ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
“Rinvio pregiudiziale e giustizia amministrativa: i più recenti sviluppi”*
di Maria Alessandra Sandulli
Sommario: 1. Premessa ricostruttiva. - 2. L’esigenza di un sistema per “riparare” l’errore giurisdizionale per violazione del diritto UE. - 3. La (vana) ricerca di “indicazioni” sui limiti all’obbligo di rinvio pregiudiziale. - 4. Gli ultimi arresti ripropongono la strada della revocazione. - 5. Conclusioni.
1. Premessa.
Desidero innanzitutto complimentarmi con l’amico e collega Marco Magri e con i colleghi dell’Università di Ferrara per l’organizzazione di questo incontro e ringraziarli per avermi invitato ad aprire la sessione dei rapporti tra rinvio pregiudiziale alla CGUE e diritto amministrativo, dandomi l’occasione per tornare a riflettere su un tema sempre interessante, che, come dimostra anche la più recente giurisprudenza, è oggi più che mai attuale.
Come cerco di rappresentare ai nostri studenti sin dalla prima lezione del corso di Diritto amministrativo progredito, l’impatto del diritto dell’Unione europea sulla nostra materia è particolarmente forte. Anche una rapida e superficiale rassegna degli atti (fonti normative, raccomandazioni, interventi della Commissione, decisioni giurisprudenziali) delle istituzioni dell’Unione consente agevolmente di percepire come essi interessino in larghissima parte l’esercizio dei poteri pubblici, a tutela delle garanzie dei valori affermati dai Trattati. Lo vediamo, evidentemente, in modo più frequente e immediato nella gestione dei servizi pubblici e nelle materie di rilevanza economica, per i profili inerenti alla tutela della concorrenza, ma lo vediamo anche per le materie trasversali, come la tutela dell’ambiente o dell’effettività della giustizia.
È noto, per fare solo un esempio, il dibattito tra l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato e la Corte di Giustizia sulle condizioni per l’azione giurisdizionale.
Mai come in questi ultimi mesi anche i non giuristi hanno peraltro percepito l’importanza delle regole dell’esercizio dei poteri pubblici e l’incidenza del diritto euro-unitario nel nostro ordinamento, consentendo anche a chi abbia solo rudimentali cognizioni giuridiche di comprendere il senso del cd “primato” di tale diritto sulle fonti interne. Gli esempi di più immediata percezione sono stati quelli legati alle misure di prevenzione anti-covid e di risposta alla crisi determinata dall’emergenza pandemica, e alla proroga delle cd concessioni balneari.
Ricorderete che i principali quotidiani hanno dato immediata e ampia notizia delle sentenze nn. 17 e 18 del 9 novembre 2021, con le quali l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha dichiarato la non applicabilità, per diretto contrasto con il diritto eurounitario, delle leggi che nel 2018 e nel 2020 avevano disposto la proroga generalizzata delle concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali per uso turistico-ricreativo, qualificando tamquam non essent le proroghe disposte in base ai loro articoli (mi si consenta il richiamo, per tutti, al fascicolo monotematico n. 3/2021 di Diritto e società, consultabile in open access sul sito della rivista). Sono state sentenze molto commentate e spesso criticate, per le modalità, più che per i contenuti, ma sono certa che, più di mille lezioni e discorsi, hanno dato a tutti il senso dell’impatto del diritto UE nel nostro ordinamento. Così come evidentemente lo dà il susseguirsi di norme per garantire il rispetto degli impegni assunti con il PNRR.
A questo proposito, dal momento che siamo in un’assemblea di studiosi del diritto, ricordo che non possiamo non guardare con preoccupazione alle ultime norme iper-acceleratorie dei processi amministrativi, coniate l’estate scorsa per i giudizi relativi a provvedimenti finanziati in tutto o in parte dal Piano (il riferimento è evidentemente all’art 3 d.l. n. 85/2022, poi inserito come art. 12-bis nel precedente d.l. n. 68, per assicurarne la conversione agostana), che impongono un nuovo improvvido sacrificio all’effettività della tutela e alla giustizia nell’amministrazione (cfr. la nota della redazione e il commento critico di F. Volpe su Giustiziainsieme)
Per i giuristi, e in particolare per gli studiosi di diritto processuale, l’ultimo lustro è stato poi, come noto, molto stimolante anche per il dibattito esploso tra le Supreme Corti sui rimedi processuali avverso le decisioni dei giudici amministrativi di ultima istanza (Consiglio di Stato e Corte dei conti), che, in spregio al suddetto primato del diritto UE e disattendendo l’obbligo di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia imposto dall’art 267 TFUE, avessero di fatto negato tutela a posizioni riconosciute dal diritto dell’Unione. Con riferimento alle controversie che involgono rapporti con le pubbliche amministrazioni (e i soggetti a esse equiparati), la questione dei rapporti con il diritto UE si è andata infatti intrecciando con quella dei limiti al sindacato della Corte di cassazione ex art 111, co 8, Cost, sostanziandosi, più nello specifico, nella possibilità di individuare nella violazione del diritto UE un “motivo inerente alla giurisdizione”.
Per comprendere un’importante angolazione della questione, è utile preliminarmente ricordare che, all’esito delle modifiche introdotte nel 2015, la l. n. 117/1988, sulla responsabilità civile dei magistrati, nel disporre che chiunque può agire in giudizio contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni ingiusti patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali derivanti da un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia, riconduce, tra l’altro, espressamente alla “colpa grave” foriera di effetti risarcitori “la violazione manifesta della legge nonché del diritto dell'Unione europea”, e, oltre all’obbligo dell’azione di rivalsa nei confronti del magistrato ai sensi dell’art. 7, configura, all’art. 9, un obbligo di azione disciplinare per i fatti che hanno dato luogo all’azione risarcitoria, specificando che a tali fini non è neppure richiesta la colpa grave.
La riforma è, come noto, a sua volta significativamente frutto di interventi delle istituzioni UE. In particolare, il percorso trae origine dalla sentenza 13 giugno 2006, emessa nella causa C-173/03 (Traghetti del Mediterraneo), in cui la Corte di giustizia ha affermato che “Il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un'interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale”.
La sentenza ha quindi osservato che “Il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente, quale precisata ai punti 53-56 della sentenza 30 settembre 2003, causa C-224/01, Köbler”, secondo la quale, al fine di determinare se questa condizione sia soddisfatta, il giudice nazionale investito di una domanda di risarcimento danni deve tener conto di tutti gli elementi che caratterizzano la situazione sottoposta al suo sindacato, e, in particolare, del grado di chiarezza e di precisione della norma violata, del carattere intenzionale della violazione, della scusabilità o inescusabilità dell’errore di diritto, della posizione adottata eventualmente da un’istituzione comunitaria, nonché della mancata osservanza, da parte dell’organo giurisdizionale di cui trattasi, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234, 3° comma, CE, nonché della manifesta ignoranza della giurisprudenza della Corte di giustizia nella materia.
La medesima Corte di giustizia è stata poi investita di una procedura di infrazione (in C-379/10) promossa dalla Commissione europea al fine di ottenere una modifica della legge n. 117/1988 nel senso indicato dalla pronuncia del 2006 e, con sentenza del 24 novembre 2011 ha rilevato che la disciplina italiana sul risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati, laddove esclude(va) qualsiasi responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell'Unione da parte di un organo giurisdizionale di ultimo grado, qualora tale violazione derivi dall'interpretazione di norme di diritto o dalla valutazione di fatti e di prove effettuate dall'organo giurisdizionale medesimo, e laddove limita tale responsabilità ai casi di dolo o di colpa grave, è in contrasto con il principio generale di responsabilità degli Stati membri per la violazione del diritto dell'Unione.
La novella del 2015 ha dato linfa alla questione della ricorribilità in Corte di cassazione ex art. 111, co. 8, Cost. contro le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti in contrasto con il diritto UE.
Come noto, a differenza di quanto disposto per le sentenze dei giudici ordinari (di cui l’art 111, co 7, Cost impone sempre l’impugnabilità in Cassazione per violazione di legge), contro le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti l’art 111, co 8, Cost. ammette infatti il ricorso per cassazione soltanto per motivi inerenti alla giurisdizione.
Ne consegue che, negli altri casi, l’unico rimedio (a parte l’opposizione di terzo) è quello, estremamente circoscritto, della revocazione.
Non è questa la sede per addentrarci nel dibattito generale sui limiti del sindacato della Corte di cassazione ex art 111, co 8, e sul percorso seguito dalle Sezioni Unite fino al famoso rinvio alla CGUE da parte dell’ordinanza Randstad Italia del 2020, sul quale mi permetto di rinviare al mio scritto “Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 19598 del 2020”, pubblicato su Giustizia insieme.it e agli altri scritti nel volume a cura di A. Carratta, Limiti esterni di giurisdizione e diritto europeo. A proposito di Cass. Sez. un. n. 19598/2020, Roma TrE-Press, 2021.
Ciò che mi preme sottolineare in questa sede è che mano a mano che si è andato sviluppando -e, mi sia consentito rimarcare, inasprendo- un certo contrasto di posizioni tra il Consiglio di Stato e la Corte di giustizia nelle controversie in tema di affidamento dei contratti pubblici -settore di grande rilevanza economica e tradizionale terreno di influenza del diritto UE-si è posto anche il problema della possibilità/necessità di utilizzare tali rimedi straordinari anche per evitare una responsabilità risarcitoria dello Stato per effetto di eventuali errori di diritto dei giudici amministrativi.
È così accaduto che, sviluppando un percorso avviato negli anni 2006-2008 con riferimento alla cd pregiudiziale di annullamento delle azioni di risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi, le SS. UU. della Corte di cassazione, con due importanti sentenze (2242 del 2015 e 31226 del 2017), hanno cassato le pronunce con le quali il Consiglio di Stato, disattendendo i principi di apertura alla tutela affermati in varie occasioni dalla Corte di Lussemburgo, aveva negato la legittimazione dei concorrenti non definitivamente esclusi da una gara per l’affidamento di contratti pubblici a contestare il possesso dei requisiti del ricorrente principale (la prima) e dell’aggiudicatario (la seconda), rilevando come tale restrizione, traducendosi in un’interpretazione delle norme europee in contrasto con quelle fornite dalla CGUE, così da precludere l’accesso alla tutela giurisdizionale, si sostanziasse in un “abnorme” diniego di giustizia, sindacabile ex art. 111, co. 8, Cost. La stessa Corte di cassazione rimarcava però l’eccezionalità di tale potere cassatorio sindacato (sintomaticamente esercitato solo due volte con richiamo al diritto UE e solo due volte con richiamo al diritto interno: una nei confronti del Consiglio di Stato, nel 2008, e una nei confronti della Corte dei conti, nel 2012) e precisando di non avere comunque il potere di sindacare la scelta ermeneutica del giudice amministrativo né la scelta di rinviare o meno la questione alla CGUE, come previsto dall’art. 267, co 3, del TFUE.
Le stesse SS.UU., peraltro, nell’aprile 2016, invocando una interpretazione evolutiva del limite esterno della giurisdizione, avevano analogamente riscontrato un vizio inerente alla giurisdizione con riferimento alla mancata considerazione da parte del Consiglio di Stato di una sentenza della Corte EDU e avevano ritenuto di potere di conseguenza direttamente rimettere alla Corte costituzionale la questione di legittimità delle norme rilevanti ai fini della soluzione della controversia per contrasto con la Convenzione europea.
Alcune affermazioni di carattere più generale contenute nell’ordinanza nella parte in cui invocava la riferita interpretazione evolutiva avevano fatto però temere che essa tradisse un tentativo della Corte regolatrice di estendere il proprio sindacato per violazione di legge al di là dell’ambito, utilizzato come detto con estrema prudenza e ormai acquisito, del cd. “diniego di giustizia” (riconducibile a un eccesso in negativo del potere giurisdizionale), sì da far rientrare nell’ambito dell’art. 111, co. 8 -attraverso il passaggio dalla violazione del diritto UE- il sindacato sulla violazione di legge in materia di diritti di rilevanza eurounitaria, anche nelle materie affidate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Questa preoccupazione ha indotto il Giudice delle leggi a un’estrema prudenza. Con la nota sentenza n. 6 del 2018, significativamente assunta all’esito di una camera di consiglio immediatamente successiva alla richiamata sentenza 31226 del 2017 della Corte di cassazione, infatti, la Consulta ha affermato che “la tesi che il ricorso in cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, previsto dall’ottavo comma dell’art. 111 Cost. avverso le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, comprenda anche il sindacato su errores in procedendo o in iudicando ... non è compatibile con la lettera e lo spirito della norma costituzionale” (§11), aggiungendo che “L’intervento delle sezioni unite, in sede di controllo di giurisdizione, nemmeno può essere giustificato dalla violazione di norme dell’Unione o della CEDU» giacché anche in tal caso si ricondurrebbe «al controllo di giurisdizione un motivo di illegittimità (sia pure particolarmente qualificata), motivo sulla cui estraneità all’istituto in esame non è il caso di tornare” (§14.1).
Dopo la suddetta pronuncia, la giurisprudenza delle Sezioni Unite si è andata consolidando nel senso che la negazione in concreto di tutela alla situazione soggettiva azionata, determinata dall’erronea interpretazione delle norme sostanziali nazionali o dei principi del diritto europeo da parte del giudice amministrativo, non concreta eccesso di potere giurisdizionale per omissione o rifiuto di giurisdizione, così da giustificare il ricorso previsto dall'art. 111, co. 8, Cost., atteso che l’interpretazione delle norme di diritto costituisce il proprium della funzione giurisdizionale e non può integrare di per sé sola la violazione dei limiti esterni della giurisdizione, che invece si verifica nella diversa ipotesi di affermazione, da parte del giudice speciale, che quella situazione soggettiva è, in astratto, priva di tutela per difetto assoluto o relativo di giurisdizione (così SS.UU., nn. 32773/2018; nello stesso senso, tra le tante, le pronunce nn. 8311/2019, 27770/2020, 29653/2020, 36899/2021, 183/2022).
Tale orientamento espressamente include anche gli errores in procedendo nell’area dell’insindacabilità delle sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti ex art. 111, co. 8, Cost. (tra le tante, SS.UU., nn. 7926/2019, SS.UU. 29082/2019, SS.UU. 34470/2019, SS.UU. 27546/2021, non massimata).
Nell’ambito di detto indirizzo, si è anche affermato che il contrasto delle decisioni giurisdizionali del Consiglio di Stato con il diritto europeo non integra, di per sé, l’eccesso di potere giurisdizionale denunziabile ai sensi dell'art. 111, co. 8, Cost., atteso che anche la violazione delle norme dell’Unione europea o della CEDU dà luogo ad un motivo di illegittimità, sia pure particolarmente qualificata, che si sottrae al controllo di giurisdizione della Corte di cassazione, né può essere attribuita rilevanza al dato qualitativo della gravità del vizio (SS.UU., n. 29085/2019; nello stesso senso, SS.UU., n. 6460/2020). Con l’ulteriore precisazione che la non sindacabilità, da parte della Corte di cassazione ex art. 111, co. 8, Cost., delle violazioni del diritto UE ascrivibili alle sentenze pronunciate dagli organi di vertice delle magistrature speciali (nella specie, il Consiglio di Stato) è compatibile con il diritto dell'Unione, come interpretato della giurisprudenza costituzionale ed europea, in quanto correttamente ispirato a esigenze di limitazione delle impugnazioni, oltre che conforme ai principi del giusto processo ed idoneo a garantire l'effettività della tutela giurisdizionale, tenuto conto che è rimessa ai singoli Stati l’individuazione degli strumenti processuali per assicurare tutela ai diritti riconosciuti dall’Unione (SS.UU., n. 32622/2018).
Nella sentenza n. 1454/2022 le SS.UU. ribadiscono così ancora significativamente che il ricorso per cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione è ammissibile nei casi di difetto assoluto e relativo di giurisdizione e, quindi, non può estendersi al sindacato di sentenze abnormi od anomale o che abbiano stravolto le norme di riferimento, neppure se direttamente applicative del diritto UE, né può essere accolta la richiesta di rimettere alla CGUE questioni volte a fare emergere errori in cui sia incorso il Consiglio di Stato nell’interpretazione ed applicazione di disposizioni di diritto interno applicative del diritto UE, non attenendo queste a motivi di giurisdizione.
Con buona pace delle garanzie di effettività della tutela e delle conseguenze economiche derivanti dalla responsabilità dello Stato per violazione del diritto UE.
Il problema era evidentemente avvertito dalla stessa Consulta, che, nella richiamata sentenza n. 6/18 aveva giustamente rimarcato che “rimane il fatto che, specialmente nell'ipotesi di sopravvenienza di una decisione contraria delle Corti sovranazionali, il problema indubbiamente esiste, ma deve trovare la sua soluzione all'interno di ciascuna giurisdizione, eventualmente anche con un nuovo caso di revocazione di cui all'art. 395 cod. proc. civ., come auspicato dalla stessa Corte con riferimento alle sentenze della Corte EDU nella sentenza n. 123 del 2017”.
In quest’ultima sentenza, come si ricorderà, la Corte costituzionale aveva dichiarato parzialmente inammissibili e parzialmente infondate le eccezioni di illegittimità costituzionale delle disposizioni (art. 106 cpa e 395 e 396 cpc), nella parte in cui non prevedono un ulteriore diverso caso di revocazione della sentenza quando ciò sia necessario, ai sensi dell’art. 46, par. 1, della CEDU, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell’uomo. La Consulta lasciava però emergere l’esigenza di una sollecita soluzione del problema da parte del legislatore nazionale, laddove rileva che “nel nostro ordinamento, la riapertura del processo non penale, con il conseguente travolgimento del giudicato, esige una delicata ponderazione, alla luce dell'art.24 Cost., fra il diritto di azione degli interessati e il diritto di difesa dei terzi, e tale ponderazione spetta in via prioritaria al legislatore”. Esigenza ribadita, appunto, dalla sentenza n. 6/2018.
Nella legge delega per la riforma del processo civile (l. 26 novembre 2021, n. 206), il Parlamento ha espressamente delegato il Governo ad ampliare il ventaglio di motivi revocatori tassativamente indicati all’art. 395 c.p.c., prefigurando l’introduzione di una nuova ipotesi di revocazione straordinaria del giudicato che, a seguito di una successiva pronuncia resa dalla Corte EDU, risulti in violazione della CEDU o di quanto previsto nei Protocolli addizionali. Ipotesi introdotta nello schema di D.lgs. all’art 391-quater.
La novella, ancora non approvata, non tocca comunque il rapporto con il diritto UE.
2. L’esigenza di un sistema per “riparare” l’errore giurisdizionale per violazione del diritto UE.
In attesa di un intervento del legislatore, il problema di fondo -come rimediare processualmente all’errore del g. a. di ultima istanza ed evitare la condanna dello Stato italiano al risarcimento del danno- restava quindi irrisolto.
Entrambe le magistrature supreme, pur ovviamente da posizioni opposte, sono tornate sul tema.
La Corte di cassazione, con la richiamata ordinanza Randstad Italia, ha così addirittura chiesto alla Corte di giustizia se fosse compatibile con il diritto unionale (e, segnatamente, con l’art. 1, par. 1 e 3 della direttiva 89/665 letto alla luce dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) l’art. 111, co. 8, Cost., per come interpretato dalla Corte costituzionale nella sentenza 6 del 2018, nella parte in cui non consente di ricorrere ad un organo giurisdizionale supremo dello Stato membro per annullare una sentenza del supremo organo della giustizia amministrativa di tale Stato che abbia negato la tutela di diritti in violazione del diritto dell’Unione, e/o abbia disatteso l’obbligo di rinvio pregiudiziale di cui all’art. 267 TFUE. L’ordinanza ha suscitato un accesissimo dibattito sul quale si sono tenuti numerosi webinar e incontri in presenza e sono stati scritti fiumi d’inchiostro, ai quali evidentemente si rinvia per ogni utile approfondimento[i]. Merita qui particolarmente rimarcare che le SS. UU. avevano avuto buon gioco nel ricordare, che la stessa Corte costituzionale, nella menzionata sentenza n. 6 del 2018, “riconosce che «specialmente nell'ipotesi di sopravvenienza di una decisione contraria delle Corti sovranazionali, il problema indubbiamente esiste», ma aveva osservato che esso «deve trovare la sua soluzione all'interno di ciascuna giurisdizione [quindi, di quella amministrativa per le sentenze dei giudici amministrativi], eventualmente anche con un nuovo caso di revocazione di cui all'articolo 395 cod. proc. civ.»”; e nel rappresentare (criticamente) al Giudice sovranazionale che “Tale rimedio, tuttavia, non è previsto dal legislatore nazionale come strumento ordinario per porre rimedio alle violazioni del diritto dell'Unione che siano addebitate agli organi giurisdizionali” e che “La stessa Corte costituzionale ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale delle disposizioni normative pertinenti nella parte in cui non prevedono tra i casi di revocazione quello in cui essa si renda necessaria per consentire il riesame del merito della sentenza impugnata per la necessità di uniformarsi alle statuizioni vincolanti rese, in quel caso, dalla Corte europea dei diritti dell'uomo (Corte cost. 27 aprile 2018, n. 93); in altra decisione, ha dichiarato inammissibile una analoga questione sollevata dai giudici amministrativi (Corte cost. 2 febbraio 2018, n. 19)”. Aggiungeva peraltro, e correttamente, la Corte di cassazione che “Tale rimedio, comunque, non sarebbe agevolmente praticabile per i limiti strutturali dell'istituto della revocazione (sub paragrafo 15, in relazione all'art. 395 cod. proc. civ.) e, specialmente, quando le sentenze delle Corte sovranazionali siano precedenti alla sentenza impugnata. È comunque dubbio che esso sia idoneo a paralizzare l'ammissibilità del ricorso per cassazione, non potendosi escludere che anche la sentenza emessa ipoteticamente in sede di revocazione possa incorrere in violazione dei limiti della giurisdizione”.
La VI Sezione del Consiglio di Stato, dal canto proprio, prestando doverosa attenzione al tema della responsabilità, nella controversia Hoffman – La Roche, con ordinanza n. 2327 del 18 marzo 2021 aveva rimesso alla Corte di Lussemburgo di pronunciarsi sulla compatibilità degli artt. 106 cod. proc. amm. e 395 cod. proc. civ. nella misura in cui non consentono di usare il rimedio revocatorio per impugnare sentenze del giudice amministrativo di appello confliggenti con una sentenza della stessa Corte di giustizia e in particolare con i principi che questa abbia affermato a seguito di precedente rinvio pregiudiziale.
In estrema sintesi, in entrambi i casi la Corte di giustizia era dunque chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità del sistema processuale interno con il diritto eurounitario in punto di effettività della tutela giurisdizionale dei diritti conferiti da disposizioni che attuano tale diritto.
La prima sentenza è stata resa dalla Grande Sezione il 21 dicembre 2021 e la seconda dalla IX Sezione il 7 luglio scorso.
Come evidenziato dalla V sezione del Consiglio di Stato in una recentissima ordinanza su cui torneremo infra, per dar risposta alle questioni pregiudiziali sollevate nelle due sentenze, la Corte svolge sostanzialmente il medesimo ragionamento che può essere così esposto in sintesi:
- fatta salva l’esistenza di norme dell’Unione europea in materia, per il principio dell’autonomia procedurale spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro stabilire le modalità processuali dei rimedi giurisdizionali necessari per assicurare ai singoli, nei settori disciplinati dal diritto unionale il rispetto del loro diritto ad una giurisdizione effettiva;
- se l’ordinamento interno assicura un rimedio giurisdizionale che sia equivalente a quello con il quale è garantita la tutela di situazioni analoghe disciplinate dal diritto interno (principio di equivalenza) e che non renda in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’Unione (principio di effettività) va escluso ogni contrasto delle disposizioni del sistema processuale interno con il diritto dell’Unione europea;
- resta fermo che i singoli che siano stati eventualmente lesi dalla violazione del loro diritto a un ricorso effettivo a causa di una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado che si ponga in contrasto con il diritto dell’Unione europea possono far valere la responsabilità dello Stato membro se la violazione ha carattere sufficientemente qualificato e in caso di esistenza di nesso causale diretto tra tale violazione e il danno subito dal soggetto leso.
In base a tale ragionamento i Giudici di Lussemburgo hanno quindi ritenuto l’insussistenza dei profili di contrasto del sistema processuale interno con il diritto dell’Unione europea paventati nel primo quesito della ordinanza Randstad Italia e nel terzo quesito dell’ordinanza Hofman-La Roche.
La Corte non ha invece affrontato il quesito (secondo dell’ordinanza Randstad Italia): “Se l’art. 4, par. 3, art. 19, par. 1 TUE e art. 267 TFUE, letti anche alla luce dell’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, ostino alla interpretazione applicazione dell’art. 111 Cost., comma 8, art. 360 c.p.c, comma 1, n. 1 e art 362 c.p.c., comma 1, e art 110 del codice processo amministrativo, quale si evince dalla prassi giurisprudenziale nazionale, secondo la quale il ricorso per cassazione dinanzi alle Sezioni Unite per “motivi inerenti alla giurisdizione”, sotto il profilo del cosiddetto “difetto di potere giurisdizionale”, non sia proponibile come mezzo di impugnazione delle sentenze del Consiglio di Stato che, decidendo controversie su questioni concernenti l’applicazione del diritto dell’Unione, omettano immotivatamente di effettuare il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, in assenza delle condizioni, di stretta interpretazione, da essa tassativamente indicate (a partire dalla sentenza 6 ottobre 1982, Cilfit, C-238/81) che esonerano il giudice nazionale dal suddetto obbligo, in contrasto con il principio secondo cui sono incompatibili con il diritto dell’Unione le normative o prassi processuali nazionali, seppure di fonte legislativa o costituzionale, che prevedano una privazione, anche temporanea, della libertà del giudice nazionale (di ultimo grado e non) di effettuare il rinvio pregiudiziale, con l’effetto di usurpare la competenza esclusiva della Corte di giustizia nella corretta e vincolante interpretazione del diritto comunitario, di rendere irrimediabile (e favorire il consolidamento del)l’eventuale contrasto interpretativo tra il diritto applicato dal giudice nazionale e il diritto dell’Unione e di pregiudicare la uniforme applicazione e la effettività della tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive derivanti dal diritto dell’Unione: profilo su cui la Cassazione, nel chiudere in rito la controversia, non ha evidentemente mancato di esprimere perplessità.
Nella prima pronuncia successiva alla pubblicazione dell’ordinanza Randstad I. (ordinanza n. 1454 del 2022), riprendendo sostanzialmente il ragionamento della Corte di giustizia, la Corte di cassazione ha, come visto, ribadito il principio di diritto che “Il ricorso per cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione è ammissibile nei casi di difetto assoluto e relativo di giurisdizione e, quindi, non può estendersi al sindacato di sentenze abnormi od anomale o che abbiano stravolto le norme di riferimento, neppure se direttamente applicative del diritto UE, né può essere accolta la richiesta di rimettere alla Corte di giustizia UE questioni volte a fare emergere errori in cui sia incorso il Consiglio di Stato nell’interpretazione ed applicazione di disposizioni di diritto interno applicative del diritto UE, non attenendo queste a motivi di giurisdizione”.
Nella motivazione, le Sezioni unite estendono però il principio anche all’obbligo di rinvio pregiudiziale da parte del giudice di ultima istanza, sul quale, come detto, la CGUE non si è invece mai pronunciata.
Avevo affrontato la questione in senso fortemente dubitativo nella richiamata Guida alla letturadell’ordinanza Randstad I., osservando, in sintesi, che, se da un lato è innegabile che la decisione sulla necessità o meno del rinvio impatta sulla “riserva” di interpretazione della Corte di giustizia, tanto che il mancato rinvio è causa di responsabilità per gli Stati e di conseguenza per gli stessi giudici, sembra tuttavia difficile disconoscere che, nell’esercizio del potere di interpretazione, che è proprio di ogni giurisdizione, ci sia anche quello di ritenere che il quadro normativo e giurisprudenziale non dà adito a dubbi. Se così è, l’eventuale errore commesso in tale valutazione non sembra riconducibile ai “motivi di giurisdizione” neppure invocando lo sconfinamento nella potestas della Corte di giustizia, che, non solo non è propriamente qualificabile come giurisdizione, ma, soprattutto, è chiamata solo a “risolvere” i dubbi, laddove il giudice del caso concreto ne abbia rilevati (come dimostra il rigore con cui i Giudici di Lussemburgo valutano la ricevibilità dei quesiti che vengono loro rivolti). Concludevo dunque nel senso che “Il fatto che il Giudice interno abbia l’obbligo di rimettere i dubbi interpretativi sulla portata delle norme UE al Giudice sovranazionale non sembra invero sufficiente ad affermare che esso non abbia il potere di valutare in autonomia si ricorra o meno un’ipotesi di dubbio, non diversamente da quanto si ritiene per la rimessione alla Consulta delle questioni di legittimità costituzionale. Sicché, peraltro, ancora una volta, l’effetto dell’allargamento del compasso prospettato dalle Sezioni Unite sarebbe più ampio, aprendo il varco al sindacato della Corte di cassazione anche con riferimento alle mancate rimessioni alla Corte costituzionale. Non sembra infatti che l’esigenza di evitare la responsabilità dello Stato per violazione del diritto UE, pur indubbiamente importante e potenzialmente utile, sia argomento sufficiente per trasferire l’ultima parola interpretativa sulla configurabilità di dubbi di compatibilità eurounitaria al Giudice delle questioni di giurisdizione, né, qualora gli si riconoscesse tale potere, può fondare il discrimine tra questa interpretazione e quella che sta alla base del mancato rinvio alla Corte costituzionale”.
La soluzione più coerente continuava -e continua- quindi, a mio avviso, a essere, quando ne ricorrano i presupposti, quella dell’eccesso di potere giurisdizionale per aprioristico e astratto diniego di giustizia.
3. La (vana) ricerca di “indicazioni” sui limiti all’obbligo di rinvio pregiudiziale.
Al di là di tale profilo (che resta quindi aperto), come è stato da più parti immediatamente rimarcato, dalle suddette sentenze -e in particolare dalla risposta della sentenza CGUE in causa Randstad I. al terzo quesito, che stigmatizza la lettura restrittiva espressa ancora una volta dal Consiglio di Stato in punto di legittimazione ad agire- dal quadro sopra delineato emerge che ogni vicenda giudiziaria che si sia definitivamente conclusa, stante l’esaurimento dei rimedi interni, con un assetto di interessi contrastante con il diritto dell’Unione europea è suscettibile di innescare un correlato e complementare giudizio nel quale discutere della responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell’Unione europea al fine di accertare se sussistano le condizioni per la condanna al risarcimento del danno a beneficio del cittadino che in ragione di tale violazione abbia subito pregiudizio ai propri diritti.
E i conseguenti rischi di responsabilità degli stessi giudici in via di “rivalsa” e in via disciplinare.
La soluzione non soddisfa né l’interesse pubblico, né l’interesse privato.
Quanto al primo, perché la tutela risarcitoria non è mai satisfattiva della “giustizia nell’amministrazione” che costituisce irrinunciabile corollario e presupposto del rispetto dei principi e delle regole dell’azione e dell’organizzazione amministrativa[ii]. Quanto al secondo perché, come evidenziato dall’Avvocato generale Hogan nelle conclusioni rassegnate nella causa Randstad (pt 82), vi è il forte rischio che l’azione per risarcimento dei danni, e dunque “un rimedio del tipo Francovich [possa rimanere] un’illusione piuttosto che una realtà”.
Per non parlare della preoccupazione dei magistrati, frequentemente esposti alla pressione della “minaccia” di azioni di responsabilità in caso di mancato rinvio pregiudiziale. Come ebbi già a evidenziare in uno scritto sulla riforma della legge sulla responsabilità civile dei giudici (Riflessioni sulla responsabilità civile degli organi giurisdizionali, in Federalismi, 2012) si tratta di un rischio che è evidentemente opportuno evitare.
Ne è testimonianza la serie di ordinanze di rinvio emesse dalla IV Sezione del Consiglio di Stato nella causa Consorzio Italian Management e Catania Multi Servizi c. RFI in tema di revisione prezzi. Dopo la dichiarazione di irricevibilità delle questioni formulate con una prima ordinanza[iii], nel 2019 la Sezione, con una seconda ordinanza[iv], ha chiesto, in via preliminare, alla CGUE “[S]e, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, il giudice nazionale, le cui decisioni non sono impugnabili con un ricorso giurisdizionale, è tenuto, in linea di principio, a procedere al rinvio pregiudiziale di una questione di interpretazione del diritto dell’Unione europea, anche nei casi in cui tale questione gli venga proposta da una delle parti del processo dopo il suo primo atto di instaurazione del giudizio o di costituzione nel medesimo, ovvero dopo che la causa sia stata trattenuta per la prima volta in decisione, ovvero anche dopo che vi sia già stato un primo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea”.
Con la nota sentenza del 6 ottobre 2021 (battezzata come “Cilfit II”), la Grande Sezione della Corte, dopo un ampio excursus sulle condizioni di ammissibilità del rinvio, ha risposto alla prima questione dichiarando che “l’articolo 267 TFUE deve essere interpretato nel senso che un giudice nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi ricorso giurisdizionale di diritto interno deve adempiere il proprio obbligo di sottoporre alla Corte una questione relativa all’interpretazione del diritto dell’Unione sollevata dinanzi ad esso, a meno che constati che tale questione non è rilevante o che la disposizione di diritto dell’Unione di cui trattasi è già stata oggetto d’interpretazione da parte della Corte o che la corretta interpretazione del diritto dell’Unione s’impone con tale evidenza da non lasciare adito a ragionevoli dubbi. La configurabilità di siffatta eventualità deve essere valutata in funzione delle caratteristiche proprie del diritto dell’Unione, delle particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e del rischio di divergenze giurisprudenziali in seno all’Unione. Tale giudice non può essere esonerato da detto obbligo per il solo motivo che ha già adito la Corte in via pregiudiziale nell’ambito del medesimo procedimento nazionale. Tuttavia, esso può astenersi dal sottoporre una questione pregiudiziale alla Corte per motivi d’irricevibilità inerenti al procedimento dinanzi a detto giudice, fatto salvo il rispetto dei principi di equivalenza e di effettività”.
Nel merito, la Corte ha però reiterato la pronuncia di irricevibilità, rammentando che, secondo una sua costante giurisprudenza, “nell’ambito della cooperazione tra la Corte e i giudici nazionali, la necessità di pervenire a un’interpretazione del diritto dell’Unione che sia utile per il giudice nazionale impone che quest’ultimo rispetti scrupolosamente i requisiti relativi al contenuto di una domanda di pronuncia pregiudiziale e indicati in maniera esplicita all’articolo 94 del regolamento di procedura, i quali si presumono noti al giudice del rinvio (sentenza del 19 aprile 2018, Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi, C‑152/17, EU:C:2018:264, punto 21, e giurisprudenza ivi citata). Tali requisiti sono inoltre richiamati nelle raccomandazioni della Corte all’attenzione dei giudici nazionali, relative alla presentazione di domande di pronuncia pregiudiziale (GU 2019, C 380, pag. 1).
Pertanto, è indispensabile, come enunciato all’articolo 94, lettera c), del regolamento di procedura, che la decisione di rinvio contenga l’illustrazione dei motivi che hanno indotto il giudice del rinvio a interrogarsi sull’interpretazione o sulla validità di determinate disposizioni del diritto dell’Unione, nonché il collegamento che esso stabilisce tra dette disposizioni e la normativa nazionale applicabile alla controversia di cui al procedimento principale” (con espresso richiamo alla propria precedente sentenza del 19 aprile 2018 e alla giurisprudenza ivi citata).
I Giudici di Lussemburgo hanno quindi osservato che, nel caso di specie, il giudice del rinvio non aveva rimediato alla lacuna rilevata al pt 23 della suddetta precedente sentenza, “nella misura in cui esso continua, in violazione dell’articolo 94, lettera c), del regolamento di procedura, a non esporre con la precisione e la chiarezza richieste i motivi per cui ritiene che l’interpretazione dell’articolo 3 TUFE nonché dell’articolo 26 e l’articolo 101, paragrafo 1, lettera e), TFUE, gli sembri necessaria o utile ai fini per dirimere la controversia di cui al procedimento principale, e neppure il collegamento tra il diritto dell’Unione e la legislazione nazionale applicabile a tale controversia. Tale giudice non precisa neppure i motivi che l’hanno portato a interrogarsi sull’interpretazione delle altre disposizioni e degli atti menzionati nella seconda e nella terza questione sollevate, tra i quali figura, in particolare, la Carta sociale europea, che la Corte non è peraltro competente a interpretare (v., in tal senso, sentenza del 5 febbraio 2015, Nisttahuz Poclava, C‑117/14, EU:C:2015:60, punto 43), ma si limita, in sostanza, a esporre gli interrogativi a tal riguardo dei ricorrenti nel procedimento principale, come emerge dal punto 20 della presente sentenza, senza fornire la propria valutazione”.
Il problema della preoccupazione dei giudici amministrativi di ultima istanza di non incorrere in azioni di responsabilità per mancato rispetto dell’obbligo di rinvio pregiudiziale emerge con la massima nettezza anche in un’altra controversia.
Con sentenza non definitiva n. 6290 del 14 settembre 2021, la IV Sezione del Consiglio di Stato, a fronte di pressanti eccezioni di incompatibilità eurounitarie delle norme interne regolanti la fattispecie controversa, ha formulato alla Corte di giustizia i seguenti particolarissimi quesiti preliminari,
“A) se la corretta interpretazione dell’art. 267 TFUE imponga al giudice nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, di operare il rinvio pregiudiziale su una questione di interpretazione del diritto unionale rilevante nell’ambito della controversia principale, anche qualora possa escludersi un dubbio interpretativo sul significato da attribuire alla pertinente disposizione europea - tenuto conto della terminologia e del significato propri del diritto unionale attribuibili alle parole componenti la relativa disposizione, del contesto normativo europeo in cui la stessa è inserita e degli obiettivi di tutela sottesi alla sua previsione, considerando lo stadio di evoluzione del diritto europeo al momento in cui va data applicazione alla disposizione rilevante nell’ambito del giudizio nazionale – ma non sia possibile provare in maniera circostanziata, sotto un profilo soggettivo, avuto riguardo alla condotta di altri organi giurisdizionali, che l’interpretazione fornita dal giudice procedente sia la stessa di quella suscettibile di essere data dai giudici degli altri Stati membri e dalla Corte di Giustizia ove investiti di identica questione”;
“B) se – per salvaguardare i valori costituzionali ed europei della indipendenza del giudice e della ragionevole durata dei processi – sia possibile interpretare l’art. 267 TFUE, nel senso di escludere che il giudice supremo nazionale, che abbia preso in esame e ricusato la richiesta di rinvio pregiudiziale di interpretazione del diritto della Unione europea, sia sottoposto automaticamente, ovvero a discrezione della sola parte che propone l’azione, ad un procedimento per responsabilità civile e disciplinare”.
All’esito della richiamata sentenza “Cilfit II”, la cancelleria della Corte di giustizia, con nota del 13 dicembre 2021 ha però chiesto al giudice remittente se permanesse l’interesse a una decisione sulla questione rilevata con il rinvio pregiudiziale, tenuto conto dei principi ritraibili dalla suddetta sentenza del 6 ottobre 2021, sopravvenuta rispetto alla decisione di rinvio pregiudiziale. Senonché, il 19 febbraio 2022, la ricorrente produceva in giudizio la denuncia inviata il 24 gennaio 2022, alla Commissione europea, nella quale assumeva inter alia che con la suddetta sentenza non definitiva il Consiglio di Stato avrebbe in realtà esaminato e respinto tutti i motivi del ricorso di primo grado e che il rinvio pregiudiziale sarebbe stato effettuato al solo scopo di tutelare la posizione dei magistrati del Collegio decidente.
Con ordinanza n. 2545 del 6 aprile scorso, la IV Sezione ha però insistito nei quesiti, evidenziando che i principi elaborati dalla sentenza “Cilfit II” non appaiono rispondere ai quesiti sollevati con la sentenza non definitiva n. 6290 del 2021; in particolare, ha rilevato che le condizioni poste dalla Corte di giustizia per escludere l’obbligo di rinvio pregiudiziale gravante sul giudice di ultima istanza ex art. 267 TFUE, risultano comunque:
i) di difficile accertamento, nella parte in cui fanno riferimento alla necessità che il giudice procedente, certo dell’interpretazione e dell’applicazione da dare al diritto dell’U.E., rilevante per la soluzione della controversia nazionale, provi in maniera circostanziata che la medesima evidenza si imponga anche presso i giudici degli altri Stati membri e la Corte (in questo senso si condivide l’orientamento espresso dal medesimo Consiglio di Stato, successivamente alla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, cfr. sez. VI, n. 2066 del 2022, §§ da 28 a 32);
ii) lesive del principio costituzionale (art. 111, comma secondo, Cost.) ed europeo (art. 47, comma 2, Carta dei diritti fondamentali U.E.) della ragionevole durata del processo, in quanto il giudice supremo nazionale italiano è costretto a disporre un rinvio pregiudiziale, allungando di molto i tempi di risoluzione della controversia, per prevenire, in assenza di qualsivoglia filtro preventivo, la proposizione dell’azione di risarcimento del danno ai sensi della norma sancita dall’art. 2, comma 3-bis, legge n. 117/1988, nonché la ragionevole certezza del coinvolgimento in un accertamento disciplinare, ai sensi della norma sancita dall’art. 9, comma 1, legge n. 117/1988 (pure dopo le precisazioni operate dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 169 del 2021);
iii) lesive del principio del valore della indipendenza della magistratura, elemento costitutivo della declamata rule of law (art. 101, comma 2, Cost.; art. 47, comma 2, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; art. 6, comma 1, C.e.d.u.) in quanto, pure in presenza di una attività esegetica motivatamente svolta dal giudice nazionale (come nel caso di specie), quest’ultimo può essere attinto dalla minaccia della sanzione risarcitoria e disciplinare per gli esiti (non graditi) della interpretazione.
Non sembra poi irrilevante ricordare che -dopo che con ordinanza dell’11 maggio 2022 il TAR di Lecce ha investito la Corte di giustizia di una serie di quesiti sulla compatibilità eurounitaria della soluzione accolta dalle richiamate sentenze dell’Adunanza plenaria sulle proroghe delle concessioni balneari[v]- con la recente ordinanza n. 8010 del 15 settembre 2022, la VII sezione del Consiglio di Stato, in un collegio sintomaticamente presieduto dal Presidente Giovagnoli, relatore di una delle suddette sentenze, ha chiesto alla Corte di giustizia di chiarire “se gli articoli 49 e 56 TFUE e i principi desumibili dalla sentenza Laezza del 2014, dove ritenuti applicabili, ostino all’interpretazione di una disposizione nazionale quale l'articolo 49 del codice della navigazione, nel senso di imporre al titolare di una concessione rinnovata senza soluzione di continuità di cedere alla sua scadenza a titolo non oneroso e senza indennizzo le opere edilizie realizzate sull'area demaniale balneare, potendo configurare tale effetto di immediato incameramento una restrizione eccedente quanto necessario al conseguimento dell'obiettivo effettivamente perseguito dal legislatore nazionale e dunque sproporzionato allo scopo”[vi].
4. Gli ultimi arresti ripropongono la strada della revocazione.
La strada più consona per la soluzione del problema sembra dunque, come evidenziato dalla stessa Corte costituzionale, quella della revocazione.
Sul punto, in ordine al quale, come detto, correttamente, la Corte di giustizia ha escluso la propria competenza e il legislatore non sembra ancora pronto a intervenire (dal momento che, come visto, la legge delega per la riforma della giustizia civile ha previsto l’estensione dell’azione revocatoria ai soli casi di contrasto con le sentenze della Corte EDU), il Consiglio di Stato -maggiore parte in causa- sta opportunamente, ma faticosamente, cercando una sua soluzione.
Con la sentenza 26 aprile 2018, n. 2530, la IV Sezione l’aveva invero rinvenuta nell’equiparazione all’omessa pronuncia su domande o eccezioni di parte della “omessa pronuncia su questioni pregiudiziali di rilevanza europea, suscettibili di divenire oggetto (come nel caso all’esame) di una formale istanza di rimessione ad un plesso giurisdizionale (la Corte di Giustizia) diverso da quello adito, e competente in via esclusiva, per effetto delle limitazioni di sovranità cui hanno consentito gli Stati membri, ad interpretare esattamente e con uniformità di applicazione il diritto europeo”. Osservava in particolare la Sezione che “La conclusione, del resto, trova conforto in via interpretativa nell’identica ratio iuris sottesa alla nozione di domanda, altro non essendo - l’istanza di rimessione - che una domanda rivolta al giudice interno di rimettere la valutazione di una questione all’unico organo giurisdizionale deputato secondo il Trattato istitutivo a fornire l’esatta e uniforme interpretazione del diritto europeo. La rimessione, peraltro, per le Corti di ultima istanza (tale era il Consiglio di Stato nel caso de quo) rappresenta anche un preciso obbligo giuridico”. Nell’accogliere il motivo di revocazione la IV Sezione, peraltro, richiamando l’Adunanza plenaria n. 3 del 1997, aveva precisato che “siffatto errore è pur sempre di carattere senso-percettivo derivando da una lettura sbagliata (da intendersi: per errore sensoriale) del contenuto materiale dell’atto, per la quale si sostituisce una questione (quella effettivamente posta con l’istanza di rimessione) con un’altra (del tutto diversa) e ha aggiunto che l’errore deve essere caduto su un punto non controverso tra le parti, essere decisivo e di immediata rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche”.
L’orientamento è stato però disatteso dalla V Sezione, che, , nella più recente sentenza n. 834 del 2021, ha statuito che il rimedio revocatorio non è in alcun modo esperibile nei casi in cui il giudice – anche quello di ultima istanza, che ne è obbligato – “abbia omesso di formulare, anche a negativo od omesso riscontro alla istanza di parte, questione interpretativa e di operare il rinvio pregiudiziale alla Corte europea, ai sensi dell’art. 234 del Trattato”. Posizione condivisa dalla VI Sezione nella sentenza n. 1088 del 2022.
All’esito dell’ultima pronuncia della Corte di Giustizia nel caso Hoffman-La Roche, la medesima V Sezione del Consiglio di Stato, con ordinanza n. 8436 del 3 ottobre scorso, è peraltro tornata sul tema, osservando che “Sorge, però, un dubbio di ragionevolezza, poiché da una parte è preclusa la possibilità di emendare il vizio consistente nella violazione del diritto dell’Unione europea attraverso un rimedio di sicura efficacia e rapidità quale il rimedio revocatorio (da esperirsi in unico grado dinanzi allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza) e, dall’altra, è ammessa l’introduzione di un giudizio risarcitorio, che per l’articolazione nei gradi ordinari è destinato in ogni caso a svilupparsi in un arco temporale più lungo con l’esito incerto dovuto all’accertamento delle condizioni per accedere al risarcimento”. Si legge quindi, ancora, nell’ordinanza che “L’intima coerenza dell’ordinamento – ciò che lo rende razionale – è in tensione ove lo stesso errore non è considerato a tal punto ingiusto da portare alla revoca, ma le sue conseguenze ingiuste meritevoli di essere rimediate in via risarcitoria”.
La Sezione ha pertanto investito del problema l’Adunanza plenaria, chiedendole di vagliare, anche alla luce di tali considerazioni, i seguenti quesiti:
a) se e a quali condizioni la condotta del giudice che ometta di pronunciarsi sull’istanza di rinvio alla Corte di giustizia dell’Unione europea formulata da una delle parti in causa ex art. 267 T.F.U.E. sia qualificabile come omissione di pronuncia dovuta ad errore di fatto con conseguente ammissibilità della revocazione della sentenza pronunciata ai sensi degli artt. 106 cod. proc. amm. e 395, comma 1, n. 4) cod. proc. civ.;
b) in particolare, se configuri l’omissione di pronuncia di cui sopra il caso in cui il giudice non si sia pronunciato sull’istanza di rinvio in conseguenza di un fraintendimento in cui è incorso in merito alla questione di possibile incompatibilità delle disposizioni interne da applicare per risolvere la controversia con il diritto dell’Unione europea prospettata dalla parte nei motivi di appello.
5. Conclusioni.
In conclusione di questa rapida ricostruzione, non si può non esprimere ancora una volta delusione e sconcerto per le “distanze” prese dal legislatore, che costringe i Giudici interni a chiedere “aiuto” a quelli sovranazionali e la Plenaria a intervenire su una questione “di casa propria”, trovandosi chiamata a cercare un bilanciamento tra l’esigenza di evitare che un eccessivo ricorso al rimedio revocatorio frustri gli sforzi verso una tutela più celere e alteri i delicati rapporti all’interno di un istituto con pochi componenti e quella di “riparare” un errore di diritto potenzialmente foriero di responsabilità per lo Stato e per gli stessi componenti dell’organo di cui è vertice e di evitare i condizionamenti che, indirettamente, tali responsabilità determinano nei decisori (stretti a loro volta tra la sollecitazione a chiudere i processi in tempi irragionevolmente brevi e quella di prevenire un rischio risarcitorio o disciplinare).
Una soluzione più opportuna sembrerebbe allora quella della rimessione del tema alla Corte costituzionale, nell’auspicio che, di fronte all’inerzia del legislatore, trovi un componimento dei diversi interessi costituzionalmente rilevanti a un livello superiore a quello dei diretti interessati.
*L’articolo riproduce il testo della relazione al Convegno del Dottorato di ricerca in Diritto dell’Unione europea e ordinamenti nazionali, tenuto presso l’Università degli Studi di Ferrara, Dipartimento di Giurisprudenza – Sede di Rovigo, 13-14 ottobre 2022).
[i] Senza pretesa di esaustività, cfr., oltre al volume di AA.VV., Limiti esterni di giurisdizione e Diritto europeo. A proposito di Cass. Sez. Un. N. 19598/2020, a cura di A. Carratta, Roma, 2021 (e ivi anche la richiamata Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni unite della Corte di cassazione n. 19598 del 2020), la “trilogia” di F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro, in Giustiziainsieme, 2020; Id, Quel pasticciaccio della questione di giurisdizione. Parte seconda: conclusioni di un convegno di studi, in Federalismi, 2020 e Il pasticciaccio parte terza. Prime considerazioni su Corte di Giustizia UE, 21 dicembre 2021 C-497/20, Randstad Italia spa, ivi, 2022; M. Magri, Individuazione dell’interesse legittimo e accertamento della legittimazione ad agire nel processo amministrativo, dopo il “caso Randstad”, in Giustiziainsieme, 2022; M. Mazzamuto, Il dopo Randstad: se la Cassazione insiste, può sollevarsi un conflitto?, ivi, 2022; B. Nascimbene e P. Piva, Il rinvio della Corte di Cassazione alla Corte di giustizia: violazioni gravi e manifeste del diritto dell’Unione europea?, in Giustiziainsieme, 2020; B. Sassani, L’idea di giurisdizione nella guerra delle giurisdizioni. Considerazioni politicamente scorrette*, in Judicium –Il processo civile in Italia e in Europa, 2020; B. Sassani e B. De Santis, Diniego di tutela giurisdizionale e poteri delle Sezioni Unite alla luce del diritto unitario europeo. Riflessioni a caldo su una decisione annunciata., ivi, 2022; G. Tropea, Il Golem europeo e i «motivi inerenti alla giurisdizione» (Nota a Cass., Sez. un., ord. 18 settembre 2020, n. 19598), in Giustiziainsieme, 2020; E. D’Alessandro, Brevi riflessioni sul rinvio pregiudiziale interpretativo operato dalle Sezioni Unite in riferimento all’art. 111, 8 comma, Cost., in Il giusto processo civile, I, 2021, 153; E. Zampetti, Diritto dell’Unione europea e articolo 111 co. 8 Cost. Considerazioni a margine del caso Randstad sui profili problematici della nomofilachia differenziata, in Giustiziainsieme 2022; nonché le “interviste” su La Corte di Giustizia risponde alle S.U. sull’eccesso di potere giurisdizionale. Quali saranno i “seguenti” a Corte Giust., G.S., 21 dicembre 2021 – causa C-497/20, Randstad Italia? di R. Conti a F. Francario, G. Montedoro, P. Biavati e R. Rordorf, in Giustiziainsieme, 2022.
[ii] M.A. Sandulli, Processo amministrativo, sicurezza giuridica e garanzia di buona amministrazione, in Il processo, n. 3/2018, pp. 45 ss.
[iii] 22 marzo 2017, n. 1297.
[iv] Cons. Stato, Sez. IV, 15 luglio 2019, n. 4949.
[v] Sull’ordinanza cfr. il commento di R. Dipace, Concessioni “balneari” e la persistente necessità della pronuncia della Corte di Giustizia, in Giustiziainsieme, 2022.
[vi] Appare interessante a tale riguardo osservare che, nel definire uno dei giudizi su cui era intervenuta la Plenaria, con sentenza del 23 maggio 2022, ma resa all’esito di una c c del 19 aprile, la Sezione, in collegio diverso, ma con il medesimo Presidente, dichiarando l’inammissibilità degli interventi successivi all’investimento dell’Adunanza plenaria (che, essendo stato disposto direttamente dal Presidente del Consiglio di Stato prima della scadenza dei termini per eventuali difese o interventi, non ne aveva consentito la presentazione) aveva ignorato l’identica eccezione prospettata dagli intervenienti!
Il progressivo sviluppo del sindacalismo militare tra discontinuità e incertezze
di Flavio Vincenzo Ponte, Angelo Giammarini e Brigida Sganga
Lo scritto prende in esame l’evoluzione e le possibilità di sviluppo dell’attività sindacale nei rapporti di lavoro radicalmente gerarchizzati, prendendo le mosse dall’impulso fornito nel 2018 dalla Consulta al Legislatore.
Sommario: 1. La progressione democratica dell’ordinamento militare. - 2. La concreta percorribilità delle libertà sindacali. - 3. La tutela giurisdizionale e le pregiudiziali di rito. - 3.1. Gli orizzonti del diritto di critica sindacale. - 3.2. Il trasferimento di sede dei sindacalisti militari. - 4. La contrattazione collettiva del comparto militare.
1. La progressione democratica dell’ordinamento militare
L’attività sindacale militare - tradizionalmente concepita come una contradictio in terminis - è tanto affascinante quanto attuale, ed è destinata a rimanere al centro del dibattito dei prossimi anni, rappresentando, il suo riconoscimento, un significativo momento di sviluppo dell’ordinamento giuridico[1].
La base di partenza del presente saggio è da ricondursi all’atavico divieto per i militari di costituire associazioni sindacali, giustificato dalle peculiarità del comparto, che affonda le sue radici in un passato pre-repubblicano[2] ed è riuscito a rimanere intatto, per lungo tempo, anche a dispetto della disciplina costituzionale che, sin dalla sua entrata in vigore, sanciva il superamento della c.d. concezione istituzionalistica, fondata sulla pretesa autonomia e separatezza dell’ordinamento militare rispetto a quello statale, in favore del c.d. rapporto di continenza, tale per cui il primo ordinamento rappresenta un sub apparato del secondo[3].
La natura delle funzioni svolte dal personale militare ha, da sempre, giustificato l’affievolimento o la limitazione dell’esercizio di alcuni diritti costituzionalmente garantiti – primo tra tutti quello di associazione sindacale – e, nel corso degli anni, non sono certamente mancati orientamenti giurisprudenziali che, statuendo la prevalenza degli interessi delle organizzazioni militari rispetto alle garanzie degli appartenenti, hanno di fatto incoraggiato ampi spazi di compressione, talvolta anche assoluta, di alcune libertà.
In un primo pronunciamento del Consiglio di Stato del 1966[4], vertente sulla libertà sindacale degli appartenenti alla Polizia di Stato (che all’epoca rivestivano lo status di militari), si affermava la legittimità del divieto di adesione ad associazioni sindacali ritenendo queste ultime non completamente sganciate dai partiti politici: una siffatta situazione avrebbe compromesso la separatezza tra le strutture militari e la dialettica politica[5].
Particolarmente rilevante una successiva Sentenza della Corte Costituzionale del 1999[6], con la quale la legittimità del divieto di associazionismo sindacale veniva giustificata dall’assoluta specialità della funzione, svolta dal personale militare (nel caso di specie, dall’Arma dei Carabinieri), e dalla necessità di salvaguardare principi di coesione interna e neutralità su cui si fonda l’ordinamento militare, incompatibili con l’esercizio dell’attività sindacale.
Già negli anni Ottanta si inizia a respirare aria di cambiamento, con forti segnali di discontinuità rispetto al passato: la smilitarizzazione di importanti Corpi di Polizia[7] ha segnato un importante passo verso il tanto agognato quanto ostacolato lento processo di “democratizzazione” dell’ordinamento militare. Tale innovazione, tuttavia, ha anche fatto sorgere un sistema “monco” nel quale le libertà sindacali sono state riconosciute alle Forze di Polizia ad ordinamento civile e, allo stesso tempo, sono state negate ai Corpi militari, con l’asserita pretesa di scongiurare una minaccia alla loro coesione interna.
Un binomio imperfetto che viene messo in crisi all’inizio degli anni duemila.
Degne di rilievo le risoluzioni e le raccomandazioni del Consiglio d’Europa[8], volte ad equiparare gli appartenenti delle Forze Armate degli Stati membri ai lavoratori ordinari e, quindi, a renderli destinatari delle tutele previste dalla CEDU (Carta Europea dei Diritti dell’Uomo), nonché a garantire agli stessi il diritto di costituire, aderire e partecipare ad associazioni per la tutela degli interessi professionali. Ad assumere un ruolo fondamentale in questo contesto anche la CSE (Carta Sociale Europea), pure adottata dal Consiglio d’Europa nel 1961 e riveduta nel 1996, che prevede un doppio impegno per i Paesi aderenti: quello, cioè, di non pregiudicare la libertà sindacale, per la generalità dei soggetti, e quello di determinare, tramite legislazione nazionale, la misura di applicazione della medesima per i militari (per i quali, evidentemente, non è preclusa)[9].
Sulla base di queste premesse è intervenuta nel 2014 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con due importanti sentenze, attraverso le quali è stata dichiarata l’illegittimità del divieto di associazionismo sindacale, previsto dall’ordinamento francese, per contrasto con l’art. 11 della CEDU[10]. Nel primo pronunciamento, in particolare, i Giudici di Strasburgo hanno stabilito che l’affievolimento della specifica libertà, per essere compatibile con la Convenzione, deve trovare fondamento nella legge, per il raggiungimento di obiettivi “particolarmente degni di tutela” in una società democratica. Nella seconda sentenza, invece, la Corte ha riconosciuto l’inadeguatezza dei tradizionali organismi di rappresentanza militare[11] per la tutela dei diritti dei militari, in ragione della loro mancata indipendenza dalla struttura d’appartenenza, ribadendo, altresì, l’inadeguatezza del bilanciamento operato nell’ordinamento francese tra specificità delle forze armate e libertà sindacali – attraverso una preclusione dell’esercizio di queste ultime[12] - poiché lesivo dell’essenza delle libertà associative dei militari[13].
Nel 2018 i tempi erano maturi affinché si verificasse, anche nell’ordinamento nostrano, un momento di rottura con il passato. Il 13 giugno 2018 è caduto, sotto la scure della Consulta, il tabù del riconoscimento della libertà di associazione sindacale ai militari[14]. Con la sentenza n. 120 del 2018 la Corte Costituzionale ha segnato una tappa fondamentale verso il lungo cammino per la democratizzazione dei rapporti di lavoro del personale militare e ad essa va riconosciuto l’indiscusso merito di aver trovato argomentazioni nuove e condivisibili per la rimozione dello specifico divieto, senza entrare però in contrasto con i precedenti orientamenti di senso contrario[15]. Per tali motivi è da apprezzare la scelta del Giudice delle Leggi di affrontare la questione facendo leva sulle spinte internazionali ed europeiste e sul riconoscimento (peraltro per la prima volta) della CSE quale parametro interposto per la valutazione della legittimità costituzionale delle leggi dello Stato, analogamente a quanto già avveniva per la CEDU[16] (della quale la Carta Sociale costituisce il naturale completamento, sul piano sociale, per la realizzazione di un sistema integrato di tutela dei diritti fondamentali).
Pur riconoscendone la portata epocale, tale pronunciamento continua però a rappresentare solo il punto di partenza verso nuovi scenari che restano connotati dalle difficoltà di addivenire ad un’effettiva realizzazione delle libertà sindacali.
L’intervento del Legislatore, tanto atteso e auspicato, ha trovato concretizzazione con la Legge n. 46 del 28 aprile 2022, che ha rappresentato un notevole passo in avanti verso la democratizzazione, anche se non in grado di soddisfare appieno le aspettative: nonostante il tortuoso iter legislativo, infatti, il testo approvato confeziona un sistema sindacale “incompleto”, rinviandone la piena operatività all’adozione di decreti attutativi che potrebbero essere approvati ben oltre i termini previsti per la loro entrata in vigore.
Tra le principali note dolenti della nuova normativa vi è il nodo della rappresentatività sindacale[17] che assume una valenza strategica non solo per la contrattazione collettiva di comparto, come avviene di consueto, ma, in particolare, per la rilevanza delle attribuzioni demandate alle associazioni[18] e, più in generale, per le sorti del sindacalismo militare. Per altro verso, la consistenza associativa viene relegata ad una dimensione puramente formale.
Com’è noto, nel pubblico impiego, per essere ammessi ai tavoli negoziali, è necessario raggiungere la soglia di rappresentatività del 5 %, considerando a tal fine la media tra dato associativo, inteso quale percentuale delle deleghe per il versamento dei contributi sindacali rispetto al totale delle deleghe rilasciate, e dato elettorale, inteso quale percentuale dei voti ottenuti dalle sigle sindacali nelle elezioni delle rappresentanze unitarie del personale rispetto al totale dei voti espressi.
Nel comparto militare il Legislatore ha, invece, deciso di ancorare la rappresentatività minima al raggiungimento di un numero di iscritti pari al 4 % del personale effettivamente in servizio, nella Forza Armata o di polizia ad ordinamento militare, ovvero pari al 3 %, nei casi di sindacati composti da appartenenti a Corpi militari differenti.
Questa scelta avrà, come inevitabile conseguenza, il ridimensionamento del pluralismo sindacale: fatta eccezione per il primo triennio, in cui sono previsti parametri più favorevoli, nei periodi successivi, per le associazioni sarà particolarmente arduo raggiungere la soglia richiesta dalla legge e, di conseguenza, l’assenza del requisito in argomento costringerà le stesse associazioni ai margini della rappresentanza, stante il limitato margine di manovra.
Una simile distinzione, invece, sarebbe stata eventualmente giustificabile ai soli fini della partecipazione dell’associazione sindacale alla contrattazione collettiva e non come discrimen per l’attribuzione di tutele e diritti.
2. La concreta percorribilità delle libertà sindacali
Con la sentenza n. 120 del 2018 la Consulta ha rimandato la regolamentazione del sindacalismo militare ad una normativa di settore ma, nel frattempo, ha anche esteso ai sindacati militari la previgente disciplina degli organismi di rappresentanza.
Nell’adozione di tale scelta affonda probabilmente le radici la volontà di non accelerare troppo sul sindacalismo militare: nonostante l’assenza di punti in comune, la disciplina dei sindacati – che si fonda sull’autonomia associativa, sul pluralismo organizzativo e sulla pretesa autonomia rispetto alla parte datoriale – è di fatto parificata, nella motivazione elaborata dalla Corte, a quella degli organismi di rappresentanza che si basano sulla partecipazione obbligatoria del personale ex lege, sull’assetto unitario e sulla preventiva condivisione delle tematiche da trattare con la superiore gerarchia.
Certo è che nel vuoto normativo, come riconosciuto da autorevole dottrina, dovevano necessariamente trovare applicazione delle norme che, nella architettura reggente la motivazione della Consulta, potessero permettere il regolare svolgimento dell’attività sindacale militare: diversamente, la pronuncia si sarebbe ridotta alla mera enunciazione di principio[19]. Per lo sviluppo del sindacalismo militare vi era, quindi, la necessità di individuare, sin da subito, un nocciolo duro di precetti immediatamente applicabili.
In tal senso potevano venire in rilievo talune disposizioni del COM (Codice dell’Ordinamento Militare), previste per la generalità dei militari, quali, ad esempio, quelle sul divieto dei motivi discriminatori nell’assegnazione degli incarichi (eventualmente applicabili, anche se non espressamente tipizzati, anche agli incarichi sindacali), quelle sul divieto di applicazioni di sanzioni disciplinari per l’esercizio dei diritti riconosciuti (tra i quali potevano annoverarsi quelli sindacali) oppure, ancora, quelle sulla libera manifestazione del pensiero, che ben potevano includere il diritto di critica sindacale.
Ed ancora per il regolare svolgimento dell’attività sindacale militare si poteva optare per alcune norme dello Statuto dei lavoratori come quelle sul diritto di assemblea, all’interno ovvero all’esterno dei luoghi di lavoro, o quelle sul finanziamento delle associazioni, per garantire la trasparenza dei bilanci, che non possono essere vietate, sospese o limitate dall’Amministrazione d’appartenenza, poiché ciò darebbe luogo ad una condotta antisindacale.
Per di più si rende sempre più necessario il superamento del modello istituzionale, oramai desueto e non più al passo con i tempi, in favore di quello occupazionale[20]. In altri termini, bisognerebbe mettere da parte la teoria secondo la quale le associazioni a carattere sindacale produrrebbero una sorta di linea parallela rispetto alla catena di comando, con contestuale compromissione della prontezza e dell’efficienza dei corpi militari, ed accedere all’idea che le medesime potrebbero agire anche in un’ottica partecipativa e collaborativa, con un conseguente miglioramento generalizzato delle condizioni dei cittadini in armi.
Altro aspetto centrale è quello del bilanciamento tra i principi della disciplina militare[21] e le prerogative sindacali, dove lo squilibrio tra i due ambiti determinerebbe un’ingiustificata supremazia dell’uno sull’altro.
Ed è proprio questo che è accaduto nel periodo transitorio: la gerarchia militare, infatti, non è stata in grado di distinguere, in attesa della definitività della nuova legge in materia, tra militare “lavoratore”, assoggettato alle regole proprie dello status rivestito, e militare “sindacalista”, sottoposto a restrizioni “attenuate” dalle nuove funzioni espletate.
Ancora oggi, all’indomani dell’intervento legislativo, la vera difficoltà risiede nell’adattamento delle limitazioni del COM, legittimamente introdotte a garanzia della tenuta delle strutture militari, alla rinnovata realtà sindacale, dai tratti caratteristici dinamici e multiformi. Ed è proprio dalla consapevolezza che la “disciplina militare” determinerà sempre e comunque libertà sindacali “mitigate” che sorge la necessità di assicurare il regolare svolgimento dell’attività sindacale attraverso un idoneo e mirato meccanismo di tutele.
Perdipiù, da questo punto di visita, è stato ampiamente riconosciuto che la sindacalizzazione dei militari è un’opzione concretamente percorribile anche in un contesto fortemente gerarchizzato. Anzi negli altri Stati con un budget limitato dedicato al comparto difesa e sicurezza, l’associazionismo sindacale rappresenta una valvola di sfogo dell’insofferenza del personale – in un contesto in cui si verifica una compressione dei diritti, in ragione del peculiare servizio svolto, rispetto a quelli riconosciuti agli altri dipendenti dello Stato – senza però aumentare i rischi di politicizzazione ed inefficienza[22].
Per la ricerca del delicato punto di equilibrio tra i due ambiti sarebbe necessario, allora, sacrificare reciprocamente taluni fondamenti dell’ordinamento militare e altri propri di quello sindacale, attraverso quello che potrebbe definirsi come un salto logico-generazionale da entrambe le parti del rapporto di lavoro: se, per un verso, la parte datoriale, cauta e preoccupata per l’avvento del modello conflittuale, dovrà saper accettare il cambiamento e dimostrarsi all’altezza delle nuove sfide, per altro verso, la parte sindacale, soddisfatta per la rimozione dell’ancestrale divieto, dovrà essere in grado di cogliere le nuove occasioni e di improntare la propria attività ad un modello pienamente collaborativo.
Ed è proprio questa la ratio legis che ispira la novella legislativa, orientata verso un’idea innovativa di compliance tra parte datoriale e sindacale salvo poi essere, purtroppo, eccessivamente mitigata dai retaggi del precedente sistema delle “rappresentanze militari”, profondamente differenti, nonostante l’assonanza lessicale, rispetto alle “rappresentanze sindacali”[23].
Un segnale tangibile in tal senso è l’anacronistica e perdurante esclusione dei sindacati militari da tutte quelle materie già precluse agli organismi di rappresentanza. In tal senso è rimessa all’Amministrazione la possibilità di decidere autonomamente, senza preventivi confronti con la parte sindacale, su questioni diverse ma di precipuo interesse per il personale che spaziano dalla logistica (quali, esemplificando, le mense obbligatorie di servizio e le disponibilità alloggiative) fino all’ordinamento (ad esempio, le modifiche del rango dei Reparti e delle articolazioni interne).
3. La tutela giurisdizionale e le pregiudiziali di rito
La sentenza del 2018 e le incertezze che hanno caratterizzato l’intervento legislativo di adeguamento hanno in qualche modo favorito una certa confusione nelle diverse amministrazioni: mentre il Parlamento indugiava con l’approvazione di una legge in materia e l’Amministrazione militare manteneva posizioni conservatrici (formalizzate in atti interni), i singoli appartenenti incalzavano le datrici di lavoro e costituivano associazioni per la tutela dei propri diritti.
Chiaramente la proliferazione dei nuovi sindacati, seppur connotata da una forte valenza innovativa, non era di per sé sufficiente a consentire l’effettiva tutela degli interessi collettivi degli iscritti. Da ciò emerge il disagio del personale del comparto e la disaffezione per gli organismi di rappresentanza, di fatto ritenuti non idonei alla tutela degli interessi dei militari a causa della particolare vicinanza alla catena di comando.
Tuttavia, durante il regime transitorio, le nuove associazioni non sono rimaste inerti ma hanno comunque esercitato un’attività sindacale che, seppur minima, è stata, in alcuni casi, tanto ostacolata da determinare la presentazione di ricorsi dinanzi al Giudice ordinario per la repressione di condotte antisindacali. Essendo la Giurisprudenza l’unico baluardo a tutela delle pretese sindacali, si sono registrate diverse vertenze accomunate da pregiudiziali di rito, sollevate dalla parte datoriale, relative alla legittimazione ad agire in giudizio dei nuovi sindacati e alla giurisdizione[24].
Sul primo aspetto la giurisprudenza lavoristica è concorde nel ravvisare la sussistenza del requisito della diffusione nazionale, che attribuisce la legittimazione attiva alle sigle sindacali tenuto conto della struttura organizzativa, e dell’attività svolta, che non deve necessariamente coincidere con la stipula dei contratti collettivi ma anche soltanto con lo svolgimento di un’effettiva azione sindacale su gran parte del territorio nazionale. Di conseguenza i sindacati (militari e non) in possesso di tali requisiti sono abilitati ad agire in giudizio[25].
Sul riparto di giurisdizione si registrano, invece, orientamenti differenti. Il Tribunale di Roma ha declinato la propria giurisdizione in favore di quella amministrativa facendo leva sull’art. 3 comma 1 TUPI che esclude l’applicazione della disciplina del pubblico impiego contrattualizzato nei confronti del personale militare e ne rimanda la regolamentazione al rispettivo ordinamento[26]. Tale prospettiva non appare pienamente convincente poiché la richiamata normativa esclude le forze dell’ordine dalla disciplina sostanziale del pubblico impiego privatizzato ma non dalle regole processuali. In merito a queste ultime il COM nulla menziona sulla giurisdizione delle controversie lavoristiche, individuali o collettive, ed il CPA riconosce la giurisdizione del Giudice Amministrativo in materia di diritti, quali quelli sindacali, nei soli casi previsti dalla legge.
A seguire, il Tribunale di Milano ha riconosciuto la giurisdizione del Giudice del lavoro facendo leva, al contrario, sulla casistica relativa a quei sindacati costituiti da personale soggetto al regime di diritto pubblico[27] rimasto escluso, come quello militare, dalla contrattualizzazione del pubblico impiego[28]. Si tratta di una singolare ed innovativa interpretazione facente leva sulla prevalenza del comma 3 dell’art. 63 comma del TUPI – nella parte in cui devolve al Giudice ordinario, senza eccezioni, le controversie sulle condotte antisindacali delle PA – rispetto al successivo comma 4, che rimette, invece, al Giudice amministrativo la cognizione sulle vertenze riguardanti i rapporti di lavoro del pubblico impiego non contrattualizzato. Ciò in base al duplice presupposto della maggiore genericità del secondo precetto rispetto al primo e dell’avvenuta abrogazione di quelle disposizioni statutarie[29] sulla ripartizione della giurisdizione in materia di condotte antisindacali nella PA, foriera della volontà di attribuire al giudice ordinario la competenza esclusiva in materia. In quest’ottica, dunque, il Giudice del lavoro è da ritenersi quello naturalmente preposto alla trattazione delle controversie della specie poiché già in possesso, in virtù della sua elevata specializzazione, delle competenze necessarie ad affrontare questioni sindacali militari.
Va detto, tuttavia, che la scelta legislativa non premia gli sforzi interpretativi condotti dalla magistratura: a mente dell’art. 17, infatti, la giurisdizione è devoluta a favore del Giudice amministrativo.
3.1. Gli orizzonti del diritto di critica sindacale
Il diritto di critica sindacale rientra nella libera manifestazione del pensiero e spesso sfocia, per sua stessa natura, in espressioni forti e provocatorie utilizzate dai sindacalisti per tutelare, talvolta anche con veemenza, gli interessi collettivi dei lavoratori[30]. Nell’ambito militare questa prerogativa sindacale non può trovare un’applicazione piena e incondizionata, a causa delle esigenze di tutela dell’immagine e del prestigio delle Forze Armate ma, al contempo, non può essere svilita al punto tale da essere ancorata alla preventiva comunicazione ai superiori gerarchici.
Anche in questo caso risulterà cruciale la costante ricerca di un punto d’incontro tra i due ambiti. In particolare, la parte datoriale, abituata alla risoluzione delle problematiche dall’interno e nel rispetto di procedure uniformi, dovrà accettare di ricevere possibili critiche in merito al suo operato e la parte sindacale, animata da un comprensibile entusiasmo, dovrà rinunciare a toni aspri e provocatori ed esprimere idee improntate ad una fattiva collaborazione.
In realtà nel periodo transitorio le Amministrazioni militari hanno sempre mantenuto posizioni molto caute sulla specifica tematica, come se nulla fosse cambiato rispetto al passato, non tralasciando di elevare sanzioni disciplinari nei confronti di quei sindacalisti che esprimevano considerazioni non in linea con quelle della gerarchia. Ciò ha evidentemente determinato una compressione del diritto di critica sindacale.
Un caso emblematico, dal quale provengono interessanti spunti di riflessione, è sicuramente quello di un Maresciallo dei Carabinieri in servizio nella regione Basilicata che, in qualità di segretario regionale di una neo-costituita associazione sindacale, aveva rilasciato un’intervista ad un emittente televisiva locale, nel periodo del c.d. primo lockdown imposto per fronteggiare la pandemia nel 2020, segnalando la carenza di dispositivi di protezione individuale e l’inidoneità all’uso, perché scaduti, dei prodotti di sanificazione a disposizione delle forze dell’ordine impiegate nei servizi di contrasto alla diffusione dell'epidemia da Covid-19. In virtù di tali esternazioni, il Sottufficiale veniva deferito all’Autorità Giudiziaria ordinaria e militare, con procedimenti definiti con archiviazione; nonostante ciò, però, il Ministero della Difesa decideva di adottare nei suoi confronti una sanzione disciplinare sospensiva dall’impiego in servizio a causa della mancata autorizzazione a rendere dichiarazioni in pubblico, oltretutto ritenute non veritiere, che compromettevano l’immagine dell’Arma.
Presentato ricorso avverso la condotta antisindacale del datore di lavoro, il Giudice della fase sommaria riconosceva la legittimità delle esternazioni rese dal carabiniere, posto che non riguardavano circostanze riservate, soggette al preventivo assenso della gerarchia, ma piuttosto temi che in quel periodo erano quotidianamente riprodotti dagli organi di stampa. Era già stata diffusa dagli organi di stampa la notizia della carenza dei DPI a disposizione delle forze di polizia e della cittadinanza. Per tali ragioni le dichiarazioni erano state rese al solo fine di sensibilizzare l’Amministrazione ad una maggior tutela dei suoi dipendenti[31]. Il Giudice della fase della cognizione piena nulla aggiungeva sul merito della vertenza e rigettava il ricorso per difetto di giurisdizione. Il Giudice amministrativo, anch’esso adito dall’associazione sindacale, riteneva, al contrario, illegittimo l’esercizio del diritto di critica, basandosi in primis sull’irrilevanza della questione della preventiva autorizzazione, richiamata solo incidentalmente nel provvedimento sanzionatorio disciplinare, ed in secundis sulla non veridicità delle dichiarazioni rese dall’Ispettore, in relazione alla tempestività ed alla quantità di dpi distribuiti dal Comando Legione Basilicata (tenuto conto anche delle difficoltà di approvvigionamento dell’epoca). In aggiunta, il TAR osservava che le esternazioni erano state rese ad un telegiornale regionale, nell’ambito di un servizio giornalistico riguardante le forze di polizia operanti sul territorio lucano, e, per questo, erano da qualificarsi come specifiche censure rivolte ai vertici locali dell’Arma[32].
Orbene, le conclusioni a cui è pervenuto il Giudice amministrativo risultano difficilmente condivisibili, soprattutto con riguardo alla dimensione della problematica rappresentata dal sindacalista che, in quel momento, era evidentemente di respiro nazionale. All’epoca dei fatti si assisteva, infatti, ad una notevole difficoltà di approvvigionamento di mascherine di protezione nei mercati internazionali, con conseguente scarsità e irreperibilità delle stesse per chiunque.
Viceversa, il Giudice del lavoro è stato in grado di ricondurre le esternazioni rese dal carabiniere al contesto sindacale in cui erano effettivamente maturate, così dimostrando di saper distinguere, in maniera inequivocabile, tra la nuova figura del sindcalista militare, assistita da peculiari guarentigie, e quella tradizionale di mero lavoratore, sottoposto alle limitazioni del COM.
La nuova cornice legislativa sancisce la libera manifestazione del pensiero dei militari che ricoprono cariche elettive, nelle sole associazioni rappresentative a livello nazionale, con riguardo alle sole materie di loro competenza ed a patto che non si tratti di affari riservati. La possibilità per i sindacalisti di esprimere considerazioni critiche non è illimitata ma viene bilanciata dalla correttezza formale e dalle limitazioni poste dal COM a salvaguardia dell’immagine e del prestigio istituzionale. Solo rispettando detti requisiti le condotte dei sindacalisti potranno essere scriminate dalla rilevanza sanzionatoria.
Tale soluzione sarebbe anche condivisibile, dal punto di vista sostanziale, se non fosse per la minor tutela riconosciuta alle associazioni sindacali non rappresentative i cui dirigenti pur potendo, al pari degli altri, intrattenere rapporti con gli organi di stampa, rimangono inspiegabilmente esclusi dal beneficio dell’irrilevanza disciplinare delle dichiarazioni rese in pubblico (al ricorrere dei requisiti). Il riferimento è agli articoli 14 e 15 della L. 46 del 2022 che disciplinano, rispettivamente, il sistema di tutele delle associazioni sindacali ed i rapporti delle medesime con gli organi di stampa.
3.2. Il trasferimento di sede dei sindacalisti militari
Un'altra materia degna di attenzione è quella dei trasferimenti dei dirigenti sindacali, da trattare tenendo presente la disciplina generale sulla mobilità: nello specifico comparto, i trasferimenti, infatti, possono sostanzialmente avvenire ad istanza di parte, con iter ordinario, oppure, in maniera eccezionale, possono essere disposti d’ufficio, per esigenze di servizio o per incompatibilità ambientale.
La prima ipotesi è quella che si verifica con maggior frequenza e non pone particolari problemi poiché è lo stesso destinatario del provvedimento che nutre uno specifico interesse a perfezionare il movimento, a sollecitare la datrice di lavoro. La seconda ipotesi è, invece, particolarmente spinosa: ha generato un discreto contenzioso nel precedente vuoto normativo ed oggi oggetto di specifico intervento regolatore.
Nel precedente regime transitorio, con riguardo agli avvicendamenti dei sindacalisti, le Amministrazioni militari hanno, in sostanza, confermato le tradizionali posizioni conservatrici. Proprio questo concetto emerge in due occasioni, tra di loro agli antipodi, oggetto di distinte vertenze dinanzi al Giudice ordinario di Milano e di Roma.
Nel primo caso un sindacato militare ricorreva avverso il trasferimento d’autorità disposto, senza preventive intese, nei confronti del proprio segretario generale regionale, un Ufficiale in servizio presso un Reparto dei Carabinieri milanese.
La questione vedeva contrapporsi da un lato la parte datoriale che poneva alla base della sua decisione, oltre alle esigenze di servizio, il ritardo nella nomina dell’interessato nel direttivo dell’associazione, avvenuto in costanza delle procedure per gli avvicendamenti, e dall’altro la parte sindacale, che metteva in evidenza il ruolo di primario rilievo dell’Ufficiale, qualificandolo come uno dei pochi in grado di svolgere una serie di delicate mansioni. Il Giudice della fase sommaria si concentrava sulla legittimazione ad agire dell’associazione sindacale. Viceversa, il Giudice della cognizione piena ponendo a confronto la disciplina statutaria, applicabile nei casi di datore di lavoro pubblico o privato, con la disciplina dell’art.1482 COM giungeva alla conclusione che il trasferimento disposto senza consultare l’associazione sindacale sviliva e violava le prerogative della stessa.
Nel secondo caso, invece, un’associazione sindacale ricorreva avverso il trasferimento di un Carabiniere, rivestente il ruolo di segretario nazionale dell’associazione, disposto, senza preventive intese, per incompatibilità ambientale a seguito del coinvolgimento dello stesso in un procedimento penale.
Sia nella fase sommaria che in quella a cognizione piena, il ricorso è stato rigettato per difetto di giurisdizione e la vertenza non è stata trattata nel merito[33].
Sulla specifica tematica dei trasferimenti il legislatore ha mostrato una certa attenzione. L’art. 14 comma 1 lettera b) vieta il trasferimento di militari che ricoprono cariche elettive, senza una preventiva intesa con l’associazione di appartenenza, ponendo, tuttavia, quale eccezione rispetto alla regola il trasferimento per incompatibilità ambientale (dovuto ad esigenze sopravvenute ed eccezionali). Il limite che si rinviene in tale disciplina affonda le radici nella evidente contraddizione che riguarda l’ìambito di applicazione: questa garanzia è infatti riconosciuta ai soli militari che ricoprono cariche elettive nelle associazioni rappresentative a livello nazionale; gli altri, che pure svolgono un’attività sindacale, non possono accedere alla stessa tutela.
4. La contrattazione collettiva del comparto militare
Un altro versante ove i sindacati militari potrebbero fare la differenza è sicuramente quello della contrattazione collettiva, quale sede naturale nella quale trovano sintesi gli interessi contrapposti delle parti del rapporto di lavoro.
Una rilevante anomalia del precedente sistema, connotato da una complessità di fondo, era dovuta alla bipartizione delle procedure dei rinnovi contrattuali, all’interno del medesimo comparto, distinte per personale dirigenziale, senza alcun supporto di natura sindacale, e personale sprovvisto della qualifica dirigenziale, con un intervento minimo degli organismi di rappresentanza.
Nel primo caso la parte economica del contratto veniva adeguata tramite D.P.C.M., con cadenza periodica, agli incrementi medi – conseguiti nell’anno precedente a quello di riferimento – previsti per i dipendenti pubblici contrattualizzati. Soltanto in seguito, con l’attuazione della Riforma Madia, è stata istituita un’area negoziale, per i dirigenti delle Forze di Polizia ad ordinamento civile, estendibile ai militari ma solo a titolo eventuale e per finalità di perequazione[34].
Nel secondo caso veniva invece in rilievo la concertazione, applicata alla maggior parte del personale, alla quale partecipavano i Ministri, ovvero i Sottosegretari competenti, e le delegazioni composte dai Comandanti Generali dei Corpi militari, o loro delegati, ed i rappresentanti del Consiglio Centrale di Rappresentanza (COCER)[35].
Questa procedura poneva non poche perplessità con riguardo al ruolo riservato alle rappresentanze militari. Alla concertazione, infatti, partecipava il solo COCER, rimanendone esclusi gli altri, con funzioni integrative e mai sostitutive rispetto a quelle della scala gerarchica[36]. Perdipiù, la stessa natura di questo organismo escludeva, in radice, la possibilità di assumere posizioni contrapposte rispetto ai vertici dell’Amministrazione[37]. L’organismo di rappresentanza era relegato ad un ambito di nicchia poiché svolgeva un’attività di mera informazione, per mettere in risalto le richieste dei colleghi rappresentati, nonché di consulenza su determinate materie di competenza[38].
Sui profili di criticità della concertazione si è soffermata autorevole dottrina nella fase di approvazione del provvedimento legislativo, qualificandola come «surrogato sbiadito della contrattazione» ed auspicandone un miglioramento attraverso l’ancoraggio della stessa a punti certi, quali, in maniera esemplificativa, l’individuazione delle materie da ritenere a monte “non negoziabili” e la rivisitazione della procedura[39].
Anche con riferimento a tale ambito, il cuore del problema rimane quello della ricerca di un coerente equilibrio tra le specificità dell’ordinamento militare e l’apertura verso la contrattazione collettiva. Nell’attuale assetto, tuttavia, si verifica uno squilibrio sul primo versante con un nuovo sistema che risente troppo dell’influenza del precedente. Per questo motivo non è eccessivo parlare di occasione mancata.
Anzitutto vi è la questione delle materie oggetto di trattazione da parte dei sindacati militari, nell’ambito della contrattazione collettiva, che avrebbe meritato, da parte del Legislatore, una riflessione più attenta, peraltro sollecitata da lungimirante dottrina in tempi non sospetti. Ad esempio, per quanto attiene all’organizzazione delle strutture militari e alla determinazione delle dotazioni organiche, sarebbe sicuramente utile, per un miglioramento generalizzato del benessere del personale, introdurre un confronto tra Amministrazione e sindacato, anche nelle forme della consultazione preventiva ed obbligatoria. Andrebbe, poi, instaurato un processo autenticamente negoziale con riguardo alla fissazione dei criteri generali, cui la parte datoriale dovrebbe attenersi per l’esercizio del potere di trasferimento e per l’impiego del personale, così da incrementare la trasparenza dell’azione amministrativa[40].
Altro aspetto di rilievo è poi quello dell’attribuzione dei poteri negoziali alle nuove associazioni, qualificate come parti sindacali. Neppure in questo ambito si potrà assistere al radicale cambiamento sperato: continueranno, difatti, ad osservarsi le precedenti procedure, distinte per personale munito o sprovvisto della qualifica dirigenziale, e soprattutto le sigle sindacali potranno intervenire sulle sole materie già riservate all’intervento del COCER.
In altri termini sul punto si assiste ad un intervento normativo che sembra solo formale, con la previsione di pochi elementi di novità rispetto al passato e, soprattutto, con l’ulteriore aggravio di un futuro (e, forse, incerto) intervento del Governo per l’emanazione di decreti attuativi che dovrebbero razionalizzare le procedure della contrattazione prevedendo due livelli e l’istituzione di un’area negoziale per il personale dirigente.
In conclusione, almeno fino alla prima contrattazione “utile”, sarà interessante osservare le questioni che rimarranno aperte, legate alle posizioni che decideranno di assumere le parti del rapporto di lavoro nelle procedure per i rinnovi contrattuali, con le conseguenti e già auspicate necessità di aprirsi progressivamente al confronto sindacale, per le Autorità militari, e di ispirarsi ad uno spirito quanto più possibile costruttivo e collaborativo, per i sindacati militari.
[1] G. Canale, La libertà di associazione sindacale militare: il primo passo di un cammino ancora lungo (Nota alla sentenza della Corte costituzionale 11 aprile 2018, n. 120), in Rivista Associazione Italiana dei Costituzionalisti, 2018.
[2] Tale divieto veniva espressamente previsto dall’art. 1 primo comma del D. Lgs. Lgt. nr. 205 del 1945.
[3] C. Panzera, La libertà sindacale dei militari in un’atipica sentenza sostitutiva della Corte costituzionale, in Federalismi.it rivista di diritto pubblico italiano, comparato, europeo, 2019.
[4] Consiglio di Stato in adunanza plenaria nr. 5 del 04.02.1966.
[5] Per i Giudici di palazzo Spada il problema della liceità dell’appartenenza del personale di P.S. all’organizzazione sindacale non poteva essere “risolto con riferimento alla norma concernente la libertà di tale organizzazione (art. 39 Cost.), bensì con riguardo all’altra, relativa alla libertà d’iscrizione dei pubblici impiegati ai partiti politici (art. 98, terzo comma, Cost.)” con le conseguenti limitazioni che potevano essere previste dalla legge per i militari ed altri categorie di dipendenti pubblici.
[6] Cfr. Corte Costituzionale nr. 449 del 13.12.1999 in Rivista associazione italiana dei costituzionalisti, fascicolo nr. 3 del 2018.
[7] La perdita dello status militare ed il riconoscimento dei diritti sindacali agli appartenenti alla Polizia di Stato sono stati previsti e disciplinati dalla Legge 121 del 1981, mentre, per il Corpo di Polizia Penitenziaria, dall’art. 19 della Legge nr. 395 del 1990.
[8] Cfr. risoluzione del Consiglio d’Europa del 1988 e raccomandazioni del 2006 e 2010.
[9] Cfr. art. 5 della Carta Sociale Europea, come riveduta nel 1996.
[10] Cfr Corte Europea dei Diritti dell’Uomo Adefdromil v. France del 02.10.2014 (ricorso n. 32191/09) e Metelly v. France del 02.10.2014 (ricorso n. 10609/10), entrambe in Diritto pubblico europeo rassegna online, fascicolo nr. 1 del 2018.
[11] Contemplati nel Codice dell’Ordinamento Militare, già nella previgente versione della Legge n. 382 del 1978, e riproposte in quella attuale del D.Lgs. 66 del 2010.
[12] Entrambe le sentenze, in realtà, hanno espresso un approdo giurisprudenziale stabile, enunciando principi già emersi nelle sentenze della Corte di Strasburgo Syndacat National de la Police Belge contro Belgio, del 27.10.1975 e Demir e Baykara contro Turchia del 12.11.2008, in Lavoro diritti Europa rivista nuova di diritto del lavoro, nr. 1 del 2019.
[13] M. Falsone, La libertà sindacale indossa le stellette ma il legislatore deve ancora prendere le misure, in Diritto delle relazioni industriali, 2018.
[14] M. Ricci, La fine di un “tabù”: il riconoscimento della libertà di associazione sindacale (limitata) dei militari, in Rivista Associazione Italiana dei Costituzionalisti, 2018.
[15] L. Di Majo, Libertà sindacale dei militari: condizioni e limiti, in Diritto Pubblico Europeo Rassegna online, 2019.
[16] G. E. Polizzi, Le norme della Carta sociale europea come parametro interposto di legittimità costituzionale alla luce delle sentenze Corte costituzionale nn. 120 e 194 del 2018, in Federalismi.it rivista di diritto pubblico italiano, comparato, europeo, 2019.
[17] Si veda l’art. 13 della Legge 28 aprile 2022 n. 46.
[18] A scopo esemplificativo, per le associazioni professionali a carattere sindacale tra militari riconosciute rappresentative a livello nazionale ai sensi dell'articolo 13, la Legge in questione prevede: l'uso di un locale comune da adibire a ufficio delle associazioni stesse (art. 9); distacchi e permessi sindacali retribuiti, nonché permessi e aspettative sindacali non retribuiti - assegnati sulla base dell'effettiva rappresentatività del personale (art. 9); poteri negoziali al fine della contrattazione nazionale di comparto (art. 11); obblighi informativi in capo alle Amministrazioni militari del Ministero della Difesa e del Ministero dell’Economia e delle Finanze nei confronti delle sole associazioni rappresentative (art. 12); tutele e diritti vari individuati dall’art. 14.
[19] A. Preteroti, S. Cairoli, La libertà sindacale dei militari, oggi, in Federalismi.it rivista di diritto pubblico italiano, comparato, europeo, 2021.
[20] M. Falsone, I diritti sindacali dei militari: ancora un tabù?, seminario organizzato da Labor – il lavoro nel diritto, 2020.
[21] Questo concetto è da intendersi latu sensu ovvero non limitatamente alla sua definizione, di cui all’art. 1346 del C.OM., ma unitamente ai suoi corollari quali i doveri di subordinazione ed obbedienza e il principio gerarchico che risultano particolarmente sentiti nello specifico comparto.
[22] M. Falsone, La costituzione entra in Caserma?, in https://www.rivistailmulino.it/a/la-costituzione-entra-in-caserma.
[23] In particolare, il legislatore, anziché ispirarsi al più liberare modello di rappresentanza sindacale della Polizia di Stato e Penitenziaria, ha optato per un sistema simile a quello della rappresentanza istituzionale che aveva già generato il malcontento degli appartenenti al comparto.
[24] L. Imberti, La delicata funzione di supplenza della Magistratura in attesa della legge sulla libertà sindacale del personale militare, in Lavoro Diritti Europa Rivista nuova di Diritto del Lavoro, 2021.
[25] Cfr. Corte di Cassazione n. 28269 del 21.12.2005, n. 212 del 09.01.2008 e n. 1 del 02.01.2020 rispettivamente in Il lavoro nella giurisprudenza, Volume 14 fascicolo nr. 6 del 2006; in Rivista italiana di diritto del lavoro, nr. 3 del 2008; in Giurisprudenza Italiana, nr. 3 del 2020.
[26] Cfr. l’ordinanza del Tribunale di Roma - Sez. III Lavoro del 01.08.2020 e il decreto del Tribunale di Roma - Sez. III Lavoro del 07.12.2020, entrambi in Lavoro diritti Europa rivista nuova di diritto del lavoro, nr. 3 del 2021.
[27] Si tratta in particolare di un rinvio alle motivazioni precedentemente espresse della Corte di Cassazione – Sezioni Unite con Ordinanza n. 20161 del 25.05.2010 sulla condotta antisindacale perpetrata dalla Banca d’Italia contro un sindacato di propri dipendenti, in Il foro italiano, Volume 134 nr. 4 del 04.04.2011.
[28] Cfr. Tribunale di Milano - Sez. Lavoro del 15.08.2020 e Tribunale di Milano, Sez. Lavoro 244/2021 del 28.01.2021, rispettivamente in Questione giustizia, 25.02.2021e in Lavoro e previdenza oggi, 04.02.2021.
[29] Commi 6 e 7 dell’art. 28 dello Statuto dei Lavoratori
[30] P. Gualtieri, Delitto di diffamazione, esercizio della facoltà di critica sindacale e limiti scriminanti, in Labor – il lavoro nel diritto, Pacini Giuridica, 2022.
[31] Cfr. Tribunale di Potenza, Sez. Civile – Giudice del Lavoro nr. 294/2021 del 05.06.2021, in Lavoro diritti Europa rivista nuova di diritto del lavoro, nr. 3 del 2021.
[32] Cfr. T.A.R. Basilicata Sez. I nr. 304 del 06.04.2022, inedita a quanto consta.
[33] M. Falsone, La giurisdizione sulle condotte antisindacali nelle Forze armate spetta al Giudice ordinario del lavoro: il caso del trasferimento senza nulla osta del militare sindacalista, in Questione giustizia, 2021.
[34] Questa procedura è regolata dal combinato disposto di cui agli art. 24 della L. nr. 448 del 1998 ed art. 46 del D. Lgs. 95 del 2017.
[35] La concertazione è disciplinata dal D. Lgs. nr. 195 del 1995.
[36] O. Iorio, B. Labianca, R.E. Mare, A. Milani, S. Renelli, La nuova tutela sindacale dei diritti dei militari. Il modello italiano e statunitense a confronto, in Rivista Trimestrale della Scuola di Perfezionamento per le Forze di Polizia, 2021.
[37] Questo concetto è espresso in maniera chiara dal Compendio sulla rappresentanza militare dello Stato Maggiore dell’Esercito Italiano edizione marzo 2004, e successiva rivisitazione del 2014, nella parte in cui recita testualmente che “la Rappresentanza Militare non può essere tuttavia assimilata in alcun modo ad un’organizzazione sindacale – laddove quest’ultima si intenda quale organizzazione deputata a svolgere attività negoziale esclusiva – in quanto, quale appartenente all’ordinamento militare, la stessa non può essere in contrapposizione al Vertice dell’Amministrazione. Una posizione antagonista dei delegati rispetto ai Vertici dell’istituzione risulterebbe pertanto inconciliabile con i doveri derivanti dal rapporto gerarchico e dell’obbedienza, che costituiscono i cardini su cui poggia l’efficienza dello strumento militare”.
[38] Sul punto G. Canale, La libertà di associazione sindacale militare, cit., osserva condivisibilmente che ciò costituisce una differenza sostanziale, in quanto, contrariamente a quanto previsto per la “contrattazione”, nel contesto della “concertazione” i pareri espressi dalla rappresentanza militare non sono vincolanti per il Governo.
[39] P. Lambertucci, Breve nota sulle proposte di legge C. 875 e C. 1060 sulla rappresentanza sindacale del personale delle Forze armate e della polizia ad ordinamento militare, che può leggersi in https://www.camera.it/application/xmanager/projects/leg18/attachments/upload_file_doc_acquisiti/pdfs/000/001/842/Memoria_prof_Lambertucci.pdf.
[40] P. Lambertucci, Le linee evolutive della libertà di associazione sindacale per i militari, in Lavoro e diritto, 2019.
Qualità ed efficienza della giurisdizione di Luca Verzelloni
Intervento al 35° congresso nazionale ANM, Roma, 15 ottobre 2022
Buongiorno a tutte e tutti, per prima cosa, vi ringrazio molto per l’invito.
I miei sono ringraziamenti particolarmente sentiti per due ragioni, tra loro collegate: da un lato, sono l’unico relatore non giurista – sono, infatti, un sociologo delle organizzazioni – e, dall’altro, questo congresso rappresenta per chi – come me – da diversi anni cerca di studiare il “vostro mondo” con un approccio empirico, un’occasione di ricerca e di apprendimento davvero preziosa, per indagare le logiche di funzionamento della Giustizia italiana.
Una volta un vostro collega, un magistrato portoghese – José Igreja Matos – che da circa un anno presiede l’Associazione mondiale dei giudici (IAJ), mi ha raccontato che, sulla base della sua lunga esperienza in convegni e corsi di formazione in giro per il mondo, vi sono tre modi efficaci per aprire una relazione: presentare dei dati statistici – dei numeri accattivanti; creare scandalo, ossia riferire qualcosa che turbi la platea; e, infine, raccontare una storia, un aneddoto, un racconto, preferibilmente vissuto in prima persona.
Ecco, se me lo permettete, io vorrei servirmi di questa terza strategia, ossia raccontarvi una breve storia vissuta personalmente. La storia risale a quasi vent’anni fa: una delle mie prime esperienze di ricerca all’interno di un Tribunale, nel luglio 2004.
Al tempo, stavo svolgendo una serie di interviste ad alcuni magistrati e cancellieri sull’organizzazione di una sezione, in vista dell’imminente entrata in vigore del Processo Civile Telematico – in quel momento nessuno sapeva che non sarebbe stata così imminente, ma questa è un'altra storia.
Nel corso di questi colloqui, un vostro collega mi rispose candidamente: “qui l’organizzazione non esiste, sta perdendo il suo tempo!… E poi a me non interessa occuparmi di queste cose; mi occupo di organizzazione solo quando mi dà dei problemi!”.
Qual era la conclusione di questo primo lavoro di ricerca “sul campo”[1]?
Citando la famosa metafora introdotta dal compianto Prof. Stefano Zan[2], questo ufficio giudiziario poteva essere paragonato a un “condominio”, al cui interno esercitavano le loro funzioni, in parallelo, tanti professionisti-monadi, senza alcuna forma di interdipendenza.
Quelli erano gli anni in cui andava di moda il concetto di “auto-organizzazione del giudice” – una sorta di contraddizione in termini per noi studiosi di organizzazione.
Erano gli anni in cui se in un convegno si parlava di organizzazione – come è successo diverse volte al sottoscritto – si veniva additati come aziendalisti o, nella peggiore delle ipotesi, come sovversivi, che rimettevano in discussione l’indipendenza del giudice, tutelata dalla Costituzione italiana.
Sono passati quasi vent’anni e fortunatamente – se me lo permettete – questi discorsi sono stati abbandonati. Nel corso del tempo, infatti, si è diffusa una nuova consapevolezza: la centralità della “questione organizzativa” per il funzionamento degli uffici giudiziari.
Si potrebbe discutere a lungo sui fattori endogeni ed esogeni che hanno favorito questa trasformazione, ma – studiandovi dall’esterno – è un fatto che la magistratura italiana abbia compiuto dei passi da gigante, specialmente in ottica comparativa, sia in termini di consapevolezza sia di diffusione, in tutto il sistema, di competenze organizzative e manageriali.
Forse a voi potrebbe sembrare scontato, ma se oggi siamo qui a parlare di qualità ed efficienza della giurisdizione, di gestione delle risorse umane e di risultati attesi è proprio perché nel corso del tempo è emersa l’idea di giurisdizione come organizzazione complessa – principio riconosciuto, fra l’altro, anche dall’art. 26-bis del D.lgs. 26/2006, che ha portato alla nascita dei corsi per aspiranti dirigenti della Scuola Superiore della Magistratura, nonché dalla normativa secondaria, ormai consolidata, in materia di organizzazione, che è stata adottata negli ultimi anni dal Consiglio Superiore della Magistratura.
Per non sottrarmi al compito che mi è stato affidato dai coordinatori della sessione, in questa mia relazione vorrei presentare una serie di considerazioni sul funzionamento e sulla governance della Giustizia italiana, che si basano sui risultati di diverse ricerche empiriche, condotte negli ultimi anni sia in Italia sia in altri paesi europei, soprattutto del Sud Europa. Queste riflessioni verranno sviluppate a partire da tre domande generali, che intendo porre – idealmente – ai partecipanti alle due successive tavole rotonde, nonché a tutti i presenti, per stimolare il dibattito:
1. È possibile conciliare qualità ed efficienza della giurisdizione?
2. Sulla base di quali criteri possiamo definire la qualità del “servizio Giustizia”?
3. L’innovazione organizzativa nella Giustizia è sempre qualcosa di auspicabile?
Visto il poco tempo a mia disposizione, le mie considerazioni saranno, inevitabilmente “per flash” e faranno riferimento, a seconda dei casi:
- al livello micro, i singoli magistrati;
- al livello meso, gli uffici giudiziari e le loro articolazioni interne;
- al livello macro, ossia il “Sistema Giustizia”, inteso nel suo insieme.
Partiamo dalla prima domanda generale: è possibile conciliare qualità ed efficienza della giurisdizione?
Ecco, io credo che, in questo preciso momento storico, soprattutto alla luce degli obiettivi del PNRR, questa sia davvero un interrogativo cruciale, che dobbiamo porci – così come ricordato ieri, nella sua relazione introduttiva, anche dal Presidente Giuseppe Santalucia.
Non ho, ovviamente, la presunzione di dare una risposta a questa domanda, ma voglio sottolineare alcune dinamiche, che si stanno manifestando sia nel nostro paese sia a livello internazionale.
Come messo in luce da una parte pioneristica della letteratura, negli ultimi vent’anni si è diffusa e progressivamente affermata una concezione di “qualità della Giustizia” orientata al risultato. Tutto ciò ha portato a un cambiamento del paradigma dominante: dal paradigma della rule of law, fondato sulle garanzie di indipendenza e sulle regole a tutela del giusto processo, al paradigma manageriale, incentrato sulle performance degli apparati giudiziari e sulla loro capacità di fornire una risposta adeguata, entro un tempo ragionevole, alla domanda di Giustizia proveniente dai cittadini[3].
È indubbio che questi processi abbiano dato un contributo fondamentale al cambiamento del modo stesso di intendere la governance della Giustizia, che ha reso la stessa sia più efficiente sia più responsabile nei confronti dei cittadini e della società[4].
Ma, al contempo – come messo in luce, tra gli altri, da un attento osservatore, come Antoine Garapon[5] – questi stessi processi stanno facendo emergere alcune dinamiche che, se non adeguatamente governate, rischiano di produrre delle distorsioni anche molto gravi, soprattutto in termini di legittimazione sociale dei magistrati e della Giustizia, nel suo insieme.
Il fatto che oggi – attenzione, non solo in Italia; queste sono dinamiche globali – i magistrati utilizzino sempre più spesso espressioni come “fare statistica”, “svuotare gli armadi” e “smaltire l’arretrato” – come fosse spazzatura – è significativo di un progressivo spostamento dell’attenzione dalla qualità alla quantità del “prodotto Giustizia”.
Se questa retorica non cambia, rischiamo di doverci chiedere – paradossalmente – se a un magistrato o a una magistrata convenga, in termini di carriera, smaltire più casi possibili o, viceversa, costruire decisioni in modo accurato, secondo scienza e coscienza. Si tratta, ovviamente, di un’aberrazione.
Come possiamo tentare di uscire da questo “cortocircuito”, soprattutto nel breve periodo, ovvero con gli attuali vuoti d’organico – in alcune realtà assolutamente patologici – e con la necessità impellente di raggiungere gli obiettivi posti dal PNRR?
Premetto che sono da sempre, fin dalla prima ora, contrario all’idea di definire dei “carichi esigibili”, validi su tutto il territorio nazionale – che mi riporta alla mente l’immagine di una penna che cade al raggiungimento di un certo numero di casi o di una sirena che suona a fine turno. Questa misura non necessariamente aumenterebbe la qualità della Giustizia e rischierebbe di produrre altre, diverse, ma non meno pericolose, aberrazioni[6].
A mio avviso, queste dinamiche possono essere limitate attraverso l’azione contestuale di tre “leve”, collegate tra loro:
- la prima leva riguarda il ruolo dei magistrati con funzioni direttive e semidirettive. Siamo tutti diversi: qualcuno è più produttivo di altri. Eppure, a mio avviso, fra i compiti del capo ufficio – ma anche del semidirettivo – dovrebbe esserci quello di comprendere le ragioni che spiegano eventuali picchi – tanto in negativo, quanto in positivo – nella produttività dei singoli magistrati. Questa attività di ricognizione di eventuali anomalie è cruciale per poter definire degli obiettivi credibili e, al contempo, valutare il raggiungimento dei risultati attesi dell’ufficio;
- la seconda leva riguarda il ruolo della comunità professionale. So che richiamo una questione conflittuale, aperta da decenni – non solo in Italia – ma siete voi, solo voi, che potete decidere sulla base di quali standard valutare la qualità di un atto decisorio di un magistrato o, più in generale, la qualità professionale dello stesso. E siete altresì voi che potete rilevare e, nel caso, sanzionare eventuali condotte deontologicamente discutibili. Molto è stato fatto, ma, a mio parere, molto resta ancora da fare;
- infine, è possibile individuare una terza leva: quella che noi studiosi delle organizzazioni, chiamiamo governo delle interdipendenze – il grado in cui le parti di una relazione organizzativa dipendono le une dalle altre per svolgere il loro compito – ossia le interazioni organizzative tra gli uffici giudiziari, ai diversi livelli di governance: Tribunali e Corti d’appello, Tribunali e Procure, Procure e Procure generali, Corti d’appello e Cassazione, ecc.
A mio avviso, per poter fare un ulteriore salto di qualità e incidere, in tal modo, su alcune sacche di inefficienza tuttora esistenti, occorre abbandonare una visione incentrata sui singoli uffici, per ragionare, invece – se mi permettere l’uso di un termine organizzativo – in “ottica di filiera”. Se ci concentriamo sul singolo ufficio, infatti, rischiamo di non riuscire a cogliere alcune dinamiche. Il punto di osservazione fa la differenza.
Per questioni di tempo, posso fare solo alcuni esempi – fra i tanti possibili:
- Procure della Repubblica ultra produttive che – senza volerlo – finiscono per inceppare e rallentare l’attività dei Tribunali;
- Tribunali che non conoscono il destino dei fascicoli che vengono impugnati in appello, né se esistano o meno dei filoni di contenzioso con un tasso di conferma molto basso o, viceversa, molto alto;
- fascicoli che rimangono fermi per diverso tempo tra un ufficio e l’altro, in una sorta di limbo, di “terra di nessuno”, con una serie di conseguenze processuali, ma soprattutto sulla vita delle persone che aspettano una risposta alla loro “domanda di Giustizia”.
In che modo questo discorso si collega a quello sulla qualità della Giustizia?
Governare le interdipendenze significa lavorare meglio, evitare perdite di tempo e diseconomie, ma significa anche, per esempio, avere una serie di informazioni per la governance del sistema, inteso nel suo complesso.
Concentrandomi sui rapporti tra Tribunali e Corti d’appello, per esempio, conoscendo nel dettaglio, in maniera sempre più accurata, il tasso di impugnazione e di eventuale riforma su singole materie, rispetto al Tribunale di provenienza del fascicolo, si potrebbe disincentivare l’avvio di procedimenti che si basano su orientamenti consolidati nel tempo.
Allo stesso tempo, il singolo giudice potrebbe fare delle scelte di case management, ovvero decidere su quali casi dedicare maggiore tempo ed energie – in quanto su questioni controverse, dove non vige un orientamento consolidato – e quali, invece, per esempio, affidare all’analisi preliminare di un addetto all’ufficio per il processo oppure di un tirocinante – qualora presente nell’ufficio.
I vantaggi di un governo responsabile delle interdipendenze potrebbero essere molteplici e, soprattutto, non richiederebbero interventi normativi oppure ordinamentali, ma delle strutture di interconnessione tra uffici giudiziari, per esempio, nell’ambito di un ipotetico staff del presidente, composto anche da addetti all’UPP con competenze statistiche e organizzative.
Seconda domanda, cui dedicherò meno tempo della precedente, anche se altrettanto importante: sulla base di quali criteri possiamo definire la qualità del “servizio Giustizia”?
A differenza di quanto avviene con riferimento all’efficienza, il dibattito su questi temi non è ancora riuscito a definire in modo chiaro sulla base di quali criteri possiamo stabilire se il “servizio Giustizia” sia erogato o meno secondo certi standard di qualità, riconoscibili e comparabili. Si parla molto di qualità e soprattutto – come detto – di quantità di atti decisori del magistrati, ma poco di qualità del servizio, così come percepita dai cittadini.
Anche in questo caso, molto è stato fatto, ma vedo ampi margini di miglioramento, anche attraverso il coinvolgimento e la responsabilizzazione di diversi attori istituzionali, sia a livello centrale sia locale: in primo luogo, l’avvocatura associata, ma anche le università, gli enti locali, la forze di polizia giudiziaria, gli altri enti pubblici, ecc.
Ma anche degli stessi cittadini, per rilevare sia il grado di fiducia sia di soddisfazione nei confronti del servizio, attraverso strumenti quali survey ripetute a cadenza regolare, indagini di customer satisfaction, focus group, interviste in profondità, ecc.[7].
A mio avviso, per comprendere le logiche di funzionamento del “Sistema Giustizia” – inteso in senso complessivo – e, di conseguenza, poter migliorare la qualità del servizio erogato ai cittadini, occorre allargare il focus oltre la “macchina statale” e le sue articolazioni.
Occorre interrogarsi sull’origine dei conflitti che, non trovando altre forme di risoluzione nella società, arrivano nelle aule di Giustizia.
Se mi permettete l’uso di una metafora, a mio avviso, dobbiamo interrogarci sulle cause di quest’onda, non aspettare che le frustrazioni delle persone si abbattano, come uno tsunami, sugli uffici giudiziari – che non saranno mai, per definizione, incapaci di arginarlo da soli.
È un cambiamento di prospettiva che, a mio avviso, occorre realizzare.
La terza e ultima domanda aperta di questa mia relazione è: l’innovazione organizzativa nella Giustizia è sempre qualcosa di auspicabile?
A dispetto dell'opinione diffusa tra i cittadini, negli ultimi vent’anni, numerosi uffici giudiziari italiani si sono trasformati in vere e proprie “arene d'innovazione”, dove sono stati progettati e implementati una pluralità di interventi “dal basso”, di diversa natura e portata[8].
Seppur in ritardo, queste dinamiche stanno cominciando a svilupparsi anche in altri paesi del Sud Europa – ma in Italia risultano oltremodo evidenti[9].
Queste innovazioni locali – spesso adottate in maniera artigianale, ma non per questo meno efficace – hanno ottenuto, in alcuni casi, dei risultati eccezionali, tanto da essere riconosciute come pratiche virtuose sia a livello nazionale sia internazionale.
In occasione di convegni ed eventi formativi con magistrati di altri paesi[10], mi è capitato spesso di raccontare quanto è stato realizzato da alcuni uffici giudiziari italiani, nel nord come nel sud del Paese. Di fronte a questi risultati, i vostri colleghi sono spesso increduli.
Eppure, negli ultimi anni, il “Sistema Giustizia” ha, di fatto, incentivato i magistrati dirigenti a ricorrere all’innovazione in modo sistematico, continuativo e, di sovente, anche distruttivo e poco sostenibile, ossia senza “fare tesoro” di quanto fatto nell’ufficio prima del loro arrivo o della loro nomina. Gli esempi potrebbero essere molti.
Negli ultimi anni, alcuni uffici giudiziari hanno innovato senza sosta, trasformando l’innovazione da eccezione a regola.
A mio avviso, queste dinamiche stanno producendo due effetti paradossali, uno interno e uno di natura sistemica:
- per quanto riguarda il versante interno, innovare costa fatica e può rallentare, almeno inizialmente, le performance organizzative: le persone, infatti, sono chiamate ad adattare le loro pratiche lavorative alle nuove procedure, ai nuovi strumenti e alle nuove relazioni organizzative. In occasione di un processo di innovazione senza fine, come dimostrano numerose ricerche empiriche, di diversa provenienza disciplinare, si può creare una situazione di forte stress, che può portare all’emergere di fenomeni di burnout e può spingere le persone a chiedere un trasferimento, anche in realtà meno stimolanti, da un punto di vista professionale[11];
- a livello sistemico, invece, il ricorso continuo all’innovazione rischia di allargare o, comunque, di cristallizzare e rendere permanenti, le differenze tra gli uffici giudiziari italiani, sia in termini di comportamento sia di prestazioni[12].
Tutto ciò rischia, infatti, di creare delle “mappe delle differenze”: uffici giudiziari innovativi – che non temono confronti con quelli di altri paesi europei – che operano a pochi km da altri che, per diverse ragioni – tra cui, in primo luogo, la disponibilità di enti e istituzioni, del territorio in cui operano, a sostenere, anche economicamente, dei progetti di miglioramento – non riescono a innovare o ad auto-innovarsi.
Rispetto alla qualità del servizio, ma anche alle performance degli uffici giudiziari, il fatto che per un cittadino o per un’impresa non sia affatto indifferente doversi difendere oppure promuovere un procedimento in un ufficio giudiziario piuttosto che in un altro, ha una serie di implicazioni di natura sociale, economica e politica. Queste dinamiche incidono, infatti, sullo sviluppo socio-economico dei diversi territori, visto che amplificano le disuguaglianze, in termini di effettiva capacità delle persone di accedere a diritti, beni e servizi pubblici.
Ecco perché, in ottica futura, credo sia necessario porci un nuovo interrogativo:
in che misura siamo disposti a tollerare delle differenze, sia in termini di prestazioni sia di comportamento, pur di incoraggiare l’emergere di alcune innovazioni virtuose?
Oppure – posta in altri termini – in che misura siamo disposti a ostacolare la nascita di innovazioni “dal basso”, potenzialmente virtuose, pur di garantire un servizio uniforme su tutto il territorio?
A mio avviso, dalla risposta – certamente non scontata – a questa domanda, passano molte delle questioni aperte in materia di innovazione e governance della Giustizia italiana.
Vi ringrazio molto per l’attenzione.
NOTE:
[1] Di recente, i risultati della ricerca sono stati pubblicati in: Verzelloni, L. (2019), Pratiche di sapere. I rituali dell’innovazione nella giustizia italiana, Soveria Mannelli, Rubbettino.
[2] Zan, S. (2003), Fascicoli e tribunali. Il processo civile in una prospettiva organizzativa, Bologna, Il Mulino.
[3] Sul tema, si rimanda a: Piana, D. (2016), Uguale per tutti? Giustizia e cittadini in Italia, Bologna, Il Mulino.
[4] Sul tema, si veda: Fabri, M. et al. (2003) (a cura di), The administration of justice in Europe: Towards the development of quality standards, Bologna, Lo Scarabeo; Frydman, B. e Jeuland, E. (2011) (a cura di), Le nouveau management de la justice et l’indépendance des juges, Paris, Dalloz; Langbroek, P. et al. (2017), Performance management of courts and judges, in F. Contini (a cura di), Handle with care: Assessing and designing methods for evaluation and development of the quality of justice, Bologna, IRSiG-CNR, pp. 297-325.
[5] Garapon, A. (2012), Lo stato minimo. Giustizia e neoliberismo, Milano, Cortina.
[6] La mia critica – non ideologica – all’idea di definire un “carico esigibile” a livello nazionale si fonda su due considerazioni, tra loro strettamente collegate. In primo luogo, per costruire un target attendibile – anche in forma di soglia oppure di range di riferimento – occorrerebbe tenere conto di una pluralità di variabili di contesto, sia interne sia esterne, che incidono direttamente sul lavoro quotidiano e, di conseguenza, sulla produttività dei singoli magistrati. Tra le prime, si devono ricordare: tasso di scopertura del personale togato, tasso di scopertura del personale amministrativo, presenza di figure di supporto (addetti, tirocinanti, magistrati onorari), condizioni e spazi di lavoro, benessere organizzativo, tasso di turnover, disponibilità di strumenti informativi e tecnologici, organizzazione interna dell’ufficio, divisione dei carichi di lavoro, ecc. Tra le seconde, invece: caratteristiche del tessuto sociale ed economico, presenza di una cultura della legalità, tasso di litigiosità, qualità delle altre pubbliche amministrazioni, politiche locali, rapporti con l’avvocatura, disponibilità della stessa a dialogare con gli uffici, ecc. Vista l’impossibilità di considerare tutti questi aspetti, l’opera mi sembra difficilmente realizzabile; a meno che non si stabiliscano delle soglie così ampie da risultare, di fatto, inutili. In secondo luogo, qualora si riuscisse a definire un parametro di riferimento a livello nazionale, questo potrebbe, paradossalmente, allargare ulteriormente le differenze territoriali. In alcune realtà il “carico esigibile” potrebbe essere raggiunto molto più facilmente che in altre: i magistrati potrebbero essere portati a rallentare i loro ritmi di lavoro o, viceversa, a rassegnarsi all’idea di non poter neppure avvicinare certi target di produttività, in attesa di chiedere il trasferimento in un'altra realtà territoriale. A mio avviso, occorrerebbe, invece, investire nella ricerca di sempre più accurati criteri di “pesatura dei fascicoli” che permettano, da un lato, di dividere più equamente il lavoro tra colleghi di uno stesso ufficio giudiziario e, dall’altro, di assumere delle scelte organizzative più consapevoli, ai diversi livelli di governance.
[7] Come avvenuto negli ultimi anni, per esempio, in Francia. Sull’esperienza francese, si veda: Vigour, C. et al. (2022), La justice en examen, Presses Universitaires de France, Paris.
[8] Per approfondimenti, si rimanda a: Verzelloni, L. (2019), Pratiche di sapere, op cit. e a Verzelloni, L. (2020), Paradossi dell’innovazione: i sistemi giustizia del Sud Europa, Roma, Carrocci Editore.
[9] Per un confronto sui processi di innovazione in altri sistemi giudiziari del Sud Europa (Portogallo, Grecia e Spagna), si veda: Verzelloni, L. (2020), Paradossi dell’innovazione, op. cit.
[10] Come in occasione del seminario internazionale "South-Western Seminar on Timeliness", organizzato dall’European Network of Councils for the Judiciary (ENCJ), Madrid, 28-30 novembre 2016.
[11] Il tasso di turnover potrebbe essere un buon indicatore per rilevare il livello di benessere organizzativo all’interno degli uffici giudiziari e, ad avviso di chi scrive, dovrebbe essere considerato anche nell’ambito del procedimento di conferma dei magistrati con funzioni direttive e semidirettive.
[12] Sul tema, si veda: Verzelloni, L. (2020), "Riformare la giustizia del lavoro fra disuguaglianze e inefficienze: il prisma del sud Europa", Stato e Mercato, 119, 2, 319-357.
Come ha recepito la Cassazione la valenza risarcitoria del rapporto di “causa-effetto” derivante dalla interpretazione dell’attuale postulato medico-legale di “danno biologico”?
di Enrico Pedoja*
È ancora valido il concetto tecnico-unitario ed onnicomprensivo di “danno biologico”, quale presupposto risarcitorio delle componenti biologiche del “danno non patrimoniale”?
Sommario: 1. Premessa - 2. Il Postulato medico legale di “danno biologico” - 3. La Questione del “parametro tecnico”- 4. L’anomalia liquidativa della inabilità temporanea in ambito Rc auto e sanitaria - 5. Conclusioni.
1. Premessa
L’immodificata configurazione medico legale del concetto di danno biologico, esaminata in relazione alle attuali necessità di una parametrazione risarcitoria onnicomprensiva, equilibrata e non automatica del danno alla persona, determina la persistenza di un sostanziale un “equivoco” interpretativo tra Medici legali e i Giudici di Cassazione, basato su una “incongrua interpretazione” tecnica: ritenere di avere, col solo barème, la possibilità di definizione completa ed automatica delle componenti biologiche del “danno non patrimoniale”, che, in osservanza ai principi espressi delle note Sentenze Gemelle delle Sezioni Unite del 2008, sono costituite dalla lesione della salute e dal correlato peggioramento delle condizioni di vita quotidiane: binomio non necessariamente automatico, anzi spesso dissonante tra quanto appare accertabile e quantificabile secondo Bareme (come invalidità permanente biologica) rispetto alla effettiva percezione di peggioramento “esistenziale” conseguente agli aspetti qualitativi della menomazione stessa
2. Il Postulato medico legale di “danno biologico”
È noto a qualsiasi specialista medico legale quale sia la definizione di “danno biologico”, così come sostanzialmente stabilita dalla Società Italiana di Medicina Legale nel 2001.
1) Il danno biologico consiste nella menomazione permanente e/o temporanea all’integrità psico-fisica della persona, comprensiva degli aspetti personali dinamico-relazionali, passibile di accertamento e di valutazione medico-legale ed indipendente da ogni riferimento alla capacita di produrre reddito.
2) La valutazione del danno biologico è espressa in termini di percentuale della menomazione all’integrità psicofisica, comprensiva della incidenza sulle attività quotidiane comuni a tutti.
3) Nel caso in cui la menomazione stessa incida in maniera apprezzabile su particolari aspetti dinamico-relazionali e personali, la valutazione è completata da indicazioni aggiuntive da esprimersi in forma esclusivamente descrittiva.
4) In caso di menomazioni plurime la percentuale del danno biologico permanente deve essere espressa in base alla valutazione della effettiva incidenza del complesso delle menomazioni stesse sull’integrità psico-fisica della persona comprensiva delle limitazioni dinamico-relazionali”.
3. La Questione del “parametro tecnico”
Presso atto di quanto finora definito dalla Medicina Legale, si deve considerare che i predetti principi costitutivi del concetto medico legale di “danno biologico”, ove finalizzati a presupposto di parametrazione risarcitoria del danno alla persona , risentono di una oggettiva “approssimazione applicativa scientifica”, quasi un “sofisma medicolegale”, che ha portato ad un paralogismo liquidativo talora foriero di possibili “sperequazioni risarcitorie”.
Per qualsiasi Specialista medico legale esperto del Settore, è noto che l’intervento tecnico dello specialista medico legale sul danno alla persona si basa esclusivamente sull’integrazione degli elementi probatori clinico strumentali ricavati in corso di indagine tecnica con parametri afferenti esclusivamente a disfunzionalità anatomiche e/o psichiche dell’essere umano (cosiddetti Baremes) così da consentire di esprimere, motivatamente, la stima del danno biologico con percentuali di invalidità permanente calcolate esclusivamente rispetto a riferimenti “convenzionali” di disfunzionalità anatomica o psichica
La variazione percentuale della invalidità permanente biologica si basa dunque su esclusivi criteri clinico – strumentali di riferimento scientifico ma in nessun caso l’eventuale incremento o decremento del parametro “invalidità” permanente biologica (la causa) determina tassativamente, una automatica e proporzionale ricaduta negativa (effetto) sugli atti della vita quotidiana.
Dissonanza che appare ancor più evidente ove si debbano considerare – ai fini risarcitori – anche le ripercussione della invalidità biologica sugli aspetti dinamico relazionali, derivandone la scarsa valenza probatoria dello stesso “postulato” medico legale di danno biologico
In sostanza il baréme esprime solo riferimenti percentualistici di disfunzionalità biologica rispetto al 100% della validità anatomo-psichica dell’essere umano.
Non a caso più correttamente in altri Paesi - come ad esempio in Francia ove si adottano baremes valutativi sostanzialmente sovrapponibili - la definizione del “danno” afferisce esclusivamente alla “incapacità funzionale biologica”, cioè la riduzione del potenziale fisico, psico-sensoriale o intellettuale risultante da un attacco all'integrità corporea di una persona.**, che è cosa differente dal concetto di ricaduta negativa sul fare quotidiano e sugli aspetti dinamico relazionali.
**Incapacitè fonctionelle Accamedi de Medcine 2022…”
Incapacité qui caractérise une fonction ou un individu devenus incapables d'accomplir la tâche assignée. L'incapacité d'une fonction organique s'évalue à partir de la capacité normale du système d'accomplir sa fonction. Les capacités se mesurent à l'aide d'une grandeur physique ou d'une valeur économique et se calculent à partir d'une fonction logarithmico normale: l'incapacité va de 0 % (capacité normale) à 100 % (incapacité totale).” , le taux d'incapacité mesure le déficit fonctionnel qui se définit comme la réduction du potentiel physique, psycho-sensoriel ou intellectuel résultant d'une atteinte à l'intégrité corporelle d'une personne.
Va altresì considerato che, con l’avvento del concetto medico legale di “danno biologico”, i convenzionali parametri di disfunzionalità’ anatomo-psichica riportati nei “Baremes” e precedentemente utilizzati per valutare il decremento del “fare reddituale” (ovvero il danno alla capacità lavorativa generica), sono stati trasferiti apoditticamente alla valutazione del potenziale decremento sul “fare areddituale” e della ricaduta sugli aspetti dinamico relazionali. Parametri rimasti sostanzialmente invariati (tranne qualche occasionale “maquillage”), nonostante fosse mutata la previsione del “danno conseguenza” risarcibile.
Ci si deve dunque chiedere:
Come è possibile connettere – in ipotesi di sistema liquidativo tabellare – la stessa “causa” (invalidità permanente biologica) a “effetti” di danno alla persona differenti tra loro (capacità lavorativa generica rispetto agli atti della vita quotidiana e sugli aspetti dinamico relazionali)..?
Come si può giustificare che una analoga quota di invalidità permanente biologica determini sempre una analoga ricaduta negativa sul “fare quotidiano” del danneggiato..?
Come si può ammettere che l’apprezzamento “quantitativo” di un danno alla persona (Invalidità permanente biologica) possa ricomprendere gli aspetti “personali e dinamico relazionali” dello stesso.
Per fare un semplice, ma concreto, esempio applicativo il Giurista dovrebbe domandarsi il motivo per cui un soggetto splenectomizzato (valutato complessivamente secondo bareme con una IP del 10%) ha la stessa ricaduta sul fare quotidiano e sui comuni aspetti dinamico relazionali rispetto ad altro danneggiato portatore di una anchilosi della caviglia, di ben altro impatto esistenziale, al quale qualsiasi barème assegna una analoga Invalidità permanente del 10%.
Sono due entità di danno alla persona totalmente differenti (sia per la ricaduta sul “fare quotidiano e dinamico relazionale”, sia sul “sentire” del danneggiato) che dimostrano l’incongruità liquidativa delle Tabelle ove correlate in via automatica alla sola sulla componente “quantitativa” di danno biologico (la I.P.).
Considerazioni che assumono particolare rilievo per i casi definibili, secondo applicazione degli stessi Barème e per prassi valutativa medico legale, quali “macro-invalidità”, ma costituiti, di fatto, dal computo complessivo di lesioni di lieve entità, con ricaduta esistenziale palesemente difforme rispetto a casi di analogo riscontro “quantitativo” ma rappresentati, tuttavia, da un’unica macro menomazione.
Si consideri ad esempio la stima di una IP nell’ordine del 15% conseguente al computo di menomazioni plurime “coesistenti” dovute agli esiti di traumatismo pluifratturativo costale semplice associato a esiti medi di un frattura para articolare di polso in arto non dominante, a esiti medi di frattura composta di alcuni metatarsi e ad esito cicatriziale estetico apprezzabile localizzato in regione corporea non coinvolgente il volto, rispetto ad analoga IP del 15% riferibile agli esisti di grave frattura articolare di ginocchio trattata con protesi. È possibile ammettere la stessa ricaduta della complessiva Invalidità permanente biologica sugli atti della vita quotidiana sugli aspetti dinamico relazionali?
La logica ed il buon senso porterebbero ad escluderlo.
Si tratta quindi di “squilibri valutativi dell’attuale postulato medico-legale di danno biologico, utilizzato ai fini di prova risarcitoria tra causa ed effetto” forieri , ove sussista un automatismo liquidativo, di evidenti sperequazioni risarcitorie, che necessitano, in contesto di un metodo di liquidazione tabellare, di opportuni ed adeguati parametri correttivi medico-legali.
Sulla base di tali considerazioni ne deriva che , ai fini di una formulazione liquidativa del danno non patrimoniale di tipo “tabellare”, che preveda quale presupposto base la sola disfunzionalità anatomo-psichica, la “prima personalizzazione” risarcitoria del danno non patrimoniale non potrà che realizzarsi con l’applicazione di un distinto parametro di ordine “qualitativo” per determinare l’effettiva ricaduta “esistenziale” della disfunzionalità accertata sul comune fare personale e sentire di qualsiasi persona portatrice di quella determinata condizione menomativa.
Componente di danno “ontologicamente” differente e svincolata dal “danno morale” che – come già affermato dalla stessa Cassazione – non ha alcuna connessione con la disfunzionalità biologica.
In altri termini una parametrazione che valuti – con criterio presuntivo medico legale – quale sostanziale ripercussione negativa, sul quotidiano fare personale e sui correlati comuni aspetti dinamico relazionali, sia in grado di determinare la menomazione su qualsiasi danneggiato: in altri termini parametri qualitativi adeguati ad inquadrare e definire la componente esistenziale del danno biologico stimabile dal medico legale in termini di “sofferenza menomazione correlata”.
Ferma restando comunque la possibilità ogni ulteriore integrazione risarcitoria extra-tabellare relativa a componenti esistenziali “peculiari” del danneggiato pur derivanti dalla stessa menomazione e ove specificatamente allegate.
4. L’anomalia liquidativa della inabilità temporanea in ambito Rc auto e sanitaria
Qualsiasi specialista medico legale è consapevole che non sussiste alcun rapporto prestabilito tra valutazione dell’entità e decorso della lesione (inabilità temporanea biologica) e valutazione dell’invalidità permanente biologica.
La comune esperienza medico legale insegna che eventi lesivi significativi, pur evolvendo in modo similare (quindi con determinazione di periodi di IT definibili tecnicamente, sia sotto il profilo cronologico che qualitativo, in modo pressoché uguale) possono stabilizzarsi con postumi superiori od inferiori al fatidico 9% di invalidità permanente, derivandone una evidente illogicità tecnica nell’applicazione di differenti parametri di liquidazione della inabilità temporanea a seconda se la lesione si stabilizza con postumi invalidanti inferiori o superiori al fatidico 9%.
Ciò comporta quindi che i parametri di liquidazione della inabilità temporanea biologica, invece di ancorarsi all’effettiva entità ed evoluzione della “lesione – malattia” vengono erroneamente rapportati, nella normativa vigente, ad un limite di variabilità disfunzionale menomativa (soglia del 9% di IP) che contrasta con l’effettivo valore probatorio e risarcitorio del “danno – conseguenza” connesso all’inabilità temporanea biologica.
Il problema, dunque, è primariamente di ordine liquidativo, stante la differente parametrazione monetaria prevista per le “lesioni di lieve entità” rispetto a quella prevista per le “lesione di non lieve entità”, ove la logica dovrebbe prevedere un parametro unico, modulabile a seconda del grado di intercorrente ricaduta della lesione e della malattia sul “sentire” e “fare personale” nonché sugli aspetti dinamico relazionali del danneggiato.
Una valutazione tecnica della “componente qualitativa” della lesione/malattia biologica consentirebbe dunque una opportuna – e soprattutto equa – modulazione del risarcimento della inabilità temporanea.
5. Conclusioni
Alla luce delle criticità interpretative del “postulato” medico legale di “danno biologico”, appare sempre più pressante ed improcrastinabile una sostanziale “revisione” dello stesso principio “tecnico” e dei parametri medicolegali ad esso correlati (la componente “quantitativa” e quella “qualitativa”) ai fini di una adeguata definizione risarcitoria del danno non patrimoniale (principi in parte già concettualmente recepiti dall’Osservatorio del Tribunale di Milano e da molte altre sedi Giudiziarie, come ad esempio per la Tabella di Liquidazione del Tribunale di Venezia), dovendosi approfondire ulteriormente la discussione tra medico legale e Giurista nella prospettiva di utilizzare parametrazioni tecniche “adeguate” ed “equilibrate” ai fini di una maggiore perequazione risarcitoria delle poste biologiche del danno non patrimoniale.
*Medico legale
“Giustizia penale e dintorni”: le riflessioni di Giovanni Fiandaca sulla crisi della giustizia italiana e la biografia intellettuale di un grande giurista
di Alessandro Centonze
Sommario: 1. La biografia accademica e il ruolo di Giovanni Fiandaca nel mondo giuridico italiano. – 2. Giustizia penale e dintorni: alle origini del rapporto tra Giovanni Fiandaca e Il Foglio. – 3. Le posizioni sugli “impostori della morale” e sulla “antimafia di facciata”: una visione lucida e originale dell’azione di contrasto alla criminalità organizzata. – 4. Le riflessioni sul mondo carcerario: dalle politiche iper-punitiviste all’ergastolo ostativo. – 5. L’implosione del mondo giudiziario italiano e la crisi del sistema di autogoverno della magistratura italiana.
1. La biografia accademica e il ruolo di Giovanni Fiandaca nel mondo giuridico italiano
Non è facile parlare del professor Giovanni Fiandaca e della sua presenza nel mondo della cultura giuridica italiana; anzi parlare di questo giurista siciliano è un’operazione che si presenta, fin da subito, estremamente impegnativa.
Il docente palermitano, nella sua ormai cinquantennale esperienza, scientifica e istituzionale, ha rappresentato tante, troppe mirabili cose; tutte non facilmente comparabili con altre figure del panorama giuridico italiano contemporaneo.
Giovanni Fiandaca, innanzitutto, è un giurista siciliano formatosi alla Scuola penalistica palermitana ed è uno dei più importanti penalisti del secondo dopoguerra italiano, nel cui contesto scientifico è stato lungamente presente quale professore ordinario di diritto penale dell’Università di Palermo.
È, inoltre, un innovatore del diritto penale classico, di derivazione germanica, che, dal suo interno, fin dalla seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso –, con il suo fondamento studio sul reato commissivo mediante omissione[1] –, ha fatto evolvere come poche altre figure accademiche nostrane, intervenendo su alcuni temi centrali della dogmatica penalistica[2], che dopo i suoi studi, hanno assunto una configurazione nuova e differente.
La sua importanza per il mondo scientifico italiano, del resto, è testimoniata dall’autorevolezza del gruppo scientifico che ha costituito durante il suo pluriennale impegno nell’Ateneo palermitano, grazie al quale tanti suoi allievi hanno conseguito il ruolo apicale della docenza universitaria, onorando e diffondendo gli insegnamenti del loro Maestro. Ai suoi insegnamenti, invero, si sono ispirati numerosi accademici italiani, non soltanto isolani, che hanno seguito le sue indicazioni dottrinarie, tributandogli il giusto riconoscimento nelle numerose opere che, direttamente o indirettamente, si ispirano ai suoi studi.
Questa autorevolezza è anche testimoniata dai numerosi incarichi istituzionali ricoperti dal professor Fiandaca nel corso degli anni, tra i quali è utile richiamare l’incarico di componente laico del Consiglio Superiore della Magistratura militare; l’incarico di componente laico del Consiglio Superiore della Magistratura; l’incarico di componente della Commissione Pisapia per la riforma del Codice Penale; l’incarico di componente del Comitato Scientifico del Consiglio Superiore della Magistratura per la formazione professionale dei magistrati; l’incarico di presidente della commissione istituita presso il Ministero della Giustizia per elaborare una proposta di interventi in tema di criminalità organizzata; l’incarico di Garante per la tutela dei diritti dei detenuti per la Regione Sicilia.
Il penalista palermitano, infine, è una figura iconica per il mondo dei giuristi italiani, essendo il coautore del manuale universitario più diffuso dell’ultimo quarantennio – il mitico “Fiandaca-Musco”[3]; mitico come poche altre opere manualistiche – su cui si sono cimentate intere generazioni di penalisti, che si sono formati su questo testo scientifico, che li ha accompagnati nel corso delle loro carriere.
2. Giustizia penale e dintorni: alle origini del rapporto tra Giovanni Fiandaca e Il Foglio
Il professor Giovanni Fiandaca, tuttavia, non è soltanto l’esponente del mondo scientifico ammirato e seguito, di cui si è parlato nel paragrafo precedente.
Infatti, in questa parte della sua vita professionale, ha affiancato all’attività scientifica tradizionale, che ha continuato a portare avanti anche dopo il suo pensionamento dall’Università di Palermo, quella di esponente di primo piano della vita culturale nostrana, prendendo parte al dibattito sulla giustizia e sul mondo giudiziario italiano con interventi lucidi e originali.
Di questa vita culturale parallela – o meglio integrativa – costituisce una testimonianza vivida il volume pubblicato dall’editore Zanichelli, intitolato “Giustizia penale e dintorni. Dieci anni di interventi sul Foglio”, che raccoglie gli interventi pubblicati sul quotidiano Il Foglio, a partire dal 2013, in cui il docente palermitano ha espresso il suo lucido punto di vista su alcuni importanti temi giudiziari, mettendo in luce aspetti poco conosciuti, ma illuminanti, del suo pensiero.
Le ragioni che hanno dato origine alla collaborazione tra Giovanni Fiandaca e Il Foglio sono ben spiegate nella premessa del volume che si commenta, in cui si evidenzia che, dopo un saggio pubblicato su una rivista scientifica[4], Emanuele Macaluso, con cui condivideva rapporti di amicizia, lo metteva in contatto con Giuliano Ferrara. Il direttore del Foglio, quindi, decideva di pubblicare per intero il suo intervento – in cui si esprimeva una posizione critica sul cosiddetto processo-trattativa, in corso di celebrazione a Palermo – utilizzando il titolo di forte impatto mediatico “Il processo sulla trattativa è una boiata pazzesca”[5].
La pubblicazione di questo intervento suscitava non poche polemiche, alcune delle quali provenienti da ambienti storicamente vicini al nostro Autore, che lo amareggiavano, ma ne rafforzavano i suoi propositi divulgativi. Per comprendere questi propositi è utile citare le parole dello stesso accademico, che così giustifica la prosecuzione della sua collaborazione con Il Foglio nonostante le iniziali polemiche: «Il fatto è che una spontanea attrazione per il Foglio io l’ho sentita in passato e continuo ad avvertirla oggi, almeno per due ragioni che riassumerei in questo modo: perché si caratterizza come un giornale di così intelligente e stimolante “scorrettezza politica”, da sollecitare una salutare messa in discussione di molti miti, dogmi, tabù, teorie, convinzioni, credenze, pregiudizi e ipocrisie diffusi nell’orizzonte troppo conformistico e chiuso del “politicamente corretto” odierno; e perché difende con convinzione e costanza un garantismo penale ai miei occhi non peloso e interessato, bensì super partes»[6].
Da qui si sviluppava il pluriennale rapporto di collaborazione tra Giovanni Fiandaca e Il Foglio, di cui i diciassette capitoli che compongono il volume che si commenta sono espressione, legati, come sono, da un filo conduttore spiegato dallo stesso accademico, in un altro passaggio della premessa del suo volume. In tale passaggio, in particolare, si afferma, che il fil rouge dei suoi interventi sul Foglio è costituito «da una netta opposizione critica alla pretesa […] di poter utilizzare legittimamente ed efficacemente il diritto ed il processo penale per scopi di amplissima portata; e il cui perseguimento […] ha prodotto e può continuare a produrre l’effetto o di sovraesporre politicamente il potere giudiziario, ponendolo in aperto conflitto o in forte tensione con altri poteri statali, oppure ancora di caricarlo di compiti che più propriamente spettano ad attori sociali o culturali operanti fuori dalla sfera politico-istituzionale […]»[7].
La posizione del docente palermitano, dunque, è chiara, ruotando attorno al ripudio della tentazione di utilizzare il diritto penale come strumento per contrastare fenomeni di degenerazione sociale, pur esistenti, rispetto ai quali le scienze criminali sono utilizzabili nei soli limiti del processo penale e delle sue regole, che devono ritenersi insuperabili e inviolabili. A questi limiti, l’accademico si ispira in tutti i suoi interventi giornalistici, nei quali la constatazione dei mali che affliggono una parte del territorio italiano non può mai essere disgiunta da un approccio garantistico, che deve porre l’individuo al centro di tali riflessioni[8].
Si tratta di un punto di vista che, in qualche modo, accomuna il nostro Autore a Leonardo Sciascia, entrambi essendo convinti che il perseguimento degli obiettivi giudiziari non può mai essere scorporato dal rispetto delle garanzie individuali e dalle finalità correlate a questi obiettivi, disattendendo le quali è incombente l’errore giudiziario, che costituisce il pericolo maggiore in cui può incorrere chiunque esercita l’attività giurisdizionale.
Non si può, in proposito, non citare il paragrafo conclusivo della raccolta di interventi in esame, dedicato a Leonardo Sciascia, intitolato “Leggere Leonardo Sciascia come antidoto agli abusi della giustizia”[9], in cui, tra l’altro, si dà conto delle ragioni dell’interesse che l’opera dell’Autore racalmutese ha assunto negli ultimi anni, di cui sono testimonianza numerose pubblicazioni, anche recenti, che riprendono i temi affrontati dall’accademico palermitano. L’Accademico, in questo modo, ricorda ai lettori del Foglio che l’opera di Leonardo Sciascia costituisce una sorta di memento contro il pericolo di un collasso morale della giurisdizione; pericolo che è tanto maggiore quanto più ci si allontana da una dimensione garantistica dello jus dicere, che trae il suo fondamento dalla ricerca della verità giudiziaria, che non deve mai passare attraverso semplificazioni procedurali, inammissibili quand’anche sorrette dai più alti intenti.
3. Le posizioni sugli “impostori della morale” e sulla “antimafia di facciata”: una visione lucida e originale dell’azione di contrasto alla criminalità organizzata
Nella cornice culturale descritta nel paragrafo precedente si muovono le critiche mosse alla cosiddetta antimafia di facciata – che accomunano ulteriormente Giovanni Fiandaca a Leonardo Sciascia, al quale, come detto, è dedicato un capitolo del volume in esame[10] – che costituisce uno dei pilastri delle raffinate riflessioni dell’accademico palermitano.
A queste tematiche, in particolare, l’Autore si dedica nel capitolo intitolato “Contro gli impostori della morale”[11], che chiariscono il suo punto di vista sul legame inscindibile tra giustizia e rispetto delle garanzie individuali e, a monte, tra attività giurisdizionale ed etica del diritto, su cui il docente palermitano si era già soffermato nel capitolo di apertura della sua raccolta di interventi, intitolato “La trattativa stato-mafia”[12].
Si tratta, invero, di riflessioni che, soprattutto nei titoli a effetto utilizzati, sembrano riecheggiare il noto, memorabile, articolo di Leonardo Sciascia, intitolato “I professionisti dell’antimafia”, pubblicato sul Corriere della sera del 10 gennaio 1987[13], che non solo alimentò grandi polemiche nell’opinione pubblica dell’epoca, ma diede vita a un vero e proprio neologismo, tuttora largamente utilizzato dai commentatori dei temi giudiziari. I ragionamenti svolti, però, si muovono su un piano contiguo ma differente da quello affrontato da Sciascia, risultando orientati dalla prospettiva, legalitaria e costituzionale, che ha guidato la cinquantennale attività scientifica dell’accademico palermitano.
Quale è, in questo caso, l’idea che muove Giovanni Fiandaca?
Il senso di questi interventi giornalistici ci viene chiarito dallo stesso accademico palermitano, che si domanda «l’antimafia ha una tale specificità politica da giustificare che alcuni politici intestino alla lotta alla mafia tutto il loro impegno politico?»[14].
La risposta, anche alla luce delle considerazioni che si sono esposte nei paragrafi precedenti non può che essere negativa, essendo evidente che la strumentalizzazione della politica antimafia – non solo giudiziaria – e le affermazioni di politici che fanno della lotta alla criminalità organizzata il vessillo del loro impegno porta allo svolgimento di compiti eteronomi, determinando scambi confusi di ruoli istituzionali, che minano la credibilità delle forze politiche che propugnano questi contro-valori e inquinano l’attività giurisdizionale.
Questo approccio all’antimafia, per altro verso, esprime la scarsa capacità delle forze politiche, soprattutto meridionali, di concepire disegni di recupero sociale di ampio respiro, in assenza dei quali lo sbandieramento di ideali antimafia “di facciata” finisce per mascherare l’incapacità degli amministratori di portare avanti sfide istituzionali all’altezza dei tempi e progetti in grado di determinare un miglioramento effettivo del tessuto socio-economico. E’ evidente, allora, che nel contesto «di una politica degna di questo nome, è molto probabile che non vi sarebbe bisogno di una politica specificamente antimafia […]»[15], essendo scontato che «la legalità e la lotta contro i poteri criminali dovrebbero costituire presupposti etici, trasversalmente condivisi, di qualsivoglia impegno politico»[16].
Nello stesso versante si collocano le considerazioni effettuate dall’Autore nel capitolo intitolato “La vera origine della gogna”[17], incentrato sui rischi di una connotazione eticizzante – ma non etica – dell’azione giudiziaria, che non deve mai trasmodare in un giudizio morale sui comportamenti oggetto di vaglio giurisdizionale, atteso che il fondamento giustificativo della colpevolezza non può che essere il fatto di reato contestato all’imputato; il che comporta la necessaria separazione tra politica, etica e giurisdizione, che postula una verifica esclusivamente processuale sul disvalore del fatto, che, stricto sensu, prescinde dalla riprovevolezza del comportamento dell’agente.
Né potrebbe essere diversamente, perché, come riferisce Giovanni Fiandaca, il processo penale è uno strumento che deve essere azionato tenendo sempre presente le garanzie della persona umana, atteso che se «è vero che il processo è totalizzante perché tende sempre a giudicare anche la persona dell’autore, l’imperativo deontologico da trarne non potrebbe che essere questo: il magistrato dovrebbe […] guardarsi dalla tentazione di utilizzare il processo come strumento di censura individualizzazione e moralizzazione pubblica»[18]. Diversamente, si finisce «per incrementare oltre misura la già naturale vocazione del giudizio penale a veicolare condanne morali che coinvolgono l’intera personalità degli imputati: con un accresciuto effetto di torsione moralistica, in chiave illiberale, dell’esercizio della giurisdizione»[19].
4. Le riflessioni sul mondo carcerario: dalle politiche iper-punitiviste all’ergastolo ostativo
Il volume che si commenta è un’occasione per parlare anche di un altro aspetto del pensiero di Giovanni Fiandaca, emerso soprattutto negli ultimi anni, riguardante la sua attenzione al mondo carcerario e ai diritti dei detenuti, che è figlia della dalla prospettiva, legalitaria e costituzionale, dell’accademico.
Il docente palermitano, invero, si è sempre mostrato attento alla funzione della pena e ai profili sanzionatori del sistema penale, ma, soprattutto negli ultimi anni, in concomitanza con la sua nomina a Garante dei detenuti per la Regione Sicilia, avvenuta nel 2016, ha dedicato particolare attenzione a questi temi, che si pongono in linea con il rispetto delle garanzie costituzionali di cui la sua opera è impregnata.
Di questa attenzione sono espressione alcuni interventi pubblicati sul Foglio tra il 2019 e il 2021[20], che rivelano quale sia il senso delle riflessioni dell’Autore, interessato al cattivo stato di salute del mondo carcerario italiano, che affonda le sue radici in molteplici fattori che le ultime gestioni ministeriali hanno accentuato. La crisi del sistema penitenziario italiano, infatti, è tale da necessitare l’elaborazione di una strategia integrata di interventi, della cui necessità non sempre le istituzioni governative sembrano essere consapevoli.
La crisi del sistema penitenziario italiano è accentuata dal fatto che, secondo l’accademico palermitano, ai tradizionali fattori endemici di disfunzione organizzativa – quali l’inadeguatezza delle strutture carcerarie, l’eccessiva lentezza dei processi, l’enorme quantità di reati che inflaziona la macchina giudiziaria, le carenze di personale e di risorse – si accompagnano alcuni nodi culturali irrisolti, che traggono origine dai modelli giuridici oggi, in una certa parte, dominanti. Secondo il professor Fiandaca, infatti, questi modelli sembrano «orientare verso un tendenziale sbilanciamento in senso iper-punitivista […]»[21] le politiche penitenziarie e «andrebbero auspicabilmente riequilibrati non solo in nome dei principi del costituzionalismo garantista ma anche per fugare una fuorviante illusione: cioè l’illusione che la repressione penale possa fungere da rimedio risolutivo contro i più gravi mali sociali di turno»[22].
Questo approccio, a sua volta, è collegato alla strumentalizzazione della “questione criminale” in funzione della ricerca del consenso elettorale, che è correlata alle oscillazioni dell’opinione pubblica sui temi della risposta repressiva, essendo evidente che l’allarme-criminalità e le conseguenti scelte di politica repressiva hanno, nel corso degli ultimi decenni, condizionato il dibattito politico.
Di più, secondo l’Autore, l’aspro contrasto politico sulle politiche repressive ha impedito che le linee ispiratrici delle riforme in materia penitenziaria fossero il frutto di disegni chiari e razionali, concepiti sulla base di competenze tecniche adeguate alle questioni istituzionali da affrontare.
Queste irrisolte conflittualità, dunque, non hanno consentito di affrontare i temi centrali della crisi del mondo carcerario, costituiti dal sovraffollamento delle carceri e dal miglioramento complessivo delle condizioni di vita dei detenuti, che possono essere risolti solo rilanciando percorsi risocializzativi e aumentando la possibilità di accesso alle misure alternative alla detenzione. Non possono, in proposito, non richiamarsi le illuminanti parole dell’accademico, secondo cui «l’esigenza di migliorare e riformare il sistema penitenziario […] lungi dall’essere motivato da ingenuo buonismo, tende al contrario a un obiettivo di concreta utilità sociale nell’interesse della generalità dei cittadini»[23].
Queste considerazioni ci fanno comprendere ulteriormente le ragioni delle aspre critiche che una parte dell’opinione pubblica ha espresso nei confronti di alcune pronunce giurisdizionali, che, viceversa, andavano salutate con grande favore, come quella della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo[24].
Le critiche dell’opinione pubblica verso questa tipologia di pronunzie, infatti, è la conseguenza della svolta iper-punitivista di una parte delle forze politiche del Paese, atteso che l’azione di contrasto alla criminalità organizzata non può assurgere a valore supremo dell’attività istituzionale e non può consentire di bollare come espressione di ingenuità idealistica l’atteggiamento dei soggetti che esprimono sentimenti di perplessità verso istituti penitenziari incentrati su presunzioni assolute. Né tale rigore sanzionatorio, secondo l’accademico, vale ad attenuare il dolore patito dalle vittime dei reati di mafia, che non viene alleviato dall’applicazione di istituti connotati da eccessività repressiva come l’ergastolo ostativo, che hanno come funzione, non secondaria, quella di rassicurare la pubblica opinione.
A tutto questo si aggiunga che l’ergastolo ostativo va incontro a numerose obiezioni, difficilmente superabili, la principale delle quali è costituita dal fatto che «la indisponibilità a collaborare non è un indicatore certo e univoco di mancato ravvedimento; il mafioso può rifiutare di collaborare per il timore di esporre se stesso o propri familiari al pericolo di ritorsioni o per la indisponibilità morale a scambiare la propria libertà con quella di altri […]»[25]. Senza considerare che l’istituto dell’ergastolo ostativo, tanto sostenuto dall’area iper-punitivista del Paese viola «il diritto alla libertà morale […] proprio perché la scelta di collaborare avviene sotto la forte pressione psicologica dell’alternativa tra segregazione perpetua e possibilità di tornare liberi […]»[26].
5. L’implosione del mondo giudiziario italiano e la crisi del sistema di autogoverno della magistratura italiana
Un ultimo filo conduttore del volume che si sta commentando è costituito dalle riflessioni dedicate alla crisi del sistema giudiziario italiano, sviluppate attraverso diversi interventi, pubblicati sul Foglio tra il 2015 e il 2021, alle quali, tra l’altro, è dedicato il Capitolo IV, intitolato “Consiglio superiore della magistratura (tra nomine controverse, degenerazioni correntizie, contiguità politiche e sospetta corruzione)”.
Anche in questo caso, occorre porsi preliminarmente una domanda: qual è il punto di vista dell’Autore sulla crisi epocale che attraversa la magistratura italiana?
Per rispondere a questa domanda occorre evidenziare che, secondo Giovanni Fiandaca, la crisi della magistratura italiana e la degenerazione del sistema correntizio che l’ha provocata è determinata da una pluralità di fattori, in parte interni e in parte esterni all’ordine giudiziario, che, con il passare del tempo, hanno prodotto delle vere e proprie «“mutazioni antropologiche” dell’uomo-magistrato quale riflesso di tendenze culturali, dei costumi e di prassi che di volta in volta si avvicendano nella società esterna»[27].
Queste “mutazioni antropologiche”, alimentate da un rapporto spesso perverso tra magistratura e potere mediatico, hanno determinato una deriva professionale individualistica, che ha finito per porre al centro dell’attenzione dei magistrati italiani il successo personale, l’ambizione carrieristica e la ricerca narcisistica della visibilità esterna; caratteristiche umane, queste, che hanno portato, in alcuni casi noti alla pubblica opinione, a conseguenze parossistiche o addirittura parodistiche.
In questo, decadente, scenario, il docente palermitano si sofferma con attenzione sul rapporto perverso tra magistratura e potere mediatico, che «non dovrebbe in effetti essere rivolta soltanto alle “commistioni inammissibili” tra magistrati e politici, finalizzata […] a creare indebite o poco trasparenti alleanze trasversali di potere per influenzare la scelta del vice-presidente del Csm, condizionare le nomine dei capi degli uffici giudiziari più importanti, oppure ad esempio per promuovere intese in vista di politiche legislative gradite al potere giudiziario, stipulare accordi per lo scambio di reciproci favori […]»[28].
Le distorsioni del potere giudiziario, infatti, secondo l’accademico, riguardano anche alcune «forme di collateralismo (vecchio e nuovo) tra politica e giustizia motivate da fini comparativamente più nobili, ma che non per questo risultano innocue quanto alle possibili ricadute nocive sul funzionamento del sistema democratico […]»; ricadute che riguardano «rapporti di contiguità tra settori della magistratura e settori della politica (o tra singoli magistrati e singoli politici) che poggiano sulla condivisione di ideali, valori o ideologie di fondo che vengono poi tradotti in obiettivi comuni da realizzare per via sia politica che giudiziaria […]»[29].
Queste distorsioni del potere giudiziario, secondo l’Autore, impongono un’incisiva riforma ordinamentale, che riporti il Consiglio Superiore della Magistratura ad alcuni fondamentali principi, quale la soggezione del giudice di fronte alla legge e l’autonomia del magistrato dal potere politico, fermo restando che l’eliminazione delle cause della degenerazione correntizia comporta un percorso culturale, non semplice né breve, che orienti il magistrato verso il rispetto dei valori costituzionali. Su quest’ultimo piano, il professor Fiandaca introduce un ulteriore argomento, collegato all’accesso in magistratura, evidenziando che «bisognerebbe riaprire il discorso sui gravi limiti del concorso pubblico […] quale canale di accesso alla funzione giudiziaria, sui persistenti deficit della formazione culturale e tecnica destinata ai futuri magistrati, e – non ultimo – sulle provenienze, le competenze e le insufficienze dei soggetti responsabili delle attività formative nell’ambito della attuale Scuola della magistratura […]»[30].
([1]) Ci si riferisce a G. Fiandaca, Il reato commissivo mediante omissione, Giuffrè, Milano 1979, che l’accademico palermitano pubblicò appena trentenne; su analoghi temi di teoria generale del reato, Giovanni Fiandaca è intervenuto, anche con altri importanti interventi, tra cui G. Fiandaca, Omissione (diritto penale), voce, in Dig. disc. pen., UTET, Torino, 1994, VIII, pp. 546 ss.
([2]) Tra le tante, fondamentali, opere di Giovanni Fiandaca, senza alcuna pretesa di esaustività, ci si permette di richiamare G. Fiandaca, L’associazione di tipo mafioso nelle prime applicazioni giurisprudenziali, in Foro it.¸ 1985, V, pp. 301 ss.; Id., Il diritto penale fra legge e giudice, CEDAM, Padova, 2002; Id., Il diritto penale giurisprudenziale tra orientamenti e disorientamenti, ESI, Napoli, 2008; Id., I temi eticamente sensibili tra ragione pubblica e ragione punitiva, in Riv. it. dir. proc. pen., 2011, pp. 1383 ss.; Id, Sul bene giuridico. Un consuntivo critico, Giappichelli, Torino, 2014; Id., Prima lezione di diritto penale, Laterza, Roma - Bari, 2017.
([3]) Ci si riferisce, in particolare, a G. Fiandaca - E. Musco, Diritto penale. Parte generale, Ottava Edizione, Zanichelli, Bologna, 2022; Id., Diritto penale. Parte speciale, vol. I e II, Ottava edizione, Zanichelli, Bologna, 2022.
([4]) Il saggio in questione è G. Fiandaca, La trattativa Stato-mafia tra processo politico e processo penale, in Criminalia, 2012, pp. 67 ss.
([5]) Si veda G. Fiandaca, Il processo sulla trattativa è una boiata pazzesca, in Il Foglio, 1 giugno 2013.
([6]) Si veda G. Fiandaca, Giustizia penale e dintorni, cit., p. XI.
([7]) Si veda G. Fiandaca, op. ult. cit., p. XI.
([8]) Si veda G. Fiandaca, op. ult. cit., p. XI.
([9]) Si veda G. Fiandaca, Giustizia penale e dintorni, cit., pp. 245-249; questo intervento, originariamente, veniva pubblicato su Il Foglio, 21 novembre 2021.
([10]) Ci si riferisce, in particolare al Capitolo XVII, intitolato “Leggere Leonardo Sciascia come antidoto agli abusi della giustizia, pp. 245-249; questo intervento, originariamente, veniva pubblicato su Il Foglio, 6 novembre 2021.
([11]) Si veda G. Fiandaca, op. ult. cit., pp. 119-122; questo intervento, originariamente, veniva pubblicato su Il Foglio, 28 luglio 2015.
([13]) L’intervento di Leonardo Sciascia, com’è noto, esprimeva le inquietudini dello scrittore racalmutese, che traevano origine da un libro pubblicato da un autore inglese, Christopher Duggan, presso la Casa editrice Rubettino, intitolato La mafia durante il fascismo; tali inquietudini – che erano già presenti, in modo embrionale, in alcuni romanzi degli anni Settanta – riguardavano il pericolo che, attraverso gli strumenti del contrasto alla criminalità organizzata, potessero essere attenuate le garanzie individuali, con un percorso istituzionale che si era già concretizzato in Sicilia nei primi anni del fascismo, con l’azione repressiva condotta dal prefetto Mori.
([14]) Si veda G. Fiandaca, op. ult. cit., pp. 120-121.
([15]) Si veda G. Fiandaca, op. ult. cit., p. 121.
([16]) Si veda G. Fiandaca, op. ult. cit., p. 121.
([17]) Si veda G. Fiandaca, op. ult. cit., pp. 67-70; questo intervento, originariamente, veniva pubblicato su Il Foglio, 9 aprile 2015.
([18]) Si veda G. Fiandaca, op. ult. cit., pp. 69-70.
([19]) Si veda G. Fiandaca, op. ult. cit., pp. 69-70.
([20]) Ci si riferisce, soprattutto, agli interventi contenuti nei Capitoli X e XI, intitolati “Carceri: necessaria una svolta” e “Ergastolo ostativo”, per i quali si rinvia a G. Fiandaca, op. ult. cit., pp. 169-186.
([21]) Si veda G. Fiandaca, op. ult. cit., p. 175.
([22]) Si veda G. Fiandaca, op. ult. cit., p. 175.
([23]) Si veda G. Fiandaca, op. ult. cit., p. 177.
([24]) Ci si riferisce alla sentenza della Corte costituzionale 22 ottobre 2019, n. 253, con cui veniva dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, legge 26 luglio 1975, n. 354 (Ord. pen.), condividendo le considerazioni che erano già state espresse dalla Corte EDU il 13 giugno 2019 nella vicenda nota alla pubblica opinione come caso “Viola contro Italia”.
([25]) Si veda G. Fiandaca, op. ult. cit., p. 184.
([26]) Si veda G. Fiandaca, op. ult. cit., p. 184.
([27]) Si veda G. Fiandaca, op. ult. cit., pp. 107-108.
([28]) Si veda G. Fiandaca, op. ult. cit., pp. 107-108.
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