ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Intervista a Ciro Sesto a cura di Valentina Busiello
L’Avvocato Ciro Sesto, civilista, ex Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Nola. Consigliere e Segretario del COA di Nola, è stato Assessore agli Affari Sociali del Comune di Ottaviano.
Benvenuto Avvocato Ciro Sesto, ci illustra nel suo percorso professionale di Avvocato civilista, e dopo la sua carica da Presidente dell’Ordine, il suo impegno costante al servizio dei colleghi, soprattutto in termini di formazione?
Sono Avvocato Civilista a tutto tondo. Dopo la mia carica da Presidente dell’Ordine degli Avvocati del foro di Nola, continuo ad impegnarmi nella politica forense, costantemente al servizio dei colleghi per ciò che posso dare all’avvocatura. Sono Consigliere dell’Ordine degli avvocati di Nola, ed intendo continuare a mettere il mio impegno e soprattutto la mia esperienza nell’ambito della formazione, che è fondamentale per i giovani avvocati, al servizio dell’avvocatura. La mia è una visione aperta verso la politica forense, non soltanto verso il Consiglio dell’Ordine, ma soprattutto verso gli altri organi ai quali si può comunicare in sinergia, dare il proprio contributo per l’esperienza acquisita in questi anni.
Parlando della formazione, è fondamentale per i nostri giovani colleghi aggiornarsi su temi della giurisdizione che solo fondamentali. Ho ottenuto, con la mia Presidenza, il riconoscimento della Fondazione forense per la quale mi sono molto impegnato considerandola uno strumento fondamentale per la formazione non solo per gli avvocati, ma anche per la società, poiché come avvocati possiamo dare molto. Immaginiamo la formazione soprattutto dei dipendenti, degli enti locali, ecc., credo che gli avvocati possano e debbano fornire il loro contributo per la crescita sociale. La Fondazione è uno strumento importante ed il riconoscimento ottenuto è motivo di grande soddisfazione.
Avvocato Ciro Sesto, ci parla della Giustizia Civile, le varie problematiche, e le soluzioni secondo lei per arrivare ad una risoluzione?
Nel settore della giustizia civile c’è bisogno di investire risorse. Abbiamo delle difficoltà enormi. Un esempio; ad oggi nel nostro circondario ci sono situazioni di uffici del Giudice di Pace come quello di Sant'Anastasia, che sono stati chiusi per oltre 3 mesi poiché mancava il personale, una situazione inaudita, un fatto gravissimo, un diniego di giustizia. È inaccettabile che al Giudice di Pace di Sant'Anastasia ci siano oltre 1000 sentenze da pubblicare, il che significa, che sono state già redatte dal Giudice, ma che manca il cancelliere che le sottoscriva per poi pubblicarle. È una situazione che è stata portata da parte del, e come Consiglio dell’Ordine all’attenzione del Ministro della Giustizia, e del Presidente della Corte D’Appello.
Per quanto riguarda la funzionalità, si sarebbero dovute investire maggiori risorse sui cancellieri e sui giudici soprattutto, e non sul contorno, come l’ufficio del processo; so che circa 2 miliardi sono stati investiti per i neo assunti che ne fanno parte, e che probabilmente saranno anche stabilizzati, ma non credo che sia questo che possa risolvere i problemi della giustizia civile. Magari una Riforma diversa che investisse maggiormente nella digitalizzazione e nell’informatizzazione sarebbe la migliore soluzione.
Avvocato Sesto, il futuro è una evoluzione proprio nella digitalizzazione del processo sia civile che penale. Cosa ne pensa delle Riforme, e soprattutto della Riforma Cartabia?
Penso che sia uno degli elementi positivi, soprattutto quando parliamo della Riforma Cartabia. Per parlare di situazioni negative, invece, che vengono alla luce, un esempio; abbiamo un processo civile che, soprattutto nella prima fase che porta a fissare il thema decidendum, si è consolidato ed è collaudato nel tempo perché le Norme sono state passate al vaglio della Giurisprudenza. Le nuove Norme porteranno inevitabilmente al rallentamento di tutto il sistema, poiché tutte le volte che si introduce una Norma nuova c’è bisogno che passi tempo affinché possa avere applicazione uniforme ed omogenea. Ad oggi, con la Riforma del processo si addossano nuove responsabilità, nuovi adempimenti alle parti e agli avvocati, per lasciare poi ai Magistrati l’onere successivo di fare le sentenze. Quello che non è stato previsto, è il fatto che ad oggi abbiamo il cosiddetto “collo di bottiglia”, nel senso che, arriviamo all’ultima udienza in cui ci sono le conclusioni, e il Magistrato magari non è pronto per fare la sentenza poiché ha tanti fascicoli e non riesce ad incamerarli tutti, quindi cosa fa? Dispone un nuovo rinvio per la sentenza dando precedenza ai fascicoli più antichi. Un esempio: una causa dell’anno 2017 pronta per la sentenza già nell’anno 2019, ha avuto 4 lunghi rinvii perché il Magistrato aveva molte altre sentenza da emettere per fascicoli più datati, e così, probabilmente, sarà decisa solo nel 2023.
Si vuole velocizzare la prima fase del processo, per poi rimanere sempre bloccati poiché il Magistrato non riesce ad emettere le sentenze. Questo per quanto riguarda il processo di cognizione. Nel processo esecutivo, invece, vediamo delle Norme abbastanza positive, tipo la sburocratizzazione. Ad esempio: oggi per ottenere la cosiddetta “formula esecutiva”, che sarebbe il visto del Magistrato e del cancelliere per potere mettere in esecuzione il provvedimento, occorrono oltre 30 giorni. Quindi, con la Riforma, sarà l’avvocato a poter attestare la conformità ed andare avanti con le esecuzioni. È vero che la prima soluzione è maggiormente garantista a favore dell’esecutato. Però bisogna mettere sulla bilancia anche la possibilità che i tempi di esecuzione debbano essere altrettanto veloci e accessibili, per chi magari vede il suo diritto essere negato, il cittadino in questo caso.
Sulla Riforma Cartabia, credo ci potranno essere degli effetti positivi, ma come tutte le Riforme non si è tenuto conto dei pareri dell’avvocatura, anche se questo c’era stato promesso. Il punto è, quando capita che non vengono digerite le Riforme, non vengono concertate, poiché anche la Magistratura è stata critica su certi versi su queste Riforme, e quando non c’è la volontà, o meglio non vengono ben accolte da chi deve poi applicarle, le Riforme spesso lasciano irrealizzato quel progetto che le aveva ispirate. Ritornando come esempio all’ufficio del processo introdotto con la Riforma possiamo verificare che, se non c’è la collaborazione massima della Magistratura, questi nuovi addetti all’ufficio del processo probabilmente saranno utilizzati per far le fotocopie, gli effetti della loro attività ancora non li vediamo, e speriamo che magari con il passare del tempo possano integrarsi e dare dei risultati maggiormente positivi di quelli che abbiamo avuto fin ora. È soprattutto un problema burocratico, ma il punto è, se abbiamo cause che durano 8-9 anni, non si può pensare di ridurre questi tempi con la modifica del Codice di procedura civile, c’è bisogno di investire in risorse, informatizzazione, cancellieri, ma soprattutto magistrati che possano arrivare a ridurre i tempi, distribuendosi i ruoli.
La digitalizzazione, l’informatizzazione è fondamentale nella giurisdizione, cosa ne pensa è favorevole?
La mia generazione è quella che ha imparato ad usare i sistemi informatici, e sono pienamente favorevole alla digitalizzazione nella giustizia. Da quando ho iniziato da Segretario dell’Ordine degli Avvocati di Nola, ho sempre guardato con attenzione e animo favorevole alla digitalizzazione che ci permette di guadagnare tempo e risultati nel processo ma anche nel lavoro. Se la società va verso la digitalizzazione, certamente il sistema giustizia non può rimanere indietro, anzi noi avvocati dovremo governare il cosiddetto cambiamento, cioè prevenire quello che sarà. Quindi, guardo sempre di più con favore ad un digitalizzato sistema informatico nella giurisdizione. Una ricognizione della digitalizzazione del processo civile e penale e della transizione digitale del Ministero della giustizia per i sistemi informativi automatizzati, soprattutto l’intelligenza artificiale come tecnologia abilitante nel processo giurisdizionale. Ci sono cose che ovviamente non possono essere digitalizzate, ma per il resto poi credo che sia importante soprattutto per noi avvocati avere una visione aperta ad una giustizia digitalizzata.
Nella Giustizia civile una causa si sviluppa dopo anni, pensi nella Giustizia Penale, una prima udienza per esempio si celebrerà nel 2026 in alcuni Tribunali?
Sono situazioni assurde, poiché questo significa negare la giustizia. Allora se pensiamo a casi come questi, dovremmo ripensare anche alle risorse da destinare. Magari non in un’unica direzione ma verificare caso per caso quali sono i Tribunali, o gli uffici giudiziari che hanno bisogno di risorse, attraverso un monitoraggio che comporti la distribuzione di queste risorse nei posti in cui sono maggiormente necessari.
Le diverse stagioni dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori: dal paradigma della reintegrazione al disincanto della tutela economica. Quasi un racconto
Recensione di Vincenzo Antonio Poso a Giovanni Amoroso
1. Il libro di Giovanni Amoroso (ARTICOLO 18 STATUTO DEI LARORATORI. Una storia lunga oltre cinquant’anni, Cacucci Editore, Bari, 2022), pubblicato nella prestigiosa Collana “Biblioteca di cultura giuridica”, diretta da Pietro Curzio, ci consente di ripercorrere le tappe fondamentali, anche delle politiche sociali ed economiche del nostro paese, della norma più amata e più contestata del nostro diritto del lavoro, guidati, come in un inedito viaggio sentimentale, da un osservatore non fazioso, studioso e magistrato rigoroso, ora giudice costituzionale.
Ma parlare, con riferimento al libro recensito, solo di articolo 18 è riduttivo, perché l’Autore, con la filigrana di questa norma, ha scritto un piccolo “trattato” sulle tutele dei lavoratori contro i licenziamenti illegittimi, diverse nel tempo, un tempo lungo oltre cinquant’anni, e nelle situazioni date, che il nostro legislatore ha costruito, talvolta con evidenti compromessi e sbavature, non sempre nel rispetto della grammatica costituzionale ( artt. 3, 4 e 35) ed europea ( art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e art. 24 della Carta sociale europea).
Mai come in questo caso, torna molto utile leggere il libro dalla fine, dalla « Nota conclusiva » ( pagg. 299 e ss.), dove l’Autore individua tra i punti fermi, oltre al principio della «necessaria causalità del licenziamento che, salvo le residuali ipotesi di libera recedibilità ad nutum, deve essere assistito da giusta causa o giustificato motivo, soggettivo o oggettivo» ( da cui consegue la giustiziabilità delle ragioni del licenziamento), la « “reintegrazione” nel posto di lavoro del dipendente illegittimamente licenziato quale fattispecie tipica e paradigma speciale delle conseguenze dell’inefficacia o dell’invalidità dell’atto datoriale di recesso», nonostante la ridotta area di applicazione della c.d. tutela reale e la differenziazione, per presupposti e caratteristiche, delle tutele.
Mentre molti studiosi si attardano a individuare il “peccato originale” dell’articolo 18, Giovanni Amoroso, senza enfasi, ma con una chiara opzione interpretativa, che si percepisce sin dalla ricostruzione del contesto storico e politico-sociale in cui è nato lo Statuto dei Lavoratori ( cap. I, pagg. 19 e ss.), riconosce nell’articolo 18 degli anni ’70 e nella tutela reale dallo stesso delineata l’archetipo iniziale dal quale non si può prescindere, nonostante il ridimensionamento della sua applicazione dopo la c.d. riforma Fornero e il Jobs Act, in una linea di continuità della legge sulla giusta causa e sul giustificato motivo che ha sostanzialmente retto negli anni, dichiarando ( come del resto ha fatto in più occasioni la Corte Costituzionale, da ultimo con la sentenza n. 183 del 22 luglio 2022), in chiusura del volume (pag. 304) « che c’è ormai una ( non più procrastinabile) esigenza di coerenza intrinseca, che chiama il legislatore a rivedere la disciplina dei licenziamenti, individuali e collettivi, in termini globali per assicurare organicità e sistematicità della regolamentazione».
Corsi e ricorsi storici.
La Corte Costituzionale, con la sentenza 27 gennaio 1958, n. 7, dichiarando non fondata la q. l. c. di una legge della regione siciliana che, in contrasto con la norma statale dell’art. 2118 cod. civ., aveva previsto la stabilità dell’impiego in caso di licenziamento illegittimo dei dipendenti delle esattorie comunali, aveva affermato, con un monito al legislatore rimasto senza risposta per molti anni, la tendenziale estensione del principio della stabilità del rapporto di pubblico impiego anche ai dipendenti privati il cui licenziamento doveva essere giustificato e non arbitrario.
Sempre la Corte Costituzionale, con la sentenza 9 giugno 1965, n. 45 ( sempre richiamata dalla giurisprudenza costituzionale, anche recente),pur dichiarando non fondata la q. l .c. dell’art. 2118 cod. civ., sollevata con riferimento all’art. 4, Cost, riconobbe il diritto al lavoro come « fondamentale diritto di libertà della persona umana », invocando l’intervento del legislatore per tutelare i lavoratori incisi da illegittimi licenziamenti, così aprendo la strada alla l. 15 luglio 1966, n. 604.
Con la sentenza 20 novembre 1969, n. 143 ( specificamente richiamata dalla sentenza della Corte di Cassazione 6 settembre 2022, n. 26246 – confermata dalla recente pronuncia 20 ottobre 2022, n. 30957 - che, a seguito delle riforme in materia di licenziamento del 2012 e del 2015, ha affermato il principio della decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi solo a far data dalla cessazione del rapporto), la Corte Costituzionale ha evocato la «particolare forza di resistenza » del pubblico impiego, che assicura normalmente la continuità del rapporto di lavoro.
Sono, queste, solo alcune delle pronunce della Consulta, che l’Autore prende in considerazione, per descrivere, insieme alle leggi precedenti, il contesto in cui nasce, nell’epoca delle grandi riforme - quelle possibili – nel periodo che va dalla seconda metà degli anni ’60 alla prima metà degli anni ’70 (che vide in Gino Giugni la mano ferma dello scultore, in una stagione politica favorevole), la l. 20 maggio 1970 e l’art. 18 che disciplinava la reintegrazione nel posto di lavoro e l’integrale risarcimento del danno in conseguenza di un illegittimo licenziamento (cap. I, pagg. 33 e ss.).
Particolarmente significative sono le pagine (cap. I, pagg. 36 e ss.) che Giovanni Amoroso dedica alla portata innovativa dell’art. 18, st. lav., che fa «sistema» con la disciplina introdotta dalla l. n. 604/1966 (lo dice anche la Corte Costituzionale nella sentenza 12 dicembre 1972, n. 174, che riconobbe alla stabilità reale dello statuto dei lavoratori la forza di resistenza tipica del regime di pubblico impiego, tale da consentire la decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi dei dipendenti privati in costanza di rapporto), alla natura dell’ordine di reintegrazione ma anche alla garanzia del diritto al lavoro e alla non indefettibilità, sul piano costituzionale, del regime della reintegrazione, in base agli apporti della giurisprudenza costituzionale ( v., tra le tante, le sentenze n. 46 del 7 febbraio 2000; n. 303 dell’11 novembre 2011; n. 194 dell’8 novembre 2018; n. 125 del 19 maggio 2022).
Con riferimento specifico a quest’ultimo profilo, l’Autore certamente riconosce che la reintegrazione non costituisce l’unico paradigma attuativo dei principi e dei valori costituzionali, ma per un corretto bilanciamento degli stessi deve essere realizzato un equilibrato sistema che assicuri tutele adeguate ai lavoratori illegittimamente licenziati e dissuasive della commissione di atti illeciti o comunque illegittimi da parte dei datori di lavoro.
2. La prima fase di applicazione dell’art. 18, sino alla fine degli anni ’80, viene analizzata (cap. II, pagg. 45 e ss.) sulla base dei significativi arresti delle Sezioni Unite che hanno disegnato il perimetro della tutela reintegratoria, in chiave estensiva, con riferimento al limite dimensionale dell’azienda ( prevalenza del criterio dimensionale dell’unità produttiva, senza dare rilievo anche al concorrente criterio dell’organico complessivo oltre i 35 dipendenti: interpretazione non conforme al dato testuale delle norme, che però anche l’Autore condivide per l’impatto sociale della tutela); e, soprattutto per gli apporti della giurisprudenza costituzionale, sempre in chiave estensiva ( con interpretazione adeguatrice al canone costituzionale dell’eguaglianza ), con riferimento all’applicazione della tutela reintegratoria in ogni caso di licenziamento illegittimo ( pur nel rispetto dei requisiti oggettivi e soggettivi).
La specialità del vizio del licenziamento arretra di fronte al regime delle tutele, generalizzate; mentre è la differenziazione delle tutele la cifra identificativa delle riforme del 2012 e del 2015.
Non mancano approfonditi riferimenti alle problematiche riguardanti l’esecuzione dell’ordine di reintegrazione (che rappresentava il banco di prova della effettività della tutela apprestata dalla norma statutaria); l’autonomia della tutela risarcitoria (che si affianca, senza sostituirla, alla tutela reintegratoria); la decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi in costanza di rapporto (ma solo in ragione della sua stabilità reale).
3. Le cinque iniziative referendarie, dal 1981 al 2017, che dimostrano l’interesse suscitato dall’art. 18 - sia per l’estensione della sua applicazione, che per la sua abrogazione - sono rimaste tutte senza esito, tranne quella del 1989 che porterà il legislatore a recepire le modifiche proposte con i quesiti referendari adottando, con una forte accelerazione dei lavori parlamentari, la l. 11 maggio 1990, n. 108, così impedendo la consultazione popolare.
L’Autore, che affronta tutti questi temi nel cap. III, pagg. 71 e ss. ( esaminando anche alcuni aspetti tecnici del referendum e delle sentenze in punto di ammissibilità pronunciate dalla Corte Costituzionale), mette bene in evidenza che la tutela reintegratoria fu ampliata in maniera significativa dalla l. n. 108/1990, con una impronta di complessiva razionalizzazione del sistema – coniugando il limite dimensionale complessivo dell’azienda con le minime unità produttive – anche se l’obiettivo del Comitato promotore era molto più ambizioso, perché mirava ad imporre una generalizzazione della tutela statutaria ( in questa stessa direzione, peraltro, si era mossa la precedente iniziativa referendaria del 1981, relativa a tre diverse norme – art. 28, comma primo; art. 35, comma primo; art. 37 – che però fu bocciata dalla Corte Costituzionale non essendo omogeneo il quesito proposto).
Le vicende che contrapposero il Comitato promotore del referendum all’Ufficio Centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione ( che videro, anche, dopo la seconda decisione negativa, un inedito conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, dichiarato inammissibile dalla Corte Costituzionale) dimostrano quanto fosse rilevante la questione che avrebbe potuto portare – e l’Autore (pagg. 81-82) sembra propendere per questa soluzione – l’organo centrale per il referendum a spostare sulle nuove disposizioni normative il quesito referendario, in applicazione dell’art. 39, l. 25 maggio 1970, n. 352.
In un mutato contesto politico - e in controtendenza rispetto al passato -, si inserisce l’iniziativa referendaria del 1999 per l’abrogazione tout court dell’art. 18, disattesa dall’elettorato l’anno successivo. In questo caso Giovanni Amoroso (pagg. 83 e ss.) si dilunga sulla sentenza di ammissibilità pronunciata dalla Corte Costituzionale, 7 febbraio 2000, n. 46, che affermò con nettezza che la garanzia del diritto al lavoro previsto dagli artt. 4 e 35 della Costituzione può essere attuata anche con strumenti diversi dalla reintegrazione, secondo una scelta affidata alla discrezionalità del legislatore.
Resta indefettibile, quindi, anche per l’Autore (pagg. 84-85) il controllo giurisdizionale delle ragioni del licenziamento e la tutela indennitaria od obbligatoria in caso di licenziamento illegittimo, quale «nucleo costituzionalmente irrinunciabile» della tutela del lavoratore illegittimamente licenziato.
Tralasciando, qui, l’esame del referendum del 2002, diretto, nuovamente, ad ampliare l’area di applicazione dell’art. 18, Giovanni Amoroso prende più diffusamente in considerazione l’iniziativa referendaria del 2016 per contrastare gli effetti della riforma c.d. Fornero, con riferimento all’art. 18 novellato, utilizzando la tecnica del ritaglio e dell’intero Jobs Act (pagg. 87 e ss.), entrando nel merito della sentenza 27 gennaio 2017, n. 26 ( condivisa dall’Autore, pagg. 87 e ss.) che si era pronunciata per l’inammissibilità del quesito referendario che da una parte manifestava un carattere parzialmente propositivo ( con riferimento alla riforma del 2012), che contraddiceva la funzione meramente abrogativa affidata dal legislatore all’istituto di democrazia diretta; e dall’altra difettava dei necessari requisiti di univocità e omogeneità.
In buona sostanza, come scrive Giovanni Amoroso (pag. 91): «La saldatura in un unico quesito ha comportato l’inammissibilità della complessiva richiesta referendaria».
4. Nella trattazione della seconda fase, dal 1990 al 2012 (cap. IV, pagg. 93 e ss.) l’Autore descrive puntualmente le novità introdotte dalla l. n. 108/1990, che, con la riscrittura dell’art. 18, ha comportato una più ampia applicabilità della tutela reale, ma ha anche riformulato il testo dell’art. 8, l. n. 604/1966, nei termini che conosciamo.
Come abbiamo già detto, l’intervento del legislatore ha evitato lo svolgimento dell’iniziativa referendaria del 1989.
Gli aspetti rilevanti in questa fase, secondo l’Autore, sono tre.
Innanzitutto, una chiara affermazione, a partire dall’intervento delle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza 12 aprile 1976, n. 1268, degli oneri probatori delle parti con riferimento al requisito dimensionale del datore di lavoro, rilevante anche ai fini della sospensione della prescrizione dei crediti retributivi nei rapporti di lavoro caratterizzati dalla stabilità reale, nei termini descritti dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 174 del 12 dicembre 1972; con una successiva presa di posizione sempre delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza 4 marzo 1988, n. 2249, che ha posto a carico del datore di lavoro l’onere di provare la sussistenza del requisito occupazionale per l’applicazione del regime di tutela reale che consentiva la decorrenza della prescrizione in corso di rapporto, comunque restando a carico del lavoratore l’onere della prova dello stesso requisito ai fini della invocata tutela reintegratoria ( o dello stesso datore di lavoro, per escluderla).
Sta di fatto, però, che con le modifiche apportate dalla l. n. 108/1990, che avevano comportato anche una generalizzata tutela obbligatoria, sganciata dai requisiti dimensionali, il problema della ripartizione dell’onere della prova, che sembra sopito, si ripropone, con contrastanti opzioni interpretative assunte dalla Sezione Lavoro della Cassazione, che, con la pronuncia a Sezioni Unite 10 gennaio 2006, n. 141, ha riportato l’onere della prova del requisito dimensionale in capo al datore di lavoro - richiamando anche il principio della c.d. vicinanza della prova – affermando un principio di civiltà giuridica ribadito anche in successive pronunce.
L’Autore spiega bene il cambio di passo della giurisprudenza di legittimità (pag. 102): «Il risultato complessivo è stato quello di costruire la tutela reale come fattispecie generale, seppur condizionata alla ricorrenza del requisito dimensionale, e invece la tutela obbligatoria, come fattispecie speciale, applicabile come eccezione alla regola».
Il secondo profilo rilevante della riforma è l’unificazione, in chiave risarcitoria, del regime delle conseguenze patrimoniali del licenziamento illegittimo, dall’intimazione del licenziamento alla effettiva reintegrazione.
Il terzo profilo rilevante è rappresentato dalla indennità sostitutiva della reintegrazione., che giustamente l’Autore considera una novità assoluta, che ha trovato, peraltro, il giudizio positivo del legislatore anche dopo le riforme del 2012 e del 2015 (con piccole differenze, relative, essenzialmente, alla base di calcolo), che viene a qualificarsi come istituto di natura sostanziale e processuale.
Questa previsione, però, dimostra, ad avviso di chi scrive, lo scivolamento della tutela reale verso quella meramente indennitaria, compensativa e risarcitoria, con la previsione di un “prezzo”, uniforme, della reintegrazione.
Nel perimetro disegnato, dopo la sentenza della Corte Costituzionale 4 marzo 1992, n. 81, dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza 27 agosto 2014, n. 18353, l’Autore si dimostra favorevole alla monetizzazione della reintegrazione, risultando, comunque, del tutto evidente l’incoerenza del regime delineato dal legislatore con la costruzione dell’indennità sostitutiva, da parte della Corte Costituzionale, come obbligazione con facoltà alternativa dal lato del creditore, venendosi così a creare incertezza nella posizione del datore di lavoro, condizionato dalla scelta del lavoratore. È la richiesta della indennità sostitutiva che determina la risoluzione del rapporto di lavoro.
L’Autore individua, anche, un problema, che potrebbe essere affrontato e risolto (in termini di ragionevolezza intrinseca ma anche di violazione del principio di eguaglianza) dalla Corte Costituzionale, perché, dopo la sua pronuncia n. 194 dell’8 novembre 2018, l’indennità compensativa del licenziamento ingiustificato in regime di Jobs Act è di importo pari, nella misura massima di 36 mensilità, ad oltre il doppio dell’indennità sostitutiva della reintegrazione.
5. Nella trattazione dei licenziamenti è la terza fase relativa alla c.d. riforma Fornero, introdotta dalla l. 28 giugno 2012, n. 92, che assume importanza fondamentale, anche per l’attualità della norma rivisitata (cap. V, pagg. 113 e ss.), ormai applicata da un decennio.
La considerazione iniziale dell’Autore (pagg. 114 e ss.), che pone l’esordio di questa nuova fase nella l. 4 novembre 2010, n. 183, c.d. collegato lavoro (art. 30: limitazione della discrezionalità del giudice nella valutazione delle motivazioni dei licenziamenti: art. 31: agevolazione delle soluzioni conciliative e di arbitrato; art. 32: restrizione dei tempi di impugnazione dei licenziamenti) è del tutto lineare e condivisibile.
È una riforma, quella del 2012, che nasce prima – nelle intenzioni dei riformatori, dentro e fuori il Parlamento – del Governo Monti.
Meno condivisibile è la tesi dell’Autore che, seppure non espressamente così esplicitata, considera le due riforme del 2012 e del 2015 facce della stessa medaglia (pagg. 116 e ss.), perché esse, ad avviso di chi scrive, sono ispirate da diverse e non convergenti intenzioni del legislatore: non foss’altro perché con il Jobs Act si mette fine all’applicazione dell’art. 18 per come lo abbiamo conosciuto (anche se qualcosa della vecchia norma resta).
L’archetipo dell’art. 18 abbandona il suo ruolo (anche se non è del tutto rinnegato) di istituto normativo storicamente posto a tutela dei lavoratori illegittimamente licenziati e lascia il posto ad una diversa disciplina, che rompe con il passato, applicabile ai lavoratori assunti dal 7 marzo 2015. È il tempo che marca due tutele differenti.
Certamente, come scrive Giovanni Amoroso, resta confermato il principio del recesso causale, che marginalizza la libera recedibilità ad nutum, in base a quanto stabilito dalla l. n. 604/1966, che pone i presupposti del licenziamento giustificato e non arbitrario, rafforzati dall’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e dall’art. 24 della Carta sociale europea.
Con la c.d. riforma Fornero l’unitaria previsione della reintegrazione ( termine che scompare anche nella rubrica del novellato art. 18 a favore della «Tutela del lavoratore in caso di licenziamento», con una scelta lessicale che è la dimostrazione plastica della rilevante modifica sostanziale apportata) lascia il posto alla frammentazione delle tutele ( pagg. 120 e ss.); quattro distinti regimi – due di tutela reintegratoria e due di tutela indennitaria – senza una netta linea di demarcazione tra di loro, che secondo l’Autore rappresenta il vizio di origine di questa disciplina, tanto complessa, quanto ( inutilmente) complicata, perseguendo il legislatore della riforma il fine, nemmeno tanto celato, di rendere meno stabile il rapporto di lavoro in alcuni casi di licenziamento illegittimo, per rendere definitive ( ma non insindacabili) le scelte datoriali di risoluzione del rapporto di lavoro.
In controtendenza con quanto recentemente affermato dalla Corte di Cassazione con le sentenze n. 26246/2022 e n. 30957/2022, più sopra citate, l’Autore ( riprendendo un discorso svolto anche nelle pagine precedenti) propende per la decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi in costanza di rapporto, anche in caso di applicazione dell’art. 18 novellato, che, seppure nella forma attenuata, prevede in alcune ipotesi ( ma non in tutte) la reintegrazione, restando relegata la diversa soluzione solo all’area della tutela obbligatoria e della libera recedibilità ( pagg. 129-130).
Tralasciando, in questa sede, l’esame della questione ( con i tanti problemi, non tutti risolti) del rito speciale per l’impugnazione dei licenziamenti, messo da parte prima dal legislatore del Jobs Act e poi dalla recente riforma del processo civile, si passa alle specifiche tutele sostanziali, che l’Autore analizza puntualmente secondo lo schema differenziato e frammentato che prima abbiamo messo in evidenza: «tutela piena reintegratoria» ( pagg. 132 e ss.), «tutela reintegratoria attenuata» ( pagg. 139 e ss.), «tutela indennitaria attenuata» ( pagg. 146 e ss.), «tutela indennitaria ridotta» ( pagg. 149 e ss.).
Su questi temi, solo alcune brevi osservazioni di lettura.
Per quanto riguarda le tutele reintegratorie, l’Autore, mentre vede una netta linea di demarcazione tra il licenziamento nullo o inefficace per difetto di forma scritta nella sua comunicazione e licenziamento ingiustificato, individua ( pag. 135) «un punto di criticità essenzialmente nella contiguità tra il licenziamento nullo perché discriminatorio e il licenziamento ( disciplinare) annullabile per insussistenza del fatto contestato o per tipizzata non proporzionalità dell’addebito» con la conseguenza che: «Quando è radicalmente insussistente la ragione posta dal datore di lavoro a fondamento del licenziamento disciplinare , o per colpa, il recesso datoriale si avvicina, come fattispecie, a quello qualificabile come discriminatorio».
Nella «tutela reintegratoria attenuata» di cui al quarto comma dell’art. 18, secondo l’Autore, lo scostamento dalla tutela reintegratoria piena è segnato dal fatto che l’indennità risarcitoria consegue non più all’ “ordine di reintegrazione” ( come nel primo comma), ma alla “condanna alla reintegrazione” ( pag. 139); mentre la limitazione dell’indennità risarcitoria per il periodo successivo alla pronuncia giudiziale si pone in controtendenza rispetto al precetto dell’art. 614- bis cod. proc. civ., che prevede misure di coercizione indiretta in caso di condanna all’adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro (pag. 141): rappresentando, comunque, questo limite una criticità perché «non dà rilevanza al protrarsi dell’inottemperanza del datore di lavoro alla condanna alla reintegrazione e, prima ancora, alla durata del giudizio, che potrebbe, esso solo, superare i dodici mesi» (sempre pag. 141).
È nelle ipotesi della tutela indennitaria ordinaria di cui al quinto comma dell’art. 18 (pagg. 146 e ss.) e della tutela indennitaria ridotta di cui al successivo sesto comma (pagg. 149 e ss.) che si riscontra il vero cambio di passo del legislatore della riforma del 2012 che riporta, nei confini della vecchia norma novellata, la tutela obbligatoria, sebbene con presupposti e limiti diversi rispetto a quella disciplinata dall’art. 8, l. n. 604/1966.
Sull’indennità risarcitoria, ma omnicomprensiva (quindi compensativa di ogni danno?) traspare l’opinione dell’Autore favorevole alla limitazione solo al danno patrimoniale, potendo non essere ricompresi anche i danni ulteriori di natura non patrimoniale (biologico, morale, all’immagine), che resterebbero risarcibili secondo i criteri ordinari, dando comunque conto dell’orientamento interpretativo restrittivo, anche recente, della Corte di Cassazione (pag. 148).
L’insussistenza del fatto contestato nel licenziamento per giustificato motivo soggettivo (pagg. 152 e ss.) si deve misurare con l’osservazione, non di poco conto, dell’Autore secondo la quale «l’inadempimento – e con esso l’illiceità – sussiste sia se di “scarsa importanza” (art. 1455 c.c.), sia se, superata questa soglia, sia “notevole” (art. 3 legge n. 604/66)» (pag. 156).
Non meno problematica è l’ipotesi dell’insussistenza del fatto ( non più manifesta, dopo la sentenza della Corte Costituzionale 1° aprile 2021, n. 59) posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo ( pagg. 157 e s..), che l’Autore correttamente riferisce, nei presupposti non solo materiali, ma anche giuridici, alla previsione dell’art. 3, l. n. 604/1966, considerando, comunque, la mancanza di un nesso causale tra recesso datoriale e motivo addotto a suo fondamento sussumibile nella nozione di insussistenza del fatto.
Degna di segnalazione è l’osservazione ( da chi scrive condivisa) secondo la quale, dopo che l’insussistenza del fatto è stata depurata dalla sua natura manifesta, nella cui nozione si faceva rientrare anche il mancato assolvimento dell’onere del repêchage, questo orientamento interpretativo deve essere ripensato: «In realtà – scrive l’Autore – il repêchage viene in rilievo solo dopo che si sia esclusa la fattispecie dell’insussistenza del “fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo”; quindi sembra essere esterno alla fattispecie stessa. Conseguentemente, una volta verificata la sussistenza di un fatto idoneo nel senso sopra specificato, il mancato assolvimento dell’onere probatorio del repêchage rende applicabile la tutela indennitaria e non già quella reintegratoria» (pagg.158-159).
Su questo punto l’Autore ritorna anche successivamente, a pag. 274, quando prende in esame, specificamente, la giurisprudenza costituzionale.
Acquisita come autonoma (per gli approdi della giurisprudenza costituzionale e di legittimità) la fattispecie del licenziamento disciplinare, Giovanni Amoroso passa ad esaminarla (pagg. 161 e ss.), con dovizia di particolari (anche con riferimento al preventivo procedimento disciplinare), differenziandosi le tutele nei diversi casi di vizi sostanziali e vizi formali o procedurali.
L’Autore non sembra esprimere riserve sulla coerenza sistematica delle fattispecie che si riferiscono ai vizi sostanziali del licenziamento disciplinare (insussistenza del fatto contestato e previsione di condotte punibili per contratto collettivo o codice disciplinare con una sanzione conservativa), ritenuto, peraltro, positivamente recuperato il canone di proporzionalità tra inadempimento e sanzione.
Viene, in proposito, espressa, seppure indirettamente, adesione al recente orientamento interpretativo dei giudici di legittimità (Cass. n. 11 aprile 2022, n. 11665), che, proprio sul versante della proporzionalità, hanno affermato, in controtendenza rispetto a precedenti decisioni, che il giudice può procedere alla sussunzione della condotta addebitata al lavoratore nella previsione contrattuale della punizione con sanzione conservativa, anche nel caso di clausole elastiche o generali (pag. 170).
Una decisione, quella della Cassazione, discutibile, a parere di chi scrive, perché ci riporta al passato, senza tenere in debito conto la norma espressa e le intenzioni del legislatore che hanno valorizzato il perimetro di applicazione delle sanzioni conservative; e comunque impone alle parti sociali di procedere con maggiore accortezza e consapevolezza alla tipizzazione delle fattispecie disciplinari.
La frammentazione delle tutele si ripercuote anche sui licenziamenti collettivi illegittimi (pagg.183-184), che in questa sede non posiamo specificamente analizzare.
6. Alla riforma introdotta dal Jobs Act del 2015 (d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23), modificato, in parte, dal c.d. decreto dignità (d.l. 12 luglio 2018, n. 87, conv., con mod., dalla l. 9 agosto 2018, n. 96) è dedicato il capitolo VI (pagg. 185 e ss.).
Qui Giovanni Amoroso conferma la sua tesi, esposta anche nelle pagine precedenti, secondo cui, nonostante la disciplina derogatoria introdotta dal legislatore del 2015, non c’è una effettiva fuga dall’art. 18, anche se la nuova disciplina si affianca a quella precedente, dell’art. 18 novellato dalla c.d. riforma Fornero, applicandosi solo ai lavoratori assunti dal 7 marzo 2015.
Apprezzabile è la ricostruzione da parte dell’Autore del complessivo contesto riformatore in diretta applicazione delle deleghe poste con la l. 10 dicembre 2014, n. 183 (pagg. 188 e ss.).
Resta confermata la tutela differenziata nei quattro regimi, due reintegratori e due indennitari, secondo lo schema legislativo precedente, ma con alcune differenze che l’Autore mette bene in evidenza (pagg. 199 e ss.).
Solo alcune osservazioni.
Il riferimento all’art. 15, st. lav. (e non anche all’art. 3, l. n. 108/1990), caratterizza il licenziamento discriminatorio, per il quale vale la tutela reintegratoria piena.
In controtendenza con la precedente disciplina, che prevede la reintegrazione attenuata, è piena la tutela reintegratoria del lavoratore licenziato senza giustificazione per motivo di disabilità.
Nel perimetro della tutela solo indennitaria rientrano i licenziamenti economici, individuali o collettivi; mentre all’insussistenza del fatto materiale del licenziamento disciplinare consegue la reintegrazione attenuata (v., sul punto, pagg. 207 e ss.).
Per la tutela indennitaria è assorbente il richiamo delle c.d. tutele crescenti, con l’intervento demolitorio della sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018 e l’incremento della soglia minima e massima, da sei a trentasei mensilità, introdotto dal c.d. decreto dignità.
7. Degno di interesse è il Cap. VII che affronta il delicato tema della reintegrazione nell’impiego pubblico privatizzato (pagg. 217 e ss.), da ultimo prevista dalla c.d. riforma Madia del 2017 (pagg. 224 e ss.), a superamento della incerta applicazione dell’art. 18, st. lav., nel testo precedente alla c.d. riforma Fornero.
La disciplina speciale per i dipendenti pubblici, che assicura maggiore certezza per le conseguenze patrimoniali del licenziamento illegittimo, accentua, secondo l’Autore, la sensibile divaricazione rispetto al regime applicabile ai dipendenti privati (pagg. 228 e 229), essendo applicabile solo ai primi la stabilità reale assicurata dall’art. 18 anteriforma, sebbene mediante la previsione di una specifica norma che riprende il contenuto di quella statutaria ( art. 63, comma 2, d. lgs 30 marzo 2001, n. 165, così come modificato dall’art. 21, comma 1, lettera a), d. lgs. n. 75 del 25 maggio 2017).
A fondamento di questa differenziazione di trattamento, che l’Autore condivide (anche sulla scorta della giurisprudenza costituzionale che da ultimo ha affrontato queste tematiche: v., ad es., le sentenze 30 luglio 2021, n. 180 e 3 ottobre 2019, n. 218), c’è il principio del buon andamento della pubblica amministrazione previsto dall’art. 97, comma 2, Cost., che, finalizzando ad esso l’attività del pubblico dipendente, lo tutela maggiormente in caso di licenziamento illegittimo.
Ma è sufficiente, il suddetto principio, a giustificare questa disparità di trattamento, che sembra contraddire anche le finalità perseguite dal legislatore che ha posto le basi della privatizzazione del lavoro pubblico, in aderenza alle norme che regolano il lavoro dei dipendenti privati espressamente richiamate?
È un punto di domanda che forse la Corte Costituzionale, se chiamata a decidere, potrebbe sciogliere, se non il legislatore.
8. Nel cap. VIII (pagg. 231 e ss.), l’Autore, da par suo, propone ai lettori un completo quadro della più recente giurisprudenza costituzionale che si è pronunciata sui licenziamenti dal 2018 al 2022, che, con alcune sentenze storiche, conseguenti alla c.d. riforma Fornero e al Jobs Act, hanno aumentato le tutele dei lavoratori licenziati senza giustificazione, entrando anche nel merito della ragionevolezza, in termini di coerenza del legislatore degli ultimi dieci anni.
Il problema non riguarda solo l’alternativa tra tutela reintegratoria e tutela indennitaria (significativamente valorizzata (soprattutto) dal d. lgs. n. 23/2015, ma anche come il legislatore è intervenuto sulla tutela indennitaria.
È il caso della sentenza 8 novembre 2018, n. 194 ( pagg. 233 e ss.), che ha severamente criticato, dichiarandolo illegittimo, il rigido criterio automatico, basato sull’anzianità di servizio, di determinazione della indennità risarcitoria previsto dall’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 ( anche nel testo migliorativo, per i limiti minimo e massimo, introdotto dal c. d. decreto dignità del 2018 a partire però, dalla data del 14 luglio 2018), posto a fondamento delle c. d. tutele crescenti, che comportava l’applicazione di una misura inadeguata e non dissuasiva del licenziamento illegittimo.
Si riespande, quindi, nella sua massima discrezionalità, il potere di valutazione della fattispecie del licenziamento e di determinazione dell’indennità compensativa da parte del giudice, privo di limiti quantitativi, fermi restando quello minimo e quello massimo (anche con riferimento ai lavoratori di considerevole anzianità di servizio).
Come è noto sono stati disattesi altri profili di illegittimità costituzionale per violazione dei principi di eguaglianza e ragionevolezza, che in questa sede non possiamo prendere in considerazione.
L’Autore dimostra condivisione rispetto alla pronuncia costituzionale (con il richiamo dei criteri di cui agli articoli: 8, l. n. 604/1966, testo vigente e precedente; 30, comma 3, l. n. 183/2010; 18, c.5, st. lav., testo vigente), evocando il principio della personalizzazione del danno, ed esprimendo questo principio che , in sintesi, rappresenta bene la sua opinione : «L’incidenza multifattoriale sull’indennità risarcitoria costituisce, del resto, una costante della normativa di settore, avendo il legislatore sempre valorizzato la molteplicità dei parametri che rilevano al fine della determinazione dell’entità del pregiudizio causato dall’ingiustificato licenziamento e conseguentemente della misura del risarcimento».
Tra i parametri della normativa sovranazionale interposti trova rilievo solo l’art. 24 della Carta sociale europea (che, al primo comma, lettera b), prevede una tutela in termini di congruo indennizzo o altra adeguata riparazione), nel testo riveduto nel 1996 regolarmente ratificato dall’Italia con l. 9 febbraio 1999, n. 30, non essendo, comunque, configurabile, secondo l’Autore, una “fattispecie europea” del licenziamento individuale ingiustificato.
Con riferimento allo ius superveniens del 2018, la Corte avrebbe potuto emettere una pronuncia di illegittimità costituzionale conseguenziale; cosa che non ha fatto, accomunando, invece, nello stesso dispositivo, sia la norma direttamente applicabile nel giudizio a quo, sia quella sopravvenuta ad esso non applicabile, ritenendo rilevante il criterio di determinazione dell’indennità compensativa e non la sua diversa quantificazione nei limiti minimo e massimo.
A questa sentenza è conseguente la simmetrica sentenza n. 150 del 16 luglio 2020 relativa alle conseguenze del licenziamento disciplinare illegittimo per vizi formali e procedurali ( pagg. 247 e ss.) con riferimento all’art. 4, d.lgs. n. 23/2015, venendo meno, anche in questo caso, il rigido criterio dell’anzianità di servizio nella determinazione dell’indennità risarcitoria, che, tra il limite minimo di due mensilità e quello massimo di dodici mensilità, sarà quantificata dal giudice con ampia discrezionalità.
L’analisi di questa sentenza è l’occasione per Giovanni Amoroso di esaminare, in maniera approfondita, il perimetro dei vizi formali e procedurali incisi dalle riforme del 2012 e del 2015, optando per la costruzione di una fattispecie di licenziamento inefficace solo con riferimento alla mancanza di forma scritta nella sua comunicazione.
Mette bene in luce, l’Autore, il cambio di passo della legislazione delle ultime riforme che fa arretrare la rilevanza della violazione delle regole formali e procedurali rispetto ai vizi di sostanza, che comportano, comunque la risoluzione del rapporto di lavoro e chiarisce che la Corte, nel rispetto della q. l. c. sollevata dai giudici rimettenti, si è limitata a dichiara incostituzionale il criterio automatico dell’anzianità di servizio, senza potersi pronunciare sulle disparità del trattamento sanzionatorio conseguente ai vizi di forma e di sostanza.
Resta il carattere meramente residuale dell’indennità compensativa stabilita dal legislatore delle due riforme in questi casi.
Emerge, già in questa sentenza, il monito “ordinario” al legislatore a ricomporre, in maniera sistematica, le discipline eterogenee, frutto dell’avvicendarsi di interventi frammentari, che troviamo ripetuto – con maggiore forza, in forma “pressante” - nella recente sentenza n. 183 del 22 luglio 2022 ( pagg. 257 e ss.), che abbiamo già richiamato nelle pagine precedenti, analizzata anche con una precisa ricostruzione della tutela, meramente indennitaria, a fronte dei licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese.
Oggetto di critica da parte del giudice rimettente è il limite massimo di sei mensilità dell’indennità risarcitoria, che riduce in maniera sensibile l’efficacia dissuasiva della sanzione, rendendo la tutela del tutto inadeguata, anche alla luce delle due precedenti pronunce della Corte Costituzionale che ha rimesso al legislatore la regolamentazione sistematica della materia, preannunciando, in difetto, un intervento additivo ( ma senza dettare, come in altre occasioni è stato fatto, un tempo per poter legiferare).
Con riferimento alla tutela reintegratoria, la prima sentenza costituzionale è la n. 59 del 1° aprile 2021 (pagg. 263 e ss., e, più specificamente, pagg. 268 e ss.) che ha reso dovuta e non discrezionale la reintegrazione in caso di accertata “manifesta insussistenza” del giustificato motivo oggettivo di licenziamento (art. 18, comma 7, st. lav.), con un dispositivo additivo di tipo sostitutivo.
Dei diversi profili di illegittimità rilevati dalla Corte Costituzionale, l’Autore individua, correttamente, l’intrinseca irragionevolezza della disposizione normativa censurata, come interpretata dalla giurisprudenza di legittimità, che, richiamando il criterio dell’eccessiva onerosità, di fatto ha comportato l’arretramento della tutela da reintegratoria attenuata a indennitaria, come tale inferiore e non certo equivalente rispetto alla prima. Scrive l’Autore (pag. 270): «La predicata riduzione di tutela del lavoratore non può dipendere da fattori contingenti o comunque determinati da scelte del datore di lavoro, responsabile dell’illecito, ossia di un licenziamento pretestuoso per essere (manifestamente) insussistente il fatto su cui si fonda».
L’Autore non fa velo che la discrezionalità di valutazione attribuita al giudice del caso concreto da questa sentenza contraddice con il pronunciato delle due precedenti sentenze n. 194/2018 e n. 150/2020; e tuttavia si tratta di una contraddizione solo apparente perché nei due precedenti casi «si trattava di riequilibrare il quantum dell’indennità al diverso e mai uniforme disvalore del licenziamento», mentre nel caso del licenziamento economico «la discrezionalità del giudice è priva di ogni attinenza con il disvalore del licenziamento e guarda invece a scelte dello stesso datore di lavoro, autore dell’illecito, o a fattori contingenti» (pag. 271).
Conseguente a questa sentenza è la successiva pronuncia n. 125 del 19 maggio 2022 (derivata da una seconda, successiva, q. l. c. sollevata dal medesimo giudice rimettente, con una singolarità del caso, bene stigmatizzata dall’Autore), che ha eliminato anche il riferimento alla natura “manifesta” dell’insussistenza (pagg. 271 e ss.).
L’osservazione dell’Autore, su questo specifico punto, è tranchant, perché: «… il fatto, nella sua positiva esistenza, è tale in ogni caso in una logica inevitabilmente binaria: o sussiste o non sussiste; certo che il carattere manifesto tende ad indentificarsi con la prova e con l’apprezzamento che ne fa il giudice» (pagg. 272-273), in base al canone tradizionale dell’art. 116 cod. proc. civ.
Con questa sentenza, la Corte Costituzionale crea un parallelismo tra le tutele previste in caso di insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento disciplinare e del licenziamento economico, in un quadro di coerenza sistematica, che secondo l’Autore prescinde dal considerare o no la tutela reintegratoria come extrema ratio rispetto a quella indennitaria ritenuta “normale” (pag. 274).
Non del tutto convincente è invece l’opzione interpretativa dell’Autore che, in ossequio alle pronunce della Corte Costituzionale, considera legittimo il “doppio binario” in caso di licenziamento ingiustificato che differenzia i lavoratori in base alla data di assunzione, 7 marzo 2015, in regime di Jobs Act ( pagg. 275 e ss.), sul crinale del tempo, il cui fluire, ad avviso di chi scrive, non può giustificare uno spartiacque, denso di conseguenze ( sino ad oggi ritenuto legittimo), se si considera il sostanziale fallimento dello scopo perseguito dal legislatore del 2015 di «rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione ».
Tralasciando, qui, per evidenti ragioni, la trattazione delle due pronunce costituzionali in materia processuale ( n. 86 del 23 aprile 2018, sulle conseguenze dell’inottemperanza dell’ordine di reintegrazione nel corso del giudizio, e n. 212 del 14 ottobre 2020, sulla rilevanza della tutela d’urgenza al fine di evitare la decadenza dall’azione giudiziaria), la disciplina differenziata, in ragione del tempo di assunzione riferito alla data del 7 marzo 2015 (reintegrazione e tutela indennitaria limitata nel massimo a dodici mensilità, per i “lavoratori anziani”; tutela meramente indennitaria, secondo i criteri dell’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015, come riformulata dalla sentenza costituzionale n. 194/2018, per i “lavoratori giovani”), dei licenziamenti collettivi illegittimi per violazione dei criteri di scelta viene esaminata con riferimento alla sentenza n. 254 del 26 novembre 2020 (pagg. 283 e ss.).
La Corte Costituzionale, in perfetto parallelismo con la pronuncia della Corte di Giustizia dell’Unione Europea , 4 giugno 2020, causa C-32/20 (che aveva dichiarato manifestamente irricevibili le questioni proposte con rinvio pregiudiziale dalla Corte di Appello di Napoli, essendo la materia dei licenziamenti collettivi estranea alla direttiva 98/59/CE del Consiglio, del 20 luglio 1998; in assenza, peraltro, di un collegamento tra un atto di diritto eurounitario e la disciplina nazionale, così da poter richiamare i principi della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea), ha dichiarato inammissibile la q. l. c. sollevata non avendo il giudice rimettente individuato i vizi del licenziamento collettivo, per il quale si denunciava, in via principale, l’inosservanza dei criteri di scelta, e in via subordinata il mancato rispetto delle procedure.
A fronte di una corretta formulazione del quesito sarebbe stato interessante verificare, nel merito, la decisione della Consulta sulla differenziazione delle tutele in ragione del tempo di assunzione.
9. Completa la rassegna la trattazione della sospensione e del blocco dei licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo nel periodo dell’emergenza del Covid-19 (Cap. IX, pagg. 287 e ss.), tema particolarmente delicato e discusso nella giurisprudenza, che si è espressa con decisioni diverse e non sempre coerenti con i limiti della interpretazione letterale delle norme, anche per il succedersi di tortuosi interventi legislativi, con modifiche e nuove regolamentazioni a fatica sovrapponibili (pagg. 288 e ss.).
L’Autore, venendo in essere la violazione di una norma imperativa in caso di licenziamenti intimati durante il regime del blocco, non mette in discussione la tutela reintegratoria, a prescindere dalle dimensioni dell’azienda (per i licenziamenti individuali: art. 18, comma 1, st. lav. e art. 2, d.lgs. n. 23/2015), nemmeno per i licenziamenti collettivi, in questo caso facendo riferimento alla nullità civilistica di diritto comune (pagg. 294 e ss.).
È degna di attenzione (e condivisione da parte di chi scrive) la tesi dell’Autore (pag. 295) che parla di inefficacia temporanea, piuttosto che di nullità, del licenziamento, «… perché il blocco dei licenziamenti è una circostanza esterna all’atto giuridico negoziale – il recesso datoriale – che condiziona l’efficacia dell’atto stesso in un determinato e limitato periodo di tempo». Siamo di fronte, pertanto, ad una «circostanza che opererebbe come condizione sospensiva del potere datoriale di recesso unilaterale».
Non viene affrontato, invece, il tema che ha molto diviso i giudici di merito, e anche la dottrina, sul campo di applicazione del divieto che, essendo ancorato testualmente alle ipotesi previste dall’art. 3, l. n. 604/1966, lascerebbe fuori i lavoratori esclusi dal perimetro di operatività di detta legge, come, ad es., i dirigenti.
10. Alla fine della (non facile) recensione del libro di Giovanni Amoroso, condotta, forse, con una esposizione lunga e particolareggiata (ma, ci auguriamo, non piatta), chi scrive, come capita ad ogni lettore d’occasione, ritorna padrone della materia trattata, quella dei licenziamenti, che (come spesso capita per i temi di notevole impatto sociale ed economico, che, per questo motivo, scontano anche una marcata caratterizzazione ideologica) resta assai controversa e soggetta a contrastanti interpretazioni, non sempre coerenti con i materiali delle leggi che la disciplinano e le intenzioni del legislatore delle riforme.
Il pregio di opere come quella recensita è l’occasione che viene offerta al lettore di rimeditare il tema dei licenziamenti, anche alla luce dei felici approdi (o derive, secondo alcuni) della giurisprudenza di legittimità e costituzionale, per come si è sviluppato in un tempo lungo oltre cinquant’anni.
Ulteriori considerazioni personali (oltre a quelle, essenziali, espresse nelle pagine precedenti) risulterebbero del tutto avulse dall’opera recensita, con il rischio di sovrapporre alle tesi dell’Autore, meritevoli di analisi e segnalazione, le opzioni interpretative di chi scrive.
L’unica osservazione, conclusiva, che sembra opportuno svolgere, va nella direzione di quanto espresso, anche da ultimo, dalla giurisprudenza costituzionale: è avvertita l’esigenza, concreta, che il legislatore provveda ad una generale rivisitazione della materia dei licenziamenti, portando a sistema le riforme, nel rispetto delle tutele differenziate – se questo è il definitivo intendimento da perseguire e realizzare – che devono, però, essere rese coerenti non solo tra di loro ma anche con riferimento alle diverse fattispecie di licenziamento e ai diversi tipi di rapporto di lavoro.
Il vento fa il suo giro ed ogni cosa, prima o poi, ritorna; ma la stagione dell’articolo 18, per come lo abbiamo conosciuto ed è stato applicato per oltre quarant’anni, sembra definitivamente tramontata. È una norma che non ha più l’attrazione fatale di una volta, anche se in molte occasioni viene rievocata.
Resta, comunque, la necessità di garantire, per tutti i licenziamenti illegittimi, una tutela adeguata e dissuasiva, secondo i principi ribaditi, a più riprese, anche dalla Corte Costituzionale.
Riuscirà la politica dei fatti ad imporre al legislatore nuove scelte di politica del diritto coerenti con questi principi?
Generazione Z: l’Iran e gli Zoomers, la generazione ignorata
di Maria Teresa Covatta
Nonostante le censure del sistema sappiamo tutti cosa sta accadendo in Iran.
La protesta, a un mese e mezzo dalla morte di Mahsa Amini per mano della polizia morale dilaga ovunque nel Paese, con manifestazioni in tutte le province e con più di 200 città coinvolte (1).
Le notizie delle percosse, delle morti e degli arresti si susseguono incessanti. Secondo la Bbc Persiana Hzana ci sono 248 vittime tra i manifestanti, tra cui 33 minori, migliaia di feriti, 12 mila arresti e più di 300 indagati per cospirazione contro la sicurezza morale (2).
Il 7 Novembre la stampa italiana ha dato notizia dell’ennesima morte provocata dalla polizia (3). Dopo Nika Shakan anche Nasrin Ghadri, secondo l’organizzazione per i diritti umani Hengaw, è morta a causa dei colpi di manganello ricevuti alla testa. Solita repressione e solita susseguente disinformazione per cui la donna in realtà sarebbe stata trovata morta in casa per cause sconosciute.
Si registrano manifestazioni di solidarietà in tutto il mondo, Italia compresa, dove, oltre alle sfilate di piazza, ogni sabato gruppi di manifestanti si raccolgono a protestare davanti all’ambasciata iraniana di via Nomentana. Da ultimo a Berlino circa 80 mila persone hanno sfilato per le strade al grido di Donna, Vita, Libertà.
La morte di Mahsa ha dunque rappresentato una miccia che ha provocato un incendio che il regime degli Ayatollah non riesce a spegnere.
È stata definita la più forte sfida alla leadership clericale (4), ed evidentemente così viene percepita dal sistema visto che i numeri parlano di una repressione anch’essa senza precedenti.
L’Iran ha conosciuto in un passato anche recente altre rivolte ma mai, a quanto ritengono studiosi e osservatori, di tale entità e diffusione.
E dunque: perché? Perché ora e perché in queste proporzioni?
Ha provato a spiegarlo in modo che mi pare assolutamente convincente, Maysam Bizaer, iraniano, scrittore e analista di politica e economia del suo Paese, e collaboratore di mezzi di comunicazione iraniani e stranieri (5).
La differenza tra questa e le precedenti proteste sta nel ruolo preminente giocato nel Paese dalla Generazione Z, conosciuti come Zoomers e meglio ancora come i Dahe Hashitedi, i diciottenni, nati più o meno tra il 1997 e il 2010.
I conti tornano visto che anche fonti governative iraniane confermano che l’assoluta maggioranza dei manifestanti non ha più di 25 anni.
Benchè siano poco più di 6 milioni di ragazze e ragazzi, meno del 7% di una popolazione di 83 milioni di iraniani e quindi una parte assolutamente minoritaria della popolazione del Paese, sono senza dubbio, dice Biraen, gli indiscussi leaders della protesta attuale.
Le ragioni di questo fenomeno è già scritta nel loro nome: sono la generazione del collegamento interattivo e digitale con il mondo, sono i “digital natives” che grazie allo loro attiva presenza sui social media hanno pieno accesso all’informazione e sanno cosa succede nel mondo interno a loro e fuori dal Paese.
La presenza costante on line ha dato loro capacità analitiche maggiori di quelle mai avute dai loro genitori ma soprattutto ha dato loro un palcoscenico per dar voce ai loro problemi e il coraggio di parlarne chiaramente, esternando i loro interessi o ciò che disapprovano anche quando manifestare le loro idee impatta pesantemente contro la tradizione, il sistema in cui vivono e le red lines dettate da entrambi.
Il risultato sociologico e culturale di tutto questo è che gli Zoomers iraniani tendono a curarsi poco delle tradizioni, proprio come tanti della loro età, in tutte le parti del mondo.
A questo proposito mi viene da pensare al video che in questi giorni sta girando nel web: giovani iraniani, pantaloni stretti, maglietta, giaccone e zaino in spalla, vanno in strada facendo cadere i copricapo indossati da uomini abbigliati secondo tradizione.
Se sia vero che siano così tanti a ripetere questo gesto, come sembrerebbe far intendere il video, poco importa. Sono comunque immagini che traducono plasticamente il considerarsi parte di un mondo globale, il rifiuto di una tradizione opprimente, il diritto di contestare pacificamente l’autorità e la volontà di manifestare tutto questo.
Così come ne è testimonianza tagliarsi pubblicamente i capelli, scendere tutti in piazza, donne e uomini, radunarsi a centinaia davanti al cimitero di Saqqez dov’è sepolta Mahra Amini per commemorarne i 40 giorni dalla morte, continuando a protestare nonostante la repressione e le dichiarazioni dell’establishment sulla necessità di rafforzare i valori islamici anche attraverso il controllo dello Stato sull’Internet e sui social. L’emanazione del cosiddetto Internet Protection Bill , una sorta di manuale sull’uso “moralmente consentito” di internet ne è un esempio.
Come già detto, le pubbliche esternazioni dei giovani iraniane non sono nuove.
Già in passato ve ne erano state in contesti del tutto straordinari per l’usuale modo di essere della società iraniana. Già nel 2014 avevano occupato la scena quando in decine di migliaia si erano riuniti per i funerali di una famosa pop star, con una partecipazione massiva che in Iran era concepibile solo per eroi nazionali o figure religiose di spicco; o quando, nel 2016, centinaia di studenti festeggiarono la fine della scuola superiore in un Mall di Teheran.
Anch’esse represse con violenza, queste manifestazioni, pur non avendo una chiara valenza politica, già palesavano la voglia di prendersi una libertà non consentita dal sistema.
In questo senso può dirsi le precedenti proteste rappresentano un antecedente logico della protesta attuale che, tuttavia, sembra essere qualcosa di più e portare profonde e interessanti novità.
Molti osservatori, sulla scorta di studi condotti sia da istituti accademiche stranieri sia da istituzioni politiche iraniane, avevano ammonito sui rischi che avrebbe comportato per il sistema sommare alla profonda, latente e mai sopita insoddisfazione politica, economica e sociale, un nuovo catalizzatore di tensioni e cioè il profondo gap generazionale. Come dicevamo, la miccia dell’incendio.
Diversamente dai loro genitori questi giovani, entrando in massa nelle università grandi o piccole del Paese, usando le loro diverse e nuove abilità per influenzare e portare cambiamenti, ponendosi domande differenti e condividendo tra loro punti di vista e modi di comportarsi, infine usando linguaggi e metri di giudizio diversi da quelli dei loro governanti, sono pronti per “trasformare tutto” e lo faranno (6)
La predizione potrebbe essere sul punto di avverarsi.
Persino la stampa conservatrice e filo governativa iraniana, già nel 2019, prevedeva che questi giovani, nella gran parte dei casi ignorati dal sistema, con le loro vedute pluralistiche, avrebbero presto potuto rappresentare una spina nel fianco per il sistema stesso che non avrebbe avuto la possibilità di controllarli come accaduto con le generazioni precedenti. Ed è quello che sta accadendo.
Ma c’è – persino- di più. Stando alle fonti citate la Generazione Z sta riuscendo a segnare un altro goal, assolutamente imprevedibile solo pochi anni fa, guadagnandosi la comprensione e, pare, la condivisione almeno di parte dei loro genitori e delle generazioni precedenti.
Se così fosse il danno temuto dal sistema sarebbe molto più grave del previsto.
Le reazioni dell’establishment a fronte della rivolta sono state più o meno quelle di sempre: l’abbiamo già detto, oltre a percosse talora mortali, arresti e incriminazioni il blocco dell’accesso a Internet, a molti social media quali Instagram e WhatsApp e persino ad alcuni giochi on line.
A ciò si aggiunge il tentativo di isolarli, descrivendoli come anarchici o unethical, portatori di valori antitetici a quelli della rivoluzione islamica.
Persino, si apprende dall’articolo di Bizaer, immettendo nel mercato musicale del Paese, una canzone pop dal titolo ben chiaro di Hello Commander.
Dimendicando o ignorando che il concetto di musica pop di regime è un ossimoro.
E che i segnali chiari e forti non vanno mai sottovalutati anche quando provengono da generazioni “ignorate”.
Nulla nasce dal nulla, meno che mai le rivoluzioni.
(1) Corriere della Sera 6.11.22
(2) Fonte ISPI 3.11.22
(3) Fabiana Magrì : un’altra Mahsa Amini a Teheran. La Stampa 7.11.22
(4) The Economist 12.10.22
(5) Iran’s rising Generation Z at the forefront of protest
(6) Saeed Razavi Faquir. Ensal News 7.12.2016 : The Eighties (Generation Z) will pass everyone.
Maternità surrogata. Le conclusioni della Procura generale all’udienza dell’8 novembre 2022.
Requisitoria dell'Avvocato generale Renato Finocchi Gherzi
In attesa di leggere la decisione delle Sezioni Unite in tema di riconoscimento dell'efficacia di provvedimento giurisdizionale straniero, con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all'estero mediante il ricorso alla maternità surrogata, si ritiene di rilevante interesse offrire alla lettura la requisitoria dell’Avvocato generale dott. Renato Finocchi Gherzi che, sul ricorso per cassazione avverso la sentenza di riconoscimento dell'efficacia del provvedimento straniero, ha concluso con la richiesta di accoglimento del quarto motivo del ricorso del Ministro degli interni, pro tempore, e del Sindaco, contenente censura di violazione degli artt. 16 e 65 della legge n. 218/1995 ovvero del limite dell’ordine pubblico ai fini della dichiarazione di efficacia di provvedimenti stranieri relativi all’esistenza di rapporti di famiglia.
Viene richiamato il principio di diritto delle Sezioni unite - sentenza n. 12193/2019 - secondo cui “Il riconoscimento dell'efficacia di un provvedimento giurisdizionale straniero, con il quale sia stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all'estero mediante il ricorso alla maternità surrogata e il genitore d'intenzione munito della cittadinanza italiana, trova ostacolo nel divieto di surrogazione di maternità, previsto dall'art. 12, comma 6, della l. n. 40 del 2004, qualificabile come principio di ordine pubblico, in quanto posto a tutela di valori fondamentali, quali la dignità della gestante e l'istituto dell'adozione; la tutela di tali valori, (non irragionevolmente ritenuti prevalenti sull'interesse del minore), nell'ambito di un bilanciamento effettuato direttamente dal legislatore, al quale il giudice non può sostituire la propria valutazione, non esclude peraltro la possibilità di conferire comunque rilievo al rapporto genitoriale, mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici, quali l'adozione in casi particolari, prevista dall'art. 44, comma 1, lett. d), della l. n. 184 del 1983”.
La questione posta dalla remittente Prima Sezione : “Se e come sia superabile in via interpretativa tale situazione di vuoto normativo non potendosi più il giudice, sia ordinario che di legittimità, riferire al diritto vivente prospettato dall’ordinanza di rimessione che, in base alla motivazione della sentenza della Corte costituzionale n. 33 del 2021, non è idoneo a impedire la lesione dei diritti fondamentali del minore a causa del mancato riconoscimento del rapporto di filiazione con il genitore d’intenzione e nello stesso tempo per l’inadeguatezza della soluzione offerta dall’istituto di cui all’art. 44, lett. d), della legge n. 184 del 1983”, come chiarito dall’Avvocato generale, trova riposta nella medesima sentenza della Corte costituzionale n. 33 del 2021 - richiamata nell'ordinanza- che, nel dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 12, comma 6, della legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita), dell'art. 64, comma 1, lettera g), della legge 31 maggio 1995, n. 218 (Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), e dell'art. 18 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell'ordinamento dello stato civile, a norma dell'articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127), sollevate - in riferimento agli artt. 2, 3, 30, 31 e 117, primo comma, della Costituzione, quest'ultimo in relazione all'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), agli artt. 2, 3, 7, 8, 9 e 18 della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176, e all'art. 24 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), ha affermato, in modo inequivoco e dopo esauriente ricognizione delle possibilità e dei limiti insiti nel ricorso allo strumento dell’adozione in casi particolari ex art. 44 legge n. 184 del 1983 ai fini della tutela del best interest del minore, che “Il compito di adeguare il diritto vigente alle esigenze di tutela degli interessi dei bambini nati da maternità surrogata – nel contesto del difficile bilanciamento tra la legittima finalità di disincentivare il ricorso a questa pratica, e l’imprescindibile necessità di assicurare il rispetto dei diritti dei minori, nei termini sopra precisati – non può che spettare, in prima battuta, al legislatore, al quale deve essere riconosciuto un significativo margine di manovra nell’individuare una soluzione che si faccia carico di tutti i diritti e i principi in gioco. Di fronte al ventaglio delle opzioni possibili, tutte compatibili con la Costituzione e tutte implicanti interventi su materie di grande complessità sistematica, questa Corte non può, allo stato, che arrestarsi, e cedere doverosamente il passo alla discrezionalità del legislatore, nella ormai indifferibile individuazione delle soluzioni in grado di porre rimedio all’attuale situazione di insufficiente tutela degli interessi del minore”.
Le conclusioni sono dunque che, allo stato, l’unico riferimento normativo del quale deve tenersi conto per ritenere consentito il riconoscimento dell’efficacia del provvedimento giurisdizionale straniero è quello della compatibilità con l’ordine pubblico, ai sensi della legge n. 218 del 1985, e che detta compatibilità va considerata alla stregua dell’interpretazione offerta dalla sentenza delle Sezioni unite n. 12193/2019.
La questione proposta dalla Prima Sezione, va dunque risolta, da un lato, escludendo la sussistenza di un vuoto normativo e, dall'altro, richiamando il principio statuito dalla sentenza delle Sezioni unite n.12193/2019, da riformularsi in ragione dei rilievi contenuti nella sentenza della Corte costituzionale n. 79 del 2022 in tema di adozione in casi particolari ai sensi dell’art. 44 della legge n. 184 del 1983.
In tema di maternità surrogata si ritiene utile rinviare alla lettura degli interessanti articoli pubblicati su Questa Rivista: Il travagliato percorso della tutela del bambino nato da maternità surrogata. Brevi note a margine dell’ordinanza di rinvio alle Sezioni unite n. 1842 del 2022 di Mirzia Bianca, La maternità surrogata di nuovo all’esame delle Sezioni Unite. Le ragioni del dissenso di Gabriella Luccioli, Le persistenti ragioni del divieto di maternità surrogata e il problema della tutela di colui che nasce dalla pratica illecita. In attesa della pronuncia delle Sezioni Unite di Arnaldo Morace Pinelli. Non si attende il legislatore. Lo spinoso problema della maternità surrogata torna all’esame delle Sezioni unite di Arnaldo Morace Pinelli; Maternità surrogata e trascrizione dell’atto di nascita formato all’estero: il ruolo dei giudici di merito dopo l’intervento della Consulta. Nota a Trib. Milano 23.9.2021di Rita Russo; La Corte costituzionale interviene sui diritti del minore nato attraverso una pratica di maternità surrogata. Brevi note a Corte cost. 9 marzo 2021 n. 33 di Arnaldo Morace Pinelli; Maternità surrogata e status dei figli (G. Luccioli, M. Gattuso, M. Paladini e S.Stefanelli) Intervista di Rita Russo; Il parere preventivo della Corte edu e il diritto vivente italiano in materia di maternità surrogata: un conflitto inesistente o un conflitto mal risolto dalla Corte di Cassazione? di Gabriella Luccioli; Il caso Mennesson, vent’anni dopo. divieto di maternità surrogata e interesse del minore. Nota a Arrêt n°648 du 4 octobre 2019 (10-19.053) -Cour de Cassation - Assemblée plénière. di Rita Russo; Ricorso alla surrogazione di maternità da parte di una coppia di donne e condizione giuridica del nato. Commento a Trib. Bari, decr. 7 settembre 2022di Emanuele Bilotti; Il cambiamento della famiglia: aspetti psico-sociali e problemi giuridici di Santo Di Nuovo e Alessandra Garofalo ; Le sentenze della Corte costituzionale n. 32 e n. 33 del 2021 e l’applicabilità dell’art. 279 c.c.; L’Italia riconosce l’adozione straniera di minori da parte di una coppia maschile, ma solo in assenza di surrogacy (Nota a Cass., S.U., 31 marzo 2021, n. 9006) di Stefania Stefanelli; Il diritto alla cura dei nati contra legem di Alberto Gambino; Il diritto dei figli di due mamme o di due papà ad avere due genitori. Un primo commento alle sentenze della Corte Costituzionale n. 32 e 33 del 2021 di Gilda Ferrando; La genitorialità d’intenzione e il principio di effettività. Riflessioni a margine di Corte cost. n. 230/2020 di Mirzia Bianca; Per un diritto che “non serve”. La cultura giuridica e le sfide della tecnologia di T. Greco; Gli incerti confini della genitorialità fondata sul consenso: quando le corti di merito dissentono dalla Cassazione di Rita Russo; Fecondazione post mortem di Remo Trezza; Bioetica e biodiritto. Nuove frontiere. La lezione di Gabriella Luccioli: dalla discriminazione all’uguaglianza.
Su Questione giustizia si rinvia alla lettura degli articoli: Gestazione per altri: una concreta possibilità di dialogo tra Corti di Maria Acierno ; Sui nati da maternità surrogata si va verso la “fase 2”? di Antonio Scalera; Maternità surrogata e tutela del rapporto di filiazione di Silvia Albano; I giudici, i due papà e l'interesse del minore di Silvia Albano; La surrogazione di maternità tra responsabilità genitoriale ed interesse del minore di Silvia Albano.
Ricorso alla surrogazione di maternità da parte di una coppia di donne e condizione giuridica del nato. Commento a Trib. Bari, decr. 7 settembre 2022
di Emanuele Bilotti
Sommario: 1. Il caso e la decisione del Tribunale di Bari - 2. Contestazione dello stato, rettifica di un titolo di stato illegittimo ed ordine pubblico - 3. La pretesa conformità all’ordine pubblico dell’atto di nascita estero - 4. La necessità di rispettare il self-restraint della Corte costituzionale - 5. L’ipotesi della cancellazione integrale della trascrizione - 6. La prospettiva di una duplice adozione in casi particolari - 7. Spunti per una possibile soluzione de iure condendo.
1. Il caso e la decisione del Tribunale di Bari
Nel corso del 2018 l’ufficiale di stato civile del Comune di Bari ha provveduto a trascrivere nell’apposito archivio comunale un atto di nascita formato all’estero – in particolare, nello Stato della California – recante l’indicazione della maternità di due donne. Queste ultime, dopo aver contratto matrimonio nello Stato di New York, avevano infatti stipulato un contratto di maternità surrogata con una terza donna, commissionandole la gestazione di un embrione formato col seme di un cd. donatore (anonimo) e con l’ovocita prelevato da una di esse.
Dopo un iniziale diniego, l’autorità amministrativa competente ha provveduto alla trascrizione in autotutela. E ciò nonostante che l’art. 65 della l. n. 218 del 1995 disponga che i provvedimenti stranieri relativi all’esistenza di rapporti familiari hanno effetto in Italia – e sono perciò suscettibili di trascrizione nei registri dello stato civile – solo se non siano contrari all’ordine pubblico.
Invero, tale contrarietà è divenuta un dato acquisito nel diritto vivente solo a seguito dell’importante decisione della Corte di cassazione a sezioni unite del maggio del 2019[1]. Nondimeno, fin dal 2014 la giurisprudenza di legittimità aveva riconosciuto un principio di ordine pubblico nel divieto di maternità surrogata di cui all’art. 12, co. 6, della l. n. 40 del 2004. In particolare, in quell’occasione, la Suprema Corte aveva affermato che quel divieto, la cui violazione è tuttora penalmente sanzionata, deve ritenersi posto a tutela di “beni giuridici fondamentali”: “la dignità umana – costituzionalmente tutelata – della gestante e l’istituto dell’adozione”, al quale soltanto “l’ordinamento affida la realizzazione di progetti di genitorialità priva di legami biologici con il nato”[2]. Inoltre, alla fine del 2017, anche la Corte costituzionale aveva avuto modo di affermare che la pratica della maternità surrogata “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”[3].
Già certe prese di posizione dovevano dunque far ritenere che anche l’accertamento ab initio dello status artificiale perseguito dai committenti non potesse considerarsi una soluzione conforme all’ordine pubblico. Come poi hanno chiarito anche le sezioni unite, infatti, un simile accertamento non è compatibile con la scelta proibizionista dell’ordinamento, giacché consente di realizzare proprio il risultato avuto di mira dagli adulti attraverso il ricorso alla maternità surrogata. Né questa soluzione poteva apparire pregiudizievole per l’interesse del minore alla stabilità dei rapporti affettivi in atto, dato che, fin dal 2016, proprio al fine di garantire tale stabilità la giurisprudenza di legittimità aveva fatto proprio l’orientamento favorevole al ricorso all’adozione in casi particolari[4].
Già all’epoca della trascrizione poteva allora ritenersi quanto poi comunque affermato con chiarezza dalle sezioni unite nel maggio del 2019: la contrarietà all’ordine pubblico dei provvedimenti stranieri che accertino certi rapporti genitoriali puramente intenzionali. E perciò anche l’impossibilità di procedere alla loro trascrizione nei registri dello stato civile. E con ciò anche l’illegittimità della trascrizione eseguita.
Nondimeno alla trascrizione operata dall’ufficiale di stato civile del Comune di Bari non ha fatto séguito alcuna iniziativa volta a contestarne la legittimità. Solo nel corso del 2021, quando già da alcuni anni quella trascrizione autorizzava a ritenere che l’atto di nascita californiano producesse effetti anche nell’ordinamento italiano, entrato in crisi il rapporto di coppia tra le due “madri”, i genitori della donna legata geneticamente al nato – nel caso di specie una bambina – hanno chiesto al pubblico ministero di attivarsi per la cancellazione dalla trascrizione del solo nominativo della cd. madre intenzionale (rectius: della committente priva di legame genetico col nato).
A tal fine il pubblico ministero ha ritenuto di proporre un ricorso ex art. 95 del d.P.R. n. 396 del 2000, avviando così, dinanzi al competente Tribunale di Bari, un procedimento di rettificazione degli atti dello stato civile. Il giudice adìto ha deciso per il rigetto della domanda sulla base di un ragionamento piuttosto articolato. Al suo interno sembrano comunque potersi distinguere due percorsi argomentativi sostanzialmente autonomi, ciascuno dei quali, a ben vedere, ove corretto, sarebbe stato sufficiente a giustificare la decisione assunta.
In particolare, un primo percorso argomentativo avrebbe potuto condurre a una pronuncia di rigetto già in virtù dell’asserita impossibilità di azionare il procedimento di rettificazione per ottenere la cancellazione del solo nominativo della cd. madre intenzionale. Un secondo percorso argomentativo avrebbe invece potuto condurre al medesimo risultato in virtù della pretesa necessità di una lettura “costituzionalmente orientata” dell’art. 8 della l. n. 40 del 2004: una lettura che, allo scopo di superare la decisione delle sezioni unite del 2019, il Tribunale di Bari tenta di accreditare sulla scorta dei recenti pronunciamenti in materia della Corte costituzionale e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Senonché, come si cercherà sùbito di chiarire, nessuno dei due percorsi indicati appare davvero fondato. E forse è proprio la consapevolezza della debolezza dell’uno e dell’altro ad aver fatto sì che il Tribunale di Bari li abbia proposti entrambi, sebbene si tratti di due argomentazioni autonome ed assorbenti. L’esito attinto non sembra comunque condivisibile. Ma forse, come si proverà a chiarire, neppure la soluzione prospettata dal pubblico ministero – la cancellazione del nominativo di una sola delle committenti – sarebbe stata davvero adeguata.
2. Contestazione dello stato, rettifica di un titolo di stato illegittimo ed ordine pubblico
Il primo percorso argomentativo seguìto dal Tribunale di Bari – quello emergente dalla lettura dei paragrafi 3, 4 e 5 del decreto – muove dalla constatazione che il pubblico ministero “si è limitato a chiedere la sola cancellazione della indicazione del genitore d’intenzione e non già dell’intero atto” (rectius: della sua trascrizione). Per il giudice adìto, allora, la questione posta alla sua attenzione riguarderebbe “non già la legittimità della trascrizione ex se ma l’attribuzione dello status di figlio del nato rispetto alla madre intenzionale”.
Si tratterebbe insomma – se ben s’intende il ragionamento del Tribunale di Bari – di una questione direttamente relativa allo stato e non al titolo di esso. In effetti, sempre secondo il Tribunale di Bari, nel caso di specie “la possibilità di azionare il procedimento ex art. 95 [andrebbe] esclusa”. Nel decreto in esame, del resto, si legge pure che “la Procura ha contestato lo stato di figlio in relazione al genitore intenzionale secondo la legge italiana…”. E si sostiene invece che tale “contestazione” avrebbe dovuto essere effettuata in base alla legge dello Stato della California ai sensi dell’art. 33 della legge n. 218 del 1995.
La legge californiana dovrebbe infatti essere considerata come “legge più favorevole per la minore”, dato che le consente “di ottenere lo status filiationis con riferimento a entrambi i soggetti che hanno partecipato – sebbene mediante gestazione per altri – al progetto genitoriale”. Per il giudice barese, infatti, legge “più favorevole” è senz’altro “quella che garantisce il maggior riconoscimento [dello] status [filiationis]”.
Il Tribunale di Bari ritiene, in sostanza, che, in virtù dell’identificazione della “materia del contendere” operata con la domanda del pubblico ministero (“la sola cancellazione della indicazione del genitore di intenzione e non già dell’intero atto”), “il profilo della conformità all’ordine pubblico della trascrizione di atti implicanti l’utilizzo di tecniche di concepimento non ammesse nell’ordinamento italiano” sarebbe destinato a perdere qualsiasi rilevanza. La domanda proposta sarebbe volta piuttosto alla contestazione dello status filiationis rispetto al cd. genitore intenzionale: contestazione che dovrebbe però farsi valere in base alla legge nel cui rispetto è stato formato l’atto di nascita trascritto, e dunque in base alla legge californiana. Si tratterebbe allora, con ogni evidenza, di una domanda priva di fondamento.
Il ragionamento svolto dal Tribunale di Bari, soprattutto nella sua porzione più propriamente internazionalprivatistica (quella sull’applicabilità della legge californiana), appare invero piuttosto confuso. Non sembra tuttavia utile tentare qui una sua più precisa ricostruzione. Né sembra produttivo attardarsi nell’analisi critica di certi svolgimenti. E ciò perché è la stessa premessa del ragionamento a non sembrare condivisibile, e cioè l’idea che il pubblico ministero, limitando la domanda alla sola cancellazione della genitorialità puramente intenzionale accertata all’estero, avrebbe in realtà sollevato una questione relativa allo stato e non al titolo di esso. Né sembra minimamente condivisibile, d’altra parte, che la questione dell’ordine pubblico potrebbe perciò essere messa da parte.
Sul primo punto è bene osservare anzitutto che, nel presupposto della contrarietà all’ordine pubblico di certi provvedimenti stranieri, la loro trascrizione non può che ritenersi contra legem, almeno nella parte relativa al rapporto genitoriale puramente intenzionale. Ora, non vi è dubbio che il rimedio deputato alla rimozione di tale illegittimità, sia essa totale o parziale, è comunque il procedimento di rettificazione di cui all’art. 95 del d.P.R. n. 396 del 2000. In effetti, anche la Suprema Corte ha avuto modo di chiarire in più occasioni che quel procedimento serve ad eliminare le difformità tra la situazione di fatto, quale è o dovrebbe essere nella realtà secondo la previsione di legge, e quella che risulta dall’atto di stato civile: una difformità dovuta a un vizio, comunque e da chiunque originato, nel procedimento di formazione dell’atto stesso[5].
Ebbene, nel caso di specie, la domanda del pubblico ministero, nonostante la sua formulazione parziale, è volta pur sempre a ripristinare la conformità tra lo stato del nato secundum legem e quanto invece pubblicamente documentato contra legem dal titolo dello stato che si è formato in conseguenza della trascrizione di un atto estero contrario all’ordine pubblico. In ogni caso, dunque, non si tratta, con ogni evidenza, di una domanda che pone una questione di stato. In discussione è pur sempre l’illegittima formazione del titolo. E quindi la necessità di ripristinarne la conformità alla legge. Non si vede allora come si possa sostenere che il “profilo della conformità all’ordine pubblico della trascrizione” debba o meno rilevare a seconda della maggiore o minore ampiezza della domanda formulata del pubblico ministero, che comunque è e resta una domanda di rettificazione.
In ogni caso, poi, anche a voler assecondare l’originale idea del Tribunale di Bari – quella per cui il pubblico ministero, essendosi limitato a chiedere la sola cancellazione del nominativo del genitore intenzionale, avrebbe in realtà contestato lo stato della bambina rispetto alla cd. madre intenzionale – e l’ulteriore svolgimento argomentativo secondo cui la contestazione dello stato dovrebbe essere decisa dal giudice italiano in base alla legge straniera di formazione dell’atto trascritto, il limite dell’ordine pubblico verrebbe comunque in considerazione nell’applicazione di questa legge.
Appare così manifesta l’inconcludenza del tentativo del giudice barese di risolvere la questione posta alla sua attenzione eludendo il problema della contrarietà o meno all’ordine pubblico dell’accertamento estero di uno status genitoriale puramente intenzionale in caso di ricorso alla surrogazione di maternità.
3. La pretesa conformità all’ordine pubblico dell’atto di nascita estero
Ciò posto si può passare a considerare il secondo percorso argomentativo proposto dal Tribunale di Bari: quello che, nei paragrafi 6 e 7 della motivazione del decreto, affronta direttamente la questione indicata da ultimo, provando a sostenere che, dopo le sentenze n. 32 e n. 33 del 2021 della Corte costituzionale[6], l’accertamento estero di un rapporto genitoriale puramente intenzionale non potrebbe considerarsi contrario all’ordine pubblico neppure in caso di nascita da una madre surrogata.
Il tentativo di mettere in discussione la soluzione delle sezioni unite del 2019 muove più precisamente da quanto affermato dalla Corte costituzionale in ordine all’insufficienza dell’adozione in casi particolari quale meccanismo deputato alla formalizzazione del rapporto di cura genitoriale intercorrente de facto tra il nato e chi abbia fatto ricorso a una pratica fecondativa vietata senza però offrire alcun contributo genetico alla generazione.
Infatti, a dire del giudice barese, “le sentenze della Corte Costituzionale n. 32 e 33 [avrebbero] di fatto confutato la pronuncia delle Sezioni Unite n. 12193/2019 nella parte in cui ritiene che l’interesse del minore nato da GPA sia adeguatamente tutelato mediante lo strumento dell’adozione in casi particolari da parte del genitore intenzionale, auspicando un adeguato intervento del legislatore”. E ciò perché – così si legge ancóra nel decreto in esame – “l’adozione ex art. 44, lett. d), l. 184/83 non [sarebbe] uno strumento di tutela del minore idoneo e rapido, ed in quanto tale [sarebbe] incompatibile con i principi costituzionali (art. 2, 30 Cost.) e con l’art. 8 CEDU”.
Il Tribunale di Bari ritiene quindi che, in conseguenza di certe decisioni del Giudice delle leggi, si sarebbe prodotto un “vuoto legislativo” e che tale vuoto “[potrebbe] e [dovrebbe] essere superato dal giudice del caso concreto” attraverso “una lettura costituzionalmente orientata della legge n. 40/2004”, in particolare dell’art. 8. Per il giudice di Bari, infatti, questa norma, nell’interesse del nato, dovrebbe consentire l’accertamento ab initio di rapporti genitoriali puramente intenzionali non solo nelle ipotesi ora eccezionalmente ammesse dalla legge di ricorso alla fecondazione eterologa, ma anche in ogni caso di ricorso a tecniche vietate, e dunque anche in caso di surrogazione di maternità[7].
L’idea del Tribunale di Bari è dunque che, finché il legislatore non avrà dato séguito all’invito del Giudice delle leggi, elaborando un adeguato meccanismo di formalizzazione dei rapporti di cura genitoriale puramente intenzionali conseguenti al ricorso alla surrogazione di maternità, la trascrizione dei provvedimenti stranieri che accertino il carattere propriamente genitoriale di quei rapporti non potrebbe più considerarsi contraria all’ordine pubblico. E ciò perché, allo stato, in caso di nascita all’estero da una madre surrogata, la trascrizione del provvedimento straniero rappresenterebbe il solo meccanismo attraverso cui impedire un pregiudizio grave a carico di un valore primario della persona.
L’idea che l’intervento della Corte costituzionale avrebbe aperto un vuoto di tutela che dovrebbe ora essere colmato dall’interprete, ridefinendo – e superando – il limite dell’ordine pubblico, accomuna l’argomentazione del giudice barese a quella recentemente elaborata dalla prima sezione civile della Suprema Corte in un’ordinanza interlocutoria di gennaio 2022, con la quale si è chiesto un nuovo intervento delle sezioni unite affinché possano riconsiderare la propria decisione di maggio del 2019, tenendo conto della denunciata inadeguatezza dell’adozione in casi particolari a farsi carico delle esigenze connesse al superiore interesse del minore[8].
L’approdo del Tribunale di Bari appare invero assai meno circoscritto di quello cui perviene l’ordinanza indicata. Infatti, mentre il Tribunale di Bari non sembra porre alcun limite alla trascrivibilità dei provvedimenti stranieri, per i giudici della prima sezione civile della Corte di cassazione l’eccezione di ordine pubblico potrebbe invece essere disattivata soltanto laddove il ricorso alla maternità surrogata appaia rispettoso di una serie di condizioni: il carattere libero e consapevole della scelta della madre surrogata, la sua indipendenza da contropartite economiche, la sua revocabilità fino alla nascita del bambino, la possibilità per la coppia committente di accedere alle procedure di adozione nel rispetto delle prescrizioni di legge, la sussistenza di un contributo genetico alla procreazione da parte di almeno uno dei committenti[9].
4. La necessità di rispettare il self-restraint della Corte costituzionale
Le due pronunce – il decreto del Tribunale di Bari e l’ordinanza della Suprema Corte – muovono evidentemente da una comune lettura delle indicate decisioni della Corte costituzionale: una lettura che non sembra però condivisibile e che appare anzi parziale e tendenziosa.
Beninteso, è certamente vero che il Giudice delle leggi ha denunciato con chiarezza l’insufficienza della tutela dei nati contra legem che si realizzi per il tramite dell’adozione in casi particolari. Ma è vero anche che quel Giudice non ha comunque fatto proprie le prospettazioni dei giudici rimettenti che avrebbero condotto ad avallare soluzioni come quelle accolte nel decreto del Tribunale di Bari o prefigurate nell’ordinanza interlocutoria della Suprema Corte di gennaio del 2022, e cioè l’ipotesi di un accertamento ab initio di una “genitorialità” puramente intenzionale anche in casi di ricorso a pratiche vietate, e dunque anche in tutti i casi o in taluni casi di nascita da una madre surrogata.
In effetti, se il Giudice delle leggi avesse considerato praticabili certe soluzioni al fine di garantire l’interesse alla stabilità affettiva dei nati contra legem, si sarebbe espresso nel senso dell’accoglimento delle questioni di legittimità prospettate. O avrebbe pronunciato delle sentenze di rigetto interpretative. Ed invece, sia nel caso di nascita in Italia a seguito di ricorso vietato alla fecondazione eterologa sia nel caso della nascita da madre surrogata, la Corte costituzionale ha mostrato di riconoscere in certi automatismi un elemento di grave contraddizione con i divieti di legge. Al Giudice delle leggi, in altri termini, non è sfuggito che l’automatismo della formazione dell’atto di nascita o della trascrizione dell’atto straniero finiscono comunque per dar corso a una legittimazione surrettizia di pratiche vietate[10].
Certamente l’interesse della persona alla stabilità dei rapporti affettivi in atto può e deve essere tutelato dal legislatore in maniera piena. E questo risultato anche per la Corte costituzionale non sembra davvero raggiungibile mediante l’adozione in casi particolari, almeno per come essa è attualmente disciplinata. Ciò non significa però che l’ordinamento debba arrendersi alla logica del fatto compiuto.
L’indicazione che emerge dalle decisioni della Corte è chiaramente nel senso che una soluzione deve essere comunque individuata dal legislatore in una prospettiva “rimediale”: una prospettiva nella quale, lasciando da parte ogni automatismo, deve essere possibile realizzare insieme la tutela piena del nato e il giusto rigore nel rispetto delle scelte proibizioniste dell’ordinamento. Si tratta, più precisamente, di riconoscere al nato tutti i diritti del figlio anche nei confronti del cd. genitore intenzionale ma solo all’esito di una concreta verifica giudiziale di conformità all’interesse del minore[11].
È pur vero, come si diceva, che una pronuncia di inammissibilità per non invadere gli spazi della discrezionalità del legislatore ha richiamato l’attenzione di quest’ultimo su taluni profili di inadeguatezza del “rimedio” escogitato dalla giurisprudenza ordinaria attraverso il riferimento alla disciplina dell’adozione in casi particolari. Non sembra però corretto affermare che, nell’attesa di un intervento finalmente risolutivo del legislatore, la decisione della Corte costituzionale ha prodotto un “vuoto legislativo”. Ed infatti “una forma di tutela degli interessi del minore certo significativa, ma ancora non del tutto adeguata al metro dei principi costituzionali e sovranazionali” – così si esprime il Giudice delle leggi – non può comunque essere considerata una tutela inesistente.
Non si vede, d’altra parte, come un giudice ordinario possa penetrare quell’ambito di discrezionalità del legislatore che la decisione di self-restraint della Corte costituzionale ha invece inteso preservare[12]. In effetti, se il Giudice delle leggi ha potuto indicare un simile percorso di collaborazione istituzionale, è perché ha valutato che, in termini di garanzia dei valori primari della persona, il costo di una tutela dei nati contra legem “ancora non del tutto adeguata” è comunque più sopportabile del costo connesso a un automatismo nell’accertamento genitoriale che contraddice ipocritamente la scelta proibizionista dell’ordinamento ed i valori ad essa sottesi.
Il giudice ordinario non può dunque pretendere di contrapporre ad una simile valutazione della Corte costituzionale una propria valutazione alternativa. Certamente non può farlo col mezzo dell’interpretazione costituzionalmente conforme. Tale tecnica ermeneutica, infatti, nei limiti consentiti dall’elasticità del dato normativo, può – e deve – essere utilizzata dalla giurisprudenza al fine di evitare l’incidente di costituzionalità, ma non al fine di rimettere in discussione un equilibrio di valori già indicato con chiarezza dal Giudice delle leggi. È solo attraverso la proposizione di una nuova eccezione di legittimità costituzionale che il giudice ordinario potrà indurre la Corte costituzionale a riconsiderare la propria posizione a fronte di un’inerzia prolungata del legislatore.
Anche nel caso in esame, allora, una volta ripristinata la legalità violata dalla trascrizione, l’adozione in casi particolari avrebbe ancóra potuto – e dovuto – venire in considerazione come unico “rimedio” messo a disposizione dall’ordinamento a tutela dell’interesse del minore alla stabilità dei rapporti di cura genitoriale in atto. Tanto più che, frattanto, un’altra decisione della Corte costituzionale ha risolto uno degli aspetti problematici rilevati con riferimento alla disciplina dell’adozione in casi particolari, riconoscendo che anche in questi casi particolari l’adottato intrattiene rapporti di parentela con i parenti degli adottanti[13]. Inoltre, come si dirà più avanti, nel particolare caso di specie il problema posto dalla necessità del consenso del genitore all’adozione ex art. 46 l. n. 184/1983 neppure si sarebbe posto.
D’altra parte, anche la Corte di Strasburgo ha chiarito che, in un ordinamento proibizionista, non è affatto necessario che il rapporto del nato da madre surrogata col committente privo di legame genetico con esso sia formalizzato ab initio mediante trascrizione del provvedimento estero che ne accerti il carattere genitoriale[14]. Il rispetto della vita privata e familiare del nato richiede nondimeno che la procedura alternativa a tal fine prevista dal singolo ordinamento – una procedura che, si ammette, può anche essere di tipo adottivo – consenta di conseguire quel risultato in una maniera agevole sempreché risulti la corrispondenza del rapporto di cura in atto con l’interesse del minore[15].
In verità, il Tribunale di Bari tenta anche di accreditare l’idea che per il Giudice delle leggi l’adozione in casi particolari non sarebbe uno strumento di tutela del minore abbastanza “rapido”. A ben vedere, tuttavia, nessuna delle ragioni di inadeguatezza rilevate dalla Corte costituzionale nella disciplina dell’adozione in casi particolari – il mancato riconoscimento di una genitorialità piena in capo all’adottante, l’impossibilità dell’adozione in mancanza di assenso del genitore biologico, la pretesa insussistenza di rapporti di parentela tra l’adottato e i parenti dell’adottante – riguarda la sua idoneità a consentire, come dicono i giudici di Strasburgo, una “pronta” formalizzazione del rapporto di cura genitoriale in atto.
Come già si è avuto modo di ricordare, del resto, gli stessi giudici di Strasburgo affermano chiaramente che anche una procedura adottiva può ben soddisfare l’indicata esigenza di “pronta” formalizzazione del rapporto di cura genitoriale in atto. E certo non si può pensare che la Corte europea intendesse far riferimento solo a procedure adottive che non espongano il minore ai tempi di un giudizio. D’altra parte, se il requisito della “prontezza” dovesse intendersi nel senso di immediatezza, la riconosciuta legittimità di meccanismi di formalizzazione dei rapporti di cura in atto diversi dalla trascrizione del provvedimento straniero perderebbe qualsiasi significato. L’esigenza di “prontezza” deve piuttosto intendersi nel senso che l’accertamento in concreto del rapporto in atto e della sua rispondenza all’interesse del minore deve realizzarsi in maniera agile e spedita. E certo non è sotto questo profilo che la Corte costituzionale censura la disciplina dell’adozione in casi particolari.
5. L’ipotesi della cancellazione integrale della trascrizione
Nessuno dei percorsi argomentativi elaborati dal Tribunale di Bari sembra dunque persuasivo al fine di motivare il rigetto della domanda del pubblico ministero. Non pare discutibile, in altri termini, l’illegittimità della trascrizione a suo tempo operata e la rilevanza di tale illegittimità al fine di decidere sulla domanda del pubblico ministero. Si ritiene con ciò di non poter condividere la decisione di rigetto assunta dal Tribunale di Bari. Eppure, come già si è avuto modo di osservare, non sarebbe stata forse meno problematica anche una decisione di accoglimento nel senso prospettato nella domanda, e cioè una decisione che avesse disposto la cancellazione della sola maternità della committente priva di legame genetico con la bambina.
In effetti, la sollecitazione rivolta al pubblico ministero ad attivarsi in tal senso – una sollecitazione maturata in un contesto di crisi di coppia – in realtà non è altro che una mera strumentalizzazione del legame di sangue al solo fine di estromettere dalla vita della bambina una donna con la quale si è comunque consolidato negli anni un rapporto di cura genitoriale non dissimile da quello instauratosi con l’altra committente. E ciò, com’è evidente, non certo nell’interesse della bambina, ma solo per ragioni connesse appunto al conflitto di coppia, che può talora esasperare, nel rapporto con i figli, logiche adultocentriche di tipo proprietario.
Bisogna inoltre considerare che, in difetto del presupposto del parto, anche l’accertamento della maternità della committente, che pure ha messo a disposizione il gamete femminile, appare alquanto problematico. E ciò sia che si ritenga che per la legge italiana la fattispecie costitutiva della maternità si esaurisca nel parto sia che si acceda alla diversa tesi – invero maggiormente condivisibile – secondo cui, almeno di regola, l’attribuzione della maternità consegue al concorso del dato genetico e di quello biologico, e dunque al concepimento e alla gestazione[16]. In ogni caso, infatti, nessuna norma attribuisce la maternità alla donna che abbia semplicemente messo a disposizione l’ovocita per la fecondazione in vitro. Neppure laddove ciò sia avvenuto, come nel caso di specie, in vista della realizzazione di un progetto genitoriale riferibile alla stessa donna.
A ciò potrebbe aggiungersi anche una considerazione di carattere più generale: la difficoltà di giustificare un diverso trattamento di due soggetti che pure hanno insieme fatto ricorso alla pratica degradante della surrogazione di maternità al fine di realizzare un comune progetto genitoriale. A rigore, infatti, il limite dell’ordine pubblico dovrebbe impedire il riconoscimento dell’accertamento estero dello status in capo a entrambi i committenti[17].
In verità, la giurisprudenza unanime e la dottrina di gran lunga prevalente ritengono indiscutibile almeno l’accertamento della genitorialità del committente di sesso maschile che abbia fornito il materiale genetico per la formazione dell’embrione impiantato nell’utero della madre surrogata [18]. E ciò perché questi potrebbe comunque riconoscere il nato[19]. Non sembra tuttavia che un simile argomento, anche a volerne ritenere la fondatezza, possa farsi valere anche nel caso in cui la maternità surrogata sia stata commissionata da una coppia di donne, dato che, come si è visto, la donna legata geneticamente al nato, non avendolo anche partorito, non potrebbe comunque riconoscerlo.
La cancellazione integrale della trascrizione non era dunque una soluzione impraticabile. Del resto, a differenza di quel che sembra ritenere il giudice adìto, che parla più volte di un’identificazione della “materia del contendere” sulla base della domanda del pubblico ministero, in un giudizio di rettificazione, che invero non sembra ascrivibile all’area della giurisdizione contenziosa[20], la formulazione della domanda non dovrebbe rappresentare un limite invalicabile per la decisione del giudice[21].
6. La prospettiva di una duplice adozione in casi particolari
Anche la soluzione della cancellazione integrale della trascrizione appare però estremamente problematica ove si considerino le sue conseguenze sullo status della bambina. Quest’ultima sarebbe infatti passata dall’avere due mamme a non averne più nessuna. D’altra parte, anche a voler ritenere la maternità della donna che ha partorito (una soluzione, questa, che non sembra invero impraticabile in una logica sanzionatoria[22]), bisogna comunque prendere atto che questa donna, consegnando la neonata alle committenti, ha rinunciato a farsi carico di ogni responsabilità nei suoi confronti.
Si comprende allora perché, di fronte alla prospettiva della cancellazione di qualsiasi status filiationis pur in presenza di rapporti di cura genitoriale ormai consolidati ed efficienti, il Tribunale di Bari abbia preferito trarsi d’impaccio e confermare la trascrizione nella sua integrità. In effetti, una soluzione che non garantisse la stabilità dei rapporti di cura in atto finirebbe inevitabilmente per frustrare un valore primario dell’individuo: un valore che sia la Corte di Strasburgo sia la Corte costituzionale hanno riconosciuto fondato, rispettivamente, nell’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo ed anche negli artt. 2 e 30 Cost.
Ma con ciò divengono pure comprensibili le difficoltà – invero non superabili – dello sforzo argomentativo profuso dal giudice barese. Quest’ultimo si è trovato nella difficile situazione di dover motivare una soluzione – la conferma della trascrizione nella sua integrità – certamente contra legem, ma ritenuta nondimeno ineludibile per la pretesa esigenza di scongiurare il pregiudizio di un valore primario della persona. Con ciò il decreto del Tribunale di Bari deve allora essere riconosciuto – e conseguentemente valutato – per quello che è: una decisione “pura”, in cui l’urgenza di una situazione di vita che esige risposta fa prevalere la forza dei fatti sull’ideale di una rigorosa chiusura del sistema normativo.
In verità, nella perdurante assenza di un intervento del legislatore volto a regolare la condizione giuridica dei nati in violazione dei divieti di cui alla legge n. 40 del 2004, anche lo spinoso problema posto dalla cancellazione integrale della trascrizione avrebbe forse potuto trovare una soluzione adeguata nel riferimento alla disciplina dell’adozione in casi particolari. Più precisamente, nel caso di specie, si sarebbe potuto prospettare il ricorso a quella disciplina al fine di formalizzare non solo il rapporto di cura genitoriale in atto con la committente priva di legame genetico con la bambina, ma anche il rapporto con l’altra committente, quella che ha fornito l’ovocita. Si sarebbe così evitata quell’impressione spiacevole di una resa incondizionata del sistema alla logica del fatto compiuto.
Certo anche questa soluzione avrebbe determinato una qualche forzatura del dato sistematico. Tale forzatura si sarebbe però prodotta in una direzione già ampiamente sperimentata dal diritto vivente. Si è già avuto modo di ricordare, infatti, che dell’art. 44, lett. d), della legge n. 184 del 1983 si è ormai imposta una lettura “creativa” per cui quella norma varrebbe a formalizzare qualsiasi rapporto genitoriale de facto che non risulti in concreto pregiudizievole per l’interesse del minore[23]. Non si vede allora per quale ragione, in ogni caso di nascita da madre surrogata, e dunque anche al di là del particolare caso di specie, non si potrebbe far riferimento a questa previsione normativa per formalizzare i rapporti in atto con entrambi i committenti.
È senz’altro vero, poi, che la soluzione prospettata sarebbe comunque rimasta affidata ad un’ulteriore iniziativa delle committenti. L’adozione in casi particolari, infatti, non è mai capace di imporsi agli adulti. Ma almeno sarebbe stato risolto il problema della necessità dell’assenso del genitore all’adozione da parte dell’altro componente della coppia committente: un assenso che, in caso di sopravvenuta crisi di coppia, potrebbe anche essere negato[24]. In effetti, in un caso come quello in esame, una volta cancellata la trascrizione, non vi sarebbe alcun genitore che dovrebbe prestare il proprio assenso all’adozione ex art. 44, lett. d), cit.
7. Spunti per una possibile soluzione de iure condendo
Fin qui l’analisi critica del decreto del Tribunale di Bari. La particolarità del caso e l’estrema problematicità della sua decisione attestano nondimeno, una volta di più, l’urgenza – opportunamente rimarcata anche dalla Corte costituzionale – di un intervento del legislatore finalmente capace di garantire al nato da madre surrogata una tutela che sia insieme piena e non incoerente con la valutazione negativa espressa dall’ordinamento nei confronti della pratica in questione.
Invero, al riguardo la Corte costituzionale, prendendo le distanze in maniera inequivocabile dall’automatismo della trascrizione dell’atto straniero, ha già messo in chiaro come l’unica strada percorribile sia quella di consentire al minore di far valere, nei confronti dei committenti, tutti i diritti propri del figlio a seguito di un concreto accertamento giudiziale della conformità dei rapporti in atto al suo superiore interesse. Ciò posto, appare però alquanto problematica l’idea diffusa – avallata dalla stessa Corte costituzionale – secondo cui, per garantire un simile risultato, basterebbe apportare solo pochi correttivi alla disciplina dell’adozione in casi particolari. In realtà, come già si è provato ad osservare in altra sede, qualsiasi soluzione di tipo adottivo sarebbe comunque insoddisfacente[25].
E ciò, innanzitutto, proprio in considerazione della finalità di assicurare al nato una tutela piena. Mediante l’adozione, infatti, il nato non si vedrebbe comunque riconosciuto un diritto alla costituzione dello status nei confronti dei committenti[26]. In effetti, neppure laddove permette la formalizzazione di rapporti di cura in atto, l’adozione consente al minore di “rivendicare” il rapporto genitoriale nei confronti degli adulti. E però, se davvero la garanzia del diritto del nato da madre surrogata al rispetto della propria vita privata richiede la formalizzazione dei rapporti in atto con i committenti, allora questa formalizzazione non può che essere oggetto di un suo diritto[27].
D’altra parte, la soluzione dell’adozione in casi particolari appare inadeguata anche se ci si pone nella diversa prospettiva di non contraddire la scelta proibizionista dell’ordinamento. E ciò perché la legittimazione ad attivare quel meccanismo di tutela dell’interesse del minore è comunque riconosciuta agli stessi adulti che hanno inteso realizzare il proprio desiderio di genitorialità attraverso il ricorso a una pratica degradante che l’ordinamento disapprova[28].
Una disciplina autenticamente rimediale a tutela dei nati contra legem dovrebbe allora abbandonare il modello adottivo e trovare piuttosto collocazione nell’apposito capo della legge n. 40 del 2004 recante “Disposizioni a tutela del nascituro”, avendo cura di distinguere il caso del ricorso all’eterologa da parte di una coppia di donne da quello del ricorso alla maternità surrogata.
Infatti, mentre nel primo caso sembra opportuna una disciplina che differenzi la posizione delle due componenti della coppia, in considerazione del fatto che una di esse ha comunque portato avanti la gravidanza, nel caso della surrogazione di maternità[29], invece, il potere di “rivendicare” i diritti propri del figlio a seguito di un concreto accertamento giudiziale di conformità all’interesse del minore dovrebbe essere riconosciuto allo stesso minore, il quale potrebbe farlo valere, nei confronti di entrambi i committenti, attraverso un curatore speciale nominato dal giudice.
In tal modo i componenti della coppia committente sarebbero posti su uno stesso piano, eventualmente disattivando le norme codicistiche che, secondo l’opinione prevalente, consentirebbero altrimenti l’accertamento dello status in capo al committente di sesso maschile che abbia messo a disposizione il proprio seme per la formazione dell’embrione impiantato nell’utero della madre surrogata.
Come già si è avuto modo di rilevare, infatti, proprio la peculiarità del caso venuto all’attenzione del Tribunale di Bari, in cui la surrogazione è stata commissionata da una coppia di donne, fa emergere con particolare chiarezza un aspetto che caratterizza in realtà tutti le ipotesi di ricorso a tale pratica: l’irragionevolezza, in un ordinamento proibizionista, di una discriminazione dei committenti a seconda dell’esistenza o meno di un legame di sangue col nato, e dunque l’esigenza di un eguale trattamento degli stessi.
[1] Cfr. Cass., Sez. Un., 8 maggio 2019, n. 12193, in Foro it., 2019, I, 1951 ss. Alla decisione ha fatto seguito un ampio dibattito. Senza pretesa di completezza, tra i commenti adesivi, v. Luccioli, Dalle sezioni unite un punto fermo in materia di maternità surrogata, ivi, 4027 ss.; Ead., Qualche riflessione sulla sentenza delle Sezioni Unite n. 12193 del 2019 in materia di maternità surrogata, in GenIUS, 2020 (pubbl. on line 23 maggio 2020). Sempre in senso adesivo, ma con spunti problematici significativi, v. M. Bianca, La tanto attesa decisione delle Sezioni Unite. Ordine pubblico versus superiore interesse del minore?, in Familia, 2019, 369 ss. In senso parzialmente critico v. Salanitro, Ordine pubblico internazionale, filiazione omosessuale e surrogazione di maternità, in Nuova giur. civ. comm., 2019, 737 ss. In senso decisamente critico v. le note di Dogliotti, Le Sezioni Unite condannano i due padri e assolvono le due madri e di Ferrando, Maternità per sostituzione all’estero: le Sezioni Unite dichiarano inammissibile la trascrizione dell’atto di nascita. Un primo commento, in Fam. dir., 2019, 653 ss., nonché i commenti di Barba, Ordine pubblico e gestazione per sostituzione. Nota a Cass. Sez. Un. 12193/2019 e di Venuti, Le sezioni unite e l’omopaternità: lo strabico bilanciamento tra il best interest of the child e gli interessi sottesi al divieto di gestazione per altri, in GenIUS, 2020, cit.
[2] Così Cass. 11 novembre 2014, n. 24001. La decisione è pubblicata, tra l’altro, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2015, I, 235 ss., con nota adesiva di Benanti, La maternità è della donna che ha partorito: contrarietà all’ordine pubblico della surrogazione di maternità e conseguente adottabilità del minore, e in Corr. giur., 2015, 471 ss., con nota adesiva di Renda, La surrogazione di maternità tra principi costituzionali ed interesse del minore.
[3] Così Corte cost., 18 dicembre 2017, n. 272, pubblicata, tra l’altro, in Corr. giur., 2018, 446 ss., con nota parzialmente adesiva di Ferrando, Gestazione per altri, impugnativa del riconoscimento e interesse del minore, e in Nuova giur. civ. comm., 2018, p. 547 ss., con note parzialmente adesive di Gorgoni, Art. 263 cod. civ.: tra verità e conservazione dello status filiationis e di Salanitro, Azioni di stato e favor minoris tra interessi pubblici e privati
[4] La soluzione indicata nel testo si è imposta dapprima nella giurisprudenza di merito e poi anche in quella di legittimità a partire da Cass. 22 giugno 2016, n. 12962, pubblicata, tra l’altro, in Giur. it., 2016, 2573 ss., con nota critica di Spadafora, Adozione, tutela dell’omogenitorialità ed i rischi di eclissi della volontà legislativa e nota adesiva di Rivera, La sentenza della Corte di Cassazione n. 12962/2016 e il superiore interesse del minore; in Nuova giur. civ. comm., 2016, 1135 ss., con nota adesiva di Ferrando, Il problema dell’adozione del figlio del partner. Commento a prima lettura della sentenza della Corte di Cassazione n. 12962 del 2016 (1213 ss.); in Familia, 2016, 295 ss., con nota adesiva di C. Irti, L’adozione del figlio del convivente (omosessuale): la Cassazione accoglie l’interpretazione evolutiva dell’art. 44, lett. d), l. n. 184 del 1983; in Corr. giur., 2016, 1203 ss., con nota critica di Morozzo della Rocca, Le adozioni in casi particolari ed il caso della stepchild adoption; in Nuovo dir. civ., 2016, 91 ss., con ns. nota critica L’adozione semplice del figlio del convivente (dello stesso sesso). Per una ricostruzione dell’evoluzione giurisprudenziale che, in virtù dell’applicazione estensiva della lett. d), art. 44, l. n. 184/83, ha portato ad ammettere la possibilità dell’adozione del figlio di un convivente da parte dell’altro, di sesso differente o dello stesso sesso, sia consentito rinviare al ns. L’adozione del figlio del convivente. A Milano prosegue il confronto tra i giudici di merito, in Fam. dir., 2017, 1004, nt. 3. Nella dottrina più recente la forzatura del dato normativo è evidenziata anche da Nicolussi, Famiglia e biodiritto civile, in Europa e dir. priv., 2019, 766 s.; Sesta, Manuale di diritto di famiglia8, Padova, 2019, 446 s.; E. Giacobbe, Due non è uguale a uno più uno. Bigenitorialità e rapporti omoparentali, in Dir. fam. pers., 2019, 248 ss.; Spadafora, Contrattare sugli affetti, Milano, 2018, 291 ss. È bene precisare che in Cass. n. 12962/2016 la possibilità di far ricorso alla lett. d dell’art. 44 cit. è stata affermata con riferimento a un caso di ricorso alla fecondazione eterologa da parte di una coppia di donne. La praticabilità di una tale soluzione anche in caso di ricorso alla surrogazione di maternità è stata invece affermata per la prima volta nella giurisprudenza di legittimità proprio da Cass. n. 12193/2019, dopo che già Corte cost. n. 272/2017 aveva fatto riferimento ad essa quale strumento legale utile al fine di tutelare adeguatamente il nato da madre surrogata nonostante il divieto di riconoscimento ab initio del rapporto genitoriale col committente privo di legame biologico.
[5] Al riguardo, anche per gli opportuni riferimenti giurisprudenziali, v. Lenti, Diritto della famiglia, nel Trattato di dir. priv. a cura di Iudica e Zatti, Milano, 2021, 205. L’affermazione riferita nel testo quanto all’ambito del giudizio di rettificazione è anche in Cass. n. 12193/2019.
[6] Cfr. Corte cost., 9 marzo 2021, n. 32 e n. 33. Con tali decisioni la Corte costituzione si è pronunciata nel senso dell’inammissibilità sia della questione di legittimità della soluzione interpretativa che, in caso di ricorso alla fecondazione eterologa da parte di una coppia di donne, esclude l’accertamento di una doppia maternità in base alla legge italiana sia, rispettivamente, della questione di legittimità della soluzione interpretativa che, in caso di nascita da madre surrogata, esclude il riconoscimento in Italia del rapporto genitoriale puramente volontario già accertato all’estero. In entrambe le decisioni, inoltre, il Giudice delle leggi ha invitato il legislatore ad elaborare con urgenza una disciplina che, superando taluni limiti della soluzione giurisprudenziale che fa riferimento alla disciplina dell’adozione in casi particolari (il mancato riconoscimento di una genitorialità piena in capo all’adottante, l’impossibilità dell’adozione in mancanza di assenso del genitore biologico, la pretesa insussistenza di rapporti di parentela tra l’adottato e i parenti dell’adottante), riconosca al nato tutti i diritti del figlio anche nei confronti del cd. genitore intenzionale, senza escludere però che un simile risultato possa realizzarsi in una prospettiva tipicamente “rimediale”, e cioè soltanto laddove risulti che la continuità del rapporto in atto sia in concreto la soluzione migliore per il minore. Anzi, come si vedrà, per la Corte, soprattutto nel caso del ricorso alla maternità surrogata, solo una soluzione di questo tipo è davvero idonea a risolvere il problema della tutela dei nati contra legem senza contraddire le scelte proibizioniste del legislatore. Com’era prevedibile le sentenze in questione della Corte costituzionale hanno suscitato un ampio dibattito. Sulla sentenza n. 33 del 2021 v. Morace Pinelli, La tutela del minore nato attraverso una pratica di maternità̀ surrogata. L’intervento della Corte costituzionale, in attesa del legislatore, in Familia, 2021, 391 ss.; Calderai, Il dito e la luna. I diritti fondamentali dell’infanzia dopo Corte cost. n. 33/2021, in Giur. it., 2022, 301 ss.; Ferrando, Diritti dei bambini e genitori dello stesso sesso. Il cambio di passo della Consulta, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2021, II, 937 ss.; Venuti, Diritti dei figli vs. genitorialità same sex: antitesi o composizione? Il dialogo (muto) tra la Corte costituzionale e il legislatore italiano, ivi, 949 ss.
[7] In dottrina, invero, non sembra tuttora affatto scontata l’idea secondo cui, in forza dell’art. 8 cit., lo status genitoriale sarebbe senz’altro attribuito alla coppia che abbia fatto ricorso alle tecniche ammesse dalla legge semplicemente in virtù del consenso prestato. Al riguardo, in senso critico, e cioè nel senso che, in realtà, l’art. 8 cit., sia con riguardo alla filiazione matrimoniale sia con riguardo alla filiazione extramatrimoniale, non avrebbe introdotto alcuna innovazione quanto all’acquisizione dello status, cfr. Sesta, Manuale, cit., 416 s.; in precedenza, nello stesso senso, v. anche Renda, L’accertamento della maternità. Profili sistematici e prospettive evolutive, Torino, 2008, 161 ss. Al riguardo v. tuttavia i rilievi critici di Salanitro, nel Commentario del cod. civ. diretto da E. Gabrielli, Della famiglia a cura di Di Rosa, Leggi complementari2, Milano, 2018, 1738 ss., al quale si rinvia anche per ulteriori riferimenti bibliografici. In ogni caso, l’idea secondo cui l’art. 8 cit. prevederebbe un sistema autonomo di costituzione dello status filiationis, che dovrebbe trovare applicazione anche nei casi di ricorso a pratiche vietate, sembra essere stata accolta almeno da Cass. 15 maggio 2019, n. 13000. È in base a tale idea, infatti, che quest’ultima decisione ha ritenuto ammissibile la costituzione dello status filiationis anche nei confronti del marito deceduto in un caso di fecondazione post mortem. La decisione indicata è stata pubblicata, tra l’altro, in Foro it., 2019, 2003 ss., con nota adesiva di Casaburi, Le alterne vicende delle nuove forme di genitorialità nella giurisprudenza più recente; in Nuova giur. civ. comm., 2019, I, 1282 ss., con nota di Faccioli, La condizione giuridica del soggetto nato da procreazione assistita post mortem; in Fam. dir., 2020, p. 27 ss., con nota di Giunchedi, La procreazione assistita post mortem tra responsabilità procreativa e favor stabilitatis. La giurisprudenza successiva ha significativamente ridimensionato la portata di una simile decisione, osservando in particolare che in quel caso “non era in discussione l’esistenza di un rapporto biologico tra il nato ed il genitore d’intenzione” (così Cass., 23 agosto 2021, n. 23320, in Fam. e dir., 2022, 154 ss., con nota critica di Diquattro, Lo status del minore nato in Italia da una coppia di donne). In ogni caso, come già si è avuto modo di rilevare in altra occasione (v. il ns. La norma personalista, la famiglia ‘fondata sul matrimonio’ e il diritto alla genitorialità naturale, in Jus, 2021, 449 ss.), non sembra che il fondamento biologico della filiazione in caso di concepimento attraverso il seme di un defunto debba senz’altro essere considerato un valore per l’ordinamento. In effetti, i divieti di accesso alle tecniche procreative non rispondono semplicemente all’esigenza di preservare il carattere naturale della generazione umana. La garanzia di tale esigenza è a sua volta funzionale alla garanzia della dignità del nascere dell’uomo: garantire la naturalità della generazione umana serve cioè a garantire che questa si realizzi pur sempre in una maniera rispettosa del valore sovrautilitaristico della persona. Il fondamento biologico della responsabilità genitoriale rappresenta allora un valore solo nella misura in cui vale a sottrarre il generato alla logica utilitaristica propria dell’autodeterminazione riproduttiva degli adulti. Anche una genitorialità biologica che risulti dal ricorso a tecniche vietate può dunque apparire problematica per l’ordinamento.
[8] Cfr. Cass., ord. 21 gennaio 2022, n. 1842, in Giur. it., 1825 ss., con nota sostanzialmente adesiva di Salanitro, Maternità surrogata e ordine pubblico: la penultima tappa?, il quale evidenzia appunto come in questa decisione la Suprema Corte si mostri comunque consapevole della necessità di dover contemperare l’interesse del minore con il fondamento del limite dell’ordine pubblico. In termini generali, l’idea secondo cui, quando sono in gioco valori primari della persona, in attesa dell’intervento del legislatore, l’interprete dovrebbe senz’altro colmare i vuoti di tutela denunciati dal Giudice delle leggi è argomentata anche da R. Bin, L’interpretazione della Costituzione in conformità alle leggi. Il caso della famiglia, in Fam. e dir., 2022, 514 ss. Per una (condivisibile) disamina critica dell’ordinanza della Suprema Corte v. invece Morace Pinelli, Il problema della maternità surrogata torna all’esame delle Sezioni Unite, in Familia, 2022, 437 ss. Da ultimo per un’accurata analisi critica dell’ordinanza della prima sezioni civile della Suprema Corte v. anche M. Bianca, Il travagliato percorso della tutela del bambino nato da maternità surrogata. Brevi note a margine dell’ordinanza di rinvio alle Sezioni unite n. 1842 del 2022, in giustiziainsieme.it (pubbl. on line, 27 ottobre 2022) e Luccioli, La maternità surrogata di nuovo all’esame delle Sezioni Unite. Le ragioni del dissenso, ivi (pubbl. on line, 28 ottobre 2022).
[9] Quanto ai limiti posti dall’ordinanza della prima sezione civile della Suprema Corte al riconoscimento automatico della genitorialità dei committenti, è bene ricordare anzitutto che anche la Corte di Strasburgo, con la sentenza del 18 maggio 2021 (ric. 71552/17, nel caso Valdís Fjölnisdóttir e altri c. Islanda), ha riconosciuto la piena legittimità del rifiuto opposto al riconoscimento della genitorialità dei committenti – in quel caso si trattava di due donne – laddove risultino entrambi privi di un legame genetico col nato. Su questa decisione v. il commento di B. Checchini, “Vita familiare” vs “maternità surrogata”: il nuovo punto di equilibrio della Corte europea. Quale rilievo all’identità del nato?, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2022, 396 ss. Il riferimento al carattere libero e consapevole della scelta della madre surrogata, alla sua indipendenza da contropartite economiche e alla sua revocabilità fino alla nascita del bambino richiama invece il modello della maternità surrogata cd. solidale, che taluni interpreti hanno ritenuto senz’altro ammissibile già de iure condito: cfr. A. G. Grasso, Maternità surrogata altruistica e tecniche di costituzione dello status, Torino, 2022, 31 ss.; Id., Per un’interpretazione costituzionalmente orientata del divieto di maternità surrogata, in Teoria e critica della regolazione sociale, 2018, 151 ss.; nello stesso senso si era espresso anche Scalisi, Maternità surrogata: come “fare cose con regole”, in Riv. dir. civ., 2017, 1100. La tesi, oltre a quanto si dirà subito infra nel testo, appare comunque difficilmente sostenibile soprattutto dopo che Corte cost., 23 ottobre 2018, n. 221, ha ridimensionato significativamente taluni passaggi argomentativi della precedente sentenza n. 162 del 10 giugno 2014, riconducendo la decisione favorevole all’abrogazione del divieto di fecondazione eterologa all’esigenza di porre rimedio a un bilanciamento di interessi reputato irragionevole più che alla logica del riconoscimento di un diritto incondizionato degli adulti alla genitorialità. In ogni caso, anche da ultimo, è stato giustamente osservato (da Morace Pinelli, Il problema della maternità surrogata, cit., 439) che “l’idea di una surrogazione di maternità c.d. solidale, frutto di un progetto condiviso, espressione della libertà di autodeterminarsi della gestante, si scontra con una realtà assai meno candida della favola bella, assai diffusa, che vede per protagonista una donna, già madre, felice di risperimentare nel suo ventre la vita nascente e desiderosa di aiutare il prossimo, compiendo un atto d’amore”. E ciò perché, nella vita reale, sarebbe praticamente impossibile trovare donne disponibili ad una simile prestazione, sempre che i rimborsi e gli indennizzi ad esse dovuti non mascherino veri e propri compensi. Anche secondo Bianca, Il travagliato percorso della tutela del bambino nato da maternità surrogata, cit., n. 2, “la lesione della dignità non dipende dal carattere oneroso o gratuito del contratto, ma dalla rinuncia allo status di madre”. Concorda anche Luccioli, La maternità surrogata di nuovo all’esame delle Sezioni Unite, cit., n. 4. Un modello assai rigoroso di maternità surrogata cd. solidale è stato accolto di recente dal legislatore portoghese, il quale ha ammesso il ricorso alla maternità surrogata non solo in assenza di contropartite economiche per la gestante e comunque prevedendo la revocabilità del consenso prestato fino al momento della nascita del bambino, ma solo a favore di una donna priva di utero o che versi comunque in una situazione clinica che le impedisca in modo definitivo di portare avanti una gravidanza. Sulla soluzione portoghese v. i rilievi di L. Bozzi, Legiferare in tema di gestazione per altri. La legge portoghese: ragioni, interrogativi e illusioni (su ogni legge in materia), lavoro in corso di pubblicazione, consultato per cortesia dell’A., la quale non manca di evidenziare non solo il carattere assai poco realistico di una maternità surrogata c.d. solidale, ma anche come una soluzione estremamente rigorosa come quella portoghese presenti un alto costo in termini simbolici, finendo comunque per legittimare a livello della coscienza collettiva una pratica degradante.
[10] Per tale lettura delle decisioni della Corte costituzionale sia consentito rinviare al ns. La tutela dei nati a seguito di violazione dei divieti previsti dalla l. n. 40/2004. Il compito del legislatore dopo il giudizio della Corte costituzionale, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2021, 919 ss. Anche secondo Bianca, Il travagliato percorso della tutela del bambino nato da maternità surrogata, cit., n. 3, per la Corte costituzione occorre “circoscrivere i limiti dell’ammissibilità del riconoscimento della genitorialità di intenzione alla sola ipotesi di progetto genitoriale attuale e al riscontro di un rapporto di cura e di affetto che deve necessariamente essere valutato in concreto e mai in astratto”. Di conseguenza – prosegue l’A. cit. – “deve ritenersi che la soluzione della trascrizione automatica del provvedimento straniero non realizza mai questi requisiti, in quanto conduce inevitabilmente ad una valutazione astratta e generalizzata”. Una lettura analoga delle decisioni in questione della Corte costituzionale è anche in Luccioli, La maternità surrogata di nuovo all’esame delle Sezioni Unite, cit., n. 3 e n. 4, ad avviso della quale il Giudice delle leggi “ha ritenuto, in linea con le indicazioni espresse dalla Corte EDU, che l’interesse del minore debba essere tutelato senza automatismi, attraverso un procedimento di adozione effettivo e celere, che riconosca la pienezza del legame di filiazione tra adottante e adottato, allorché ne sia stata accertata in concreto la corrispondenza agli interessi del bambino”.
[11] Nel senso indicato nel testo v. il ns. La tutela dei nati, cit., 921 ss. Nello stesso senso v. anche Luccioli, La maternità surrogata di nuovo all’esame delle Sezioni Unite, cit., n. 3 e n. 4 e Bianca, Il travagliato percorso della tutela del bambino nato da maternità surrogata, cit., n. 3
[12] Sul punto insiste opportunamente anche Morace Pinelli, Il problema della maternità surrogata, cit., 444 ss., il quale ricorda, tra l’altro, che “gli invalicabili limiti che incontra il giudice in questa peculiare materia sono stati ammirevolmente e ripetutamente riaffermati anche di recente dalla medesima prima sezione civile della Corte di cassazione”. L’A. cit. fa riferimento in particolare a Cass., 25 febbraio 2022, n. 6383 (in Fam. e dir., 2022, 581 ss., con nota di Calvigioni, In Italia non è consentita la registrazione della filiazione da genitori dello stesso sesso: la conferma della Corte di cassazione) e Cass., 7 marzo 2022, n. 7413, ord. In particolare, con quest’ultima decisione, in un caso di ricorso alla fecondazione eterologa da parte di una coppia di donne, la Suprema Corte ha ordinato la cancellazione dall’atto di nascita formato in Italia dell’indicazione della maternità anche della donna priva di legame genetico col nato, escludendo espressamente la possibilità di far valere un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 8 cit. E ciò perché – si dice – la prevalenza da accordarsi all’interesse del minore “non legittima l’automatica estensione delle disposizioni dettate per la p.m.a. anche ad ipotesi estranee al loro ambito di applicazione, non potendo [la Suprema Corte] sostituirsi al legislatore, cui spetta, nell’esercizio della propria discrezionalità, l’individuazione degli strumenti giuridici più opportuni per la realizzazione del predetto interesse, compatibilmente con il rispetto dei principi sottesi alla l. n. 40 del 2004”.
[13] Il riferimento è a Corte cost., 28 marzo 2022, n. 79. Sull’importante decisione v. i commenti di M. Bianca, La Corte costituzionale e il figlio di coppia omoaffettiva. Riflessioni sull’evoluzione dei modelli di adozione (nota a Corte cost., 28 marzo 2022, n. 79), in Familia, 2022, 349 ss. e di Ferrando, Adozione in casi particolari e rapporti di parentela. Cambia qualcosa per i figli nati da maternità surrogata?, in Questione Giustizia (pubbl. on line, 7 giugno 2022).
[14] Al riguardo v. l’advisory opinion della Corte di Strasburgo del 10 aprile 2019, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2019, I, 757 ss., con nota di A. G. Grasso, Maternità surrogata e riconoscimento del rapporto con la madre intenzionale. Le conclusioni del parere sono state poi confermate in successive sentenze della stessa Corte: una del 19 novembre 2019 (ricc. 1462/18 e 17348/2018, nei casi C. c. Francia ed E. c. Francia) e una del 17 luglio 2020 (ric. 11288/18, nel caso D. c. Francia). Come si è già avuto modo di ricordare, invece, la validità di certe conclusioni non è stata estesa al caso in cui nessuno dei componenti della coppia committente risulti legato biologicamente al nato: cfr. sent. del 18 maggio 2021, cit.
[15] In dottrina, all’indomani della pubblicazione dell’advisory opinion della Corte di Strasburgo, Grasso, Maternità surrogata e riconoscimento del rapporto con la madre intenzionale, cit., 762 ss., aveva giustamente rilevato come anche la disciplina italiana dell’adozione in casi particolari potesse ritenersi sostanzialmente rispettosa dei requisiti richiesti, con la conseguenza che non ci si poteva attendere che l’opinion dispiegasse effetti innovativi nell’ordinamento italiano, “limitandosi a confermare la correttezza delle soluzioni già individuate dalla nostra giurisprudenza”. In effetti, a parte che la Corte di Strasburgo non aveva fatto alcun riferimento, tra i possibili pregiudizi alla vita privata del minore, all’insussistenza di rapporti di parentela tra adottato e parenti dell’adottante, l’A. cit. notava anche che il riferimento a una “pronta” formalizzazione del rapporto in atto non poteva intendersi sbrigativamente nel senso della necessità di una sua formalizzazione immediata, giacché per la Corte europea “l’interesse superiore del minore richiede soltanto che il legame giuridico con la madre intenzionale possa essere riconosciuto al più tardi quando si sia consolidato quello sociale”. D’altra parte, sempre nel parere preliminare della Corte di Strasburgo, si legge che “it is in principle not for the Court but first and foremost for the national authorities to assess whether and when, in the concrete circumstances of the case, the said relationship has become a practical reality”.
[16] Al riguardo v. Renda, La surrogazione di maternità, cit., 481 s., per il quale “nel sistema parto e procreazione, cioè gravidanza e geni sono assunti come due componenti indissociabili entro un unitario concetto di maternità come qualità di colei che genera concependo e partorendo, non come entità potenzialmente dissociabili delle quali, se dissociate, debba prevalere la prima”.
[17] L’indicato profilo di irragionevolezza e contraddittorietà della soluzione che differenzia la posizione dei committenti rispetto al nato da madre surrogata a seconda della sussistenza o meno di un legame genetico è stato giustamente evidenziato nell’ordinanza con cui la Suprema Corte ha sollevato la questione di legittimità costituzionale della soluzione interpretativa che ritiene la contrarietà all’ordine pubblico del provvedimento straniero che accerti un rapporto genitoriale puramente intenzionale: cfr. Cass., 29 aprile 2020, n. 8325 (su tale provvedimento v. almeno i commenti di M. Bianca, Il revirement della Cassazione dopo la decisione delle Sezioni Unite. Conflitto o dialogo con la Corte di Strasburgo? Alcune notazioni sul diritto vivente delle azioni di stato, in giudicedonna.it, 2020, n. 2; Calderai, La tela strappata di Ercole. A proposito dello stato dei nati da maternità surrogata, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2020, I, 1109 ss.; Ferrando, I diritti del bambino con due papà. La questione va alla Corte costituzionale e Recinto, Un inatteso “revirement” della Suprema Corte in tema di maternità surrogata, in Fam. dir., 2020, 675 ss.; Salanitro, L’ordine pubblico dopo le Sezioni Unite: la Prima Sezione si smarca… e apre alla maternità surrogata, in Corr. giur., 2020, 902 ss.). Invero, nella prospettiva di quel Giudice il rilievo serviva ad accreditare ulteriormente la tesi dell’irragionevolezza del limite opposto al riconoscimento dello status puramente intenzionale già accertato all’estero. Non sembra invero che la decisione del Giudice delle leggi si sia fatta carico di confutare un simile argomento. In realtà, nella prospettiva assunta da quest’ultimo Giudice, che esclude l’accertamento automatico del rapporto in atto col committente privo di legame genetico, l’argomento in questione dovrebbe piuttosto valere ad accreditare la soluzione secondo cui la formalizzazione del rapporto di cura genitoriale in atto dovrebbe essere subordinata ad un accertamento giudiziale in concreto della sua corrispondenza all’interesse del minore anche rispetto al committente legato biologicamente al nato. Al riguardo, volendo, v. il ns. La tutela dei nati, cit., 925 ss.
[18] Al riguardo v. Grasso, Maternità surrogata, cit., 762; da ultimo v. anche Salanitro, Maternità surrogata e ordine pubblico, cit., 1828. È ben noto invece che, prima delle sentenze “gemelle” della Corte di Strasburgo (si tratta più precisamente delle decisioni rese il 26 giugno 2014, ricc. 65192/11 e 65941/11, nei casi Mennesson c. Francia e Labassee c. Francia), la giurisprudenza francese era invece ferma nell’escludere l’accertamento dello status del nato da madre surrogata anche nei confronti del padre biologico (rif. in Grasso, Maternità surrogata, cit., 760 s.).
[19] Al riguardo cfr. Lenti, Unione civile, convivenza omosessuale, filiazione, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2016, II, 1711.
[20] Cfr. C. M. Bianca, Diritto civile, I, La norma giuridica. I soggetti2, Milano, 2002, 305 s.
[21] Cfr. Monteleone, Manuale di diritto processuale civile, II8, Padova, 2018, 419 ss.
[22] Cfr. Renda, La surrogazione di maternità, cit., 482, per il quale la maternità della partoriente rappresenta la “soluzione più coerente con il divieto che possa raggiungersi entro il sistema, perché nel fondare la maternità su uno dei due criteri legalmente cumulativi dà preferenza a quello tra essi che realizza l’effetto di status più adeguato a reprimere e quindi a disincentivare l’intesa illegale, perché privativo della maternità della committente, divisata dalle parti”.
[23] Al riguardo v. supra, nt. 4.
[24] Si tratta di uno dei profili di inadeguatezza della disciplina dell’adozione in casi particolari rilevati dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 32 e n. 33 del 2021. La questione non può essere affrontata in questa sede in maniera analitica. Sulla legittimità della negazione dell’assenso del genitore all’adozione in casi particolari v. tuttavia i penetranti rilievi di Favilli, Stato filiale e genitorialità sociale: dal fatto al rapporto, in Giur. it., 2022, 319 s. Ad avviso di quest’A., nonostante il chiaro disposto normativo dell’art. 46 l. n. 184 del 1983, sarebbe possibile sostenere una “interpretazione creativa” in virtù della quale “il diritto del genitore esercente la responsabilità di decidere della sorte dei rapporti intessuti all’interno della famiglia, ed eventualmente di privare il minore di un apporto fondamentale per la crescita e lo sviluppo, non può essere espressione di un interesse proprio…, ma deve essere guidato, e eventualmente sindacato, alla luce dell’interesse del minore”. Tale proposta è condivisa da Calderai, Il dito e la luna, cit., 311. Nello stesso senso v. anche Bianca, Il travagliato percorso della tutela del bambino nato da maternità surrogata, cit., nn. 4 e 5. In senso critico v. invece Salanitro, Maternità surrogata e ordine pubblico, cit., 1830 s.
[25] Sia consentito rinviare alle considerazioni già svolte nel ns. La tutela dei nati, cit., 922; v. pure il ns. Tecniche procreative vietate e status dei nati. Riflessioni de iure condendo a partire dalle proposte legislative di estensione dell’ambito territoriale del reato di maternità surrogata, in Allargare gli orizzonti della carità. Per una nuova progettualità sociale a cura di Bettini e Tondini, Atti del IV Forum internazionale del Gran Sasso, Teramo, 2022, II, 669 ss.
[26] Il dato è stato opportunamente rilevato anche da Salanitro, L’ordine pubblico dopo le Sezioni Unite, cit., 916, già rispetto al riferimento all’adozione contenuto nell’advisory opinion della Corte di Strasburgo. L’A. è tornato sul punto anche in seguito: cfr. Id., L’adozione e i suoi confini. Per una disciplina della filiazione da procreazione assistita illecita, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2021, 944; Id., Maternità surrogata e ordine pubblico, cit., 1831. Per considerazioni analoghe v. anche A. G. Grasso, Oltre l’adozione in casi particolari, dopo il monito del legislatore. Quali regole per i nati da PMA omosex e surrogazione?, in Nuove Leggi Civ. Comm., 2021, 718; Azzarri, I diritti dei nati da gestazione per altri e i limiti costituzionali dell’ordine pubblico, ivi, 1180 ss.; Caterina e Lenti, La famiglia, nel Trattato dir. priv. diretto da S. Mazzamuto, Torino, 2022, 252 s. Secondo Morace Pinelli, Il problema della maternità surrogata, cit., 451, “per superare il rilievo che l’adozione particolare è rimessa alla discrezionalità del genitore d’intenzione, potrebbe essere ragionevole riconoscere al minore l’azione ex art. 279 c.c.”. Anche quest’A. concorda comunque sull’esigenza di un intervento del legislatore.
[27] Al riguardo v. il ns. La tutela dei nati, cit., 922.
[28] Al riguardo Salanitro, Maternità surrogata e ordine pubblico, cit., 1831, osserva perspicuamente che “con una singolare eterogenesi dei fini, le ragioni di deterrenza contro il comportamento della coppia intenzionale si trasformano in una posizione di vantaggio che consente alla stessa coppia di decidere se assumere il ruolo genitoriale: si consente, in tal modo, al genitore intenzionale di sottrarsi alla responsabilità nel caso in cui il minore non risponda ai suoi desiderata, esaltando l’interesse alla soddisfazione di un modello edonistico del diritto alla discendenza che, sul piano delle dichiarazioni di principio, si sostiene di voler respingere”
[29] Al riguardo v. il ns. La tutela dei nati, cit., 929, ove si è detto che in nessun caso di ricorso all’eterologa da parte di coppie di donne sembra possibile sostenere l’esclusione dell’accertamento ab initio della maternità della partoriente, giacché nei confronti di quest’ultima il profondo legame anche psicologico che si consolida col concepito durante la gravidanza e la mancanza di sanzione penale per la condotta in questione, comunque vietata dalla legge italiana, renderebbero ben difficile da giustificare la diversa soluzione del riconoscimento al minore dei diritti propri del figlio solo a seguito di una verifica giudiziale in concreto di conformità al suo superiore interesse. Un simile procedimento di formalizzazione del rapporto di cura genitoriale in atto potrebbe invece essere riservato al rapporto del nato con l’altra componente della coppia che abbia fatto ricorso all’eterologa in violazione del divieto di legge, superando così l’attuale diversità di trattamento esistente a seconda che la nascita avvenga all’estero o in Italia. Com’è noto, infatti, mentre nel primo caso è invalsa la soluzione secondo cui il provvedimento straniero che accerti una doppia maternità può senz’altro essere trascritto, nel secondo caso, invece, si esclude che l’ufficiale di stato civile possa formare un atto di nascita contenente un analogo accertamento. Quest’ultimo orientamento, in particolare, si è consolidato nella giurisprudenza di legittimità dopo che, con la sentenza n. 221 del 2019, la Corte costituzionale ha riconosciuto non fondata la questione di legittimità costituzionale delle norme della legge n. 40 del 2004 che non consentono il ricorso all’eterologa a coppie di donne: cfr. Cass. 3 aprile 2020, n. 7668 (in Fam. dir., 2020, 537 ss., con nota critica di Scalera, Doppia maternità nell’atto di nascita: la Cassazione fa un passo indietro e ulteriore nota di Calvigioni, L’ufficiale di stato civile non può registrare la nascita dei genitori same sex: dai giudici di merito fino alla Cassazione; in Corr. giur., 2020, 1041 ss., con nota critica di Grasso, Nascita in Italia e PMA da coppia di donne: la Cassazione nega la costituzione del rapporto filiale), Cass. 22 aprile 2020, n. 8029; Cass. 23 agosto 2021, n. 23320, cit., e n. 23321; Cass., 25 febbraio 2022, n. 6383 (ord.), cit.; Cass., 7 marzo 2022, n. 7413 (ord.), cit.; Cass., 13 luglio 2022, n. 22179 (ord.). Nel senso della trascrivibilità del provvedimento straniero che accerti una doppia maternità v. invece Cass. 30 settembre 2016, n. 19599, pubblicata, tra l’altro, in Corr. giur., 2017, 181 ss., con nota adesiva di Ferrando, Ordine pubblico e interesse del minore nella circolazione degli status filiationis; in Nuova giur. civ. comm., 2017, 362 ss., con nota adesiva di Palmeri, Le ragioni della trascrivibilità del certificato di nascita redatto all’estero a favore di una coppia same sex; in Giur. it., 2017, 2075 ss., con nota adesiva di Fossà, Il paradigma del best interest of the child come roccaforte delle famiglie arcobaleno. Nello stesso senso anche Cass. 15 giugno 2017, n. 14878, pubblicata, tra l’altro, in Foro it., 2017, I, 2280 ss., con nota di Casaburi; in Nuova giur. civ. comm., 2017, I, 1708 ss., con nota adesiva di Palmeri, Irrilevanza del legame genetico ai fini della trascrivibilità del certificato di nascita redatto all’estero a favore di una coppia same sex. Si tratta di due casi diversi: nel primo una delle “madri” aveva messo a disposizione l’ovocita e l’altra aveva partorito; nel secondo caso la partoriente era invece la stessa donna che aveva fornito il materiale genetico per la fecondazione in vitro, sicché l’altra donna aveva semplicemente consentito alla tecnica ed aveva pertanto col nato solo un legame intenzionale. Un caso analogo a quest’ultimo è venuto in considerazione in Cass. 23 agosto 2021, n. 23319, che ha confermato il precedente del 2017.
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