ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il costo del personale degli Ordini Professionali non rientra nel conto consolidato della pubblica amministrazione (Nota a TAR Lazio, sez. II, 2 novembre 2022, n. 14283)
Redazione
È noto che l’art. 60, comma 2, del d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165 stabilisce che “Le amministrazioni pubbliche presentano, entro il mese di maggio di ogni anno, alla Corte dei conti e alla Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento della funzione pubblica, per il tramite del Dipartimento della ragioneria generale dello Stato, il conto annuale delle spese sostenute per il personale … Il conto è accompagnato da una relazione, con cui le amministrazioni pubbliche espongono i risultati della gestione del personale, con riferimento agli obiettivi che, per ciascuna amministrazione, sono stabiliti dalle leggi, dai regolamenti e dagli atti di programmazione”.
La sentenza del TAR Lazio ha annullato la circolare della ragioneria Generale dello Stato che aveva incluso gli Ordini professionali nel novero degli enti pubblici tenuti alla comunicazione dei dati relativi alla consistenza e al costo del personale ai fini del controllo della spesa pubblica.
Dopo aver preliminarmente qualificato la circolare come atto avente natura autoritativa e imperativa e tale da avere al tempo stesso natura di atto amministrativo generale e astratto e portata immeditamente lesiva “in quanto comporta un sacrificio diretto e attuale nella sfera giuridica degli Ordini”, il TAR ha ritenuto non sufficiente la natura (pacifica) di ente pubblico non economico degli Ordini professionali per poterli ritenere assoggettati al potere di controllo sulla spesa pubblica secondo le disposizioni contenute nel Titolo V del citato d. lgs. 165/2001.
Decisivo, nel ragionamento del TAR, non tanto il fatto che gli Ordini si finanzierebbero autonomamente tramite le quote associative (circostanza che rimane estranea alla ratio decidendi), quanto il fatto che l’art. 2, comma 2-bis, del d.l. n. 101/2013, stabilisce che “Gli ordini, i collegi professionali, i relativi organismi nazionali …, con propri regolamenti, si adeguano, tenendo conto delle relative peculiarità, ai principi del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 … e ai soli princìpi generali di razionalizzazione e contenimento della spesa pubblica ad essi relativi, in quanto non gravanti sulla finanza pubblica”.
Da tale disposizione, secondo il TAR Lazio, deriva la duplice conseguenza che agli Ordini Professionali, benchè enti pubblici non economici, non può applicarsi in via automatica l’intera disciplina sul pubblico impiego e che non può ad essi applicarsi in via automatica neppure la generale disciplina sulla razionalizzazione e contenimento della spesa pubblica.
La riforma Cartabia tra le prassi virtuose e buone leggi
di Giorgio Spangher
1. Con il d. l. n. 162 del 2022 l’entrata in vigore dell’intero d. lgs. n. 150 del 2022 è stata differito al 30 dicembre 2022.
Le ragioni sono note: consentire come richiesto dai 26 procuratori generali di predisporre gli strumenti organizzativi della riforma.
Non può negarsi che questo arco temporale consentirà anche una migliore valutazione degli effetti della riforma, sia nell’operatività delle previsioni del c.d. regime transitorio per i profili normati, sia per quelli per i quali si stanno prospettando non pochi problemi interpretativi di diritto intertemporale.
Ad alcuni di questi aspetti, governati dai principi del tempus regit actum, in materia processuale e del principio dell’irretroattività in materia sostanziale si può far già riferimento, in considerazione del fatto che lo scivolamento globale della riforma lascia quasi tutto inalterato. Quasi, infatti, ove si escluda proprio il primo dei profili che si è prospettato: le implicazioni dell’abrogazione degli artt. 582, comma 2 e 583 c.p.p., con conseguente operatività del solo art. 582, comma 1, c.p.p., in attesa dell’entrata a regime del riformato art. 582 c.p.p. (15 gennaio 2024). A prescindere dalla copertura al 31 dicembre 2022 della legislazione Covid, con possibile uso della pec, la questione che si è prospettata riguarda l’operatività della previsione solo per le decisioni pronunciate dopo dell’entrata in vigore della riforma, senza escludere valutazioni per le motivazioni depositate dopo la vacatio legis (sulla scorta di Cass. Sez. un. Lista). Proprio quest’ultimo profilo potrebbe determinare il regime della modalità di proposizione dell’impugnazione.
Comunque le coincidenze temporali potranno suggerire al legislatore di intervenire in materia. La questione è terribilmente seria perché un errore determinerebbe l’inammissibilità dell’atto (arg. ex art. 591 c.p.p.).
Un secondo profilo attenzionato riguarda la possibilità per l’imputato di godere degli sconti di pena per le mancate impugnazioni dell’abbreviato, nel caso in cui l’impugnazione sia stata proposta antecedentemente alla riforma. Una “lettura” in bonam partem dovrebbe suggerirne l’operatività ma sarebbe necessaria una previsione ad hoc non essendo possibile ritenere la previsione de qua operativa sulla base della rinuncia al gravame, ipotesi diversa rispetto alla mancata impugnazione.
Altro aspetto interessato riguarda la disciplina relativa alla modifica della composizione del collegio, in considerazione del differimento della nuova disciplina delle videoriprese delle dichiarazioni in carenza di strumenti tecnici e di personale attrezzato. Dovrebbe escludersi l’applicazione ultrattiva della sez. un. Bajrami, a fronte dell’affermato riconoscimento del diritto alla richiesta ripetizione dell’atto.
2. Più complesso, stante l’estrema variabilità delle situazioni prospettate, si presenta il tema della perseguibilità a querela per alcuni reati perseguibili d’ufficio. Invero la disciplina transitoria che prevede un arco temporale per la presentazione della querela non appare sufficiente ad impedire il proscioglimento dell’imputato-indagato, salvo ritenere una sospensione degli effetti della riferita modifica.
A parte il problema dell’intervento in flagranza per alcuni reati, impossibile mancando la querela.
Pur essendo stata autorevolmente sostenuta, la mancanza della possibilità di accedere alla giustizia riparativa non consente di ritenere che, a fronte del rigetto di una richiesta per le riferite ragioni di mancanza della disciplina operativa, l’imputato maturi il diritto alla riduzione della pena che l’esito positivo della mediazione gli consentirebbe di ottenere.
Deve ritenersi che le nuove regole di giudizio dell’archiviazione e della sentenza di non luogo troveranno applicazione anche per le pronunce che dovessero essere emesse dopo l’entrata in vigore della legge anche per le indagini incardinate sotto la vigenza delle regole operanti in precedenza.
Molti interrogativi legati alla varietà delle situazioni in itinere si prospettano in relazione ai tempi delle indagini ed alle proroghe: esauriti i 6 mesi di indagini, entrata in vigore la nuova disciplina, il p.m. potrà perseguire o dovrà chiedere la proroga; per le contravvenzioni avrà solo sei mesi o dovrà chiedere la proroga?
Non mancano incertezze in relazione all’operatività degli artt. 415 bis e 415 ter c.p.p. nella nuova formulazione, che tuttavia dovrebbe ritenersi applicabile anche per le indagini non definite. Quid iuris nell’eventualità della citazione diretta e dell’udienza dibattimentale già fissata: la difesa ha diritto all’udienza predibattimentale?
La nuova disciplina del controllo sulle tempestività dell’iscrizione nel registro ex art. 335 c.p.p. si applicherà anche alle indagini preliminari in corso ovvero solo a quelle successive all’entrata in vigore della legge?
3. L’ampio spazio della vacatio legis ha prefigurato (forse anche con l’intento - neppure troppo velato - di congelare alcuni profili della riforma) la questione della possibile “anticipazione” di alcuni aspetti del d. lgs. n. 150 del 2022.
Ci si è così interrogati sulla possibilità di applicare durante il periodo di vacatio legis le norme penali sostanziali del regime sanzionatorio connotate da una disciplina più favorevole.
Sono state citate al riguardo due decisioni della Cassazione che peraltro non sembrano risolvere la questione (Cass. Sez. I, 14.5.2019, n. 39977; Cass. Sez. I, 18.5.2017, n. 53602).
In altri termini, a prescindere dalla lunghezza della vacatio ( dato non irrilevante) e della possibilità di modificare la normativa del d. lgs. n. 150 del 2022 [a prescindere dallo strumento con il quale ciò sarebbe realizzabile (delega); le riserve peraltro formulate in materia sono agevolmente superabili], è possibile l’applicazione più favorevole ovvero il giudice ritenendole applicabili dovrà rinviare il processo, ovvero dovrà decidere sulla scorta della disciplina ancora vigente.
Lo spazio temporale oggetto del differimento, consentirebbe sicuramente al Parlamento di apportare quei correttivi che alcune previsioni già oggi evidenziano: l’art. 129 bis c.p.p. stante la sua a dir poco giuridicamente infelice formulazione; l’art. 175 bis disp. att. c.p.p. stante la sua errata formulazione; la valorizzazione nel codice dei criteri di priorità, attualmente schermati nei poteri organizzativi dell’ufficio di procura (art. 127 bis disp. att.); la mancanza di contenuti procedurali nella disciplina dell’improcedibilità e della confisca di cui all’art. 578 ter; il coordinamento del comma 3 con il comma 5 dell’art. 656 c.p.p.; il coordinamento del comma 2 dell’art. 405 c.p.p. con il comma 3 bis dell’art. 406 c.p.p. e così via come chi studia le nuove norme non manca a torto o a ragione di evidenziare.
Del resto, il riferito spazio di vacatio legis sembra prefigurare – come già avvenuto – un intervento dell’ufficio del Massimario della Cassazione (già depositato) con la logica conseguenza che eventuali riserve o dubbi interpretativi potrebbero trovare adeguati correttivi in fase di conversione del d.l. n. 162.
Di fronte ad uno scenario di possibili modifiche, le parole d’ordine sono “lealtà” e “self restraint” di Governo e Parlamento: “prassi virtuose”, “buone prassi”, “prassi uniformi” (così la Relazione illustrativa; la Relazione al d.l. e numerosi interventi della magistratura): si suggerisce di lasciare che sia la giurisprudenza ad interpretare, a correggere (es.: la nuova procura per i ricorsi in cassazione) e se del caso a modificare la norma magari con la sua creatività interpretativa. Sono molte le previsioni, anche nel recente passato, di interventi in tal senso, spesso del tutto non condivibili.
Visto che c’è tempo e soprattutto la necessità di regolare il regime transitorio, stante la inevitabile commistione con aspetti complessi di diritto intertemporale, meglio forse un intervento del legislatore, meglio “buone leggi”.
La libertà di espressione tutela anche FEMEN. La Corte EDU bacchetta la Francia
di Gabriella Luccioli
1. Ha destato molto scalpore la decisione della Corte EDU del 13 ottobre scorso che accogliendo il ricorso di Eloise Bouton ha ravvisato nella pronuncia dei giudici francesi di condanna della donna per esibizione sessuale (exhibition sexuelle) una violazione dell’art. 10 della Convenzione e condannato lo Stato convenuto al risarcimento del danno morale.
La vicenda è nota. La Bouton era un’attivista di FEMEN, movimento femminista radicale fondato a Kiev nel 2008 per denunciare l’immagine delle donne in una Ucraina postsovietica corrotta, che offriva le donne come spose in vendita o le rendeva oggetto di turismo sessuale.
Nel suo manifesto costitutivo l’associazione sosteneva che il suo obbiettivo era la vittoria sul patriarcato, nelle sue articolazioni principali: l’industria del sesso, la religione e la dittatura. Nata come movimento contro il regime del proprio Paese (analogamente a quanto avveniva in Russia, dove il collettivo PUSSY RIOT si opponeva al proprio sistema politico), FEMEN assunse nel tempo dimensioni internazionali ed estese la sua azione militante ad una vasta gamma di battaglie politiche: dalla difesa dei diritti delle donne in tutto il mondo alle posizioni della chiesa cattolica e di quella ortodossa, alla lotta contro i regimi autoritari.
Il movimento, autodefinitosi femminismo del terzo millennio, scelse come modalità di realizzazione in pubblico delle proprie proteste l’ostentazione di seni nudi sui quali erano vergati slogan e messaggi politici: una pratica chiaramente dirompente e provocatoria volta a combattere l’immagine stereotipata della donna come oggetto sessuale e a rivendicare la libertà di disporre del proprio corpo, secondo una prospettiva che in qualche modo richiamava il biopotere di Foucault.
Nella filosofia del movimento il riconoscimento del legame profondo tra percezione corporea e partecipazione alla vita pubblica imponeva la scelta di far parlare il proprio corpo nel modo più aperto e diretto, così da raggiungere attraverso l’esibizione di sé la piena indipendenza e la liberazione da ogni forma di controllo da parte della politica, della religione e del conformismo imperante. Al tempo stesso il linguaggio del corpo sopperiva, nella sua efficacia dissacrante, alla inadeguatezza della sola parola.
L’esposizione del seno nudo divenne il segno distintivo del gruppo: il proclama il mio corpo è il mio manifesto esprimeva una concezione del corpo non più come oggetto di desiderio o di piacere da parte dell’uomo, ma come emblema di libertà, come una tela sulla quale tracciare in modo sintetico ed efficace, per slogan, l’oggetto delle proprie battaglie e la propria visione del mondo, come uno strumento di affermazione politica e sociale. Restava così conclamato il progetto di utilizzare un corpo veicolo che si faceva mezzo e messaggio e che attraverso tale funzione riscattava il corpo sfruttato delle donne.[1]
Tale progetto dette peraltro luogo ad una accesa polemica con alcuni settori delle femministe islamiche, che in quegli anni - al contrario di oggi - rivendicavano la scelta di coprirsi come atto di autodeterminazione e quindi di libertà.
Il 20 dicembre 2013 la Bouton aveva inscenato una protesta contro le posizioni delle autorità ecclesiastiche nel mondo ostili alle pratiche abortive esponendosi a seno nudo all’interno della chiesa parigina de la Madeleine con il capo coperto da un velo azzurro, ad imitazione dell’immagine della Madonna, mostrando scritte sul torace e sulla schiena, recitando slogan a voce alta e tenendo in mano pezzi crudi e sanguinolenti di fegato di manzo, a simboleggiare il feto e l’aborto di un piccolo Gesù, che aveva poi deposto ai piedi dell’altare.
L’esibizione non era avvenuta durante una celebrazione liturgica, ma nel corso di una ensemble vocale. Essa aveva avuto breve durata, in quanto a richiesta del direttore del coro la Bouton si era subito allontanata in silenzio. Come era prevedibile, la vicenda aveva trovato grande risonanza nel circuito dell’informazione, per essere stata ampiamente pubblicizzata dai giornalisti presenti, preavvertiti dalla stessa donna.
Il 7 gennaio 2014 la Bouton era stata sottoposta a custodia cautelare. Il 15 ottobre 2014 il Tribunale penale di Parigi la aveva ritenuta colpevole del reato di esibizione sessuale previsto dall’art. 222-32 c.p. (che nella formulazione applicabile ratione temporis puniva l’esibizione sessuale imposta alla vista degli altri in un luogo accessibile al pubblico) e la aveva condannata ad un mese di reclusione con sospensione semplice ed al risarcimento dei danni morali al rappresentante della parrocchia. Tale pronuncia era stata confermata dal giudice di appello il 15 febbraio 2017. La Corte di Cassazione con sentenza del 9 gennaio 2019 aveva infine respinto il ricorso dell’imputata, ravvisando la sussistenza degli elementi costitutivi del reato contestato, per essere stata detta esibizione volontariamente commessa in una chiesa aperta al pubblico, rilevando inoltre che doveva prescindersi dai motivi che avevano ispirato la condotta della donna e che la condanna penale non determinava un’eccessiva interferenza con la libertà di espressione, dovendo tale libertà conciliarsi con il diritto degli altri, riconosciuto dall’art. 9 della CEDU, a non essere disturbati nella pratica della propria religione.
La Bouton aveva proposto ricorso alla Corte EDU lamentando la violazione dell’art. 10 della Convenzione: specificamente aveva sostenuto che l’ingerenza dello Stato nella sua libertà di espressione non era conforme alla legge ai sensi del paragrafo 2 della norma denunciata, né poteva considerarsi misura necessaria in una società democratica, secondo il medesimo disposto normativo. Al riguardo aveva osservato che la sua azione non era gratuitamente offensiva o diretta a disturbare i fedeli presenti nella chiesa, ma mirava a veicolare un messaggio di contestazione delle posizioni della Chiesa cattolica sull’aborto. Aveva aggiunto che la gravità della condanna ad una pena detentiva, pur sospesa, induceva ad escludere la proporzionalità dell’ingerenza commessa sulla sua libertà di espressione.
Con la sentenza in esame la Corte EDU ha accolto il ricorso, ritenendo che l’ingerenza sulla libertà di espressione della Bouton posta in essere con la condanna alla pena detentiva sospesa non fosse necessaria in una società democratica.
In particolare la Corte di Strasburgo ha ricordato che la libertà di espressione è un principio fondamentale in una società democratica e che tale libertà ha riguardo non solo alle informazioni, ma pure alle idee, a tutte le idee, anche a quelle che offendono o disturbano il sentire della collettività; ha inoltre osservato che ai sensi del comma 2 dell’art. 10 l’ingerenza del potere pubblico sull’esercizio del diritto di libertà di espressione è lecita solo ove ricorrano le specifiche circostanze ivi previste. Nell’ambito del necessario bilanciamento tra il diritto della ricorrente di manifestare le proprie idee sui diritti delle donne e quello degli altri al rispetto della morale e dell’ordine pubblico la Corte ha rilevato che la questione della nudità del seno in un luogo di culto non poteva essere riguardata, come aveva fatto il giudice nazionale, isolatamente rispetto alla performance complessiva ed ignorando il significato che la ricorrente intendeva attribuire all’esibizione di sé e la portata dei messaggi trascritti sul suo corpo; ne derivava che il bilanciamento operato dai giudici nazionali non era adeguato né conforme ai criteri stabiliti dalla sua giurisprudenza, tenuto anche conto che una pena detentiva è compatibile con la libertà di espressione solo in presenza di situazioni eccezionali, in particolare quando altri diritti fondamentali siano stati gravemente violati, come nel caso della diffusione di incitamenti all’odio o alla violenza: nella fattispecie in esame la condotta delle Bouton non solo non esprimeva alcun sentimento di odio né incitamento alla violenza, ma aveva come unico obbiettivo quello di contribuire, con una performance volutamente provocatoria, al dibattito pubblico sui diritti delle donne, ed in particolare sul diritto all’aborto.
Infine, soffermandosi sull’ultimo elemento sottoposto alla sua valutazione, quello relativo alla necessità dell’intervento giudiziario in una società democratica, ha ritenuto che l’interferenza del giudice penale non fosse necessaria, attesa la non rispondenza dell’azione intrapresa dai tribunali francesi ad una esigenza sociale impellente e la sua non proporzionalità rispetto ai fini perseguiti, e considerato che non era stato valutato da detti giudici se l’azione della ricorrente, in tutte le sue modalità, fosse gratuitamente offensiva per le coscienze religiose.
La sentenza era seguita dal parere della giudice Simaykova, che nel concordare pienamente con il decisum del Collegio se ne discostava nel percorso argomentativo, contestando che l’ingerenza commessa fosse prevista dalla legge e perseguisse uno scopo legittimo: rilevava al riguardo che a suo avviso la sanzione inflitta, prima ancora che eccessiva, appariva emessa al di fuori delle previsioni di legge, in quanto adottata a tutela del pudore dei credenti e della loro libertà di coscienza e di religione, ossia per uno scopo diverso da quello sotteso alla norma incriminatrice. Aggiungeva che l’accusa di esibizione sessuale contestata in giudizio era comunque priva di fondamento, in quanto nessuno dei presenti nella chiesa era stato aggredito sessualmente; era vero piuttosto che il mezzo di espressione adottato era puramente politico e non era stato in alcun modo sessualizzato. Ricordava infine che l’arte e la cultura francesi erano ricche di esempi di seni nudi femminili e citava al riguardo il quadro di Manet Dejeuner sur l’herbe ed il seno nudo di Marianna.
2. La sentenza della Corte EDU favorevole alla ricorrente è stata oggetto di aspre critiche da parte di molti commentatori[2], chiaramente colpiti dalla sgradevolezza di alcuni particolari della rappresentazione posta in essere dalla Bouton e dalla sacralità del luogo. E tuttavia una decisione siffatta appare in qualche misura scontata, in quanto del tutto in linea con i precedenti della stessa Corte in materia, ampiamente richiamati in motivazione.
Va innanzi tutto rilevato che l’imputazione di esibizione sessuale contestata dai giudici francesi in assenza in quell’ordinamento di fattispecie penali che tutelino le confessioni religiose e la libertà di religione presentava evidenti profili di incongruità, in quanto isolava - come puntualmente osservato nella sentenza in esame - un frammento dell’intera performance della Bourion, depurandolo della sua effettiva portata e delle sue finalità: ed invero l’estrapolazione dell’esibizione del busto dal quadro complessivo dell’azione di protesta deprivava detta ostentazione della sua funzione comunicativa e della sua carica polemica, attribuendole una capacità di offendere la sessualità e il pudore delle persone certamente estranea alle intenzioni della manifestante, prima ancora che contrastante con il sentire della collettività, da tempo assuefatta alla visione delle nudità femminili, non soltanto in campo artistico, ma anche nella stampa, nelle trasmissioni televisive e nella pubblicità.
Appare pertanto pienamente condivisibile il parere della giudice Simaykova lì dove afferma che in realtà la condanna del giudice francese è stata pronunciata a tutela della libertà di coscienza e di religione degli astanti, ossia per uno scopo diverso da quello previsto dall’art. 222-32 c.p., volto a tutelare i cittadini da aggressioni sessuali.
E tuttavia va considerato che, come correttamente osservato dalla sentenza in esame, la Corte di Strasburgo non era chiamata a pronunciare sulle tecniche utilizzate dal legislatore per regolamentare un settore del diritto, né sugli elementi costitutivi del reato di esibizione sessuale previsto nel codice penale francese, spettando alle autorità nazionali interpretare e applicare il diritto interno, quindi valutare i fatti controversi e il loro contesto di riferimento, infine riscontrare la sussistenza di tutti gli elementi integranti la fattispecie criminosa.
Tanto meno era riconducibile alle attribuzioni della Corte Europea ogni sindacato sulla correttezza della imputazione penale in relazione ai fatti accertati.
Compito della Corte era quello di accertare se la condanna del giudice penale francese integrasse una violazione dell’art. 10 della Convenzione, ossia se i metodi adottati da detto giudice e le conseguenze che ne erano derivate fossero conformi alla Convenzione.[3] Nell’ambito di tale valutazione la sentenza ha correttamente richiamato i propri precedenti in materia, sia con riferimento al valore fondamentale della libertà di espressione, in tutte le sue forme, sia in ordine alla ricorrenza dei motivi legittimi di ingerenza elencati nel capoverso dell’ art. 10 della Convenzione, sia alla sussistenza del requisito della necessità dell’intervento giudiziario in una società democratica, ai sensi del medesimo capoverso, sia infine in relazione alla compatibilità con la libertà di espressione della pena detentiva inflitta.
Come è noto, nella prospettiva del giudice di Strasburgo la libertà di espressione, pietra angolare di ogni sistema liberale, riveste una dimensione funzionalistica, in quanto è volta all’affermazione del pluralismo democratico prescindendo dal contenuto dell’opinione espressa, dai suoi obbiettivi e dalla sua rilevanza sociale[4]. Essa è meritevole di tutela in ogni sua modalità, sia in quella del linguaggio parlato, scritto o dei segni, sia in quella delle immagini.
In questa prospettiva, a partire dalla storica sentenza Handyside c. Regno Unito del 1976 - con la quale la Corte EDU affermò che la libertà di espressione costituisce una delle condizioni fondamentali per il progresso di ogni società democratica e per lo sviluppo di ogni individuo e che tale libertà è garantita non solo alle informazioni o alle idee accolte favorevolmente dal sentire collettivo o allo stesso indifferenti, ma anche a quelle che offendono lo Stato o qualsiasi fascia della popolazione, in ragione del pluralismo, della tolleranza e dello spirito di apertura senza il quale non esiste una società democratica - detta Corte ha progressivamente esteso l’ambito della libertà di espressione, in essa ricomprendendo anche la forma ed il mezzo con i quali informazioni ed idee sono manifestate, corrispondentemente riducendo la portata delle clausole limitative poste dal capoverso dell’art. 10, per loro natura di restrittiva interpretazione.
Si trattava quindi nella specie di verificare se le sanzioni imposte dal giudice penale fossero previste dalla legge e se costituissero misure necessarie, in una società democratica, per la sicurezza nazionale, per l’integrità territoriale o per la pubblica sicurezza, per la difesa dell’ordine e per la prevenzione dei reati, per la protezione della salute o della morale, per la protezione della reputazione o dei diritti altrui, così come disposto dal richiamato capoverso.
Al riguardo la Corte di Strasburgo ha osservato che l’ingerenza dello Stato aveva fondamento legale, in quanto prevista dall’art. 232-22 c.p., ma nel compiere la necessaria verifica se l’interferenza dello Stato fosse diretta a conseguire uno dei fini legittimi elencati nel comma 2 dell’art. 10 ha rilevato che, pur tenuto conto del margine di apprezzamento riservato al giudice nazionale, la condanna pronunciata da detto giudice non poteva considerarsi compatibile con la tutela accordata dal primo comma alla libertà di espressione, in quanto emessa prescindendo dal necessario bilanciamento tra interessi divergenti, costituiti da un lato dal diritto della ricorrente di comunicare in pubblico e dall’altro dal diritto delle persone al rispetto della morale e dell’ordine pubblico. Infine, con riguardo all’elemento della necessarietà dell’intervento in una società democratica, nel senso fatto proprio dalla sua giurisprudenza di rispondenza ad un bisogno sociale impellente, la Corte ha escluso tale necessità, attese le concrete modalità con le quali l’ingerenza era stata posta in essere e considerata anche la natura detentiva della pena inflitta, che integrava una delle forme più gravi di ingerenza nel diritto alla libertà di espressione e che secondo i propri consolidati assunti può trovare giustificazione soltanto in presenza di circostanze eccezionali, quando altri diritti fondamentali siano stati gravemente violati.
In ogni passaggio il percorso argomentativo della sentenza si sviluppa in piena aderenza agli indirizzi della stessa Corte, puntualmente e copiosamente richiamati: inserita nella trama di detti arresti, la decisione adottata non può essere intesa - secondo quanto da alcuni sostenuto - come un’ulteriore offesa alla libertà religiosa, come una aberrante patente di legittimità di un gesto blasfemo, ma come una dimostrazione di coerenza e di tenuta del sistema. È noto invero che nella giurisprudenza convenzionale il giudice interpreta il testo scritto della Convenzione secondo strumenti concettuali diversi dai canoni generali ed astratti propri della nostra tradizione giuridica, affidando l’interpretazione alla ricerca e al rispetto del precedente, con una particolare attenzione alle specificità del caso concreto ivi esaminato, per verificarne la sovrapponibilità con quello oggetto di esame, in una logica ispirata alla tradizione giuridica dei paesi di common law.
3. La condotta dell’attivista Bouton appare senza dubbio fortemente provocatoria e sgradevole, sia per le sue modalità, accuratamente scelte nei dettagli per impressionare e per suscitare reazioni forti, sia per la sacralità del luogo in cui è stata posta in essere. Essa aveva la capacità di offendere la sensibilità e il sentimento religioso degli astanti e certamente nell’ordinamento italiano avrebbe trovato sanzione in specifiche ipotesi criminose, come quelle previste dagli artt. 403 e ss. c.p., modificati dalla legge n. 85 del 2006, ma una volta esclusa, come già osservato, ogni discussione circa la correttezza della contestazione da parte dei giudici francesi del reato di esibizione sessuale ai sensi dell’art. 222-32 c.p., la questione riguardava unicamente la possibilità di ricondurre la condanna penale ad una delle ipotesi che eccezionalmente consentono la limitazione della libertà di espressione.
L’operazione, scaturita dalla suindicata imputazione, di estrapolazione dal contesto del fatto di esibirsi in pubblico, così sanzionando la donna per il solo essersi mostrata a seno nudo, ha indotto i giudici francesi ad una sentenza che ha ignorato il significato e le finalità del gesto, attribuendogli una insussistente connotazione sessuale, e dunque ad una condanna che non poteva non essere riguardata dal giudice europeo come una illegittima ingerenza nella libertà di espressione, non avendo nulla a che fare né con la libertà di coscienza o religione né con altri diritti eventualmente in conflitto con quel diritto primario.
[1] Per qualche approfondimento sulla natura e sulle finalità dell’associazione v. CHANNELL, Is sextremism the new feminism? Perspectives from Pussy Riot and FEMEN, in National papers, 2014; DUNGAY, “Our mission is protest”: FEMEN, toplessness and female spectacle, University of Plymouth. 2018; LOMBARDI, L’altra metà del cielo: le Femen in Ucraina, in lospiegone.com, 14 febbraio 2019; TURRI, FEMEN, un movimento che sfida il potere, in novantatrepercento.it, 4 dicembre 2017.
[2] V. per tutti PUPPINCK, La CEDU sempre più strabica nella “tutela” dei “diritti umani”, in provitaefamiglia.it, 15 ottobre 2022; RONCO, Caso FEMEN: per la CEDU la libertà religiosa può essere calpestata, in www.centrostudilivatino, 19 ottobre 2022. In senso favorevole v. ROBOTTI, Ci sarà pure una giudice a Strasburgo: il caso dell’attivista “FEMEN”, in goodmorninggenova.org, 17 ottobre 2022.
[3] Sui livelli di revisione della Corte EDU in materia di libertà di espressione v. GORI, Libertà di manifestazione del pensiero, negazionismo, hate speech, in Speciale Questione Giustizia, aprile 2019.
[4] V. in tal senso CARDONE, L’incidenza della libertà d’espressione garantita dall’art.10 CEDU nell’ordinamento costituzionale italiano, in osservatoriosullefonti.it, 2012, n. 3.
Le persistenti ragioni del divieto di maternità surrogata e il problema della tutela di colui che nasce dalla pratica illecita. In attesa della pronuncia delle Sezioni Unite
di Arnaldo Morace Pinelli
Sommario: 1. Premessa. - 2. Le ragioni del divieto. La maternità surrogata instaura sulla vita del bambino e della gestante un inammissibile potere privato di controllo - 3. Segue: la gestante è strumentalizzata ai bisogni di genitorialità della coppia committente - 4. Le Sezioni Unite del 2019 e la sentenza della Corte costituzionale n. 33/2021. Persistenza del divieto di maternità surrogata e contestuale esigenza di tutelare più incisivamente colui che nasce dalla pratica illecita - 5. L’ordinanza interlocutoria n. 1822/2022. La questione della maternità surrogata viene nuovamente rimessa alle Sezioni Unite - 6. Corte cost. n. 79/2022. Il bilanciamento degli interessi in gioco spetta al legislatore. L’interesse del minore si realizza attraverso l’adozione particolare del genitore d’intenzione. Il ruolo della giurisprudenza.
1. Premessa
Il tema della maternità surrogata pone due questioni, distinte tra loro, che spesso vengono confuse, ossia quella della illiceità della peculiare tecnica procreativa e quella della salvaguardia di colui che nasce ricorrendo ad essa, che non ha colpa della violazione del divieto ed è «bisognoso di tutela come ogni altro e più di ogni altro», benché il legislatore, in questa materia, si sia limitato a vietare e sanzionare, mentre «avrebbe dovuto… regolare la sorte del nato malgrado il divieto».[1] La legge n. 40/2004, infatti, tace al riguardo.
Come cercheremo di dire, tuttavia, questa giusta esigenza di tutela del minore non implica in alcun modo il superamento, diretto o indiretto, del divieto di maternità surrogata, ripetutamente affermato dalla Corte costituzionale e della Sezioni Unite della Corte di Cassazione.
2. Le ragioni del divieto. La maternità surrogata instaura sulla vita del bambino e della gestante un inammissibile potere privato di controllo
La maternità surrogata si fonda su un contratto «con il quale una donna si presta ad essere fecondata artificialmente, per poi consegnare alla coppia committente il nato», contratto che, nel nostro ordinamento, non solo è vietato ma anche penalmente sanzionato (art. 12 n. 6, l. 40/2004),[2] in quanto – come è stato recentemente ribadito della Corte costituzionale - «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane»,[3] «assecondando un’inaccettabile mercificazione del corpo, spesso a scapito delle donne maggiormente vulnerabili sul piano economico e sociale».[4]
La contrarietà all’ordine pubblico della maternità surrogata, ostativa al riconoscimento e alla trascrizione nei registri dello stato civile in Italia dei provvedimenti che attribuiscono lo status filiationis, nel caso in cui la coppia sia ricorsa a tale pratica di p.m.a. all’estero, non riposa soltanto nell’art. 12 l. n. 40/2004, che introduce il reato di intermediazione commerciale in tale materia, ma affonda radici profonde nel diritto civile,[5] come dimostra il fatto che dottrina e giurisprudenza predicavano l’invalidità degli accordi di maternità surrogata ben prima dell’entrata in vigore della l. n. 40/2004.
Sintetizzando al massimo, la maternità surrogata instaura sulla vita del bambino e della gestante un inammissibile potere privato di controllo. Essa si fonda su un contratto con cui si dispone di diritti inviolabili, efficace nei confronti di un soggetto estraneo all’accordo e vulnerabile: il nascituro. Il rapporto di filiazione origina da un contratto, sul presupposto che l’autodeterminazione procreativa dei committenti sia sufficiente a costituire lo status.[6]
Il rilievo giuridico che si pretende di attribuire al progetto genitoriale dei committenti implica, necessariamente, l’assorbimento dell’interesse del figlio in quello dei genitori. Del resto proprio questo dice quella parte della giurisprudenza che, in questi casi, fa coincidere il preminente interesse del minore con la conservazione dello status filiationis, in qualsiasi modo acquisito all’estero.[7] Dalla condivisibile premessa che le conseguenze della «violazione delle prescrizioni e dei divieti posti dalla legge n. 40 del 2004 - imputabile agli adulti che hanno fatto ricorso ad una pratica fecondativa illegale in Italia – non possono ricadere su chi è nato», si fa discendere, alla stregua di un corollario, il principio per cui l’interesse del minore sarebbe tutelato attraverso un automatismo, ossia mediante il riconoscimento e la trascrizione nei registri dello stato civile in Italia del provvedimento che attribuisce lo status filiationis, validamente formato all’estero, indipendentemente dal fatto che i genitori siano ricorsi ad una pratica di p.m.a. vietata in Italia.[8] Agitando la formula del the best interest of the child - di cui non si è mancato di sottolineare l’ontologica vaghezza[9] -, si finisce con l’ammettere la surrogazione di maternità,[10] seppure circoscrivendo la mercificazione ai corpi di donne straniere e, soprattutto, si legittimano ex post le scelte degli adulti, al di fuori di qualsiasi valutazione in concreto dell’effettivo interesse del minore nato dalla pratica illecita.
A ben vedere, dunque, la maternità surrogata postula un controllo proprietario dell’esistenza. L’accordo di surrogazione «ha come prestazione caratterizzante la generazione di un essere umano dotato di certe proprietà fisiche (costituzione genetica) e giuridiche (stato filiale) e come scopo la costituzione, modificazione estinzione di diritti e doveri genitoriali».[11] Da questo punto di vista, l’invalidità dell’accordo sussiste indipendentemente dal fatto che esso sia stipulato a titolo oneroso o a titolo gratuito.
Questo potere degli adulti (i committenti) sulla vita del bambino (e della gestante) si pone in aperto conflitto con il diritto contemporaneo della filiazione, che procede in una direzione opposta, ossia quella del controllo del potere dei genitori sui figli.[12] L’autonomia privata si espande nei rapporti simmetrici [all’ampia facoltà di scelta degli adulti tra i modelli di convivenza (matrimonio, unioni civili, convivenze regolate dal diritto, mere convivenze eterologhe o omoaffettive), si affianca una significativa libertà nella determinazione di diritti e doveri e nello scioglimento del rapporto], mentre i rapporti tra figli e genitori sono presidiati da norme inderogabili e dal rilievo che assume lo status filationis, inteso quale sintesi di situazioni giuridiche indisponibili ai privati.[13]
La riforma Bianca sulla fiIiazione del 2012 proietta definitivamente l’ordinamento sulla persona del minore. Il nuovo art. 315 bis c.c. enuncia lo statuto dei diritti fondamentali del figlio come persona, mentre in passato «la posizione giuridica del figlio veniva identificata solo relativamente ai doveri dei genitori e agli obblighi delle prestazioni alimentari».[14] Il figlio viene posto al centro del sistema, ultimandosi il passaggio da una concezione del minore, quale soggetto debole da tutelare, a quella di individuo, titolare di diritti soggettivi, che l’ordinamento salvaguarda ed è chiamato a promuovere. Ed i suoi diritti, scolpiti nell’art. 315 bis c.c. (il diritto ad essere mantenuto, educato, istruito ed assistito moralmente dai genitori, il diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti, il diritto all’ascolto) rientrano nel novero di quelli fondamentali della persona e sono garantiti dall’art. 2 Cost.
Questa visione minori-centrica si ripercuote anche nel rapporto con i genitori, focalizzato sulla persona del figlio e sulla prevalenza dei suoi diritti. Costituisce portato fondamentale della riforma del 2012 la sostituzione della nozione di potestà, evocativa di un potere sul minore, con quella di responsabilità genitoriale, che evidenzia invece l’impegno che l’ordinamento richiede ai genitori, non identificabile «come una “potestà” sul figlio minore, ma come un’assunzione di responsabilità da parte dei genitori nei confronti del figlio».[15] Questa sostituzione lessicale assume una valenza culturale profonda, segnando il radicale mutamento di prospettiva operato dalla riforma: nel rapporto genitori-figlio l’ordinamento si colloca dalla parte del minore, in virtù del superiore interesse di cui questi è portatore.
La centralità della posizione del minore, quale soggetto titolare di diritti fondamentali garantiti dall’art. 2 Cost., permea anche la legge sull’adozione. L’art. 1 l. n. 184/1983 proclama solennemente il suo diritto di crescere ed essere educato nell’ambito della propria famiglia e l’inclusione di un siffatto diritto nello speciale statuto dell’art. 315 bis c.c. conferma che ci troviamo in presenza di un diritto fondamentale della persona, essendo la famiglia «un bene essenziale per la vita affettiva e per l’armoniosa formazione» del minore.[16] Siffatto diritto rientra tra quelli assoluti, esperibili nei confronti di tutti i terzi, compreso lo Stato, verso cui il minore – per quel che qui soprattutto interessa - vanta la pretesa a non subire provvedimenti di adozione, affidamento e allontanamento al di fuori dei casi previsti dalla legge e ad un concreto intervento volto a rimuovere le difficoltà personali ed economiche che sono di ostacolo all’esercizio del diritto.
Quando la famiglia manca o l’ambiente familiare è irrecuperabile, «il minore abbandonato ha diritto ad essere adottato perché ha diritto ad una famiglia, come enunciato dal titolo della legge, e ha diritto ad una famiglia perché solo una famiglia può dargli quell’amore di cui ha fondamentalmente bisogno».[17] Il diritto del minore alla propria famiglia si specifica, poi, nel diritto alla bigenitorialità, ossia alla doppia figura genitoriale, espressamente sancito, nel caso di crisi del rapporto che lega i genitori, dall’art. 337 ter c.c.
Il nostro ordinamento conosce, dunque, il diritto del figlio di crescere nella sua famiglia, mantenendo un rapporto equilibrato e continuativo con ciascuno dei suoi genitori e le essenziali relazioni affettive che instaura e – prima ancora – il suo diritto ad avere una famiglia e, dunque, ad essere adottato, ove si trovi in stato d’abbandono. Non esiste, invece, un diritto dell’individuo ad avere figli[18] e, più segnatamente, un diritto ad adottare,[19] che – anche nella sua teorica postulazione – svilisce la posizione e la dignità del figlio, riducendo la sua persona ad oggetto di un diritto altrui.[20] Ciò significa che l’interesse giuridicamente rilevante ad adottare, certamente configurabile, «può essere soddisfatto solo se e in quanto sia adeguatamente realizzato il diritto del minore ad essere adottato».[21]
Se questo è il sistema, non vi è spazio per un contratto, quale è quello di maternità surrogata, che instaura sulla vita del bambino (e della gestante) un potere privato di controllo esercitato dalla coppia committente.
3. Segue: la gestante è strumentalizzata ai bisogni di genitorialità della coppia committente
La maternità surrogata confligge poi con i valori fondamentali espressi dagli artt. 2 e 29 cost. L’ordinamento guarda alla persona umana come a un valore in sé e non come a un semplice mezzo per il soddisfacimento dell’altrui interesse. La gestante non è strumentalizzabile ai bisogni di genitorialità della coppia committente.
Sotto tale profilo si coglie la lesione della dignità della donna, da declinarsi in termini oggettivi e non soggettivi. Anche se la gestante sia libera dal bisogno e mossa da animo solidale ci troviamo in presenza di una maternità che non è liberamente desiderata: la fecondità personale è subordinata a un progetto di altri, titolari del prodotto (il bimbo) che dettano le condizioni della produzione (la gestazione).
Sempre, indipendentemente dal carattere oneroso o gratuito/solidale della singola pratica procreativa, si assiste ad una inammissibile oggettivazione/mercificazione del corpo della donna, strumentalizzato per appagare il desiderio di genitorialità dei committenti, e alla reificazione del minore, gestito alla stregua di un bene, il cui destino è segnato dalle clausole di un atto d’autonomia privata: il contratto di maternità surrogata.
È, dunque, lesa anche la dignità del nascituro. Senza addentrarci nell’ardua questione se l’embrione umano sia persona, soggetto di diritto o nulla di tutto ciò, è certo che, anche prima dell’impianto, ne viene riconosciuta la dignità, «quale entità che ha in sé il principio della vita»,[22] valore «di rilievo costituzionale riconducibile al precetto generale dell’art. 2 Cost.».[23] Per questo motivo l’embrione è fatto oggetto di precise tutele (artt. 13 e 14 l. n. 40/2004) e soltanto la necessità di salvaguardare il diritto alla salute della donna (che è già persona e dunque prevale sull’embrione, che persona ancora deve diventare) consente un affievolimento della tutela e, dunque, l’interruzione della p.m.a., con il rifiuto dell’impianto[24] (l’embrione non può però essere soppresso: art. 13 l. n. 40/2004), ovvero, ove questo sia avvenuto, con il ricorso all’aborto.
Se, poi, si ritiene che il rapporto materno sia creato dalla gestazione, la sottrazione del figlio alla madre uterina è anche lesiva dell’interesse del minore «a mantenere il rapporto materno già naturalmente costituito e vissuto».[25] In effetti, nel caso di fecondazione eterologa la legge stabilisce chi è il padre e chi la madre (artt. 6, 8 e 9 l. n. 40/2004). Nulla dice, invece, con riguardo al nato da maternità surrogata e notoriamente la dottrina è divisa tra coloro che ritengono che madre sia la gestante[26] e coloro secondo i quali «paternità e maternità, e così lo stato del nato, debbano riportarsi a chi ha concorso alla fecondazione e quindi alla creazione dell’embrione».[27] Un siffatto nodo può essere sciolto soltanto dal legislatore, chiamato anche a decidere il ruolo che deve essere assegnato al genitore d’intenzione.[28]
4. Le Sezioni Unite del 2019 e la sentenza della Corte costituzionale n. 33/2021. Persistenza del divieto di maternità surrogata e contestuale esigenza di tutelare più incisivamente colui che nasce dalla pratica illecita
Le Sezioni unite, con la nota pronuncia del 2019,[29] hanno dunque negato la possibilità di riconoscere nel nostro ordinamento un provvedimento straniero che affermi il rapporto di genitorialità tra un bambino nato a seguito di maternità surrogata e il c.d. genitore d’intenzione, sul presupposto che il divieto di surrogazione di maternità, previsto dall’art. 12, comma sesto, l. n. 40/2004, integra un principio di ordine pubblico, posto a tutela di valori fondamentali, rispetto ai quali la surrogazione di maternità si pone oggettivamente in conflitto.
Peraltro tale giudice non si è limitato ad affermare l’illiceità della pratica procreativa, ma si è preoccupato di individuare una tutela per colui che sia nato dalla sua sperimentazione. Siffatta tutela, secondo le Sezioni unite, si realizza attraverso la possibilità della stepchild adoption da parte del genitore d’intenzione, con cui si salvaguarda «la continuità della relazione affettiva ed educativa» eventualmente instauratasi tra il minore e tale soggetto,[30] risultando dall’indagine propedeutica all’adozione particolare che il genitore d’intenzione è diventato genitore sociale, avendo costruito con il minore un rapporto fondamentale per la sua crescita ed il suo sviluppo. In effetti, se si astrae dall’inesistente diritto degli adulti alla genitorialità, in una prospettiva genuinamente minori-centrica, con riguardo al nato da una pratica di maternità surrogata il problema non è quello di tutelare il suo diritto ad avere una famiglia, giacché egli ha già un genitore biologico, bensì quello di preservare il legame affettivo eventualmente creatosi con il genitore d’intenzione.
Questo lodevole sforzo ermeneutico, presentava, peraltro, un limite oggettivo, derivante dalla peculiare disciplina dell’adozione particolare, istituto eccezionale inidoneo a tutelare con pienezza il minore. Prima di un recente intervento della Corte costituzionale,[31] l’adozione particolare non istituiva un rapporto di parentela tra l’adottato e la famiglia dell’adottante e neppure tra l’adottante e la famiglia dell’adottato (art. 300 c.c. e 55 l. adoz.). Inoltre, l’adozione particolare è rimessa alla volontà dell’adottante e dipende dall’assenso del genitore biologico, che potrebbe non prestarlo, in caso di crisi della coppia (art. 46 l. adoz.).
Muovendo da tali considerazioni, una pronuncia della prima sezione civile della Corte di Cassazione, a meno di un anno dalla sentenza delle Sezioni unite, ha ritenuto di dover sollevare questioni di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 6, l. n. 40/2004, dell’art. 64, comma 1, lett. “g” l. n. 218/95 e dell’art. 18 d.p.r. n. 396/2000 «nella parte in cui non consentono, secondo l’interpretazione attuale del diritto vivente (fornita dalle Sezioni unite), che possa essere riconosciuto e dichiarato esecutivo, per contrasto con l’ordine pubblico, il provvedimento giudiziario straniero relativo all’inserimento nell’atto di stato civile di un minore procreato con le modalità della gestione per altri (altrimenti detta “maternità surrogata”) del c.d. genitore d’intenzione non biologico».[32]
Le attese del giudice rimettente sono peraltro andate deluse. La Corte costituzionale ha, infatti, dichiarato inammissibili le questioni sollevate,[33] ribadendo con fermezza la condanna della maternità surrogata e la necessità di bilanciare l’interesse del minore «alla luce del criterio di proporzionalità, con lo scopo legittimo perseguito dall’ordinamento di disincentivare il ricorso alla surrogazione di maternità, penalmente sanzionato dal legislatore». Ha quindi condiviso il diniego delle Sezioni unite in ordine alla trascrivibilità dei provvedimenti giudiziari stranieri e, a fortiori, dell’originario atto di nascita, che indichino quale genitore del bambino il c.d. padre d’intenzione, ritenendo che l’interesse del minore ad ottenere il riconoscimento giuridico del suo rapporto con entrambi i componenti della coppia, che lo abbiano accudito esercitando di fatto la responsabilità genitoriale, debba realizzarsi senza automatismi, «attraverso un procedimento di adozione effettivo e celere, che riconosca la pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato,…sia pure ex post e in esito a una verifica in concreto da parte del giudice» in ordine all’esistenza e al valore di tale relazione.
L’importante pronuncia ha, peraltro, denunziato i limiti dell’adozione particolare nell’assicurare siffatta tutela, rilevando, tuttavia, che il compito di adeguare il diritto vigente alle esigenze di tutela degli interessi dei bambini nati da maternità surrogata non può che spettare, almeno «in prima battuta», al legislatore, «al quale deve essere riconosciuto un significativo margine di manovra nell’individuare una soluzione che si faccia carico di tutti i diritti e i principi in gioco».
5. L’ordinanza interlocutoria n. 1822/2022. La questione della maternità surrogata viene nuovamente rimessa alle Sezioni Unite
Appena dieci mesi dopo il deposito della sentenza della Corte costituzionale, tuttavia, una pronuncia della prima sezione civile della Corte di cassazione[34] ha chiesto un nuovo intervento delle Sezioni unite, sottoponendo una soluzione interpretativa ritenuta «adeguata a rispondere all’implicita chiamata “interpretativa” posta in essere con la sentenza n. 33/2021 dalla Corte costituzionale». L’ordinanza interlocutoria insiste sulla necessità di rivalutare «gli strumenti normativi esistenti (delibazione e trascrizione)», quando non si configuri «un insuperabile ostacolo alla loro utilizzazione derivante dalla natura di ordine pubblico del divieto penale», all’esito di una bilanciamento, da effettuarsi in concreto, con i valori sottesi al divieto di surrogazione di maternità. In particolare, la lesione della dignità della donna sarebbe esclusa (e quindi il provvedimento estero sarebbe delibabile o trascrivibile) quando, in base alla legislazione straniera, la gravidanza per altri «sia il frutto di una scelta libera e consapevole, indipendente da contropartite economiche e se tale scelta sia revocabile sino alla nascita del bambino». Quanto poi alla «preservazione dell’istituto dell’adozione», l’ordinanza interlocutoria reputa che il discrimen alla delibabilità/trascrizione del provvedimento straniero sia costituito «dalla tutela del minore da pratiche elusive e illegali intese a vanificare le norme che lo garantiscono, specificamente nei procedimenti di adozione internazionale, da qualsiasi forma di mercificazione».
6. Corte cost. n. 79/2022. Il bilanciamento degli interessi in gioco spetta al legislatore. L’interesse del minore si realizza attraverso l’adozione particolare del genitore d’intenzione. Il ruolo della giurisprudenza
A nostro avviso l’ordinanza interlocutoria non coglie le insuperabili ragioni del divieto di maternità surrogata, esposte ai superiori §§ 3 e 4.[35] Serio è però il problema della tutela del minore nato dalla sperimentazione di tale pratica all’estero, avendo la Corte costituzionale denunciato l’attuale inadeguatezza dell’istituto dell’adozione particolare.
Con specifico riguardo alla posizione del minore, la Corte Edu ha escluso che dall’art. 8 CEDU si possa inferire un diritto al riconoscimento dei rapporti di filiazione conseguiti all’estero, facendo ricorso alla maternità surrogata, e ha dato atto di un ampio margine di apprezzamento spettante agli Stati membri in ordine alla possibilità di riconoscere siffatti rapporti di filiazione.[36] D’altro canto ha affermato la necessità di tutelare l’interesse del minore a preservare il legame che si sia venuto a consolidare con il genitore d’intenzione con «modalità che garantiscano l’effettività e la celerità della sua messa in opera».[37]
Successivamente al deposito dell’ordinanza interlocutoria, è intervenuta una fondamentale pronuncia della Corte costituzionale, la quale, ribadite le ragioni del divieto, non ha mancato di sottolineare come la scelta operata dal nostro ordinamento del ricorso all’istituto dell’adozione in casi particolari (opportunamente emendato) abbia il pregio di «tenere in equilibrio molteplici istanze implicate nella complessa vicenda» e al contempo «di garantire una piena protezione all’interesse del minore».[38]
Lungi «dal dare rilevanza al solo consenso e dall’assecondare attraverso automatismi il mero desiderio di genitorialità», l’adozione particolare «dimostra una precipua vocazione a tutelare l’interesse del minore a mantenere relazioni affettive già di fatto instaurate e consolidate», presupponendo «un giudizio sul migliore interesse del minore e un accertamento sull’idoneità dell’adottante».
Si impone, peraltro, un adeguamento dell’istituto e, in questa prospettiva, la Corte costituzionale ha recentemente dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 55 l. adoz., nella parte in cui, mediante il rinvio all’art. 300, comma 2, c.c., escludeva la parentela tra l’adottato e la famiglia dell’adottante, rimuovendo un ostacolo all’effettività della tutela offerta dall’adozione in casi particolari. In tal modo il minore si avvantaggia delle garanzie personali e patrimoniali che discendono dal riconoscimento giuridico dei legami parentali ed è, al contempo, salvaguardata l’identità che gli deriva dall’inserimento nell’ambiente familiare adottivo.[39]
La Corte costituzionale ha, dunque, indicato la strada, che non è quella della delibabilità/trascrizione dei provvedimenti stranieri, secondo un più o meno accentuato automatismo funzionale ad «assecondare … il mero desiderio di genitorialità» degli adulti, che ricorrono all’estero alla pratica vietata nel nostro ordinamento, ma di riformare l’adozione particolare, istituto per sua natura volto alla realizzazione del preminente interesse del minore (art. 57, comma 1, l. adoz.) e capace di tenere in equilibrio i molteplici valori in conflitto, garantendo la piena protezione di tale interesse.[40]
La Corte costituzionale, in altri termini, ha lasciato al legislatore il difficile bilanciamento dei valori in gioco (disincentivazione della maternità surrogata e tutela del minore nato dal ricorso a tale pratica all’estero). Ha posto l’accento su questo secondo valore e, allo scopo di realizzare la migliore tutela del minore, si è concentrata sull’istituto dell’adozione particolare, la cui disciplina non implica alcun confronto con il divieto di surrogazione di maternità.
Nella medesima ottica si devono porre, a nostro avviso, le Sezioni Unite della Corte di cassazione, eventualmente sciogliendo, in via ermeneutica, quei nodi che rendono l’istituto dell’adozione particolare ancora carente, come, ad esempio, la previsione della necessità dell’assenso del genitore biologico all’adozione (art. 46 l. adoz.). Collegando quest’ultima norma al già richiamato art. 57 l. adoz., che impone al giudice di valutare se l’adozione particolare realizzi in concreto il preminente interesse del minore, il rifiuto dell’assenso all’adozione, da parte del genitore biologico, appare ragionevole soltanto se espresso nell’interesse del minore, ossia quando non si sia realizzata tra quest’ultimo ed il genitore d’intenzione quel legame esistenziale la cui tutela costituisce il presupposto dell’adozione. Se tale legame sussiste, il rifiuto non sarebbe certamente giustificato dalla crisi della coppia committente né potrebbe essere rimesso alla discrezionalità del genitore biologico. Della questione potrebbe essere ovviamente investita la Corte costituzionale.
Non ci pare, invece, che, in caso di maternità surrogata, la genitorialità giuridica possa fondarsi sulla volontà della coppia che ha voluto e organizzato la procreazione assistita, così come avviene per la fecondazione assistita, omologa o eterologa che sia (artt. 6, 8 e 9 l. n. 40/2004), risultato allo stato non conseguibile in via ermeneutica, costituendo la fattispecie della maternità surrogata un reato.
[1] G. OPPO, Procreazione assistita e sorte del nascituro, in G. OPPO, Scritti giuridici, VII, Padova, 2005, 49 e ss.
[2] F. GAZZONI, La famiglia di fatto e le unioni civili. Appunti sulla recente legge, in www.personaedanno.it.
Osserva C.M. BIANCA, Diritto civile, 2.1, La famiglia, Milano, 2017, 445, che siffatto contratto è certamente invalido: «del concepito non si può infatti disporre già per l’assorbente rilievo che qui l’atto dispositivo avrebbe ad oggetto il futuro stato familiare del nascituro».
[3] Corte cost., 28 marzo 2022, n. 79; Corte cost., 9 marzo 2021, n. 33, in Familia, 2021, 391, con nota di A. MORACE PINELLI, La tutela del minore nato attraverso una pratica di maternità surrogata; Corte cost., 18 dicembre 2017, n. 272, in Foro it., 2018, I, 5.
[4] Corte cost., 28 marzo 2022, n. 79, che richiama Corte cost., 8 marzo 2021, n. 33 cit.
[5] Cfr. il bellissimo saggio di V. CALDERAI, Ordine pubblico internazionale e Drittwirkung dei diritti dell’infanzia, in Riv. dir. civ., 2022, 479 e ss.
[6] Cfr. V. CALDERAI, Ordine pubblico, cit., 481 e ss.
[7] Cass., 30 settembre 2016, n. 19599, in Foro it., 2016, I, 3329.
[8] Cass., 30 settembre 2016, n. 19599, cit.
[9] M. BIANCA, Prefazione, in The best interest of the child, a cura di M. BIANCA, Roma, 2021, XV e ss.
[10] App. Trento 23 febbraio 2017, in Foro it., 2017, I, 1034.
[11] V. CALDERAI, Ordine pubblico, cit., 495.
[12] V. CALDERAI, Ordine pubblico, cit., 495 e ss.
[13] M. PARADISO, Navigando nell’arcipelago familiare. Itaca non c’è, in Riv. dir. civ., 2016, p. 1306 e ss., spec. § 4.
[14] M. BIANCA, Tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico, in La riforma del diritto della filiazione (l. n. 219/12), in N.l.c.c., 2013, 509.
[15] Così la Relazione illustrativa del d.lgs. n. 154/2013.
[16] C.M. BIANCA, Diritto civile, 2.1, cit., 337.
[17] Così C.M. BIANCA, Audizione alla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati del 23 maggio 2016, nel corso dell’indagine conoscitiva diretta a verificare lo stato di attuazione delle disposizioni legislative in materia di adozioni ed affido.
[18] Corte cost., 9 marzo 2021, n. 33, cit.; Corte cost., 9 marzo 2021 n. 32, in Fam. e dir., 2021, 677: Corte cost., 20 ottobre 2020, n. 230.
Corte Edu, Grande Camera, 24 gennaio 2017, Paradiso e Campanelli c./ Italia, Foro it., 2017, IV, 105, con nota di CASABURI, afferma con cristallina chiarezza che la CEDU «non sancisce alcun diritto di diventare genitore» (§ 215).
Sul punto, cfr. il nostro Per una riforma dell’adozione, in Dir. fam., 2016, 720 e ss.
[19] Secondo la giurisprudenza della Corte Edu non esiste un diritto soggettivo di adottare, in quanto lo stesso non è evincibile dall’art. 8 CEDU. Il diritto al rispetto di una «vita familiare» non tutela il semplice desiderio di formare una famiglia; esso presuppone l’esistenza di una famiglia o quanto meno di una potenziale relazione che avrebbe potuto svilupparsi, ad esempio, tra un padre naturale e un figlio nato fuori dal matrimonio.
Cfr. Corte Edu, 19 febbraio 2013, n. 19010, X c. Austria, in Corr. giur., 2013, 712, con nota di A. MASCIA, Adozione co-genitoriale per una coppia omosessuale; Corte Edu, 27 aprile 2010 n. 16318; Corte Edu, 22 gennaio 2008, n. 43546, E.D. c. Francia, in Dir. fam., 2008, 0190, con nota di A. DONATI, Omosessualità e procedimento di adozione in una recente sentenza della Corte di Strasburgo; Corte Edu, 26 febbraio 2002, n. 36515, Fretté c. Francia, in Familia, 2003, 521, con nota di E. VARANO, La Corte europea dei diritti dell’uomo e l’inesistenza del diritto di adottare.
[20] La Corte costituzionale ha ribadito con la massima fermezza che già l’embrione umano in vitro non è una res ma un’«entità che ha in sé il principio della vita» e la cui «dignità… costituisce… un valore di rilevo costituzionale riconducibile al precetto generale dell’art. 2 Cost.» (Corte cost., 13 aprile 2016, n. 84, in Giur. it., 2017, 307, con nota di D. CARUSI, Embrioni in soprannumero e destinazione alla ricerca: il diritto vigente; Corte cost., 6 ottobre 2015, n. 229, in Dir. pen. e processo, 2016, 62, con nota di A. VALLINI, Gli ultimi fantasmi della legge 40: incostituzionale il (supposto) reato di selezione preimpianto).
[21] In tal senso, cfr. C.M. BIANCA, Audizione, cit.
[22] Corte cost., 13 aprile 2016, n. 84, cit.; Corte cost., 11 novembre 2015, n. 229, cit.
Cfr. pure Corte cost., 8 maggio 2009, n. 151, in Foro it., 2009, I, 2301.
[23] Corte cost., 13 aprile 2016, n. 84, cit.; Corte cost., 11 novembre 2015, n. 229, cit.
[24] Corte cost., 8 maggio 2009, n. 151, cit.
Cfr., in termini generali, Corte Cost., 18 febbraio 1975, n. 27, in Giur. costit., 1975, I, 117 e ss.
[25] C.M. BIANCA, Diritto civile, 2.1, cit., 445..
[26] C.M. BIANCA, Diritto civile, 2.1, cit., 445.
[27] G. OPPO, Procreazione assistita e sorte del nascituro, in G. OPPO, Scritti giuridici, VII, cit., 52.
[28] Così M. BIANCA, La tanto attesa decisione, cit., 383.
[29] Cass., S.U., 8 maggio 2019, n. 12193, in Foro it., 2019, I, 1951.
[30] Così già Corte cost., 18 dicembre 2017, n. 272, in Foro it., 2018, I, 5.
[31] Corte cost., 28 marzo 2022, n. 79.
[32] Cass., I Sez. civ., ord., 29 aprile 2020 n. 8325, in giudicedonna.it, 2/2020, con nota di M. BIANCA, Il revirement della Cassazione dopo la decisione delle Sezioni Unite. Conflitto o dialogo con la Corte di Strasburgo? Alcune notazioni sul diritto vivente delle azioni di stato.
[33] Sent. n. 33/2021, cit.
[34] Cass., 21 gennaio 2022, n. 1842.
[35] Sul punto rinviamo al nostro Il problema della maternità surrogata torna all’esame delle Sezioni Unite, in Familia, 2022, 437 e ss.
[36] Corte EDU, 18 agosto 2021, Valdìs Fjolnisdòttir e altri contro Islanda, §§ 66-70 e 75; Corte EDU, 24 gennaio 2017, Paradiso e Campanelli contro Italia, cit. §§ 197-199.
[37] Corte EDU, 16 luglio 2020, D. contro Francia, § 51, richiamata da Corte cost., 9 marzo 2021, n. 33, cit.; Corte EDU, 12 dicembre 2019, C. ed E. contro Francia, § 42; Corte EDU, Grande Camera, parere consultivo 10 aprile 2019, in N.g.c.c., 2019, 757, con nota di A. GRASSO, Maternità surrogata e riconoscimento del rapporto con la madre naturale, § 54.
[38] Corte cost., 28 marzo 2022, n. 79.
[39] Corte cost., 28 marzo 2022, n. 79.
[40] Corte cost., 28 marzo 2022, n. 79.
Silenzio assenso tra P.A. e autorizzazione paesaggistica. Le prospettive del Consiglio di Stato (nota a Consiglio di Stato, Sezione Sesta, n. 4098 del 24 maggio 2022)
di Sveva Speranza
Sommario: 1. Premessa - 2. Silenzio assenso tra pubbliche amministrazioni - 3. L’autorizzazione paesaggistica e l’inapplicabilità dell’art. 17-bis - 4. La decisione del Tar Campania, un ulteriore tassello per il dibattito giurisprudenziale - 5. La parola al Consiglio di Stato - 6. Conclusioni.
1. Premessa.
La decisione che si commenta riforma la sentenza del Tar Campania, sez. distaccata di Salerno, che aveva annullato il parere emanato dalla Soprintendenza il 13 ottobre 2020 ritenendo già formatosi per silenzio-assenso in forza del combinato disposto degli artt. 11, commi 7 e 9, del D.P.R. n. 31/2017, e 17-bis della l. n. 241/1990. Nel caso di specie, il ricorrente aveva avanzato un’istanza volta all’ottenimento del permesso di costruire e dell’autorizzazione paesaggistica per un immobile sito nel Comune di Cava dei Tirreni soggetto a vincolo paesaggistico ai sensi del D.M. 12 giugno 1967 e della L. n. 1497/39. La decisione del Tar Salerno aveva attribuito rilevanza alla circostanza che la Soprintendenza, avendo acquisito gli atti in data 20 luglio 2020, aveva comunicato i motivi ostativi all’accoglimento della istanza il 31 luglio 2020 e aveva emanato il diniego definitivo solo il successivo 13 ottobre 2020, oltre il termine procedimentale dei venti giorni. Il Consiglio di stato accoglie l’appello proposto dal Ministero della Cultura, escludendo che il silenzio assenso si fosse effettivamente formato nel concreto del caso di specie, non anche che la fattispecie possa astrattamente configurarsi nel procedimento di autorizzazione paesaggistica.
La decisione merita pertanto di essere segnalata in quanto indicativa della evoluzione in atto nella giurisprudenza amministrativa sull’applicabilità del silenzio-assenso ex art 17-bis l. 241/1990 e smi ai procedimenti per l’autorizzazione paesaggistica e sulla perentorietà del termine di cui all’art. 146, comma 8, del d.lgs. n. 42 del 2004.
2. Silenzio assenso tra pubbliche amministrazioni.
Alimentando le aspettative degli operatori del diritto, il legislatore ha manifestato crescente fiducia nel ruolo ricoperto dall’istituto del silenzio assenso nella semplificazione amministrativa[i].
In riferimento all’attività amministrativa avente valore provvedimentale, il silenzio assenso non è altro che estrinsecazione del potere in forma semplificata secondo quanto previsto dall’art. 20 l. 241/90, come novellato dalla legge 80/2005.
Invero, salvo il regime della s.c.i.a. di cui all’art. 19, il silenzio dell’amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda, senza necessità di ulteriori istanze o diffide se la medesima amministrazione non comunica all’interessato, nel termine di cui all’art. 2 comma 2 o 3, il provvedimento di diniego, oppure non indice nel termine di trenta giorni una conferenza di servizi. Tale fenomeno si verifica nei rapporti cd. “verticali” ovvero tra la P.A. e i privati che sollecitano il soddisfacimento di una pretesa legittima, per ottenere la quale, in assenza di un provvedimento esplicito s’intende prodotto in forma tacita. In tale circostanza il silenzio assenso equivale all’atto conclusivo del procedimento, nonché l’atto che può essere impugnato innanzi al giudice amministrativo, rivestendo cioè un’efficacia esterna.
Con l’introduzione dell’art. 17-bis l. 241/90 è stata inaugurata l’applicabilità del silenzio assenso anche ai rapporti orizzontali tra amministrazioni pubbliche e soggetti ad esse equiparati, nonché gestori di beni e servizi pubblici.
Da una prospettiva oggettiva, la norma di cui all’art. 17-bis l. cit. prevede la formazione del silenzio assenso nei casi in cui è prevista l’acquisizione di assensi, concerti o nulla osta, comunque denominati, se l’amministrazione interpellata non comunica l’adesione allo schema di provvedimento inviato dall’amministrazione procedente entro il termine di trenta giorni [ii].
Rispetto al silenzio assenso di cui all’art. 20, il silenzio endoprocedimentale tra P.A. non equivale all’emanazione del provvedimento conclusivo bensì si inserisce all’interno di un procedimento pluristrutturato, nel quale, al di là del nomen iuris, ha valenza co-decisoria essendo applicabile anche ai pareri vincolanti e non puramente consultivi[iii]. A tal proposito è utile porre attenzione al comma 3 dell’art. 17bis, in cui si esplicita che la regola de qua si applica anche ai casi in cui è prevista l'acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati di amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini, per l'adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di amministrazioni pubbliche. In tali casi, si prevede unicamente un termine più ampio per l’espressione dell’assenso, concerto o nulla osta, che è di 90 giorni dal ricevimento della richiesta da parte dell'amministrazione procedente. Decorsi i suddetti termini, senza che sia stato comunicato l'assenso, il concerto o il nulla osta, lo stesso si intende acquisito.
Al contrario, nell’art. 20 viene esclusa espressamente l’applicabilità del silenzio assenso quando il provvedimento ha ad oggetto interessi sensibili, essendo caratterizzati da valutazioni di compatibilità con alto grado di discrezionalità tecnica che mal si prestano ad un comportamento concludente in luogo di un parere espresso.
L’applicabilità dell’art. 17-bis al solo silenzio orizzontale, inoltre, è stata recentemente ribadita anche dalla Corte costituzionale con la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 8, della legge della Regione Siciliana 6 maggio 2019, n.5[iv] che aveva introdotto il silenzio-assenso sulla domanda di autorizzazione paesaggistica con efficacia anche verticale.
3. L’autorizzazione paesaggistica e l’inapplicabilità dell’art 17bis
Il procedimento finalizzato al rilascio dell’ “autorizzazione paesaggistica” valuta la trasformazione di un territorio in ragione delle implicazioni sulla sua morfologia paesaggistica, intesa non in senso meramente estetico o panoramico bensì con risvolti sull’ambiente circostante[v].
Secondo un primo orientamento più restrittivo, la giurisprudenza amministrativa tende ad escludere l’applicabilità dell’art. 17-bis all’autorizzazione paesaggistica[vi].
Diverse critiche sono state rivolte a un tale orientamento.
In primo luogo, la circostanza che il parere della soprintendenza non può considerarsi un assenso, un concerto o un nulla osta. Quest’ultimo, infatti, rappresenta un atto di particolare complessità tecnica che presuppone una valutazione tecnico-discrezionale secondo i requisiti elencati nel comma 5, art. 146 l. 42/2004[vii]. Dall’analisi della norma emerge, infatti, che l’istanza per l’ottenimento dell’autorizzazione paesaggistica, ancorché presentata dal privato, viene presentata alla regione che provvede a trasmettere una “proposta di provvedimento” alla soprintendenza, non l’istanza stessa. Con tale precisazione è evidente che la regione ricopre un ruolo istruttorio/decisorio, mentre la soprintendenza è chiamata ad esprimere un parere vincolante entro 45 giorni dalla ricezione dello schema di provvedimento.
In secondo luogo, il termine più breve, rispetto ai 90 giorni previsti dall’art. 17-bis per i provvedimenti aventi ad oggetto interessi sensibili, propenderebbe per l’inconciliabilità con il silenzio endoprocedimentale[viii].
Rileva, inoltre, ai sensi del comma 8 art. 146 l.cit. che nel caso in cui tale parere sia negativo, l’ente pubblico è tenuto ad emanare il preavviso di rigetto ex art. 10 l. 241/90 ed entro ulteriori 20 giorni l’amministrazione è chiamata a provvedere in conformità[ix].
Si può in effetti ritenere che la soprintendenza eserciti sull’atto autorizzativo non solo una valutazione di semplice legittimità, con correlativo potere di annullamento ad estrema difesa del vincolo, ma di merito amministrativo, espressione di poteri di cogestione del vincolo paesaggistico[x]. La conclusione sembra suggerita da una lettura congiunta degli artt. 16 e 17 l. 241/90, in relazione agli assensi, concerti o nulla osta di cui all’art. 17bis. I primi fanno riferimento ad atti di altre amministrazioni da acquisire necessariamente nella fase istruttoria del procedimento: il parere (facoltativo o obbligatorio) di cui all’art. 16 rientra nell’attività consultiva della P.A. ed è facoltà dell’amministrazione richiedente procedere, indipendentemente dall’acquisizione dello stesso; il parere ex art. 17, invece, si sostanzia in una valutazione tecnica da parte di altre amministrazioni senza la quale il provvedimento finale non può essere emanato.
Sebbene sia collocato nella norma seguente all’art. 17, i pareri ex art. 17-bis sono obbligatori e vincolanti, espressione del meccanismo della cogestione degli interessi in gioco.
Pertanto, sottolineando la peculiarità degli interessi paesaggistico-ambientali, non essendo bilanciabili con altrettanti interessi di natura differente, sono posti in una posizione di rilievo assoluto per l’ordinamento: la materia paesaggistica, come più in generale quella dei beni culturali, è tradizionalmente impermeabile al modello del silenzio-assenso per espressa previsione dell’art. 20 l. 241/90.
Il giudizio di compatibilità, infatti, deve essere tecnico e relativo al caso concreto, nonché espressione del novellato art. 9 Cost.[xi] il quale consente di fare eccezione anche a regole di semplificazione a effetti sostanziali altrimenti praticabili. A tal proposito si segnala che ancorché il legislatore abbia previsto una speciale concentrazione procedimentale, come quella che si attua con il sistema della conferenza di servizi, essa non comporta un’attenuazione in termini di tutela paesaggistica.[xii]
Ciò detto, l’istituto del silenzio-assenso mal si concilia con la logica dei giudizi di valore tecnico-discrezionali che si rivelano, inevitabilmente, opinabili, adattandosi, piuttosto, ai soli atti vincolati ed espressione di scienze esatte su valori misurabili. Non a caso, il rimedio processuale predisposto dal legislatore agli artt. 31 e 117 c.p.a., non è esperibile contro qualsiasi tipologia di omissione amministrativa, restando esclusi dalla sua sfera applicativa non solo i casi di silenzio significativo, rectius qualunque attività non provvedimentale.
In più pronunce la giurisprudenza rimarca l’estraneità alla funzione di tutela del paesaggio di “ogni forma di attenuazione determinata dal bilanciamento o dalla comparazione con altri interessi”, atteso che il parere è “atto strettamente espressivo di discrezionalità tecnica”, in cui il giudizio di compatibilità paesaggistica “deve essere … tecnico e proprio del caso concreto”.
Da quanto detto si deduce che il parere reso tardivamente non è inefficace, ma è non vincolante per la P.A. procedente, alla quale spetta tenerne conto, valutando motivatamente ed in concreto anche gli aspetti paesaggistici[xiii].
Nella sentenza n. 2640/2021, inoltre, il Consiglio di Stato ha chiarito che il meccanismo del silenzio-assenso ex art. 17-bis non si applica alla fase istruttoria del procedimento amministrativo “che rimane regolata dalla pertinente disciplina positiva, influendo soltanto sulla fase decisoria, attraverso la formazione di un atto di assenso per silentium con la conseguenza che l’amministrazione procedente è, comunque, tenuta a condurre un’istruttoria completa e, all’esito, ad elaborare uno schema di provvedimento da sottoporre all’assenso dell’amministrazione co-decidente[xiv]”.
Da questo orientamento è possibile concludere che i procedimenti (sebbene) pluristrutturati ad istanza di parte non rientrano nel campo applicativo dell’art. 17bis.
4. La decisione del Tar Campania
Pur appartenendo al diverso e minoritario orientamento giurisprudenziale, la pronuncia del Tar Salerno, n. 1542 del 2021, coglie e difende un certo parallelismo tra l’art. 146 e l’art. 17-bis.
Nel merito era stato impugnato il diniego dell’autorizzazione paesaggistica n. 5051 del 19 gennaio 2021, da parte del Comune di Battipaglia, deciso con sentenza n.1542 del 23 giugno 2021. In particolare, il ricorrente impugnava anche il parere contrario della Soprintendenza ai beni paesaggistici di Salerno ed Avellino n. 16827 del 18 settembre 2020, in quanto comunicato oltre 45 giorni dalla ricezione degli atti.
Tale tesi si fonda sul presupposto che l’autorizzazione paesaggistica sia una decisione pluristrutturata a tutti gli effetti.
Invero, i giudici campani hanno ribadito la sussistenza di un rapporto intersoggettivo di tipo orizzontale, intercorrente tra le due pubbliche amministrazioni chiamate ad esprimersi, l’una proponente, l’altra deliberante. Tale rapporto non va confuso con il diverso rapporto di tipo verticale che si instaura tra il privato e la Regione finalizzato al provvedimento di rilascio o di diniego dell’autorizzazione paesaggistica, riguardo al quale il silenzio-assenso non può evidentemente operare. Inoltre, non deve essere confuso con la decisione monostrutturata rinvenibile nelle cause di gestione di pratiche SUAP (sportello unico attività produttive) dove l’amministrazione procedente assume un ruolo meramente formale, ovvero raccoglie e rimette l’istanza all’unica amministrazione decidente. In tal caso, non essendoci altri enti pubblici co-decisori, il vero beneficiario del silenzio-assenso sarebbe il privato avvalendosi di un’ipotesi elusiva di silenzio.
Il tribunale amministrativo, infatti, esclude che l’emanazione dell’autorizzazione paesaggistica possa assimilarsi a quella appena descritta, considerando che la regione, lungi dal ricoprire un ruolo meramente servente, è l’amministrazione chiamata ad interfacciarsi con il privato attraverso il provvedimento di accoglimento o rigetto: sia perché la legge dispone che “sull'istanza di autorizzazione paesaggistica si pronuncia la Regione”, sia perché è la titolare del potere di decidere in via esclusiva sugli aspetti urbanistico edilizi.
In sentenza si dà conto di un ulteriore elemento da considerare, in relazione agli interventi minori per i quali è disciplinata l’autorizzazione paesaggistica semplificata all’interno del d.p.r. 31/2017.
Ai sensi dell’art. 11 comma 9 di quest’ultimo regolamento è, infatti, esplicitamente prevista la formazione del silenzio-assenso ai sensi dell’art. 17-bis se la sovrintendenza non esprime il parere nei termini di legge.
Alla luce di quest’ultimo richiamo è difficile, se non impossibile, considerare che un regolamento amministrativo, quale fonte secondaria, possa porsi in contrasto con una fonte legislativa di rango primario, dal momento che in caso contrario sarebbe destinatario della sanzione della disapplicazione. Al contrario, i giudici campani sembrano ritenere che tale disposizione regolamentare sia una conferma dell’applicabilità del silenzio-assenso ex art. 17bis anche al procedimento ordinario posto alla loro attenzione.
Infine, si allegano, come argomenti a favore dell’applicabilità del silenzio endoprocedimentale, autorevole prassi amministrativa consistente nelle linee dettate dal capo dell'ufficio legislativo del Ministero per i beni e le attività culturali, con le direttive n. 27158 del 10 novembre 2015, n. 21892 del 20 luglio 2016 e n. 11688 dell'11 aprile 2017 (cfr. pag. 3, § b1), nonché con i pareri n. 1293 del 19 gennaio 2017 e n. 23231 del 27 settembre 2018.
All’esito di tale ragionamento giuridico, la decisione si conclude con l’accoglimento del ricorso con conseguente annullamento del diniego dell’autorizzazione paesaggistica emanato dal Comune di Battipaglia, dichiarando, inoltre, l’inefficacia dello stesso quale atto tardivo ai sensi dell’art. 2 comma 8bis l. 241/90.
5. La sentenza del Consiglio di Stato
Con la sentenza n. 4098 del 24 maggio 2022, la VI Sez. del Consiglio di Stato è tornata a pronunciarsi sulla questione de qua, facendo chiarezza sul rapporto tra il silenzio ex art. 17bis e l’autorizzazione paesaggistica.
Nella parte motiva della sentenza, il Collegio giudicante ricorda che aveva già avuto occasione di esprimersi in senso contrario alla compatibilità tra il silenzio assenso endoprocedimentale e i procedimenti disciplinati dall’art. 146 del D.L.vo 42/2004 “per la ragione che in questi procedimenti la Soprintendenza non è chiamata ad esprimersi su una proposta del provvedimento finale che sarà adottato dall’amministrazione procedente, bensì su una proposta di parere paesaggistico, che riguarda un progetto e che non viene formulata dall’autorità procedente – cioè quella che deve autorizzare il progetto o l’opera – bensì dalla Regione o dall’ente che questa abbia eventualmente delegato ad esercitare i poteri ad essa assegnati dall’art. 146[xv]”, concludendo per sostenere l’affermazione che il provvedimento conclusivo del procedimento abbia a tutti gli effetti una natura mono strutturata.
Ebbene, pur senza manifestamente smentire quanto in precedenza affermato, il Consiglio di Stato sembra rimeditare almeno in parte il precedente orientamento.
I giudici amministrativi sostengono, infatti, che l’unico elemento di apparente contrarietà all’applicabilità del silenzio ex art. 17-bis l. cit. all’emanazione dell’autorizzazione paesaggistica, sia rilevabile nella scansione procedimentale di cui al comma 9 dell’art. 146 cod. paesaggio, secondo cui la Regione (o l’organo da questa delegato) provveda comunque, senza specificare se l’emanazione del provvedimento debba avvenire in conformità della proposta inviata alla Soprintendenza. Invero, dalla norma emerge la circostanza che l’Amministrazione procedente è chiamata ad emettere a prescindere un provvedimento espresso.
I principi generali, tuttavia, impediscono di adottare un provvedimento non conforme all’originaria proposta, senza formularne una nuova. Dovendo concludere che sia lo stesso art. 146 D. L.vo cit. a prevedere una forma di silenzio assenso secondo lo schema dell’art. 17bis L.241/90, trattandosi di un provvedimento che presenta un tratto (necessariamente) co-decisorio.
Coerentemente con quanto sin qui affermato, «se presupposto all’art. 146, comma 9, vi fosse la formazione di un silenzio assenso ai sensi dell’art. 17-bis, la norma avrebbe dovuto prevedere, per coerenza, che anche il tal caso l’amministrazione procedente adottasse il provvedimento finale “in conformità”: in tal caso, “in conformità” alla proposta iniziale, sulla quale la Soprintendenza non ha espresso motivi ostativi». Tanto, induce a ritenere che «il legislatore non ha voluto che si producesse tale effetto, quale conseguenza del comportamento silente della Soprintendenza, come è reso evidente dal fatto che in tal caso l’amministrazione procedente è tenuta a provvedere “comunque” e non “in conformità”».
Osserva, nondimeno, la Sezione che «dal punto di vista pratico cambia poco rispetto alla fattispecie del silenzio assenso ex art. 17-bis, perché è evidente che il provvedimento finale, anche in tal caso, deve rispecchiare la proposta originaria trasmessa alla Soprintendenza: diversamente il provvedimento adottato risulterebbe illegittimo in quanto emesso su una proposta non precedentemente sottoposta al parere della Soprintendenza (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, n. 5799 dell’11 dicembre 2017); l’amministrazione procedente, tuttavia, non essendosi formato un silenzio assenso da parte della Soprintendenza, potrebbe avere un ripensamento e quindi potrebbe decidere di riformulare la proposta originaria, senza perciò incorrere in un provvedimento in autotutela, non essendosi ancora formato un provvedimento definitivo».
Pertanto, l’atto finale dell’amministrazione procedente, a meno di un “ripensamento” circa la propria posizione originaria, non potrà che essere favorevole al privato, pena l’illegittimità di un
diniego, che sarebbe emesso in assenza di una precedente proposta in tal senso sottoposta al parere della Soprintendenza[xvi].
6. Conclusioni
Le considerazioni conclusive non possono prescindere dalla preventiva sottolineatura della crescente tendenza dell’ordinamento ad attribuire carattere sempre più generale all’istituto del silenzio assenso, come evidenziato anche dalle più recenti riforme, in particolare i decreti legge semplificazioni 76/2020 e 77/2021. In tutti i procedimenti amministrativi in cui è necessario un dialogo a più voci, se una di questa si intende acquisita per non bloccare l’iter decisorio, bisogna accettare le conseguenze che derivano nei confronti dei destinatari dei provvedimenti. Si ritiene, infatti, che la generalizzazione dell’istituto del silenzio assenso e la sua applicazione a fattispecie connotate dall’esercizio di un potere discrezionale (più o meno ampio) appaiano compatibili con i principi generali dell’azione amministrativa (buon andamento, imparzialità, trasparenza) unicamente qualora si ritenga sussista anche in tale ambito il dovere della p.a. di esercitare la propria funzione di amministrazione attiva attraverso la ponderazione degli interessi coinvolti[xvii].
La modifica legislativa dell’art.17-bis (ora rubricato “Effetti del silenzio e dell’inerzia nei rapporti tra amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici” a seguito dell’intervento correttivo dell’art. 12, comma 1, lett. g), n. 1), da parte del decreto legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 settembre 2020, n. 120, che ha sostituito le parole “Silenzio assenso” con le parole: “Effetti del silenzio e dell’inerzia nei rapporti”)[xviii] ha reso sicuramente più problematica la figura generale del silenzio-assenso.
Speculare all’applicabilità del silenzio-assenso è il concetto di inesauribilità del potere che viene messo a dura prova dal dovere di provvedere sancito all’art. 2 l. 241/90. Per cui, o si deve ritenere ancora esercitabile il potere della p.a. che entro i termini di legge non ha emanato il provvedimento oppure si intende acquisito un parere favorevole secondo la regola del silenzio-assenso. Quindi delle due, l’una.
Tuttavia, in non poche occasioni si è dimostrato che nella pratica giuridica tra due opzioni apparentemente contrapposte la soluzione corretta può passare per una terza via, e ciò è proprio quanto sembrerebbe avvenire nel caso dell’’autorizzazione paesaggistica, in quanto provvedimento pluristrutturato e allo stesso tempo su istanza di parte.
L’istanza ex art. 146 cod. beni culturali e paesaggistici instaura un doppio segmento: verticale tra il Comune (o al diverso ente territoriale delegato dalla regione) e il privato; orizzontale tra il Comune e la soprintendenza.
In effetti la giurisprudenza, già nel parere del Consiglio di Stato 1640/2016, non escludeva dal perimetro di operatività del silenzio-assenso l’indistinta categoria dei procedimenti ad istanza di parte, precisando, piuttosto, che il meccanismo semplificante ex art. 17-bis operava solo in presenza di un’effettiva condivisione della funzione decisoria delle due amministrazioni e non nel caso in cui ad una delle due sia demandata solo una funzione consultiva.
Da qui la differenza sostanziale tra silenzio devolutivo e silenzio-assenso. Nel primo caso l'autorizzazione paesaggistica è imputata esclusivamente all'ente territoriale che l'ha rilasciata, mentre nel secondo caso essa si intesta in co-decisione a entrambe le amministrazioni.
Pertanto, l’art. 17-bis si applica al procedimento disciplinato dall’art. 146 del codice di settore del 2004, limitatamente alla pronuncia del parere della soprintendenza. Invece, in caso di inerzia del Comune e l’inutile decorso del termine finale di conclusione del procedimento, e dunque del rapporto verticale verso il privato, si avrà a che fare con una normale ipotesi di silenzio-inadempimento, ricorribile ex art. 117 c.p.a.
Alla luce di quanto esposto, appaiono sicuramente degne di nota e condivisibili le ultime pronunce a sostegno della compatibilità tra il silenzio assenso endoprocedimentale e i procedimenti pluristrutturati che coinvolgono gli interessi sensibili[xix].
[i] Per riflessioni critiche sul crescente impiego dell’istituto del silenzio assenso v. M. A. Sandulli, Silenzio assenso e termine per provvedere. Esiste ancora l’inesauribilità del potere amministrativo?, in Il processo, 1/2022, 11 ss e ivi ulteriori riferimenti.
[ii] In dottrina ex multis F. De Leonardis, “Il silenzio assenso in materia ambientale: considerazioni critiche sull'art. 17bis introdotto dalla cd. riforma Madia” di, in Federalismi.it, 21.10.2015; F. Scalia, Considerazioni in ordine all'ambito soggettivo del nuovo istituto del silenzio-assenso tra amministrazioni, in Giust. Amm. M. 9, 2017; C. Vitale, Il Silenzio assenso tra pubbliche amministrazioni: il parere del Consiglio di Stato - il Commento, in Giornale Dir. Amm., 2017, 1, 95 e ss.; G. Mari, Il silenzio assenso tra amministrazioni e tra amministrazioni e gestori di beni o servizi pubblici, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell'azione amministrativa, Milano, Giufrè, 2017, 853 e ss.; E. Scotti, Silenzio assenso tra amministrazioni in A. Romano (a cura di), L'azione amministrativa, Torino, 2016, 566 e ss.; A. Contieri, Il silenzio assenso tra le amministrazioni secondo l’art. 17-bis della legge 241/90; la resistibile ascesa della semplificazione meramente temporale in Approfondimenti di diritto amministrativo (a cura) di A. Contieri, Editoriale scientifica 2021 p.109 ss.
[iii] Cons. Stato, Comm. Spec., 13 luglio 2016 n. 1640.
[iv] Nella sentenza citata, la Regione Siciliana, introducendo una regola contrastante con una norma fondamentale di riforma economico-sociale della legislazione statale, superava i limiti della propria competenza primaria in materia di tutela del paesaggio ai sensi dell’art. 14, lettera n), dello statuto speciale. Cfr. Corte cost. 22 luglio 2021 n. 160.
[v] Sulla nozione di paesaggio e di beni paesaggistici di cui, rispettivamente, agli artt.131 e 136 D.lgs. n. 42/2004, T.A.R. Lazio, sez. II, 1 aprile 2014, n. 3577.
[vi] Per una panoramica giurisprudenziale cfr. P. Marzaro, “Silenzio assenso tra amministrazioni, ovvero della (in)sostenibile leggerezza degli interessi sensibili” in Rivista giuridica di urbanistica, n.2 del 2021, p.432 ss.
[vii] “Sull’istanza di autorizzazione paesaggistica si pronuncia la regione, dopo avere acquisito il parere vincolante del soprintendente in relazione agli interventi da eseguirsi su immobili ed aree sottoposti a tutela dalla legge o in base alla legge, ai sensi del comma 1, salvo quanto disposto all’articolo 143, commi 4 e 5. Il parere del soprintendente, all’esito dell’approvazione delle prescrizioni d’uso dei beni paesaggistici tutelati, predisposte ai sensi degli articoli 140, comma 2, 141, comma 1, 141-bis e 143, comma 1, lettere b), c) e d), nonché della positiva verifica da parte del Ministero, su richiesta della regione interessata, dell’avvenuto adeguamento degli strumenti urbanistici, assume natura obbligatoria non vincolante ed è reso nel rispetto delle previsioni e delle prescrizioni del piano paesaggistico, entro il termine di quarantacinque giorni dalla ricezione degli atti, decorsi i quali l’amministrazione competente provvede sulla domanda di autorizzazione”.
[viii] Prima della riforma del 2015 (legge n. 124 del 2015) il quadro era abbastanza chiaro. In base all'articolo 146 del codice di settore del 2004 - come modificato prima dal decreto correttivo e integrativo n. 156 del 2006, poi dall'articolo 4, comma 16, del decreto- legge 13 maggio 2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 2011, n. 106, quindi dall'articolo 25, comma 3, del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014, n. 164 - l'autorità competente alla gestione del vincolo - di regola il Comune, delegato dalla Regione - doveva provvedere sulla domanda del privato entro 60 giorni, acquisito il parere del soprintendente (obbligatorio e vincolante fino alla conformazione o adeguamento della strumentazione urbanistica alla nuova pianificazione paesaggistica), da rendere entro 45 giorni dalla ricezione degli atti. Si parlava di "silenzio devolutivo", nel senso che, decorso inutilmente il termine senza che la soprintendenza avesse comunicato il parere, il Comune aveva il dovere funzionale di decidere da solo e doveva provvedere sulla domanda ("Decorsi inutilmente sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte del soprintendente senza che questi abbia reso il prescritto parere, l'amministrazione competente provvede comunque sulla domanda di autorizzazione": articolo 146, comma 9).
In caso di inerzia del Comune e di inutile decorso di questo termine, non essendo tale fattispecie tipizzata e resa significativa in alcun senso - né positivo, né negativo – dalla legge, e non potendosi, come si è visto, fare applicazione dell'articolo 20 della legge n. 241 del 1990, si aveva a che fare con una normale ipotesi di inerzia non significativa della p.a. di silenzio-inadempimento, ricorribile dinanzi al Tar ex articolo 117 c.p.a. cfr. Contributo di Piero Carpentieri, Consigliere di Stato, 11.04.2022.
[x]Cons. Stato sez. VI n. 2262/2017, Cons. Stato VI 4 giugno 2015 n. 2751.
[xi] A tal proposito si vedano G. Severini e P. Carpentieri, Sull’inutile, anzi dannosa modifica dell’articolo 9 della Costituzione,in GiustiziaInsieme, 22 settembre 2021.
[xii] Cons. Stato, sez. IV, 29 marzo 2021, n. 2640 (che richiama Cons. Stato, sez. IV, 2 marzo 2020, n. 1486; Id., sez. VI, 23 maggio 2012, n. 3039; 15 gennaio 2013, n. 220). La sentenza n. 2640 del 2021 ha poi ribadito l'applicabilità del diverso criterio del silenzio devolutivo. Il Consiglio di Stato (sentenza della sez. VI, 14 luglio 2020, n. 4559) ha poi escluso la configurabilità del silenzio-assenso tra amministrazioni nella procedura di adeguamento degli strumenti urbanistici comunali al piano paesistico.
[xiii] Cons. Stato, sez. IV, 27 luglio 2020, n. 4765; id., 29 marzo 2021, n. 2640; id., 7 aprile 2022, n. 2584.
[xiv] Cons. Stato, sez. VI, 14 luglio 2020, n. 4559.
[xv] Cons. Stato, Sez. VI, 8 gennaio 2020, n. 129; Sez. VI, 18 settembre 2017, n. 4369; Sez. VI, 12 settembre 2017, n. 4315; Sez. VI, 18 luglio 2017, n. 352.
[xvi] Consiglio di Stato-Ufficio Studi, massimario e formazione della Giustizia Amministrativa, Relazione illustrativa sulle questioni deferite dal Presidente della Sezione VI del Consiglio di Stato, con nota del 17 maggio 2022.
[xvii] M. Calabrò, Silenzio assenso e dovere di provvedere: le perduranti incertezze di una (apparente) semplificazione, in Federalismi 10/2020.
[xviii] Ai sensi del comma 3 del testo vigente dell’art. 17-bis: “Le disposizioni dei commi 1 e 2 si applicano anche ai casi in cui è prevista l’acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati di amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini, per l’adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di amministrazioni pubbliche. In tali casi, ove disposizioni di legge o i provvedimenti di cui all’articolo 2 non prevedano un termine diverso, il termine entro il quale le amministrazioni competenti comunicano il proprio assenso, concerto o nulla osta è di novanta giorni dal ricevimento della richiesta da parte dell’amministrazione procedente. Decorsi i suddetti termini senza che sia stato comunicato l’assenso, il concerto o il nulla osta, lo stesso si intende acquisito”.
[xix] In tal senso cfr. Cons. Stato, sez. VI, 1 ottobre 2019, n. 6556; Tar Campania, Napoli, sez. VI, 7 giugno 2019, n. 3099; Tar Toscana, 16 dicembre 2020, n. 1656; Tar Sardegna, sez. II, 12 aprile 2021 n. 256.
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