordo con questi principi gli altri Paesi Europei dedicano da tempo grande attenzione alle community sanctions, ovvero alle pene o misure che non sono eseguite con la segregazione intramuraria, considerata residuale e riservata agli autori di reato pericolosi (dangerous offenders)[4] e l’introduzione di dispositivi di controllo elettronico ha incentivato la previsione di misure in comunità anche per autori di reato ad alto rischio.
La legge sul Probation nasce nel Regno Unito nel 1907 sulla base di un modulo processuale che permette di separare l’accertamento della responsabilità dalla condanna. L’Inghilterra, il Galles, l’Irlanda, la Scozia e i Paesi Scandinavi prevedono già in fase di giudizio la supervisione per garantire la presenza al processo e per evitare la commissione di ulteriori reati, l’assegnazione di un Probation officer all’imputato come funzionario di contatto, l’assegnazione in un alloggio comune alle persone prive di fissa dimora e l’inizio di un trattamento terapeutico per tossicodipendenti ed alcolisti. La supervisione nella messa in prova permette al reo di evitare la sanzione penale e il giudice ha a disposizione una serie di pene da eseguire nella comunità mentre le pene detentive comminate per i reati ritenuti più gravi possono essere comunque sospese eccetto alcuni di essi per cui la pena deve essere obbligatoriamente scontata, almeno in parte, in carcere.
Previsioni analoghe anche in Belgio, Repubblica Ceca, Danimarca, Irlanda, Svezia e Macedonia.
In Irlanda pochi reati sono esclusi dall’applicazione della Legge sul Probation e il giudice ha a disposizione una vasta gamma di sanzioni in comunità.
In Danimarca alternative al carcere sono previste in tutti i casi e per tutti i reati per i quali il giudice ritenga non necessaria la detenzione in carcere.
In Francia la pena fino a cinque anni è sospesa e il giudice dispone programmi e misure alternative.
In Catalogna tutte le sentenze di condanna a pena detentiva possono essere sospese o sostituite con misure in comunità, senza distinzione in termini di gravità del reato, anche se la maggior parte dei soggetti in Probation rispondono di condanne fino a cinque anni. Per i cd reati stradali e i reati minori collegati alla violenza di genere o familiare è previsto che il giudice irroghi direttamente una sanzione o misura nella comunità.
L’interesse al confronto fra esperienze europee nel settore è coltivato istituzionalmente dalla Confederation of European Probation (CEP)[5], un’associazione internazionale di cui fa parte anche l’Italia che collabora con le istituzioni europee per promuovere l’inclusione sociale degli autori di reato mediante le sanzioni penali in comunità. Per influenza della CEP molti Paesi hanno avviato progetti di riforma anche normativa in tema di Probation e nel corso della riunione del Board tenutasi a Roma nell’ottobre 2014 è stata assicurata anche all’Italia la cooperazione per una riforma secondo i più avanzati modelli europei.
Anche se i vari Stati hanno dedicato all’applicazione delle community sanctions modelli organizzativi non omologabili[6], da tempo in molti Paesi europei il giudice ha la possibilità di scegliere la sanzione ritenuta più efficace ed adeguata al caso concreto demandando ad enti appositi la redazione di una dettagliata relazione sulle condizioni di vita dell’imputato e la successiva supervisione.
Il Parlamento Europeo con la Risoluzione del 15 dicembre 2011 sulle condizioni detentive nell’UE (2011/2897(RSP) ha ribadito “l’esigenza che gli Stati membri onorino gli impegni, assunti nelle sedi internazionali ed europee, di far maggior ricorso a misure e sanzioni che offrano un’alternativa alla incarcerazione” e ha invitato “la Commissione ad esaminare l’impatto delle disparità in materia di diritto penale e diritto procedurale sulle condizioni detentive negli Stati membri UE e ad avanzare raccomandazioni al riguardo, soprattutto in materia di ricorso a misure alternative” (punto 16)
La Decisione Quadro 2008/947GAI del Consiglio dell’Unione europea del 27 novembre 2008 sul reciproco riconoscimento delle decisioni di Probation prevede, per i cittadini europei condannati in uno stato europeo, la possibilità di beneficiare di alternative alla detenzione nel proprio Paese di origine, ove deve essere imposta la sorveglianza sulle misure adottate, al fine di favorire il reinserimento del condannato attraverso i legami familiari, linguistici, culturali e di lavoro. La decisione quadro, preso atto di una maggiore mobilità dei cittadini europei, si fonda sulla necessità che essi, se perseguiti per reati minori, possano beneficiare di sanzioni o misure alternative alla detenzione nel proprio Paese, attraverso lo strumento del riconoscimento reciproco delle decisioni di un giudice europeo.
3.Legislazione interna e prospettiva carcerocentrica prima della riforma Cartabia
Con decreto legislativo 15 febbraio 2016, n. 38 l’Italia in attuazione della legge n. 114 del 2015 "Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l'attuazione di altri atti dell'Unione europea” , ha recepito la Decisione Quadro 2008/947GAI ben oltre il termine fissato al 6 dicembre 2011, precisando che dall’attuazione della decisione quadro non sarebbero dovuti derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica e che le amministrazioni interessate avrebbero dovuto provvedere con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente.In adesione al monito contenuto nella sentenza Torreggiani c. Italia sono stati adottati anche numerosi altri provvedimenti legislativi tra i quali l’ampliamento dell’operatività del meccanismo di sospensione dell'ordine di esecuzione delle condanne a pena detentiva di cui all'art. 656 co. 5 c.p.p.[7]; le disposizioni in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari[8]; la modifica dell’art. 275 comma 2-bis c.p.p. in materia di custodia cautelare[9]; le disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto[10]; la modifica dei presupposti per l'applicazione della misura cautelare e del relativo procedimento di impugnazione[11]; l’ampliamento dei casi di accesso alla misura dell’affidamento terapeutico per i detenuti tossicodipendenti[12], l’ampliamento della misura dell’affidamento in prova (il residuo pena che ne consente l’accesso è stato portato da tre a quattro anni) e la misura della detenzione domiciliare anche se quest’ultima non può certo definirsi misura di comunità non essendo previsto alcun intervento di natura trattamentale.
Va segnalata anche l’introduzione della sostituzione della pena detentiva con quella del lavoro di pubblica utilità per i reati commessi da tossicodipendenti[13]; l’estinzione del reato per condotte riparatorie[14] che rimanda a modalità alternative di definizione dei procedimenti penali secondo i canoni della cd “giustizia ripartiva” e la sospensione condizionale della pena subordinata a prestazioni di attività non retribuita[15] o a specifici percorsi di recupero per i condannati per delitti di violenza domestica o di genere[16].
Con il decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7 "Disposizioni in materia di abrogazioni di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili” esercitando la delega di cui all’art. 2, comma 3, l. 28 aprile 2014, n. 67 alcune norme incriminatrici (artt. 485, 486, 594, 627, 647, 635 comma 1 c.p.) sono state qualificate come illeciti civili sottoposti a sanzione pecuniaria.
Quanto alla organizzazione ministeriale, il Regolamento del Ministero della giustizia, approvato dal Consiglio del Ministri il 18 maggio 2015 ha soppresso la Direzione Generale dell’esecuzione penale esterna del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e attribuito le relative funzioni ad una Direzione Generale per l’esecuzione penale esterna e di messa alla prova presso il Dipartimento della giustizia minorile e di comunità.
Il DPCM 84/2015 ha dato vita al nuovo Dipartimento della giustizia minorile e di comunità in una “nuova prospettiva che implica senz’altro un’evoluzione del sistema della misure alternative alla detenzione nel senso del loro ampliamento e rafforzamento” dando atto che la modifica strutturale si indirizza “lungo la direttrice tracciata dalle Raccomandazioni del Consiglio d’Europa in favore delle sanzioni di comunità”[17].
Nel progetto l’unificazione sul piano organizzativo del sistema minorile con quello dell’esecuzione penale esterna avrebbe dovuto facilitare l’integrazione di due contesti operativi che si fondano entrambi sull’azione coordinata di enti e associazioni sul territorio quale presupposto per il rientro dell’autore di reato nella legalità nel contesto di appartenenza.
In quest’ottica la riorganizzazione del Ministero ha assegnato alla Direzione generale della formazione presso il DAP, in raccordo con il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, tutte le attività di formazione, affinchè sia assicurato un percorso formativo comune per le aree del trattamento inframurario, dell’esecuzione penale esterna e di messa alla prova.
La legge 28 aprile 2014, n. 67 Delega al governo in materia di pene detentive non carcerarie e disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova, ha poi introdotto l’art. 168-bis c.p. estendendo agli adulti, dopo circa trent’anni, l’istituto della messa alla prova del processo minorile (art. 28 del codice di procedura penale minorile disciplinato dal dpr 22 settembre 1988, n. 448) definito a suo tempo dalla Corte costituzionale “l’innovazione più significativa e coraggiosa”.
La norma del codice del processo minorile rappresentò una novità assoluta nel panorama giuridico minorile internazionale e venne riconosciuto come uno dei migliori progetti non solo in campo europeo. Prevede una forma di Probation processuale che consente di raggiungere la più veloce fuoriuscita del minore autore di reato dal processo penale e il suo reinserimento sociale attraverso un percorso che, dopo un accurato esame della sua personalità, con la sospensione del processo, prevede una serie di attività ritagliate su misura per i suoi bisogni educativi. Un percorso evolutivo e responsabilizzante sganciato da qualsiasi intento punitivo, il cui esito positivo comporta la cancellazione degli effetti penali del reato. Caratterizzato da una forte valenza educativa e da un profondo lavoro di conoscenza del minore e della sua condizione personale e familiare l’istituto favorisce da un lato un percorso di presa di consapevolezza da parte del ragazzo della propria condotta, e dall’altro dà valore alla vittima.
Anche per gli adulti la messa alla prova comporta l’affidamento al servizio sociale per lo svolgimento di un programma che può implicare attività di rilievo sociale, l’osservanza di prescrizioni relative sia ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, sia alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali, la prestazione di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato o comunque, ove possibile, il risarcimento del danno cagionato. La concessione della messa alla prova è subordinata alla prestazione di un lavoro di pubblica utilità in favore della collettività che consiste in una prestazione non retribuita (affidata tenendo conto anche delle specifiche professionalità ed attitudini lavorative dell’imputato), da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le aziende sanitarie o presso enti e organizzazioni, anche internazionali di assistenza sociale e sanitaria.
Una delle principali differenze tra i due istituti, richiamate dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 68 del 29 marzo 2019, è rappresentata dal fatto che per i minori il fallimento della prova non pregiudica la possibilità di adire nuovamente l’istituto anche in fasi successive del processo in presenza di una riscontrata, ancorché tardiva, maturazione dell’imputato, mentre per gli adulti vi è il divieto di accedere più di una volta al percorso e in caso di esito negativo della messa alla prova il processo riprende con eventuale condanna.
Il Legislatore del 2014, pur prevedendo nella fase di esecuzione (art. 47 comma 3-bis ord. pen.) di affidare in prova al servizio sociale chi deve espiare una pena detentiva fino a quattro anni, nel disciplinare la sospensione del processo con Messa alla Prova ne aveva limitato l’applicazione ai reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni e ai delitti indicati al previgente comma 2 dell’art. 550 c.p.p., escludendo così la possibilità di accedere al percorso in molti casi in cui la pena irrogata in concreto dal giudice sarebbe anche di molto inferiore ai quattro anni. Occorre infatti tenere conto che il riferimento alla pena edittale ricomprende reati per i quali più̀ spesso matura la prescrizione o comunque, in caso di condanna, la pena può essere sospesa senza prescrizioni o sostituita con una misura alternativa alla detenzione e questo può indurre l’imputato a non scegliere un percorso impegnativo quale quello della messa alla prova.
L’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova ha dato buona prova e gli Uffici Interdistrettuali di Esecuzione Penale Esterna, pur in mancanza di mezzi e personale, hanno saputo rimodellare la propria professionalità rispetto al passato, come richiesto dalla interlocuzione con soggetti nuovi (imputati e magistratura di cognizione.
Le limitate possibilità di accedere al percorso e le scarse risorse investite[18] hanno però fatto sì che questo strumento non abbia avuto l’effetto deflattivo sperato, neppure considerato insieme agli altri strumenti messi in campo e in particolare l’assoluzione per tenuità del fatto.
Anche se le richieste sono in crescita e l’efficacia del lavoro svolto dagli UIEPE è testimoniato dalla diminuzione dei ricorsi, i numeri sono ancora assolutamente irrisori se paragonati alla mole degli affari minori che ingolfano le Procure (cd. affari semplici) e l’effetto deflattivo sui carichi dibattimentali monocratici è ancora modesto nonostante un impiego di energie forse sovradimensionato.
In sostanza la Messa alla Prova fino ad oggi ha avuto una applicazione residuale, non incidente sulla proporzione tra pene detentive e pene in comunità.
Come risulta da un’analisi avviata ad un anno dall’entrata in vigore dell’istituto, il 7 settembre 2015 su un totale di circa 30.140 detenuti definitivi puri, che non avevano cioè altri procedimenti non ancora definiti, quelli condannati per reati puniti con pena edittale pari o inferiore ai quattro anni, potenziali destinatari della misura, erano pari a 998.
La legge 28 aprile 2014, n. 67 conferiva anche una delega in materia di pene detentive non carcerarie[19]. La predetta delega è stata però esercitata soltanto in materia di declaratoria di non punibilità per particolare tenuità del fatto[20].
Con ordine del giorno 9/2803-A/168 il Governo, con parere favorevole espresso dalla Camera dei Deputati il 20 febbraio 2015, si era impegnato a valutare l’opportunità, anche con interventi di carattere emendativo o normativo, di prorogare il termine entro cui esercitare la delega per l’introduzione di pene edittali diverse da quelle detentive e la nota del Ministro della giustizia in data 21 maggio 2015, relativa all’attuazione del predetto ordine del giorno, era stata trasmessa alla Commissione giustizia della Camera dei Deputati.
La delega sul punto è però rimasta inattuata.
In quegli anni si è quindi rinunciato a costruire vere e proprie alternative sanzionatorie, pure avendo lavorato su queste ipotesi già diverse Commissioni ministeriali.
In particolare la Commissione presieduta da Giuliano Pisapia istituita nel 2006, aveva preso atto che “la previsione sistematica della pena edittale carceraria si è rilevata per molti versi ineffettiva e inefficace, anche in presenza di condotte particolarmente gravi”, che “le pene non detentive consentono di valorizzare l’esigenza che siano annullati i vantaggi derivanti dal reato” e che “l’introduzione di pene non detentive costituisce una modalità attuativa sostanziale dell’orientamento previsto dall’art. 27, comma 3 della Costituzione, per cui le pene sono chiamate a favorire l’integrazione sociale del condannato e non a realizzare la sua espulsione dal contesto della società”, e aveva disegnato un sistema sanzionatorio fondato su un’ampia gamma di pene non detentive, tra cui pene pecuniarie, pene interdittive e pene prescrittive definite “importante strumento per delineare percorsi comportamentali conformi alle esigenze di salvaguardia dei beni fondamentali e per favorire condotte riparative o conciliative (anche attraverso il lavoro in favore della comunità, la messa alla prova o procedure di mediazione)”, inibendo il ricorso alla sospensione condizionale della pena nella sua forma “semplice” al fine di correggere i difetti di un sistema esecutivo definito surrettiziamente clemenziale.
4.Novità introdotte dalla riforma Cartabia e limiti alla effettiva realizzazione di un sistema di pene in comunità
La riforma Cartabia, oltre a riscrivere varie norme processuali e penali, per quello che qui interessa, ha esteso l’applicazione dell’istituto della Messa alla Prova, prevista ora per tutte le fattispecie di cui al riformato art. 550 comma 2 c.p.p. e quindi anche per reati con tetto di pena a sei anni, anche su proposta dal pubblico ministero (art. 464-ter c.p.p.; 168-bis c.p.), con innesto in caso di giudizio immediato (art. 456 c.p.p.), di rigetto/inammissibilità del giudizio abbreviato da immediato (art. 458 c.p.p.) e di mancato accoglimento del patteggiamento (art. 458-bis c.p.p.).
Ha inoltre coraggiosamente introdotto, per la prima volta, un sistema di sanzioni penali diverse dalla detenzione commisurate alla pena in concreto irrogata dal giudice incidendo oltre che sulla punibilità anche sulla penalità.
In particolare il giudice potrà fare applicazione delle pene sostitutive (artt. 545-bis, 20-bis c.p. e 53 l. 689/198) all’esito dell’udienza di comparizione predibattimentale, su richiesta concorde dell’imputato e del PM, (art. 554-ter comma 2 c.p.p.) e in tutti i casi in cui applica un pena in concreto non superiore a quattro anni di reclusione senza sospensione condizionale (art. 545-bis c.p.p.).
Il Pubblico ministero può avvalersi dell’UIEPE e il giudice può altresì chiedere alla polizia giudiziaria e all’UIEPE informazioni sulle condizioni di vita dell’imputato, l’elaborazione del programma di trattamento e la disponibilità di un Ente per lavori di pubblica utilità, e alle ASL la certificazione di disturbo da uso di sostanze e il programma terapeutico (artt. 464-ter, 545-bis c.p.p.), anche ai fini della scelta della misura più adatta (art. 58 c. 4 l.689/81).
L’estensione ad una più ampia casistica dell’istituto della Messa alla prova e l’introduzione delle pene sostitutive, strumenti senz’altro appropriati ai fini della risocializzazione dell’imputato e del contenimento della recidiva, non sono stati però correlati alla disciplina della sospensione condizionale della pena nella sua forma “semplice” con la quale lo Stato rinuncia a prendersi carico dell’imputato. Fintantoché l’interessato potrà beneficiare della sospensione condizionale rischia di rimanere residuale la scelta di un percorso più impegnativo.
Non si è neppure ritenuto di intervenire sul limite previsto al comma 4 dell’art. 168-bis c.p. per cui la messa alla prova non può essere concessa più di una volta. Sarebbe stato auspicabile rimettere questa valutazione al giudice prevedendo piuttosto che dopo il fallimento della prova, in caso di condanna, l’imputato non possa accedere alla sospensione condizionale della pena.
Soprattutto però la riforma, pur prevedendo l’estensione di interlocuzioni e interventi dell’UIEPE e di altre istituzioni territoriali, non è stata preceduta o affiancata dalla costruzione di un vero e proprio Servizio di Probation.
Ci si è infatti limitati a richiamare la norma introdotta con la legge istitutiva della Map[21], pur verificato che a tutt’oggi, dopo otto anni, gli Uffici EPE fanno i conti con enormi carenze di personale che già comportano una inaccettabile dilatazione dei tempi (la Map copre circa un terzo dell’area di attività) Né si è inteso intervenire sulle risorse destinate alle attività di prevenzione sociale destinate agli enti locali.
La mancanza di risorse e canali di interlocuzione e la discrezionalità applicativa del giudice che con tali carenze dovrà fare i conti, faranno sì che difficilmente questi strumenti potranno divenire percorsi di elezione in grado di abbattere la recidiva e costruire sicurezza sociale fuori dalle mura del carcere.
Affinché le sanzioni e misure in comunità possano rappresentare alternative credibili alle pene detentive di breve durata, devono essere potenziate la Direzione Generale dell’esecuzione penale esterna e di messa alla prova e gli Uffici Interdistrettuali di Esecuzione Penale Esterna.
È sufficiente considerare che a marzo 2022 il Probation Service inglese disponeva di uno staff di circa 18.000 operatori mentre attualmente la pianta organica dell’intero Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità prevede 1.701 unità di personale.
In proposito la Regola n.10 della menzionata Raccomandazione R(2000)22 sulle regole di Probation è molto chiara: “I servizi di probation beneficiano di uno status e di un riconoscimento adeguato alla loro missione e sono dotati di risorse sufficienti”.
Anche se va segnalato il recente stanziamento per rafforzare la dotazione organica degli UEPE (1.092 unità di personale amministrativo non dirigenziale con assunzioni previste a decorrere dal 2023)[22], occorre fare molto di più.
In particolare assicurare un lavoro di equipe multidisciplinari con l’apporto negli UEPE di diverse professionalità e in particolare di educatori, cui affidare distinte responsabilità, prevedere forme di collaborazione con gli Uffici di Esecuzione Penale Esterna da parte dei soggetti pubblici e privati operanti nel contesto territoriale di riferimento dell’imputato (nel campo del volontariato, della formazione, del lavoro e del welfare), affidare a Regioni e enti locali, cui la legge n. 328 del 2000 affida un ruolo di programmazione, coordinamento ed attuazione delle politiche sociali, il compito di individuare le “modalità per realizzare il coordinamento con gli organi periferici delle amministrazioni statali, con particolare riferimento all’amministrazione penitenziaria e della giustizia”, come previsto dai Piani di Zona.
Al fine di rendere effettiva la presa in carico congiunta e integrata potrebbe essere utile stabilire per legge la quota parte del bilancio degli enti territoriali destinata alla predisposizione di questa rete di interventi.
Occorre cioè non solo valorizzare e divulgare esperienze e buone prassi, ma realizzare un quadro legislativo chiaro ed unitario che superi le divisioni esistenti delimitando i campi d’azione dei vari organismi coinvolti(autorità̀ giudiziaria, imputato, servizi ministeriali, servizi territoriali, scuola, forze dell’ordine, centri per l’impiego…), assicurando nuove forme di comunicazione.
5.Esperienza del Tribunale di Roma
Tra le buone prassi va senz’altro menzionato quanto realizzato al Tribunale di Roma.
Partendo dai pilastri su cui credo debba fondarsi il lavoro di un presidente di sezione penale (senso del lavoro del giudice e della pena, adozione di pratiche organizzative efficienti, qualità del servizio), nell’esercitare la delega conferitami dal Presidente del Tribunale mi sono impegnata per realizzare interventi precoci e efficaci in favore delle vittime e degli autori di reato potenziando l’accesso e l’avvio in tempi brevi del percorso di Messa alla prova e ogni altro percorso di responsabilizzazione nell’ambito della comunità a disposizione del giudice della cognizione, in sinergia con le altre istituzioni operanti sul territorio.
La strada è stata lunga e, alla sottoscrizione di un primo Accordo di collaborazione in data 4 marzo 2020, è seguito l’Accordo di Rete in data 4 maggio 2022 con il quale i firmatari hanno concordato specifiche linee di azioni congiunte impegnandosi a realizzare specifici modelli organizzativi stabili all’interno dei propri uffici che durino nel tempo.
Conseguentemente l’Accordo di Rete tra Tribunale, Procura della Repubblica, Avvocatura, Regione Lazio, Comune di Roma, Ufficio di Esecuzione penale esterna, Garante regionale per i diritti dei detenuti e Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Roma Sapienza, non ha efficacia per un periodo di tempo limitato.
Quanto alla messa alla prova è stato aggiornato il Protocollo operativo adottato fin dal dicembre 2014, prevedendo che i programmi siano integrati, laddove necessario, con percorsi di cura e assistenza con il coinvolgimento di ASL e servizi sociali del Comune di Roma. La somministrazione di una scheda di screening consente da un lato di intercettare nuovi bisogni, dall’altro di assicurare continuità assistenziale per coloro che sono già in carico. Molte delle richieste hanno infatti ad oggetto soggetti affetti da patologie psichiatriche o dipendenze e la collaborazione con gli operatori delle realtà territoriali nella valutazione della domanda e nella predisposizione di un programma, integrato con un piano terapeutico, garantisce una fruizione precoce del beneficio della cura e la presa in carico fin dal momento dell’impatto con la realtà penale.
Sono inoltre recepite le “Linee di indirizzo per la sperimentazione dei Protocolli tecnici d’indagine per l’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova” redatte dal Direttore generale per l’esecuzione penale esterna e di messa alla prova e diramate il 30.8.2019 che, coniugano l’esiguità del personale alla qualità del servizio. Per la maggior parte dei soggetti interessati, autori “primari” di reato imputati di fatti i lieve entità, sono valorizzati i percorsi risarcitorio-riparativi. Nuovi modelli di indagine, con l’apporto professionale di psicologi ed educatori, sono riservati alle situazioni effettivamente più complesse in relazione alla prospettazione delle condizioni di rischio di recidiva e di bisogno dell’imputato.
Si è resa più fluida l’interazione tra gli uffici con la realizzazione di una piattaforma informatica tramite la quale è possibile inviare la domanda, prenotare il colloquio e ottenere automaticamente il rilascio dell’attestazione e sono state ampliate le funzioni dello Sportello istituito all’interno del Tribunale presso il quale gli interessati possono reperire informazioni e svolgere anche il colloquio prodromico alla redazione del programma.
È stata quindi ampliata la platea degli Enti Convenzionati in modo da rispondere alla esigenza di diversificazione delle attività di pubblica utilità e al un numero crescente di richieste. Dopo Torino e Venezia, attualmente il Tribunale di Roma è quello che ha stipulato il numero totale di convenzioni più alto e recentemente il Comune ha rinnovato la convenzione per 500 posti e la Regione ha sottoscritto una convenzione per 20 posti ogni anno.
Il Protocollo è divenuto uno strumento dinamico che i firmatari dell’Accorso di Rete, componenti dell’Osservatorio permanente istituito presso la Presidenza del Tribunale, possono concordemente modificare in relazione alle mutate esigenze.
Nell’Accordo di rete sono previsti però anche altri interventi.
È previsto in particolare che in occasione della presentazione per la convalida e il giudizio direttissimo, in caso di adesione degli interessati e previo contatto degli stessi con il loro difensore, siano raccolte informazioni (disponibilità di una dimora, anche temporanea, eventuale necessità di cura, intenzione di proseguire o avviare un percorso di sostegno e riabilitazione sociale o terapeutico) per consentire al giudice di adottare le misure più adeguate. La Regione Lazio, nell’ambito della programmazione avviata con il finanziamento della Cassa delle Ammende, si è impegnata anche ad individuare soluzioni abitative per i soggetti che ne sono privi, accompagnate da più ampi progetti di housing sociale comprensivi di programmi trattamentali e di inclusione.
Sono previsti inoltre interventi in favore delle vittime di reato e percorsi di giustizia riparativa.
Quanto alla individuazione di professionisti in possesso di specifica preparazione ed esperienza in tema di Restorative Justice sono valorizzate le azioni già intraprese dalla Regione Lazio per la ricognizione e la mappatura dei servizi realizzati nell’ambito dell’assistenza generale alle vittime di reato, della mediazione penale e delle altre prassi riparative, le buone prassi esistenti e la costruzione di un modello operativo condiviso funzionale a promuovere la omogeneità di intervento su tutto il territorio regionale.
Obiettivo dell’Accordo è anche quello di individuare un modello di intervento integrato, efficace e tempestivo per i soggetti accusati di violenza nelle relazioni affettive, al fine di contenere la recidiva e contribuire alla protezione della vittima del reato. Un intervento appropriato e precoce, ancor prima della definizione del procedimento, rappresenta la prima forma di tutela della persona offesa. Fondamentale è l’apporto della ASL perché il percorso, con il coinvolgimento anche delle associazioni private, deve fondarsi su trattamenti cognitivo-comportamentali che tengano conto in modo integrato di tre componenti egualmente essenziali: quella criminologica, quella psicoeducativa e quella clinica. Non ogni programma é idoneo ad arginare la violenza e per acquisire consapevolezza e evitare che le condotte si ripetano in futuro è fondamentale anche la tempestività e la motivazione che spinge a intraprendere il percorso. Avvocatura, Polizia e Procura destinatari delle prime informazioni, con una rete di informazioni che coinvolga anche strutture sanitarie e scuole, potranno sollecitare un intervento precoce.
Il Tribunale di Roma, tramite la piattaforma Jobsoul dell’Università La Sapienza di Roma, ospita infine le candidature per lo svolgimento di tirocini curriculari degli studenti iscritti a percorsi di studio conferenti, le cui attività sono svolte nell’ambito dello Sportello.
Per dare concretezza a tutto ciò è stato realizzato:
- uno Sportello, prezioso strumento organizzativo che segue la logica di prossimità al cittadino, al fine di facilitare l’accesso alle misure di comunità, ove avvocati, funzionari EPE e tirocinanti universitari oltre a svolgere un servizio di consulenza e di orientamento (anche per gli Enti che intendono stipulare le convenzioni) consentono la presentazione delle richieste e lo svolgimento dei colloqui propedeutici per la Map e il flusso di informazioni utili per il giudice della convalida;
- una piattaforma web (denominata “Messa alla Prova e giustizia di comunità” sul sito internet del Tribunale) ove mediante invio di apposito form è possibile presentare la domanda e prenotare il colloquio per la Map, consultare in tempo reale l’elenco degli Enti con le opportunità di lavoro di pubblica utilità e acquisire informazioni ulteriori. L’utilizzo della piattaforma consente un recupero di tempo per gli Uffici EPE il cui personale può essere più utilmente impiegato in attività a valenza trattamentale. La piattaforma consentirà anche lo scambio di informazioni e programmi tra autorità giudiziaria e UIEPE;
- un Osservatorio permanente per la giustizia di comunità, di cui fanno parte Avvocatura, Procura, UIEPE e rappresentanti di tutte le istituzioni coinvolte dove si garantisce il monitoraggio, si analizza ogni questione e si pianificano le iniziative necessarie;
- un Protocollo operativo il cui contenuto è concordato tra i componenti dell’Osservatorio e adattato in modo dinamico al mutare delle esigenze realtà.
Quanto è stato fatto fin qui ci rende consapevoli delle difficoltà che incontreremo nel dare attuazione a questa parte della riforma Cartabia, ma la realizzazione delle Rete e gli strumenti predisposti consentiranno di affrontare più agevolmente le nuove procedure e soprattutto di diffondere tra i giudici fiducia e interesse nei confronti di percorsi che, se ben gestiti, soddisfano istanze di prevenzione e risocializzazione con ricadute positive su tutte le istituzioni coinvolte.
È stata in proposito già avviata una discussione all’interno dell’Osservatorio per apportare le dovute modifiche al Protocollo operativo affinché siano disciplinate e facilitate nel modo più efficace anche le ulteriori interlocuzioni previste dalla riforma Cartabia tra uffici giudiziari e UIEPE.
In una parola potremmo dire che stiamo lavorando per rendere il Tribunale di Roma una città a misura d’uomo, terminologia propria dell’urbanista, perché “Attraversare una città permette di capire che tipo di uomo la governa e la abita e anche, più in generale, qual è la sua visione della società”[23].
[1] La Corte Costituzionale (Sent. n. 1023/1988) affermava: “fino a questo momento, per consolidata giurisprudenza di questa Corte i principi di cui al terzo comma dell'art. 27 Cost. non riguardano il processo di cognizione e l'applicazione della pena da parte del giudice del dibattimento. La Corte ha sempre ritenuto che quei principi si riferiscano, invece, all'esecuzione della pena, come sarebbe dimostrato dalla menzione del "trattamento" che è espressione tecnica della materia penitenziaria”.
[2] Anche il Comitato Europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT) all’esito della visita effettuata dal 13 al 25 maggio 2012 aveva raccomandato “alle autorità italiane di compiere con determinazione ogni sforzo per combattere il sovraffollamento delle carceri, anche attraverso l’aumento dell'applicazione di misure non detentive durante il periodo che precede l’irrogazione di una pena” e il Presidente della Repubblica nel messaggio rivolto alle Camere l’8 ottobre 2013 aveva ricordato che “la stringente necessità di cambiare profondamente la condizione delle carceri in Italia costituisce non solo un imperativo giuridico e politico, bensì in pari tempo un imperativo morale” e aveva posto l’accento sulla necessità di “ridurre il numero complessivo dei detenuti attraverso innovazioni di carattere strutturale” indicando tra queste al n. 1) “l’introduzione di meccanismi di Probation”.
[3] Slittata al 30.12.2022 in forza del decreto legge 31 ottobre 2022, n. 162
[4] La Raccomandazione (2014)3 adottata il 19 febbraio 2014 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa dà la definizione di “delinquente pericoloso”: una persona che è stata condannata per un reato sessuale molto grave o per un reato violento di un’estrema gravità contro una o più persone e che presenta una probabilità molto elevata di commettere nuovamente un reato sessuale molto grave o un reato violento molto grave contro una o più persone. La Raccomandazione sottolinea che i delinquenti pericolosi costituiscono una piccola minoranza in seno alla popolazione totale degli autori di reato e che per individuarli non si dovrà fare riferimento soltanto a reati gravi violenti o reati sessuali commessi in precedenza, ma al rischio concreto e perdurante e soprattutto alle “prove dell’inadeguatezza di misure meno pesanti, come il fatto che, nel passato, il condannato non si sia conformato a tali misure e che abbia persistito nel suo agire delinquente, nonostante l’applicazione di misure più lievi” (punto 5).
Premesso che la gestione del rischio dei delinquenti pericolosi deve avere, nel lungo periodo, lo scopo di reinserirli in maniera sicura nella società e che la valutazione del rischio deve essere ordinata dall’autorità giudiziaria, gli artt. da 26 a 33 della Raccomandazione prescrivono che la valutazione del rischio sia “strutturata, fondata su prove e basata su strumenti appropriati”, comprenda “un’analisi dettagliata dei comportamenti precedenti e dei fattori storici, personali e circostanziali che lo hanno provocato e che ad esso hanno contribuito” e sia “oggetto periodicamente di un controllo che permetta una nuova valutazione dinamica del rischio”.
[5] http://cep-probation.org/
[6] http://cep-probation.org/knowledgebase/probation-in-europe-update/
[7] d.l. 1 luglio 2013, n. 78 convertito in legge n.94/2013
[8] decreto legge 31 marzo 2014, n. 52 convertito in legge 81/2014
[9] decreto legge 26 giugno 2014, n. 92 convertito in legge n.117/2014
[10] decreto legislativo 16 marzo 2015, n. 28
[11] legge 16 aprile 2015, n. 47
[12] decreto legge 23 dicembre 2013, n. 146 convertito con modificazioni in legge 21 febbraio 2014, n. 10
[13] art. 73 comma 5-bis e 5-ter dpr 309/90 introdotto con legge 16 maggio 2014, n. 79
[14] art. 162-ter c.p. introdotto con legge 23 giugno 2017, n. 103
[15] art. 165 comma 1 c.p. modificato con legge 11 giugno 2004, n. 1145
[16] art. 165 comma 5 c.p. introdotto con legge 19 luglio 2019, n. 69
[17] Cfr. Relazione illustrativa DPCM, Regolamento di organizzazione del Ministero della giustizia e riduzione degli uffici dirigenziali e delle dotazioni organiche.
[18] Anche in questo caso il legislatore (art. 7) non ha previsto investimenti rimandando a successivi interventi (“Qualora si renda necessario procedere all’adeguamento numerico e professionale della pianta organica degli uffici di esecuzione penale esterna del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia, il Ministro della giustizia riferisce tempestivamente alle competenti Commissioni parlamentari in merito alle modalità con cui si provvederà al predetto adeguamento, previo stanziamento delle occorrenti risorse finanziarie da effettuare con apposito provvedimento legislativo”).
[19] La legge 28 aprile 2014, n. 67 all’art. 1 comma 1 prevedeva la detenzione e gli arresti domiciliari per i delitti puniti con la reclusione fino a cinque anni, in via esclusiva per i reati puniti fino a tre anni, e negli altri casi tenuto conto dei criteri ex art. 133 c.p. (lett. b e c ), con esclusione dei delinquenti abituali e per tendenza e sempre che risulti disponibile un domicilio idoneo (lett. e ed f) e prevedeva altresì la possibilità, nelle stesse ipotesi, di applicare la sanzione del lavoro di pubblica utilità non inferiore a dieci giorni consistente nella prestazione di attività non retribuita in favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti o organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato (i e l).
[20] legge 28 aprile 2014, n. 67 all’art. 1 comma 1 lett. m.
[21] Art. 7 legge 28 aprile 2014, n. 67:
“Qualora si renda necessario procedere all’adeguamento numerico e professionale della pianta organica degli uffici di esecuzione penale esterna del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (ndr non si è neppure ritenuto di aggiornare l’attuale collocazione degli UIEPE!) del Ministero della giustizia. Il Ministro della giustizia riferisce tempestivamente alle competenti Commissioni parlamentari in merito alle modalità con cui si provvederà al predetto adeguamento, previo stanziamento delle occorrenti risorse finanziarie da effettuare con apposito provvedimento legislativo”.
[22] https://www.gnewsonline.it/giustizia-da-cdm-1-092-assunzioni-per-esecuzione-penale-esterna/
[23] Chiara Gabrielli Professoressa associata di diritto processuale penale Università di Urbino Carlo Bo da La presentazione e il programma del festival Parole di giustizia (Urbino, Pesaro, Fano, 21-23 ottobre 2022).
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