ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La qualificazione della responsabilità dello sciatore
di Raffaele Frasca
Sommario: 1. Premessa. - 2. Un poco di storia. - 3. La prospettiva dell’art. 2054 c.c. - 4. La prospettiva dell’art. 2050 c.c. - 5. La legge del 2003 - 6. La nuova legge del 2021.
1. Premessa
L’intento di queste note[1] è di ricercare la qualificazione della responsabilità dello sciatore alla luce di un recente intervento legislativo, quello di cui al d.lgs. n. 40 del 2021.
Con il riferimento alla responsabilità dello sciatore intendo alludere ai profili di responsabilità in cui incorre chi scia.
Se ci domandiamo come questi profili di responsabilità si possano verificare, possano emergere, è evidente che viene fatto di pensare in primo luogo all'ipotesi dello scontro fra sciatori, che ogni anno da quel che ho letto statisticamente è un’evenienza frequente sulle piste da sci
Però, ai fini del tema di cui intendo occuparmi viene in rilievo anche qualcos'altro perché: a) può accadere che un problema di responsabilità di uno sciatore possa sorgere e possa dare luogo a questioni in tema di responsabilità quanto si verifica una collisione con una struttura e questa struttura che è presente sulla pista viene danneggiata e si tratti, naturalmente, di una struttura che doveva e poteva legittimamente essere lì e non di una struttura che lì non doveva trovarsi; b) può accadere che uno scontro possa verificarsi tra uno sciatore, cioè tra chi sta sciando, e altri soggetti che non sono sciatori o non stiano sciando: penso all'ipotesi in cui chi scia venga coinvolto in un sinistro con persone che per esempio stanno prestando soccorso sulla pista da sci: questa non è un'ipotesi di scontro tra sciatori, coinvolge, infatti, persone che non sono sciatori; possiamo ancora pensare all'ipotesi in cui lo scontro riguardi lo sciatore e altre persone che nemmeno siano soccorritori e quindi non abbiano neppure nessuna relazione con la pista da sci, ma siano soggetti che sono entrati sia legittimamente sia illegittimamente sulla pista da sci (si pensi, sotto il primo aspetto, al caso in cui la pista contenga un attraversamento per i non sciatori); possiamo in fine pensare al caso di scontro fra uno sciatore in discesa e chi, avendo sciato in precedenza, stazioni sulla pista o in prossimità di essa (anche qui ed uno sciatore in discesa.
Ecco, quindi, che il ventaglio delle ipotesi in cui viene in considerazione la responsabilità sciistica, intesa come responsabilità dello sciatore, è più ampio dell'ipotesi di uno scontro fra sciatori.
Ricordo, peraltro, che occorre tenere presente che accanto alla figura dello sciatore, cioè di chi usa gli sci, vi sono le figure dei praticanti lo snowboard o il telemark e rilevo che l’àmbito della responsabilità – oramai, come vedremo –vede accomunate per scelta legislativa tali pratiche a quella dello sci.
2. Un poco di storia
Mi pare opportuno ricordare che in materia c’è sicuramente stata un’evoluzione legislativa.
Comincio, naturalmente, dal Codice Civile del 1942.
Nella situazione in cui, si era in sostanziale assenza di una legge speciale che regolasse l’attività sciatoria, la cornice entro la quale ci si doveva interrogare per individuare una normativa applicabile erano certamente gli articoli 2043 e seguenti. E così è stato per molti decenni. Si è passati, poi, oramai circa venti anni orsono ad una situazione nella quale una legge speciale, la n. 363 del 2003, ha dettato una serie di prescrizioni sulle regole di condotta da osservarsi dallo sciatore, pur senza procedere ad una qualificazione della responsabilità, che in qualche modo si preoccupasse o meglio rispondesse alla esigenza di inquadrarla nell'ambito del sistema del Codice Civile. Va ricordato che la legge del 2003, all’art. 18, comma 1, previde, altresì, che le regioni e i comuni potessero adottare ulteriori prescrizioni per garantire la sicurezza e il migliore utilizzo delle piste e degli impianti, così affidando loro una sorte di potere aggiuntivo di prescrizioni cautelari.
Recentissimamente e questa è l'ultima vicenda che riguarda la storia della responsabilità sciistica è sopravvenuta la citata nuova legge speciale, emanata sulla base di una delega risalente al 2019 (disposta con la l. n. 86 del 2019): è il già citato d.lgs. n. 40 del 2021[2], che è entrato in vigore per quando riguarda la disciplina della condotta dello sciatore e per molto altro dal 1° gennaio 2022, dopo un’iniziale fissazione al 2023[3].
3. La prospettiva dell’art. 2054 c.c.
Questa essendo la cornice legislativa evolutiva della nostra vicenda, ricordo brevemente che quando c'era soltanto come punto di riferimento il Codice Civile, vi sono stati innanzitutto tentativi di ricondurre la responsabilità sciistica alla norma dell'art. 2054 del codice civile, che com’è noto, disciplina la responsabilità nascente dalla circolazione di veicoli. Vi è stato un trend di giurisprudenza di merito che ha cercato di ricondurre alla norma la responsabilità sciistica - l'intera responsabilità dello sciatore - sul presupposto che gli sci potessero essere considerati un veicolo proprio nel senso supposto dall'art. 2054 e ci sono numerose pronunce di merito che hanno seguito questa logica[4].
Tuttavia, la Corte di Cassazione, quando la questione arrivò davanti ad Essa, si è rifiutò di accogliere questa soluzione: abbiamo infatti una prima decisione risalente al 1980 e altra successiva del 1987[5], le quali seguendo una certa ricostruzione dottrinale si attestarono sulla soluzione negativa e quindi hanno rifiutato di collocare la responsabilità sciistica nel 2054, adducendo che la nozione del veicolo cui la norma fa riferimento, o meglio la circolazione dei veicoli di cui fa riferimento all'art. 2054, era strettamente collegata alla circolazione regolata dal codice della strada allora vigente.
Tesi questa che avrebbe potuto presentare più di un dubbio per l'assorbente ragione che l'articolo 2054 non fa riferimento diretto alla circolazione stradale, anche se è indubbio che sia stato dettato in contemplazione di essa e dell’estensione che già nel Ventennio essa aveva avuto.
4. La prospettiva dell’art. 2050 c.c.
Sempre nella situazione anteriore alla legislazione speciale, ci si interrogò, sulla base di sollecitazioni della dottrina e del lavorìo del foro, circa la possibilità di collocare la nostra responsabilità nell'ambito dell’art. 2050 del codice civile; e quindi di considerare l'attività sciistica come un'attività pericolosa, con la conseguenza di applicarle il criterio di imputazione della responsabilità previsto da questa norma.
Ora, una soluzione del genere supponeva a monte l'interrogarsi su quale fosse la nozione di attività pericolose enucleabile dall'art. 2050 e l’interrogativo rimaneva su un piano che non poteva tenere conto di un’eventuale legge speciale di qualificazione dell’attività sciistica che non esisteva.
La risposta sulla collocabilità dell'attività sciistica nell'ambito dell'articolo 2050 dipendeva allora naturalmente dalla scelta che si fosse ritenuta praticabile in ordine alla qualificazione dell'attività pericolosa nei casi in cui non fosse stata la legge, come dice l'art. 2050, a indicare l'attività come pericolosa o comunque – può concedersi - non fossero sussistiti indizi normativi idonei in via di implicazione a rivelare indirettamente quella qualificazione.
Come è noto si sono sempre scontrate nell’esegesi della norma dell’art. 2050 due orientamenti, l’uno “ontologico”, l’altro per così dire attento alla “potenzialità dell’attività”.
Applicando la distinzione all’attività sciatoria, chi sosteneva che l'attività sciistica fosse pericolosa valorizzava il secondo criterio, in pratica sostanzialmente il criterio per cui lo sciatore, quando scia, può ben incorrere in scontri con altri sciatori o perché lui non guida in maniera prudente, quindi non esercita l'attività sciatoria in maniera prudente, sì da renderla pericolosa, oppure perché altre persone che utilizzano la stessa pista a loro volta non lo fanno svolgendo la loro attività in maniera prudente, oppure ancora perché ci sono altri soggetti che in qualche modo sono coinvolti nell'ambito spaziale della pista che non osservano regole di prudenza, sì da riflettersi sull’attività dello sciatore. Seguendo questo criterio che sostanzialmente valorizza semplicemente la possibilità che l'attività sciistica, pur in ipotesi assunta come di per sé non pericolosa, possa assumere questa caratteristica in ragione di queste evenienze, una collocazione di essa sotto l'ambito dell'art. 2050 sarebbe stata possibile[6].
Viceversa, ove si fosse privilegiata la tesi che ricostruiva l’articolo 2050 o meglio la nozione di attività pericolosa nel senso di un'attività che - fuori dei casi naturalmente in cui la pericolosità sia espressamente indicata dal legislatore direttamente o indirettamente – dovesse connotarsi come un'attività ontologicamente pericolosa, cioè per la sua stessa essenza, per lo stesso modo del suo svolgimento, la conseguenza sarebbe stata quella di negarne la riconducibilità all'art. 2050, perché - si diceva, si è detto - la pericolosità non può derivare dall'esercizio dell'attività in modo imprudente. In pratica, l’assunto di questa ricostruzione era che, se l'attività prudentemente esercitata non è pericolosa, non può diventare pericolosa perché chi la esercita non osservi le regole di prudenza secondo le quali l'attività dovrebbe svolgersi oppure perché altri non osservi le regole di prudenza nello svolgimento della stessa attività e dette attività si vengono ad intersecare.
Per la verità, fra le due alternative indicate, a me sarebbe sembrato difficile sostenere che non fosse valida la prima e che dunque l'attività sciatoria dovesse considerarsi come un'attività pericolosa non ontologicamente come tale ma proprio in ragione, per così dire, della “normalità” (vogliamo dire della frequenza?) della possibile inosservanza di regole di prudenza da parte di chi la conduceva o da parte di altri soggetti: la nozione dell'art. 2050, infatti, quando prescinde da una qualificazione legislativa diretta od indiretta mi pare idonea a comprendere anche le ipotesi in cui un’attività di regola esercitabile come non pericolosa, in concreto si presti ad uno svolgimento con modalità pericolose o possa intercettare un’attività che le può fare assumere tali modalità. Quindi, credo che secondo la prima opzione si sarebbe potuta ricondurre l’attività sciistica all'art. 2050.
Peraltro, a ben vedere, pur rifuggendo dall'idea che gli sci potessero considerarsi un veicolo, a me che non sono uno sciatore sembrerebbe che si sarebbe potuto sostenere che il fatto di mettersi gli sci ai piedi, di iniziare una discesa, per definizione rende la capacità dello sciatore di controllare il proprio movimento certamente meno normale e non vorrei dire anormale rispetto a quella “normale” di un essere umano che non ha gli sci ai piedi: il fatto stesso di mettere ai piedi gli sci (sia pure non un veicolo, ma comunque un arnese che consente di deambulare e scivolare in modo del tutto particolare per il modo di essere della sua struttura meccanica, esigendo notoriamente attività di equilibrio particolari) e soprattutto il fatto stesso di esercitare l'attività su una pista che va in discesa, nonché il fatto che per fermarsi sono necessarie particolari manovre che certamente incidono sull’equilibrio già precario per il sol fatto di indossare gli sci, avrebbero potuto giustificare anche, ove ritenuta necessaria,una qualificazione dell'attività come ontologicamente pericolosa, senza che potesse rilevare il fatto che questa attività poteva come può essere esercitata da chiunque e quindi da quella gran parte dei consociati che, avendo imparato l’uso degli sci, amano appunto andare sulle nevi. In sostanza, anche per chi preferisce la tesi per così dire “ontologica” dell’attività pericolosa, sarebbe stato difficile sottrarre l’attività sciatoria alla riconducibilità all’art. 2050.
E ciò è tanto vero che buona parte della dottrina anche di recente ha sostenuto la tesi della riconducibilità dell'attività sciistica all’art. 2050, rigettando la seconda delle opzioni di cui ho detto[7].
Se ci si interroga sul se la tesi abbia avuto successo a livello giurisprudenziale e in particolare sul se la Corte di Cassazione abbia qualificato la responsabilità per l'attività dello sciatore alla stregua dell'art. 2050, ancorché in dottrina qualcuno[8] abbia sostenutosi il contrario, in realtà a me pare non si rinvengano nella giurisprudenza della Cassazione affermazioni tali da ricondurre l’attività sciatoria e dunque la responsabilità sciatoria all'art. 2050.
Quelle decisioni che vengono evocate in questo senso - e si badi si tratta non solo di decisione civili ma anche di decisioni penali - sono in realtà decisioni che hanno scrutinato fattispecie in cui chi era chiamato a rispondere sul piano civile o penale era il gestore della pista e quindi non fattispecie in cui veniva in considerazione la responsabilità dello sciatore; in queste decisione si coglie – è vero - l'affermazione del tutto incidentale[9] che l'attività sciistica è oggettivamente pericolosa per le stesse condizioni in cui si esercita. Lo si fa soprattutto valorizzando il criterio della morfologia stessa della pista, per l'ampiezza delle piste di sci e per la presenza in essa di un numero di soggetti indeterminati. Ma, se ci si chiede se queste decisioni siano espressione di un convincimento espresso alla Corte di Cassazione circa la riconduzione della responsabilità dello sciatore all'art. 2050, la risposta non può che essere negativa. La ragione è che sono affermazioni che sono state fatte non ai fini di ricondurre la responsabilità dello sciatore alla norma dell’art. 2050 e, quindi, non con riferimento ad una condotta dannosa dello sciatore, ma semplicemente per apprezzare la responsabilità del gestore in ordine all'adempimento o all'inadempimento circa gli obblighi ed i doveri sulla tenuta della pista sede dell’attività sciatoria. Si è detto che le modalità gestorie della pista debbono essere adeguate alla circostanza che la pista o meglio l’attività esercitata da essi sugli utenti è pericolosa, ma ciò per farne derivare che il gestore deve adeguare i suoi comportamenti gestori a tale circostanza. Quindi la qualificazione di pericolosità è stata fatta (peraltro, come emerge dalla lettura delle motivazioni, incidentalmente, va detto) assumendo il punto di vista e, dunque, l’onere comportamentale del gestore e non di chi pratica lo sci. Tra l’altro si tratta di affermazioni generiche e rafforzative della responsabilità del gestore.
Non possiamo ravvisare, perciò, in tali decisioni della Corte di Cassazione[10] una riconduzione della disciplina della responsabilità dello sciatore all'art. 2050. Quello che si riscontra, è una chiara affermazione della riconducibilità della responsabilità del gestore all'art. 2050, però vista questa riconducibilità sempre nel senso che ho detto, cioè dal punto di vista comportamentale del gestore. Non è questa la sede per domandarsi e discutere se questa tesi fosse e sia tuttora convincente o non sia piuttosto una tesi che in definitiva potrebbe non essere predicata e che dovrebbe essere superata dall'opzione della applicabilità al gestore dell'art. 2051 c.c. in dipendenza dei doveri comportamentali inerenti alla tenuta della pista. Quello che mi preme sottolineare è che nella giurisprudenza della Cassazione non c'è mai stata la riconduzione dell'attività dello sciatore in quanto fonte di danno all'art. 2050 con riferimento ai vari profili della sua eventuale responsabilità per i danni cagionati nel suo svolgimento.
5. La legge del 2003
A questo punto passo a considerare la legge del 2003[11].
Fermo che la legge del 2003 non procedette ad alcuna qualificazione dell'attività dello sciatore, ricordo che quella legge si caratterizzò per un approccio che, per quanto riguarda tale attività, si concretizzò nel fissare tutta una serie di prescrizioni sul comportamento da tenere sulle piste da sci. Prescrizioni abbastanza dettagliate, riguardanti la velocità, la precedenza e altro. Ma quella legge introdusse soprattutto una previsione che senza direttamente smentire quello che era stato detto dalla Corte di Cassazione circa l'inapplicabilità dell’art. 2050, piuttosto smentì quello che si era detto sull’inapplicabilità del criterio dell’art. 2054, secondo comma, cod. civ. allo scontro fra sciatori (che è un pezzo, come ho detto, dell'area della responsabilità sciistica).
L'art. 19 di quella legge dispose, infatti, che nel caso di scontro tra sciatori, si presume, fino a prova contraria che ciascuno di essi abbia concorso ugualmente a produrre gli eventuali danni.
La norma era rubricata espressamente “concorso di colpa” ed era una norma che sostanzialmente introduceva un criterio di addebito del concorso che nella sostanza imponeva allo sciatore di provare l’assenza di responsabilità, di colpa, nella causazione dello scontro: dunque collocava la responsabilità nel caso di scontro al di fuori della logica dell’art. 2043 c.c., giacché onerava lo sciatore, ciascuno degli sciatori, della prova liberatoria.
Quello che semmai non era chiaro era il tipo di prova liberatoria imposto dalla previsione della presunzione di concorrente responsabilità.
Tuttavia, tale onere doveva trovare un referente normativo ed esso ben difficilmente poteva – mi pare - essere individuato in modi diversi che seguendo due alternative, quella dell’evocazione dell’art. 2050 o quella dell’evocazione del – pur non richiamato – art. 2054 primo comma c.c.
Nell’art. 2054, secondo comma, l’onere probatorio di ciascun conducente per sottrarsi alla presunzione è certamente quello di cui al primo comma della norma ed esso non mi pare che si sostenga debba apprezzarsi come cosa diversa dall’onere probatorio di cui all’art. 2050 (è noto che si è sempre detto che la circolazione dei veicoli è sostanzialmente una fattispecie di attività pericolosa), sicché l’art. 19 poteva avallare sia l’idea che l’onere probatorio dello sciatore per andare esente da responsabilità nel caso di scontro fosse quello del primo comma dell’art. 2054, sia l’idea che l’onere fosse quello dell’art. 2050 c.c. In fondo, ripeto, la logica di veicolazione della responsabilità del 2054, lo si è sempre detto, non è dissimile da quella del 2050.
L'introduzione della regola del secondo comma dell'art. 2054, ancorché non si fosse accompagnata alla ripetizione espressa di una regola come quella che sta a monte di esso, cioè la regola del primo comma dell'art. 2054 (che ci dice che il conducente di un veicolo senza guida di rotaie è obbligato a risarcire il danno prodotto a persone o a cose dalla circolazione del veicolo se non prova di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno), avrebbe dovuto apprezzarsi o nel senso di avere introdotto implicitamente quella regola o nel senso di avere avallato implicitamente l’idea che operasse per la condotta dello sciatore l’art. 2050.
Invero, una volta collocato lo scontro fra sciatori fuori dell’ipotetica applicazione dell’art. 2043 c.c., non mi sembra possibile che fossero immaginabili alternative diverse da queste due.
Naturalmente, poiché l’introduzione della regola dell’art. 19 riguardava solo la condotta dello sciatore in caso di scontro con altro sciatore o con altri sciatori e non anche la condotta causativa di danno in assenza di scontro con altro sciatore (o equiparato: vedi l’art. 20, che estendeva le norme comportamentali allo snowboard, così comportando l’applicazione dell’art. 19 anche allo scontro fra sciatore e snowboardista e fra due o più snowboardisti), si sarebbe dovuto constatare che queste altre ipotesi restavano al di fuori della sua efficacia e, dunque, per esse continuava ad operare la situazione normativa precedente. Ma certo l’introduzione dell’art. 19 costituiva, mi pare, una sorta di evidente avallo dell’idea che l’attività sciatoria fosse da qualificare o come pericolosa, volta che si consideri che non sembra dubitabile che la logica del secondo comma dell’art. 2054 sia, in definitiva, giustificata proprio dalla pericolosità dell’attività di circolazione dei veicoli, o come soggetta al primo comma dell’art. 2054.
Mi preme a questo punto ricordare che tale primo comma ripete un criterio di imputazione soggettiva della responsabilità, quello del secondo comma dell’art. 2054, che nella sostanza è difficile non ritenere identico a quello dell'art. 2050, il quale, perché si vada esenti da responsabilità, esige che chi esercita un’attività pericolosa debba provare di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno. Del resto, va ricordato che l’origine dell’art. 2050 sta proprio nell’antenato del secondo comma dell’art. 2054, come si legge nella Relazione al Codice Civile del Guardasigilli. Antenato che si rintraccia in una legge del 1912.
Ma, mi pare, accanto all’introduzione del principio di cui all’art. 19, a favore di una “spinta” del legislatore a suggerire l’idea della pericolosità dell’attività sciatoria, si sarebbe dovuta considerare poi la grossa novità della introduzione con la legge del 2003 di una serie di norme di comportamento per lo sciatore.
Se a monte di esse non vi era un’affermazione espressa di un principio simile a quello del primo comma dell'articolo 2054, andava considerata l’incidenza di quelle prescrizioni comportamentali ai fini della prova liberatoria che nel caso di scontro fra sciatori doveva dare ognuno dei coinvolti. La presenza di queste prescrizioni veniva, infatti, in rilievo per connotare il contenuto di tale prova liberatoria, nel senso che certamente lo sciatore che avesse voluto sottrarsi alla presunzione avrebbe dovuto dimostrare una condotta fra l’altro conforme a quelle prescrizioni. Inoltre, la presenza di dette prescrizioni non poteva che essere il sintomo di una particolare “attenzione” del legislatore alla capacità di recar danno dell’attività sciatoria e questo, mi pare, costituiva ulteriore spinta per una qualificazione di essa come pericolosa. Ciò sulla base del rilievo che, se il legislatore ebbe a sentire il bisogno di imporre regole comportamentali allo sciatore, avvertì questo bisogno per la pericolosità dell’attività da lui svolta.
Ma nella legge del 2003 vi erano, mi sembra, ulteriori indizi giustificativi di tale qualificazione. Vi erano, infatti, alcuni espressi riferimenti al concetto di “pericolo” e ciò proprio nelle norme di prescrizione dei doveri comportamentali.
Il comma 1 dell'art. 9, nel regolare la condotta dello sciatore espressamente prescriveva che essa dovesse tenersi in modo da non costituire pericolo per l'incolumità altrui: quindi era evocato espressamente concetto di pericolo.
L'articolo 13, comma 1, nel prescrivere il modo della sosta dello sciatore espressamente stabiliva che lo stazionamento dovesse evitare pericoli per gli altri utenti.
Anche questi espressi riferimenti al pericolo in qualche modo mi sembra che potessero considerare indizi della riconducibilità dell'attività sciatoria all'art. 2050 e ciò, a dire il vero, anche al di fuori dello scontro fra sciatori, fermo restando che in questo caso, come ho detto, l’operare della presunzione di colpa concorrente di cui all’art. 19 rendeva impossibile ragionare nella contemplazione dell’art. 2043 c.c. A proposito delle condotte dannose dello sciatore cagionanti uno scontro fra veicoli, se si applicasse la logica dell’art. 2043 c.c., infatti, l’onere della prova della colpa (o del dolo) sarebbe a carico del danneggiato, mentre in presenza di una regola come quell’art. 19 la logica dell’art. 2043 non può operare: se a carico di ognuno dei conducenti v’è la presunzione di colpa.
Ognuno dei conducenti può, infatti, beneficiare della presunzione di colpa eguale dell’altro.
L’essere onerato ognuno della prova idonea a superare la presunzione a proprio carico a favore dell’altro poneva la situazione fuori della logica dell’art. 2043 e comportava in realtà, per quello che ho detto, un onere della prova simile a quello dell’art. 2050 e ciò sempre che non si fosse ritenuto applicabile il primo comma dell’art. 2054 (come ho detto ispirato alla stessa logica).
Del resto, alla stessa logica obbedisce, come ho detto, il secondo comma dell’art. 2054 c.c. Imponendo un onere di superare la presunzione di concorrente responsabilità, evidentemente impone una prova liberatoria che non può basarsi solo sulla dimostrazione della colpa dell’altro conducente (giurisprudenza pacifica), ma deve basarsi anche sull’esclusione della colpa propria, il che, nell’economia dell’art. 2054, sottende l’onere di cui all’art. 2054 primo comma c.c.
È vero, dunque, che nel sistema della l. n. 363 del 2003, accanto alla previsione dell'articolo 19 non vi era una previsione come quella del primo comma dell'articolo 2054.
Senonché, lo ripeto, è tutto da dimostrare che l'assenza di una simile previsione implicasse che l'onere a carico di ciascuno degli sciatori non fosse quello di dare dimostrazione dell'assenza di propria colpa in modo assoluto e quindi di dare dimostrazione di un qualcosa che, anche alla luce delle prescrizioni comportamentali, non implicasse un onere dissimile da quello dell'art. 2054 primo comma e quindi da quello omologo dell'art. 2050. Non mi pare che potesse sfuggirsi a questa conclusione, implicante, dunque, la pericolosità dell’attività sciistica (e di quelle equiparate).
L'interrogativo che poteva sorgere riguardava semmai i casi in cui la responsabilità di uno sciatore venisse in gioco al di fuori di uno scontro con un altro sciatore, cioè come negli esempi che ho fatto all’inizio di questo scritto, e, quindi, quando si fosse verificato il danno a carico di un soggetto che prestava soccorso, o a carico di altro sciatore in posizione di stazionamento, naturalmente a meno che lo stazionamento non si intendesse ricondurlo a una delle condotte supposte dell'articolo 19, o a carico ancora di un estraneo che avesse interferito con la pista od ancora con riguardo ad un manufatto facente parte della pista.
Per questi casi ritornava nuovamente il problema della possibile qualificazione della responsabilità dello sciatore ai sensi dell'art. 2050 e valevano le notazioni che ho svolto sopra a proposito della collocazione dell’attività sciatoria sotto quella norma sulla base del Codice Civile.
6. La nuova legge del 2021
Veniamo ora alla nuova legge. Una volta registrato che la legge ha ripetuto nell’art. 28 la regola del concorso ad instar del secondo comma dell’art. 2054, rubricando la norma “concorso di responsabilità, è bene anzitutto rimarcare alcune particolarità che si riscontrano rispetto al testo della l. n. 363 del 2003 nel gruppo di norme che anche in questa legge sono dettate relativamente ai comportamento degli utenti delle aree.
Comincio dall'art. 18, il quale esordisce nel comma 1 con un primo inciso, il quale stabilisce che lo sciatore è responsabile della condotta tenuta sulle piste da sci. Nel secondo inciso si stabilisce che a tal fine deve conoscere e rispettare le disposizioni previste per l'uso delle piste, rese pubbliche mediante affissione da parte del gestore delle piste stesse alla partenza degli impianti, alle biglietterie e agli accessi delle piste.
Sottolineo che questa previsione, nel prescrivere una sorta di principio di autoresponsabilità e nel contempo nel ribadire pedantemente l'obbligo di conoscere e rispettare le disposizioni per l'uso delle piste, quindi sostanzialmente di informarvisi, sottende nell'intenzione del legislatore la consapevolezza della particolare “problematicità” e, quindi, soggezione a cautele, dell'attività sciatoria.
Passo oltre: il comma due ripete la formula del comma 1 dell'art. 9 della l. del 2003, ma prescrive in aggiunta che lo sciatore deve tenere una condotta che non costituisca pericolo per l'incolumità propria e altrui. Ebbene balza agli occhi l'aggiunta del riferimento alla incolumità propria. Già il riferimento alla incolumità altrui si prestava a far considerare l'attività esercitata dallo sciatore come idonea ad incidere sugli altri, ma qui abbiamo addirittura la sottolineatura della attitudine dell'attività a determinare pericolo per se stessi. Il richiamo anche alla incolumità propria rafforza ulteriormente il valore della evocazione del pericolo, già presente nella legge del 2003.
Nell'art. 18 compare poi, in un comma 4, una previsione del tutto nuova che suona quasi come pedantesca ripetizione di ciò che è stato detto prima. Essa prescrive allo sciatore di tenere una velocità e un comportamento di prudenza, diligenza e attenzione adeguati alla propria capacità, alla segnaletica e alle prescrizioni di sicurezza esistenti, nonché alle condizioni generali della pista stessa, alla libera visuale, alle condizioni metereologiche e alle intensità del traffico. Di particolare valore è l'ulteriore sottolineatura che lo sciatore deve adeguare la propria andatura alle condizioni dell'attrezzatura utilizzata, alle caratteristiche tecniche della pista e alle condizioni di affondamento della medesima.
Ebbene, tutte queste prescrizioni mi sembra che sottendano una evidente volontà del legislatore di apprezzare l'attività sciatoria come oggetto dell'adozione di particolarissime cautele e riesce difficile negare che questo non significhi l’intentio legis indiretta di individuare un'attività lato sensu pericolosa.
Passiamo oltre. Nell'articolo 19 viene ripetuta la norma della l. del 2003 (art. 10) sulla precedenza ma con un'aggiunta, con la quale si parla di pericoli riferiti allo sciatore a valle. Ecco anche in questo caso una particolare sottolineatura della pericolosità connessa alla nostra attività.
Vengo poi alla norma che regola l'incrocio, quella dell'articolo 21. La particolare previsione della norma, nella quale non è più presente l'obbligo di dare precedenza a destra, ma sono precisate una serie di comportamenti che deve tenere chi si approssima ad un incrocio, anche qui rende evidente che il legislatore è consapevole della necessità che la condotta dello sciatore in prossimità degli incroci di per sé possa essere fonte di pericoli, il che giustifica la puntuale prescrizione di comportamenti da tenere.
Ebbene un primo dato che bisogna registrare leggendo la nuova legge del 2021 è quello che l'aumento della specificità delle prescrizioni dettate per la condotta dello sciatore e l'aumento anche della evocazione del concetto di pericolo non possono che sottendere il convincimento del legislatore che l'attività sciatoria è un'attività che ha attitudine di per sé a determinare situazioni di pericolo e quindi un'attività pericolosa.
Ma vengo a questo punto ad un argomento finale, che si basa su una pregnante novità legislativa.
L’art. 30 del d.lgs. n. 40 del 2021 stabilisce che lo sciatore che utilizza le piste da sci alpino deve possedere una assicurazione in corso di validità che copra la propria responsabilità civile per danni o infortuni causati a terzi. Inoltre, introduce l’obbligo in capo al gestore delle aree sciabili attrezzate, con l'esclusione di quelle riservate allo sci di fondo, di mettere a disposizione degli utenti all'atto dell'acquisto del titolo di transito una polizza assicurativa per la responsabilità civile per danni provocati alle persone o alle cose.
Ebbene l'assoluta novità della introduzione di un obbligo, anzi di due obblighi, uno direttamente impositivo a carico dello sciatore dell’onere di assicurarsi, l'altro a carico del gestore della pista di mettere a disposizione una polizza assicurativa, obblighi il cui inadempimento l'articolo 33, comma 2, assoggetta a sanzione amministrativa, evidenzia che il legislatore ha ritenuto che l'attività dello sciatore debba essere coperta da assicurazione perché è naturalmente foriera di possibili danni a terzi. Ebbene questo dato, quindi, come può consentire di negare che ormai a livello legislativo l'attività sciatoria come fonte di responsabilità civile debba essere considerata un'attività pericolosa?
Rilevo semmai che colpisce nella norma dell'art. 30 che non si sia detto che il gestore di fronte alla mancanza di disponibilità da parte dell'operatore di una polizza e al rifiuto da parte sua di utilizzare quella che lui deve mettere a disposizione a pagamento naturalmente virgola non debba rifiutare l'accesso alla pista. Questa previsione manca nella norma e mi sembra difficile poterla estrapolare.
[1] Esse rappresentano il contenuto di una relazione tenuta in Cortina d’Ampezzo lo scorso 1° ottobre 2022 nel Convegno organizzato dalla Camera Civile degli Avvocati di Belluno sul tema “La responsabilità in ambito sciistico”.
[2] Per una prima lettura di tale d.lgs., si veda M. PITTALIS, L’attuazione della legge delega 8 agosto 2019, n. 86 in tema di ordinamento sportivo, professioni sportive e semplificazione, in Corriere Giuridico, 2021, 751 e ss.
[3] Si veda l’art. 43-bis del d.lgs., introdotto dall’art. 30, comma 11, del d.l. n. 41 del 2021, convertito, con modificazioni, dalla l. n. 69 del 2021, e, quindi, l’art. 10, comma 13-quater, lett. f), del d.l. n. 73 del 2021, convertito con modificazioni, dalla l. n. 106 del 2021.
[4] Per un’ampia rassegna si veda: M. PITTALIS, La responsabilità in ambito sciistico, in Riv. Dir. Sportivo, 2015, 373 e ss. Adde, con specifico riferimento allo scontro fra sciatori, S. VERNIZZI, Scontro tra sciatori – profili di responsabilità civile, in La responsabilità sciistica. Prospettive attuali, a cura di M. SESTA e L. VIALE, Bolzano, 2015 (pubblicazione edita dalla Libera Università di Bolzano, ma rintracciabile su Internet).
[5] Si tratta di Cass., 1 aprile 1980, n. 2111, in Riv. Dir. Sportivo, 1980, 354 (sulla sentenza si veda anche il commento di F.D. Busnelli-G. Ponzanelli, Rischio sportivo e responsabilità civile, in Resp. Civ. e prev., 1984, 285) e di Cass., 30 luglio 1987, n. 6603, in Archi. Giur. Circ., 1988, 25. Le decisioni sono anche evocate dalla PITTALIS nello scritto citato sub nota 3.
[6] Riassuntivamente rinvio allo scritto della PITTALIS, citato nella nota 4.
[7] Rimando, anche per riferimenti allo scritto della PITTALIS, citato sub nota n. 4
[8] Si veda la PITTALIS, sempre nello scritto citato, sub paragrafo 2, 380 e ss..
[9] Si vedano: Cass. 19 febbraio 2013, n. 4018, in Rass. dir. econ. sport, 2014, 165 e ss., con nota di G. Berti De Marinis e in Danno e Resp., 2013, 863 e ss., con nota di U. IZZO; Cass. 22 ottobre 2014, n. 22344, in Rass. dir. econ. sport, 2014, 438 e ss., con nota di M. Pittalis e in Danno e Resp., 2015, 357 e ss., con nota di U. IZZO; per le decisioni penali: Cass. 15 settembre 2015, n. 37267, in Danno e Resp., 2016, 139 e ss., con nota di S. Rossi. Adde: Cass. 9 novembre 2015, n. 44796 ; Cass. 25 febbraio 2019, n. 8110; Cass. 7 ottobre 2020, n. 27923.
[10] Esse sono espressioni di un orientamento inaugurato da Cass. 26 aprile 2004, n. 7916, in Giust. Civ., 2005, 1, 3120 e ss.
[11] Sulla legge, si vedano: M. FLICK, Sicurezza e responsabilità nella pratica degli sport invernali alla luce della legge 24 dicembre 2033, n. 363, in Danno e Resp., 2004, 475 e ss.; R. CAMPIONE, Le nuove norme in materia di responsabilità e sicurezza dell’attività sciistica, in Contratto e Impresa, 2004, 1305 e ss.; E. BALLARDINI, La legge n. 363/2003 in materia di sicurezza nella pratica degli sport invernali, in U. IZZO e G. PASCUZZI (a cura di), La responsabilità sciistica. Analisi giurisprudenziale e prospettive dalla comparazione, Torino, 2006, 3 ss.
Il travagliato percorso della tutela del bambino nato da maternità surrogata. Brevi note a margine dell’ordinanza di rinvio alle Sezioni unite n. 1842 del 2022
di Mirzia Bianca
Sommario: 1. Le diverse stagioni del travagliato percorso e il conflitto tra l’esigenza di conservazione del divieto e la tutela del nato da maternità surrogata - 2. La conservazione del divieto: una costante - 3. La ricerca di uno strumento di tutela per il nato: trascrizione automatica o adozione? - 4. Il problema è parzialmente risolto dalla Corte costituzionale con la decisione n. 79 del 2022 - 5. Riflessioni conclusive.
1. Le diverse stagioni del travagliato percorso e il conflitto tra l’esigenza di conservazione del divieto e la tutela del nato da maternità surrogata
L'ordinanza della I sezione civile della Corte di Cassazione n. 1842 del 2022 riapre i termini del dibattito sul nato da maternità surrogata praticata all'estero e costringe l'interprete a considerazioni che toccano inevitabilmente l'equilibrio del sistema e la coerenza complessiva delle decisioni delle Corti in quello che, senza alcun indugio, può essere definito come il travaglio della genitorialità derivante da maternità surrogata. Di travaglio si tratta in quanto il rilevante problema di assicurare al bambino nato da maternità surrogata gli stessi diritti degli altri bambini nati in condizioni diverse ha visto duettare la Corte di Cassazione, la Corte costituzionale, che ha sollecitato più volte l'intervento del legislatore, e le corti sovranazionali, alla ricerca di una soluzione ragionevole che possa coniugare interessi palesemente contrapposti e imputabili a soggetti diversi: l'interesse del minore alla identità filiale, l'interesse della donna alla propria dignità, l'interesse della donna a non rinunciare allo stato di madre, l'interesse dello Stato a non incentivare il ricorso a pratiche vietate e lesive della dignità della donna e dell'istituto dell'adozione. Sullo sfondo rimane l'interesse del genitore intenzionale a vedersi riconosciuta una genitorialità progettata con il partner, il genitore biologico. Tale interesse rimane tuttavia solo sullo sfondo con una sorta di ipocrisia intellettuale che addossa solo al minore e al suo interesse il governo di una problematica molto complessa che vede come attori principalmente gli adulti e il loro desiderio di genitorialità. Il minore sconta questa scelta degli adulti ed è doveroso che l'ordinamento risolva o tenti di risolvere il problema di chi devono essere considerati i suoi genitori.
Può essere interessante descrivere sia pure sinteticamente le tappe di questo percorso travagliato e complesso che ci ha portato sino all'ordinanza che qui si commenta che rinvia nuovamente alle Sezioni unite il problema. Tale percorso, nelle sue varie stagioni, è stato caratterizzato dal conflitto tra due interessi: l'esigenza di tener fermo il divieto della maternità surrogata e l'esigenza di riconoscere la genitorialità ai figli nati da tale pratica.
In una stagione ormai del tutto superata, il dibattito sulla genitorialità derivante dalla maternità surrogata vedeva contrapporsi tesi che ritenevano prevalente la madre uterina e tesi che, al contrario, ritenevano che dovesse prevalere la madre committente. Si trattava di un dibattito che atteneva in particolare alla maternità. Nelle stagioni successive, compresa quella che stiamo vivendo, il problema di chi debba essere la madre è stato del tutto accantonato ed è stato sostituito da quello relativo al riconoscimento del genitore intenzionale, che è il partner del genitore che ha dato il proprio patrimonio genetico, genitore che, come emerge dalla qualifica, lo è per l'intenzione ma non per il sangue. La madre uterina, che è colei della cui dignità si tratta, è stata del tutto dimenticata e tale dimenticanza, a mio parere, accentua i profili della mercificazione di questa pratica. Inoltre il dibattito sulla genitorialità del nato da maternità surrogata è fuoriuscito dal perimetro dell'ordinamento interno e si è proiettato sul problema del riconoscimento in Italia di genitorialità acquisite all'estero in Paesi in cui la maternità surrogata è pratica ritenuta lecita. Questo cambiamento di paradigma ha inevitabilmente spostato l'ambito del dibattito al conflitto tra ordine pubblico interno e internazionale e all'esigenza di raggiungere un equilibrio con altri principi, tra i quali primeggia il best interest of the child, punte di diamante dei confliggenti interessi.
2. La conservazione del divieto: una costante
Per quanto concerne la rilevata esigenza di mantenere fermo il divieto della maternità surrogata, può dirsi che questa è stata una costante di questo travagliato percorso, pur con alcune recenti varianti. La nostra Corte costituzionale, anche quando è intervenuta per rimuovere il divieto della fecondazione eterologa, ha mantenuto il divieto, considerato in più di una decisione, pratica lesiva della dignità della donna e dell'istituto dell'adozione. Anche la Corte di Cassazione ha più volte ribadito il profilo di lesività di questa pratica. Dicevo che questa costante è stata interrotta da qualche variante, che tuttavia non ha la forza di abbattere o relativizzare la portata del divieto, che rimane fermo, anche nel contesto di altre legislazioni europee, come la Francia e la Spagna, che pure di recente hanno introdotto nuove leggi in materia. Una di queste varianti è contenuta nell'ordinanza che qui si commenta, là dove si afferma l'esclusione del profilo della lesività della dignità della donna “solo se sia il frutto di una sua scelta libera e consapevole, indipendente da contropartite economiche e se tale scelta sia revocabile sino alla nascita del bambino”. L'esaltazione del profilo dell'autodeterminazione, concepita qui come scriminante della lesività, viene argomentata anche attraverso il paragone con il parto anonimo. Si legge infatti in questa ordinanza che “è da considerare che il nostro ordinamento consente alla donna al momento del parto di dichiarare la propria volontà di rimanere anonima e di non assumere alcuna responsabilità genitoriale escludendo così l'instaurazione del rapporto di filiazione”. È facile e troppo banale replicare che l'autodeterminazione non è tale da eliminare il profilo di lesività della dignità. Tutto il dibattito sul valore primario della dignità umana, considerata quale diritto dei diritti, importa infatti un procedimento complesso che prenda le distanze dalla negoziabilità di questo valore attraverso l'esaltazione del principio di autodeterminazione, come è evidente nel noto caso del lancio dei nani. Inoltre, e con specifico riferimento alla natura non onerosa che renderebbe lecita tale pratica, deve ritenersi che la lesione della dignità non dipende dal carattere oneroso o gratuito del contratto, ma dalla rinuncia allo status di madre. Quanto poi al richiamo al parto anonimo, ritenuto istituto che confermerebbe il valore dell'autodeterminazione, deve rilevarsi che si tratta di due istituti non comparabili, perché la scelta della madre nel parto anonimo trova ragione nella esigenza di evitare l'interruzione della gravidanza, mentre la scelta libera e consapevole della donna nella maternità surrogata implica una rinuncia al suo stato di madre, ed è questo il profilo della lesività. Considerazioni analoghe devono farsi per la lesione della dignità dell'istituto dell'adozione. Confesso che non ho mai condiviso questo profilo di lesività, ritenendo che se mai la lesione della dignità attiene più propriamente al soggetto nato da maternità surrogata, considerato come merce di scambio. Tuttavia questo riferimento è costante in giurisprudenza e anche in questo caso appaiono irrilevanti i tentativi di limitarne la portata. Il contrasto della maternità surrogata con l'istituto dell'adozione, se di contrasto vuole parlarsi, è infatti ontologico, in quanto è insito in una pratica che si pone in alternativa all'adozione del minore già nato ma abbandonato. In questo senso non sembra che possano accogliersi le riflessioni che si leggono nell'ordinanza che si commenta che limitano il profilo di lesività alle ipotesi estreme di frode alle leggi sull'adozione. Del pari non è condivisibile ciò che è stato affermato nell'ordinanza che si commenta, ovvero che “è da ritenere non riconoscibile una sentenza o un atto di nascita che accerti la filiazione in relazione a una surrogazione di maternità consentita dalla legge del paese in cui è avvenuta anche se i genitori intenzionali non hanno apportato alcun contributo genetico alla procreazione”. Il profilo di lesività della pratica di maternità surrogata rispetto all'istituto dell'adozione non è infatti condizionata dall'apporto o meno del contributo genetico alla procreazione. Piuttosto, esattamente come avviene nel caso dell'adozione, la mancanza del sangue dovrebbe essere sostituita da un progetto genitoriale e affettivo che sostituisca alla regola di sangue, quella familiare-progettuale.
3. La ricerca di uno strumento di tutela per il nato: trascrizione automatica o adozione?
Il travagliato percorso che stiamo cercando di descrivere, oltre ad essere caratterizzato dal mantenimento costante del divieto di maternità surrogata, si è caratterizzato per la forte esigenza di dare una tutela ai bambini nati da maternità surrogate fatte all'estero. Ciò ha posto un problema di circolazione di status nei vari paesi, in quanto è apparsa inevitabile la riflessione sulla necessità di assicurare il mantenimento di uno stato filiale acquisito all'estero. Nel contempo, la riflessione contigua sulla necessità di non incentivare il ricorso a pratiche vietate e lesive di valori primari ha complicato i termini del dibattito. Nelle varie stagioni che si sono succedute, il dibattito è stato caratterizzato dall'alternativa tra due soluzioni. La prima soluzione è quella della trascrizione della genitorialità acquisita all'estero o, ove vi sia stata una sentenza, la delibazione della sentenza straniera. La seconda soluzione è la ricerca di strumenti del diritto interno che possano assicurare la genitorialità al genitore di intenzione e completare così il progetto di genitorialità iniziato con il genitore biologico. La prima soluzione, ovvero quella della trascrizione di provvedimenti stranieri o di delibazione di sentenze straniere, importa, in conformità della disciplina di diritto internazionale privato, un problema di conformità di tali atti stranieri al principio dell'ordine pubblico. La seconda soluzione, pur sottraendosi a questo giudizio, impone la ricerca di strumenti che, secondo l'indicazione dell'europa, siano adeguati e improntati al principio di celerità e di effettività. Il travagliato percorso che stiamo descrivendo vede al riguardo l'alternarsi di queste soluzioni, secondo un percorso incostante e segnato da grande complessità. Nel 2019 le sezioni unite della Corte di Cassazione (n. 12139), conformandosi all'orientamento delle Corti europee che non ritengono obbligatoria la scelta della trascrizione automatica, ha affermato che tale soluzione è contraria all'ordine pubblico, stante il divieto della maternità surrogata. La Corte ha indicato l'adozione in casi particolari quale soluzione alternativa del diritto interno per risolvere il problema del riconoscimento della genitorialità di intenzione. Nel 2021 (n. 33), la Corte costituzionale ha riaffrontato il problema della genitorialità di intenzione con delle indicazioni preziose per l'interprete che non possono essere dimenticate. Innanzitutto la Corte ha ribadito che la pratica della maternità surrogata è lesiva della dignità della donna. Quanto al problema della tutela del nato da maternità surrogata, il riconoscimento della genitorialità di intenzione viene condizionato a presupposti ben precisi che sono: 1) l'attualità e la concretezza del progetto genitoriale; 2) il rilievo concreto e costante della cura del minore che denoti l'esercizio congiunto della responsabilità genitoriale, anche se in via di fatto. Significativo in questo senso è un passaggio della decisione della Corte: “Laddove il minore viva e cresca nell'ambito di un nucleo composto da una coppia di due persone che non solo abbiano condiviso e attuato il progetto del concepimento, ma lo abbiano poi continuativamente accudito, esercitando di fatto in maniera congiunta la responsabilità genitoriale, è chiaro che egli avrà un preciso interesse al riconoscimento giuridico del proprio rapporto con entrambe, e non solo con il genitore che abbia fornito i propri gameti ai fini della maternità surrogata”. Queste parole della Corte servono a circoscrivere i limiti dell'ammissibilità del riconoscimento della genitorialità di intenzione alla sola ipotesi di progetto genitoriale attuale e al riscontro di un rapporto di cura e di affetto che deve necessariamente essere valutato in concreto e mai in astratto. Ed è proprio questa valutazione che riempie di contenuto l'interesse del minore al riconoscimento di tale genitorialità che, diversamente, si tradurrebbe in una scatola vuota. Se si accoglie questa prospettiva della Corte, deve ritenersi che la soluzione della trascrizione automatica del provvedimento straniero non realizza mai questi requisiti, in quanto conduce inevitabilmente ad una valutazione astratta e generalizzata. La presenza di questi requisiti, come emergerà più chiaramente nel prosieguo di queste riflessioni, consente inoltre di paralizzare le critiche allo strumento dell'adozione in casi particolari, in particolare all'obiezione derivante dal necessario assenso del genitore biologico ex art. 46 l. adozione. Ma a questo problema arriveremo tra un po'. Occorre adesso continuare a raccontare le tappe di questo travagliato percorso. La Corte costituzionale, sempre nella citata decisione n. 33 del 2021, rileva tuttavia l'inadeguatezza dello strumento dell'adozione in casi particolari e sollecita il legislatore ad intervenire. In particolare la Corte sottolinea la mancanza di parentela dell'istituto dell'adozione in casi particolari e il problema del necessario assenso del genitore biologico ai sensi dell'art. 46 della legge sull'adozione che “potrebbe non essere prestato in situazioni di sopravvenuta crisi della coppia, nelle quali il bambino finisce così per essere privato del rapporto giuridico con la persona che ha sin dall'inizio condiviso il progetto genitoriale, e si è di fatto presa cura di lui sin dal momento della nascita”. E siamo arrivati ai giorni nostri con l'ordinanza che qui si commenta che solleva nuovamente il giudizio delle sezioni unite, avendo riscontrato, a seguito della decisione della corte costituzionale, un vuoto legislativo e la necessità di superare il diritto vivente così come delineato nella decisione delle Sezioni unite del 2019.
4. Il problema è parzialmente risolto dalla Corte costituzionale con la decisione n. 79 del 2022
Un passaggio ulteriore di questo percorso è tuttavia segnato dalla decisione della Corte costituzionale n. 79 del 2022, che interviene dopo l'ordinanza di rinvio alle sezioni unite. Con questa decisione la Corte costituzionale rimuove parzialmente l'inadeguatezza dell'adozione in casi particolari, almeno per la parte relativa alla mancanza della parentela. Questa decisione, nell'affermare un allineamento dei due modelli di adozione, azzera in parte i termini del dibattito. Quanto all'altro profilo di inadeguatezza dell'adozione in casi particolari (necessità dell'assenso del genitore biologico ai sensi dell'art. 46 l. adoz.), deve rilevarsi che il problema rimane ma può essere facilmente superato in via interpretativa. Occorre al riguardo preliminarmente operare una distinzione tra l'assenso del genitore biologico nel caso che qui si discute e l'assenso del genitore biologico nelle altre ipotesi di adozione in casi particolari. Nell'ipotesi del nato da maternità surrogata, il genitore biologico è il genitore di sangue che ha condiviso con il genitore di intenzione il progetto genitoriale. Un ipotetico dissenso all'adozione dovrebbe necessariamente passare o per la negazione in radice del progetto genitoriale o per la negazione del rapporto costante e di cura del minore che rappresenta il requisito per richiedere l'adozione in casi particolari, anche nell'ipotesi in cui vi sia sta separazione. In parole povere il genitore biologico che nega l'assenso all'adozione del partner potrebbe farlo solo nell'ipotesi in cui quest'ultimo non abbia intrattenuto nessun rapporto di affetto e di cura nei confronti del nato oppure abbia partecipato solo al progetto di procreazione ma abbia poi abbandonato il partner e il minore. La valutazione di questi requisiti passa necessariamente attraverso una valutazione del giudice, perché è una valutazione che interessa il migliore interesse del minore. Nelle altre ipotesi di adozione in casi particolari, invece, come per l'ipotesi prevista dalla lett. b), il dissenso del genitore biologico o di sangue è un dissenso a che altri (il coniuge della madre del proprio figlio) possa esercitare la responsabilità genitoriale. Le due situazioni non sono comparabili, perché mentre nel primo caso si tratta semplicemente di valutare in concreto un rapporto di cura e di affettività che riguarda solo e soltanto il minore, nel secondo caso si tratta di giudicare della concorrenza di due genitorialità. Fatte queste necessarie premesse, deve dirsi che in generale il procedimento di adozione in casi particolari, anche nelle altre fattispecie diverse da quella del nato da maternità surrogata, e la ratio dell'art. 46 della legge sulle adozioni non è quella di subordinare l'adozione in casi particolari all'arbitrario assenso del genitore biologico, ma di subordinarla alla realizzazione del migliore interesse del minore. Il secondo comma dell'art. 46, in combinato disposto con l'art. 57, che impone al giudice la verifica della realizzazione del preminente interesse del minore, conduce a questa interpretazione funzionale, che è condivisa anche da parte della giurisprudenza.
5. Riflessioni conclusive
Descritto questo travagliato percorso, è possibile tentare di fare delle riflessioni conclusive. Il riconoscimento della genitorialità di intenzione e il superiore interesse del minore ad ottenerlo non possono essere affidati ad uno strumento di carattere automatico come la trascrizione. Ciò per due ordini di ragioni. In primo luogo perché, come ci ricorda la Corte costituzionale, occorre accertare in concreto la sussistenza di un rapporto costante di cura del minore e di un attuale progetto genitoriale. Solo verificate in concreto queste condizioni si può chiedere al diritto di legittimare sul piano giuridico situazioni che operano sul piano del fatto. In secondo luogo la scelta della trascrizione automatica, oltre ad azzerare la rilevanza di questi requisiti, porterebbe ad annullare del tutto la ricerca del migliore interesse del minore che, invece, è proprio legato alla verifica di quei requisiti. Progetto genitoriale e cura costante del minore devono essere entrambi presenti. Così non basterebbe un progetto genitoriale se non accompagnato da una cura ed un rapporto affettivo costante. Allo stesso modo, deve dirsi che la presenza di una relazione di cura e di affetto non basta da sola a fondare il titolo di una genitorialità giuridica. Una diversa soluzione porterebbe a fondare l'acquisto della genitorialità sulla sola scelta degli adulti, in mancanza di un legame di sangue e a prescindere da una valutazione in concreto dell'interesse del minore. Il preminente interesse del minore è invece qui quello di continuare un rapporto di cura e di affettività e di dare una veste giuridica ad un rapporto che, già nei fatti, si atteggia a rapporto genitoriale.
Quanto allo strumento dell'adozione in casi particolari e nell'attesa che il legislatore possa suggerire altri strumenti, resta la soluzione preferibile. Il recente intervento della Corte costituzionale (n. 79 del 2022) ha eliminato l'inadeguatezza relativa alla mancanza di parentela e quindi ha eliminato tanto del dibattito. Quanto al necessario assenso del genitore biologico previsto dall'art. 46 l. adoz., una lettura funzionale della disciplina dell'adozione in casi particolari, impone di considerare l'assenso del genitore biologico ancorato alla realizzazione del migliore interesse del minore. Ciò stempera il dubbio sulla inadeguatezza. La soluzione dell'adozione in casi particolari, a differenza della trascrizione automatica, consente inoltre di impostare il problema della genitorialità d'intenzione sul solo piano percorribile: quello della valutazione in concreto. D'altra parte è proprio dell'istituto dell'adozione una valutazione in concreto dei requisiti. Sotto questo specifico aspetto, deve ritenersi che non si vede perchè nel solo caso del nato da maternità surrogata, che condivide con le altre ipotesi di adozione l'instaurazione di una genitorialità fondata non sul sangue, dovrebbe operare una scelta diversa e meno garantista del reale interesse del minore. Come per il minore abbandonato, per il nato da maternità surrogata la realizzazione del suo migliore interesse non è mai presunta, ma deve essere giudicata nella concretezza della situazione.
Un'ultima riflessione attiene al rapporto tra divieto della maternità surrogata e tutela del soggetto nato, termini di un insanabile conflitto. Credo che la soluzione dell'adozione in casi particolari consenta di affrontare questa delicata problematica con un approccio metodologico meno conflittuale rispetto alla scelta della trascrizione automatica. L'adozione in casi particolari passa infatti attraverso la sola valutazione dell'interesse del minore a mantenere e a conservare un rapporto genitoriale che è nato nei fatti e che abbisogna di una veste giuridica. Il problema del divieto della maternità surrogata rimane sullo sfondo ma non tocca questa problematica e soprattutto non incide sulla valutazione del migliore interesse del minore. Nel caso invece che si accolga la soluzione della trascrizione automatica questi due interessi entrano nuovamente in conflitto in quanto la valutazione della conformità all'ordine pubblico chiama necessariamente in causa la valutazione dell'ordinamento in ordine al mantenimento o meno del divieto. D'altra parte, come si è detto, la valutazione del migliore interesse del minore risulta obliterata o comunque presunta, al di là di ogni indagine in concreto. Si attua così una commistione tra due profili diversi che complicano il lavoro dell'interprete. In definitiva, a me sembra che la soluzione della trascrizione automatica ponga due alternative. O si ritiene che tale trascrizione sia conforme all'ordinamento e allora deve eliminarsi il divieto della maternità surrogata. O si ritiene che la trascrizione non lo sia, perchè, come il diritto effettivo dimostra, la pratica della maternità surrogata è un procedimento lesivo della dignità della donna e quindi contrario ai valori dell'ordinamento. Tertium non datur.
La riforma Cartabia del diritto e del processo penale - Editoriale
Per la terza volta in cinque anni, magistrati, avvocati e cittadini devono affrontare una “riforma della giustizia penale”, con conseguente riscrittura di numerose norme sostanziali e processuali.
Anche in questo caso, l’intervento del legislatore è motivato dal tentativo di risollevare un innegabile stato di crisi della giustizia, evidente sia nei numeri – che attestano una perdurante incapacità di fornire in tempi ragionevoli una risposta alla domanda di giustizia – che nella conseguente crisi fiducia nei confronti dei magistrati e nel sistema, forse mai così evidente come negli ultimi anni.
La “riforma Cartabia”, rispetto a quelle che hanno preso il nome dei due precedenti Ministri della Giustizia, appare connotata da una inedita pervasività, poiché investe il diritto civile e processuale civile, quello penale e processuale penale nonché le norme ordinamentali.
Per quanto riguarda il settore penale, essa modifica - in più punti ed a volte in maniera profonda – ogni aspetto del processo, dal momento di apertura del procedimento penale alla fase successiva al passaggio in giudicato della sentenza, oltre ad incidere su alcuni rilevanti aspetti di diritto sostanziale.
Tocca inoltre il rapporto tra sanzioni ed esecuzione delle medesime, alcuni dei contrappesi esistenti tra le parti del processo, il senso stesso della sanzione penale affiancandole per la prima volta i percorsi (vedremo quanto accidentati) della giustizia riparativa; sancisce l’inizio dell’era del processo penale telematico.
In altri termini, si propone di modificare radicalmente il panorama in cui gli operatori del diritto si trovano ad operare, per di più facendolo “in corsa” e senza previsione di adeguate norme transitorie né una parallela riforma strutturale e di organico della magistratura, che prevedibilmente soffrirà nell’affrontare le modifiche in una situazione di drammatica scopertura di organico.
I temi di discussione e gli spunti di approfondimento sono numerosi e richiedono sia una ricognizione “a prima lettura” che una riflessione più meditata, oltre a un momento di sintesi che si giovi, appena possibile, del monitoraggio dell’impatto delle nuove regole nella realtà quotidiana dei nostri Tribunali.
La nostra Rivista ha già iniziato da tempo un’analisi dell’impianto della riforma, con lo scritto di Giorgio Spangher pubblicato il 6 settembre del 2022 e intitolato “La riforma Cartabia: alcuni fils rouge”.
A questo primo approfondimento, Giustizia Insieme ha pensato di far seguire una serie di contributi, rispondenti ai diversi “livelli di lettura” appena evidenziati:
1. Una serie di schede tematiche in cui saranno esposte in modo sintetico le modifiche principali apportate al Codice penale e di procedura penale ed indicate le possibili criticità applicative;
2. Cinque articoli che usciranno a cadenza settimanale in cui saranno trattati in modo approfondito gli aspetti più rilevanti della riforma, distinti per fase processuale
3. Un ulteriore serie di articoli - ancora in numero di cinque - dedicati alla giustizia riparativa, che prenderanno in esame la storia, le esperienze più salienti in Italia e all’estero, le novità della riforma su questo specifico tema e le criticità nell’applicazione della stessa.
A questi contributi affiancheremo delle “riflessioni spot” su argomenti che emergeranno e si imporranno con il carattere dell’urgenza.
Proprio ad uno di questi argomenti “urgenti”, che sin dal primo momento di emanazione della riforma sta provocando discussioni tra magistrati nelle chat e nelle liste tecniche, è dedicato il primo contributo che oggi pubblichiamo, la riflessione di Andrea Apollonio sul mutamento del giudice in corso di dibattimento e l’applicazione della regola del tempus regit actum.
Il regime intertemporale della rinnovazione degli atti in caso di mutamento del giudice nella c.d. “riforma Cartabia”
di Andrea Apollonio
La nuova regola del co. 4-ter dell'art. 495 c.p.p. soggiace sì al principio tempus regit actum, ma non può applicarsi ai procedimenti in corso perché risulta congelata la (nuova) norma che la integra e completa (l'art. 510, co. 2-bis). Per la stessa ragione, anche una volta sbloccato il diritto alla rinnovazione degli atti a seguito dell'entrata in vigore dell'obbligo di videoregistrazione dell'esame testimoniale, questo potrà esercitarsi dalla parte che vi ha interesse solo rispetto alle prove dichiarative che saranno formate dopo il 1 novembre 2023. Soccorrono, a sostegno di questa tesi, molteplici argomentazioni di carattere sistematico e teleologico, oltreché una lettura costituzionalmente orientata delle norme ispirata al principio del giusto processo e della sua ragionevole durata.
Sommario: 1. Il d.lgs. n. 150 del 17 ottobre 2022 (c.d. "riforma Cartabia") e la nuova natura dell'atto dichiarativo - 2. Le modifiche al reticolato normativo di cui agli artt. 495 e 510 c.p.p. - 3. La questione sottesa, tra Corte Costituzionale e Sezioni Unite - 4. Una "ragionevole" lettura del regime transitorio della rinnovazione degli atti - 5 L'emersione di un diritto processuale "modulabile".
1. Il d.lgs. n. 150 del 17 ottobre 2022 (c.d. "riforma Cartabia") e la nuova natura dell'atto dichiarativo
Con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del d.lgs. n. 150 del 17 ottobre 2022 è stata introdotta nell'ordinamento penale la c.d. "riforma Cartabia", che attua la legge delega n. 134/2021. Un progetto riformatore di ampio respiro che va ad incidere su molteplici aspetti della disciplina codicistica. Un primo gruppo di interventi mira a realizzare la transizione digitale e telematica del processo penale, «valorizzati anche e proprio per ridurre i tempi dei processi»[1]; un'altra area di intervento, tra le tante, attiene invece alla salvaguardia dei diritti delle parti e delle garanzie del giusto processo. Si tratta di due direttive generali dell'azione riformatrice che, ai fini della presente ricognizione, debbono essere lette assieme per essere meglio coordinate, anche sul piano interpretativo.
L'art. 1, co. 8 della legge n. 134/2021 autorizzava il Governo ad interpolare il sistema di documentazione degli atti processuali sulla scorta delle strumentazioni tecnologiche oggi disponibili, affermando un livello minimo di valore euristico esigibile per la valutazione di determinate prove dichiarative; e alla luce di questo principio, con la legge attuatrice, viene adeguato l'art. 134 c.p.p., che contempla la previsione generale sulla documentazione degli atti, statuendo quali forme ulteriori di documentazione la registrazione audio e video, ad integrazione della tralatizia verbalizzazione, completa o sommaria, del dichiarato dell'attore della procedura o del processo, quando questa appaia insufficiente rispetto al tipo di atto processuale compiuto. Discende a cascata una serie di modifiche agli atti (dichiarativi) di indagine - ai quali, a seconda del tipo, va applicata la forma aggiuntiva della videoregistrazione o della sola audioregistrazione - nonché, sopratutto, agli atti (dichiarativi) processuali[2].
Sebbene già il processo penale riconosca da tempo l'esistenza di supporti digitali dal valore probatorio e comunque attestatorio[3], quella elaborata dal d.lgs. n. 150 del 17 ottobre 2022 è, con riferimento all'atto dichiarativo, una vera rivoluzione copernicana, densa di implicazioni pratiche nell'operato quotidiano del pubblico ministero e del giudice, ma anche dall'immediato risvolto teorico, giacché tale atto (che assume, come noto, una importanza centrale nel processo penale, diversamente da quello civile o dalle altre giurisdizioni) viene chiamato ad affrontare fin da subito la transizione digitale e telematica, assumendo per questa via una nuova natura: non più solo momento della procedura connotato dall'oralità e materialmente consacrato in un atto, ma cattura dell'immagine del e nel processo, con ripresa integrale della deposizione e contestuale ingresso nei fascicoli di pubblici ministeri e giudici di una nuova dimensione audio-video, in cui gli attori si propongono anche visivamente ampliando a dismisura il prisma delle valutazioni in ordine all'attendibilità del teste e alla credibilità del suo narrato; una nuova e più penetrante dimensione che fin qui era rimasta ai margini dell'iter procedurale, anche perché sguarnita di una organica regolamentazione[4].
Oltre all'intentio legis di far confluire un siffatto materiale, per così dire "nativo digitale", in un nuovo "fascicolo informatico" che dovrà - prima o poi - conservare tutti gli atti della procedura, appare evidente lo scarto negli obiettivi perseguiti dal legislatore che afferma la necessità di documentare integralmente gli atti d'indagine e quelli processuali: per i primi, la riforma intende essenzialmente superare l'assenza di contraddittorio tra le parti (es. per le sommarie informazioni testimoniali), la particolare soggezione della persona detenuta (es. per gli interrogatori), ovvero la vulnerabilità di alcuni testi (è il caso dell'esame della persona minore o dell'inferma di mente); per gli atti processuali dichiarativi, invece, la videoregistrazione è funzionale a ridurre il vulnus al principio di immediatezza e di oralità laddove - ipotesi affatto peregrina - la prova, pur ritualmente raccolta nel contraddittorio tra le parti, venga ad essere valutata da un giudice diverso da quello che ha presieduto all'assunzione. Due i casi principali a cui il legislatore ha guardato: le prove raccolte in incidente probatorio e quelle formatesi in dibattimento, nel caso però di successivo mutamento del giudice.
2. Le modifiche al reticolato normativo di cui agli artt. 495 e 510 c.p.p.
Sulla scorta di questi presupposti è stato quindi modificato l'art. 510 (a cui anche la disciplina dell'incidente probatorio rimanda, per mezzo dell'art. 401) con l'aggiunta del co. 2-bis che recita: «L'esame dei testimoni, dei periti, dei consulenti tecnici, delle parti private e delle persone indicate nell'articolo 210, nonché gli atti di ricognizione e confronto, sono documentati anche con mezzi di riproduzione audiovisiva»; si specifica poi, al nuovo co. 3-bis, che «La trascrizione della riproduzione audiovisiva di cui al comma 2-bis è disposta solo se richiesta dalle parti».
Sul punto è opportuno chiarire che già allo stato attuale la pressoché totalità degli uffici giudiziari è munita di sistemi di fonoregistrazione delle prove dichiarative formatesi nell'udienza dibattimentale, sebbene un tale obbligo non discenda dalla principale regola codicistica - quella appunto di cui all'art. 510, che parla soltanto di verbale dell'udienza (co. 1) e dell' ausiliario che assiste il giudice e che documenta nel verbale lo svoglimento dell'esame; verbale che, come implicitamente si deduce dal co. 3, può anche essere redatto in forma riassuntiva[5] - né, espressamente, dal Titolo III del libro II del codice di rito, relativo alla documentazione degli atti, né dalle norme di attuazione. Da questa rapida ricognizione dello stato dell'arte può quindi evincersi che è solo con il decreto legislativo in commento che viene introdotto a chiare lettere l'obbligo della documentazione anche (e quindi in aggiunta) al normale verbale riassuntivo, con mezzi di riproduzione audiovisiva, e che la trascrizione che può essere richiesta dalle parti ai sensi del co. 3-bis riguarda globalmente l'audio-video, con trascrizione fonetica e descrizione delle immagini (es. mimica facciale, gesticolazione, ecc.).
È evidente la portata innovativa di queste norme; ed anche in ragione di ciò si prevede che esse non siano immediatamente precettive, avendo l'art. 94 del d. lgs. cit. affermato che la disposizione avrà applicazione a decorrere da un anno dall'entrata in vigore del decreto (1 novembre 2022)[6], individuando così un regime intertemporale ad hoc[7]. D'altronde, la stessa Relazione Illustrativa, che è da considerarsi una rilevante fonte interpretativa nel caso che ci occupa[8], rimarca come la disposizione transitoria di cui all'art. 94 sia dettata dall' «impatto della nuova disposizione, per concedere all'amministrazione i tempi necessari ad organizzare i servizi di registrazione audiovisiva e la conservazione dei supporti informatici»[9].
A questa disposizione, mediante un esplicito riferimento letterale, strettamente si aggancia la nuova formulazione dell’articolo 495, cui è aggiunto il co. 4-ter: «Se il giudice muta nel corso del dibattimento, la parte che vi ha interesse ha diritto di ottenere l’esame delle persone che hanno già reso dichiarazioni nel medesimo dibattimento nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate, salvo che il precedente esame sia stato documentato integralmente mediante mezzi di riproduzione audiovisiva. In ogni caso, la rinnovazione dell’esame può essere disposta quando il giudice la ritenga necessaria sulla base di specifiche esigenze». Ci si rifà quindi, e senza dubbio alcuno, a quei "mezzi di riproduzione audiovisiva" regolamentati, come si è visto, dal combinato disposto di cui all'art. 510 co. 2-bis e all'art. 94 del d.lgs. cit.
3. La questione sottesa, tra Corte Costituzionale e Sezioni Unite
Per comprendere meglio la questione che ci occupa occorre fare un passo indietro. Si ricorderà che le Sezioni Unite del 10 ottobre 2019 (ud. 30 maggio 2019), n. 41736, imp. Bajrami[10], avevano affrontato l’ampio tema delle regole che il giudice subentrante al precedente nel dibattimento deve osservare per una corretta rinnovazione dello stesso, imposte a contrario dall’art. 525 co. 2 c.p.p., secondo cui alla deliberazione della sentenza concorrono i medesimi giudici che hanno partecipato al dibattimento, a pena di nullità assoluta. La dottrina e la giurisprudenza non hanno mancato di sottolineare come il fondamento della norma risieda nella necessità di preservare il rapporto diretto tra giudice e formazione della prova e di cogliere – mediante la diretta percezione, da parte del primo, delle dichiarazioni dei testi escussi – tutti i connotati espressivi, anche non verbali, del dichiarante al fine di valutarne la credibilità e l’attendibilità[11].
Fino al 2019 questa norma veniva applicata dal diritto vivente[12] in maniera alquanto rigorosa, non offrendo d'altronde la littera legis una qualsiasi opzione alternativa, al punto da consentire nella law in action - sopratutto nei processi più complessi e di più lunga durata, ovvero, ed a fortiori, nei piccoli uffici giudiziari in cui frequente è il turn over dei magistrati - una continua rinnovazione degli atti, ampliandosi così a dismisura la durata dei dibattimenti, con tutti i rischi che ne conseguono: primo tra tutti, l'abnorme lungaggine del processo e la prescrizione dei fatti di reato sub iudice.
È su questo delicatissimo punto di snodo che le Sezioni Unite "Bajrami" intervenivano, autorevolmente spalleggiate dalla Corte Costituzionale che, poco prima, con la sentenza n. 132 del 2019[13], pur dichiarando inammissibili le questioni di legittimità prospettate, si prodigava nel rendere un obiter dictum definito dalla dottrina "gigantesco"[14]; perché nella sentenza si andava a descrivere la realtà effettiva delle aule giudiziarie, dove il principio di immediatezza «rischia di divenire un mero simulacro», e questo perche proprio l’ampio lasso di tempo entro cui si svolgono i dibattimenti provoca il rischio che «il giudice che ha iniziato il processo si trovi nell’impossibilità di condurlo a termine, o comunque che il collegio giudicante muti la propria composizione, per le ragioni più varie». Secondo il Giudice delle Leggi, la rinnovazione delle prove dichiarative che ne consegue, ove non vi sia il consenso delle parti alla lettura degli atti ex art. 511, spesso si risolve in una sterile conferma delle dichiarazioni rese a suo tempo dal dichiarante, senza dunque che il tribunale diversamente composto possa trarre alcun beneficio, in punto di immediatezza, dalla riescussione; e ciò «produce costi significativi, in termini tanto di ragionevole durata del processo, quanto di efficiente amministrazione della giustizia penale», anche per la possibilità che il reato sia prescritto prima della sentenza definitiva[15].
Le Sezioni Unite, anche alla luce delle affermazioni della Corte, percorrevano la strada di una interpretazione della norma costituzionalmente orientata, in grado di non far confliggere la regola iuris dell'oralità e dell'immediatezza con il consacrato principio della ragionevole durata e dell'effettività ex art. 111 Cost., così come interpretato nella sentenza n. 132/2019[16].
In estrema sintesi, il Supremo Consesso statuiva che se la parte legittimata fa richiesta di reiterazione dell’esame testimoniale a seguito del mutamento del giudicante, il nuovo giudice potrà azionare l’ordinario vaglio sulla sussistenza di divieti di legge, sulla superfluità e sulla rilevanza della prova. Cosicché, la reiterazione dell’esame potrà essere reputata superflua, ad esempio, quando la parte non avrà indicato nuove circostanze sulle quali esaminare il teste, e quindi sia stata chiesta la pedissequa reiterazione dell’esame, sulle medesime circostanze sulle quali il teste è già stato esaminato; ovvero quando la parte non avrà indicato motivi di inattendibilità del teste cui si accompagni la necessità di sentirlo nuovamente. Se l’esame del teste non viene reiterato, perché non richiesto o perché divenuto impossibile o perché non ammesso dal giudice per superfluità della ripetizione, le dichiarazioni già in precedenza rese, qualora non vietate dalla legge o ritenute superflue o irrilevanti, verranno rese utilizzabili mediante lettura ex art. 511[17].
Va aggiunto che la Corte Costituzionale, sempre nella sentenza n. 132/2019, in questo caso rivolgendosi direttamente al legislatore, suggeriva rimedi "strutturali" tali da assicurare una ragionevole durata del processo e, nel contempo, la tutela del diritto di difesa dell’imputato, senza elidere del tutto il diritto della parte alla nuova audizione dei testimoni di fronte al nuovo giudice (diritto che la Corte definisce «non assoluto, ma modulabile (entro limiti di ragionevolezza)»): un obiettivo raggiungibile attraverso «la previsione legislativa di ragionevoli deroghe alla regola dell’identità tra giudice avanti al quale si forma la prova e giudice che decide»; «come, ad esempio» - rimarcava ancora la Corte - «la videoregistrazione delle prove dichiarative».
Regola di principio e contestuale previsione derogatoria che, in ultimo, venivano introdotte ex novo nel nostro sistema processuale dal d.lgs. n. 150 del 17 ottobre 2022.
4. Una "ragionevole" lettura del regime transitorio della rinnovazione degli atti
L'art. 94 del d.lgs. n. 150 del 17 ottobre 2022, che come visto contempla il regime dilatorio dell'obbligo disposto nell'art. 510, co. 2-bis, non riguarda, expressis verbis, altre norme: neppure l'art. 495 ed il principio di rinnovazione degli atti in caso di mutamento del giudice, con contestuale previsione derogatoria. Cosicché, si potrebbe arguire che quest'ultima disposizione sia pianamente soggetta al principio temporale regolatore delle norme processuali penali del tempus regit actum, e quindi, sempre in assenza di specifica disposizione transitoria o attuativa, applicarsi ai processi in corso. Questo vuol dire che tale diritto attribuito alla "parte che vi ha interesse" potrebbe già essere esercitato a partire dal 1 novembre 2022, giorno dell'entrata in vigore della c.d. "riforma Cartabia", con ricadute, come si immagina, di enorme rilievo pratico sull'andamento dei processi negli uffici giudiziari, sopratutto in quelli medio-piccoli ove il turn over dei magistrati è una realtà consolidata. Se così, poi, occorrerebbe dirimere un ulteriore punto controverso, ovverosia se far valere un tale diritto rispetto alle prove già formate (bastando quindi in questo caso, nel processo in corso, il mero dato formale dell'essere il tribunale innanzi al quale pende il dibattimento diverso da quello che ha presieduto alla formazione della prova dichiarativa, già formatasi) ovvero a quelle che devono ancora essere formate e che poi, successivamente, potrebbero essere (eventualmente) interessate dal mutamento del giudice. La norma, come detto, si limita a sancire la regola, e nulla dispone al riguardo[18].
Ma la norma sancisce, contestualmente, la previsione derogatoria, peraltro icto oculi destinata ad operare nella quasi totalità dei casi laddove la previsione della videoregistrazione di cui all'art. 510, co. 2-bis sia concretamente attuata nelle aule dibattimentali, in specie a seguito dell’entrata in vigore del relativo obbligo.
Può forse essere utile a meglio comprendere la topografia della normativa processuale in parola notare come il d.lgs. n. 150 del 17 ottobre 2022 vada ad operare prima la modifica dell'art. 495, con l'aggiunta del comma 4-ter (all'art. 30, co. 1, lett. f) e dopo la modifica dell'art. 510 (all'art. 30, co. 1, lett. i). Una specificazione affatto ultronea, dal momento che ci fa subito comprendere che il diritto alla rinnovazione degli atti può tenersi soltanto con la vigenza dell' obbligo di documentazione della prova con mezzi di riproduzione audiovisiva - e quindi con l'effettiva possibilità che risulti inverata la condizione della "ragionevole deroga", per riprendere le parole del Giudice delle Leggi.
Diversamente opinando, si andrebbe ad esercitare un diritto processuale pieno e incontrastato diverso da quello concepito dalla norma, che l'ha forgiato dimidiato, amputato, limitato, soggetto cioè alla neutralizzazione per mezzo, appunto, di “ragionevoli deroghe” dalla riproduzione audiovisiva di quelle prove dichiarative formatesi innanzi ad un diverso giudice; e un tale esercizio del diritto andrebbe a violare indirettamente il principio di stretta tipicità delle nullità processuali: perché a salvaguardia di quel diritto sta pur sempre la nullità (assoluta) di cui all' art. 525 co. 2, che potrebbe essere percorsa senza che ne ricorrano - integralmente - i presupposti di legge.
In altre parole, la dicotomia diritto/obbligo (recte: regola/eccezione) è stata costruita dal legislatore nelle forme di un dato letterale complesso, che deve leggersi nella sua interezza: il diritto di una parte (di quella che vi ha interesse) può azionarsi a fronte di un obbligo (non già semplicemente prospettato o genericamente previsto, bensì) vigente, con relativi oneri in capo all’ufficio giudiziario.
Ma, oltre a questa forte e ineludibile argomentazione sistematica, ci sono altre argomentazioni spendibili in favore della presente tesi esegetica.
È interessante notare come non si preveda alcuna sanzione processuale alla mancata documentazione anche con mezzi di riproduzione audiovisiva ex art. 510. Infatti questa regola ha, più che altro, una valenza organizzativa dell'udienza dibattimentale; come per la fonoregistrazione delle udienze, che, come si è visto, non trova una puntuale e organica disciplina codicistica. Collocandosi quindi la regola della riproduzione audiovisiva in questa - fin qui blanda - cornice normativa, essa non viene agganciata da alcuna sanzione processuale, quale in ipotesi potrebbe essere l'inutilizzabilità ai fini della decisione[19].
Eppure il legislatore, come si è visto, si premura di istituire un regime intertemporale, con sospensione di un anno dell'obbligo (organizzativo) di munirsi di apparecchi di video-registrazione e di predisporre la relativa attività ausiliaria. E' del tutto evidente, quindi, che il legislatore, nel coordinare queste norme, aveva in mente i notevolissimi effetti che l'immediata precettività della norma avrebbe creato. E questi non possono essere altro che quelli contemplati all'art. 495 co. 4-ter che, osservato in vitro, senza cioé la sua previsione derogatoria, è sì interessato da un lato, da una sanzione (la nullità assoluta ex art. 525 co. 2), e dall'altro, da una conseguenza, latamente sanzionatoria (la retrocessione del processo al momento in cui veniva assunta la prova innanzi al diverso giudice). Pare evidente che il regime temporale transitorio di cui all'art. 94 si rivolga a questa sanzione e a questa conseguenza; e per converso, all'art. 495 co. 4-ter.
A maggior riprova si consideri quanto esplicitato nella Relazione Illustrativa: «Qualora, però, la prova dichiarativa sia stata verbalizzata tramite videoregistrazione, il giudice non disporrà la riassunzione della prova, salvo che lo ritenga necessario sulla base di specifiche esigenze. Quest’ultima disposizione [quella di cui all'art. 495] deve essere letta in sintonia con le disposizioni di attuazione del criterio di legge delega enunciato dall’art. 2-quater comma 1, lett. a)[20], destinato a introdurre la registrazione audiovisiva delle prove dichiarative come forma ulteriore e tendenzialmente elettiva di documentazione dell’atto»[21].
5. L'emersione di un diritto "modulabile"
Da tutto quanto detto si può agevolmente dedurre che se l'obbligo di videoregistrazione per gli atti dichiarativi dibattimentali (si ribadisce: di natura organizzativa, ricadente sugli uffici giudiziari e sprovvisto di sanzione in caso di inadempimento) entrerà in vigore un anno dopo l'entrata in vigore del d.lgs. cit. (il 1 novembre 2023), è chiaro che sarà quello il momento in cui pienamente matura il relativo diritto processuale di chiedere ed ottenere la riassunzione degli atti in caso di mutamento del giudice; limitato appunto dalla videoregistrazione, avendo il legislatore appurato come questo presidio regolamentare possa essere efficacemente volto «a prevenire il possibile uso strumentale e dilatorio del diritto in questione», come affermava la Corte Costituzionale. Sarà quello, per essere più chiari, il momento in cui la sentenza "Bajrami" e tutti gli individuati criteri-filtro che il giudice poteva (e può ancora) azionare a fronte della esplicita richiesta di riassunzione della prova verranno travolti dal novum del 2022, e quindi dall'incondizionata facoltà, per la parte che vi ha interesse, di chiedere espressamente la riassunzione della prova: a fronte di tale richiesta, e solo a partire per le deposizioni rese a partire da quella data, al giudice spetterà esclusivamente verificare se sussiste o meno quella condizione che occlude il relativo diritto (l'avvenuta riproduzione audiovisiva), fermo restando il potere ex officio del giudice di disporre la rinnovazione sulla base di "specifiche esigenze"[22].
Va specificato che se è vero che la "Bajrami" verrà travolta, ciò non implica la mera reviviscenza del "diritto vivente" che precede la "Bajrami". Questo diritto, che prima veniva appunto estratto dal substrato giurisprudenziale ed interpolato, prima dalle Sezioni Unite del 1999 e poi da quelle del 2019, oggi è da ritenersi inedito perché forgiato – in un dato letterale complesso - precisamente e puntualmente[23], ad immagine e somiglianza dei dicta della Corte Costituzionale del 2019; un diritto, come ha ricordato il Giudice delle Leggi, «modulabile», oggi consacrato nel corpo dell'art. 495 che comprende tanto la sua parte dispositiva quanto la sua inscindibile eccezione: destinata però, nel giro di poco, a diventare regola.
In conclusione, la nuova regola del co. 4-ter dell'art. 495 c.p.p. soggiace sì al principio tempus regit actum, ma non può applicarsi ai procedimenti in corso perché risulta congelata la (nuova) norma che la integra e completa (l'art. 510, co. 2-bis). Per la stessa ragione, anche una volta sbloccato il diritto alla rinnovazione degli atti a seguito dell'entrata in vigore dell'obbligo di videoregistrazione dell'esame testimoniale, questo potrà esercitarsi dalla parte che vi ha interesse solo rispetto alle prove dichiarative che saranno formate dopo il 1 novembre 2023; appunto perché quelle formate prima quella data non erano soggette al regime obbligatorio della videoregistrazione.
È poi, sul piano teleologico dell'interpretazione, appena il caso di ricordare che il comune denominatore della "riforma Cartabia" è quello di accelerare la concatenazione degli atti e di ridurre i tempi dei processi: «Il filo conduttore degli interventi di riforma è rappresentato dall’efficienza del processo e della giustizia penale, in vista della piena attuazione dei principi costituzionali, convenzionali e dell’U.E. nonché del raggiungimento degli obiettivi del P.N.R.R., che prevedono entro il 2026 la riduzione del 25% della durata media del processo penale nei tre gradi di giudizio»[24]. Sarebbe quindi perlomeno paradossale aver dato la stura, con effetti incalcolabili, ad un meccanismo obiettivamente dilatorio, con evidenti ricadute sul principio di ragionevolezza e del giusto processo, così come sancito dalla Corte proprio con riferimento al tema della rinnovazione degli atti nel caso di mutamento del giudice; e sarebbe un ricominciare daccapo, in un gioco dell'oca senza fine, in cui gli unici a scontarne le pregiudizievoli conseguenze sarebbero i cittadini che, dentro e fuori il processo, attendono risposte in tempi certi.
[1] Relazione Illustrativa del Decreto Legislativo recante attuazione della legge 27 settembre 2021 n. 134 recante delega al governo per l'efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari, rinvenibile dal 10 agosto 2022 sul sito istituzionale del Ministero della Giustizia (www.giustizia.it), e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale – Serie Generale n. 245 del 19.10.2022 (supplemento straordinario n. 5), p.8.
[2] Si guardino, sul punto, le modifiche intervenute sugli artt. 294, 351, 357 e 362 c.p.p. sul piano delle indagini, mentre per il processo ci si confronti con gli artt. 401, 441 e 510 c.p.p.
[3] Il codice già riconosce l’esistenza di supporti diversi per la documentazione dell’attività processuale: si pensi ai nastri delle registrazioni delle udienze e delle intercettazioni, il cui supporto è oggi quello digitale, in quanto la traccia audio e/o video è impressa su files. Sul punto vds. P. Tonini, Documento informatico e giusto processo, in Dir. Pen. e Proc., 2009, 4, p. 401 ss.
[4] Più che altro si consentiva la documentazione degli atti anche mediante supporti fonografici e audiovisivi, ma con disciplina alquanto frammentaria: cfr. l' art. 49 att. c.p.p., che regola il limitato aspetto della conservazione dei nastri e dei supporti fonografici e audiovisivi.
[5] Sul punto si guardi al chiaro commento dell'art. 510 c.p.p. svolto da E. Aprile, Commentario Essenziale - Procedura Penale, Piacenza, 2021, p. 547: «Valgono le regole previste per la documentazione dell'attività del giudice: va evidenziato che nella pratica in quasi tutti gli uffici viene utilizzato il sistema stenotipico che garantisce la riproduzione, in forma diretta, delle domande poste dalle parti o dal presidente nonché delle risposte delle persone esaminate e delle eventuali contestazioni; per attività semplici o di limitata rilevanza, e negli uffici giudiziari più piccoli, viene utilizzata la verbalizzazione in forma riassuntiva».
[6] Il d.lgs. n. 150 del 17 ottobre 2022 (c.d. "riforma Cartabia") è infatti stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 243 del 17 ottobre 2022 - Serie Generale, ed entra quindi in vigore il 1 novembre 2022 (ovverosia il quindicesimo giorno successivo alla data di pubblicazione).
[7] Art. 94 (Disposizioni transitorie in materia di videoregistrazioni) - «Le disposizioni di cui all'articolo 30, comma 1, lettera i) [ovverosia le modifiche del 510 già richiamate], si applicano decorso un anno dall’entrata in vigore del presente decreto».
[8] Si rammenta che l'art. 12 delle Preleggi statuisce che «Nell'applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore»; indubbiamente la Relazione Illustrativa citata, pubblicata contestualmente allo schema del decreto legislativo sul sito istituzionale del Ministero della Giustizia, e financo pubblicata da ultimo nella Gazzetta Ufficiale (subito dopo la pubblicazione della legge), esprime validamente l'intentio legis.
[9] Relazione illustrativa, cit., p. 54.
[10] Al riguardo si rinvia al commento di L. Miani, L'immutabilità del giudice del dibattimento dopo la sentenza delle SS.UU. "Bajrami": istruzioni per la sopravvivenza, in Giustizia Insieme, 29 novembre 2019.
[11] Sul punto, cfr. G. Ruta, Note in materia di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale per mutamento del giudice, in Giur. it., 2000, p. 1699.
[12] Almeno a partire dall'arresto delle Sezioni Unite del 15 gennaio 1999, n. 2, in Cass. Pen., 1999, p. 1429, con nota di P. Paulesu, Mutamento del giudice dibattimentale e diritto alla prova testimoniale, p. 2494, che dirimendo un contrasto giurisprudenziale affermava la legittimità della richiesta di riassunzione della prova testimoniale a fronte dell'intervenuto mutamento del giudice, tale da sostanziare un vero ed incontrastato diritto delle parti.
[13] Va rilevato che l'ordinanza di rimessione proveniva da un piccolo ufficio giudiziario siciliano (quello di Siracusa), in cui si celebrava un processo che, a causa del frequente mutamento del collegio, vedeva registrarsi numerosissime riassunzioni delle prove testimoniali (stante il mancato consenso dei difensori degli imputati alla lettura, ai sensi dell’art. 511, dei verbali delle deposizioni testimoniali già assunte in dibattimento), con l'inevitabile allungamento del processo e la definitiva estinzione dei reati per intervenuta prescrizione. Un altro aspetto degno di nota relativo a questa pronuncia costituzionale è che componeva il collegio la prof. Marta Cartabia, già giudice costituzionale, divenuta in seguito Ministro della Giustizia nonché principale promotrice della riforma che ha preso il suo nome, qui in trattazione.
[14] P. Ferrua, Il sacrificio dell’oralità nel nome della ragionevole durata: i gratuiti suggerimenti della Corte costituzionale al legislatore, in Arch. pen., 2, 2019, p. 1; Id., La lenta agonia del processo accusatorio a trent’anni dall’entrata in vigore: trionfante nella Carta costituzionale, moribondo nel reale, in Proc. pen. giust., 2020, p. 10.
[15] Secondo E. Aprile, Osservazioni (a Corte Cost., 29 maggio 2019, n. 132), in Cass. pen., 2019, p. 3623, la Corte Costituzionale ha formulato un «"monito" connesso alla prospettazione di una possibile irragionevolezza» della normativa «per i modi in cui essa è interpretata dal "diritto vivente"».
[16] Va fin da subito rilevato che questa norma, così interpretata dal Supremo Consesso nomofilattico, sollevava vibranti proteste da parte dell'avvocatura penale, ed in particolare dall'Unione Camere Penali Italiane: cfr. Documento n. 29 del 17 ottobre 2019 della Giunta dell’U.C.P.I., consultabile su www.camerepenali.it, nel quale la giunta esprimeva «sconcerto e preoccupazione per l’ennesima violazione delle garanzie difensive».
[17] Aggiunge la Corte che se l’esame del teste è reiterato, è in ogni caso consentita la lettura ex art. 511, delle precedenti dichiarazioni in quanto esse permangono nel fascicolo del dibattimento, di cui fanno legittimamente parte, e sono pertanto pienamente utilizzabili. Questo il principio di diritto statuito: «L’avvenuto mutamento della composizione del giudice attribuisce alle parti il diritto di chiedere, ai sensi degli artt. 468 e 493 cod. proc. pen., sia prove nuove sia la rinnovazione di quelle assunte dal giudice diversamente composto, in quest’ultimo caso indicando specificamente le ragioni che impongano tale rinnovazione, ferma restando la valutazione del giudice, ai sensi degli artt. 190 e 495 cod. proc. pen., anche sulla non manifesta superfluità della rinnovazione stessa».
[18] D'altronde il d.lgs. cit., benché importi un vero e proprio stravolgimento delle indagini e del processo, è in molti punti sprovvista di appositi regimi intertemporali. Vd. la nota del 19.10.2022 della Giunta Esecutiva Centrale dell'Associazione Nazionale Magistrati, Nuovo rito penale: l'urgenza di una adeguata disciplina transitoria, reperibile su www.associazionemagistrati.it, in cui si esprime «Il forte auspicio che si intervenga, con un provvedimento di urgenza, per colmare le lacune di regolazione transitoria della riforma appena varata».
[19] Inutilizzabilità che invece oggi aggancia l'art. 357 (Documentazione dell'attività di polizia giudiziaria) nel caso - disciplinato al co. 3-ter - delle dichiarazioni della persona minorenne, inferma di mente e in condizioni di particolare vulnerabilità non documentate integralmente con mezzi di riproduzione audiovisiva o fonografica.
[20] In realtà, l'art. 2-quater comma 1, lett. a) non è presente né nella legge delega (l. n. 134/2021) né nel d.lgs cit. Trattandosi di un evidente refuso, tale rinvio è inutile; molto utile, invece, il riferimento al necessario coordinamento con le disposizioni che introducono la registrazione audiovisiva delle prove dichiarative come forma ulteriore e tendenzialmente elettiva di documentazione dell’atto.
[21] Relazione Illustrativa, cit., p. 143.
[22] Questo ragionamento non muta laddove, anche prima del 1 novembre 2023, si provvedesse alla videoregistrazione della prova dichiarativa (che sarebbe comunque una documentazione ulteriore e maggiormente utile per il diverso giudice); ciò che rileva è infatti l'obbligo formale, senza la cui entrata in vigore non può invocarsi la nullità assoluta ex art. 525 co. 2.
[23] «Non mancano, naturalmente, anche norme maggiormente puntuali. Una di queste riguarda, forse la più significativa, stante le forti riserve che hanno contrassegnato l’intervento delle Sezioni unite Bajrami, il principio di immediatezza, cioè, il mutamento del colllegio giudicante. Si prevede il rinnovo della prova assunta in contraddittorio dal vecchio collegio, salva l’ipotesi in cui la dichiarazione sia stata videoregistrata, residuando al giudice il potere di disporre la rinnovazione in presenza di specifiche esigenze (non meglio definite)». G. Spangher, La riforma Cartabia: alcuni fils rouge, in Giustizia Insieme, 6 settembre 2022.
[24] Relazione Illustrativa, cit., p. 7.
Asra Panahi, un difetto al cuore che si chiama coraggio di Maria Teresa Covatta
Di fronte alle dilaganti e perduranti manifestazioni delle iraniane e degli iraniani scatenata dal brutale assassinio di Mahsa Amini ci si interroga sulla natura di questa protesta e la si compara alle altre che già l’Iran ha conosciuto e vissuto in un passato anche recente.
È una rivolta o è davvero, stavolta, l’inizio di una rivoluzione? E qual è l’elemento di novità rispetto alle altre manifestazioni di malcontento? Sono davvero, stavolta, i diritti umani e la protesta contro la loro costante e proterva violazione ad aver prevalso in modo potente sulle cause delle manifestazioni di protesta del passato, collegate, di volta in volta, alla lotta contro la corruzione, alla crisi alimentare e alla povertà?
Tutte questioni non indifferenti per poter disegnare un quadro realistico di quanto sta accadendo in Iran e alla comprensione di questa immensa crisi, una di più, che sconvolge il nostro Mondo che abbiamo colpevolmente voluto immaginare almeno in parte pacificato e proteso verso gli ambiziosi obiettivi dell’Agenda 2030 che purtroppo ogni giorno di più sembrano essere una chimera.
E sono davvero le donne la vera cifra di questa protesta? Sembrerebbe di si e sarebbe un segnale immenso perché potrebbe significare che il Goal della parità di genere sta diventando pervasivo in tutte le realtà, persino in quei sistemi che lo hanno considerato contrario alla morale, alla famiglia e alla religione: in una parola semplicemente impensabile.
In realtà le donne hanno sempre partecipato. In Iran hanno dato un grande contributo alla Costituzione del 1979 così come in Italia sono state protagoniste per riportare la democrazia nel nostro Paese.
Hanno partecipato ma non sono mai state veramente riconosciute come attrici protagoniste nella costruzione della democrazia. Al più semplici comparse.
E in questo senso quella iraniana potrebbe essere una vera rivoluzione.
L’altra faccia della medaglia, però, sta nel prezzo che le iraniane in particolare stanno pagando. Non si può non interrogarsi di fronte all’orrore che provocano episodi come quello di Asra, la studentessa iraniana picchiata a morte mentre era a scuola perché non ha cantato l’inno per l’Ayatollah.
La Banalità del Male.
Un gruppo di uomini adulti, investiti di un ruolo istituzionalmente riconosciuto di arbitri della moralità, e pertanto autorizzati a tutto, fanno irruzione in un liceo femminile e picchiano a morte una bambina di 16 anni perché non ha cantato la canzone giusta.
Protetti e “giustificati”, ci fanno raccontare che la bambina in questione era gravemente malata di cuore. Come se l’ipotetica - ma inesistente - malattia pregressa potesse mai giustificare la ferocia e il delitto.
Ma soprattutto ignorando che quando la malattia del cuore è il coraggio delle proprie idee la morte è solo la fine del corpo.
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