ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La disciplina nazionale IVA sulle società di comodo al cospetto della Corte di Giustizia. Si preannuncia l’incompatibilità europea. Nota all’ordinanza della Corte di Cassazione n. 16091 del 15 maggio 2022
di Rossella Miceli
Sommario: 1. Premessa. 2. La disciplina IVA in materia di società di comodo. 3. La natura delle società di comodo quale necessaria premessa logica. 4. La questione pregiudiziale rimessa alla Corte di Giustizia. 5. L’assenza di soggettività passiva IVA della società di comodo e la conseguente irragionevolezza della disciplina nazionale. 6. Le incoerenze del test di operatività e il regime della prova contraria, quali ulteriori indici della incompatibilità della disciplina. 7. Conclusioni.
1. Premessa.
Con l’articolata ed approfondita ordinanza interlocutoria n. 16091 del 15 maggio 2022, la Corte di Cassazione rimette alla Corte di Giustizia europea la questione di compatibilità di alcune disposizioni relative alla disciplina nazionale sulle “società di comodo” (anche “società non operative”), recata nell’art. 30 della L. 23.12.1994, n. 724.
In tale articolo, come noto, trova espressione una delle normative più discusse e criticate del nostro sistema fiscale, tacciata più volte dalla dottrina di profili di incostituzionalità e di incompatibilità europea[1].
Nonostante le continue censure, la suddetta normativa con costanti revisioni ed innesti ha resistito indenne nel nostro sistema giuridico per circa trent’anni, nel corso dei quali non è stata mai soggetta ad un vaglio da parte delle Corte di Giustizia o della Corte costituzionale[2].
Alla luce di tali considerazioni, l’ordinanza in esame definisce una prima importante occasione di comprendere l’allineamento della disciplina sulle società di comodo ad un comparto importante dell’ordinamento giuridico, quello relativo al sistema comune dell’imposta sul valore aggiunto (d’ora innanzi, IVA).
Ne consegue come il cuore della suddetta disciplina, costituito dai presupposti di accesso e dalle complesse regole di determinazione delle imposte dirette, sarà in questa sede oggetto di esame in modo incidentale, in quanto la questione (su cui si fonda l’ordinanza di rimessione) attiene, esclusivamente, alla compatibilità della disciplina IVA con i principi europei in materia.
Comprendere le ragioni dell’ordinanza della Suprema Corte e valutarne la sostenibilità impone, preliminarmente, di focalizzare il regime nazionale IVA previsto per le società di comodo e di effettuare una breve riflessione sulla ratio della disciplina recata nell’art. 30 della suddetta legge.
Si ritiene, infatti, che i problemi della materia in esame e la stessa questione di compatibilità, oggetto di analisi, discendano principalmente da una mancata chiarezza sulla ratio legis sottesa alla disciplina, aspetto che, negli anni, si è sempre più aggravato a causa di una importante stratificazione normativa.
In tal senso, le partendo dalla definizione della suddetta ratio, si procederà alla valutazione delle motivazioni espresse dalla Suprema Corte, riflettendo su quelli che si presume possano essere gli esiti della questione in sede europea.
2. La disciplina IVA in materia di società di comodo.
L’applicazione della normativa in materia di società di comodo consegue alla realizzazione di presupposti specifici stabiliti dalla legge, i quali - nella disciplina vigente ratione temporis, nel momento in cui nasceva la controversia oggi sub judice - si sostanziavano esclusivamente nel mancato superamento del così detto “test di operatività”[3].
In base a quest’ultimo, si valuta la redditività dei beni patrimoniali detenuti dalle società commerciali (di persone e di capitali) in relazione a parametri minimi individuati dalla legge; il test contiene, infatti, una predeterminazione normativa di ricavi, il cui mancato superamento attesta un’improduttività dell’ente societario.
Scopo del test stesso è quello di dimostrare che i beni patrimoniali detenuti dalla società non possiedano una redditività adeguata alla loro consistenza economica, rilevando - in tal modo - un importante indice sintomatico dell’inattività della società stessa, basato sulla massima di esperienza secondo la quale ogni bene destinato all’impresa dovrebbe contribuire alla realizzazione di congrui ricavi.
Il mancato superamento del test e l’assenza del ricorrere di cause di esclusione determinano l’applicazione di una specifica disciplina impositiva che riguarda le imposte dirette e l’IVA.
Le cause di esclusione definiscono in senso negativo l’ambito di azione della disciplina delle società non operative, individuando una serie di fattispecie in cui la disciplina in esame non è applicabile in quanto la mancata redditività è giustificata. Le cause di esclusione sono numerose e si suddividono in diverse tipologie[4].
Si prevede, inoltre, una causa generale di esclusione (ex art. 30, comma 4, ter L. n. 724/1994), idonea a ricomprendere tutte le ipotesi non riconducibili ad una delle suddette cause espressamente previste. In ossequio a tale causa generale, al contribuente è consentito dare prova di “oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonché del reddito determinato in base alla disciplina delle società non operative ovvero non hanno consentito di effettuare le operazioni rilevanti ai fini IVA”.
La disciplina impositiva rivolta alle società di comodo si caratterizza da sempre per connotati estremamente penalizzanti.
Con specifico riferimento all’IVA, si prevedono due regimi che limitano le prerogative connesse all’ordinario meccanismo applicativo del tributo.
Il primo regime definisce una preclusione generale in relazione all’utilizzo della eccedenza IVA, in quanto l’eccedenza di imposta, pari al credito risultante in dichiarazione, non è ammessa a rimborso, non può essere compensata (ai sensi dell’art. 17 del D.Lgs. 9.7.1997, n. 241), non può essere ceduta a terzi (ai sensi dell’art. 5, comma 4 ter, D.L. 14.3.1988, n. 80, convertito in L. 13.3.1988, n. 154). Tale eccedenza può essere soltanto utilizzata a scomputo dell’IVA dovuta (ove esistente), al di fuori di tale possibilità l’unica strada possibile è quella del riporto a nuovo dell’ammontare in esame.
Il secondo regime preclude la possibilità di compensazione verticale dell’IVA a credito, rendendo tale ultimo credito sostanzialmente inutilizzabile.
La suddetta limitazione matura nel momento in cui per tre periodi di imposta consecutivi la società sia non operativa (ai sensi della disciplina) e non effettui operazioni rilevanti ai fini IVA pari almeno all’importo del reddito minimo presunto (come determinato ai fini delle imposte dirette).
Si tratta, come osservato in altra sede, di una disciplina che nel suo complesso determina un doppio livello di penalizzazioni, che operano in modo progressivo[5].
Il primo livello di penalizzazione sorge sul versante del recupero del credito emergente in dichiarazione, il cui utilizzo è soggetto alle sopra indicate limitazioni; ne consegue come per tutte le società che non hanno operazioni attive il credito risulterà inutilizzabile.
Il secondo livello designa un’indetraibilità assoluta dell’IVA sugli acquisiti di beni e servizi, ponendo il soggetto non operativo nel sistema impositivo nella stessa posizione di un consumatore finale, ma con tutti gli obblighi di un soggetto passivo. Quest’ultimo, infatti, non può in alcun modo utilizzare il proprio credito; ciò determina la circostanza che, oltre ad assolvere ad un’imposta per ogni operazione economica, rimarrà anche inciso dall’imposta stessa, come se avesse acquistato il bene o il servizio per destinarli al consumo.
In altre parole, le preclusioni introdotte agiscono sul piano della neutralità del tributo che gradualmente viene limitata, in un primo tempo parzialmente (mancato utilizzo della eccedenza IVA) ed in un secondo tempo totalmente (indetraibilità dell’IVA sugli acquisiti), definendo un effetto analogo a quello che si realizzerebbe se la società stessa fosse un consumatore finale.
3. La natura delle società di comodo quale necessaria premessa logica.
Uno dei temi più discussi nella materia tributaria, nell’ambito della normativa sulle società di comodo, è stato quello attinente alla loro natura e qualificazione.
La stratificazione normativa e gli effetti pregiudizievoli che l’applicazione della disciplina recava in capo ai contribuenti sono stati elementi che, sin dai primi anni di operatività della legge, hanno concentrato l’attenzione degli interpreti sulla comprensione di chi fossero le società di comodo nella realtà economica[6]; la definizione di tale natura avrebbe esplicitato la ratio legis della stessa e consentito di chiarire le ragioni di un assetto così penalizzante.
Sul tema si sono registrate diverse ricostruzioni giuridiche, sostenute in modo più o meno esplicito dalle evoluzioni che la disciplina ha ricevuto[7].
Inizialmente è sembrato che alla disciplina si dovesse riconoscere una natura antievasiva in quanto la stessa pareva reprimere le società che occultavano i ricavi prodotti; in tal senso la disciplina medesima avrebbe contrastato il fenomeno dei ricavi “in nero”, perseguendo l’obiettivo di combattere l’evasione fiscale.
In un secondo tempo si è maturata l’idea che la normativa potesse avere una matrice antielusiva, finalizzata al contrasto dell’abuso dello strumento societario per finalità estranee all’attività imprenditoriale. Secondo tale ricostruzione le società di comodo costituiscono costruzioni artificiose, non sostenute da valide ragioni economiche.
Sulla scia della costruzione antielusiva si è definita un’ulteriore giustificazione che, a nostro avviso, ha reso una più idonea interpretazione dei caratteri specifici della disciplina, assumendo connotati più coerenti sul piano teorico e con il dato normativo[8]. Tale ultima ricostruzione sembra essersi imposta nel panorama giuridico, trovando una condivisione anche da parte della giurisprudenza.
Le società di comodo definirebbero organizzazioni finalizzate alla mera detenzione di beni patrimoniali allo scopo di esercitarne un godimento; conseguentemente, lo spirito e il senso della normativa si rinvengono nella necessità di definire un trattamento impositivo di tali fattispecie, che - operando delle correzioni alla normativa fiscale - ne disincentivi la costituzione.
In tal modo, si compie un passaggio necessario per la materia fiscale, ove - come a tutti noto - si presume lo svolgimento dell’attività di impresa in capo a tutte le società commerciali di persone e di capitali, rivolgendo alle stesse una disciplina impositiva strutturata per le attività economiche e nota come “statuto fiscale dell’Impresa e delle società”[9].
Le ragioni che conducono a sostenere tale ultima ricostruzione si ravvedono nella circostanza che attualmente le società di mero godimento non sembrano essere (più) vietate dal sistema normativo.
Per tempo l’art. 2248 c.c. - prevedendo che la comunione a scopo di godimento non possa essere esercitata nella forma sociale, ma debba trovare la propria disciplina nelle norme in tema di comunione – ha definito un limite alla creazione di tali società.
L’evoluzione del diritto civile ha progressivamente operato una svalutazione di tale divieto con riferimento alle società semplici e a quelle di mera gestione previste dalla legge[10].
L’attuale diritto commerciale in diverse occasioni ha superato la nozione tradizionale di società per avviarsi verso una fase storica definita “pansocietaria”, nell’ambito della quale il modulo sociale può essere utilizzato anche per finalità diverse dall’esercizio dell’impresa.
Ne consegue come le società di mero godimento, oltre a non essere vietate dalla legge come anticipato, non costituiscono una espressione di abuso del diritto in senso tradizionale, né una forma di condotta fraudolenta.
Le società di mero godimento, al di là delle ipotesi tipizzate dal legislatore, qualificano fattispecie atipiche di utilizzo dello schema societario per lo svolgimento di una attività differente da quella di impresa. In ragione di ciò l’indice sintomatico che consente di rinvenire tali realtà all’interno della materia fiscale è stato individuato nella mancanza di ricavi adeguati alla consistenza patrimoniale dei beni detenuti.
L’ordinanza in esame abbraccia questa impostazione - assumendo che “la presunzione legale di inoperatività si fonda sulla massima di esperienza secondo la quale non vi è di norma effettività di impresa senza una continuità minima nei ricavi” – e, coerentemente alla stessa, ammette che - “il disfavore dell’ordinamento nazionale deriva dall’incoerente impiego del modulo societario …..e trova spiegazione nella distonia tra l’interesse che la società di mero godimento è diretta a soddisfare e lo scopo produttivo al quale il contratto è preordinato”.
La circostanza che le società di comodo identifichino attualmente società di mero godimento di beni patrimoniali definisce, in tal modo, la premessa logica dell’ordinanza di rimessione alla Corte di Giustizia.
4. La questione pregiudiziale rimessa alla Corte di Giustizia.
L’ordinanza della Suprema Corte nazionale origina da una controversia tra una società contribuente e l’Ente impositore nella quale la prima contestava la qualifica di (società di) comodo, conseguente alla contabilizzazione di operazioni attive ai fini IVA per un importo inferiore rispetto alla soglia di ricavi prevista dalla legge.
La contribuente impugnava dinanzi alla Commissione tributaria provinciale l’avviso di accertamento con il quale era assoggetta alla disciplina prevista dall’art. 30, L. n. 724/1994; a seguito di due pronunce in senso conforme nelle quali veniva respinto il ricorso della società, la controversia giungeva alla Suprema Corte dinanzi alla quale si maturava il sospetto dell’incompatibilità comunitaria della disciplina.
Nell’ordinanza di rimessione sono sviluppati numerosi argomenti che, nel loro insieme, convergono verso un unico generale quesito ovvero la compatibilità con la disciplina europea recata nella direttiva IVA (direttiva 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006) delle norme nazionali rivolte alle società di comodo.
In tal senso, si sottolinea la centralità del diritto alla detrazione nel sistema IVA e il suo diretto collegamento con la nozione di soggetto passivo, alla luce di ciò si ritiene inammissibile una limitazione del suddetto diritto in capo a soggetti IVA.
Tale compatibilità risulta, pertanto, dubbia rispetto alla disciplina della soggettività ed ai principi di proporzionalità, di neutralità e di certezza del diritto del sistema IVA.
Nel corso dell’analisi emergono anche, seppur in modo incidentale, i profili che determinano l’accesso alla disciplina e la prova contraria.
In particolare, dubbi si pongono sulla possibilità di escludere il diritto alla detrazione ad un soggetto che non supera il test di operatività, in considerazione principalmente delle caratteristiche di tale ultimo test, che impone la realizzazione di operazioni attive in misura coerente a parametri desumibili dagli asset patrimoniali posseduti e presume l’inattività di un soggetto nel caso di mancata realizzazione dei ricavi.
Allo stesso tempo, si pone in discussione che le suddette conseguenze possano essere rivolte ad un soggetto che, oltre a non aver superato il test di operatività, non sia in grado di dimostrare “l’esistenza di oggettive situazioni ostative”.
La comprensione delle questioni giuridiche in esame si deve concentrare - a nostro avviso – sull’analisi di un tema, che risulta preliminare.
Il punto di partenza deve essere quello di comprendere la posizione della società di comodo nazionale rispetto al sistema IVA alla luce della natura riconosciuta a quest’ultima.
La circostanza che la società di comodo non possa essere un soggetto IVA risolve - a nostro avviso - tutte le questioni oggetto dell’ordinanza.
In ogni caso, una riflessione sarà effettuata anche sui temi della coerenza del test di operatività e del regime della prova contraria. Si tratta di aspetti generali e di enorme importanza nell’assetto della materia dell’art. 30 della L. n. 724/1994, che assumono rilievo anche con riferimento al caso in esame.
5. L’assenza di soggettività passiva IVA della società di comodo e la conseguente irragionevolezza della disciplina nazionale.
La normativa europea IVA – e, in particolare, l’art. 9, par. 1, lett. a) della Direttiva n. 2006/112 – sancisce la soggettività passiva dell’imposta in capo a chiunque eserciti una attività economica, quest’ultimo soggetto se realizza operazioni imponibili ha diritto alla detrazione.
Come noto, in ordine alla definizione dei soggetti IVA esiste una profonda differenza tra il sistema europeo e quello nazionale.
A livello nazionale, in capo a tutte le società commerciali si realizza un automatico assoggettamento al regime del reddito di impresa per le imposte dirette e IVA; tale regime definisce un approccio formale nella individuazione dei soggetti che sono sottoposti alla disciplina fiscale dell’impresa.
A livello europeo, il presupposto soggettivo dell’IVA è invece qualificato secondo un approccio di tipo esclusivamente sostanziale, in base al quale si ammette che l’imposta debba essere assolta da soggetti che esercitano delle attività economiche rivolte al mercato in modo indipendente ed in regime di concorrenza. Tale nozione acclude al suo interno sia le attività di impresa, che quelle di lavoro autonomo e si concentra sul requisito della effettività dell’attività svolta con riferimento ai suddetti caratteri, prescindendo da status soggettivi, da fini dell’attività o dai risultati della stessa.
Nell’ambito della nozione di attività economica, la Corte di Giustizia ha espressamente evidenziato come la mera gestione di beni non definisca operazioni rilevanti ai fini IVA[11], sancendo in via generale la non assoggettabilità all’imposta di tutte le attività che si risolvono in una mera amministrazione interna di beni patrimoniali, in quanto non rivolte al mercato e non svolte in regime di concorrenza.
La Corte di Giustizia ha pertanto sottolineato come i soggetti che esercitano tali attività non siano soggetti IVA e debbano essere trattati - con riferimento al sistema impositivo - alla stregua di consumatori finali.
Alla luce di tali orientamenti, lo stesso legislatore italiano ha proceduto ad una riforma legislativa, con cui è stato previsto il disconoscimento della soggettività IVA ad alcune società immobiliari di mero godimento dei beni, sancendo che l’attività svolta dalle suddette società non sia più considerata commerciale[12]. I principi europei hanno così conferito una maggiore elasticità alla normativa italiana che ha dovuto abbandonare in alcuni casi l’automatismo legato alla presunzione di commercialità riferita alle società.
Sulla base di tale analisi si comprende come l’attuale disciplina IVA in materia di società di comodo soffra di un primo evidente profilo di incoerenza con i principi europei.
Se un soggetto esercita un’attività di mero godimento di beni patrimoniali dovrebbe essere estromesso dalla disciplina dell’imposta e non godere – conseguentemente - né della soggettività IVA, né del diritto alla detrazione.
Secondo tale impostazione, pertanto, risulta corretta una normativa nazionale che è finalizzata a rinvenire le società di mero godimento nel sistema giuridico, ma del tutto ingiustificate appaiono le misure predisposte da quest’ultima in ordine alle prerogative del sistema IVA.
I due regimi previsti privano i soggetti IVA di alcuni diritti fondamentali della disciplina, definendo un regime “ibrido” nel quale un contribuente rimane nel sistema dell’imposta, ma con una posizione pregna di limitazioni.
Alla luce di ciò completamente irragionevole si rivela anche il doppio livello di preclusioni che si maturano progressivamente con il perdurare della mancata redditività, le quali non trovano alcuna giustificazione sul piano della logica dell’imposta.
Il doppio livello di preclusioni e la previsione di una forma di indetraibilità definiscono un quadro di dubbia compatibilità europea rispetto non solo alla disciplina sulla soggettività IVA, ma anche ai principi di neutralità e di proporzionalità.
La disciplina in esame, infatti, altera il regime di neutralità dell’imposta e non rispetta alcuna proporzionalità, assumendo - invece - caratteri sanzionatori e finalità punitive verso le società di mero godimento.
Aver previsto un regime di limitazione alla detrazione configura, inoltre, anche una espressa violazione delle disposizioni europee della direttiva IVA (artt. 176, 177, direttiva n. 112/2006) che recano le deroghe al diritto alla detrazione che gli Stati membri possono introdurre.
Le deroghe in esame sono ammissibili in caso di motivi congiunturali, di ragioni finalizzate alla semplificazione della riscossione o giustificate dall’esigenza di evitare frodi o abusi.
Nel caso analizzato non ci troviamo in nessuna delle ipotesi suddette, avendo del tutto escluso che le società di comodo si collochino nell’area delle violazioni fiscali o delle condotte fraudolente.
Ne emerge, conseguentemente, come la disciplina IVA prevista per le società di comodo presenti evidenti profili di incompatibilità europea.
6. Le incoerenze del test di operatività e il regime della prova contraria, quali ulteriori indici della incompatibilità della disciplina.
Una questione di fondo che ricorre nei motivi sottoposti al vaglio della Corte di Giustizia si rinviene nella comprensione dell’attitudine del test di operatività a dimostrare la qualità di società di mero godimento dell’ente e di sostenere le conseguenze giuridiche che seguono a tale qualifica.
Si tratta di una questione di ampio respiro che trascende gli aspetti IVA e coinvolge la disciplina generale delle società di comodo[13]. La questione si sostanzia, infatti, nella ragionevolezza del test ovvero nella sostenibilità del giudizio inferenziale sottostante la presunzione di ricavi.
Nella formulazione dei quesiti si rinviene anche una ulteriore prospettiva, anch’essa di rilievo generale. Si chiede, infatti, se le conseguenze del test siano sostenibili anche nel caso in cui il contribuente non sia in grado di dimostrare “l’esistenza di oggettive situazioni ostative”. Si comprende, quindi, come implicitamente sia chiamato in causa il regime della prova contraria.
Entrambi gli aspetti sono fondamentali nella materia delle società di comodo e da sempre molto discussi; una loro trattazione specifica coinvolge differenti principi generali della materia tributaria e - come tale - esula dalle finalità della presente riflessione.
Alla luce di ciò si effettueranno alcune brevi considerazioni che possono migliorare l’inquadramento della questione oggetto di cognizione.
I due temi indicati sono differenti ma risultano ontologicamente collegati, dal momento che l’idoneità del test a dimostrare l’esistenza delle società di comodo appare rinforzata se esiste un adeguato regime della prova contraria; in senso opposto, senza un effettivo sistema di difesa, i problemi del test si acuiscono in quanto le risultanze dello stesso assumono caratteri di incontrovertibilità in capo ai contribuenti.
Con riguardo specifico al test, sono state messe in luce nel tempo alcune lacune, relative soprattutto alla base logica ed alle modalità con cui lo stesso è stato costruito.
Sono emersi dubbi sull’esistenza effettiva di una connessione così diretta tra beni patrimoniali detenuti dall’impresa e ricchezza prodotta dagli stessi nonché sulla possibilità di esprimere tale connessione attraverso una presunzione di redditività costante[14].
In tal senso numerose critiche sono state rivolte soprattutto ai coefficienti utilizzati, ritenuti privi di alcuna ragionevolezza e attendibilità dimostrativa.
Più in particolare, il test di operatività è stato messo a punto con una costruzione giuridica di tipo inferenziale che - partendo da un dato noto, costituito dai beni patrimoniali detenuti dalla società - ha definito un livello di ricavi presunto, attraverso la tecnica della predeterminazione normativa[15].
Il risultato che ne è conseguito costituisce un valore presunto di tipo logico e di fonte normativa, cioè desunto in base a calcoli e valutazioni numerico probabilistiche. La predeterminazione è stata definita secondo criteri di medietà e di apoditticità ovvero i beni patrimoniali sono computati al loro valore medio, stabilito con riguardo all’esercizio in corso ed ai due precedenti (medietà) ed a tali valori sono poi applicati coefficienti individuati dalla legge che esprimono la misura della possibile redditività ritraibile dai beni patrimoniali.
Tali percentuali non risultano collegate rispetto ad accadimenti esterni o ad elementi reali riferibili ai valori presi in esame; in questo senso si qualificano come apodittici, in quanto sono posti dalla legge senza un collegamento con il fatto imponibile[16]. Il procedimento descritto ha destato molte critiche, in relazione soprattutto alla sostenibilità logica e giuridica del risultato prodotto al suo esito.
Si comprende, pertanto, come - anche in relazione a tale aspetto - i dubbi sollevati dalla Suprema Corte siano condivisibili.
Con riguardo alla disciplina della prova, si precisa che quest’ultima è stata oggetto di continue modificazioni negli anni[17].
Si premette che l’area normativamente prevista in ordine ai contenuti della prova contraria risulta astrattamente ampia ed articolata; si ricorda, infatti, come siano previste diverse tipologie di cause di esclusione espresse, al cui ricorrere la società è estromessa automaticamente dall’area delle società di comodo. A queste ultime si affianca anche una causa generale, dal contenuto non predeterminato, destinata a consentire la dimostrazione di tutte quelle fattispecie verificabili nella realtà che non sono oggetto di una causa espressa.
In tal senso, partendo da un assetto normativo potenzialmente congruo e ragionevole, i problemi che si sono registrati negli anni hanno riguardato le diverse discipline che hanno regolato le modalità di dimostrazione della prova contraria in sede procedimentale e le interpretazioni rigorose che si sono consolidate in seno alla giurisprudenza ed alla Amministrazione finanziaria in relazione al contenuto della prova stessa.
Focalizzando la nostra attenzione sul momento in cui si è sviluppata la controversia in esame, si ritiene che la possibilità di rendere una prova contraria da parte della società appaia pregiudicata da alcuni fattori.
Nella suddetta fase storica era previsto un obbligo di presentazione dell’istanza di interpello per tutti coloro che intendessero fornire la suddetta prova contraria, senza ulteriori possibilità nel caso in cui il contribuente non avesse inoltrato tempestivamente l’istanza o avesse ricevuto un diniego espresso. Il regime era molto limitativo e riduceva le possibilità di tutela delle società. Attualmente tale assetto è stato superato da una normativa maggiormente garantistica[18].
Allo stesso tempo, nella medesima fase storica, si era consolidata un’interpretazione sul contenuto della prova contraria molto limitante, che faceva leva sul dato letterale (previsto dalla norma) relativo alle circostanze “oggettive” che avevano causato i mancati ricavi.
L’Amministrazione finanziaria sosteneva che la natura oggettiva delle circostanze (che valevano ad escludere una società dall’ambito di applicazione della disciplina) qualificasse solo fattispecie in cui non si riscontrasse in alcun modo una volontà della società nel mancato ottenimento dei traguardi imprenditoriali. Nelle diverse circolari sull’argomento, si rilevava come risultasse essenziale dimostrare che l’incapacità di produrre ricavi non fosse dipesa da scelte antieconomiche del contribuente ma da eventi o circostanze oggettive, anche successive nel tempo[19].
Anche in sede giurisprudenziale si era sposata questa ricostruzione, sottolineando la necessità che l’assenza di ricavi non discendesse da scelte imprenditoriali del contribuente[20].
La suddetta posizione portava all’ammissione nell’ambito della disciplina in esame di imprese commerciali nelle quali si erano effettuate scelte non virtuose da un punto di vista economico, che avevano determinato risultati scarsi in termini di realizzazione di presupposti di imposta.
L’evoluzione della disciplina connessa ai problemi dell’economia italiana - che da decenni vive momenti di recessione - ha condotto da qualche anno ad un superamento definitivo di tale posizione[21].
Attualmente le situazioni oggettive costituiscono elementi e fatti di ogni tipo che siano oggettivamente verificabili e discendano sia da fattispecie indipendenti dalla volontà delle parti, sia da scelte effettuate dall’imprenditore che si siano rivelate non virtuose o antieconomiche.
Ne consegue come, con riferimento alla disciplina vigente al momento in cui si è verificata la fattispecie oggetto di cognizione, sia le modalità di dimostrazione della prova contraria che le interpretazioni consolidate in sede giurisprudenziale definissero un sistema presumibilmente lesivo del canone dell’effettività, secondo la prospettiva europea.
Tale assetto sostiene le riflessioni raggiunte in precedenza, ammettendo che il sistema di accesso alla normativa delle società di comodo e il regime della prova potevano definire conseguenze inaccettabili in capo alle società contribuenti, che realizzavano evidenti violazione dei principi di soggettività, di proporzionalità e di neutralità IVA.
7. Conclusioni
La normativa sulle società di comodo recata nell’art. 30 della L. n. 724/1994 - se finalizzata ad individuare le società di mero godimento di beni patrimoniali, come si ritiene - risulta registrare con riguardo all’IVA dei presunti profili di incompatibilità europea, come l’acuta ordinanza della Corte di Cassazione pone in luce.
Le società di mero godimento non possono essere soggetti IVA; pertanto, se l’esito del test di operatività conferma la natura di godimento, le medesime società dovrebbero essere estromesse dal campo di applicazione dell’imposta.
Ne consegue l’assoluta incoerenza degli attuali regimi IVA (riferiti alle società di comodo) che limitano una parte delle prerogative dell’imposta in capo a società che rimangono a tutti gli effetti soggetti IVA. Tale disciplina definisce, al contempo e per le medesime ragioni, una lesione dei principi di neutralità e di proporzionalità dell’imposta.
L’assetto descritto risulta ancora più irragionevole se si valuta la coerenza logica del test di operatività e l’effettività della disciplina della prova contraria nella fase storica in cui si è originata la controversia. Tali fattori qualificavano, nella loro coesistenza ed alla luce di interpretazioni consolidate (ed oggi superate), un sistema ove poteva risultare complesso per le società contribuenti dimostrare le ragioni della non operatività, con la conseguenza - ancora più grave - che imprese commerciali rischiavano di restare imbrigliate nelle maglie della disciplina delle società di comodo.
Si configurava una situazione in cui il test di operatività e la disciplina della prova contraria non erano in grado di identificare effettivamente le società non operative nel mondo giuridico, determinando - quale effetto – un’ulteriore, e ancor più grave, violazione dei principi di soggettività, di neutralità e di proporzionalità IVA.
La disciplina analizzata, infatti, risulta irragionevole ed incoerente se rivolta alle società di mero godimento, ma assume effetti persecutori e vessatori se riferita a società commerciali.
Nelle more della pronuncia della Corte di Giustizia non si può quindi far altro che condividere la posizione della Suprema Corte, che con la presente ordinanza fotografa solo alcune delle incoerenze di una normativa da sempre discussa e molto problematica.
[1] La disciplina in materia di società di comodo è stata oggetto di critiche e censure da parte di unanime dottrina. Tra i numerosi contributi sul tema, cfr. F. Tesauro, Prefazione, in Le società di comodo. Regime fiscale e scioglimento agevolato, all. il fisco, 1995, n. 22, p. 9; G. Falsitta, Le società di comodo e il paese di Acchiappacitrulli, in G. Falsitta, Per un fisco civile, 1996, p. 12; L. Tosi, Relazione introduttiva: la disciplina delle società di comodo, in AA.VV., in Le società di comodo, a cura di L. Tosi, Padova, 2008, p. 5; M. Beghin, Le società “immobiliari” di comodo, la compravendita di fabbricati e la presunzione di occultamento del corrispettivo nel limbo delle quotazioni omi (osservatorio del mercato immobiliare), in AA.VV., Le società di comodo, cit., p. 78; R. Schiavolin, Considerazioni di ordine sistematico sul regime delle società di comodo, in AA.VV., Le società di comodo, a cura di L. Tosi, Padova, 2008, p. 59; R. Lupi, Le società di comodo come disciplina antievasiva, in Dialoghi dir. trib., 2006, p. 1097; M. Nussi, La disciplina impositiva delle società di comodo tra esigenze di disincentivazione e rimedi incoerenti, in riv. dir. fin. sc. fin, 4/2010, p. 501; G. Melis, Disciplina delle società di comodo e presunzione di evasione: non sarà forse l’ora di eliminarla?, in Dialoghi dir. trib., 2006, p. 1325; R. Miceli, Società di comodo e Statuto fiscale dell’impresa, Ospedaletto (Pisa), 2017, passim.
[2] Come evidenziato nella pronuncia in esame, l’unica valutazione europea in merito alla disciplina recata nell’art. 30, L. 23.12.1994, n. 724 si rinviene in una interrogazione alla Commissione (n. P-9064/2010) alla quale è stata fornita la risposta del 30.11.2010, P-9064/10IT. In tale sede si è ritenuto che la circostanza in base alla quale l’ammissione al regime non fosse automatica, ma basata su accertamenti compiuti dalle autorità giudiziarie, rendesse tale disciplina allineata al principio di proporzionalità. Si è, tuttavia, trattato di una mera risposta della Commissione sulla base del dato normativo, in merito alla quale non è stata effettuata una istruttoria sul punto.
[3] Si precisa che attualmente la disciplina si è modificata ed i presupposti di accesso sono, oltre a quello relativo al mancato superamento del test di operatività, quello della chiusura di cinque periodi di imposta con una perdita di esercizio nonché quello della medesima chiusura di quattro esercizi consecutivi con una perdita di esercizio e il mancato raggiungimento del valore del reddito minimo per il quinto periodo di imposta. Cfr. art. 30, L. 23.12.1994, n. 724; art. 2, comma 36 decies e undecies, del D.L. 13 agosto 2011, n. 138 convertito con modificazioni nella L. 14 settembre 2011, n. 148.
[4] Si annoverano, infatti, le cause di esclusione stabilite dalla legge; le cause di disapplicazione sancite dai decreti del Direttore dell’Agenzia delle Entrate; la causa generale di non applicazione (ex art. 30, comma 4 ter, L. n. 724/1994).
[5] Cfr. R. Miceli, Società di comodo e Statuto fiscale dell’impresa, cit., pp. 87, 110, 183.
[6] Si rileva come vi siano state diverse difficoltà di definire una ricostruzione convincente della disciplina delle società di comodo, in quanto la stessa sembrava raccogliere diverse finalità, talora anche fra di loro contrastanti. In tal senso si è anche ammesso che la disciplina fiscale sulle società di comodo potesse rispondere ad una pluralità di funzioni, rappresentando un caso di “polimorfismo normativo”. Cfr. M. Beghin, Le società “immobiliari” di comodo, la compravendita di fabbricati e la presunzione di occultamento del corrispettivo nel limbo delle quotazioni omi (osservatorio del mercato immobiliare), in AA.VV., Le società di comodo, cit., p. 78. Secondo altra prospettazione la disciplina in esame, presentando diverse incoerenze di fondo, sarebbe stata espressione di esigenze di cassa dello Stato basate su un esclusivo interesse fiscale. Cfr. R. Schiavolin, Considerazioni di ordine sistematico sul regime delle società di comodo, in AA.VV., Le società di comodo, cit., p. 59; D. Stevanato, “Società di comodo” un capro espiatorio buono per ogni occasione, in Corr. trib., 2011, p. 2889; Id., Società di comodo, orrore senza fine: da imposta su presunti redditi di fonte patrimoniale a tributo extrafiscale sul patrimonio, in Dialoghi trib., 2014, p. 133.
[7] In particolare, F. Tesauro, Prefazione, cit., p. 9; G. Falsitta, Le società di comodo e il paese di Acchiappacitrulli, cit., p. 12; M. Nussi, La disciplina impositiva delle società di comodo tra esigenze di disincentivazione e rimedi incoerenti, cit., p. 501; L. Tosi, Relazione introduttiva: la disciplina delle società di comodo, cit, p. 52; R. Lupi, Le società di comodo come disciplina antievasiva, cit., p. 1097; G. Melis, Disciplina delle società di comodo e presunzione di evasione: non sarà forse l’ora di eliminarla?, cit., p. 1325.
[8] Cfr. L. Tosi, Relazione introduttiva: la disciplina delle società di comodo, cit., p. 52; R. MICELI, Società di comodo e statuto fiscale dell’impresa, cit., p. 192.
[9] Nel nostro sistema fiscale l’applicazione dello statuto dell’impresa (ovvero della disciplina del reddito di impresa) è fisiologica per tutte le società di tipo commerciale in virtù della presunzione di commercialità e del principio di attrazione (ex artt. 6 e 81, TUIR, D.P.R. n. 917/1986); si comprende pertanto perché sorga la necessità di un correttivo per le società che detengono patrimoni e sono improduttive di presupposti compatibili con la ratio impositiva del reddito di impresa.
[10] In tale assetto viene ammessa, in recepimento di una consolidata normazione tributaria, la società semplice di mero godimento dei beni, che costituisce la presa d’atto di un fenomeno, ormai ineliminabile nel sistema giuridico, di gestione di patrimoni attraverso la forma della società.
[11] In particolare, le note pronunce CGUE 20 giugno 1991, C-60/90, causa Polisar e successivamente, CGUE 27 novembre 2001, C-16/00, causa Cibo Partecipation che hanno definito tale posizione, oggi consolidata. Cfr., le più recenti, CGCE 13.6.2019, C-420/18; CGCE 20.1.2021, C-655/19, causa AJFP Sibiu e DGRFP Brasov.
[12] La riforma è stata attuata con il D.Lgs. 2 settembre 1997, n. 313, in applicazione della delega contenuta nell’art. 3 della L. 23 dicembre 1996, n. 662, che ha condotto all’introduzione del comma 5 dell’art. 4 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 63.
[13] La questione in esame, infatti, è da sempre analizzata con riferimento alle imposte sul reddito la cui determinazione è effettuata in ossequio alla stessa disciplina del test di operatività e sulla base dei valori numerici che emergono da quest’ultimo. I problemi del test, pertanto, coincidono con quelli relativi alla determinazione delle imposte dirette.
[14] Così L. Tosi, Relazione illustrativa: la disciplina delle società di comodo, cit., p. 6, il quale evidenzia come la disciplina del test di operatività si basi su passaggi – logici, economici, giuridici – privi di una reale dimostrazione. Si tratta di “coefficienti molto rozzi, che non hanno alcun supporto dimostrativo”, “tali coefficienti non sono il frutto di alcuna indagine scientifica o vero studio statistico”. Nel medesimo senso M. Beghin, Gli enti collettivi di ogni tipo “non operativi”, cit., p. 716.
[15] Cfr. L. Tosi, Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale, Torino, 1999, p. 14.
[16] Cfr. L. Tosi, Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale, cit., p. 19.
[17] Per un excursus su tale tema, cfr. R. Miceli, Società di comodo e statuto fiscale dell’impresa, cit., cap. 3, p. 66.
[18] Nel 2015 a seguito della riforma generale dell’istituto dell’interpello (Titolo I, del D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156), sono state apportate modifiche alla disciplina delle società di comodo. Attualmente il contribuente, nei cui confronti non ricorrano le cause di esclusione espresse (cause di esclusione previste dalla legge ovvero cause di disapplicazione contenute nei provvedimenti del Direttore dell’Agenzia delle Entrate), che ritenga comunque di non essere destinatario della disciplina delle società di comodo, in quanto nei suoi confronti opera la causa generale relativa alle oggettive situazioni ha facoltà di adire l’Amministrazione finanziaria, utilizzando il procedimento di interpello probatorio ex art. 11, comma 1, lett. b) della L. 27 luglio 2000, n. 212 ovvero di non applicare la disciplina, rilevando la ricorrenza della suddetta causa in sede di dichiarazione. Il contribuente può, altresì, non applicare la normativa anche laddove ad esito del procedimento di interpello probatorio sia stato emesso un diniego espresso. Il diniego di interpello non preclude, infatti, la facoltà di non applicare la disciplina in dichiarazione e, in caso di avviso di accertamento, emesso a seguito di indagini da parte dell’Amministrazione finanziaria, rimane sempre possibile l’impugnazione dinanzi alle Commissioni tributarie.
[19] Le circolari che hanno affrontato il tema del contenuto delle oggettive situazioni sono: circ. 2 febbraio 2007, n. 5/E; circ. 9 luglio 2007, n. 44/E; circ. 26 febbraio 1997, n. 48/E. Sul punto si sottolinea che nella Relazione ministeriale di accompagnamento all’art. 27, del D.L. 23 febbraio 1995, n. 41, convertito con modificazioni nella L. 22 marzo 1995, n. 85 (relativo alla prima versione della norma sulle società di comodo), si stabiliva che “la prova contraria deve essere sostenuta da una situazione oggettiva ed essa non è determinabile dalla volontà dell’imprenditore, neppure attraverso la contabilità di supporto”.
[20] Cfr., ex pluribus, Cass. 21 ottobre 2015, n. 21358.
[21] Cfr. R. Miceli, La disciplina delle società di comodo e il rilievo delle scelte imprenditoriali, in Riv. trim dir. trib., 2020, p. 213. Il cambiamento di rotta avviene nel 2019 con Cass. 12.2.2019, n. 4019.
The Western Must Go On: la Corte suprema statunitense difende, e rafforza, il diritto individuale di portare armi
di Paolo Passaglia
Sommario: 1. Premessa - 2. Una previsione costituzionale da interpretare - 3. L’interpretazione della Corte suprema federale (e il punto che restava da chiarire) - 4. La nuova decisione - 5. E adesso?
1. Premessa
Tra gli studiosi di diritto comparato è assolutamente condiviso il riconoscimento di una «tradizione giuridica occidentale» che collega, attraverso radici comuni e un patrimonio di principi condiviso, le due rive dell’Oceano Atlantico (cfr., ad es., V. Varano – V. Barsotti, La tradizione giuridica occidentale, VII ed., Torino, Giappichelli, 2021). Contestare una tale ricostruzione sarebbe errato, ancor prima che velleitario; eppure, non può negarsi che taluni elementi mostrano un divario come minimo rimarchevole tra gli Stati Uniti (in particolare) e gli ordinamenti europei. Il riferimento non va, ovviamente, a elementi di contorno o a regolamentazioni specifiche, ma punta dritto verso alcuni cardini della convivenza civile, come quello dell’intangibilità della vita (che la pena di morte ovviamente ex se disconosce) e quello del tendenziale monopolio della forza in capo ai pubblici poteri.
Su questo secondo elemento, e della incrinatura che vi apporta il diritto di detenere e portare armi, ci si soffermerà brevemente in queste righe, occasionate da una recente sentenza della Corte suprema federale statunitense, la quale, il 23 giugno scorso, ha deciso il caso New York State Rifle & Pistol Association, Inc. v. Bruen, n. 20-843, con una pronuncia all’insegna di una liberalizzazione invero sconcertante; sconcertante quasi quanto lo è la chiusura oscurantista che la stessa Corte, il giorno successivo, ha manifestato nei confronti del diritto all’aborto (cfr. la sentenza Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, n. 19-1392).
Prima di dar conto della posizione assunta da ultimo dalla Corte, conviene ricapitolare il quadro costituzionale, per poi appuntare l’attenzione sull’impatto che ha avuto la giurisprudenza nel recente passato.
2. Una previsione costituzionale da interpretare
Il diritto di detenere e portare armi è riconosciuto dal Secondo Emendamento alla Costituzione federale, che fa parte del c.d. Bill of Rights, cioè dei dieci emendamenti adottati a integrazione della Costituzione ed entrati in vigore già nel 1791.
Il Secondo Emendamento è sicuramente uno dei più complessi da interpretare. Così recita: «Essendo necessaria, per la sicurezza di uno Stato libero, una Milizia ben organizzata, non sarà violato il diritto del popolo di detenere e portare armi». La formulazione del testo è oggettivamente ambigua, segnatamente per quel che attiene ai rapporti tra le due proposizioni. Non a caso, nel novero delle molte interpretazioni che sono state avanzate, possono individuarsi due grandi categorie, corrispondenti a due diversi modi di intendere i rapporti tra la «milizia» e il diritto di detenere e portare armi.
Secondo una lettura che, nel corso del XX secolo, pareva dovesse finire per prevalere, la prima sarebbe un presupposto del secondo: l’Emendamento mirerebbe, in sostanza, a proteggere gli Stati (anche contro la Federazione), garantendo loro il diritto di creare una milizia popolare; ma perché quest’ultima possa anche solo ambire ad avere una qualche efficacia, i suoi componenti debbono poter brandire le armi. Detenere e portare armi non sarebbe, dunque, un diritto individuale, ma semplicemente un diritto funzionale alla partecipazione a una milizia, senza la quale il diritto non sussisterebbe.
Una diversa lettura scinde chiaramente le due proposizioni, rendendole di fatto autonome. Così, da un lato, gli Stati avrebbero il diritto di creare una milizia, mentre, dall’altro, gli individui avrebbero quello di detenere e portare armi (per una sintetica ma efficace ricostruzione delle principali tematiche connesse al diritto a portare armi, v., di recente, in lingua italiana, E. Grande, Stati Uniti: le armi da fuoco, le stragi e un diritto da Far-West, in Questione Giustizia, 12 settembre 2018).
3. L’interpretazione della Corte suprema federale (e il punto che restava da chiarire)
La contrapposizione tra le due evocate letture (recte, tra le molteplici letture riconducibili, talora non senza forzature, alle due categorie suddette) ha dato adito a un dibattito che si è sviluppato per oltre due secoli, non potendosi riscontrare, nella prassi e, soprattutto, nella giurisprudenza della Corte suprema federale, una presa di posizione chiara.
Una tale presa di posizione si è, infine, avuta, nel 2008, con la sentenza sul caso District of Columbia v. Heller (554 U.S. 570), dove si è affermato in modo inequivocabile che il Secondo Emendamento protegge il diritto individuale di detenere armi da fuoco, a prescindere dal servizio che si presti in una milizia. Scrivendo la opinion della maggioranza (5 giudici contro 4), il giudice Scalia, noto per le sue posizioni conservatrici, ha sottolineato che il diritto di detenere armi doveva coniugarsi a quello di usarle per finalità tradizionalmente legittime, come in particolare l’autodifesa presso la propria abitazione.
La sentenza ha offerto un sostegno giuridico fondamentale perché le armi potessero continuare a circolare negli Stati Uniti in misura incommensurabilmente maggiore rispetto agli altri sistemi occidentali (e non solo): il semplice fatto di poter detenere armi apre, infatti, ampie possibilità di acquistarle. Al punto che, nella stessa sentenza, il giudice Scalia ha ritenuto opportuno precisare che quanto veniva allora stabilito dalla Corte non poteva in alcun modo porre in dubbio «i divieti vigenti da lungo tempo in merito al possesso di armi da fuoco da parte di pregiudicati o malati mentali» oppure le leggi che vietassero «di portare armi da fuoco in luogo sensibili, come le scuole o gli edifici dei pubblici poteri» o ancora le leggi che imponessero «condizioni e qualifiche per la vendita commerciale di armi» (p. 624 s.). Del pari, si è avvertita l’esigenza di chiarire che il diritto di portare armi dovesse essere inteso come riferito ad armi «di uso comune», e che quindi non si estendesse anche alle armi «pericolose e inusuali» (p. 625), evidentemente sull’assunto che esistano armi «non pericolose»…
Al di là di queste precisazioni, pure non secondarie, e di altre intervenute successivamente (con la sentenza McDonald v. City of Chicago, 561 U.S. 742, del 2010, in cui si è rilevato che, non solo la Federazione, ma anche gli Stati debbono ritenersi vincolati all’esistenza di un diritto individuale, con il che la sentenza Heller si applica anche ad essi), un aspetto centrale della tematica era rimasto impregiudicato: la sentenza affermava un diritto (quello di detenere individualmente armi), ricavandone un corollario piuttosto specifico (l’autodifesa domestica), senza prendere posizione sulla possibilità di circolare con le armi detenute. Si confermava, certo, l’esclusione della possibilità di accedere a luoghi «sensibili», ma nulla si era detto con riferimento alla circolazione nello spazio pubblico «non sensibile».
4. La nuova decisione
È precisamente la questione della circolazione con armi nello spazio pubblico l’oggetto del recente intervento della Corte suprema. Un intervento che è giunto in un contesto ancora fortemente segnato dalla strage compiuta in una scuola elementare del Texas il 24 maggio, costata la vita a 19 bambini e 2 insegnanti (oltre che all’autore della strage). L’episodio, tra i più gravi avvenuti in una scuola nella storia americana, aveva condotto il Presidente Biden a formulare una ferma condanna dell’inerzia della classe politica, criticata per non aver introdotto limitazioni reali all’utilizzo delle armi, essendo incapace di opporsi alla lobby dei produttori (cfr. Remarks by President Biden on the School Shooting in Uvalde, Texas, 24 maggio 2022). La tradizionale contrapposizione tra Democratici (tendenzialmente favorevoli al controllo delle armi) e Repubblicani (tendenzialmente contrari), sembrava che, almeno in parte, potesse essere superata proprio in virtù dell’ondata emozionale creata dalla strage.
Nel frattempo, era in corso il giudizio di fronte alla Corte suprema nel quale veniva contestata, nello specifico, la legge dello Stato di New York che criminalizzava il possesso di armi da fuoco senza licenza: per poter circolare armato fuori dalla propria abitazione, un individuo doveva infatti ottenere una speciale autorizzazione, per la quale si rendeva necessaria l’esistenza di una «proper cause», consistente nella possibilità di «dimostrare un bisogno speciale di autodifesa, distinguibile da quello della generalità dei consociati».
La maggioranza conservatrice della Corte suprema, composta da tre giudici nominati dal Presidente Trump, due dal Presidente G.W. Bush e uno dal padre di quest’ultimo (il Justice Thomas, redattore della Opinion of the Court), si è pronunciata nel senso che il prescritto requisito della «proper cause» era lesivo del diritto di detenere e portare armi, poiché impediva ai cittadini rispettosi della legge di soddisfare le normali necessità legate all’autodifesa.
Il punto di partenza dell’argomentazione della Corte è stato che «[n]iente nel testo del Secondo Emendamento traccia una distinzione tra casa e spazio pubblico con riguardo al diritto di detenere e portare armi» (p. 23). Questa affermazione ha trovato sostegno in un ampio e analitico excursus storico, dal quale si è potuto peraltro trarre una conferma evidente della prevalenza in seno alla attuale Corte della tendenza originalista, sulla cui base l’interpretazione della Costituzione deve essere operata principalmente attraverso il canone storico (sul tema, v. G. Romeo, L’argomentazione costituzionale di common law, Torino, Giappichelli, 2020, spec. p. 125 ss.). Si è giunti quindi a rimarcare, riprendendo anche quanto già affermato nelle sentenze del 2008 e del 2010, che «il diritto costituzionale di portare armi in pubblico per autodifesa non è “un diritto di secondo grado, soggetto a un corpus di regole totalmente diverso da quello delle altre garanzie del Bill of Rights”» (p. 62; la citazione è tratta dalla precitata sentenza McDonald, p. 780). In tal senso, non è dato riscontrare alcun diritto costituzionale che un individuo possa esercitare «solo dopo aver dimostrato ai pubblici ufficiali qualche esigenza speciale» (p. 62 s.).
Non è probabilmente da trascurare che uno dei giudici di maggioranza, Justice Kavanaugh, abbia precisato, nella sua opinione concorrente (sottoscritta anche dal Chief Justice Roberts), che la declaratoria di incostituzionalità doveva ritenersi rivolta, non tanto alle regolamentazioni che prevedessero un sistema di autorizzazione, ma semmai a quelle che lasciassero all’amministrazione – come era nel caso di New York – una discrezionalità eccessiva nella decisione circa il rilascio o il mancato rilascio. In proposito, dunque, è rimasta una qualche incertezza, visto che la Opinion of the Court non conferma né smentisce questa impostazione.
Al di là di questo aspetto specifico, deve riconoscersi che, sul piano dell’interpretazione costituzionale, la posizione assunta dalla Corte appare tutto sommato logica. Per meglio dire, date le premesse delle decisioni del 2008 e del 2010, la decisione in esame non segna una discontinuità, ma, semmai, si pone all’interno di un alveo già tracciato. Il vero pregiudizio per le posizioni favorevoli al controllo delle armi risale, infatti, alla sentenza Heller; le successive possono essere accolte con disappunto, ma solo perché non invertono una rotta che una parte (crescente) dell’opinione pubblica ritiene inopportuna, per non dire pericolosa per l’incolumità pubblica.
Non è probabilmente un caso se il Justice Breyer, nel redigere l’opinione dissenziente su cui sono confluiti i tre giudici liberal della Corte, ha posto in rilievo soprattutto le conseguenze sociali della posizione assunta dalla maggioranza. Perché il punto era proprio quello di valutare l’impatto avuto dall’atteggiamento permissivo espresso dalla Corte nel 2008, onde riconoscere la necessità di operare una rivisitazione di quella giurisprudenza, per meglio contenere un diritto tanto pericoloso quanto quello di portare armi. La corrispondenza, su cui Breyer ha insistito molto, tra diffusione delle armi e numero di morti violente avrebbe dovuto, a suo avviso, condurre la Corte a optare per un approccio restrittivo.
5. E adesso?
Il fatto che, non solo non sia avvenuto quanto auspicato dalla minoranza della Corte, ma che sia avvenuto esattamente il contrario, nonostante il clima politico e sociale in cui la decisione è stata resa, getta una luce sinistra sulla futura diffusione delle armi nella società statunitense.
Al riguardo, se è vero che il Senato federale sembra aver finalmente mutato atteggiamento, essendosi immediatamente mosso, con la presentazione di un progetto di legge bipartisan per il controllo delle armi (tale intervento ha ricevuto il plauso anche da parte del Presidente Biden: cfr. Statement by President Biden on the Senate Passage of Bipartisan Gun Legislation, 23 giugno 2022), non può negarsi che l’iniziativa possa essere, al massimo, il primo passo di una problematica contrapposizione della Corte suprema, che rinnova l’interrogativo, mai del tutto risolto, circa chi tra la Corte suprema e il Congresso democraticamente eletto sia l’organo legittimato a dire l’ultima parola sull’interpretazione della Costituzione.
Intanto, però, la sentenza in esame è destinata a spiegare effetti non trascurabili, presumibilmente nel segno di confermare (anzi, addirittura di agevolare) la possibilità, in tutti gli Stati degli Usa, di andare in giro con una pistola. Un’arma «normale», come lo era già nel Far West, stando almeno alle immagini che la cinematografia ci ha proposto per lungo tempo.
Acrobati in bilico sul filo di una identità provvisoria: le risposte del diritto e della psicologia alle richieste di cambiamento di genere
di Cinzia Tobino[1] e Santo Di Nuovo[2]
Sommario: 1. Cambiare genere: norme giuridiche e procedure psicologiche - 2. La valutazione psicodiagnostica: quali criteri? - 3. Identità stabile o flessibile? - 4. Identità personale e identità di genere: come valutare? - 5. Per concludere (e continuare…).
1. Cambiare genere: norme giuridiche e procedure psicologiche
Quarant’anni fa la legge 164/1982 fissò le norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso, “a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali”. Il D. Lgs n. 150 del 2011 ha modificato sostanzialmente questa impostazione prevedendo che la persona che vive come irreversibile l’acquisizione del cambiamento di genere può cambiare il sesso anagrafico anche senza intervento chirurgico, da autorizzare solo se ritenuto necessario.
La sentenza della Corte Costituzionale n. 221 del 2015, confermando la non obbligatorietà dell’intervento chirurgico (come già aveva fatto la sentenza di Cassazione n. 15138/2015), ha riconosciuto il diritto all'identità di genere quale elemento costitutivo del diritto all'identità personale, rientrante a pieno titolo nell'ambito dei diritti fondamentali della persona garantiti dall'art. 2 della Costituzione e dall'art. 8 della Convenzione europea dei diritti umani. “Il Giudice può rilevare il completamento della transizione laddove la persona interessata abbia già esercitato in maniera definitiva il proprio diritto all’identità di genere (ad esempio, manifestando la propria condizione nella famiglia, nella rete degli affetti, nel luogo di lavoro, nelle formazioni di partecipazione politica e sociale), ancorché senza interventi farmacologici o chirurgici sui caratteri sessuali secondari”.
Affinché il diritto al cambiamento di identità sia garantito anche sul piano economico, dal 2020 le terapie ormonali possono essere a carico del SSN.
Riguardo la diagnosi psicologica, il percorso di valutazione si può intraprendere presso strutture pubbliche che al termine del percorso rilasciano una relazione da produrre al Tribunale. Le strutture del SSN utilizzano dei protocolli standard per i professionisti coinvolti: psichiatri, psicologi, endocrinologi. Queste produzioni documentali sono in genere ritenute sufficienti dai tribunali senza procedere ad ulteriori C.T.U.
Tanti cambiamenti sono sopravvenuti dopo la legge 164/1982 anche nelle procedure di valutazione diagnostiche, a seguito dei dibattiti sui mutamenti classificatori e nosografici[3]. Uno specifico protocollo per l’iter sanitario è stato proposto nel 2009 dall’Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere (ONIG)[4] Il protocollo recepisce e adatta le linee guida internazionali della World Professional Association for Transgender Health (WPATH), giunte adesso alla 7a edizione[5].
È prevista preliminarmente l’analisi della domanda e valutazione dell’eleggibilità per il percorso di cambiamento, vengono descritti i possibili iter di affermazione del genere, il periodo di follow-up o valutazione a distanza. In generale, il protocollo prevede di “utilizzare nella propria pratica clinica un’ottica de-patologizzante, ovverosia un’offerta di presa in carico rispettosa, consapevole e supportiva delle identità e delle esperienze di vita delle persone transgender e “gender nonconforming”.
Va tenuto conto anche della necessità di valutare le differenze tra chi persegue il cambiamento di identità di genere ma senza arrivare a chiedere modificazioni biologiche, e il transessuale che invece vuole un cambiamento esteso definitivamente al fisico e all’identità sociale, e dunque accede alle procedure endocrinologiche e/o chirurgiche oltre a chiedere la riassegnazione del genere anche sul piano anagrafico.
2. La valutazione psicodiagnostica: quali criteri?
La valutazione psicodiagnostica richiesta per l’accesso agli interventi di modificazione biologica ha rivelato un ambito clinico peculiare in cui convergono problematiche di rilievo non solo psicologico. L’incongruenza di genere[6] si pone infatti al confine tra il disagio e la rivendicazione, in un’area dai confini sfumati che attraversa clinica, diritto, cultura, etica.
Il clinico cui arriva la richiesta di valutazione psicologica della persona con incongruenza di genere si trova ad operare su un terreno sdrucciolevole, in cui non sono chiari i criteri cui riferirsi e neppure la direzionale verso cui eventualmente indirizzarli: se infatti una diagnosi di ‘disforia’ permette l’accesso al percorso di transizione, un ‘eccesso di disforia’ potrebbe porre rischi di incompatibilità con la terapia ormonale oppure con la rettifica chirurgica permanente.
C’è una ambiguità originaria nella domanda stessa di valutazione, cioè nell’obiettivo da perseguire: qual è il criterio di inclusione, quale “chiave di accesso” permette l’inclusione nel percorso di transizione? Il disagio, o l’assenza di disagio? O un punto medio in cui la sofferenza per un’identità di genere in cui non ci si riconosce non compromette l’adattamento, non interferisce su un generale equilibrio emotivo?
Il quesito iniziale dunque riguarda l’obiettivo della valutazione psicologica delle persone che desiderano e decidono di intraprendere un percorso di “affermazione dell’identità di genere”.
Cosa valutare? Diverse le opzioni praticabili, ciascuna delle quali ne richiede un’altra di ordine superiore:
1. Opportunità/ necessità dell’intervento.
2. Capacità di auto discernimento e di autovalutazione, capacità di assunzione di responsabilità nel richiedente.
3. Individuazione dell’incongruenza di genere come categoria di disagio distinta da altre categorie diagnostiche e/o condizioni di disagio legate a problematiche di identità tout court, quali la diffusione dell’identità o identità non integrata, o l’identità ‘liquida’ nella sua accezione disadattiva, che potrebbe essere prognostica di disturbi depressivi o addirittura psicotici dopo il cambiamento definitivo[7].
Le cose si complicano ulteriormente: occorre scorporare l’identità di genere dal costrutto sovraordinato di identità, e ripensare l’identità di modo che lo squilibrio, la transizione e il cambiamento possano essere assimilati e gestiti senza dover chiamare in causa un ‘disturbo’ dell’identità.
3. Identità stabile o flessibile?
Secondo Bauman[8] «il “moderno problema dell’identità” riguardava come costruire un’identità e mantenerla solida e stabile, il “problema postmoderno dell’identità” riguarda primariamente come evitare la solidificazione e lasciare aperte le opzioni».
Molti aspetti teorici però confliggono non poco con questa impostazione: ad esempio quelli che pongono a fondamento dell’identità un nucleo profondo, che la identificano come costrutto stabile.
Sin dai tempi più remoti si è apologizzato sulle identità variegate, mutevoli e cangianti, in ambiti diversi, basti pensare all’inflazionato (sotto il profilo delle citazioni sull’identità) Pirandello, che a suo modo, parlava pure di identità fluide.
Siamo (ancora) sicuri che l’identità di genere debba condividere le caratteristiche di stabilità, invariabilità, omogeneità che attribuiamo all’identità tout court? Regge ancora sul piano scientifico e culturale l’idea di un nucleo stabile dell’identità, quello che nella classica definizione di Erikson[9] si mantiene “stabile nonostante i cambiamenti inevitabili posti dalle condizioni storiche, sociali, culturali...”?
L’identità sfugge ad un incasellamento rigido perché si trasforma di continuo in relazione ai cambiamenti interni ed esterni, esistenziali e socioculturali. Questa condizione implica la necessità di una “ri-identificazione continua che genera attrazione e al tempo stesso dolore. Attrazione perché aperta a più possibilità. Dolore perché non potendo prevedere il futuro si è costretti a vivere nell’incertezza”[10].
“In questa prospettiva l’identità personale può essere vista come quella funzione, aspetto centrale della coscienza di sé, che consente la rappresentazione e la consapevolezza della specificità e continuità del proprio essere personale e, al tempo stesso, della sua diversità in rapporto agli altri e alla realtà”[11]. L’identità infatti sfugge a inquadramenti schematici e si trasforma di continuo, e ciò che la caratterizza non sembra avere mai contorni ben definiti, con le diffuse eccezioni come le personalità rigide, definite anche dogmatiche[12], e le deviazioni psicopatologiche.
Una parte dell’equivoco nasce dal tentativo di trovare un filo conduttore unitario nella narrazione esistenziale, dei tratti stabili, fondamenta cementate su cui poggiare la continuità della propria identità, e tra questi a fondamento, c’è (stato) il nucleo saldo, finora, dell’identità di genere, che - poiché si fonda su aspetti biologici e genetici - deve essere, per default, statico, pre-definito e immutabile così come nasce.
In realtà si è fatta coincidere base biologica e sovrastruttura sociale e culturale, e a lungo abbiamo dato per scontata la coincidenza dei due aspetti, senza il necessario fondamento di osservazione del cambiamento nella dimensione temporale[13]. L’esperienza clinica e gli avanzamenti degli studi di epigenetica hanno dimostrato che la base biologica viene modificata fin dalla nascita dagli agenti epigenetici[14]: l’identità si trasforma di continuo e persino il patrimonio biologico di partenza, evidentemente, sfugge al canone della immutabilità e a dei confini dati e ben definiti.
Su questa base le teorie sulla identità di genere e sul suo cambiamento hanno apportato in anni recenti innovazioni di grande rilievo.
Superate le concezioni del transessualismo come psicopatologia[15], esiste una generale convergenza nel considerare l’identità di genere un prodotto sociale e relazionale, quasi completamente dipendente dalle rappresentazioni sessuali prevalenti e dagli stereotipi psicosessuali culturalmente dominanti[16]. L’identità sessuale è un processo costruttivo in cui entrano in gioco le ‘dotazioni’ naturali, biologiche, ma il cui sviluppo è fortemente dipendente dalle categorie sociali, inclusi gli stereotipi, intesi nella loro accezione di facilitatori /organizzatori /semplificatori della realtà esterna.[17]
I cambiamenti culturali intervenuti nel nostro secolo negli atteggiamenti verso la sessualità e il raggiungimento di una consapevolezza sessuale depurata dai moralismi hanno permesso di ampliare l’esperienza di percezione sessuata di se stessi oltre i rigidi confini del binarismo di genere, permettendo quindi un’ espressione più aperta della propria identità sessuale.[18] La sessualità non più solo binaria, diventa fluida, l’identità sessuale può essere ricercata, costruita e rivendicata lungo un continuum in cui solo gli estremi sono sufficientemente definiti. La stabilità nel tempo non è un parametro necessariamente richiesto per lo sviluppo dell’identità, generale e di genere.
Definire l’identità di genere come consapevolezza soggettiva di appartenere a un genere, o a nessuno, permette di affermare che “Non possiamo provare o smentire un'identità di genere. L'identità di genere è una convinzione personale profondamente radicata, spiritualmente significativa, che non può essere né confermata né confutata da prove esterne e dati biologici.”[19]
Riecheggiando l’identità fluida baumaniana, si parla “di un genere, non più forte, coeso e durevole nel tempo, ma poroso, fluido, frammentato, nomade”[20].
4. Identità personale e identità di genere: come valutare?
La domanda di fondo diventa: ripensare l’identità di genere o ripensare l’identità in generale? L’identità va ridefinita come un insieme inscindibile di “idem” (essere uguali) e “autòs”, fondamento invece della autonomia di momenti e contesti diversi e dell’autenticità della persona in questi contesti[21]. Va intesa come processo di costruzione in cui i cambiamenti progressivi tendono a rinforzare una narrazione, di modo che sia almeno soggettivamente coerente, cosi come la nave di Teseo di cui parla Plutarco[22], che inaugura la querelle tra discontinuità e stabilità identitaria, mantenuta nel tempo solida ed efficiente pur cambiandone progressivamente tutte le parti.
Queste considerazioni teoriche hanno una ricaduta non indifferente nella pratica clinica e rendono estremamente complessa la valutazione psicologica richiesta dagli utenti e dagli altri specialisti che accolgono persone transgender (o aspiranti tali) all’inizio del loro percorso di cambiamento. La valutazione clinica deve inoltre allinearsi con il modello procedurale definito in ambito legislativo, che pur poggiando sulla piattaforma scientifica delle conoscenze sull’argomento, non può riflettere e contenere le diverse prospettive epistemologiche e metodologiche ma necessariamente privilegiarne una, integrandola (conformandola) con i principi giuridici a fondamento della legislazione sulla salute.
Il quesito sul piano tecnico diventa: quale modello è più utile per la definizione dei percorsi di accesso ai trattamenti di ri-affermazione di genere?
Due sono le principali opzioni praticabili: il modello del “gatekeeping” e quello che viene definito del “consenso informato”.
Il modello del gatekeeping, cioè il ‘filtraggio’ attuato da esperti che prendono decisioni, nasce con lo scopo dichiarato di permettere all’utente un tempo adeguato per raggiungere una piena consapevolezza della propria scelta, limitando o frenando o dilazionando le scelte impulsive, e gli ‘errori’ di valutazione. È quindi un professionista della salute (psichica) chiamato a decidere sull’opportunità, i tempi e i modi di accesso al trattamento.
Si aprono pertanto le controversie e perplessità delineate precedentemente:
- L’utente è considerato potenzialmente incapace di decidere, ed è il clinico che deve pronunciarsi su questo;
- L’utente per candidarsi, deve avere: disforia, disadattamento, sofferenza (elevata? o anche solo media? come si misura e come si quantifica e a quale costrutto psicologico fare riferimento?);
- Come stabilire il cut-off per il disagio/sofferenza/disadattamento, considerando che ci sia un punto nel continuum normalità-patologia che fa scattare la soglia per l’accesso o la negazione ai trattamenti di affermazione di genere?
- Quali competenze deve avere il ‘guardiano’ del gate da superare, quali ragionevoli certezze e quale habitus mentale relativo all’argomento sono indispensabili o auspicabili per colui/colei che valuta il possesso dei requisiti, codifica il disagio, legittima la sofferenza del richiedente come sufficiente ma non eccessiva al fronteggiamento del percorso?
Il modello del gate-keeping, di derivazione medico psichiatrica, è quello attualmente prevalente e l’unico che consenta che il percorso di adeguamento dei caratteri sessuali primari e secondari sia a carico del Servizio Sanitario Nazionale. Una scelta obbligata dunque, ma che andrebbe ripensata nel metodo e nel merito.
Nel modello definito del “consenso informato” il problema dei criteri di accesso viene bypassato: non è richiesta una valutazione o un cut-off di disagio per accedere al percorso di transizione.
Il ruolo degli operatori sanitari, dello psicologo in particolare, diventa prevalentemente educativo-consulenziale, deve cioè veicolare informazioni oggettive sulle procedure, sui tempi, sugli aspetti sanitari, sulle conseguenze, compresi i rischi per la salute, fisica e psichica, e le prevedibili difficoltà di adattamento.
L’utente non deve esibire una sofferenza (disforia) che non prova, come rilevato nelle persone transgender, che spesso forniscono narrazioni ‘contaminate’ delle loro esperienze di vita per aderire agli standard richiesti dai modelli dipendenti da criteri diagnostici; né, al contrario, millantare pedigree psicologici senza macchia per non rischiare di essere considerati inadeguati al percorso di affermazione di genere.
A questo proposito va citato uno studio sul vissuto delle persone che accedono alle “Gender Identity Clinics” in Scozia[23], dove vige un modello simile a quello proposto dal protocollo in uso in Italia come dagli altri basati sul gatekeeping. Lo studio ha evidenziato che il 62% dei partecipanti si è sentito stressato e preoccupato per la propria salute mentale durante il periodo di frequentazione della clinica, ma che nella metà dei casi non ha osato parlarne per paura di diminuire le proprie possibilità di accesso ai trattamenti.
In un contesto finalmente svincolato da questi ‘obblighi’ prestazionali, potrebbe più facilmente crearsi un clima di confronto e collaborazione, che permetterebbe alle persone transgender di esplorare e valutare la propria scelta, verificare la consistenza delle proprie aspettative di benessere, comprendere la complessità del cambiamento che si accingono ad affrontare, attivare un reale esame di realtà sulle proprie risorse per far fronte alle difficoltà.
Nel modello del consenso informato molte delle criticità individuate nel modello precedente e altri aspetti negativi potrebbero essere superati:
- L’utente si riappropria della libertà di autodeterminazione e di scelta, seppure con il supporto di ‘esperti’ del settore; la psicoterapia è sempre considerata opzionale e mai prerequisito all’accesso alla terapia ormonale;
- Il percorso di affermazione di genere viene sdoganato dalla sofferenza, dal malessere, dalla ‘comprovata’ compromissione dell’adattamento; non è necessaria per l’accesso una condizione di ‘disagio clinicamente significativo’, essendo sufficiente il riconoscimento della “discrepanza tra l’oggettività di una realtà corporea e il vissuto esperienziale del corpo“[24];
- La procedura viene de-patologicizzata, per cui non è più richiesto uno specificatore diagnostico, con auspicabile riduzione della stigmatizzazione, degli atteggiamenti discriminatori, e nel tempo, delle problematiche conseguenti al “Minority Stress”, cioè ai livelli elevati di stress frequenti nei i gruppi minoritari vittime di stigma.
Il modello del consenso informato sembrerebbe dunque permettere il superamento delle principali criticità e controversie relative all’inquadramento diagnostico e all’ambiguità dei criteri di accesso al percorso di cambiamento: il ruolo dell’operatore sanitario in questo contesto consiste ‘solo’ – in accezione non puramente riduttiva, ma di specificazione - nel valutare la capacità cognitiva di intraprendere una decisione informata in merito all’assistenza sanitaria richiesta.
Si aprono però, come conseguenza dell’adozione di questo approccio, criticità ugualmente complicate da maneggiare e risolvere:
- Come debba intendersi la ‘capacità cognitiva’, costrutto elasticamente estensibile con un range che va da una minimale capacità di intendere e di volere fino a una ipotetica e iperarticolata ‘piena idoneità psicologica’;
- Come gestire, in un contesto di liberalizzazione dell’accesso, una conclamata inadeguatezza dei processi decisionali e/o di analisi della realtà;
- Come garantire la gratuità del percorso sanitario in un contesto svincolato dalla ‘necessità’ di un intervento medico, necessità che viene legittimata dall’esistenza di una diagnosi o che viene avviata da una diagnosi (in questo caso non necessaria).
La lista potrebbe allungarsi ancora riflettendo sugli aspetti assicurativi, legali, etici: il cambio di prospettiva dirimerebbe alcune problematiche e ne solleverebbe altre[25].
5. Per concludere (e continuare…)
Questa veloce panoramica sulle difficoltà e criticità della valutazione attualmente richiesta per l’accesso alle terapie ormonali di affermazione di genere ha lo scopo di evidenziare le domande cui bisogna rispondere per definire percorsi di tutela e garanzia agli attori di questa complessa realtà.
Una strada ipotizzabile sarebbe sperimentare procedure di “consenso informato” che in questo caso dovrebbe riguardare non certo una modulistica burocratica da sottoscrivere, ma un percorso mirato da svolgere congiuntamente fra utente e psicologo. Non solo valutazione diagnostica dell’assetto di personalità (che pure va fatta, e in modo approfondito e tecnicamente valido), ma analisi dei percorsi già avvenuti nell’arco di vita trascorso e di quelli che il cambiamento di genere intende progettare per il futuro. Come di recente è stato ribadito[26], l'affermazione centrale si basa su una dichiarazione coerente dell'esperienza soggettiva di individualità della persona transgender, inquadrando la domanda di cambiamento di genere all’interno del più ampio e complesso problema dei cambiamenti di identità.
Vi è inoltre l’esigenza di trovare modalità condivise e non ‘coatte’ di supporto specialistico e continuativo dopo che, al termine della procedura, il cambiamento può essere sancito sul piano biologico e giuridico.
L’esperienza e le conoscenze accumulate dall’applicazione delle norme, con le aporie che ancora permangono[27], e dall’adozione delle attuali linee guida che disciplinano il transgenderismo, sono sufficienti a fare ritenere che sia per l’aspetto giuridico che per quello psicologico è tempo di riflessioni e di ricerca di soluzioni per eventuali revisioni. A tal fine sarebbe auspicabile una Consensus Conference in cui medici, psicologi, sociologi, giuristi, esperti di etica e di diritti umani, si confrontino sulle criticità e controversie, alla ricerca di soluzioni che permettano agli attuali “acrobati” – sia i transgender e sia i clinici che si confrontano con loro - di passare dall’attuale incerto equilibrismo ad equilibri più solidi e scientificamente condivisi.
[1] Dirigente psicologa e psicoterapeuta, ASP 3 Catania.
[2] Professore emerito di Psicologia, Università di Catana e Presidente della Associazione Italiana di Psicologia.
[3] Bottone M., Valerio P., Vitelli R. L'enigma del transessualismo: riflessioni cliniche e teoriche. Franco Angeli, Milano 2004; Petruccelli F., Simonelli C., Grassotti S., Tripodi R. Identità di genere. Consulenza tecnica per la riattribuzione del sesso, F. Angeli, Milano, 2016. Una rassegna della letteratura internazionale è contenuta in: Bevan T.E. The psychobiology of transsexualism and transgenderism: a new view based on scientific evidence. Santa Barbara, California 2015. Più di recente: Griffin L., Clyde K., Byng R., Bewley S. Sex, gender and gender identity: a re-evaluation of the evidence. BJ Psych Bulletin, 2021, 45(5): 291-299.
La definizione di transgender come “condizione in cui l’identità, l’espressione o il comportamento di genere sono diversi dal genere assegnato alla nascita” è tratta da: Joseph A., Cliffe C., Hillyard M., & Majeed A. Gender identity and the management of the transgender patient: a guide for non-specialists. Journal of the Royal Society of Medicine, 2017, 110(4), 144–152.
Recentemente, si usa il termine non-binary per definire le persone che non sentono di avere un’identità di genere (a-gender), o quelle la cui identità di genere è fluttuante nel tempo, cioè sentono di essere uomo o donna in momenti diversi, definite gender-fluid. Negli Stati Uniti circa il 35% degli individui transgender si identificano allo stesso tempo come non-binary (The Report of the 2015 U.S. Transgender Survey, National Center for Transgender Equality, http://hdl.handle.net/20.500.11990/1299).
[4] Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere (ONIG). Standard sui percorsi di affermazione di genere nell’ambito della presa in carico delle persone transgender e gender nonconforming (TGNC), 2009: www.onig.it/node/19.
[5] The World Professional Association for Transgender Health (WPATH). Standards of Care per la Salute di Persone Transessuali, Transgender e di Genere Non-Conforme, 7a edizione, 2011, tr. it. https://www.wpath.org/media/cms/Documents/SOC%20v7/SOC%20V7_Italian.pdf
Un aspetto specifico di questi “standards of care” riguarda le richieste di adolescenti, ai fini di attuare cambiamenti che siano completamente reversibili.
Sul tema si veda anche: Coleman E., Bockting W., & Botzer M. Standards of Care for the Health of Transsexual, Transgender, and Gender-Nonconforming People, Version 7. International Journal of Transgenderism, 2011, 165-232.
Altre linee-guida recenti sono quelle della American Psychological Association: Guidelines for psychological practice with transgender and gender nonconforming people. The American Psychologist, 2015, 70, 832-864.
[6] Di “incongruenza di genere” parla la International Classification of Diseases 11 (ICD-11) mentre “disforia di genere” è la definizione del Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali (DSM-5) come «sofferenza che può accompagnare l’incongruenza tra il genere esperito o espresso da un individuo e il genere assegnato» (American Psychiatric Association, DSM-5, Washington 2013, p. 528). Queste definizioni distinguono l’incongruenza di genere dal travestitismo (cross-dressing) che continua a rientrare fra le parafilie.
Va rilevato che l’incongruenza di genere si può manifestare fin dall’infanzia, ma spesso viene definita già prima della pubertà (Coleman e al., op. cit.).
[7] Numerosi studi hanno indagato i potenziali effetti patologici successivi al cambiamento di genere. Tra i più recenti: Almazan A. N., Keuroghlian A. S. Association between gender-affirming surgeries and mental health outcomes. JAMA Surgery, 2021, 156, 611–618; Ardebili M. E., Janani L., Khazaei Z., Moradi Y., Baradaran H. R. (2020). Quality of life in people with transsexuality after surgery: a systematic review and meta-analysis. Health and Quality of Life Outcomes, 18, 1-11.
[8] Bauman Z. Life in Fragments, tr. it. Vita liquida, Roma-Bari, Laterza, 2006.
[9] Erikson E. The Life Cycle Completed, tr. it. I cicli della vita, continuità e mutamenti, Roma, Armando 1982.
[10] Bauman Z. Identity, tr. it. Intervista sull'identità, Roma-Bari, Laterza, 2003.
[11] Pinkus L., Senza radici? Identità e processi di trasformazione nell'era tecnologica, Borla, Roma 1998.
[12] Rokeach M., The open and closed mind: investigation into the nature of belief systems, New York, Basic Books, 1960
[13] Su questo tema è nota la posizione biologista, ben rappresentata da Swaab secondo cui l’orientamento sessuale è determinato durante lo sviluppo fetale dalle influenze ormonali geneticamente determinate, mentre sarebbero carenti le evidenze scientifiche dei fattori sociali postnatali: Swaab D.F. Sexual differentiation of the human brain: relevance for gender identity, transsexualism and sexual orientation. Gynecological Endocrinology, 2004, 19 (6): 301-312. L’orientamento radicalmente biologista è stato fortemente criticato dai successivi studi di epigenetica.
[14] Bewan, op. cit.; Cortes L.R., Cisternas C.D., Forger N.G. Does gender leave an epigenetic imprint on the brain? Frontiers in Neuroscience, 2019, 13:173; Ramirez K. e al. Epigenetics is implicated in the basis of gender incongruence: an epigenome-wide association analysis, Frontiers in Neuroscience, 2021, 15:701017.
[15] Per una rassegna storica: Galiani R. Un sesso invisibile: sul transessualismo in quanto questione. Napoli, Liguori 2005; Fernández Rodríguez M., Menéndez Granda M., Villaverde González, Gender incongruence is no longer a mental disorder, Journal of Mental Health & Clinical Psychology, 2018, 2(5): 6-8.
[16] Ruspini E. Le identità di genere. Roma, Carocci 2009.
[17] https://www.sinapsi.unina.it/identgener_bullismoomofobico
[18] Oswalt S.B., Evans S., Drott A. Beyond alphabet soup: helping college health professionals understand sexual fluidity, Journal of American College Health, 2016, 64: 502-508.
[19] Dahlen S. De-sexing the medical record? An examination of sex versus gender identity in the general medical council's trans healthcare ethical advice. The New Bioethics, 2020, 26: 38–52.
[20] Gelli B. Psicologia delle differenze di genere. Milano, F. Angeli 2009, p. 202.
[21] Di Maria F., Di Nuovo S. Identità e dogmatismo, Milano, F. Angeli 1988.
[22] Il paradosso della nave di Teseo, conservata come tale dagli Ateniesi anche se sostituita progressivamente in tutte le sue parti, è citato dal Plutarco (e ripreso poi da Hobbes): si può dire che sia ancora lo stesso oggetto? Per analogia, una persona rimane sé stessa se il suo corpo, o anche la personalità, cambia nel tempo?
[23] McNeil J., Bailey L., Ellis S., Morton J., Regan M., Trans mental health and emotional wellbeing study. The Scottish Transgender Alliance, 2012 https://www.gires.org.uk/wp-content/uploads/2014/08/trans_mh_study.pdf
[24] Heyer W. Paper genders. Il mito del cambiamento di sesso. Tr.it. SugarCo, Milano, 2009.
[25] Sarebbe interessante un approfondimento comparativo delle procedure uso in altri sistemi giuridici.
Ad esempio, in Francia nel 2016 sono state istituite due procedure diverse per il cambio del nome e per il cambio del genere. In Inghilterra in base al Gender Recognition Act del 2005 i cittadini britannici maggiorenni possono richiedere un Gender Recognition Certificate, che permette anche di contrarre matrimonio, ottenuto a seguito della valutazione di una commissione composta da medici, psicologi ed esperti legali, che accerta la presenza di disforia di genere e richiede la dichiarazione di aver vissuto in base al nuovo genere da almeno due anni e di volerlo mantenere il per il resto della vita.
Va rilevato che, secondo il rapporto Trans Rights Europe Map & Index del 2017 (https://tgeu.org/trans-rights-map-2017/), 36 paesi in Europa richiedono una diagnosi di salute mentale per accedere al cambiamento legale di genere, e 20 richiedono la sterilizzazione, sanzionata nel 2017 come violazione dei diritti umani dalla European Court of Human Rights.
Negli Stati Uniti le procedure chirurgiche sono prevalenti per la riassegnazione del sesso, ma le norme variano nei diversi Stati (per una mappa, v. https://www.lgbtmap.org/equality-maps). In alcuni Stati non è necessario aver subito interventi chirurgici per cambiare il sesso sui documenti.
[26] Dahlen S., 2020, cit., p. 38.
[27] Ferrari D. Diritto, orientamento sessuale e identità di genere. Lulu.com ed. 2016; Brunoni A. La rettificazione del sesso in Italia. Aporie legislative, tutela antidiscriminatoria e buone prassi. Key Editore, Milano 2019; Osella S. Reinforcing the binary and disciplining the subject: The constitutional right to gender recognition in the Italian case law. International Journal of Constitutional Law, 2022, 454-475.
L’illusione meritocratica. Merito e magistratura
di Riccardo Ionta
La meritocrazia, prima ancora di essere una promessa di giustizia difficile da mantenere, è una promessa di giustizia difficile da formulare. L’intenzione è quella di esplicitare, con questo scritto, una critica della meritocrazia e, in particolare, dell’ordinamento giudiziario quale organizzazione meritocratica. La critica riguarda le ingiustizie e le inefficienze della meritocrazia intesa sia come sistema compiutamente e perfettamente realizzato, sia come sistema sempre mancante. L’intervento – che assume come pretesto quel frangente ordinamentale costituito dal conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi – ha lo scopo di mettere in discussione l’assioma meritocratico nella prospettiva di una effettiva realizzazione della democrazia ordinamentale (e nella speranza di una regressione della democrazia curriculare).
Sommario: 1. Moderna distopia - 2. Meritocrazia e merito - 3. L’organizzazione ordinamentale e la meritocrazia come modalità di organizzazione - 4. L’ispirazione meritocratica dell’ordinamento giudiziario - 5. La cornice costituzionale della meritocrazia ordinamentale - 6. L’influenza organizzativa del merito - 7. Le regole meritocratiche per il conferimento degli incarichi di direzione - 8. Le criticità della meritocrazia - 9. Le criticità della meritocrazia ordinamentale. – 9.1. Insostenibilità amministrativa – 9.2. Insostenibilità normativa – 9.3. Fragilità costituzionali – 10. Non Conclusioni.
Your confusion, my illusion (Joy Division)
1. Moderna distopia
La meritocrazia inganna almeno due volte.
La prima volta perché suggerisce un’origine antica che, tuttavia, le manca. La seconda volta perché evoca l’immagine di un’utopia anche se nasce, al contrario, come distopia. È a Michael Young, grande intellettuale di pensiero e azione, che si attribuisce la paternità del termine usato, per la prima volta in modo sistematico, nel romanzo distopico The Rise of Meritocracy del 1958.
Il romanzo si presenta come un'analisi, scritta da uno storico, che ripercorre lo sviluppo della società britannica dal 1870 al 2033. In quel futuro, le ricchezze e il potere si guadagnano, non si ereditano, perché la nuova classe dirigente è finalmente selezionata sulla base della formula “Q.I. + sforzo = merito”. La democrazia, tuttavia, sfiorisce e cede gradualmente il passo al dominio dei meritevoli. La società si divide in due consapevoli classi sociali. Gli eminenti, per cui il successo è la giusta ricompensa per il loro merito, e gli inferiori, che sanno di aver fallito ogni possibilità loro data. I meritevoli si trasformano in oppressori. Gli immeritevoli in oppressi, sino alla rivolta. Perché l'apparente giustizia è difficile da sopportare, al pari dell’ingiustizia. E perché la meritocrazia, l’organizzazione meritocratica, prima ancora di essere una promessa di giustizia difficile da mantenere, è una promessa di giustizia difficile da formulare.
2. Meritocrazia e merito
Per meritocrazia si intende, in linea di massima, una visione politica – ovvero un sistema di organizzazione e funzionamento – in cui i poteri e le posizioni (e, di conseguenza, i benefici) sono attribuiti e allocati sulla base del merito (e non sulla base della appartenenza sociale o della posizione già ricoperta nel sistema stesso). In altri termini, sulla base di criteri acquisitivi e non ascrittivi.
Il merito tende a coincidere con la manifestazione del talento, con il compimento degli sforzi e con il raggiungimento dei risultati (“I.Q. + effort = merit”).
3. L’organizzazione ordinamentale e la meritocrazia come modalità di organizzazione
L’organizzazione cui si riferisce il presente scritto è quella dell’ordinamento giudiziario inteso, nel suo significato specifico, come l'insieme delle norme che regolano la costituzione e il funzionamento degli organi che esercitano la funzione giurisdizionale ordinaria.
L’organizzazione ordinamentale giudiziaria, in particolare, può intendersi come l’assetto di quei pubblici poteri indipendenti che sono i magistrati, singole espressioni del potere diffuso della magistratura ordinaria. L’organizzazione ordinamentale, in tal senso, si distingue dall’organizzazione dei servizi amministrativi della giustizia il cui funzionamento è attribuito dalla Costituzione al Ministro della Giustizia (art. 110).
La meritocrazia – quale modello per l’attribuzione di poteri e posizioni – è una delle modalità con cui si configura una organizzazione.
La meritocrazia è, in particolare, una delle principali modalità di organizzazione della magistratura ordinaria e assume, in questa, un particolare rilievo in ragione della natura diffusa del potere giurisdizionale e della specificità delle relazioni organizzative ordinamentali.
4. L’ispirazione meritocratica dell’ordinamento giudiziario
La meritocrazia trova strutturazione nell’organizzazione dell’ordinamento giudiziario secondo tre principali linee.
1. Il merito è il criterio di assetto delle modalità di accesso alle funzioni giudiziarie. In particolare, per l’ingresso in magistratura e per l’accesso nei ruoli strettamente giurisdizionali (il riferimento di maggior interesse è, attualmente, per i ruoli della Cassazione). L’ingresso in magistratura per concorso è l’unica prescrizione “meritocratica” dettata direttamente dalla Costituzione. Per la progressione nelle funzioni giurisdizionali la legislazione attualmente prevede un mix tra soglie di anzianità e merito (per la sola Cassazione).
2. Il merito è il principale criterio per la strutturazione dei procedimenti di conferma nelle funzioni giudiziarie. Il riferimento è alle valutazioni di professionalità – da cui dipende la progressione stipendiale e, parzialmente, di carriera – ed al relativo apparato organizzativo. Valutazioni che, è opportuno rammentare, non hanno una finalità premiale (che pur si vuole o tende ad attribuire) ma sono finalizzate a verificare la sussistenza e la permanenza di quel merito - ovvero la competenza a svolgere le funzioni giurisdizionali – che ha permesso al magistrato, prima, l’accesso in magistratura e, dopo, il conferimento delle funzioni.
3. Il merito è l’affermato (quantomeno affermato) criterio per la modellazione del procedimento di assegnazione e distribuzione degli incarichi aventi funzione o rilievo organizzativo (che sono molteplici nell’ordinamento giudiziario, dal C.S.M., alla S.S.M., sino all’interno dei singoli uffici: magistrati segretari; magrif e rid; formatori; ecc..) e, in particolare, degli incarichi direttivi o semi direttivi degli uffici giudiziari.
L’ordinamento giudiziario mira, pertanto, ad essere una organizzazione meritocratica, essendo ispirate al merito tre delle sue fondamentali espressioni (oggetto delle modifiche che, dal 2006 sino ad oggi, hanno riguardato le leggi sull’ordinamento giudiziario).
5. La cornice costituzionale della meritocrazia ordinamentale
Il principio meritocratico è costituzionalmente prescritto, nella forma del concorso, per l’ingresso in magistratura (art. 106 Cost.) e non rileva, ad esempio, nell’ambito delle regole di formazione del C.S.M. (art. 104 Cost.) e dei Consigli Giudiziari la cui composizione è l’esito dell’applicazione del principio democratico.
La meritocrazia non è costituzionalmente necessaria per il conferimento degli incarichi e la storia ordinamentale costituzionale ha conosciuto, nel passato, l’adozione di altri criteri e sistemi, su tutti l’anzianità (prima poco temperata). La Costituzione (art. 105), appare utile ricordare, attribuisce al C.S.M., secondo le norme dell'ordinamento giudiziario, il potere sulle “promozioni” dei magistrati.
La meritocrazia ordinamentale si muove sui principi costituzionali che informano la magistratura e, in particolare, su due principi fondamentali e fondati l’indipendenza – esterna e interna – della magistratura: quello per cui “I giudici sono soggetti soltanto alla legge” (art. 101) e quello per cui “I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni” (art. 107). La Costituzione, in altri termini, garantisce l’indipendenza del singolo magistrato assicurando l’assenza di gerarchizzazione e di verticisimi, pur nella necessaria diversificazione delle funzioni.
La legislazione sembra considerare la meritocrazia come la forma migliore per garantire l’equilibrio tra questi principi costituzionali e una direzione efficiente dell’organizzazione ordinamentale.
6. L’influenza organizzativa del merito
La meritocrazia, quale modalità di allocazione delle posizioni organizzative, ha una influenza sulla dinamica dell’organizzazione.
Sono due le principali direzioni di questa.
1. Lungo la prima direzione (Mill) la meritocrazia conforma le azioni, e la cultura organizzativo-ordinamentale, dei soggetti che si muovono nell’organizzazione – lungo i tempi che scandiscono la vita dell’organizzazione – e che mirano a guidarla. È il compimento di determinate azioni, considerate meritevoli, che determina il merito della persona. La meritocrazia impone così una gerarchia valoriale delle azioni e conforma il comportamento dei soggetti agenti, sia antecedente (quando magistrati aspiranti) che successivo all’ottenimento dell’incarico (quando classe dirigente), e quindi la dinamica effettiva dell’organizzazione e, di riflesso, della funzione giurisdizionale.
Nell’attuale sistema – in cui i direttivi e i semi-direttivi superano le mille unità, e gli aspiranti sono migliaia nel corso degli anni – costituiscono, ad esempio, indicatori di merito la conclusione e implementazione di “protocolli”, di “convenzioni” con gli enti pubblici, la specializzazione dei ruoli negli uffici, la predisposizione di “sportelli polifunzionali”; la predisposizione di rendicontazione attraverso i c.d. “bilanci sociali”, l’aver ricoperto ruoli di carattere organizzativo o l’aver ricevuto deleghe organizzative. Il discorso coinvolge anche le valutazioni di professionalità nel momento in cui è posta una connessione – normativizzata dalla c.d. “pagella” sulla capacità organizzative introdotta dalla riforma Cartabia – tra questa e il conferimento degli incarichi
2. Lungo la seconda direzione la strutturazione del sistema meritocratico richiede uno specifico apparato organizzativo destinato a governare il merito: maggiore è l’estensione della meritocrazia e, almeno tendenzialmente, maggiore è l’estensione organizzativa e procedimentale chiamata a valutarla e governarla.
Nell’attuale organizzazione la V Commissione del C.S.M. è specificatamente dedicata all’incombente dei conferimenti e delle conferme. La IV Commissione è dedicata alle valutazioni di professionalità. Tra i principali (e assorbenti) compiti dei Consigli Giudiziari vi è l’attività istruttoria e pareristica in relazione alle valutazioni di professionalità e al conferimento degli incarichi.
7. Le regole meritocratiche per il conferimento degli incarichi di direzione
Particolare rilievo, nel discorso sulla meritocrazia ordinamentale, assume il conferimento degli incarichi dirigenziali.
La legge, precisamente l’art. 12 del Decreto Legislativo 5 aprile 2006, n. 160, disciplina i requisiti per l’accesso alle funzioni direttive e semi direttive.
Il magistrato meritevole di aspirare all’incarico direttivo è colui che possiede due requisiti di merito (la nomenclatura legislativa “merito-attitudine” non appare precisa): 1) aver superato positivamente le valutazioni di professionalità (ovvero un’abilità), dimostrando di esser capace nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali; 2) il possesso della “attitudine direttiva” (ovvero di un talento). Quest’ultima, differenziata per dimensione dell’ufficio, è definita dall’art. 12 come la “capacità di organizzare, di programmare e di gestire l'attività e le risorse in rapporto al tipo, alla condizione strutturale dell'ufficio e alle relative dotazioni di mezzi e di personale”; come “propensione all'impiego di tecnologie avanzate”, come “capacità di valorizzare le attitudini dei magistrati e dei funzionari, nel rispetto delle individualità e delle autonomie istituzionali, di operare il controllo di gestione sull'andamento generale dell'ufficio, di ideare, programmare e realizzare, con tempestività, gli adattamenti organizzativi e gestionali e di dare piena e compiuta attuazione a quanto indicato nel progetto di organizzazione tabellare”.
La legge individua alcune delle fonti di conoscenza in base alle quali poter accertare il talento attitudinale – le valutazioni di professionalità, le “pregresse esperienze di direzione, di organizzazione, di collaborazione e di coordinamento investigativo nazionale, con particolare riguardo ai risultati conseguiti, i corsi di formazione in materia organizzativa e gestionale frequentati” – impostando comunque un sistema atipico ed aperto delle fonti.
La legge non disciplina il procedimento, rimesso alle regole disposte dal C.S.M. e lascia a quest’ultimo un ampio margine discrezionale nella specificazione dei criteri di conferimento degli incarichi (soluzione attualmente normativizzata dalla recente legge delega sull’o.g. e obbligata dalla Costituzione che riserva al C.S.M. la competenza sulle “promozioni”).
Il C.S.M. ha espresso la propria discrezionalità per mezzo della Circolare chiamata “t.u. della dirigenza”. Un testo che, accresciutosi nel tempo, attualmente conta oltre 90 articoli e una elefantiaca (e non sempre cristallina) modulistica che copre circa 180 pagine.
In termini sintetici, la Circolare individua il magistrato meritevole specificando gli elementi da valutare per poter affermare “l’attitudine direttiva”. Tanto avviene per mezzo dell’analitica esposizione di “indicatori generali” e di “indicatori specifici” tendenzialmente differenziati per dimensione dell’ufficio. Il numero di tali indicatori è elevato e molti di essi, talvolta sovrapponibili, sono generici ovvero difficilmente misurabili o documentabili (e rimessi, di fatto, alle autorelazioni o ai rapporti informativi). Tali indicatori sono oggetto di una “una valutazione integrata” (e non cumulativa) che confluisce in un giudizio “complessivo e unitario”. Il procedimento di conferimento prevede quindi una “valutazione analitica dei profili dei candidati mediante specifica disamina degli indicatori” e “comparativa degli aspiranti”, “effettuata al fine di preporre all'ufficio da ricoprire il candidato più idoneo per attitudini e merito, avuto riguardo alle esigenze funzionali da soddisfare ed, ove esistenti, a particolari profili ambientali”.
Il procedimento – che si conclude con un giudizio analitico e comparativo degli aspiranti – ha inizio con la pubblicazione del bando, prosegue con l’acquisizione della copiosa documentazione che l’aspirante deve produrre (tra cui spicca la c.d. autorelazione) e con l’acquisizione dei pareri indicati dalla Circolare (in particolare rapporto del capo dell’ufficio anticipato, di norma, dal rapporto del semi-direttivo). Continua con il parere attitudinale specifico rilasciato dal Consiglio giudiziario e si conclude con la deliberazione, prima, della V Commissione e successivamente del plenum del C.S.M. La recente legge delega sull’o.g. prevede l’audizione dei candidati e aumenta il numero dei pareri che accompagnano l’aspirante direttivo richiedendo altresì: il parere del dirigente amministrativo assegnato al l’ufficio giudiziario di provenienza dei candidati, il parere del consiglio dell’ordine degli avvocati competente per territorio, il parere dei magistrati assegnati all’ufficio giudiziario di provenienza dei candidati; una valutazione della Scuola Superiore della Magistratura.
8. Le criticità della meritocrazia
Recenti e risalenti studi – sia di cultura liberale, sia di cultura egualitaria – evidenziano le criticità proprie del sistema meritocratico.
Le criticità che, tradizionalmente, si affermano nel discorso pubblico sono riferite ai sistemi meritocratici “reali”. Si afferma che i sistemi meritocratici scambiano l’eguaglianza materiale con la mobilità sociale sulla base di una promessa che non mantengono: quella di offrire a tutti la possibilità di emergere e meritarsi poteri e posizioni ovvero l’eguaglianza delle condizioni di partenza. In sintesi, i sistemi sono solo astrattamente meritocratici poiché strutturati su una società che è sempre diseguale. Vi è una impossibilità, storicamente dimostrata, di realizzare sistemi effettivamente meritocratici: questi si sono rilevati una schermatura (“il carapace del merito”, dice Appiah), non soggetta a particolari analisi critiche, per la conservazione di vecchie, o comunque altre, diseguaglianze.
Le più recenti analisi (di matrice filosofico-giuridica e socio-politica) si soffermano, riprendendo una precedente tradizione di studi (i più risalenti sono di cultura liberale), sul sistema meritocratico “in astratto”, rilevando le criticità connaturate ad un sistema – perfetto e compiutamente realizzato – che ha mantenuto pienamente la promessa di garantire l’eguaglianza di partenza. Se ne evidenziano alcune di interesse.
1. Il sistema meritocratico – disegnato come uno strumento di uguaglianza poiché di mobilità sociale – è, al pari di altri sistemi, un meccanismo che favorisce le diseguaglianze, benché altre. Allocando i ruoli in capo ai “migliori” categorizza e divide i soggetti in meritevoli e, di conseguenza, in immeritevoli (“peggiori”). Ai primi sono riconosciuti i migliori benefici materiali e morali della società o del singolo sistema – è l’incentivo all’azione – non attribuibili agli immeritevoli.
2. Il sistema meritocratico, premiando solo le azioni riconosciute come meritocratiche, spinge verso il conformismo e nega la diversità e il pluralismo culturale e valoriale.
3. Il sistema meritocratico, raffigurato come uno strumento di coesione su cui tutti convengono e convergono, favorisce la divisione, valoriale e sociale, poiché attribuisce un differente valore morale ai “meritevoli-migliori” e agli “immeritevoli-peggiori”. Se per tutti c’è stata la possibilità di emergere, chi non risulta essere meritevole di potere e posizione, non ha mostrato di avere le qualità necessarie e ha mostrato la sua inadeguatezza o inferiorità. È Sandel ad evidenziare tale specifica capacità della meritocrazia, spiegando l’emergere dei populismi sulla base della frustrazione e marginalizzazione degli immeritevoli.
4. Le disuguaglianze della meritocrazia hanno conseguenze individuali, collettive e istituzionali: qualcuno evidenzia l’infelicità individuale del sistema competitivo e il conseguente regredire del discorso sulla effettiva libertà individuale (Markovits); qualcun altro (Sandel) evidenzia il ritrarsi, culturale e istituzionale, della giustizia distributiva di fronte alla cultura celebrativa e auto-celebrativa del migliore (la “tracotanza del merito”); qualcun altro ancora evidenzia l’effetto esponenziale dei poteri in una duplice tendenza: non verificare il merito già riconosciuto e attribuire ai meritevoli, in quanto migliori, sempre maggiori e ulteriori poteri, anche diversi da quelli legati alla sfera di competenza (è Sandel a suggerire l’endiadi meritocrazia-tecnocrazia); qualcun altro ancora evidenzia lo sbilanciamento dei sistemi verso la cultura dell’incentivazione a discapito della cultura basata sull’etica professionale (Sen).
5. Il sistema meritocratico è destinato all’eterogenesi dei fini in quanto la parità materiale di partenza, garantita dalla meritocrazia perfetta, termina in una intensa disparità e disuguaglianza materiale e valoriale (meritata nel senso letterale del termine) tra vincenti-migliori-meritevoli e perdenti-peggiori-immeritevoli. Appiah aggiunge che il sistema meritocratico perfetto deve fare i conti con la logica di conservazione dei meritevoli che tendono ad utilizzare i benefici di posizione per raggiungerne altre, per favorire i simili o i propri affetti.
6. La meritocrazia imita la logica del mercato affermandola all’interno di sistemi diversi che hanno logiche e valori diversi da quelli mercato.
9. Le criticità della meritocrazia ordinamentale
La meritocrazia ordinamentale, per quel che riguarda l’organizzazione e le procedure per gli incarichi direttivi, invera per molti versi le criticità generali della meritocrazia. Se ne specificano tre: l’insostenibilità amministrativa, quella normativa e la fragilità costituzionale.
9.1. L’insostenibilità amministrativa della meritocrazia
L’organizzazione ordinamentale non sembra in grado di reggere l’urto dell’assolutismo meritocratico. Al riguardo sono utili alcuni dati al fine di comprendere l’affanno amministrativo dell’organizzazione ordinamentale: sono oltre mille i direttivi e i semidirettivi e migliaia le domande e gli aspiranti; il tempo per la conclusione dei procedimenti per conferimento degli incarichi si avvicina in media all’anno (dal 2006 la media non è mai scesa al di sotto dei 300 giorni[1]), con punte anche di molto superiori (e la conseguenza che, per lungo tempo, ad assumere la guida dell’ufficio è il magistrato più anziano in servizio); ad aprile 2022 presso la V Commissione risultavano pendenti, come arretrato, 342 procedimenti di conferma[2] (ossia circa 1/3 dei dirigenti); il C.S.M 2104-2018 ha provveduto a 1.045 conferimenti di incarico; quello 2010-2014 ha conferito 647 incarichi, quello 2006-2010 ne ha conferiti 1.057[3].
Il sistema di conferimento e conferma degli incarichi direttivi soffre dal punto di vista procedimentale. L’accertamento di quel merito indicato nel t.u. della dirigenza appare assai difficile. È difficile per l’aspirante fornire una adeguata prova del merito. È difficile per il valutatore accertarlo effettivamente. L’aspirante è vittima di una insostenibilità amministrativa individuale poiché chiamato – in teoria – a documentare (per provare) un quadriennio direttivo o semidirettivo, o una carriera quantomeno ultraventennale, in termini di azioni e risultati raggiunti, senza che ciò sia effettivamente possibile (salvo avere un personale sherpa che segua la carriera e si incarichi del fardello) e senza che tale adempimento sia poi davvero preteso (i modelli di autorelazione allegati al t.u. sono la fase acuta della labirintite burocratica e si invita il lettore a leggerli e ad immaginare di riempirli). Il valutatore, in difficoltà documentale, si affida all’autorelazione – su pareri dirigenziali spesso appiattiti su questa, salvo superlativi di vario grado – e si abbandona alla ingannevole facilità del dato statistico e dell’aggettivazione (si invita sempre il lettore, al riguardo, ad una lettura dei modelli di parere allegati al t.u. della dirigenza ed una simulata compilazione). Ed è così che si giunge alla riforma Cartabia per cui l’aspirante dirigente dovrebbe necessitare di almeno 5 pareri solo per partecipare alla procedura di conferimento (del direttivo dell’ufficio, del C.O.A., del dirigente amministrativo, dei magistrati dell’ufficio oltre che una valutazione della S.S.M.).
Il sistema di conferimento e conferma degli incarichi direttivi-semidirettivi soffre dal punto di vista provvedimentale. Le motivazioni del C.S.M. in merito alle conferme si limitano a poche righe che prendono atto del positivo parere del Consiglio Giudiziario (quest’ultimo più utile, di fatto, per la richiesta di un successivo incarico che per la conferma) e dell’assenza di rilievi problematici. Le lunghe motivazioni del C.S.M. sui conferimenti di incarico, invece, sono delle intense narrazioni curriculari, arricchite dall’incasellamento degli indici, seguite dalle ragioni per cui il profilo degli altri aspiranti perdenti risulta “recessivo” (così si esprimono le motivazioni) rispetto a quello del candidato scelto, concluse – anche quando i profili sono per gran parte simili – con difficili giudizi che terminano con la perentoria affermazione per cui Tizio è “senza dubbio il magistrato più idoneo, per attitudini e merito, al conferimento dell’ufficio messo a concorso”.
9.2. L’insostenibilità normativa della meritocrazia
L’attuale organizzazione, nell’affannosa corsa verso l’obiettività, ha normato il merito in modo estensivo – moltiplicando disposizioni, fasi procedimentali e criteri – favorendo così, infine, la confusione e la rarefazione della valutazione meritocratica. Ciò ha determinato la decisività (effettiva e sotterranea) di criteri non meritocratici (e non oggetto di normazione); ha diffuso la sfiducia nelle scelte del C.S.M., oggetto di frequenti ricorsi giurisdizionali e di eclatanti annullamenti; ha posto le basi per il conflitto tra un C.S.M. che confonde la rarefazione delle valutazioni con l’insindacabilità delle proprie scelte discrezionali e una giustizia amministrativa che chiede al C.S.M. di adeguare le motivazioni alla presunta e difficile geometria degli indicatori; ha spinto il legislatore, nella notte in cui tutte le vacche sembrano nere, ad aumentare a dismisura i pareri e gli atti per trovare il merito. Il risultato finale è la riproposizione dei vecchi schemi sotto nuove, e illusorie, forme.
9.3. Le fragilità costituzionali della meritocrazia
Si assiste ad un’incrinatura di quella parità tra magistrati imposta dalla Costituzione – quando afferma che i giudici sono soggetti soltanto alla legge e che i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni – a presidio dell’indipendenza interna del singolo. E tanto in una duplice e convergente direzione.
1. La prima direzione. L’organizzazione meritocratica ha favorito la strutturazione di una carriera direttiva parallela – e talvolta concorrente – a quella giurisdizionale e la corsa verso il vertice. Carriera che inizia presto nell’attività di raggiungimento e raccolta dei molteplici indicatori, generali e speciali, di merito e che prosegue una volta ottenuto il primo incarico (tra i magistrati che nel periodo dal 2012 al 2021 hanno ricoperto funzioni direttive solo il 18% è “tornato” alle funzioni ordinarie[4]). Per converso ha determinato un senso di frustrazione in una parte sempre più ampia della magistratura – esclusa di fatto dalla corsa per gli incarichi o che, illusa dal merito, non lo vede emergere – che ha favorito le istanze di riforma, in parte accolte dal legislatore, che incidono sul soggetto decisore (il riferimento è al sorteggio del C.S.M. e alle norme elettorali per la “depoliticizzazione” dalle correnti) invece che sull’oggetto della decisione. Carriera assecondata – e frustrazione in parte compensata – dall’aumento smisurato dei posti dirigenziali: se l’art. 47 ter o.g. fissa (per gli uffici di primo grado) un rapporto di 1 a 10 tra semidirettivi e magistrati, il rapporto medio tra magistrati ordinari e direttivi/semidirettivi risulta essere del 4,04 nelle Corti di appello, del 7,76 nei Tribunali, del 4,62 nelle Procure Generali presso le Corti d’appello, del 6,39 nelle Procure della Repubblica[5].
2. La seconda direzione. La caratterizzazione meritocratica dell’ordinamento ha portato il legislatore, e in parte anche la stessa magistratura, ad incoraggiare la gerarchizzazione della magistratura assegnando alla sua componente “meritevole” sempre maggiori poteri e attribuzioni. Gli esempi sono molteplici e – senza scomodare il discorso sui poteri dei Procuratori o la normativa di dettaglio – è sufficiente richiamare la centralità del dirigente nell’esprimere i pareri per le valutazioni di professionalità o per il conferimento degli incarichi (e per le conferme), le tendenze alla gerarchizzazione della riforma Cartabia (così stigmatizzate anche dalla Commissione europea) e, ancor prima, i poteri attribuiti ai direttivi durante il periodo pandemico. Un complesso di maggiori poteri non adeguatamente affiancati da pari ed effettive responsabilità e, soprattutto, da un efficiente meccanismo di controllo-conferma del talento attitudinale. Nell’attuale consiliatura del C.S.M., il dato ad aprile 2022, portava un ritardo medio delle delibere di conferma pari 329 giorni (dalla scadenza del quadriennio da confermare)[6]; dal 2009 al 2022 le delibere di non conferma di incarichi direttivi/semidirettivi sono state l'1,3% del totale[7].
10. Non Conclusioni
Chiamato a scrivere della “Giustizia nei sistemi meritocratici”, Amartya Sen ha affermato che l’idea di meritocrazia ha molte virtù ma la chiarezza non è una di queste. E tanto perché il concetto di merito – nonostante l’inclinazione a vederlo in termini fissi e assoluti – è contingente e condizionato dal concetto di giustizia. Il merito dipende dalla società giusta, o dal sistema giusto, che si vuole realizzare e, in altri termini, da una scelta filosofica e politica.
Pierluigi Barrotta, filosofo, nella sua critica liberale alla meritocrazia afferma che “meritocrazia” è nozione assai confusa. Un “crampo mentale”, così la definisce, dovuto ad un uso improprio di un concetto per altri versi legittimo.
La “meritocrazia” tradisce nel concreto. Illude nell’astratto.
"È un buon senso nominare singole persone per i lavori in base ai loro meriti" ha scritto Young. Perché l'obiettivo non è quello di trasformare ogni montagna in una distesa di sale e non può esser nemmeno quello di rendere sempre più alte e lontane quelle montagne. È per questo che appare necessario mettere in discussione l’assolutismo della meritocrazia – il suo esser divenuto un indiscutibile assioma – la neutralità della meritocrazia, il funzionamento e gli esiti della meritocrazia. La sua estraneità alle riflessioni e alle discussioni. Questo scritto è una domanda senza risposta (“non domandarci la formula che mondi possa aprirti sì qualche storta sillaba e secca come un ramo”) ma crede che questa possa esser cercata in quella democrazia ordinamentale, non democrazia curriculare, che la Costituzione ha scelto per la magistratura.
[1] “Conferimento delle funzioni direttive e semidirettive consiliatura 2014-2018”, studio reperibile sul sito del C.S.M.
[2] Dato tratto dall’articolo su questa rivista di Elisabetta Chinaglia “Il punto sulla conferma degli incarichi direttivi e semidirettivi”: “Ad oggi (i dati sono del 6 aprile 2022) risultano pendenti in Quinta Commissione 342 pratiche inerenti procedure di conferma relativamente alle quali il quadriennio è già decorso, di cui 133 attinenti a incarichi direttivi (rispettivamente, con riferimento alla scadenza del quadriennio: 4 del 2019, 28 del 2020, 71 del 2021, 30 del 2022) e 209 relative ad incarichi semidirettivi (rispettivamente, con riferimento alla data di scadenza del quadriennio: 2 del 2015, 3 del 2017, 2 del 2018, 7 del 2019, 47 del 2020, 219 del 2021, 62 del 2022)”.
[3] “Conferimento delle funzioni direttive e semidirettive consiliatura 2014-2018”, studio reperibile sul sito del C.S.M.
[4] Spesso si giustifica il “non ritorno alla normalità” con la necessità di preservare l’esperienza direttiva acquisita (affermazione che tradisce l’idea per cui solo dirigendo si può mettere la propria esperienza in favore dell’ufficio). Tale percentuale include coloro che necessariamente sono tornati alle funzioni giurisdizionali per limiti di età. L’ordinamento prevede difatti che per poter concorrere per i posti direttivi e semidirettivi è necessario garantire almeno un quadriennio. Elisabetta Chinaglia, nell’articolo già citato: “Risulta che tra i magistrati che nel periodo dal 2012 al 2021 hanno ricoperto funzioni direttive, il 19% è passato ad altre funzioni direttive, il 3% ad altre funzioni semidirettive, il 3% a funzioni fuori ruolo ed il 57% è cessato dall’ordine giudiziario, mentre solo il 18% è tornato alle funzioni ordinarie; tra i magistrati che nel medesimo periodo hanno ricoperto funzioni semidirettive, il 18% è passato ad altre funzioni direttive, il 15% ad altre funzioni semidirettive, il 3% a funzioni fuori ruolo ed il 36% è cessato dall’ordine giudiziario, mentre solo il 28% è tornato a funzioni ordinarie”.
[5] Elisabetta Chinaglia, nell’articolo già citato.
[6] “Nella consiliatura 2014-2018 si sono avute 128 delibere su conferme di direttivi e 313 delibere su conferme di semidirettivi, con un ritardo medio, rispetto alla scadenza del quadriennio, di 151 giorni per i direttivi e di 171 giorni per i semidirettivi. Nell’attuale consiliatura, 2018-2022, vi sono state 136 delibere in tema di conferma di direttivi e 240 in tema di conferma di semidirettivi, ed il ritardo medio è divenuto di 329 giorni” così Elisabetta Chinaglia, nell’articolo già citato.
[7] “nel dettaglio, nell’arco di tale periodo, su 704 delibere in tema di conferma di direttivi, 549 sono state le conferme, 13 le non conferme e 142 le delibere di non luogo a provvedere (per trasferimento o pensionamento), mentre su 1155 delibere in tema di conferma di semidirettivi, 1027 sono state le conferme, 12 le non conferme e 116 le delibere di non luogo a provvedere” così Elisabetta Chinaglia, nell’articolo già citato.
Il D.L. 162/2022 e il nuovo 4-bis: un percorso a ostacoli per il condannato e per l’interprete di Fabio Gianfilippi
Sommario: 1. Le richieste della Corte Costituzionale. - 2. Il decreto - legge 162/2022. - 3. L’ampliamento dell’ostatività. - 4. Lo scardinamento del meccanismo dell’ostatività assoluta ed il suo alto prezzo. - 5. L’ampia istruttoria per consentire di esercitare correttamente la discrezionalità.- 6. Il 41-bis e l’ultimo periodo del nuovo 4-bis co. 2. - 7. L’apporto del pubblico ministero. - 8. Le modifiche in tema di lavoro all’esterno e permesso premio: il rischio di uno snaturamento degli istituti. - 9.Le novità in materia di liberazione condizionale. - 10. Le disposizioni transitorie, ultimo habitat della collaborazione impossibile e inesigibile.
1. Le richieste della Corte Costituzionale.
Il Governo ha dunque varato, tra i suoi primissimi atti, un decreto - legge (pubblicato nella G.U. del 31.10.2022), che contiene una modifica ampia e complessa dell’art. 4-bis dell’ordinamento penitenziario. Lo ha fatto nel termine di ulteriori sei mesi concesso al legislatore dalla Corte Costituzionale, dopo un precedente termine annuale, rimasto privo di riscontri. In effetti si tratta di una sostanziale riproposizione del disegno di legge licenziato dalla Camera dei Deputati il 31 marzo 2022, che non fu poi approvato dal Senato anche a causa del termine anticipato della legislatura.
Come noto, la Consulta, con l’ordinanza 97/2021, aveva spiegato, pur senza dichiararla, l’incostituzionalità del meccanismo ostativo contenuto nell’art. 4-bis co. 1 ord. penit., che collega la concedibilità di permessi premio, autorizzazione al lavoro all’esterno, misure alternative disciplinate nella legge penitenziaria e liberazione condizionale (attraverso il rimando contenuto nel d.l. 152/1991, poi convertito in L. 203/1991), per gli autori dei reati contenuti nell’elenco ivi leggibile, soltanto all’avvenuta collaborazione con la giustizia.
Era stata chiamata, a valle di importanti precedenti sentenze della Corte Europea dei diritti dell’Uomo e della stessa Corte Costituzionale, a pronunciarsi con riferimento alla situazione di un condannato alla pena dell’ergastolo per fatti di mafia, che si vedeva preclusa, in quanto non collaborante, una valutazione di merito circa la sua istanza di liberazione condizionale.
Temi ritenuti dalla Corte di così apicale importanza, a differenza di quanto avvenuto quando era stata chiamata a pronunciarsi da un condannato in una posizione analoga ma in materia di permesso premio, da meritare che fosse il Parlamento a dare organicità agli interventi da compiere, pur nel solco tracciato dalla Consulta. Doveva essere necessariamente superata la collaborazione con la giustizia come presunzione legale di recisione del vincolo con i gruppi criminali di riferimento, dovendo piuttosto darsi spazio a meccanismi che, senza dimenticare la centralità della collaborazione e la giusta premialità con cui è riguardata dall’ordinamento, tuttavia consentissero all’interessato di dimostrare altrimenti il superamento della propria pericolosità sociale, mediante allegazioni perspicue sulla insussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata e sull’assenza di pericolo di ripristinarne in futuro (requisiti già imposti con la sent. Corte Cost. 253/2019, ma appunto in relazione esclusivamente ai permessi premio).
Non mette conto, in questa sede, diffondersi sull’ampio dibattito suscitato in dottrina, e sugli arresti giurisprudenziali cui si è giunti negli anni di applicazione della disciplina dopo la sentenza del 2019 in materia di permessi premio, basta però dire che non era certo parso ai commentatori, né emergeva dai provvedimenti emessi, che si trattasse di requisiti semplici da soddisfare.
Da ultimo poi la stessa Corte Cost., con la sent. 20/2022, aveva ribadito la necessità di conservare un istituto, contenuto nell’art. 4-bis co. 1-bis ord. penit., ma nato proprio dalla sua giurisprudenza, e cioè la collaborazione impossibile o inesigibile (oppure irrilevante in certi casi individuati dalla normativa), che fotografa la condizione di chi pur volendo collaborare non possa farlo, poiché interamente già accertati i fatti di cui alla condanna che lo riguarda, o per via del ruolo marginale ricoperto nella vicenda. Per queste ipotesi, surrogatorie della collaborazione attiva con la giustizia, oggi già è previsto il superamento dell’ostatività, perché la mancata collaborazione non può considerarsi in termini negativi, ed è consentito l’accesso ai benefici, in presenza degli altri requisiti di legge ed a fronte di una valutazione di meritevolezza in concreto, quando sussista prova della recisione del vincolo associativo con il gruppo criminale organizzato.
La Consulta, nella sent. 20/2022, chiariva che, anche all’indomani della sent. 253/2019, restava necessario distinguere la posizione di chi non collabora perché non può (il collaboratore impossibile o inesigibile) da quella di chi non collabora perché non vuole (per ragioni anche di comprensibile timore, ma comunque esercitando la propria libertà di non collaborare).
A fronte di questo complesso quadro, dunque, il Parlamento non è riuscito a rispondere in tempo alle richieste della Consulta, che gli aveva domandato, entro il maggio 2022 e, dopo un ulteriore termine, entro l’8.11.2022, di elaborare una novella organica, che evitasse interventi chirurgici, come quelli che sarebbero derivati da una pronuncia della Corte Costituzionale, con il rischio di squilibri e vuoti in un settore così cruciale come quello del contrasto alla criminalità organizzata.
2. Il decreto - legge 162/2022.
Interviene ora il Governo, a pochi giorni, ormai, dall’8 novembre, utilizzando lo strumento del decreto - legge, con l’esplicito intento di anticipare la decisione, scontata nel merito, della Consulta. Colpisce il ricorso alla decretazione d’urgenza, posto che l’esigenza di una riforma sul tema era ben nota già a partire dalla sentenza CEDU Viola c. Italia del 2019, tanto che la ragione giustificatrice dello strumento finisce per apparire soltanto il mero ritardo del legislatore. Avrebbe forse destato qualche dubbio in meno, invece, la scelta di un decreto – legge che avesse fatto seguito alla decisione della Consulta, ove l’eventuale intervento del Giudice delle leggi si fosse rivelato produttivo di lacune o incongruenze di sistema che potessero in ipotesi minare la solidità dei meccanismi di contrasto alla criminalità organizzata, che sono alla base della disciplina dell’art. 4-bis ord. penit.
Ci si deve ora domandare, anzi, come la Corte Costituzionale intenderà procedere, avendo testualmente fatto riferimento, nell’ordinanza 97/2021, al compito di valutare, all’esito dell’intervento normativo, la disciplina risultante.
Come si diceva, il testo del decreto - legge riproduce quello licenziato dalla Camera dei Deputati a marzo scorso. Nel corso dei lavori parlamentari svoltisi già dal 2021 furono auditi numerosi esperti, si sono confrontate varie proposte di modifica, si è passati attraverso diversi testi, anche francamente lontani dagli orizzonti costituzionali che orientavano la giurisprudenza del Giudice delle leggi.
Il testo che ora possiamo leggere porta le tracce di questo travaglio e, a fianco di riformulazioni che hanno attenuato profili di perplessità significativa, rispetto ad alcune precedenti versioni, non mancano purtroppo tratti di criticità.
Ci viene consegnato un testo ipertrofico, che per altro incide su una disposizione normativa già di abnorme complessità e di difficile lettura. In alcuni passaggi si leggono formule che appaiono duplicare gli stessi concetti, con un approccio che inevitabilmente costringerà l’interprete a ricercarne le ragioni: quale differenza tra adempimento “delle obbligazioni civili” e “degli obblighi di riparazione pecuniaria”? oppure quale tra la nozione di “collegamento indiretto” e quello di “collegamento tramite terzi”?
In altri casi si ricalcano requisiti anche altrove utilizzati, ma con rafforzativi, che pongono analoghi interrogativi: quale differenza intercorre tra l’impossibilità di adempiere le obbligazioni civili, prevista dall’art. 179 ult. co. per la riabilitazione, e la “assoluta impossibilità” di adempiere di cui alla formulazione del nuovo 4-bis co. 1?
Nel drafting normativo, ancora, si ricorre in alcuni casi alla numerazione dei commi con “1-bis.1” e “1-bis.2”, acuendo la sensazione di trovarsi all’interno di un labirinto di dettagli e precisazioni che, lungi dall’offrire linee chiare di azione, moltiplica gli spigoli in cui il ragionamento rischia di incepparsi.
3. L’ampliamento dell’ostatività.
Nonostante non fossero mancate voci in dottrina che invitavano il legislatore a cogliere l’occasione offerta dalla necessità di rispondere alle indicazioni della Corte Costituzionale, per snellire il lungo elenco di reati compresi nel disposto dell’art. 4-bis co. 1, ed ormai all’evidenza non più conferenti agli obbiettivi originari della disposizione, il decreto - legge non si muove in questa direzione. Anzi, introduce un inciso nel predetto comma volto ad estenderne la portata. Si prevede infatti che anche reati comuni non inseriti nell’elenco vengano attratti nella fattispecie ostativa, laddove legati ai delitti di prima fascia da nesso teleologico riconosciuto dal giudice di cognizione o di esecuzione (commessi per eseguire od occultare uno dei reati di cui al medesimo primo periodo ovvero per conseguire o assicurare al condannato o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero l’impunità di detti reati).
Si tratta di una tecnica già adoperata, ad esempio, nella legislazione dell’emergenza da COVID19, quando la si leggeva, in una forma comunque diversa, nell’art. 30 del Dl Ristori. A differenza di quel caso, però, e per ragioni non immediatamente rintracciabili, la disposizione determina l’effetto attrattivo per i reati avvinti dal nesso teleologico (art. 12 co. 1 lett. c c.p.p.) ma non anche per quelli in cui sia riconosciuta la continuazione (art. 12 co. 1 lett. b). E’ vero che, almeno per i delitti commessi in continuazione a quelli di associazione a delinquere di stampo mafioso, è lo stesso disposto già vigente dell’art. 4 bis co. 1 a prevedere la loro ricomprensione nel perimetro dell’ostatività, ma resta escluso il resto dell’elenco.
Ad ogni modo, e nella consapevolezza che questa aggiunta amplia la portata della prima fascia del 4-bis, con le conseguenze ostative ivi leggibili, l’art. 3 del decreto - legge, contenente disposizioni transitorie, opportunamente chiarisce che la nuova formulazione non trova applicazione per chi ha commesso il reato prima dell’entrata in vigore della legge. Una soluzione conforme all’insegnamento della Consulta con la sent. 32/2020, circa il divieto di retroattività delle disposizioni (peggiorative) in materia di requisiti di accesso alle misure alternative, ma che va anche lodevolmente oltre poiché, come noto, in quella pronuncia permessi premio e autorizzazione al lavoro all’esterno non erano stati ricompresi tra quelle e dunque, in assenza della disposizione transitoria, per quei benefici si sarebbe subito applicata la disciplina ostativa.
4. Lo scardinamento del meccanismo dell’ostatività assoluta ed il suo alto prezzo.
Il cuore della novella, costituito dal superamento dell’ostatività assoluta anche per i condannati non collaboranti, è compreso nel nuovo art. 4-bis co. 1-bis, che viene sostanzialmente riscritto, e nel seguente co. 1-bis.1. Innanzitutto si coglie l’eliminazione dal testo degli istituti della collaborazione impossibile e inesigibile, che vengono recuperati, parzialmente, per come vedremo, attraverso la normativa transitoria.
Vengono poi differenziati due elenchi di reati, scelti tra quelli compresi all’interno della c.d. prima fascia. Il primo sottogruppo comprende i delitti di criminalità organizzata di stampo mafioso o commessi con finalità di terrorismo anche internazionale, o ancora di associazione a delinquere volta al traffico di sostanze stupefacenti, ma anche i reati già compresi nel 4-bis co. 1 in materia di immigrazione clandestina e commercio di tabacchi lavorati esteri, un coacervo dunque tutt’altro che omogeneo. Per gli autori di questi delitti si prevede che il condannato che non collabori con la giustizia potrà accedere ai benefici previsti nel co. 1 purché dimostri l’adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna o l’assoluta impossibilità di adempiere (si vedano i rilievi sub 2 su queste espressioni). Si tratta di un requisito severo e impegnativo, che sino ad oggi era connesso in questi termini soltanto al beneficio della liberazione condizionale o della riabilitazione, che intervengono al termine dei percorsi penitenziari. L’anticipazione al momento in cui, ad esempio, si richieda un permesso premio, appare così da un lato poco conferente alla natura del beneficio che si richiede e dall’altro decisamente prematura.
Il legislatore descrive poi il requisito fondamentale, già dettato dalla Consulta, ma che qui viene espresso in termini assai più dettagliati, ottenendo però un paradossale effetto di minor determinatezza. Si impone infatti che l’interessato alleghi all’istanza “elementi specifici, diversi ed ulteriori” rispetto alla regolare condotta, alla partecipazione al percorso rieducativo e alla dissociazione dall’organizzazione, grazie ai quali possa escludersi l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata “o con il contesto nel quale il reato è stato commesso”, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, “anche indiretti o tramite terzi”.
La formula adoperata si espone a perplessità, soprattutto perché, mentre è piuttosto chiaro cosa il legislatore ritenga insufficiente, omessa tuttavia una esplicita indicazione circa la necessità di quegli elementi, non è chiaramente detto cosa possa il condannato, magari dopo molti anni di detenzione, allegare a sostegno della sua istanza. Dovrà qui farsi uso dell’insegnamento della S.C. che, già con la sentenza 33743/2021, ha iniziato a fornire indicazioni importanti, che sembra possano essere ora adoperate anche per questo nuovo istituto, che replica quanto sostanzialmente richiesto dalla Corte Cost. con la sent. 253/2019.
E’ invece un’assoluta novità la comparsa sulla scena della nozione di “contesto nel quale il reato è stato commesso”, segnata da una genericità che soltanto la giurisprudenza di merito, e poi di legittimità, potrà tentare di colmare e che, per il momento, lascia davvero dubbiosi, a fronte di formule già molto ampie che impongono di rinvenire elementi idonei ad escludere l’attualità, ma anche il pericolo di ripristino, di collegamenti, persino indiretti, con i gruppi criminali di riferimento.
La disposizione indica che il giudice potrà pervenire ad una valutazione di insussistenza di tali rischi tenendo conto di circostanze personali e ambientali, ma anche delle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, della revisione critica della condotta criminosa e di ogni altra informazione possibile.
Si tratta di espressioni che opportunamente affidano alla discrezionalità prudente ed informata della magistratura di sorveglianza il vaglio di una serie di elementi individualizzanti, che consentiranno di tener conto del percorso di osservazione sviluppato in contesto penitenziario in favore del condannato. E’ ripreso anche il riferimento alle ragioni della mancata collaborazione, per come richiesto dalla stessa ordinanza Corte Cost. 97/2021, ma opportunamente in una formula che non obbliga a farle emergere, ma consente di apprezzarle quando ciò accada. Si tratta di un contemperamento significativo, poiché è evidente come i timori di subire ritorsioni, indicati dalla CEDU e dalla Consulta, come alcune delle possibili ragioni di una mancata collaborazione, spesso non possono essere detti, senza con ciò far scoprire ciò che si voleva, per paura, tenere nascosto.
Ultimo requisito richiesto per l’accesso ai benefici è che l’interessato abbia assunto iniziative in favore delle vittime, sia di tipo risarcitorio, sia nelle forme della giustizia riparativa. La formula usata richiama il giudice al dovere di “accertare” che ciò sia accaduto e dunque sembra che la sussistenza di questo requisito (l’assunzione di iniziative, non certo gli eventuali proficui risultati) costituisca una vera e propria condizione di ammissibilità dell’istanza. Si pensi alla soluzione differente, adottata nell’art. 4-bis co. 1-quinquies in cui la partecipazione a trattamento psicologico per i condannati per reati sessuali in danno di minori ed altri “è valutata” dalla magistratura di sorveglianza, dunque elemento tra altri che, nel merito, può deporre per la concessione.
Si tratta, dunque, di una serie così ampia di requisiti indispensabili per arrivare ad una pronuncia favorevole, anche per il più limitato dei benefici previsti, e per tutti allo stesso modo, che la strada per l’istante può ben rappresentarsi come un percorso a ostacoli, che non ha il pregio di una difficoltà crescente all’ampliarsi della richiesta, e che perciò corre il rischio di non incentivare quei progressi successivi che sono il proprio di una esecuzione penale che, come tante volte ha ribadito la Corte Costituzionale, ha il suo proprio nel dipanarsi in un tempo, spesso assai lungo.
Nel comma 1-bis.1 vengono inseriti i delitti residui della prima fascia: si tratta essenzialmente di quelli contro la p.a. che furono introdotti nell’art. 4-bis con la legge spazzacorrotti del 2019, ma anche dei reati di tratta, di violenza sessuale di gruppo ed ancora di sequestro di persona a scopo di estorsione. Per questi delitti il legislatore non ha optato, come invece suggerito dalla dottrina, per un declassamento alla seconda fascia, facendo venir meno un’ostatività che trae la sua ragion d’essere dalla necessità di indagare circa i collegamenti del condannato con i gruppi criminali, e che dunque mal si adatta a reati che sono normalmente al di fuori di quel contesto, o addirittura monosoggettivi. Neppure ha trovato spazio l’insegnamento della sent. Corte Cost. 253/2019 che già consentiva al giudice di valutare le istanze di permesso premio dagli stessi provenienti, senza indagare su collegamenti con la criminalità organizzata insussistenti in re ipsa. Si è invece deciso di distinguerli dal primo sottogruppo, prendendo atto che non vi è ragione di ricercarne i collegamenti con i gruppi criminali, ma mantenendo fermi tutti gli altri requisiti richiesti dal nuovo co. 1-bis per accedere ai benefici penitenziari. Si impongono dunque l’adempimento delle obbligazioni civili (o la dimostrazione dell’assoluta impossibilità) e le iniziative risarcitorie o di giustizia riparativa, e poi si prevede l’obbligo di allegazioni perspicue che consentano di escludere i collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, dell’interessato con “il contesto nel quale il reato è stato commesso”. Questa espressione, di cui già si è evidenziata la genericità, appare in questo caso specialmente difficile da decodificare e foriera del rischio che si richieda all’interessato uno sradicamento dalla propria vita anteatta, un approccio della cui valenza risocializzante non può che dubitarsi. Potrà valorizzarsi, ad esempio, per chi abbia commesso un reato in connessione con una certa attività lavorativa, l’abbandono di un certo incarico o ruolo, ma non sembra che possa invece ritenersi sussumibile in questa nozione anche lo sganciamento dall’ambito territoriale in cui ad esempio il reato è stato commesso. Si imporrebbe infatti, in quest’ultimo caso, al condannato una scelta che può rivelarsi drammatica, non solo per sé ma per il suo nucleo familiare.
5. L’ampia istruttoria per consentire di esercitare correttamente la discrezionalità.
Dettagliata e specifica è l’indicazione dell’istruttoria che l’autorità giudiziaria è chiamata a svolgere. Il decreto - legge prende spunto, all’evidenza, dalle prassi già formatesi in materia, nonché dagli strumenti, per alcuni versi analoghi, già introdotti ad esempio con il d.l. 28/2020 poi convertito in L. 70/2020, con riferimento a benefici penitenziari diversi.
Si prevede quindi un parere da richiedersi al pubblico ministero presso il giudice che ha emesso la sentenza di primo grado (eventualmente dunque più procure, ove le sentenze siano più d’una, e comunque, ma non è ben chiaro il perché, anche se in primo grado la persona sia in ipotesi risultata assolta, e non condannata) e, per i condannati per delitti compresi nel disposto dell’art. 51 co. 3-bis e 3-quater cod. proc. pen., della DDA e della DNA, una informativa della Direzione dell’istituto penitenziario, un approfondimento sulle condizioni patrimoniali, il tenore di vita e le attività lecite svolte dal nucleo familiare e “dalle persone ad esso collegate” (con ulteriore tuziorismo ampliativo), nonché su eventuali misure di prevenzione personali o patrimoniali a loro riferibili.
Realistica appare la previsione di un termine di sessanta giorni dalla richiesta per l’ottenimento delle risposte, eventualmente prorogabile in ragione della complessità dell’accertamento di ulteriori trenta giorni. In difetto l’autorità giudiziaria deve decidere comunque.
Circa le risposte pervenute deve darsi all’interessato la possibilità di fornire “idonei elementi di prova contraria”. Lo richiedeva già la sent. Corte Cost. 253/2019, ma in questa sede opportunamente si precisa una scansione procedimentale secondo la quale viene fornito un congruo termine alla parte per assolvere a tale onere. Si tratta di un appesantimento istruttorio, tuttavia decisamente giustificato per consentire alla parte di prendere contezza dei contenuti delle informative pervenute ed approntare repliche.
Il decreto - legge utilizza, infine, espressioni a dir poco solenni nel richiedere che la decisione indichi “specificamente le ragioni dell’accoglimento o del rigetto dell’istanza medesima, tenuto conto dei pareri acquisiti”, ma si tratta di rimettere nero su bianco ciò che in effetti costituisce il cuore del mestiere del giudice, segno non troppo velato di una qualche diffidenza rispetto ai contenuti normali delle pronunce della magistratura di sorveglianza. Volendo però cogliere costruttivamente il richiamo contenuto nelle espressioni riportate, le stesse imporranno una motivazione scevra da formule generalizzanti, prevedendo invece che il giudice si impegni in una lettura sempre critica delle note pervenute, sia quando deciderà per l’accoglimento, sia quando invece propenderà per il rigetto. Per come si diceva è qualcosa che la magistratura di sorveglianza fa da sempre, cercando ad esempio di sceverare le note i cui contenuti forniscano elementi concreti, ed attuali, in ordine ai collegamenti dell’interessato con i gruppi criminali, da quelle che si limitano a comunicare dati già tutti rinvenibili nelle sentenze di condanna, magari ormai molto datate.
Negli ultimi anni si è apprezzato un particolare impegno delle Procure nella cura delle note trasmesse alla magistratura di sorveglianza e non v’è dubbio che, sotto questo profilo, un onere importante è loro attribuito nel fornire elementi verificati e descritti in termini specifici, pertanto utilmente spendibili da parte del giudice, nel motivare i propri provvedimenti.
6. Il 41-bis e l’ultimo periodo del nuovo 4-bis co. 2.
Viene introdotta, con una formula un po’ tautologica, la previsione che i benefici indicati nell’art. 4 bis co. 1 non siano concedibili al detenuto o internato sottoposto al regime detentivo speciale di cui all’articolo 41-bis se non “dopo che il provvedimento applicativo di tale regime speciale sia stato revocato o non prorogato”. In sostanza sono inammissibili le richieste di beneficio che pervengano da detenuti sottoposti al regime differenziato in peius di cui all’art. 41-bis co. 2 ord. penit.
La soluzione normativa non appare esente da possibili critiche. Non v’è dubbio che, nel merito, sia logicamente assai più che improbabile che la magistratura di sorveglianza possa concedere un beneficio penitenziario ad un condannato sottoposto al regime speciale, e ciò perché quest’ultimo presuppone la sussistenza di collegamenti attuali della persona interessata con i gruppi criminali all’esterno, e dunque una pericolosità sociale qualificata ed attuale.
Dal punto di vista della ricostruzione degli istituti giuridici, però, resta il fatto che il regime differenziato è imposto mediante un atto amministrativo, il decreto del Ministro della Giustizia, e non anche mediante un provvedimento giurisdizionale. E’ ammesso un reclamo al Tribunale di sorveglianza di Roma, chiamato a vagliare la legittimità dei presupposti applicativi, ma si tratta di uno strumento eventuale, e la decisione interviene per altro anche ad una significativa distanza di tempo dall’emissione del decreto.
Il decreto - legge qui fa derivare una conseguenza dirimente in termini di qualità della pena detentiva da un provvedimento amministrativo, con una frizione forse non trascurabile con l’art. 13 co. 2 Cost.
La Corte Costituzionale, pronunciandosi all’indomani dell’introduzione dell’art. 41-bis co. 2 ord. penit., con la sent. 349/1993, aveva chiarito infatti che il decreto impositivo avrebbe potuto contenere limitazioni alle ordinarie regole di trattamento intramurario, purché funzionali agli scopi del regime, ma non avrebbe potuto, invece, incidere in alcun modo sulla determinazione della quantità e della qualità della pena.
E’ vero che l’ordinanza 97/2021 della Corte Costituzionale, in un passaggio, che ha soprattutto la funzione di rassicurare il lettore circa il fatto che i benefici di cui si parla non attingeranno persone dalla elevata pericolosità sociale, come i condannati in regime differenziato, afferma che è “impossibile” che gli stessi li ottengano. Tuttavia la formula adoperata dalla Consulta appare sapientemente scelta per evocare una decisione che, nel merito, non consente un accoglimento, ma che non è preclusa sotto il profilo dell’ammissibilità (una soluzione per altro anche di recente ribadita dalla S.C. sent. 42723/2021).
7. L’apporto del pubblico ministero.
Il nuovo co. 2-ter prevede che, quando il tribunale di sorveglianza deve decidere in ordine ai benefici di cui al co. 1 dell’art. 4-bis, ma solo se a richiederli sono condannati per delitti compresi nell’art. 51, co. 3-bis e 3-quater, le funzioni di pubblico ministero, ordinariamente svolte dal Procuratore Generale presso la Corte d’Appello, possano essere assunte dal pubblico ministero presso il capoluogo del distretto ove è stata pronunciata la sentenza di primo grado.
La previsione ha di certo il pregio di offrire al Tribunale di sorveglianza la possibilità di attingere un parere particolarmente e direttamente informato circa i fatti che hanno condotto alla condanna, anche se da un lato si è già rilevato come il collegamento con il PM del primo grado, non necessariamente significa: con il PM del grado in cui è stata definita la responsabilità della persona, e dall’altro è inevitabile che ci si riferisca ad un ufficio, e non certo alla persona che in una data epoca ha seguito le indagini, trattandosi spesso, in particolare se si ragiona di condannati alla pena dell’ergastolo o a lunga pena temporanea, di fatti processualmente accertati anche venti o più anni prima.
La previsione di tale presenza, solo eventuale, consentirà per altro alle Procure interessate, cui occorrerà dare notizia della fissazione dell’udienza, di valutare caso per caso se non sia sufficiente fornire pur dettagliate note informative oppure se si preferisca essere presenti all’udienza che il Tribunale di sorveglianza fisserà.
8. Le modifiche in tema di lavoro all’esterno e permesso premio: il rischio di uno snaturamento degli istituti.
Il lavoro all’esterno ed i permessi premio sono due strumenti essenziali nella costruzione dei percorsi risocializzanti delle persone condannate. Svolgono entrambi, ciascuno a proprio modo, un fondamentale ruolo, che la Corte Costituzionale a proposito dei permessi premio riassunse come “pedagogico-propulsivo”. Non sono misure alternative, ma aprono finestre sull’esterno e consentono di sperimentare la capacità di chi ne fruisca di rispettare le prescrizioni, anche semplici, che sono loro connaturate.
Con un confine che non è rimasto esente da critiche in dottrina, la sent. Corte Cost. 32/2020, escludeva tali strumenti dal novero di quelli che, comportando una vera e propria fuoriuscita dall’ordinaria vita detentiva, debbono essere considerati disciplinati da norme sostanziali, dunque non applicabili, se peggiorative, in modo retroattivo.
La competenza naturale per questo genere di misure è individuata nell’ordinamento penitenziario nel magistrato di sorveglianza, che approva l’apertura al lavoro all’esterno, quando autorizzata dal Direttore dell’istituto penitenziario, e che concede i permessi premio.
Il decreto - legge prevede, per una sottocategoria di condannati per reati ex art. 4-bis co. 1, ancora una volta diversa dalle altre via via elaborate, costituita dai soli responsabili di reati di mafia e di terrorismo, che la competenza passi al Tribunale di sorveglianza per l’approvazione del lavoro all’esterno e per la concessione dei permessi premio.
La scelta del legislatore d’urgenza ha certamente il pregio di porre in primo piano l’importanza che riveste l’apertura a queste misure, di fatto le prime che lasciano affacciare il condannato all’esterno. D’altra parte, però, per ragioni solo parzialmente sovrapponibili, entrambe hanno senso non tanto in sé, ma nello sviluppo che nel tempo i percorsi che si intraprendono lasciano intravedere.
Le rigide forme che si impongono al Tribunale di sorveglianza nel momento in cui decide per tutti i benefici di cui all’art. 4 bis co. 1 (per come deducibile anche dal nuovo co. 2-ter, che parla della presenza in udienza del pubblico ministero), ma che anche necessariamente si connnettono alla speciale importanza attribuita al contraddittorio con la difesa, nel ragionamento della Corte Costituzionale, imporranno scansioni temporali inevitabilmente dilatate ed è più che un rischio che non possano concretizzarsi veri percorsi di permessi premio che, in tanto hanno un significato, in quanto mantengano una cadenza regolare e forniscano dati aggiornati frequentemente sui progressi del reo.
Allo stesso modo c’è da attendersi che anche le variazioni al programma di lavoro all’esterno, normali, anche per profili di dettaglio della quotidianità, andranno allo stesso modo portati dinanzi al Tribunale collegiale riunito in udienza.
Il mutamento di rito in relazione a questi benefici, soltanto connesso alla tipologia di reato commesso, finisce per determinare un doppio binario processuale, sul quale è necessario senz’altro riflettere più lungamente. A fronte della maggior garanzia rappresentata dal Collegio, non v’è dubbio che, proprio per i condannati per i reati tra i più gravi che l’ordinamento conosca, la valutazione sulla concessione “perde” un grado di giudizio.
C’è da immaginare che, almeno per i condannati che possano già accedere a più ampie misure alternative, questo strumento, invece così importante per riempire di contenuti i giudizi di prognosi della sorveglianza, perda nettamente di appeal, e si impoverisca di significato, ridotto a mero episodio (ad es. un permesso premio l’anno).
Occorrerà inoltre che si presti attenzione anche in questi casi alla regola generale che impone la presenza nel collegio del Tribunale che si pronuncia, del magistrato di sorveglianza cui è affidata la giurisdizione sull’istituto di pena di appartenenza dell’istante (art. 70 co. 6 ord. penit.), poiché è appunto il percorso risocializzante a dover essere posto al centro dei ragionamenti dell’a.g.
Un risultato meno tranciante si sarebbe potuto ottenere se, ad esempio, si fosse confinata la sola prima valutazione in merito all’apertura al lavoro all’esterno o ai permessi premio alla competenza del Tribunale di sorveglianza, lasciando poi che fosse il magistrato di sorveglianza a seguire la progressione trattamentale del condannato, continuando ad operare quel lavoro prudente e certosino che sempre su questi benefici svolge. Non è per altro indicato neppure che il Tribunale di sorveglianza possa provvedere sui permessi premio successivi al primo in modo più spedito, omettendo almeno alcuni degli approfondimenti istruttori previsti per la prima concessione, rimettendo ogni volta in piedi una macchina istruttoria molto impegnativa, quando invece avrebbe potuto basarsi su oculate richieste di aggiornamento mirato, che sono appunto il proprio dell’ordinario lavoro del magistrato di sorveglianza.
9. Le novità in materia di liberazione condizionale.
La riforma della quale si prova a parlare, a primissima lettura, viene legata strettamente all’ergastolo ostativo anche se, per come si è visto, il suo raggio d’azione è decisamente più vasto. Ad ogni modo i casi che l’hanno originata nascono in quel contesto. Da ultimo si trattava proprio di liberazione condizionale, una misura divenuta, dopo la legge penitenziaria del ’75, sempre più appannaggio esclusivo dei condannati alla pena dell’ergastolo, essendo l’unica che, garantendo con ciò la compatibilità costituzionale della pena perpetua nel nostro ordinamento, consenta al condannato di essere sottoposto ad una valutazione di merito da parte dell’a.g. circa l’eventuale conclusione del percorso risocializzante intrapreso, in caso di esito positivo potendo ciò comportare la sospensione della pena per il tempo in cui gli viene imposta una libertà vigilata quinquennale.
Anche per questa misura, dunque, non disciplinata nell’ordinamento penitenziario, ma ancora nel codice penale, il decreto - legge prevede l’applicazione di tutte le novità individuate per la concessione dei benefici previsti nell’art. 4-bis co. 1 ord. penit., incidendo sulle disposizioni contenute nel d.l. 152/1991 poi conv. in L. 203/1991.
Viene tuttavia inasprito, per il solo condannato alla pena dell’ergastolo per delitti compresi nel disposto dell’art. 4-bis co. 1 ord. penit., il quantum di pena che consente l’accesso al beneficio, che passa da ventisei anni a trenta. Un incremento di rilievo, sol che si pensi a come fosse ormai risalente nel tempo il movimento inverso che, con la legge Gozzini, aveva sancito l’abbassamento di due anni da ventotto a ventisei per tutti i detenuti. Restano fuori dall’innalzamento i collaboratori e, grazie alla norma intertemporale di cui al successivo paragrafo, chi vanti impossibilità/inesigibilità della condotta collaborativa.
Si prevede inoltre che si allunghi sino a dieci anni il termine durante il quale, a concessione avvenuta, la pena resta solo sospesa, prima dell’estinzione. Da ciò dovrebbe derivare, ex art. 230 co. 2 cod. pen., che la libertà vigilata duri per tutto questo tempo. Si tratta di una scelta che dovrà tra l’altro confrontarsi anche, seppur al momento indirettamente, con una recente questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di sorveglianza di Firenze in relazione alla imposizione obbligatoria della libertà vigilata e alla sua durata fissa, quando in relazione alla liberazione condizionale (ord. Trib. Sorv. Firenze 15.02.2022).
La misura della libertà vigilata, infine, prevede in ogni caso un divieto di incontrare o mantenere contatti con soggetti condannati per delitti di cui all’art. 51 co. 3-bis e 3-quater o sottoposti a misura di prevenzione in casi tassativamente indicati: opzione che segue la richiesta della Corte Cost. ord. 97/2021, di diversificare gli effetti della concessione della liberazione condizionale per i condannati per delitti di criminalità organizzata.
La previsione di un quantum di pena più elevato per accedere alla liberazione condizionale, che operi retroattivamente, interpella circa la congruità all’insegnamento di cui alla sent. Corte Cost. 32/2020. Se da un lato è vero che, rispetto alla assoluta ostatività prevista per i condannati all’ergastolo per delitti di cui all’art. 4-bis co. 1 ord. penit., (ad eccezione dei collaboratori e di chi si veda riconosciuta l’impossibilità/inesigibilità della condotta collaborativa), l’attuale meccanismo, di speciale difficoltà all’accesso alla liberazione condizionale, è comunque un miglioramento, dall’altro la soluzione qui offerta appare particolarmente severa e critica, incidendo in termini certamente negativi proprio sul requisito basico, di immediata percettibilità per il condannato, della quantità di pena espianda per poter accedere ad una valutazione di merito.
Si sarebbe potuta allora approntare almeno una disposizione intertemporale che non peggiorasse la percezione intanto formatasi nei condannati all’ergastolo non collaboranti, che hanno sin qui raccolto l’inequivoco tenore del filone giurisprudenziale apertosi con la sent. CEDU Viola c. Italia.
10. Le disposizioni transitorie, ultimo habitat della collaborazione impossibile e inesigibile.
Nell’art. 3 del decreto - legge sono state, infine, dettate alcune disposizioni di diritto intertemporale, che appaiono rispettare, nel minimo indispensabile, le richieste della sent. Corte Cost. 32/2020.
Come già anticipato, in tal senso, non è innanzitutto applicabile retroattivamente l’ampliamento del numero di delitti compresi nel disposto dell’art. 4-bis co. 1 ord. penit., che deriva dall’introduzione della disposizione di cui al nuovo ultimo periodo del predetto comma.
Di particolare significato, poi, è la disposizione transitoria di cui al co. 2, che garantisce la persistenza nell’ordinamento degli istituti della collaborazione impossibile, inesigibile e irrilevante, soltanto in favore di condannati e internati che abbiano commesso i delitti di cui all’art. 4-bis co. 1 ord. penit. prima della data di entrata in vigore del decreto - legge. Nei loro confronti, per altro, ove venga accertata la condizione, continuano ad applicarsi i limiti di pena ordinari (26 anni per l’ergastolano), mentre la libertà vigilata dovrà comunque comprendere tra le prescrizioni anche il divieto di frequentare taluni soggetti, cui si è già fatto riferimento nel paragrafo precedente.
Non del tutto comprensibile è il disfavore mostrato dal legislatore d’urgenza circa il mantenimento nel sistema, e non soltanto transitoriamente, degli istituti della collaborazione impossibile e inesigibile che, come si è già accennato, sono ipotesi surrogatorie della collaborazione via via introdotte proprio sulla base di pronunce della Consulta, e in ordine alle quali di recente la stessa Corte Costituzionale aveva ribadito l’autonomia logica rispetto alla situazione di chi voglia esercitare la propria libertà di non collaborare (sent. 20/2022), poiché appunto sono diverse le posizioni dei non collaboranti per impossibilità e per scelta.
Il legislatore mostra di sapere, però, che sempre alla luce della sent. 32/2020 non può determinarsi questa scomparsa senza incorrere nel divieto di retroattività, ove ci si riferisca all’accesso a misure alternative alla detenzione. Di qui la necessità della disposizione transitoria, che infatti consente ancora di utilizzare i meccanismi della collaborazione impossibile e inesigibile ai condannati per fatti commessi prima dell’entrata in vigore del decreto – legge, ma solo quando ciò abbia la finalità di accedere alle misure alternative alla detenzione di cui al capo VI del titolo I della legge di ordinamento penitenziario e alla liberazione condizionale.
Restano dunque fuori da questo perimetro il lavoro all’esterno ed i permessi premio che, come abbiamo già visto, sono infatti fuori anche dal perimetro in cui il divieto di retroattività è salvaguardato dall’interpretativa della Consulta. L’effetto che si determina non è di poco momento. Di fatto chi oggi vanti posizioni di impossibilità o inesigibilità di collaborazione con la giustizia non potrà farle valere dinanzi alla magistratura di sorveglianza per ottenere un permesso premio, ma dovrà assoggettarsi al ben più corposo onere di allegazione pensato per i non collaboranti per scelta. Un significativo restringimento del pacchetto di opzioni sino ad oggi messo a disposizione di questa tipologia di condannati.
E’ dunque prevedibile che, salvo dubbi di costituzionalità, le istanze di permesso premio, già pendenti con richiesta incidentale di accertamento delle condotte collaborative impossibili o inesigibili, non supereranno il vaglio di ammissibilità, a meno che non vi siano elementi per consentire all’a.g. procedente una valutazione dei requisiti indicati ora nel nuovo co. 1-bis dell’art. 4-bis. In questo contesto forse potrà recuperarsi un significato all’impossibilità di collaborare come “ragione della mancata collaborazione” valutabile dall’a.g. Di certo non sarebbe però compatibile con il percorso giurisprudenziale che sta alle spalle dell’odierno intervento legislativo, che l’impossibilità o inesigibilità della collaborazione divenisse l’unica ragione di mancata collaborazione positivamente apprezzabile per accedere ai benefici, perché questo tradirebbe il senso complessivo dell’evoluzione normativa che, bene o male, recalcitranti o convinti, ha condotto a superare la definizione della collaborazione quale prova legale di recisione dei vincoli associativi.
Se invece i permessi premio, all’esito dell’avvenuto accertamento della condotta collaborativa impossibile o inesigibile, siano stati già intrapresi, può domandarsi come dovrà procedere il giudice competente.
Si tratta di una domanda che, d’altra parte, concerne anche i (non moltissimi) condannati che hanno ottenuto permessi premio con i requisiti richiesti dalla sent. Corte Cost. 253/2019.
In entrambi i casi, soccorrerà l’insegnamento della Consulta, non a caso ribadito proprio nella sent. 32/2020, a mente del quale è necessario che, in ossequio al principio di non regressione incolpevole del trattamento, i permessi possano proseguire in favore dei condannati che già prima dell’entrata in vigore della novità normativa abbiano raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio e cioè che ne abbiano fruito in termini positivi.
D’altra parte, però, ove dal decreto legge derivi una modifica della competenza (dal magistrato al Tribunale di sorveglianza, in correlazione con i delitti per i quali ciò è stato previsto), appare evidente che, pur fermo il principio di non regressione incolpevole, non sembra possa dirsi che lo stesso consenta una persistenza della vecchia competenza, ed occorrerà quindi che il magistrato di sorveglianza investito dell’istanza, oneri per la decisione il Tribunale di sorveglianza competente.
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