ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il ricorso incidentale per l’accesso ai documenti amministrativi ex art. 116, co. 2, c.p.a.: questioni perplesse sull’onere di notifica ai soggetti controinteressati (nota a Cons. Stato, sez. III, ord. 28 luglio 2023, n. 7399)
di Stefano Vaccari
Sommario: 1. Premessa: ricorso autonomo vs. ricorso incidentale in materia di accesso ai documenti amministrativi. - 2. Il caso concreto: la proposizione del ricorso incidentale ex art. 116, co. 2, c.p.a. con notifica a un solo controinteressato. - 3. (Segue): La decisione del Consiglio di Stato e la lettura ‘differenziante’ tra le fattispecie processuali ex art. 116, co. 1 e 2, c.p.a. - 4. Alcuni rilievi critici in favore di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 116, co. 2, c.p.a
1. Premessa: ricorso autonomo vs. ricorso incidentale in materia di accesso ai documenti amministrativi.
La tutela avverso le determinazioni o il silenzio in materia di accesso ai documenti amministrativi si esplica attraverso un’azione tipica con petitum ‘ordinatorio’[1] trattata – per ragioni di peculiarità delle sottese posizioni sostanziali[2] – nell’ambito di un rito speciale (art. 116 c.p.a.) di natura camerale (art. 87, co. 2, lett. c, c.p.a.).
Sul piano strettamente processuale, l’art. 116, co. 1, c.p.a. regola anzitutto l’ipotesi del ricorso autonomo, da proporre «entro trenta giorni dalla conoscenza della determinazione impugnata o dalla formazione del silenzio, mediante notificazione all’amministrazione e ad almeno un controinteressato», specificando espressamente che – anche nell’ambito dell’anzidetto rito speciale – «[s]i applica l’articolo 49» del Codice in tema di integrazione del contraddittorio[3].
Per ragioni di economia processuale, avverso le medesime decisioni amministrative (espresse o tacite) l’art. 116, co. 2, c.p.a. accorda la facoltà di proposizione del ricorso in via incidentale[4], e segnatamente nelle forme di un’«istanza depositata presso la segreteria della sezione cui è assegnato il ricorso principale, previa notificazione all’amministrazione e agli eventuali controinteressati». Verificata la sussistenza del presupposto legale della ‘connessione’ della richiesta di accesso con il giudizio già pendente, la domanda incidentale è decisa con ordinanza[5]separatamente dal giudizio principale ovvero con la sentenza che definisce il giudizio.
2. Il caso concreto: la proposizione del ricorso incidentale ex art. 116, co. 2, c.p.a. con notifica a un solo controinteressato.
Nell’ambito di un giudizio avente a oggetto l’annullamento del provvedimento di aggiudicazione di un accordo quadro per l’affidamento del servizio di assistenza domiciliare integrata da parte di una A.S.L., la ricorrente principale proponeva con motivi aggiunti azione incidentale ex art. 116, co. 2, c.p.a. avverso il provvedimento di diniego parziale disposto dall’amministrazione resistente in relazione all’istanza di accesso alla documentazione di gara, alle domande di partecipazione e alle offerte degli operatori economici controinteressati.
Avendo riscontrato che il suddetto ricorso per l’accesso ai documenti amministrativi in corso di causa era stato notificato a un solo controinteressato (i.e. la Società mandataria del raggruppamento aggiudicatario), oltre che – ovviamente – all’amministrazione resistente, il T.a.r. per l’Abruzzo-Pescara ordinava l’integrazione del contraddittorio exart. 49 c.p.a. nei confronti dell’ulteriore controinteressato sostanziale (i.e. la Società ‘seconda classificata’). Integralmente costituito il contraddittorio, il T.a.r. annullava l’impugnato diniego e ordinava all’amministrazione resistente di ostendere la documentazione richiesta, limitatamente al soggetto aggiudicatario, e di riesaminare l’istanza di accesso con riguardo alla Società seconda classificata[6].
Avverso la richiamata ordinanza di accoglimento, il raggruppamento aggiudicatario proponeva ricorso in appello, lamentando in particolare l’erronea applicazione dell’art. 49 c.p.a. da parte del giudice di prime cure, il quale avrebbe dovuto dichiarare l’inammissibilità del ricorso incidentale ex art. 116, co. 2, c.p.a. per violazione del principio del contraddittorio. In altri termini, secondo la prospettazione dell’appellante, la Società ricorrente in primo grado avrebbe dovuto notificare – a pena di inammissibilità – l’istanza per l’accesso in corso di causa a ‘tutti’ i soggetti controinteressati, e non soltanto a ‘uno’, non potendo supplire a tale omissione l’istituto dell’integrazione del contraddittorio iussu iudicis,pena un’impropria ‘rimessione in termini’ della parte.
3. La decisione del Consiglio di Stato: una (criticabile) lettura ‘differenziante’ tra le fattispecie processuali ex art. 116, co. 1 e 2, c.p.a.
La terza Sezione del Consiglio di Stato, con ordinanza n. 7399 del 28 luglio 2023, ha accolto l’appello e, per l’effetto, ha dichiarato inammissibile il ricorso incidentale ex art. 116, co. 2, c.p.a. proposto dalla parte ricorrente in primo grado sulla base delle seguenti argomentazioni.
Come già anticipato nelle premesse, il Giudice amministrativo ricostruisce innanzitutto le due distinte ipotesi regolate dall’art. 116 c.p.a.: il ricorso autonomo (art. 116, co. 1) per la tutela avverso le determinazioni negative (espresse o tacite) dell’amministrazione rispetto a istanze di accesso proposte ‘ante causam’ e indipendentemente dalla pendenza di un giudizio connesso; e il ricorso incidentale (art. 116, co. 2) per ottenere l’ostensione di documenti amministrativi nelle more di un giudizio cui la richiesta di accesso è connessa. Le anzidette fattispecie si differenziano, secondo il Consiglio di Stato, per il fatto che «solo nel primo caso, è ammessa la notifica ad un solo controinteressato, dovendosi ritenere, viceversa, tenuta la parte ricorrente alla notifica del ricorso per l’accesso in corso di causa a tutti i controinteressati».
Di talché, non si ritiene applicabile alle domande incidentali di accesso ex art. 116, co. 2, c.p.a. l’istituto dell’integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 49 c.p.a. (richiamato espressamente –per la sola specie del ricorso autonomo – dall’art. 116, co. 1, c.p.a.), onde evitare una non consentita rimessione in termini della parte ricorrente rispetto a un onere di notificazione stabilito a pena di decadenza. Di conseguenza, il ricorso incidentale di accesso deve essere notificato all’amministrazione e agli ‘eventuali controinteressati’, che l’ordinanza in esame fa coincidere con «tutti i soggetti individuati dalla p.a. come controinteressati».
Una siffatta lettura dell’art. 116, co. 2, c.p.a. viene giustificata (anche) in relazione al canone di ragionevole durata del processo (art. 111, co. II, Cost.). A tale riguardo, si sostiene che – in presenza di processi già instaurati – non appare ‘eccessivamente onerosa’ una subordinazione dell’ampliamento del c.d. thema decidendum all’immediata assicurazione della completezza del contraddittorio, sotto forma di un onere di notifica (a pena di decadenza) del ricorso incidentale in materia di accesso a tutti i controinteressati sostanziali[7]. Il che consentirebbe di evitare l’imposizione «al giudice e alle parti [di] un ulteriore passaggio processuale per l’integrazione del contraddittorio».
Per queste ragioni, il Collegio ha ritenuto che la mancata notifica della domanda incidentale di accesso ex art. 116, co. 2, c.p.a. a tutti i controinteressati già individuati dall’amministrazione resistente nel corso del procedimento «ha reso la domanda in radice inammissibile, senza che vi fosse spazio alcuno per un ordine giudiziale di integrazione del contraddittorio ai sensi dell’articolo 49 c.p.a.».
4. Alcuni rilievi critici in favore di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 116, co. 2, c.p.a.
La soluzione espressa dal Consiglio di Stato è passibile di critica sotto plurimi profili.
In primo luogo, la decisione in commento sembrerebbe sovrapporre istituti processuali che risultano distinti sul piano teorico e applicativo, quali le condizioni di ammissibilità del ricorso (che rappresentano un ‘prius’ logico-giuridico nella valutazione del giudicante) rispetto al successivo incombente dell’integrazione del contradditorio disposto per ordine del giudice. Il Consiglio di Stato, invece, interpreta l’art. 116, co. 2, c.p.a. nel senso di imporre al ricorrente incidentale un onere di instaurazione completa del contraddittorio quale condizione di ammissibilità dell’azione, senza alcuna possibilità di integrazione successiva iussu iudicis.
In proposito, è possibile osservare che la natura (anche, ma non solo) impugnatoria[8] del giudizio in materia di accesso ai documenti amministrativi fa sì che esso sia regolato dalle disposizioni processuali ordinarie, fatta eccezione per le deroghe espresse poste dal rito speciale ex art. 116 c.p.a. Il che si giustifica in ragione del meccanismo del c.d. rinvio interno (art. 38 c.p.a.), in forza del quale «[i]l processo amministrativo si svolge secondo le disposizioni del Libro II che, se non espressamente derogate, si applicano anche […] ai riti speciali».
Tra le disposizioni del Libro II dedicate al processo amministrativo di primo grado si rinviene la regola generale di cui all’art. 41, co. 2, c.p.a.[9], secondo cui «[q]ualora sia proposta azione di annullamento il ricorso deve essere notificato, a pena di decadenza, alla pubblica amministrazione che ha emesso l’atto impugnato e ad almeno uno dei controinteressati che sia individuato nell’atto stesso entro il termine previsto dalla legge». Ai fini dell’ammissibilità del ricorso, pertanto, è sufficiente la notifica a un solo controinteressato[10], anche laddove tali soggetti esistano sul piano sostanziale in numero maggiore. Di conseguenza, nelle fattispecie processuali in cui il contraddittorio non risulti ‘integro’ sin dalla (ammissibile) proposizione dell’azione di annullamento nei confronti della sola amministrazione resistente e di (almeno) un controinteressato, è il giudice a dover ordinare l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli ulteriori controinteressati sostanziali. Anche questa regola generale trova un fondamento positivo nel Libro II del Codice, e segnatamente nell’art. 49, co. 1, ove si dispone che «[q]uando il ricorso sia stato proposto solo contro taluno dei controinteressati, il presidente o il collegio ordina l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri».
Ebbene, rispetto alla suddetta disciplina ordinaria, non pare che il rito speciale in materia di accesso ai documenti amministrativi introduca ‘deroghe espresse’. Non lo fa senz’altro con riferimento all’ipotesi del ricorso autonomo ex art. 116, co. 1, c.p.a., ove addirittura si richiama espressamente – in funzione rafforzativa[11] – il modello generale appena descritto («mediante notificazione all’amministrazione e ad almeno un controinteressato. Si applica l’articolo 49»). Ma non è neppure possibile ritenere che la lettera dell’art. 116, co. 2, c.p.a. («previa notificazione all’amministrazione e agli eventuali controinteressati»), dedicata alla proposizione della medesima azione in forma incidentale, introduca un regime derogatorio tale da imporre alla parte ricorrente un onere di notifica – a pena di inammissibilità – a ‘tutti’ i controinteressati sostanziali senza possibilità alcuna di integrazione successiva del contraddittorio.
Una siffatta lettura, fatta propria dall’ordinanza che si annota, non sembra superare il vaglio di ragionevolezza, se non altro in considerazione dell’assenza di diversità di ‘oggetto’ tra le fattispecie del ricorso autonomo e di quello incidentale in materia di accesso ai documenti amministrativi. In entrambe le ipotesi, infatti, il ‘petitum’ veicolato in giudizio è pur sempre l’accertamento della fondatezza della pretesa sostanziale del ricorrente di visionare ed estrarre copia di documenti detenuti da una pubblica amministrazione. Sicché, non è dato comprendere la ratio di un’eventuale differenza di disciplina processuale in punto di onere di notifica, e – di riflesso – di ammissibilità, tra i due ricorsi.
A tale conclusione non è possibile pervenire neppure richiamando il diffuso orientamento giurisprudenziale[12]dedicato all’individuazione dei controinteressati sostanziali in sede procedimentale ex art. 3, co. 1, del d.P.R. 12 aprile 2006, n. 184[13], ove si prevede che «la pubblica amministrazione cui è indirizzata la richiesta di accesso, se individua soggetti controinteressati, di cui all’articolo 22, comma 1, lettera c), della legge, è tenuta a dare comunicazione agli stessi, mediante invio di copia con raccomandata con avviso di ricevimento, o per via telematica per coloro che abbiano consentito tale forma di comunicazione». Com’è noto, la finalità di un siffatto incombente procedimentale è di permettere ai controinteressati di presentare una ‘motivata opposizione’ alla richiesta di accesso entro dieci giorni dalla ricezione della comunicazione da parte dell’amministrazione procedente (art. 3, co. 2, d.P.R. cit.).
Sulla scorta di tale disciplina, l’ordinanza in esame correla l’onere di notificazione (a pena di inammissibilità) del ricorso incidentale a tutti i soggetti controinteressati individuati dall’amministrazione nel corso del procedimento. Sennonché, ferma restando la differenza corrente tra le discipline normative dedicate al procedimento (art. 3 d.P.R. 12 aprile 2006, n. 184) e al processo amministrativo (artt. 41, 49 e 116 c.p.a.), non passibili di indebite sovrapposizioni concettuali, emerge comunque un’errata lettura della richiamata giurisprudenza dedicata ai rapporti tra l’art. 3 del d.P.R. n. 184/2006 e la successiva tutela giurisdizionale. Invero, il giudice amministrativo si è limitato unicamente a rimarcare la regola per cui, laddove l’amministrazione non abbia individuato alcun controinteressato in sede sostanziale, il ricorso giurisdizionale deve essere considerato ammissibile anche in difetto della notifica ad almeno un soggetto (eventualmente) controinteressato. A contrario, non è possibile ricavare dal citato orientamento di matrice garantistica prescrizioni processuali divergenti dalle regole generali per l’opposta ipotesi in cui siano presenti più soggetti controinteressati già individuati dall’amministrazione in sede procedimentale: in questi casi, il ricorso è da ritenersi ammissibile ove notificato (ex artt. 41 e 116 c.p.a.) all’amministrazione resistente e ad almeno un controinteressato, fatta salva la successiva integrazione del contraddittorio secondo le modalità stabilite dall’art. 49 c.p.a.
Diversamente opinando, si legittimerebbe una costruzione di fonte giurisprudenziale di regole sul contraddittorio processuale derogatorie rispetto al modello codicistico generale e giustificate sulla scorta di disposizioni normative dedicate al procedimento amministrativo, come tali rivolte alla dinamica dell’esercizio del potere sostanziale e non alla conformazione del rapporto processuale avanti al giudice amministrativo. Inoltre, è noto che il c.d. giusto processo debba essere necessariamente regolato dalla ‘legge’, nell’accezione di disposizioni di fonte primaria statale (art. 111, co. I, in combinato disposto con l’art. 117, co. 1, lett. l, Cost.), risultando senz’altro inidonee allo scopo previsioni di rango secondario quali quelle incluse nel regolamento governativo di cui al d.P.R. n. 184/2006.
In aggiunta, qualora fosse rilevante l’individuazione dei controinteressati in sede sostanziale per inferire un onere di notifica – a fini di ammissibilità – del ricorso incidentale (art. 116, co. 2, c.p.a.) a ‘tutti’ i soggetti destinatari delle comunicazioni procedimentali ex art. 3 del d.P.R. n. 184/2006, non si riuscirebbe a comprendere perché un’analoga regola non debba valere ugualmente per la proposizione in via autonoma del medesimo ricorso (art. 116, co. 1, c.p.a.): anche in tal caso, l’azione processuale segue pur sempre a un procedimento amministrativo di accesso regolato dalle stesse regole sostanziali, ivi incluse quelle oggetto del richiamato art. 3 del d.P.R. n. 184/2006[14]. Il che dimostra, una volta di più, l’irragionevolezza di una lettura ‘differenziante’ tra le due possibili manifestazioni processuali del ricorso in materia di accesso ai documenti amministrativi, che – a più attento esame – denota un carattere sostanzialmente ‘unitario’.
Del resto, l’introduzione di un regime processuale differenziato richiede necessariamente l’esistenza di una ragione giustificatrice sostanziale, non ravvisabile – pure ammettendosi una certa ‘ambiguità’ nella formulazione letterale – nella fattispecie di cui all’art. 116, co. 2, c.p.a.
Anche il ricorso all’argomento c.d. per absurdum consente di confermare le osservazioni sinora svolte. Immaginando un caso ove fossero presenti decine di soggetti controinteressati sostanziali già individuati dall’amministrazione nel corso del procedimento, secondo l’interpretazione sostenuta dal Consiglio di Stato nella decisione qui annotata il ricorrente incidentale sarebbe onerato – ai fini dell’ammissibilità dell’azione, e non della (successiva) integrazione del contraddittorio processuale – di un numero sproporzionato di notifiche da effettuare entro il breve termine decadenziale di trenta giorni previsto dal rito speciale[15]. Sul piano metodologico, tuttavia, è preferibile verificare la ragionevolezza di una data soluzione interpretativa in astratto e con riferimento a tutte le sue possibili manifestazioni, a differenza dell’ordinanza in commento nella quale il Consiglio di Stato si è basato principalmente sulle caratteristiche della singola fattispecie concreta per affermare che la presenza di due soli controinteressati sostanziali non avrebbe determinato un ‘onere eccessivo’ in capo alla parte ricorrente in primo grado.
Allo stesso modo, il fondamento della criticata soluzione riposto sul principio di ragionevole durata del processo pare contraddetto dal regime di ‘facoltatività’[16] che regola il rapporto tra la proposizione del ricorso ex art. 116 c.p.a. in forma incidentale ovvero in via autonoma. Essendo sempre riconosciuta la possibilità di instaurare un autonomo giudizio per far valere la pretesa all’accesso di determinati documenti amministrativi, l’affermazione della tesi dell’onere di integrale instaurazione del contraddittorio ai fini dell’ammissibilità dell’azione si tradurrebbe in un incentivo alla proposizione del ricorso ex art. 116, co. 1, c.p.a., con conseguente vulnus alle esigenze di concentrazione sottese alla previsione dell’alternativa forma incidentale della domanda (per ragioni di connessione) nell’ambito del giudizio già pendente.
Alla luce delle suddette considerazioni, la lettura ‘differenziante’ dell’art. 116 c.p.a. potrebbe dar luogo a seri dubbi di costituzionalità per irragionevolezza e disparità di trattamento (art. 3 Cost.), nonché per un’eccessiva limitazione del diritto di azione (artt. 24 e 113 Cost.) [17], anche sul versante dell’effettività della tutela (art. 111 Cost.) e dell’‘equo processo’ (art. 6 Cedu)[18].
Ed è proprio sulla base dei richiamati parametri di rango costituzionale che trova fondamento l’assunto per cui le cause di inammissibilità in sede processuale debbono considerarsi tassative e soggette a un canone di stretta interpretazione[19], attesa la loro natura di potenziali ‘barriere’ ostative all’ottenimento di una decisione sul merito delle domande giudiziali. Di qui l’altrettanto nota enfasi riposta sul carattere ‘strumentale’ delle regole processuali rispetto all’obiettivo principale della tutela delle pretese sostanziali veicolate in giudizio: le prime non assurgono mai a ‘fine a sé stante’, giustificandosi in coerenza con la funzionalizzazione costituzionale (artt. 24 e 113 Cost.) agli obiettivi di effettività e satisfattività della tutela giurisdizionale[20].
Rassegnate le critiche all’interpretazione affermata dal Consiglio di Stato, occorre valutare la praticabilità di un’ermeneutica alternativa e ‘secundum constitutionem’ dell’art. 116, co. 2, c.p.a. In particolare, il riferimento letterale alla ‘notificazione agli eventuali controinteressati’ potrebbe essere correlato ai soggetti che sono già parte del giudizio in quanto destinatari della notificazione del ricorso principale, a condizione che essi coincidano con coloro cui è riferibile la connessa richiesta di accesso in forma incidentale. Diversamente, nelle fattispecie ove sussista una diversità tra l’amministrazione e i controinteressati sostanziali alla domanda di accesso, da un lato, e le parti già evocate in giudizio[21], dall’altro, dovrebbero trovare applicazione – per le richiamate ragioni di ordine sistematico – le regole processuali generali sulle condizioni di ammissibilità dell’azione e sull’integrazione del contraddittorio[22]: a questa stregua, non si recherebbe alcun pregiudizio al diritto di difesa e al contraddittorio di tali soggetti, e in particolar modo dei controinteressati, i quali – se non ricompresi tra i destinatari della notifica del ricorso incidentale – sarebbero in ogni caso chiamati in giudizio nelle forme dell’adempimento all’ordine giudiziale ex art. 49 c.p.a.[23]
[1] A prescindere dall’ampio dibattito dottrinale e giurisprudenziale circa la natura della situazione giuridica (diritto soggettivo o interesse legittimo) oggetto del giudizio in materia di accesso, nonché della sua natura propriamente impugnatoria ovvero direttamente riferita alla pretesa sostanziale, è importante precisare che l’art. 116, co. 4, c.p.a. accorda una tutela giudiziale non meramente costitutiva, bensì di tipo ‘ordinatorio’ (il giudice «sussistendone i presupposti, ordina l’esibizione e, ove previsto, la pubblicazione, dei documenti richiesti»).
[2] Cfr. A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, XV ed., Torino, 2023, p. 360. Per ogni ulteriore approfondimento si v., ex multis, A. Simonati, Commento all’art. 116 c.p.a., in G. Falcon - F. Cortese - B. Marchetti (a cura di), Commentario breve al Codice del processo amministrativo, Padova, 2021, p. 902 e ss.; F. Figorilli, Il rito dell’accesso, in B. Sassani - R. Villata (a cura di), Il Codice del processo amministrativo. Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo, Torino, 2012, p. 735 e ss.; M. Lipari, Commento all’art. 116 c.p.a., in A. Quaranta - V. Lopilato (a cura di), Il processo amministrativo. Commentario al D.lgs. 104/2010, Milano, 2011, p. 914 e ss.; L. Bertonazzi, Note sulla consistenza del c.d. diritto di accesso e sul suo regime sostanziale e processuale: critica alle decisioni nn. 6 e 7 del 2006 con cui l’Adunanza plenaria, pur senza dichiararlo apertamente e motivatamente, opta per la qualificazione della pretesa ostensiva in termini di interesse legittimo pretensivo, in continuità con la decisione n. 16 del 1999, in Dir. proc. amm., 2007, I, p. 165 e ss.; M. Clarich, Diritto d’accesso e tutela della riservatezza: regole sostanziali e tutela processuale, in Dir. proc. amm., 1996, III, p. 430 e ss.; F. Figorilli, Alcune osservazioni sui profili sostanziali e processuali del diritto di accesso ai documenti amministrativi, in Dir. proc. amm., 1994, II, p. 206 e ss.
[3] Cfr., in giurisprudenza, Cons. Stato, sez. VI, 31 dicembre 2018, n. 7319, in Giustizia-amministrativa.it. Per ogni ulteriore approfondimento sull’istituto cfr., per tutti, G. Mannucci, Commento all’art. 49 c.p.a., in G. Falcon - F. Cortese - B. Marchetti (a cura di), Commentario breve al Codice del processo amministrativo, cit., p. 548 e ss.
[4] Una siffatta possibilità era già ammessa, prima dell’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo, dall’art. 25, co. 5, della l. 7 agosto 1990, n. 241, nella versione seguita alle modifiche apportate dall’art. 17, co. 1, lett. b), della l. 11 febbraio 2005, n. 15; e, ancora prima, dall’art. 21, co. 1, della l. 6 dicembre 1971, n. 1034, come introdotto dall’art. 1, co. 1, della l. 21 luglio 2000, n. 205.
[5] A tale riguardo, si segnala che l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza n. 4 del 24 gennaio 2023, in Foro amm., 2023, I, p. 21 e ss., ha di recente affermato il principio di diritto dell’appellabilità innanzi al Consiglio di Stato dell’ordinanza resa nel corso del processo di primo grado sull’istanza di accesso documentale ex art. 116, co. 2, c.p.a. in ragione della sua natura propriamente ‘decisoria’.
[6] Cfr. T.a.r. Abruzzo-Pescara, sez. I, ord. 9 giugno 2023, n. 239, in Giustizia-amministrativa.it, in particolare nella parte in cui si afferma che «nell’ipotesi in cui, come nella specie, dal diniego impugnato siano identificabili più di un soggetto controinteressato, trova applicazione la regola generale di cui al comma 1 dell’art. 49 c.p.a. secondo cui ‘Quando il ricorso sia stato proposto solo contro taluno dei controinteressati, il Presidente o il Collegio ordina l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri’».
[7] Cfr. l’ulteriore passaggio dell’ordinanza in commento ove si sostiene che la diversa formulazione lessicale dei co. 1 e 2 dell’art. 116 c.p.a. non è ‘casuale’, ma risponde alla ratio di «costituire immediatamente e ritualmente il giusto contraddittorio, anche perché, a contrario, nella misura in cui il legislatore avesse ritenuto sufficiente la notifica ad un solo controinteressato, con possibilità di integrare il contraddittorio, lo avrebbe espressamente previsto, dovendosi ritenere che il riferimento agli ‘eventuali controinteressati’, unitamente all’omesso richiamo all’art. 49 c.p.a., deponga nel senso dell’indispensabilità dell’immediata e tempestiva notifica della domanda incidentale in materia di accesso proposta ai sensi dell’articolo 116, comma 2, c.p.a., a tutti coloro già coinvolti nel relativo procedimento e che, come nel caso in esame, potrebbero essere pregiudicati dall’ostensione».
[8] In questo senso cfr. T.a.r. Piemonte, sez. I, 16 dicembre 2010, n. 4556, in Foro amm. T.a.r., 2010, XII, p. 3764 e ss., ove si precisa che il tenore letterale dell’art. 116 c.p.a., «a prescindere dalla qualificazione della posizione giuridica soggettiva azionata, ricostruisce il rito in materia sulla scorta dell’ordinario rito impugnatorio, come per altro già ritenuto dalla giurisprudenza pregressa»; ma anche Cons. Stato, Ad. Plen., 18 aprile 2006, n. 6, e Id., 20 aprile 2006, n. 7, in Dir. proc. amm., 2007, I, p. 156 e ss. (con nota critica di L. Bertonazzi). Si v., anche, M. Lipari, Commento all’art. 116 c.p.a., cit., p. 924, ove si evidenzia che «[l]a struttura formalmente impugnatoria del giudizio risulta densa di importanti conseguenze in ordine alla disciplina della formazione del contraddittorio e alla individuazione dei destinatari della notificazione».
[9] Per ogni approfondimento si rinvia, per tutti, ad A. Giannelli - M. Renna, Commento all’art. 41 c.p.a., in G. Falcon - F. Cortese - B. Marchetti (a cura di), Commentario breve al Codice del processo amministrativo, cit., p. 443 e ss.
[10] Per la nozione di controinteressato in materia di diritto di accesso agli atti cfr. l’art. 22, co. 1, lett. c), l. n. 241/1990: «per ‘controinteressati’, tutti i soggetti, individuati o facilmente individuabili in base alla natura del documento richiesto, che dall’esercizio dell’accesso vedrebbero compromesso il loro diritto alla riservatezza».
[11] Ma anche per superare l’alternativa ricostruzione della fattispecie quale ipotesi di litisconsorzio necessario ex art. 102 c.p.c. (sulla quale si v. in giurisprudenza, per tutte, Cons. Stato, sez. IV, 11 giugno 1997, n. 643, in Cons. Stato, 1997, I, p. 683 e ss.). Per ogni approfondimento cfr., quantomeno, L. Bertonazzi, Accesso ai documenti e contraddittorio, in Dir. proc. amm., 1999, III, p. 823 e ss.; e F. Figorilli, Il contraddittorio nel giudizio speciale sul diritto di accesso, in Dir. proc. amm., 1995, III, p. 584 e ss.
[12] Cfr., ex multis, T.a.r. Sicilia-Catania, sez. IV, 29 marzo 2021, n. 979, in Giustizia-amministrativa.it, ove si richiama l’orientamento «che induce la giurisprudenza amministrativa a non ritenere inammissibile, ai sensi dell’art. 3 co. 1 D.P.R. 12 aprile 2006 n. 184, il ricorso avverso il rifiuto di accesso agli atti della Pubblica Amministrazione per omessa notifica ai controinteressati, ogniqualvolta la stessa Amministrazione non abbia ritenuto di consentire la partecipazione in sede procedimentale di altri soggetti che potrebbero o avrebbero potuto subire un pregiudizio dall’accoglimento dell’istanza di accesso»; Cons. Stato, sez. III, 11 giugno 2019, n. 3903, in Foro amm., 2019, VI, p. 1017 e ss., ove si è ribadito che «non può essere dichiarato inammissibile il ricorso per l’accesso, per omessa notifica al controinteressato, quando la stessa amministrazione non abbia ritenuto di dover consentire la partecipazione di altri in sede procedimentale»; C.g.a.r.s., sez. giur., 16 marzo 2017, n. 104, in Foro amm., 2017, III, p. 680 e ss., ove si afferma che «in sede giurisdizionale non possa essere dichiarato inammissibile per omessa notifica al controinteressato un ricorso per l’accesso allorché, in precedenza, la stessa Amministrazione non avesse ritenuto di consentire, in occasione del proprio procedimento, la partecipazione di coloro che avrebbero potuto subire un pregiudizio dall’accoglimento dell’istanza di trasparenza»; Cons. Stato, sez. VI, 8 febbraio 2012, n. 677, in Giustizia-amministrativa.it; e Cons. Stato, sez. IV, 14 aprile 2010, n. 2093, in Foro amm. C.d.S., 2010, IV, p. 822 e ss.
[13] Regolamento recante la disciplina in materia di accesso ai documenti amministrativi.
[14] Cfr. F. Figorilli, Il rito dell’accesso, cit., p. 744, ove si chiarisce che in entrambe le ipotesi disciplinate dall’art. 116 c.p.a. «il soggetto interessato parrebbe comunque tenuto a presentare un’istanza di accesso all’autorità competente e, solo in seguito all’inerzia o al rifiuto di quest’ultima, si creerebbero le condizioni per richiedere l’intervento del giudice».
[15] Cfr. L. Bertonazzi, Il regime dell’istanza incidentale di accesso, con particolare riferimento al termine perentorio per la sua proposizione e alla corretta instaurazione del contraddittorio, in Dir. proc. amm., 2003, I, p. 327 e s., ove si espone l’argomento di ‘taglio pratico’ per cui «imporre al ricorrente di notificare l’istanza incidentale di accesso a tutti i controinteressati entro un termine perentorio che è già dimezzato rispetto a quello ordinario (trenta anziché sessanta giorni), potrebbe, in taluni casi, rendere estremamente arduo il rispetto del breve termine per proporre la domanda di accesso svolta nelle forme dell’istanza incidentale».
[16] Cfr. l’art. 116, co. 2, c.p.a. nella parte in cui il legislatore utilizzare la locuzione ‘può’ per l’alternativa proposizione in forma incidentale del ricorso disciplinato dal precedente co. 1. Si v., anche, M. Lipari, Commento all’art. 116 c.p.a., cit., p. 928, ove si chiarisce che la disposizione cit. del Codice conferma «la facoltatività dello strumento. Pertanto, la parte interessata può sempre decidere se proporre un ricorso separato e autonomo, oppure introdurre la propria domanda nell’ambito di un giudizio principale in corso»; e L. Bertonazzi, Il regime dell’istanza incidentale di accesso, con particolare riferimento al termine perentorio per la sua proposizione e alla corretta instaurazione del contraddittorio,cit., p. 317, ove si deduce dal ‘parallelismo’ tra l’autonoma actio ad exhibendum e l’istanza incidentale di accesso la rimessione al privato della scelta «tra i due differenti strumenti processuali che l’ordinamento pone a presidio del diritto di accesso ai documenti».
[17] Cfr., per tutte, Corte cost. 9 luglio 2021, n. 148, in Foro amm., 2022, I, p. 6 e ss., ove si rinviene il richiamo alla costante giurisprudenza costituzionale secondo cui «il legislatore dispone di un’ampia discrezionalità nella conformazione degli istituti processuali, incontrando il solo limite della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà delle scelte compiute, che viene superato qualora emerga un’ingiustificabile compressione del diritto di agire in giudizio (ex multis, sentenze n. 102 del 2021, n. 253, n. 95, n. 80, n. 79 del 2020 e n. 271 del 2019)». Con particolare riferimento all’art. 24 Cost., la Corte ha altresì specificato che «esso non comporta che il cittadino debba conseguire la tutela giurisdizionale sempre nello stesso modo e con i medesimi effetti, purché non vengano imposti oneri o prescritte modalità tali da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell’attività processuale (tra le tante, sentenze n. 271 del 2019, n. 199 del 2017, n. 121 e n. 44 del 2016)».
[18] Sulla natura ‘concreta’ ed ‘effettiva’ del diritto di accesso a un tribunale, nonché sulla necessità di un rapporto di proporzionalità tra i ‘mezzi impiegati’ e lo ‘scopo perseguito’, cfr., per tutte, Corte Edu, sez. V, 9 maggio 2022, in C-15567/20 (‘Xavier Lucas c. Francia’), ove si rimarca che «le droit d’accès à un tribunal doit être ‘concret et effectif’ et non ‘théorique et illusoire’ (Bellet c. France, 4 décembre 1995, § 36, série A no 333‑B). […] Néanmoins, les limitations appliquées ne sauraient restreindre l’accès ouvert à l’individu d’une manière ou à un point tels que le droit s’en trouve atteint dans sa substance même. En outre, elles ne se concilient avec l’article 6 § 1 que si elles poursuivent un but légitime et s’il existe un rapport raisonnable de proportionnalité entre les moyens employés et le but visé (voir, entre autres, Zubac c. Croatie [GC], no 40160/12, § 78, 5 avril 2018)».
[19] Cfr., ex multis, T.a.r. Abruzzo, L’Aquila, sez. I, 3 marzo 2022, n. 70, in Giustizia-amministrativa.it, ove si rinviene l’affermazione per cui «[i] principi di pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale esigono tendenzialmente che il giudizio si concluda con una risposta di merito alle domande portate alla cognizione del giudice amministrativo, con la conseguenza che una pronuncia di inammissibilità può essere adottata solo nelle ipotesi tassativamente previste dal codice di rito»; e Cons. Stato, sez. VI, 3 febbraio 2022, n. 771, in Giustizia-amministrativa.it, nella parte in cui si richiamano i principî di tassatività delle cause di inammissibilità del ricorso e di effettività della tutela giurisdizionale per rimarcare il divieto «di introdurre in via ermeneutica cause ostative all’accesso ad una decisione giurisdizionale di merito».
[20] Cfr. Corte cost., 12 marzo 2007, n. 77, in Foro amm. C.d.S., 2007, III, p. 753 e ss., ove si ricorda che «[a]l principio per cui le disposizioni processuali non sono fine a se stesse, ma funzionali alla miglior qualità della decisione di merito, si ispira pressoché costantemente – nel regolare questioni di rito – il vigente codice di procedura civile».
[21] Cfr. Cons. Stato, Ad. Plen., n. 4/2023 cit., nella parte in cui si è chiarito che nella fattispecie ex art. 116, co. 2, c.p.a. l’amministrazione e gli eventuali controinteressati «potrebbero anche essere diversi dalle parti già evocate in giudizio, il che evidenzia come il rispetto delle regole del contraddittorio sia coerente con la logica della natura decisoria dell’ordinanza». Si v., anche, L. Bertonazzi, Il regime dell’istanza incidentale di accesso, con particolare riferimento al termine perentorio per la sua proposizione e alla corretta instaurazione del contraddittorio, cit., p. 323 e ss., in part. p. 325 ove si rileva che «affermare la necessaria coincidenza tra i controinteressati nel giudizio ‘principale’ e i controinteressati rispetto all’istanza incidentale di accesso (in guisa che i secondi vengano meccanicamente individuati attraverso un semplice riferimento ai primi) significherebbe vanificare quei principi che la giurisprudenza amministrativa ha elaborato al precipuo fine di garantire tutela giurisdizionale ai titolari dell’interesse alla riservatezza, a fronte dell’azione esperita dal titolare dell’interesse all’accesso a determinati documenti amministrativi».
[22] In dottrina, si v. L. Bertonazzi, Il regime dell’istanza incidentale di accesso, con particolare riferimento al termine perentorio per la sua proposizione e alla corretta instaurazione del contraddittorio, cit., p. 327, ove si ritiene senz’altro preferibile la lettura richiamata in corpo per ragioni di ‘coerenza interna’ del sistema processuale amministrativo. Ad avviso dell’a., infatti, occorre raggiungere risultati «coincidenti con quelli cui si perverrebbe muovendo dal più volte menzionato ‘parallelismo’ tra autonoma azione in tema di accesso e istanza incidentale di accesso, che devono ritenersi sottoposte ad identica disciplina anche per il profilo della corretta instaurazione del contraddittorio». In senso analogo, già M. Andreis, Commento all’art. 21 della l. 6 dicembre 1971, n. 1034, in A. Romano (a cura di), Commentario breve alle leggi sulla giustizia amministrativa, Padova, 2001, p. 760, ove si suggeriva di interpretare il riferimento alla notifica ai ‘controinteressati’ incluso nell’art. 21, co. 1, della l. 6 dicembre 1971, n. 1034 «in sintonia con la norma generale posta dalla prima parte del 1° co. dell’art. 21 in esame secondo la quale, il ricorso deve essere notificato ‘ai controinteressati ai quali l'alto direttamente si riferisce, o almeno ad alcuno tra essi’».
[23] A tale riguardo, l’art. 49, co. 4, c.p.a. ha cura di precisare che «[i] soggetti nei cui confronti è integrato il contraddittorio ai sensi del comma 1 non sono pregiudicati dagli atti processuali anteriormente compiuti».
Marisa Rodano se n’è andata «sobriamente, come ha vissuto» [1] lo scorso 2 dicembre, alla soglia dei centotré anni. Della sua lunghissima vita possiamo qui ricordare solo alcuni tratti, per fissarli e riportarli alla luce, a partire dalla data di nascita, che condivideva con il Partito Comunista Italiano: Marisa Cinciari era nata a Roma il 21 gennaio 1921.
«L’esistenza del Partito Comunista Italiano, da me conosciuta solo verso i 18 anni, era destinata ad avere un’influenza determinante sulla mia vita» [2]. La famiglia, piuttosto benestante, di tradizione cattolica da parte di padre ed ebraica da parte di madre, non mette mai davvero in discussione il fascismo - il padre fu anche podestà di Civitavecchia - e senz’altro non prima delle Leggi razziali. «Le prime incrinature nel placido sonno dogmatico dell’infanzia» [3] arrivano quando Marisa frequenta il Liceo Visconti di Roma, dove grazie a docenti in disaccordo con il regime prende i primi contatti con la cultura antifascista e inizia ad avere consapevolezza della realtà nazionale e internazionale, fino ad allora per lei soffusa e vaga. A questo proposito bisogna considerare che le informazioni erano difficili da reperire e in ogni caso giungevano mediate dalla censura fascista, oltre che da quella familiare. Al Visconti conosce anche Franco Rodano e con lui una fede cattolica razionale, profonda, diversa da quella convenzionale sperimentata fino a quel momento. Nel suo libro di memorie ricorda l’arrivo di Hitler a Roma nel maggio del 1938 - celebre la visita del Führer ai monumenti della città sotto la guida di Ranuccio Bianchi Bandinelli [4] - come il momento in cui ha avuto la percezione non solo della fine della pace, ma più in generale del mondo e della società di allora. Da lì in poi la sua adesione all’antifascismo, processo iniziato anni prima e sempre di nascosto dai genitori, in un gruppo di cattolici comunisti e insieme al compagno Franco Rodano, con cui viene arrestata a causa di una delazione nel maggio del ‘43 e detenuta fino alla vigilia del 25 luglio; l’occupazione nazifascista di Roma, della quale ricorda la solidarietà della gente, la vita clandestina - le cui abitudini al segreto, alla cautela, alla scrittura cifrata, resteranno per tutta la vita in lei e nel marito; l’impegno nei movimenti delle donne, a cominciare dai Gruppi di difesa della donna [5], che contribuisce a organizzare nella città di Roma, e poi nell’Udi (Unione donne italiane), di cui sarà a lungo presidente. Insomma la politica, nelle istituzioni e nelle piazze, è stata la sua vita.
Eletta nel Consiglio comunale di Roma nel 1946, racconta gli anni successivi alla Liberazione come un’epoca convulsa e di autentica miseria. Dal 1948 è deputata - era l’unico membro della Prima Legislatura ancora vivente - e lo sarà per i successivi vent’anni, prima donna vice-presidente della Camera dal ‘63 al ‘68 («presiedere mi piaceva» [6]), poi senatrice, poi parlamentare europea e sempre parallelamente attiva nelle istituzioni locali romane e nei vertici nazionali del PCI, conducendo ovunque un lavoro intensissimo, attento alle diverse prospettive, colto. Non è semplice oggi immaginare la difficoltà che comportava essere cattolici e comunisti nell’Italia degli anni Cinquanta, ma è necessario ricordare che si tratta di un momento di grandi complessità e contraddizioni, dove certo il fascismo era caduto, e la monarchia destituita, ma le istituzioni - statali e cattoliche - non avevano ancora cominciato quel processo di profondo rinnovamento iniziato negli anni Sessanta e per certi versi ancora in corso [7].
La vita di Marisa Rodano riassume tutta l’essenza del Novecento, e tuttavia stupisce il piglio quasi lieve, ma sempre fattivo, con cui sembra aver attraversato la storia, e anche da questo si comprende la sua grandezza. Le istanze femministe, l’importanza delle trame inscindibili tra privato e pubblico, personale e politico, di cui ha fatto esperienza anche come madre di cinque figli, hanno costituito «in fondo, la [sua] vera passione» [8]. Leggendone la biografia e ascoltandone la voce si percepiscono l’entusiasmo autentico per la vita «assaporata fino all’ultima stilla» [9], la visione lucida, la generosità intellettuale.
«È nella Resistenza - ha affermato Marisa Rodano alla Camera dei deputati in occasione del 70° anniversario della Liberazione - che le donne italiane, quelle di cui Mussolini aveva detto “nello stato fascista la donna non deve contare” (...) entrano impetuosamente nella storia e la prendono nelle loro mani. Nel momento in cui tutto è perduto e distrutto - indipendenza, libertà, pace - e la vita, la stessa sussistenza fisica sono in pericolo, ecco le donne uscire dalle loro case, spezzare vincoli secolari, e prendere il loro posto nella battaglia, perché combattere era necessario, era l’unica cosa giusta che si poteva fare».
La luce del pensiero e dell’impegno di Marisa Cinciari Rodano vive nel nostro ricordo e nelle nostre pratiche.
[1] Dalle parole di una delle figlie, Giulia Rodano.
[2] Marisa Rodano, Del mutare dei tempi. Volume primo. L’età dell’inconsapevolezza. Il tempo della speranza. 1921-1948, Memori, Roma, 2008, pag. 19.
[3] Marisa Rodano, Del mutare dei tempi. Volume primo. L’età dell’inconsapevolezza. Il tempo della speranza. 1921-1948, Memori, Roma, 2008, pag. 111.
[4] L’episodio è raccontato nel film L’uomo che non cambiò la storia di Enrico Caria, 2016.
[5] I Gruppi di difesa della donna sono formazioni di donne di diversi partiti che nascono a partire dal 1943 per sostenere le attività della Resistenza e promuovere i diritti delle donne. (F. Pieroni Bortolotti, Le donne della Resistenza antifascista e la questione femminile in Emilia (1943-45), in Donne e Resistenza in Emilia-Romagna, v. 2, Milano, Vangelista, 1978). «Il movimento si dichiara aperto a ogni fede religiosa e a ogni ceto sociale; il suo obiettivo risiede non tanto nell'istituzione di una federazione femminile dei diversi partiti, quanto in una vasta alleanza tra donne» (P. Gabrielli, Il 1946, le donne, la Repubblica, Roma, Donzelli, 2009, p. 45). I GDD sono ufficialmente riconosciuti dal Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) nel giugno 1944. Le donne che vi partecipano sono almeno 70.000. (M. Renosio, Noi donne, in E. Collotti, R. Sandri, F. Sessi, Dizionario della Resistenza, Torino, Einaudi, 2006, p. 642).
[6] Marisa Rodano, Del mutare dei tempi. Volume secondo. L’ora dell’azione. La stagione del raccolto. 1948-1968, Memori, Roma, 2008, pag. 337.
[7] C. Pavone, La continuità dello stato, in Id., Alle origini della Repubblica, Bollati Boringhieri, Torino, 1995.
[8] Marisa Rodano, Del mutare dei tempi. Volume secondo. L’ora dell’azione. La stagione del raccolto. 1948-1968, Memori, Roma, 2008, pag. 343.
[9] Dalle parole di uno dei figli, Giorgio Rodano.
[10] Marisa Rodano, discorso alla Camera dei deputati, 16 aprile 2015.
(Nella foto Marisa Rodano il 17 dicembre 1946 alla prima seduta del Consiglio Comunale di Roma in cui è stata eletta. Fonte: Archivio Diaristico Nazionale)
Un grande grazie alla sezione palermitana, che ha offerto a questo nostro congresso un’organizzazione veramente bellissima, accogliente, efficientissima.
Il titolo della tavola rotonda di ieri è stato “i diritti sotto attacco”. È un titolo che coglie due profili che obiettivamente caratterizzano la fase storica che stiamo attraversando.
Da un lato c’è un sensibile arretramento rispetto al livello di tutela dei diritti sociali che era stato raggiunto nella seconda metà del secolo scorso. È l’effetto di processi sociali, appunto, e delle loro conseguenze politiche, che vanno in realtà oltre la dimensione nazionale e di cui non possiamo che prendere atto. Ricordo una battuta del miliardario americano Warren Buffett, che, intervistato dal New York Times nel 2006, disse “Certo che c’è la lotta di classe. Ma è la mia la classe, quella dei ricchi, che la sta conducendo e la sta vincendo”. E questo, in effetti, è ciò che è successo in tutto l’Occidente.
In Italia c’è qualcosa di più.
Negli ultimi due o tre anni, c’è anche l’arretramento del processo di espansione dei diritti civili e di libertà che si era sviluppato nei precedenti dieci-quindici anni.
Sotto questo profilo è abbastanza significativo come nel dibattito pubblico e nella polemica politica sui temi eticamente sensibili (penso, tra gli altri, ai modelli di genitorialità o al tema del fine vita) siano stati recentemente rilanciati modelli di relazione familiare o di comportamento individuale che la seconda metà del Novecento sembrava aver superato. Su questi temi mi pare che gli ultimi due o tre anni abbiano segnato un qualche arretramento delle prospettive di tutela.
Sotto altro aspetto, dobbiamo registrare una crescente rincorsa alla pan-penalizzazione. L’idea del diritto penale minimo - sulla quale c’eravamo esercitati per decenni (basti pensare ai grandi dibattiti sulla depenalizzazione degli anni Settanta, culminati nella legge 689 del 1981) e che sembrava una conquista acquisita - pare abbandonata da un dibattito pubblico sempre più orientato dallo slogan order and law. Stiamo pericolosamente ritornando alla moltiplicazione delle fattispecie penali, all’inasprimento delle pene, ad una azione legislativa orientata a rispondere più alle esigenze securitarie dell’opinione pubblica che ad un razionale programma di politica criminale.
Il biglietto da visita in materia di giustizia dell’attuale Governo, del resto, è stato il decreto sui “rave party”, ma tutto - pensiamo alla gestione dei fenomeni migratori - sembra muoversi in questa direzione.
È innegabile che il tema del ruolo del diritto penale nella nostra società ci pone degli interrogativi e che tali interrogativi vanno affrontati alla luce del principio di uguaglianza; di eguaglianza sostanziale, intendo, perché sul principio di uguaglianza formale è sufficiente ricordare l’aforisma di Anatole France per cui “la legge, nella sua maestosa equità, proibisce ai ricchi come ai poveri di dormire sotto i ponti, mendicare per le strade e rubare il pane”.
Noi dobbiamo porci oggi questo problema, che era ottocentesco, ma che sta tornando come un problema del XXI secolo; il problema del doppio binario del diritto (e del processo) penale, quello dei briganti e quello dei galantuomini.
Questo è un quadro generale che viene dall’ascolto della bellissima tavola rotonda di ieri.
Poi vi è un profilo che riguarda più direttamente noi, la magistratura e lo stesso sistema dell’autogoverno. Mi riferisco all’accelerazione dei processi che da circa un quarto di secolo – penso, per evocare un evento politicamente simbolico, alla Commissione bicamerale presieduta dall’onorevole D’Alema, ma se guardiamo il fenomeno in una prospettiva più latamente culturale dobbiamo risalire ancora di una decina d’anni, al settennato del Presidente Cossiga – tendono a modificare gli assetti istituzionali disegnati dalla Carta costituzionale e in particolare, nell’ambito di questi, il ruolo della giurisdizione e, in essa, della magistratura.
Colgo tre profili di questa accelerazione.
In primo luogo, era già indicato nella relazione di Eugenio Albamonte di ieri, il rilancio della discussione sulla portata dell’interpretazione delle norme. Non è assolutamente il caso di aprire qui, nemmeno solo di sfiorare, il dibattito teorico su questo tema. Ci sono grandi maestri che si sono contrapposti; per tutti, da una parte Paolo Grossi e Nicolò Lipari; dall’altra Natalino Irti e Massimo Luciani. Non è certamente questa la sede per affrontare il tema.
Però alcune cose vanno chiarite.
La polemica sulla giurisprudenza creativa è una polemica che non tiene conto della considerazione semplice, che deriva dalla lettura delle sentenze di legittimità, che la giurisprudenza non ha mai preteso di svolgere una funzione nomopoietica. La Cassazione ha ripetuto più e più volte che l’interprete non può assegnare a una disposizione un significato che non corrisponda ad uno dei possibili significati attribuibili al testo della disposizione stessa. Nonostante questo, che dovrebbe chiudere il discorso, assistiamo quotidianamente da parte del mondo politico e di alcuni settori dell’accademia, alla riproposizione dello stereotipo del giudice che si inventa le norme, del giudice che fa operazioni di diritto creativo. Sono polemiche che riecheggiano l’assunto di Raymond Carrè de Malberg che all’inizio del Novecento, diceva “Il giudice applica la legge, non la Costituzione”.
Tutta la storia costituzionale italiana dal 1948 è invece, appunto, la storia dell’applicazione della Costituzione da parte del giudice. Nel congresso dell’ANM di Gardone del ’65, la mozione finale – approvata all’unanimità – affermava che “il giudice deve essere consapevole della portata politico istituzionale della propria funzione di garanzia, così da assicurare, pur negli invalicabili confini della sua subordinazione alla legge, un’applicazione della norma conforme alle finalità fondamentali volute dalla Costituzione”.
Il risvolto del principio costituzionale di soggezione del giudice soltanto alla legge è, appunto, il risvolto per cui il giudice è tenuto a interpretare la legge alla luce della Costituzione. Deve “vedere” la Costituzione oltre la legge. E illuminare la lettura della legge con la Costituzione.
Vedremo come si svilupperà questo dibattito. È un dibattito che attraversa tutta la società e attraversa naturalmente tutto il mondo della giurisdizione. È necessario un grande lavoro su questo. Un grande lavoro anche di autoconsapevolezza. È necessario che su questo tema sia presente anche la scuola di formazione della Scuola Superiore della Magistratura, perché è necessario che ci sia chiarezza su questo spartiacque valoriale.
Il secondo aspetto di quella accelerazione a cui facevo riferimento concerne la tendenziale verticalizzazione della magistratura a cui abbiamo assistito negli ultimi a partire dalla riforma del 2006, la riforma Castelli-Mastella. Verticalizzazione della magistratura che ha proceduto su un duplice binario: da un lato il rinforzamento dei poteri gestori dei dirigenti degli uffici. Questo l’abbiamo visto soprattutto nelle Procure. E soprattutto nelle Procure abbiamo visto come sul dirigente dell’ufficio si accentri un’attenzione, una visibilità mediatica, un interesse anche della politica, che obiettivamente non dovrebbe trovare giustificazione in un sistema ben ordinato, in cui il dirigente di un ufficio, anche di procura, abbia la funzione di coordinare dei colleghi che, al pari di lui, sono soggetti soltanto alla legge. Certo, mi rendo conto che anche questo prezioso avverbio, “soltanto”, oggi è tornato in discussione. C’è una proposta anche di modifica della Costituzione su questo. Io credo si debba avere ben chiaro che il “soltanto” vuol dire “soltanto” e deve restare dove sta.
Ma non c’è solo il problema delle relazioni e della distribuzione dei poteri all’interno degli uffici; c’è anche, forse soprattutto, il problema che una serie di meccanismi ordinamentali hanno gradualmente formato un’invisibile barriera, nel corpo dei magistrati, tra chi dirige e chi è diretto; hanno lentamente costruito una doppia carriera, quella dei magistrati semplici e quella dei magistrati comandanti. È un problema che Area dovrà affrontare con urgenza e con decisione: dobbiamo ritornare all’idea della distinzione dei magistrati soltanto per funzioni; quest'ultima è un’idea enunciata nella Carta costituzionale, predicata negli atti dei congressi associativi, ma sempre meno effettiva nella realtà della giurisdizione. Non so bene a cosa si può pensare. C’è un gruppo di studio che si è occupato del tema dei direttivi e sono molto interessato alle conclusioni che vorrà rassegnarci in questa sede congressuale. Ma certamente su questo tema, sulla dirigenza giudiziaria, è necessario tornare.
Bisogna pensare forse ad uno sfoltimento, forse a parziali meccanismi di tabellarizzazione. Bisogna uscire da questo schema dei due binari, insomma.
Ma certo la verticalizzazione è funzionale a un modello di governo della magistratura e, tramite questa, a un modello di governo della società.
E qui siamo al tema del Congresso: “La giurisdizione nell’età del maggioritarismo”. Ieri il professore Grosso ci spiegava che il maggioritario richiede semplificazione, richiede catene di comando semplificate. All’interno di queste catene di comando semplificate, evidentemente, si inscrive anche la magistratura.
Devo fare un cenno alla particolare posizione, in questo quadro, del CSM. Anche sul CSM si addensa un clima che è quello del ridimensionamento della sua dimensione costituzionale.
Si tratta di un’idea vecchia, che risale agli anni Settanta-Ottanta e che aveva manifestato il presidente Cossiga. Cioè, l’idea del CSM come “ufficio personale” della magistratura.
Ora questa idea si sta manifestando con forza attraverso segnali che impongono a tutta la magistratura un plus di attenzione.
Segnali che vanno da aspetti banali, quasi di bassa cucina, come l’organizzazione dei lavori consiliari (la quale, però, finisce con il ridurre la capacità dei consiglieri di dialogare con i colleghi nei territori in cui sono stati eletti), ad aspetti meno banali; come la timidezza che una parte del Consiglio dimostra nell’esercizio del potere di fare proposte e di dare pareri conferito all’Organo di autogoverno dall’articolo 10 della relativa legge istitutiva; come la pervasività che sta assumendo nel dibattito pubblico la stravagante idea della scelta per sorteggio dei magistrati componenti del CSM; come l’interruzione della tradizione secondo cui il ministro va a dialogare nella sede consiliare quando il Consiglio si insedia.
Sono tutti segnali che, visti atomisticamente, possono essere anche considerate accidentali, banali, irrilevanti. Ma messi insieme, unendo i puntini con una linea - come si faceva nei giochi della Settimana enigmistica di tanti anni fa - emerge un disegno. E il disegno, appunto, è quello del maggioritario.
È l’idea di una magistratura che, in qualche modo, sia compatibile con certi assetti, certe esigenze di equilibrio. Si potrebbe fare una riflessione su come il legislatore sia intervenuto negli ultimi vent’anni sui rapporti nel riparto di giurisdizione tra giudice amministrativo e giudice ordinario. Si potrebbe fare una riflessione sul dibattito che è stato attivato dalla proposta di riforma costituzionale sull’istituzione dell’Alta Corte di giustizia, sulla sottrazione al CSM della potestà disciplinare sui magistrati, con quello che significa, in termini di relazione tra potestà disciplinare e costruzione del modello, del tipo di magistrato da parte dell'Organo di autogoverno.
Il quadro è questo. Ieri qualcuno diceva “si ha il diritto di avere le proprie idee ma non si ha il diritto di avere i propri fatti”. E i fatti, purtroppo, sono quelli che ho descritto sopra.
Cosa può fare la magistratura progressista? Io credo che, come diceva nella relazione il segretario Albamonte, può tenere acceso il lume. Ma, forse, tenere acceso il lume non basta, perché poi – sottolineava il professore Grosso – dai e dai, alla fine, se fai solo quello, il lume si spegne.
E allora, in primo luogo, la nostra responsabilità è di fare tutto quello che possiamo fare per dare ai cittadini una risposta di giustizia efficiente, nei limiti del possibile. Sappiamo che i limiti del possibile non dipendono, in larga parte, dalla magistratura e forse nemmeno dal Ministero della Giustizia. Dipendono da dati oggettivi della società italiana, relativi ai meccanismi sociali, economici e culturali di formazione del contenzioso giudiziario (penso, per fare un esempio, a come nei tribunali del Meridione il contenzioso previdenziale si è sviluppato abnormemente per poi tradursi in contenzioso per il risarcimento del danno da lesione del diritto alla ragionevole durata del processo; o, per fare un altro esempio, a quanto pesa il contenzioso tributario nelle sopravvenienze della Corte di cassazione). Il problema della efficienza e celerità dei processi investe, molto più di quanto non possa apparire, l’intera struttura sociale nazionale.
Però, certo, su questo terreno la magistratura deve fare la sua parte; deve fare tutto quello che può per dare una risposta alle domande di giustizia che provengono dalla società italiana, perché quella risposta è il nostro primo biglietto da visita con i cittadini, è la nostra prima attestazione di credibilità.
In secondo luogo, la magistratura deve aprire un dialogo effettivo con i pezzi di società interessati a far funzionare la giustizia. Prima fra tutti l’Avvocatura, con la quale noi come Area abbiamo avuto un rapporto sempre molto aperto. La mia opinione personale è che su questo terreno si debba fare uno sforzo apertura all'esterno. Si debba, cioè, evitare di chiudere la magistratura in una torre di avorio e, al contrario, farla promotrice di un fronte comune di riflessione e di proposta con quanti continuano a credere nella giustizia come difesa di coloro che non hanno altre difese.
*Intervento di Antonello Cosentino al IV Convegno di Area DG, "Il ruolo della giurisdizione nell'epoca del maggioritarismo", Palermo 29 settembre-1°ottobre 2023.
(Immagine: Yayoi Kusama, Infinity Mirrored Room – Filled with the Brilliance of Life, 2011)
di Fabio Francario
*Sommario: 1.- L’incertezza dei precedenti interventi normativi. 2.- Brevi cenni alla disciplina dell’istituto nel nuovo codice. 3.- Le forme di ADR tradizionalmente ammesse in ambito pubblicistico: i ricorsi amministrativi e l’arbitrato. 4.- Il CCT come nuova e atipica forma di ADR concepita per assicurare la tutela in forma specifica dell’interesse alla realizzazione dell’opera. 5.- Le chiare indicazioni del legislatore nel senso della creazione di nuova e atipica forma di ADR
1.- L’incertezza dei precedenti interventi normativi.
Quella del collegio consultivo tecnico è sicuramente una figura enigmatica.
Basti pensare, solo per fare due esempi, alla difficoltà di conciliare la tensione verso gli estremi del collegio arbitrale e, al tempo stesso, dell’organismo meramente consultivo o verso gli estremi, anch’essi antitetici, del requisito dell’indipendenza o del rapporto fiduciario richiesti ai suoi membri rispetto alle parti.
L’incertezza che caratterizza la figura trae origine in buona parte dall’attenzione discontinua e contraddittoria ad essa dedicata nell’ultimo decennio dal legislatore. L’istituto non rappresenta infatti una novità assoluta del nuovo codice. Ancor prima di essere riscoperto e rivitalizzato nell’ambito delle “Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale” e “Governance del Piano nazionale di rilancio e resilienza e prime misure di rafforzamento delle strutture amministrative e di accelerazione e snellimento delle procedure”, recate, rispettivamente, dal d.l. 16 luglio 2020 n. 76 e dal d.l. 31 maggio 2021 n. 77, l’istituto era stato già introdotto dall’art. 207 del previgente codice dei contratti pubblici di cui al d.lgs 50 /2016 come istituto pre-contenzioso di carattere facoltativo “con funzioni di assistenza per la rapida risoluzione delle dispute di ogni natura…”. Nel parere reso dalla Commissione speciale nell’adunanza del 21 marzo 2016, n. 855, sullo schema di decreto legislativo che sarebbe poi divenuto il d.lgs. 18 aprile 2016 n. 50, il Consiglio di Stato aveva però sollevato più di un dubbio sulla figura, soprattutto in ragione della mancata definizione dei rapporti con gli altri rimedi pre-contenziosi già esistenti, e ne aveva proposto la soppressione. Le osservazioni del Consiglio di Stato non erano state recepite dal Governo, ma l’istituto veniva poi soppresso con l’adozione del c.d. “decreto correttivo” (l’art. 207 del d.lgs. n. 50/2016 viene infatti abrogato dall’art. 121, comma 1, del d.lgs. 19 aprile 2017, n. 56). L’istituto rinasce però due anni dopo ad opera del decreto c.d. “sblocca cantieri”. L’art. 1, commi da 11 a 14, della l. 14 giugno 2019, n. 55, di conversione, con modificazioni, del d.l. 18 aprile 2019, n. 32, ne prevede la costituzione facoltativa su accordo delle parti, con le medesime funzioni di cui al codice dei contratti pubblici, ma in via temporanea, ossia fino alla data di entrata in vigore del regolamento unico recante disposizioni di esecuzione, attuazione e integrazione del codice dei contratti pubblici, di cui all’art. 216, comma 27-octies, del codice. Differentemente da quanto originariamente stabilito dall’art. 207, comma 6 del d lga 50/2016, il quale disponeva che “se le parti accettano la soluzione offerta dal collegio consultivo…l’accordo sottoscritto vale come transazione”, il decreto sblocca cantieri prevedeva che “L'eventuale accordo delle parti che accolga la proposta di soluzione indicata dal collegio consultivo non ha natura transattiva, salva diversa volontà delle parti stesse” (art. 1, comma 13, terzo periodo, del d.l. n. 32/2019).
L’istituto viene pressoché interamente ridisciplinato nei suoi presupposti e nella funzione nell’ambito delle misure di semplificazione e di governance contemplate dai già citati d.l. 76/2020 e 77/2021, pensate per garantire il rilancio dell’economia nello scenario post pandemico e per assicurare il raggiungimento degli obbiettivi predefiniti, a livello comunitario, dal Next Generation EU (NGEU) e, a livello nazionale, dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). La necessità di evitare il rischio che gli interventi previsti non vengano realizzati e che gli obbiettivi prefissati non vengano raggiunti ha messo in primo piano la questione dell’efficienza amministrativa e l’attenzione del legislatore si è pertanto concentrata anche sulla necessità di approntare uno strumentario giuridico appositamente dedicato a garantire l’efficacia dell’azione amministrativa nell’ambito delle misure destinate ad accompagnare la realizzazione del Piano. L’intervento legislativo si è a tal fine sviluppato essenzialmente sotto tre distinti profili, tutti convergenti nell’unica finalità di garantire, in un’ottica di risultato, la celere ed efficace conclusione dei procedimenti e la stabilità delle decisioni: rimozione del fenomeno dell’amministrazione “difensiva” e della c.d. “paura della firma”, previsione di meccanismi procedimentali sostitutivi e de - giurisdizionalizzazione della soluzione dei conflitti. Nella prospettiva della de-giurisdizionalizzazione viene appunto recuperato e disciplinato, in maniera fortemente innovativa, l’istituto del CCT, lasciando chiaramente intendere che, nelle intenzioni del legislatore, la figura dovrebbe assumere un ruolo assolutamente strategico nell’ambito delle misure di accompagnamento strumentali alla garanzia di realizzazione del PNRR perché destinata ad evitare che dispute o controversie vengano portate e decise in sede giurisdizionale, ritardando o compromettendo il raggiungimento dei risultati programmati.
2.- Brevi cenni alla disciplina dell’istituto nel nuovo codice.
La ricostruzione, anche se solo sommaria, dell’evoluzione della disciplina normativa dell’istituto è utile per comprendere quanto insito nel fatto che il nuovo codice in ultima analisi non ha fatto altro che generalizzare e mettere a regime il sistema originariamente pensato solo per accompagnare la realizzazione degli obbiettivi PNRR. Sistema già disegnato dagli articoli 4 e 5 del d. l. 76/2020, modificato e integrato dal d.l. 77/2021 e completato dalle linee guida predisposte dal Consiglio superiore dei lavori pubblici e approvate con d.m. Ministro delle infrastrutture e mobilità sostenibili del 17 gennaio 2022. L’istituto risulta infatti nevralgico per garantire la concreta attuazione del principio del risultato, declamato ed esaltato dal nuovo codice; ma con valore essenzialmente nomofilattico e destinato a rimanere mero flatus voci in assenza di strumenti concretamente operativi, tra i quali spicca il collegio consultivo tecnico, disciplinato negli articoli 215 e seguenti del Codice e oggetto di un apposito Allegato (V.2), specificamente dedicato a tale figura.
Che la figura rappresenti il più importante, se non l’unico vero strumento concretamente in grado di assicurare il risultato della realizzazione dell’intervento pubblico è presto dimostrato dall’essenza dell’istituto; ravvisabile nell’essere un organismo, composto da tecnici particolarmente autorevoli e specificamente qualificati, che diano garanzie di fiducia e al tempo stesso d’indipendenza rispetto alle parti, deputato ad accompagnarle nell’esecuzione del contratto, fin dal suo inizio e per tutta sua durata, con il compito di evitare l’insorgere o di spegnere sul nascere eventuali conflitti tra di esse, in modo tale che non venga compromesso il raggiungimento del risultato della realizzazione dell’intervento pubblico nei tempi previsti e a regola d’arte. Si tratta, com’è evidente, di svolgere un compito di mediazione e conciliazione permanente tra le parti, finchè dura l’esecuzione del contratto.
3.- Le forme di ADR tradizionalmente ammesse in ambito pubblicistico: i ricorsi amministrativi e l’arbitrato.
L’istituto risulta oggi codificato come un rimedio generale pensato per dirimere sul nascere, o comunque in corso di esecuzione del contratto, i possibili contenziosi tra committente e appaltatore che rischierebbero di pregiudicare l’esecuzione tempestiva e a regola d’arte del contratto di appalto, il che ne autorizza la naturale collocazione nell’alveo delle figure di ADR (Alternative Dispute Resolution) impiegate per le controversie in ambito pubblicistico.
La categoria delle ADR, com’è noto, è però molto elastica e la riconduzione in tale ambito può quindi significare tutto e niente, stante la irriducibilità delle ADR ad un modello unico. Al di là della radice comune dell’offerta di una “giustizia non giurisdizionale”, le varie forme di ADR non sono infatti riducibili a un’unica tipologia perché non sono un fenomeno unitario e sempre uguale a sé stesso. Se si guarda l’esperienza maturata nell’ambito della contrattualistica internazionale, ambito nel quale si origina la figura dei dispute boards per accompagnare l’esecuzione dei contratti di durata, si vede subito che sono presenti modelli molto diversi tra loro, che tendono a distinguersi a seconda che abbiano carattere aggiudicativo o assistenziale; a seconda cioè che siano diretti a risolvere una lite insorta tra le parti attraverso categorie assimilabili a quelle giudiziarie ovvero a comporre la controversia attraverso procedure di tipo conciliativo in ragione di criteri equitativi piuttosto che di giustizia. Talora con soggezione agli effetti della decisione, talora con libertà di aderire o meno alla proposta conciliativa. Ferme in ogni caso le garanzie di indipendenza, terzietà e professionalità dei membri, i dispute boards possono quindi formulare tanto pareri o raccomandazioni non vincolanti (Dispute Review Board – DRB), quanto possono assumere decisioni immediatamente vincolanti per le parti (Dispute Adjudicative Board – DAB).
La mancanza di un unitario modello di riferimento teorico alimenta sicuramente l’incertezza nell’inquadramento della figura, ma le maggiori difficoltà derivano soprattutto dai limiti che tradizionalmente condizionano l’ingresso nell’ordinamento pubblicistico di forme e strumenti di “giustizia non giurisdizionale” e che spiegano in buona parte anche l’ondivago e incerto orientamento mostrato nell’ultimo decennio dal legislatore nei confronti dell’istituto.
Per quanto non siano certamente ignoti al nostro sistema di diritto amministrativo, tali tipologie di rimedi sono infatti fortemente condizionate dal vincolo d’indisponibilità gravante sull’esercizio del pubblico potere finalizzato alla cura del pubblico interesse. Per tradizione, il ricordato vincolo d’indisponibilità porta a circoscrivere l’ambito delle ADR all’esperienza dei ricorsi amministrativi, rimedi a carattere decisorio in cui non viene però garantita la terzietà del giudicante rispetto alle parti, e a quella dell’arbitrato rituale, generalmente consentita nei soli casi in cui le questioni riguardino situazioni disponibili di diritto soggettivo.
I ricorsi amministrativi (in opposizione, gerarchico, gerarchico improprio e, volendo, ricorso straordinario al Capo dello Stato) vengono sempre decisi da organi amministrativi, ai quali l’interessato rivolge la sua domanda di giustizia. Non solo il decidente non è un vero giudice, terzo e imparziale, ma l’interessato non partecipa nemmeno alla formazione della decisione. Può solo “domandare” e la decisione viene presa, unilateralmente, dall’Amministrazione. Anche nel caso del CCT, la costituzione dell’organo non ha base negoziale, ma legale. La regola, per gli appalti sopra soglia, è che l’organo deve essere necessariamente costituito a iniziativa della stazione appaltante, che decide se il collegio debba essere costituito da tre o cinque membri. In caso di disaccordo sulla nomina del Presidente, la nomina è riservata alla parte pubblica ed è sempre la parte pubblica (stazione appaltante) a prendere unilateralmente la decisione quando l’istituzione è facoltativa (ante operam). E’ quindi un organo consultivo costituito per assicurare la realizzazione dell’interesse pubblico primario alla esecuzione dell’opera pubblica, che rende pareri obbligatori nelle ipotesi di sospensione di cui all’art. 121 del Codice e facoltativi in tutti gli altri casi. Pareri che, a seconda dei casi (808 ter c.p.c.), possono essere vincolanti o meno per la definizione di una controversia tra stazione appaltante e operatore economico. In alcuni casi, cioè, decidono (significativamente in tali casi le disposizioni usano la locuzione “determinazione” e non “parere”); in altri suggeriscono la decisione. E’ dunque un organo consultivo necessario, che però non rende solo pareri, ma può anche assumere vere e proprie decisioni. Se ci si fermasse a questa sola considerazione, il cumulo di funzioni consultive e decisorie non rappresenterebbe una novità assoluta nel nostro Ordinamento, dal momento che il sistema dei ricorsi amministrativi e della giustizia amministrativa più complessivamente considerata già ammette e tollera l’ipotesi che un unico soggetto (a cominciare dal Consiglio di Stato) possa cumulare esercizio di funzione giurisdizionale e consultiva.
Quanto all’arbitrato, la netta affermazione contenuta nell’art 12 c.p.a., secondo la quale “le controversie concernenti diritti soggettivi devolute alla giurisdizione del giudice amministrativo possono essere risolte mediante arbitrato rituale di diritto ai sensi degli articoli 806 e seguenti cpc”, chiarisce sì che sono deducibili in arbitrato le sole controversie che riguardino situazioni (giuridiche soggettive) disponibili, ma non è tale da eliminare tutti i vincoli che l’operatività di questa forma di ADR incontra in ambito pubblicistico. Al di là dei vincoli modali derivanti dalle previsioni specificamente recate dall’art. 213 del Codice, bisogna comunque continuare a fare i conti con i limiti che in linea di principio derivano dal divieto di arbitrato obbligatorio (Cfr. Corte cost. 13 giugno 2018 n. 123 ) e dalla preclusione del ricorso all’arbitrato irrituale (ex multis v. Cass., Sez. III, 08 aprile 2020 n. 7759: “non basta richiamarsi alla natura privatistica degli strumenti negoziali adoperati per superare ogni possibile ostacolo all'utilizzabilità dell'arbitrato irrituale nei contratti della pubblica amministrazione. Certamente non v'è alcuna incompatibilità di principio tra la natura pubblica del contraente e la possibilità di un componimento negoziale delle controversie nascenti dal contratto stipulato dalla pubblica amministrazione. Ma resta il fatto che tale componimento, se derivante da un arbitrato irrituale, verrebbe ad essere affidato a soggetti (gli arbitri irrituali, appunto) individuati all'interno della medesima logica negoziale, in difetto qualsiasi procedimento legalmente predeterminato e perciò senza adeguate garanzie di trasparenza e pubblicità”). Il principio della libera disponibilità esclude dunque che, in assenza di una espressa volontà della parte, l’arbitrato possa essere reso obbligatorio per effetto di una norma di legge e il medesimo principio, per altro verso, non è però tale da giustificare anche che l’arbitrato si svolga nelle forme irrituali, perlomeno in assenza di una espressa previsione o disciplina di legge.
4.- Il CCT come nuova e atipica forma di ADR concepita per assicurare la tutela in forma specifica dell’interesse alla realizzazione dell’opera.
La disciplina del CCT codificata dal d.lgs. 36/2023 introduce due significativi elementi di novità (o, forse, sarebbe meglio dire di vera e propria rottura) rispetto allo schema tipico dei ricorsi amministrativi o del giudizio arbitrale, pacificamente ammessi e noti in ambito pubblico come ADR.
Il primo si coglie con riferimento ai ricorsi amministrativi e consiste nella necessaria partecipazione, come componente dell’organo decidente, dell’operatore economico (rectius: di membri da questa nominati), e cioè della parte privata direttamente interessata. La decisione, parere o determinazione che sia, non viene presa più unilateralmente dalla sola amministrazione. Rispetto al sistema dei ricorsi amministrativi, s’introduce l’elemento della consensualità, in luogo della unilateralità, nella decisione sul ricorso (o nella resa del parere).
L’altro elemento di novità o di rottura si coglie invece con riferimento al giudizio arbitrale, dal momento che s’introduce la possibilità d’impiego della forma dell’arbitrato irrituale. La rottura rispetto all’impiego tradizionale del modello arbitrale non risiede certamente nel fatto che si introduce una forma di arbitrato obbligatorio, cosa che non avviene (è obbligatoria la costituzione del Collegio, non la decisione in forma arbitrale, che dipende pur sempre dalla concorde volontà delle parti); ma nel fatto che una norma di legge consente che dispute o controversie con una pubblica amministrazione possano essere decise anche a mezzo di un arbitrato irrituale. La previsione legislativa (cfr. All. V.2 del Codice e artt. 6 commi 2 e 3 del d.l. 76/20220) predetermina requisiti e modalità di scelta degli “arbitri” e delinea i tratti essenziali del procedimento, sottraendo entrambi i profili ad una assoluta libertà negoziale e superando con ciò le riserve più volte formulate dalla Corte di Cassazione e legittimando così l’ingresso della figura in ambito pubblicistico.
Si può dunque ritenere che si è di fronte ad una nuova e atipica forma di adr, risultante dalla contaminazione del rimedio giustiziale amministrativo con gli elementi tipici privatistici del consenso e della irritualità delle forme.
Correttamente inquadrato in questa prospettiva, si rivela subito come l’istituto non risulta pensato come misura semplicemente deflattiva del contenzioso, finalizzata ad evitare l’aggravio dei carichi di lavoro dei tribunali ordinari e a rinverdire la stagione dei giudizi arbitrali per accertare maggiori compensi o risarcimenti all’operatore economico. Al contrario, l’istituto è pensato proprio per rendere l’esecuzione del contratto impermeabile e insensibile alla lite, per evitare cioè che si originino situazioni contenziose che possano ritardare o pregiudicare la realizzazione dell’opera pubblica o che, una volta ultimata, possano aumentarne il costo finale secundum eventum litis. Risulta quindi espressamente concepito come strumento finalizzato ad assicurare la tutela in forma specifica dell’interesse alla realizzazione dell’opera, facendo sì che le parti siano accompagnate e assistite, praticamente in tempo reale, nell’esecuzione del contratto da un organismo di mediazione e conciliazione permanentemente attivo, il quale non dà luogo ad un giudizio arbitrale (sia perché i tempi di decisione sono incompatibili con quelli di un giudizio arbitrale, sia perché non stabilisce post operamchi ha torto e chi ha ragione in ordine a pretese residue che possono far unicamente lievitare il costo di realizzazione senza che ciò possa aver più alcuna possibilità d’incidenza sui tempi e sulle modalità di realizzazione dell’opus), né tantomeno ad un arbitrato obbligatorio (perché obbligatoria, sopra soglia, è la costituzione del collegio, non anche il conferimento del potere di pronunciare lodi irrituali).
5.- Le chiare indicazioni del legislatore nel senso della creazione di nuova e atipica forma di ADR
Le indicazioni del legislatore nel senso della introduzione di una nuova e atipica forma di ADR in ambito pubblicistico sono chiare e nette.
Già nell’impianto delle disposizioni recate dai decreti semplificazione e governance PNRR del biennio 2020\2021 risulta evidente come la ratio normativa alla base dell’istituto sia quella di estendere in ambito pubblicistico una forma atipica di ADR, diversa dai ricorsi amministrativi e dall’arbitrato (oltre che della transazione e dell’accordo bonario), in modo da avere uno strumento in grado di garantire “la rapida risoluzione delle controversie o delle dispute tecniche di ogni natura suscettibili d’insorgere nell’esecuzione del contratto” e di “favorire, nella risoluzione delle controversie o delle dispute tecniche eventualmente insorte, la scelta della migliore soluzione per la celere esecuzione dell’opera a regola d’arte”, per non pregiudicare il raggiungimento degli obbiettivi individuati nel PNRR e nel NGEU. Sin dal primo impianto proprio dei decreti 76/2020 e 77/2021 si rende subito evidente come preoccupazione principale del legislatore non sia quella di scegliere un dato modello, piuttosto che un altro, ma di consentire l’ingresso del rimedio in ambito pubblicistico, raccogliendo nella figura modelli diversi e lasciando alle parti la scelta di adottare di volta in volta nel concreto di ogni singolo appalto, un modello aggiudicativo o consultivo, con conseguenti differenziazioni dei regimi giuridici in punto di natura ed efficacia giuridica delle decisioni e del collegio stesso.
Il nuovo codice è stato subito indirizzato dalla legge delega nella direzione della “estensione e rafforzamento dei metodi di risoluzione delle controversie alternativi al rimedio giurisdizionale, anche in sede di esecuzione del contratto” (art. 1, c.2, lett. LL, l. 21 giugno 2022 n. 78). L’art. 215 onera il Collegio dell’onere di assumere comunque la “scelta della migliore soluzione per la celere esecuzione dell’opera a regola d’arte”, svincolando sotto questo profilo la decisione dalla domanda delle parti, e qualifica esplicitamente la nuova figura come espressione di “attività di mediazione e di conciliazione”. L’art. 217 prevede espressamente la possibilità che, ricorrendo la volontà delle parti, la pronuncia possa assumere valore di lodo irrituale ai sensi dell’art. 808 ter c.p.c.. L’art 3, quinto comma, dell’Allegato V.2 ripropone quasi pedissequamente la norma sulle spese processuali prevista per la mediazione civile dall’art 13 d.lgs. 28/2010 (“Quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto della determinazione del Collegio consultivo, il giudice esclude la ripetizione delle spese sostenute dalla parte vincitrice che non ha osservato la determinazione, riferibili al periodo successivo alla formulazione della stessa e la condanna al rimborso delle spese sostenute dalla parte soccombente relative alo stesso periodo, nonché al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di un’ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto”). I tempi di decisione non sono compatibili e nemmeno paragonabili a quelli di un giudizio arbitrale (cfr. art. 3, quarto comma, Allegato V.2)
Le indicazioni legislative sono dunque tutte chiaramente nel senso di vedere nel CCT un rimedio giustiziale operante in ambito pubblicistico, reso atipico dal fatto che la norma primaria di legge consente che dispute e controversie vengano risolte di comune accordo anche nelle forme dell’arbitrato irrituale, ponendo in essere un’attività espressamente qualificata come mediazione e conciliazione; con un pronunciamento che avviene quindi non necessariamente secondo diritto o con reciproche concessioni rispetto a domande formulate, ma seguendo una logica conciliativa che per sua natura (riprendendo l’espressione impiegata nella relazione illustrativa del d lgs. 4 marzo 2010 n. 28, recante “Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali”) è volta alla “ridefinizione della relazione intersoggettiva in prospettiva futura”. La logica conciliativa impone di guardare al futuro e non al passato e di evitare che entrino in crisi la comunicazione e la collaborazione necessarie per garantire il raggiungimento del risultato finale atteso che, nel caso di specie del CCT, significa salvaguardare l’interesse alla realizzazione dell’opera pubblica a regola d’arte e nei tempi previsti: “l’attività di mediazione e conciliazione è comunque finalizzata alla scelta della migliore soluzione per la celere esecuzione dell’opera a regola d’arte” (art. 215, secondo comma, secondo periodo, d.lgs. 36/2023).
Rimossi i limiti di forma e procedura altrimenti ostativi all’ingresso dello strumento in ambito pubblicistico, nella migliore tradizione delle ADR il legislatore mostra di essersi preoccupato essenzialmente di garantire l’efficacia e l’effettiva utilità della nuova figura.
Indicazioni bibliografiche
C. Volpe, Il Collegio consultivo tecnico. Un istituto ancora dagli incerti confini, in www.giustizia- amministrativa.it ; P. CARBONE, La disciplina del collegio consultivo tecnico dopo il decreto del Mims 17 gennaio 2022 n. 12, Santarcangelo di Romagna, 2022; G. TROPEA, A. GIANNELLI, L'emergenza pandemica e i contratti pubblici: una semplificazione in chiaro scuro tra misure temporanee e prospettive di riforma strutturale, in Munus 2/2020; F. FRANCARIO, Il collegio consultivo tecnico. Misura di semplificazione e di efficienza o inutile aggravamento amministrativo ?, in www.giustiziainsieme.it, 15 luglio 2022; M. NUNZIATA, Il dispute board nei contratti di appalto internazionali. Prospettive di prevenzione e di risoluzione delle controversie, Giappicchelli, Torino, 2021; V. CAPUTI JAMBRENGHI, Per una sentenza sempre meno ingiusta: uscita di sicurezza dal processo amministrativo e mediazione giustiziale, in F. FRANCARIO – M.A. SANDULLI(a cura di), La sentenza amministrativa ingiusta e i suoi rimedi, Editoriale Scientifica, Napoli, 2018, 377-380; M. RAMAJOLI, Strumenti alternativi di risoluzione delle controversie pubblici- stiche, in Dir. amm., 2014; ID., Interesse generale e rimedi alternativi pubblicistici, in Dir Proc. Amm., 2015; M. CALABRÒ, L’evoluzione della funzione giustiziale nella prospettiva delle appropriate dispute resolution, in Federalismi.it, n. 10/2017, ID., La funzione giustiziale nella pubblica amministrazione, Giappichelli, Torino, 2012; P. OTRANTO, Dalla funzione amministrativa giustiziale alle ADR di diritto pubblico. L’esperienza dei dispute board e del collegio consultivo tecnico, Editoriale Scientifica, Napoli, 2023
*L’articolo riproduce il testo della relazione presentata al convegno “Il nuovo codice dei contratti pubblici. D. Lgs. 36/2023”, Milano 6 ottobre 2023.
di Stefano Calabria
Sommario: 1. Il contesto normativo - 2. Il procedimento autorizzatorio - 2.1. Incarichi di docenza forniti dalle SSPL e da enti di rilievo costituzionale o da enti internazionali - 2.2. Incarichi assoggettati alla procedura semplificata - 2.3. Incarichi assoggettati alla procedura ordinaria
1. Il contesto normativo
La norma primaria di riferimento è l’art. 16 regio decreto n. 12/1941 (ordinamento giudiziario).
Vi è il divieto assoluto per lo svolgimento di alcune attività (svolgere attività libero professionali, commerciali, istaurare rapporti di impiego pubblico o privato) e il divieto “relativo” per lo svolgimento degli incarichi di qualsiasi specie, salva autorizzazione da parte del CSM.
Tale norma di cui all’art. 16 prevale su quella generale di cui all’art. 53 del d.lgs. n. 165/2001, relativa a tutti i dipendenti pubblici e che, a mio avviso, non è direttamente applicabile per il personale di magistratura perché non è stato emanato l’apposito regolamento di cui al comma 3 della predetta norma e perché, inoltre, il CSM non rientra tra le PP.AA. di cui all’art. 1.2 del medesimo d.lgs. n. 165/2001; tale norma, tuttavia, è spesso richiamata, in via formale e probabilmente tralatizia, nella premessa di numerose delibere consiliari in materia di incarichi extragiudiziari.
Per esercitare tale potere autorizzativo in maniera prevedibile e uguale per tutti i magistrati il CSM ha adottato una normativa secondaria: si tratta di un autolimite consiliare nell’esercizio della propria discrezionalità, in assenza di criteri di sorta posti dalla norma primaria.
Si tratta della circolare n. 22581/2015, tuttora in vigore.
Il fulcro valutativo da parte del CSM riguarda un duplice aspetto: 1) la compatibilità dell’incarico con le esigenze di servizio, per non pregiudicare la ragionevole durata dei processi; 2) la compatibilità dell’incarico con le funzioni concretamente espletate dal magistrato interessato, dovendosi evitare che il prestigio come pure i valori dell’indipendenza ed imparzialità siano oppure appaiano compromessi o anche soltanto esposti a rischio, per effetto di gratificazioni o compensi collegabili ad incarichi concessi o controllati da soggetti estranei all’amministrazione della giustizia (art. 7.1, ma anche art. 1.4 e art. 4.2 nonché l’intero art. 3).
Di qui l’elenco delle attività del tutto vietate di cui all’art. 3 della circolare, tra le quali segnaliamo il divieto di svolgere incarichi in materia di giustizia sportiva, il divieto di insegnare in scuole private per la preparazione a pubblici concorsi, anche per l’accesso alle professioni legali (è autorizzata invece la docenza alle Scuole forensi, che non sono scuole private), il divieto di svolgere il ruolo di componente o di presidente del Comitato di sorveglianza delle grandi imprese in crisi, il divieto di assunzione, anche nelle Onlus, di incarichi comportanti attività di gestione o di amministrazione patrimoniale e il divieto di svolgere incarichi non di docenza conferiti da enti pubblici o finanziati da enti pubblici, operanti nel territorio della Regione dove opera il magistrato.
Di qui, inoltre, le condizioni soggettive ostative all’autorizzazione di cui all’art. 10, non derogabili nelle ipotesi di cui al comma 3 e soggette a valutazione discrezionale nelle ipotesi di cui al comma 1.
Di qui il limite delle 80 ore per anno solare (art. 3.6).
L’art. 1 della circolare indica poi i casi di attività libera, come lo scrivere libri, articoli giuridici o non giuridici su quotidiani o riviste, l’attività di volontariato...
Il CSM emette un provvedimento conclusivo del procedimento, anche di natura silenziosa, che in caso di diniego può essere impugnato dall’interessato dinanzi al T.a.r..
All’interno del CSM è la I Commissione a istruire le pratiche in tema di incarichi extragiudiziari.
Per la domanda in materia di incarichi c’è un format da riempire su Cosmag che, tuttavia, non è alternativo alla produzione della documentazione, che va comunque inviata, anche tramite l’ufficio di appartenenza.
2. Il procedimento autorizzatorio
Ci sono tre tipologie di procedimento, qui indicate in ordine di complessità crescente.
2. 1. Incarichi di docenza forniti dalle SSPL e da enti di rilievo costituzionale o da enti internazionali
Favor normativo per tali docenze e sue finalità. Si segnala poi l’ultimo comma dell’art. 19 sulla partecipazione ai Consigli direttivi delle SSPL.
Contenuto delle dichiarazioni del magistrato (art. 19.2). Rilevante la novella del novembre del 2021 in tema di dichiarazione relativa ai ritardi giacché, per tutti gli incarichi, si è intesa rafforzare la necessità che il magistrato che si trovi, anche non per sua colpa, in significativi ritardi nel deposito dei provvedimenti possa svolgere incarichi extragiudiziari; il che colliderebbe anzitutto con le esigenze di servizio ma poi anche con il prestigio dell’ordine giudiziario.
Il parere del dirigente dell’ufficio è qui eventuale nel senso che viene espresso solo se ci sono criticità. Di solito c’è un n.o., ossia nulla osta.
Se il parere del dirigente non c’è o se il dirigente non formula rilievi, il magistrato può iniziare l’incarico prima del provvedimento autorizzativo, nei casi di urgenza e assumendosene ogni responsabilità, nel senso che se poi c’è il rigetto non ha diritto al pagamento.
Tra le autodichiarazioni c’è quella sul contenzioso trattato dal magistrato e in cui sia parte la SSPL (che quasi mai ha autonoma personalità giuridica) o l’Università. Può essere un aspetto ostativo, anche se il Consiglio valuta caso per caso.
Nozione di silenzio assenso (art. 18) e possibilità per il CSM di agire in autotutela, con le relative conseguenze pratiche. Va precisato che il termine per il silenzio assenso comincia a decorrere quando tutta la documentazione giunge al Consiglio; pertanto, ove occorra il parere del Consiglio giudiziario, il termine decorre quando esso sia emesso e sia comunicato al Consiglio.
2.2. Incarichi assoggettati alla procedura semplificata
a) Docenze brevi (non più di 25 ore) o pagate meno di 3.500 euro, conferite da enti pubblici, università non telematiche, case editrici e “altri enti privati aventi come oggetto sociale esclusivo o prevalente l’attività di formazione in campo giuridico, in ogni caso di effettivo rilievo nazionale” (modifica del 2021 e sua ratio; sulla base di tale modifica alcuni incarichi non sono stati autorizzati); b) incarichi di componente di commissione ministeriale; c) incarichi di componente di commissione d’esame per le quali la presenza dei magistrati non sia prevista come obbligatoria dalla legge (es. dottori commercialisti). Le ipotesi sub b) e sub c) sono state inserite nella procedura semplificata per effetto delle modifiche apportate nel novembre del 2021.
[Quando invece la presenza dei magistrati nelle commissioni d’esame sia prevista come obbligatoria dalla legge, si tratta di un’attività libera e il magistrato non deve essere autorizzato (es. commissione esami avvocato)].
Per la procedura semplificata è necessario il parere del dirigente dell’ufficio, che deve indicare espressamente se il magistrato sia incappato in ritardi. Non è richiesto il parere del Consiglio giudiziario.
Vale il silenzio assenso e c’è la possibilità di iniziare lo svolgimento dell’incarico prima del conseguimento dell’autorizzazione, sempre sotto la responsabilità del magistrato, tranne che per gli incarichi di cui alla lettera b) di cui sopra (spiegare la ratio).
2.3. Incarichi assoggettati alla procedura ordinaria
Rientrano negli incarichi assoggettati alla procedura ordinaria le docenze di durata e di corrispettivo superiore, rispettivamente, alle 25 ore e ai 3.500 euro e tutti gli incarichi non assoggettati alle due procedure semplificate di cui sopra. Dunque, in linea di principio, la procedura ordinaria è la regola e le procedure semplificate di cui sopra sono l’eccezione.
Per la procedura ordinaria occorre, in aggiunta alla documentazione occorrente per la procedura semplificata, allegare, tra le altre cose, il parere del Consiglio giudiziario o del Consiglio direttivo presso la Corte di Cassazione nonché le statistiche comparate. Dunque il procedimento è più articolato e strutturato e richiede più tempo sicché conviene al magistrato presentare la richiesta in tempo utile, ossia 40 giorni prima dello svolgimento dell’incarico (art. 15.1). Per esperienza non accade quasi mai che il dirigente ometta di rendere il parere o tardi oltre modo; qualche volta (raramente comunque) accade che il Consiglio giudiziario ritardi nell’emettere il parere e, in quel caso, la I Commissione provvede al sollecito, anche per le vie brevi.
È bene precisare che di regola gli incarichi di docenza presso la Ssm non sono soggetti ad autorizzazione espressa, salvo che per i magistrati che versino nelle particolari condizioni soggettive (art. 20); l’art. 21 prevede una sorta di autorizzazione tacita che quasi mai ha dato corso a problemi e successive revoche.
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