ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
1. L’atto politico e l’atto di alta amministrazione, Costituzione e ruolo del GA.
L’atto politico è un’idea limite.
Un concetto con il quale è utile confrontarsi per saggiare la tenuta del sistema giuridico complessivamente inteso.
Un rovescio della medaglia rispetto al tema della sindacabilità dell’atto del pubblico potere postulata dal moderno diritto pubblico al fine di garantirne la generale ragionevolezza nelle forme di esplicazione.
Esso ha qualcosa di mitologico, di pregiuridico, di a-giuridico, si tratterebbe di un atto introvabile, o comunque di carattere metagiuridico (riporta la nozione alla mitologia giuridica di romaniana memoria G. Tropea Genealogia, comparazione e decostruzione di un problema ancora aperto: l’atto politico in Dir. amm. 2012, 329 e ss.).
È in fondo una soglia dalla quale inizia il terreno (una volta sconfinato) degli interessi non giustiziabili eppure sacrificabili o sacrificati in nome di interessi collettivi.
Il tema interessa il processo amministrativo perché è al giudice amministrativo che è lasciato il compito – nella congerie degli interessi che reclamano – a fronte di atti amministrativi – un controllo di legittimità, di stabilire cosa sia un atto politico.
Il giudice amministrativo è quindi il giudice della politicità dell’atto.
Con ciò è anche il giudice che stabilisce il limite della sua giurisdizione.
Soggetto – sul punto – al controllo della Corte di Cassazione sui limiti esterni del potere giurisdizionale (art. 111 ult. comma Cost.).
La nozione di atto politico è anche un residuo di altre epoche storiche non così connotate dal tema della centralità della giurisdizione e dell’effettività della tutela.
La Costituzione – con gli art. 24 e 113 – ha infatti introdotto delle disposizioni che hanno costantemente sottoposto ad erosione la nozione di atto politico, facendola diventare chimerica.
La decisione sulla politicità dell’atto è rilevante sia sulla definizione del concreto assetto della divisione dei poteri sia sul tema (conseguente) della giustiziabilità delle situazioni giuridiche soggettive (non essendovi a fronte dell’atto politico altra possibilità che agire politicamente).
Discusso è se la nozione di politicità dell’atto rilevi anche per il giudice ordinario, posto che essa era nell’art. 31 del tu CdS ed è menzionata nell’art. 7 del c.p.a. mentre non risulta fra i limiti della legge abolitiva del contenzioso amministrativo (tuttavia essendo tale ultima legge volta a stabilire i limiti di cognizione del giudice ordinario di fronte agli atti amministrativi per la contraddizione che non lo consente si deve ritenere che il limite dell’atto politico a fortiori riguardi anche i giudici ordinari che potranno disapplicare atti amministrativi illegittimi ma non potranno esercitare analogo potere sugli atti politici).
Va altresì ricordato che è esistita fino a tempi recenti (ed ancora dura anche se è contrastata dalle risorgenti visioni ideologiche tendenti a tornare alla sovranità ) una tendenza “forte” alla depoliticizzazione ( specie nella costruzione dell’ordinamento europeo ) sicché esistono ambiti sempre più ampi dell’azione pubblica nella quale la politica non ha cittadinanza ( a sua volta la tecnica non sempre accetta tuttavia una pienezza del sindacato giurisdizionale ; trovandosi sempre più spesso nella legislazione europea e nazionale in tema di regolazione norme limitative della cognizione giurisdizionale costruite nel dare prevalenza alla tutela risarcitoria in un’ottica di risultato o per l’esistenza di un preminente interesse nazionale; la tendenza si risolve a volte nello stabilire pregnanti limiti alla tutela cautelare ma talvolta nel limitare anche i poteri di merito; si tratta del fenomeno noto come arretramento della tutela reale a vantaggio di quella risarcitoria utilizzato non solo post stipula del contratto ma, nel caso di delicate procedure di aggiudicazione, anche prima della conclusione del contratto – e vedasi art. 1 comma 1037 della legge di bilancio 2018 legge n. 205 del 2017 - o nel settore bancario – vedasi art. 95 comma 2 del d.lgs. n. 180 del 2015 - o nell’ordinamento sportivo in tema di sanzioni disciplinari).
Politica anche questa, ma in forma tecnocratica: la più incisiva del nostro tempo.
Occorre poi distinguere ormai una politica del governo, una politica dell’amministrazione (specie se indipendente o adespota), una politica del giudice (e si pensi alla controversia e sempre aperta questione della sindacabilità degli atti del CSM, al frequente – direi fisiologico o strutturale - contrasto in questa materia fra Consiglio di Stato e Cassazione).
Tutti campi nei quali si viene a mettere in tensione il principio di giustiziabilità delle posizioni giuridiche soggettive di cui all’art. 24 Cost.
L’atto politico – come abbiamo detto - è un Limes.
Per individuarne la natura sarebbe necessaria una metodologia, ed in proposito si possono adottare numerose chiavi interpretative.
Si può registrare lo stato della giurisprudenza.
La giurisprudenza, di fatto, non appare del tutto omogenea e risolve situazioni in parte analoghe in modi diversi (è stato notato da Chiara Cudia Considerazioni sull’atto politico in Dir. amm. 2021, 621 e ss).
L’autrice menzionata con acume nota che “non sono considerati atti politici le nomine di alti vertici dell'amministrazione ma è riconosciuto carattere politico alla nomina dei componenti di una commissione tecnica che opera in materia di giochi e monopoli di Stato. Non sono politici gli atti di pianificazione territoriale né il piano sanitario regionale ma (sia pure saltuariamente) sono considerati tali il piano delle farmacie e il piano delle infrastrutture e degli insediamenti strategici. È escluso dalla categoria di atto politico l'atto di indizione di elezioni regionali, ma non la decisione di concentrare in un'unica data le elezioni amministrative ed europee.”
Si possono cercare quindi – al di là dell’approccio casistico problematico - più profonde prospettive ricostruttive.
E qui si incontra come prima opzione metodologica la possibilità di una ricostruzione politologica dell’atto politico.
In questa ottica politica è l’attività libera nei fini (a differenza di quella amministrativa che è soggetta ai fini stabiliti dalla legge) che cura la polis.
Ma politica è anche – schmittianamente - l’attività connotata dal gioco mortale amico/nemico: nel tempo presente ogni decisione sulla pace e sulla guerra (interna ed esterna).
Esiste anche – ed è la seconda opzione metodologica - una ricostruzione giuridica della nozione di atto politico.
Qui si incontrano varie concettuologie : la teorica delle funzioni di Governo, il rapporto quindi dell’atto impugnato con dette funzioni ( tra l’altro costituzionalmente definite ); ed ancora la separatezza fra politica ed amministrazione; la discrezionalità come ambito sindacabile in modo più o meno intenso, il merito amministrativo ( come ulteriore limite dove si tocca all’opposto della politica ciò che appartiene in via esclusiva all’amministrazione ; il terreno anche esso “mitologico” della riserva di amministrazione ).
Tutto il tema si innesta nella teorica della separazione dei poteri, che tuttavia oggi lega i poteri, una volta distinti, nel continuum temporale della loro azione, connotata dal collante della leale collaborazione e dalla presenza di tratti spesso fortemente commisti ( evidenti nella concezione che li distingue per aspetti formali e sostanziali : e così abbiamo l’autodichia attività formale di organi costituzionali ma di natura sostanzialmente giurisdizionale, la volontaria giurisdizione attività di natura formalmente giurisdizionale ma di natura sostanzialmente amministrativa, l’attività di regolazione delle amministrazioni indipendenti di natura formalmente amministrativa ma con tratti di normatività; l’attività degli organi di autogoverno delle magistrature che ha carattere amministrativo ma rilevanza costituzionale; l’attività del PM che ha molti tratti in comune con l’attività amministrativa pur essendo promanante da un organo giudiziario; le gare ad evidenza pubblica espletate dai capi degli uffici giudiziari o dalle Camere; l’attività trasversale del Presidente della Repubblica che partecipa della vita di tutti i poteri; la sentenza additiva della Corte Costituzionale che integra l’ordinamento giuridico a guisa di Legislatore impolitico sulla base del tratto a rime obbligate del precetto costituzionale ).
Cruciale e di ausilio nella individuazione dell’atto politico è la nozione di indirizzo politico.
Tale essendo ogni attività di fissazione dei fini della comunità.
Dovendosi poi distinguere un indirizzo politico costituzionale ed un indirizzo politico di Governo, il primo espresso nell’attività del Presidente della Repubblica (quale viva vox constitutionis) e della Corte Costituzionale (quale giudice – come tale voluto “impolitico” a parte alcuni tratti dovuti ai procedimenti di nomina - della politica) il secondo espresso nella relazione pregnante fra organi di Governo (nazionale e locale) ed amministrazioni.
Torniamo un momento sull’atto politico individuato con metodo politologico.
In tale prospettiva l’atto politico:
Nella logica amico/nemico siamo sul piano degli “atti identitari di diritto costituzionale”, essenziali per l’interesse nazionale, per la cura della comunità tutta intera, gli atti di formazione/ composizione di un Governo, la relazione alle Camere del Presidente del Consiglio dei Ministri, la nomina dei sottosegretari, come organi non menzionati in Costituzione ma ricorrenti nella prassi della composizione dei Governi.
In sostanza ogni atto che consenta di strutturare una guida politica stabile di un ordinamento interno (stasis – lato amicale della politica).
All’opposto vi sono gli atti dell’ordinamento interno che hanno riflessi esterni (le attività diplomatiche ed internazionali volte ai negoziati dei Trattati, le attività dei servizi segreti, alcune rilevanti attività del mondo della difesa, e si tratta del lato del polemos rivolto al nemico in politica ).
Torniamo ora, utilizzando le stesse coordinate interpretative, alla nozione giuridica di atto politico (quella ricavata con metodo giuridico).
Qui si incontra l’indirizzo politico come attività rivolta all’amministrazione.
Si tratta delle attività di indirizzo politico amministrativo definite dall’art. 4 del t.u. del pubblico impiego ( d.gs. n. 165 del 2001 ).
Gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento ditali funzioni, e verificano la rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti. Ad essi spettano, in particolare:
a) le decisioni in materia di atti normativi e l’adozione dei relativi atti di indirizzo interpretativo ed applicativo;
b) la definizione di obiettivi, priorità, piani, programmi e direttive generali per l'azione amministrativa e per la gestione;
c) la individuazione delle risorse umane, materiali ed economico-finanziarie da destinare alle diverse finalità e la loro ripartizione tra gli uffici di livello dirigenziale generale;
d) la definizione dei criteri generali in materia di ausili finanziari a terzi e di determinazione di tariffe, canoni e analoghi oneri a carico di terzi;
e) le nomine, designazioni ed atti analoghi ad essi attribuiti da specifiche disposizioni;
f) le richieste di pareri alle autorità amministrative indipendenti ed al Consiglio di Stato;
g) gli altri atti indicati dal presente decreto.
Sono tutti insindacabili gli atti dell’art. 4 del t.u.p.i ?
Forse l’intento del legislatore era di sancirne l’insindacabilità e comunque di distinguerli dagli atti amministrativi tout court lasciati alla responsabilità dei dirigenti.
Ciò si potrebbe ipotizzare sulla base dell’art.4 commi 2 e 3 che così recitano: "2. Ai dirigenti spetta l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, nonché' la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. Essi sono responsabili in via esclusiva dell'attivita' amministrativa, della gestione e dei relativi risultati. 3. Le attribuzioni dei dirigenti indicate dal comma 2 possono essere derogate soltanto espressamente e ad opera di specifiche disposizioni legislative".
Ma la distinzione fra funzioni di indirizzo politico-amministrativo e atti amministrativi dell’art. 4 a bene vedere non comporta affatto l’insindacabilità degli atti espressivi di funzioni di indirizzo politico amministrativo da parte del giudice ai sensi degli articoli 24 e 113 Cost.
La giurisprudenza e la dottrina hanno elaborato la nozione di atto di alta amministrazione per sindacare tali funzioni che da una parte si raccordano alla politica costituzionale dall’altra si proiettano nel concreto dell’attività amministrativa.
Ben si può affermare che la nozione di atto di alta amministrazione – quale clavis universalis per lo svuotamento della politica - erode la nozione di atto politico.
Erosione che arriva al punto di far ritenere inesistente l’atto politico ( Cerulli Irelli, Politica e amministrazione tra atti « politici » e atti « di alta amministrazione », in Dir. pubbl., 2009, 121, auspicava l'abolizione espressa dell'art. 31 t.u. Cons. Stato; Garcia de Enterria e altri in Spagna Così A. EMBID IRUJO , La justiciabilidad de los actos de gobierno (de los actos políticos a la responsabilidad de los poderes públicos , in AA. VV., Estudios Sobre la Constitución Española ,.E.García de Enterría (a cura di), Civitas, Madrid, 1991, vol. III, p. 2702 ss. ) alla luce dell’art. 24 Cost. e dell’art. 113 Cost.
Gli atti dell’art. 4 del tupi – per eterogenesi dei fini – essendo normativamente regolati non si sottraggono al sindacato giurisdizionale, si pongono come atti di indirizzo politico – amministrativo.
Amplissima discrezionalità li caratterizza ma non certo insindacabilità.
Il punto di partenza della nozione di atto politico, sul piano storico, è stato in Francia – lo ricorda Tropea – una nascita del concetto éminemment prétorienne , e risale al 1822 (arrêt Lafitte), allorché un concessionario della principessa Borghese reclamò il pagamento suppletivo di una rendita in dotazione conferita da Napoleone alla principessa. Il Consiglio di Stato si dichiarò incompetente «considérant que la réclamation tient à une question politique, dont la décision appartient exclusivement au gouvernement». In seguito, il campo si estese agli “actes de guerre”, ai “traités diplomatiques”, alle rivendicazioni di antiche dinastie.
Strumento di politica giurisprudenziale (l’espressione è ancora di Tropea e si concorda), a sua volta, l’atto politico è stato sin dall’inizio utilizzato dal giudice per definire i limiti della propria azione .
Rilevano in questa chiave, storicamente, i motivi politici dell’atto ( eminentemente soggettivi ) o la natura politica dell’atto (eminentemente oggettiva).
Di volta in volta, ragion di Stato, forza maggiore, interesse pubblico preminente, interesse nazionale, conseguenze politiche delle decisioni giurisprudenziali (e si pensi alla giurisprudenza costituzionale sull’ art. 81 Cost.) divengono oggetto di discussione preliminare sulla ammissibilità dell’azione, sulla giustiziabilità della posizione giuridica ma anche sulla sua fondatezza.
La separazione dei poteri ed il pluralismo delle giurisdizioni sono – nello Stato di diritto liberale – una garanzia per la legalità ma anche per l’autonomia dell’Esecutivo dal giudiziario.
L’atto politico è uno strumento di politica giurisprudenziale che stabilisce il mobile confine fra giudice dell’amministrazione deputato alla funzione di garanzia che concretizza lo Stato di diritto e le ragioni della politica che l’amministrazione la guida con le sue ragioni politiche legittimate dal gioco democratico.
Il riflesso processuale di questa concezione può porsi anche sul piano dei presupposti processuali (legittimazione) e delle condizioni dell’azione (interesse ad agire) , l’atto politico così individuato non è sindacabile perché al quisque de populo non è dato sostituirsi ai decisori politici legittimati dalla Costituzione e non c’è interesse diretto ed attuale all’impugnazione, non è un atto lesivo (l’atto politico è un non atto, c.d. teoria negativa dell’atto politico come atto non amministrativo solo perché non lesivo essendo tutti gli atti pubblici sindacabili in astratto ma solo in presenza di presupposti e condizioni processuali).
La Corte di Giustizia dell’UE pare usare la legittimazione per frenare alcuni entusiasmi ed alcune illusioni sulla c.d. giustizia climatica, ossia la proposizione di azioni giudiziarie miranti a fare valere i limiti pattizi degli accordi internazionali alle emissioni nocive derivanti dal nostro stile di vita clima alterante.
Nel caso People’s Climate del 25 marzo 2021 la Corte Ue infatti un’interpretazione restrittiva dell’art. 263.4 del Trattato per il funzionamento dell’Ue (TFEU), che definisce le condizioni secondo cui un cittadino può fare appello alla Corte: questo dovrebbe dimostrare di aver subito in modo esclusivo e peculiare danni a causa delle disposizioni regionali (come il Pacchetto Clima). Dichiarando irricevibile il ricorso di Carvalho, la Corte ha quindi constatato l’inesistenza di tali requisiti.
La decisione cristallizza anche la pronuncia del caso Plaumann v. Commissione della Comunità Economica Europea del 1963. Qui, la CGUE affermò che un individuo per avere accesso ai tribunali Ue deve dimostrare che un suo interesse individuale sia stato leso. Nel caso Carvalho, secondo la Corte, ciò non si è verificato; al contrario, gli effetti negativi del cambiamento climatico hanno colpito tutti in modo generalizzato.
La questione non è facilmente risolvibile per i fautori dei diritti umani che tendono a ritenere azionabili le pretese al rispetto dei limiti di emissione sanciti dai Trattati internazionali.
Qui si pone una questione delicata ossia l’esistenza di un grado di dettaglio sufficiente per l’esperibilità di un’azione in giudizio.
Un’azione che non abbia solo tratti risarcitori dipendenti da inerzie ma che voglia spingersi fino alla sostituzione dell’amministrazione per via giudiziaria.
Il punto è questo: possono considerarsi, ove non siano state fatte le indispensabili scelte politiche sulle modalità del perseguimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni, esistenti i presupposti di un’azione amministrativa legalmente autorizzata ?
Se per aversi tale azione legalmente autorizzata e definita occorre una norma che stabilisca un potere e se tale norma non si ravvisa nei Trattati che pongono meri obiettivi da implementare attraverso un mix di politiche nazionali che devono essere decise e finanziate dai Parlamenti nazionali è ammissibile una tutela in forma specifica dei diritti fondamentali connessi all’ambiente ?
Questo sembra il ragionamento di merito finora mancato sulla giustizia climatica che può superare l’arroccamento della Corte Ue sulla questione di legittimazione (in sé e per sé la legittimazione ci sembra non decisiva quasi una linea Maginot destinata prima o poi ad essere scavalcata).
Va rilevato che anche nel merito l’atto politico è insindacabile (ove se ne ammetta pure l’impugnabilità) per mancanza di un parametro normativo di controllo della discrezionalità politica, discrezionalità che si pone come discrezionalità assoluta, per il fatto che la politica è attività libera nei fini, non normata.
Ecco perché l’art.4 T.U.P.I. – norma che stabilisce parametri quali ad esempio la necessità di un budget sufficiente per svolgere le funzioni dirigenziali - diviene l’innesco della sindacabilità dell’atto politico piuttosto che della sua distinzione dall’attività dirigenziale (certo essendo differenti i regimi di responsabilità).
Ma vanno registrati anche nuovi campi di rilevanza della politicità dell’atto per effetto di guerre e pandemie: stato di urgenza, staro di crisi, poteri di emergenza, sono nuovi terreni di politicità inedita, di ritorno del politico a fronte dei processi di depoliticizzazione e desoggettivazione pure tenacemente ancora in corso (si pensi ai poteri nuovi dei mercati e delle autorità legittimate dalla scienza e dalla tecnica).
L’atto di governo tuttavia può essere regolato dalla legge, ledere concreti interessi ed in tal caso richiede l’intervento della giurisdizione come forma generalizzata ed universale di tutela nello Stato di diritto.
Si tratta del controllo di legittimità e proporzionalità dei c.d. poteri emergenziali (poteri che sono dettagliatamente disciplinati nella costituzione spagnola mentre nella nostra Costituzione sono in fondo interamente consegnati al decreto legge) che avviene spesso su atti amministrativi generali o regolamenti (i famosi D.P.C.M.).
Negli Stati Uniti la political question doctrine viene affermata per la prima volta nellanotissima pronuncia Marbury v. Madison, ma la dottrina assume più precisi contorni solo nel 1962, nel caso Baker v. Carr (sempre si trovano illustrate le basi di tale dottrina nel saggio di Tropea).
Ci sono sei indici - nella dottrina Backer - di politicità della questione posta al giudice.
«Prominent on the surface of any case held to involve a political question is found
[I.] a textually demonstrable constitutional commitment of the issue to a coordinate political department; or
[2.] a lack of judicially discoverable and manageable standards for resolving it; or
[3.] the impossibility of deciding without an initial policy determination of a kind clearly
for non-judicial discretion; or
[4.] the impossibility of a court's undertaking independent resolution without expressing lack of the respect due coordinate branches of government; or
[5.] an unusual need for unquestioning adherence to a political decision already made; or [6.] the potentiality of embarrassment from multifarious pronouncements by various departments on one question ».
Quindi va valutata la politicità della questione se: 1) l’aspetto del caso involve questioni politiche che la Costituzione demanda ad entità politicamente ordinate e coordinate; 2) sono mancanti standards per risolvere la questione sul piano giudiziario ossia mancano norme; 3) è impossibile decidere il caso senza un indirizzo politico; 4) è impossibile agire da parte di una Corte senza ledere il principio di separazione dei poteri; 5) vi è un inusuale necessità di aderire concordemente ad una decisione politica già presa; 6) vi è un imbarazzo per la molteplicità dei pronunciamenti a fronte della necessità di mantenere unità di indirizzo politico.
Tutto significa forte self restraint del giudice di fronte alla politica: una caratteristica ben nota del mondo giudiziario americano connotato da una sicura preminenza della politica sul giudiziario (che non conosce la separazione delle carriere fra Pm e giudici, fatto che sta determinando una crisi profonda con l’incriminazione parallela dei due candidati alla Presidenza frutto della politicità dei meccanismi del giure penale americano).
Ma è indubitabile l’esistenza di una vasta area di situazioni non giustiziabili, sicuramente più ampia della nostra.
È saggio averla?
In qualche misura un’area di insindacabilità è necessaria, non tutto è sempre giustiziabile.
Ma su questo argomento non contano i modelli astratti, contano le culture. E conta il ritorno della sovranità in tempi instabili.
Andando oltre l’art. 7 ed andando oltre la casistica giurisprudenziale occorre dire che la decisione su cosa sia un atto politico è una decisione politica a sua volta, decisione politica presa dal giudice (giudice che può usare un più ampio o più ristretto self restraint).
Ma decisione politica non significa decisione arbitraria.
Richiamando una certa politicità della nozione di atto politico certo potrebbe notarsi che il Re è nudo (e che lo Stato di diritto poggia su basi fragili), ma il sistema non cortocircuita necessariamente, vedere oltre il velo non comporta mettere in crisi il sistema ma solo divenire più rigorosi nella impostazione delle possibili soluzioni al problema.
Intanto occorre notare che il legislatore ponendo norme alla politica, come l’art. 4 TUPI, per eterogenesi dei fini, amplia l’ara degli atti politici riconducibili all’alta amministrazione e quindi sindacabili e rafforza lo Stato di diritto.
All’opposto il mondo giudiziario, per leale collaborazione, dovrebbe divenire più consapevole dei pericoli nei quali l’ordinamento può incorrere senza limiti (proporzionati) alla generale giustiziabilità delle situazioni giuridiche soggettive.
Si torna qui su quanto sta avvenendo sulla giustizia climatica, con le azioni proposte da singoli cittadini per vedere rispettati dagli Stati i limiti poste dai Trattati internazionali sul cambiamento climatico questione che incrocia in modo paradigmatico la problematica in esame: non è necessario soffermarsi oltre sulla sua decisività per il futuro di tutti ma anche per la “buona salute” (metaforica) della separazione dei poteri.
Spetta alla politica o al giudice attuare le politiche climatiche internazionalmente stabilite?
Vanno anche ricordate la giurisprudenza della Corte Costituzionale sul tema e le riflessioni della più recente dottrina.
Per essa il tenore dell’art. 113 della Costituzione e la circostanza che esso espressamente vieti che la tutela dei diritti e degli interessi legittimi, sempre ammessa, possa essere “esclusa o limitata…per determinate categorie di atti” hanno da subito indotto la dottrina ad interrogarsi sulla sopravvivenza stessa della nozione di “atto politico” come atto amministrativo insindacabile.
Così come la collocazione nel sistema degli “organi costituzionali” politici ha aperto la riflessione alla necessità di distinguere tra loro l’atto di governo in senso proprio come “atto costituzionale”, da una parte; e l’atto politico quale categoria appartenente al più ampio genere degli atti formalmente amministrativi, forse distinto (ma forse no) dai c.d. atti di “alta amministrazione”, dall’altra.
Il superamento di questa sintesi, di questa confusione di atti un tempo riconducibili ad un unico tipo non è più plausibile nel regime costituzionale contemporaneo, e rende pertanto oggi non più utilizzabile a fini pratici la vecchia categoria di sintesi degli “atti di governo emanati nell’esercizio del potere politico” di cui al citato T.U. del 1924. Mentre appare ormai molto più funzionale alla comprensione dell’attuale regime costituzionale la diversa classificazione di tali atti in tipi distinti, a seconda che si tratti di atti amministrativi veri e propri – i c.d. “atti politici”, salvo quanto sopra richiamato con riferimento al problema della loro sindacabilità in sede giurisdizionale – e atti di governo in quanto “atti costituzionali”, non assimilabili ai primi in virtù della posizione del Governo, organo costituzionale, nel sistema dei poteri sovrani.
Giova ricordare – a ricordo di un mondo più semplice - la tradizionale e limpida posizione del Guicciardi secondo cui l’atto (amministrativo) politico sarebbe vincolato dalla sola norma sulla competenza e per il resto sarebbe necessariamente legittimo.
La tesi può forse avere ancora uno spazio di validità a proposito della questione dell’art. 4 tupi.
In tale chiave l’art. 4 tupi sarebbe solo una norma sulla competenza e tutti gli atti ivi menzionati non sarebbero da ritenersi mai illegittimi per ragioni di merito.
Ma ciò andrebbe bene – la legittimità presunta in modo assoluto - per atti di esercizio del potere politico come esercizio di attività libera nei fini, come libertà politica dei supremi organi dello Stato.
L’atto politico in questa chiave è l’atto di competenza di un organo costituzionale (supremo dello Stato) mentre l’atto di alta amministrazione è l’atto di prima attuazione successivo all’indirizzo politico ( atto dirigenziale o atto di indirizzo politico ).
E gli atti di indirizzo politico amministrativo ? In quale categoria collocarli?
Possono ritenersi atti amministrativi perché primi atti di attuazione della norme demandati al livello politico nella sua qualità di vertice dell’amministrazione ?
Ecco che la tesi di Guicciardi non regge più nel diritto amministrativo contemporaneo.
Il regime di atto politico come atto che si deve presumere legittimo in modo assoluto non è il regime costituzionale conseguente all’introduzione degli artt. 24 e 113 Cost.
La Costituzione ha eroso lo spazio dell’atto politico, ha determinato la qualificazione di molti atti prima riportabili alla sfera politica come atti di alta amministrazione.
Si pensi all’individuazione delle risorse per gli uffici dirigenziali generali, può dirsi assolutamente insindacabile quando le risorse conferite ad un’attività necessaria (ad es. bonifiche) siano insufficienti ed altre per attività facoltative (ad es. finanziamenti per associazionismo) siano più abbondanti?
Ne deriva un’ipertrofia del giudiziario, si estende l’alta amministrazione con la sua ampia ma sindacabile discrezionalità e si riduce l’atto politico.
Corte Cost. n. 81 del 2012 in un caso riguardante le nomine di assessori regionali ritiene che l’atto – pur soggettivamente o oggettivamente politico - sia sindacabile «nella misura in cui l'ambito di estensione del potere discrezionale, anche quello amplissimo che connota un'azione di governo, è circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l’esercizio…».
Si è così esclusa la politicità della nomina ad avvocato generale dello Stato di persona estranea all'amministrazione; delle deliberazioni della Cassa per il Mezzogiorno di diniego di concessione di contributi sugli interessi per finanziamenti industriali; dello scioglimento di associazioni politiche e la confisca dei loro beni; degli atti della Commissione statale di controllo sulle Regioni; della nomina dei membri del CNEL; del provvedimento col quale un ufficiale dei carabinieri in servizio presso il Sismi è stato restituito all'amministrazione di appartenenza; lo scioglimento dei consigli comunali e la rimozione del sindaco (per la casistica sempre cfr. Tropea ma anche V. Giomi L’atto politico nella prospettiva del giudice amministrativo : riflessioni sui vecchi limiti ed auspici di nuove aperture al sindacato sul pubblico potere in Dir. amm. 2022 , 21 e ss e C. Cudia Considerazioni sull’atto politico Dir. amm. 2021, 621).
Più di recente, ritenendo che si tratti di atti di “alta amministrazione”, si è escluso il carattere politico del decreto col quale il Ministro della giustizia concede l'estradizione; del decreto del Ministro dell'interno col quale si dispone “per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato” l'espulsione dello straniero ai sensi dell'art. 13 d.lgs. n. 286/1998; del decreto di scioglimento dei Consigli comunali e provinciali per “collegamenti diretti o indiretti degli amministratori con la criminalità organizzata” ex art. 143 t.u.e.l.; della determinazione con la quale il Ministero delle comunicazioni ha negato l'autorizzazione alla cessione, da parte della Rai, di azioni di una società controllata (Raiway); della revoca di assessori comunali, degli atti delle amministrazioni indipendenti; della nomina degli assessori in difetto dell’equilibrio di genere.
Ovunque vi sia una fattispecie legalmente predeterminata l’atto è sindacabile dal giudice, ove non vi sia tale predeterminazione ritorna – in qualche modo – ma residuamene la questione della natura dell’atto.
Come ha notato C. Cudia in sintonia con gli orientamenti dottrinali tesi a valorizzare lo Stato di diritto, il punto di partenza non può essere la natura dell'atto astrattamente intesa, ma la sua effettiva sostanza verificata in relazione alla presenza di una base legale o costituzionale, in relazione alla esistenza di una disciplina giuridica e in relazione agli effetti che è capace di produrre sulle situazioni individuali.
Atti politici sono la nomina dei senatori a vita, l’elenco delle grandi opere, la richiesta di autorizzazione di un aiuto di Stato alla Commissione europea, la decisione di non negoziare con una gruppo sociale o una confessione religiosa una intesa.
Pochi atti sono quindi ormai politici per volontà della stessa politica che ha abdicato al suo ruolo, in un mondo che chiede al giudiziario di sopportare il peso di ogni conflitto di dare una risposta ad ogni bisogno.
La giustizia climatica incombe con le sue domande, inevase dalla politica, punta a mettere la politica sotto accusa scaricando sul giudiziario conflitti politici che determineranno inedite tensioni.
2. Considerazioni conclusive sulla necessità dell’atto politico in tempi di crisi della politica
La tematica dell’atto politico e del suo ridimensionamento è sintomatica non solo della crescita della cultura costituzionale ma può anche essere letta come un effetto non voluto della crisi della politica, della crisi del costituzionalismo, della crisi di istituzioni liberali come la giustizia amministrativa a fronte dell’emersione delle tematiche ambientali e dell’azione dei grandi soggetti imprenditoriali.
La separatezza liberale fra politica ed economia è venuta meno ed il liberalismo come arte di separare le sfere non è più effettivo.
L’economico domina sul politico.
Gli effetti sono molteplici a molti livelli.
Scomparsa del lavoro per effetto dei grandi mutamenti del capitalismo, dall’algoritmo al capitalismo della massima sorveglianza; la crisi del sistema dei partiti del Novecento e delle visioni del mondo e della loro funzione osmotica con la società civile ( la mancata attuazione dell’art. 49 Cost. è al centro di tale declino della politica ); la crisi dei sindacati che si radicano fra pochi tutelati a fronte di molti senza tutele ; l’esistenza di divari intergenerazionali divenuti rilevanti ex art, 9 Cost. nuovo testo; la crisi dei gruppi sociali (meno tragica di quella della politica per effetto della rinascita della solidarietà).
Le categorie giuridiche tradizionali del Novecento sono imperniate su una certa idea della soggettività che ha il “politico” al centro.
Cenni di Law and Literature illuminano il tema.
La letteratura dell’800 narra della pienezza del soggetto moderno nei grandi romanzi europei, la letteratura del ‘900 ( Proust Joyce) narra dell’indebolimento del soggetto, ridotto a flusso di coscienza.
La letteratura contemporanea è figlia delle visioni distopiche di Kafka, Orwell e Dick.
Il soggetto è perso in un mondo oggettivato ed impolitico o dominato da una politica assoluta ed inesplicabile.
Nel cinema Blade Runner dipinge un mondo figlio di 1984 di Orwell.
Che può fare il giurista in particolare il giuspubblicista?
Rileggere Santi Romano.
Difendere la soggettività.
La voce Autonomia dei Frammenti di un dizionario giuridico risolve l’autonomia nel soggetto che si dà un ordinamento. E se si danno più ordinamenti li coordina in un mondo ordinato.
La politica è ancora oggi idealmente lo spazio di questa soggettività autonoma.
Pur nella crescita della complessità, nella presenza di una crisi del soggetto moderno, di una crisi del pensiero causalistico, della emersione nel paradigma della contemporanea filosofia della scienza di una epistemologia della complessità, occorre pensare che possa svolgere un ruolo direttivo, ma non basta più il riferimento a Weber o ad Habermas.
Non è sufficiente più l’appello – irrelato - ai valori.
Ci vuole una critica culturale più profonda che non ignori la distanza che si è andata stabilendo fra costituzione formale e materiale (per cambiare quest’ultima dove va cambiata ).
Una critica all’altezza dei tempi potrebbe ripartire trovando le sue radici in Adorno e nella analisi sulla razionalità strumentale e sul suo lato oscuramente totalitario.
Occorrerebbe rileggere Todorov e sua moglie N. Houston (Contro i maestri dello sconforto) e metabolizzare il loro umanesimo positivo ed equilibrato ma preoccupato della deriva tecnocratica e totalitaria del liberismo.
I giuspubblicisti devono promuovere un lavoro collettivo sulla nozione di limes, sulla necessità degli sconfinamenti, sull’empatia, sul principio solidaristico, persino sull’eros come forza politica (non tanto presente solo in Marcuse ma anche nella gioia creativa intravista nel futuro del lavoro da De Masi (De Masi, Il lavoro nel XXI secolo, Torino 2018); occorre pensare mondi nuovi).
C’è il pericolo di una servitù volontaria generalizzata (pericolo antico come risalente è il pensiero di E. De la Boétie nel Discorso sulla servitù volontaria).
Ma il futuro è sempre aperto, lo disegnerà la politica – come vuole la costituzione – o la tecnocrazia delle nuove forze dominanti il mondo economico?
Anche quelle sono forze politiche, gli ingegneri informatici plasmando l’IA svolgono un ruolo politico; saprà l’aspirazione umana alla soggettività dominare tali tendenze?
Tuttavia della travolgente evoluzione dell’informatica devono cogliersi i tanti significati e segnali positivi.
Ma per chiamare la politica ad occuparsene: come in fondo sta facendo nel quadro della regolamentazione europea sullo Stato digitale (Torchia, Lo Stato digitale. Una introduzione, Bologna 2023).
Occorre regolare un mercato deregolato ed occorre farlo bene ed in modo proporzionato.
I problemi poi sono ancora una volta tematizzabili con approccio Law and Literature.
La cittadinanza digitale sfida i limiti tradizionali dell’empatia, la universalizza, pretende che la si provi per sventure lontane (H. Ritter, Sventura lontana. Saggi sulla compassione, Milano 2007).
Se in Balzac l’arrampicatore sociale poteva barattare il suo successo con la morte di un mandarino cinese (Balzac era già consapevole dell’effetto farfalla) oggi siamo empatici per effetto dei media con gli oppressi di tanti paesi lontani.
Rousseau era empatico, ma era – inconsapevolmente - anche totalitario (come sostiene Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, Bologna 2000)?
Troppa empatia possiamo reggerla?
Il comunismo ed il nazionalsocialismo sono stati casi di empatia assoluta?
Sono di certo casi di politica assoluta in assenza di contrappeso giudiziario.
Ma all’inverso traslando la domanda sul giudiziario: può il giudiziario reggere il peso di tutto in assenza della politica?
Può essere il luogo del governo della crisi climatica?
Lascio queste domande volutamente in sospeso.
La politica è il sogno moderno di emancipazione del soggetto, il giudiziario è solo il limite alla sua (eventuale) prepotenza.
La politica che ci dona libertà è sempre un gioco sul confine; è libera nei fini; gioca sul confine (sul rapporto amico/ nemico e tornano le guerre in caso di crisi della politica).
È una questione di equilibrio, ogni cosa al proprio posto (come dice Massimo Luciani in Ogni cosa al suo posto. Restaurare l’ordine costituzionale dei poteri, Milano 2023).
Occorre mantenere le categorie tradizionali (anche l’atto politico) fino a quando non ne avremo di nuove che funzionino meglio.
Non occorre accelerare il caos a fronte di tante ragioni di crisi e si deve auspicare una rinascita dell’autonomia del politico (per quanto problematica e non assoluta essa sia ma su questo chi scrive avrà occasione di tornare commentando il libro di Geminello Preterossi, Teologia politica e diritto, Bari 2022, discusso in un seminario fra giuristi e filosofi).
Sul piano giuridico ciò significa essere consapevoli della necessità di limiti alla giustiziabilità di ogni desiderio.
Le situazioni giuridiche soggettive sono normativamente predeterminate.
Nel frattempo soccorre anche Derrida.
Altro pensatore della complessità.
Derrida era un uomo buono, amante della singolarità, intento a scavare sempre in ogni concetto, percepiva ogni lingua come gabbia, lavorava sui confini, cercava con gli sconfinamenti gli scarti significativi del linguaggio, svolgeva un lavoro filosofico poetico, fatto di accostamenti inediti, di prospettive trascurate, per scoprire significati ulteriori.
Scopriamo – con Derrida , autore libertario come pochi - nell’atto politico non solo il segno della mentalità autoritaria ma il senso del limite del lavoro del giudice.
Il giudice ha bisogno del limite del politico, come il politico ha bisogno del limite come senso del sacro ( consapevolezza che l’uomo è un angelo caduto), come resto del teologico-politico in senso laico ed immanente.
Rifuggire da ogni assoluto è il messaggio inscritto in una lettura moderna dell’art. 7 cpa come nel pluralismo sociale ed istituzionale della nostra Costituzione.
Scoprire la ricchezza di nuove dimensioni della discrezionalità (come nella teorica degli atti di alta amministrazione).
Rispettare la cornice data dal decisore che pone la regola (anche limitando sé stesso).
Decidere solo sui diritti e gli interessi legittimi violati, all’interno della cornice (da restaurare e rendere più comprensibile riparando i danni determinati dalla crisi del politico).
Concludo con i versi di Juarroz che ci riportano alla necessità di un senso del limite (insito nella caducità / occasionalità dell’esistenza) e nello stesso tempo alla speranza nel futuro (ciò che non esiste):
L’uomo non può sostenere a lungo l’uomo,
e neppure quello che non è umano.
E tuttavia può
sopportare il peso inesorabile
di ciò che non esiste.[1]
[1] La poesia per intero è questa :
Così come non possiamo
sostenere a lungo uno sguardo,
neppure possiamo sostenere a lungo l’allegria,
la spirale dell’amore,
la gratuità del pensiero,
la terra sospesa nel canto.
Non possiamo nemmeno sostenere a lungo
le proporzioni del silenzio
quando qualcosa lo visita.
E ancora meno
quando niente lo visita.
L’uomo non può sostenere a lungo l’uomo,
e neppure quello che non è umano.
E tuttavia può
sopportare il peso inesorabile
di ciò che non esiste.
*Intervento al convegno di Modanella 16-17 giugno 2023 “Sindacato sulla discrezionalità e ambito del giudizio di cognizione"
1.Il felice titolo di questo Congresso consente riflessioni molteplici, ottimamente svolte nell’importante tavola rotonda di apertura, “Diritti sotto attacco”, e negli interventi che mi hanno preceduto, in particolare quelli di Giuseppe Cascini e del Presidente Santalucia.
In che termini si pone la “relazione” tra giurisdizione e maggioritarismo? Se il significato di quest’ultimo si individua (anche) nella tendenza a imprimere all’ordinamento, agli ordinamenti, direzioni, per così dire, non di rado critiche per la tenuta dei diritti, in perfetta coerenza con manifesti (talvolta anche esplicitamente) populisti, allora è evidente che il baluardo della giurisdizione, per come ora disegnato dalla nostra Costituzione, è fatalmente esso stesso sotto attacco. Le riflessioni finora condotte possono essere, in buona sostanza, sintetizzate nel senso che, perché il maggioritarismo non diventi autoritarismo, il ruolo della giurisdizione non soltanto non può essere indebolito, ma deve essere rafforzato, perché ad essa è affidata la tutela di beni fondamentali, di princìpi e di valori che non sono, né possono essere, nella disponibilità di maggioranze contingenti, per quanto solide e per quanto, ovviamente, legittimate dal “consenso”. Di fronte a un “diritto forte” - che sarebbe persino auspicabile fosse tale, almeno nel senso di norme primarie chiare, e di scelte di fondo responsabili - è irrinunciabile una giurisdizione a sua volta forte, autorevole, indipendente, come peraltro è quella che la Costituzione disegna in modo mirabile.
Ma se questo è, ed è stato, fino ad oggi, nuovi disegni “riformatori” vorrebbero alterarlo in modo radicale, devastante e direi sorprendente, se tale disegno proviene da chi dice di battersi in nome di “garanzie”, e in proclamata coerenza con manifesti liberali...
2.Tra i (tanti) progetti di riforma che suscitano allarme ed inquietudini profonde, vi è certamente il disegno di legge costituzionale di iniziativa dell’Unione della Camere Penali denominato “Norme per l'attuazione della separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura”, in discussione alla Camera dei Deputati. Vi è da sottolineare, innanzitutto, l’equivoco - qualcuno prima di me ha parlato di “truffa delle etichette”, e non sembra affatto improprio - che esso riguardi solo la separazione delle carriere, come indicherebbe il suo titolo. In realtà è una riscrittura di attuali norme costituzionali fondamentali e, con esse, di principi che costituiscono i cardini dell’attuale assetto della giurisdizione. Vediamole, una per una, le possibili nuove norme…
Per realizzare il dichiarato obiettivo di “separare le carriere” (quella dei Pubblici Ministeri e dei Giudici):
- vengono previsti due concorsi distinti per l’accesso alla magistratura requirente e alla magistratura giudicante, e vengono previsti un Consiglio Superiore della Magistratura giudicante e un Consiglio Superiore della Magistratura requirente;
- viene modificato l’equilibrio nella proporzione tra membri laici e togati, per cui ciascuno dei due nuovi C.S.M sarà composto per metà da magistrati e per metà da eletti dal Parlamento;
- è espressamente previsto che i due Consigli non abbiano altre prerogative se non quelle espressamente indicate (incomprensibilmente il nuovo CSM privato persino del potere di rendere pareri su progetti di legge in materia di ordinamento…);
Ma soprattutto, si badi bene, vengono riscritti:
- l’articolo 101 della Costituzione “La giustizia e' amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge”, con l’eliminazione della parola “soltanto” dopo “soggetti”, evidentemente, in tal modo, aprendo la via maestra per la soggezione “ad altro”, ancorché non esplicitamente indicato;
- il primo comma dell’art. 104 della Costituzione “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”, eliminando la parola altro, riferita a potere dello Stato, si fa realizzare per tale via l’esplicita espulsione della magistratura (l’intera magistratura, non solo quella requirente…) dai poteri dello Stato, con ciò che esso significa, non solo in termini puramente simbolici;
- l’art. 107 della Costituzione, cancellandone l’attuale, fondamentale terzo comma, con il suo essenziale principio per cui “I magistrati si distinguono tra di loro solo per diversità di funzioni”: in assenza di una spiegazione delle ragioni che animano tale proposta (mai fornite, e del resto assenti anche nei testi parlamentari), a noi resta il convincimento che si tratti dell’intenzione di cancellare la più importante conquista di una giurisdizione pienamente coerente con la Costituzione, che mirava a cancellare gerarchie tra i Magistrati, e che, indiscutibilmente, ha consentito di realizzare quel modello di “potere diffuso” evidentemente molto temuto, perché difficile da controllare. E d’altra parte, se i magistrati non si distinguono più solo per diversità di funzioni, si distingueranno - immaginiamo - per le cariche che ricoprono, dunque reintroducendo quella gerarchia che è la più vistosa delle contraddizioni con l’idea stessa della giurisdizione (come dovrebbero ben sapere, ancor di più, i fautori più o meno genuini di un manifesto liberale), minando in modo irrimediabile le basi anche dell’indipendenza “interna”, che è uno dei due pilastri su cui si fondano l’autonomia e l’indipendenza della Magistratura;
- l’art. 109 della Costituzione, sottraendo all’Autorità Giudiziaria la disponibilità della Polizia Giudiziaria, che invece, con grande lungimiranza, il Costituente aveva voluto attribuire - con norma solo apparentemente di dettaglio - alla Magistratura proprio a “completamento”, per così dire, della sua autonomia, essendo evidente che una Polizia Giudiziaria che risponde solo alla Magistratura - almeno nel senso funzionale del termine - è sottratta a quell’indirizzo politico-amministrativo cui sarebbe soggetta, per via gerarchica, ove rispondesse solo ai vertici dei relativi corpi: insomma, un sovvertimento delle regole attuali, tali da determinare intuibili conseguenze sulle indagini, la loro direzione, lo stesso loro svolgimento;
- infine, ma non certo da ultimo, viene riscritto l’art. 112 della Costituzione, prevedendosi che l’azione penale, non più prevista come obbligatoria, andrà esercitata “nei casi e nei modi previsti dalla legge”.
Credo sia evidente il significato, e l’effetto, della “decostituzionalizzazione” di un principio centrale nell’assetto della giurisdizione, indiscutibilmente collegato ad altri fondamentali principi costituzionali, ove la “tecnica” normativa svuota di contenuto la previsione costituzionale, mantenendo solo la formale riserva di legge.
A noi pare che questo disegno costituisca un’esplicita delineazione di un modello di giurisdizione pre-costituzionale, un modello che consideriamo pericolosissimo, non tanto per la Magistratura, quanto per la stessa tutela dei diritti.
Si crea un’esplicita asimmetria tra i poteri dello Stato, con l’espulsione di quello giudiziario, le cui garanzie di indipendenza - affidate a due distinti Consigli, a loro volta indeboliti nelle rispettive prerogative - sfumano - ed è pure un eufemismo - attraverso un riequilibrio della composizione, a favore di un aumento del peso della parte politica: scelta che non rivela altro che il chiaro intento di realizzare, con il formale disconoscimento del rango di potere, la potenziale sottomissione della magistratura, tutta, al controllo della politica. E d’altra parte è stato detto anche esplicitamente, rivendicato come obiettivo “politico” proprio dalle Camere Penali, in quella “due giorni” organizzata a Roma, nel settembre 2019 - “Stati Generali per la riforma dell’Ordinamento Giudiziario”, ai quali partecipai da allora Presidente dell’ANM – ove fu proprio un componente della Giunta ad indicare, nella ridefinizione degli equilibri nella composizione del CSM, l’obiettivo di un “controllo” della Magistratura….
Si prenderebbe per questa via congedo - temiamo, definitivo… - da un modello di giurisdizione coerente con l’attuale visione costituzionale di essa: è cancellata con un tratto di penna la concezione della magistratura come potere diffuso, l’idea più straordinariamente democratica propria del modello costituzionale di giurisdizione, che ripudia la gerarchia interna e l’idea della carriera tra i magistrati, per affermare il quale modello sono state necessarie storiche battaglie associative, il cui esito è stata una vittoria non per la magistratura, ma della stessa Costituzione, anche in questo a lungo inattuata.
Altro che leoni sotto il trono, espressione che pur consideriamo irricevibile: a me pare che ci vogliano cani da compagnia, docili ed accondiscendenti, e soprattutto controllabili.
3. Non possiamo che ribadire qui, sollecitati dall’intervento del Presidente Caiazza, la nostra netta e ferma contrarietà alla separazione delle carriere. Abbiamo appena sentito - proprio dal Presidente Caiazza - l’invito a rivedere posizioni che sarebbero solo “ideologiche”, e che dunque nulla avrebbero a vedere con ragioni ordinamentali o processuali, anche sulla scorta delle esperienze di altri ordinamenti, i più a suo dire, ove PM “separati” mantengono intatta la loro autonomia.
A me pare che ideologica sia proprio la posizione delle Camere Penali, una vera e propria campagna, densa di slogans, da oltre un ventennio.
È agevole infatti obiettare, come ha benissimo argomentato nel lucido intervento di ieri il Prof. Grosso, che dalla Riforma dell’ordinamento giudiziario del 2006 ad oggi, il passaggio dalla funzioni requirenti a quelle giudicanti, e viceversa, è talmente complicato ed oneroso da costituire casi ormai remoti, con percentuali insignificanti, così da rendere evidente come le regole sul “cambiamento di funzioni” abbiano di fatto realizzato una separazione netta. L’argomento dell’“ideologia” come pretesamente sottesa alle nostre posizioni allora si ribalta clamorosamente, ed essa diventa manifesta se gli argomenti (mal) utilizzati per sostenere la richiesta di separare le carriere si saldano con tutti gli elementi che emergono a completamento del disegno complessivo, convincendoci che in realtà è in corso una formidabile battaglia di potere, sub specie “resa dei conti”, come, ancora, è stato detto benissimo ieri. Se, infatti, interessassero davvero le “garanzie”, e preoccupasse davvero la loro “tenuta”, e si ritenesse che essa traballa a causa di interpretazione “poliziesca” del ruolo da parte dei Pubblici Ministeri (o di alcuni di loro), non si capirebbe la ragione della preclusione anche al passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti, che dovrebbe giovare all’obiettivo “garantista”, se vi fosse una coerenza ed una buona fede.
L’attuale assetto costituzionale, con il pieno inserimento del pubblico ministero nella giurisdizione, garantisce un’effettiva forma di controllo giurisdizionale sin dalla fase essenziale delle indagini preliminari, e rappresenta una irrinunciabile garanzia per tutti i cittadini e, in primo luogo, per gli indagati. È del resto la stessa Costituzione a prevedere, nella parte dedicata alle libertà fondamentali, una riserva di giurisdizione “dell’Autorità Giudiziaria”, in essa dunque comprendendo tanto il Giudice che il Pubblico Ministero, anche quest’ultimo concepito in una funzione di tutela delle garanzie di libertà, dentro quella giurisdizione che ne dovrebbe garantire la funzione di “parte imparziale”, il che non è affatto un ossimoro, come del resto indicano le norme ordinamentali e processuali che tratteggiano un dovere di imparzialità del pubblico ministero. Contrariamente a quanto affermano i proponenti, esso nulla ha a che fare con l’attuazione dei principi costituzionali in materia di giusto processo, poiché già oggi l’ordinamento garantisce pienamente la condizione di parità delle parti nel processo, e la terzietà del giudice, che certo non può ritenersi compromessa dalla comune appartenenza all’ordine giudiziario. Non credo di dover ricordare io al Presidente Caiazza, le parole - recenti - con cui un principe del foro come l’Avvocato Coppi - credo non sospetto di difendere posizioni corporative dei Magistrati - ha sottolineato la profonda, ed irriducibile, diversità tra il ruolo del Pubblico Ministero e dell’Avvocato, al primo spettando obblighi anche di ricerca delle “verità” naturalmente assenti, ed addirittura incompatibili, io aggiungo, con la funzione difensiva.
Sorprende, allora, che chi si propone l’obiettivo di assicurare maggiori garanzie agli indagati - denunciando talvolta a ragione prassi “poliziesche” nella nostra azione - anziché percorrere la via della pretesa di un Pubblico Ministero davvero imparziale (e magari reclamare una correzione delle più vistose anomalie determinate dalla riforma del 2006, che ne ha ridisegnato la fisionomia con un’impronta marcatamente gerarchica), ne auspichi una separatezza che lo consegnerebbe certamente ad un ruolo marcatamente accusatorio, con garanzie di indipendenza che - a dispetto degli enunciati - risentirebbero negativamente dell’intero assetto della riforma.
Del resto non mi sembrano molto felici gli esempi oggi portati, tratti dalle esperienze di altri ordinamenti: oltre ad esigere comparazioni più analitiche - che tengano conto delle profonde differenze tali da rendere davvero molto più complesso il confronto - è agevole obiettare che alcuni dei Pubblici Ministeri citati obbediscono - nel caso statunitense, per “statuto” stesso, verrebbe da dire - ad evidenti logiche politiche. In Oklahoma il Procuratore Generale sta per ordinare l’esecuzione di un detenuto con un veleno rifiutato persino dai veterinari per gli animali; in Giappone i procuratori firmano ordini di esecuzione per impiccagione. Spero non siano questi i modelli di Pubblico Ministero “indipendente” cui ispirarsi per delineare il nostro, di modello.
4.Non possiamo sottrarci, tuttavia, ad una riflessione che ritengo irrinunciabile soprattutto per noi, noi Magistrati di Area, noi Magistrati progressisti, che riguarda proprio il modo di intendere l’esercizio delle funzione del Pubblico Ministero, in coerenza con quel ruolo che noi reclamiamo come proprio della “giurisdizione”. E la riflessione è suggerita ancora di più dallo spunto che ci ha offerto il Presidente Santalucia nel suo lucidissimo intervento, parlando di un Pubblico Ministero indifferente al risultato della propria azione, nell’interesse obiettivo della Legge, mi permetto di aggiungere io. E proprio in virtù di questo essenziale principio che dovrebbe caratterizzare ed orientare sempre il lavoro del Pubblico Ministero, e dunque la sua “cultura”, che si radicano le ragioni della sua irriducibile diversità rispetto all’Avvocato difensore.
Ecco, questo è il cuore del problema: la “cultura” della giurisdizione non è uno slogan; o almeno, perché non lo sia, o non si riduca ad esserlo, esige non soltanto teoriche declinazioni, ma prassi coerenti con i principi, interpretazioni del ruolo del P.M. perfettamente conforme al modello costituzionale e, soprattutto, a quello processuale, che ne disegna un ruolo di parte imparziale: peraltro, esattamente il contrario dell’Avvocato della polizia, ruolo reclamato non di rado, e sorprendentemente, dagli stessi sostenitori, sedicenti liberali, di una riforma del suo statuto con finalità di “maggiore garantismo processuale”.
Indifferenza al risultato non significa né insensibilità ai valori in gioco, né rinuncia alla giusta determinazione dell’agire del Pubblico Ministero: è invece il doveroso richiamo a quell’obbligo di verità processuale, che i principi e le norme dell’ordinamento impongo al Pubblico Ministero.
Difficile però negare che nei 15 anni dall’entrata in vigore della “grande riforma” Castelli-Mastella sull’ordinamento delle Procure (questa sì, di portata epocale, senza che forse se ne siano compresi per tempo i guasti che avrebbe causato) si siano già verificati dei mutamenti degli assetti che sembrano aver inciso, non poco, sulla stessa cultura giurisdizionale del PM.
È un compito arduo, ed una sfida che noi Magistrati di Area dobbiamo raccogliere con lucidità e necessario spirito autocritico, che deve caratterizzare, secondo me, uno dei punti centrali della nostra elaborazione e del nostro lavoro.
Solo così, io credo, saremo coerenti con quella Costituzione sulla fedeltà alla quale abbiamo giurato.
* Intervento al IV Congresso di Area DG "L'assetto della giurisdizione all'epoca del maggioritarismo", Palermo, 30 settembre 2023.
di Glauco Giostra*
Inaccettabile e inquietante il polverone polemico sollevato intorno al provvedimento della giudice di Catania che non ha convalidato un trattenimento in Cpr (ometto il nome perché i magistrati non devono comparire in prima pagina, né per esecrabili linciaggi mediatici, come in questo caso; né per narcisistici sfoggi autopromozionali, come pure è accaduto: la collettività deve giudicare le parole della giustizia, non le labbra che le hanno pronunciate). Ovviamente, la decisione, come ogni altro provvedimento giurisdizionale può essere valutata e, se del caso, criticata, censurando l’itinerario logico-giuridico che ne è alla base, con argomenti di diritto, usando parole tanto più misurate, quanto più alto è il ruolo istituzionale ricoperto. Ove si sia legittimati, poi, si possono naturalmente attivare i rimedi giurisdizionali: ineccepibile, al riguardo, il preannuncio di un ricorso in Cassazione del Ministro Piantedosi.
Inaccettabile è, invece, la lapidazione mediatica con pietre verbali gravemente lesive dell’immagine e della reputazione del magistrato di cui non si condivide il pronunciamento. Accusare la giudice che ha emesso il provvedimento in questione di essere “nemico della sicurezza nazionale”, “legislatore abusivo”, “scafista in toga”, “toga rossa che rema contro” significa ammettere di dover ricorrere ad argomenti ad personam in mancanza di argomenti ad rem. E significa anche confessare il proprio analfabetismo costituzionale.
Inquietante, poi, il rimedio invocato per evitare che simili, non gradite decisioni si ripetano. Più di una penna di noti giornalisti in questi giorni si è avventurata a sostenere che la vicenda in questione conferma quanto sia urgente una riforma della giustizia. Sarebbe interessante capire quale riforma, diversa da una selezione politica dei magistrati tale da renderli fedeli funzionari della maggioranza al potere, possa dare l’auspicata garanzia.
Il vice presidente del Consiglio Salvini ha spiegato che, quanto al presente, «la Lega chiederà conto del comportamento del giudice siciliano in Parlamento» (un anacoluto costituzionale), quanto al futuro, bisognerà evitare che i tribunali possano «essere trasformati in sedi della sinistra», precisando che «è con questo spirito» che sarà apprestata «la riforma della Giustizia, con separazione delle carriere e responsabilità civile dei magistrati che sbagliano». Ad una persona dell’esperienza e della cultura politica del ministro Salvini non sfugge di certo che la separazione delle carriere non ha nulla a che fare con l’obbiettivo perseguito. A meno che, con rispettabile franchezza, non voglia far capire che la separazione dovrà secondo lui comportare una dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo, in modo che il governo possa garantirsi un presidio politico in sede giudiziaria. Ma soltanto l’altro ieri il Ministro Nordio al congresso dei magistrati di Area ha solennemente affermato che la dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo è una bestemmia.
Non resta che sperare che questi opposti “catechismi” governativi in materia paralizzino la preannunciata riforma della giustizia penale di cui, prima ancora che gli effetti, preoccupano le ragioni ispiratrici. Dietro alle quali talvolta affiora anche l’allarmante obiettivo della normalizzazione giudiziaria, esplicitato con ruvida schiettezza dall’on. Gasparri: «la magistratura è da tempo il primo problema del Paese. Altro che riforma, servirebbe una rifondazione di una Istituzione che appare nemica delle esigenze primarie degli italiani.»
*Pubblicato su “Il Domani” del 7 ottobre 2023.
*Intervento di Maurizio De Lucia, Procuratore della Repubblica di Palermo al IV Congresso di Area DG “Il ruolo della giurisdizione all’epoca del maggioritarismo”.
Grazie ad Area e grazie alla qualità di questo congresso. Grazie al fatto che il congresso si svolge a Palermo, perché Palermo quando si parla di giustizia non è una sede come le altre. Questa è la sede dove ci sono stati i nostri caduti; ogni volta che si parla di giustizia qui, lo si deve fare pensando a chi sulla giustizia non solo ha lavorato ma immolato la sua vita. Quindi con rispetto, e questo noi lo stiamo facendo, con ragionevolezza, con la forza di dare dei contributi, e contributi qui ne ho sentiti molti, peraltro molti ampiamente condivisibili su temi che sono già stati trattati e che quindi io sintetizzo anche perché a quest'ora mi pare giusto farlo nella maniera più rapida possibile.
Prima di tutto separazione delle carriere.
Questa è una cosa, è già stato detto, in particolare dal presidente Conte, che davvero insomma siamo ancora a parlare di un tema sul quale si è votato quattordici mesi fa e abbiamo sentito che cosa ne pensa il corpo elettorale; votano in Italia cinquantuno milioni di cittadini, si sono recati alle urne il venti per cento di questi cittadini, hanno votato a favore di quella normativa, per l'abolizione di quella normativa, sei milioni di cittadini ma il dato significativo è che hanno votato contro due milioni e mezzo di cittadini, cioè di una minoranza, una minoranza che è pari quasi alla metà di quella maggioranza, si è manifestata contraria. Allora, se noi sommiamo, lo possiamo fare, una parte di quelli che andrebbero a votare con quelli che hanno votato contro, capiamo quanto, nell'opinione pubblica, conta il tema della separazione delle carriere.
Separazione delle carriere, lo abbiamo già detto, porta a una manifesta violazione all'articolo 3 della Costituzione perché, c'è poco da dire e anche poco da scrivere in questa situazione ma non c'è alcun dubbio che un pubblico ministero separato dal giudice da qualche parte lo si deve mettere e la collocazione a quel punto diventa naturale: subordinato all'Esecutivo.
E subordinato all'Esecutivo vuol dire discrezionalità dell'azione penale e si tornava a quello che si diceva; perché le strade sono solo queste, perché anche io mi spaventerei di un pubblico ministero che non risponde davvero a nessuno. Per cui la separazione delle carriere non si farà ma quando mai si dovesse fare, vorrei vedere qual è l'ulteriore conseguenza di queste e mi chiederei poi davanti ai processi, perché i processi, qualunque sia il sistema processuale, non sono mai perfetti quindi ci sarà, ci sarebbe, anche in quella situazione qualcuno che avrebbe di che lamentarsi: ma come, dopo che abbiamo separato le carriere, che abbiamo realizzato la perfezione della giurisdizione, continuiamo ancora ad avere errori giudiziari? ad avere qualcuno che paga senza ragione o in forza di un errore?
Sono due cose diverse. Davvero la separazione delle carriere non serve a nulla se non a questo e sottolineo su questo punto soltanto un altro tema, perché noi abbiamo parlato dell’art. 110 Cost. centododici, abbiamo parlato del 101, del 104, ma l'articolo 109 della Costituzione per come lo si vuole modificare implica la perdita di controllo da parte del Pubblico Ministero della polizia giudiziaria perché quella riserva di legge che si inserisce lì dove oggi c'è scritto che la polizia giudiziaria è alle dipendenze funzionali del Pubblico Ministero senza se e senza ma diventa con i tanti ma della legge ordinaria. Una polizia giudiziaria che non dipende dal Pubblico ministero, una polizia giudiziaria debole lei davanti all'Esecutivo, perché tutti quelli che qui hanno fatto il Pubblico Ministero sanno quanto è stato importante le volte in cui si è esonerato l'ufficiale di polizia giudiziaria dal riferire l’informazione alla sua scala gerarchica, a tutela sua ed a tutela delle indagini, in qualche misura anche a tutela della scala gerarchica che ha evitato possibili ulteriori incriminazioni.
Il sistema è questo ed è un sistema che ha funzionato. Palermo è testimone di trenta e oltre anni di lotta alla mafia fatta da magistrati che hanno diretto le indagini e dalla polizia giudiziaria di altissima qualità che le ha fatte, ma senza il binomio magistrati che dirigono le indagini in maniera autonoma e polizia giudiziaria che le esegue, i risultati che sono stati conseguiti in questi trent'anni non sarebbero stati possibili e non sarebbero stati possibili per una ragione che riguarda l'in sé delle mafie.
Se le mafie non sono soltanto criminalità organizzata di tipo gangsteristico ma sono soprattutto relazione con mondi altri, che sono quello della politica, che sono quello dell'economia e dell'imprenditoria, il freno a questo tipo di iniziative investigative sarebbe arrivato e sarebbe arrivato proprio da quei mondi attraverso i loro rapporti con la politica, quei rapporti con la politica che l'attuale Costituzione e, come dire, in qualche misura tiene lontani dalle funzioni della polizia giudiziaria perché la responsabilità di quella indagine non è della politica, non è dell'Esecutivo ma è del Pubblico Ministero. Questo è un valore che va salvaguardato, perché ha dato prova di essere un valore importante e perché è un valore che ci consente di proseguire in quella lotta incessante che qui, a Palermo, lo dico da Procuratore della Repubblica, abbiamo iniziato a fare trent'anni fa quando ero sostituto ed io c'ero quando sono esplose le autostrade e i palazzi di Palermo e lo dico oggi, dopo i risultati che il mio ufficio, grazie alle forze di polizia, ha conseguito, che io ritengo essere perché loro li hanno fatto straordinari, perché segnano una chiusura di un ciclo. Ma sia chiaro anche questo, approfitto di questa sede per dirlo, la cattura di Matteo Messina Denaro il sedici gennaio di quest'anno segna sì la fine di un ciclo ma nessuno possa pensare, lo dico anche qui che segni la fine dalla lotta alla mafia perché la mafia noi lo sappiamo, noi lo sappiamo da quello stesso giorno, dalle intercettazioni di quello stesso giorno, da quel momento ha iniziato a rielaborare nuove strategie e loro ci sono, noi ci siamo e siamo più forti di loro ma dobbiamo avere consapevolezza di quello che c'è e di quello che può accadere. E allora se il problema non è la separazione delle carriere ma è ma è cosa diversa e dobbiamo porci il problema di cosa sono le cose diverse di cui dobbiamo parlare: intanto il fermo biologico perché, lo ricordava l’Onorevole Serracchiani, l'abuso d'ufficio è stato modificato l'ultima volta nel 2020, la prescrizione non mi ricordo più ho dovuto consultare i vari codici 2005, 2017, 2020, il sistema delle intercettazioni dal 2017 con tutta una serie di modifiche, la disciplina della custodia cautelare costantemente negli ultimi venti anni. Ora, qualunque sistema giuridico ha bisogno di assestarsi, noi dobbiamo vedere prima se le cose funzionano e poi modificare quello che si può e che si deve modificare, perché nulla è immodificabile; certamente però dobbiamo essere concreti se tutti vogliamo fare sì che il sistema funzioni e allora questo sistema deve essere criticato nelle parti in cui deve essere criticato ma prima bisogna vedere se funziona. Ho tutti i dubbi del mondo sull'attuale sistema di prescrizione: però io vedo nel concreto che il fatto di sapere che, dopo il primo grado di giudizio, il processo non si prescrive più, comincia a contare persino in quei reati per i quali Palermo, come dire è distratta, quelli che si puniscono con decreto penale di condanna e che fino a poco fa nessuno avrebbe mai pensato di pagare la cifra che si sarebbe, che si deve versare come sanzione beh si comincia a pagare, anche lì che è un fatto incredibile ma siccome si sa che l'azione penale non si prescrive più dopo la decisione del giudice, qualcuno comincia a farsi due conti e dire beh, forse mi conviene pagare piuttosto che aspettare che qualcuno me lo venga a chiedere. Non è la rivoluzione ma sono segnali.
E allora dov'è che bisogna veramente lavorare? Eh, lo si dice tutti, però poi in concreto il tema è quello delle risorse. Le risorse, che sono quelle umane: mille cinquecento magistrati in meno; non potrà mai funzionare un sistema accusatorio come quello verso il quale si punta con mille cinquecento magistrati in meno. Una quantità di personale amministrativo che manca, sterminata, che deve essere formata. Perché non basta prendere la gente che prima lavorava presso, dico io, la Regione Veneto, per citarne una a caso, e poi metterlo nei tribunali, se prima non gli spieghi che cosa devono fare: questo vuol dire formazione, creare professionalità. E poi le risorse non devono solo essere aumentate, devono essere razionalizzate. Perché un tema di cui sento parlare è quello della riapertura dei piccoli tribunali, perché la giustizia di prossimità è importante ma quella non fa giustizia di prossimità, quella dà la possibilità, dà la possibilità al cittadino di presentare la denuncia o di iniziare la causa ma nessuno gli dice quando finirà quella causa, che non finirà perché i tribunali sotto un certo numero di magistrati non possono funzionare in natura per quello che è il nostro sistema. Quindi bisogna avere il coraggio di tornare e di invertire la rotta non aprire piccoli tribunali ma accorpare i tribunali, individuare lo standard medio di magistrati che servono per quei tribunali, creare anche in questo modo un recupero di risorse e nuovi investimenti per quei nuovi tribunali; altrimenti continueremo a, come dire, a fare inaugurazioni di sedi e saremo ben felici di quelle inaugurazioni ma i processi non si faranno e non si faranno quelli né quelli degli altri.
A proposito di risorse, l'investimento sul piano tecnologico è davvero fondamentale. Quando io ho lasciato il palazzo di giustizia di Palermo, diversi anni fa, per assumere altre funzioni, il primo palazzo era pieno di gente; quando sono tornato ho visto che la gente era molto di meno e il primo pensiero è stato per i miei colleghi: questi non lavorano, ma non è così naturalmente! E’ che, intanto, il processo civile è diventato una cosa altra, una cosa che non si fa più dentro il palazzo di Giustizia che si farà altrove, allora noi dobbiamo prendere consapevolezza di questo. Lo sforzo verso la informatizzazione dei processi è uno sforzo decisivo, perché ci consente di avere le risorse per fare i processi di qualità. L'accusatorio è un tema che richiede qualità e la qualità richiede soldi e i soldi sono questo e se non riusciamo a fare queste cose allora al servizio giustizia abbiamo veramente fatto qualche cosa di importante.
Concludo perché, come si dice l'ora è tarda, perché poi dobbiamo parlare anche di noi naturalmente. Perché noi dobbiamo chiedere e pretendere dalla politica, perché il compito è suo se ciascuno deve fare la sua cosa allora è giusto che noi si chieda quello che ci serve per fare funzionare la macchina però poi non basta perché poi dobbiamo guardarci in casa e ragionare su tutte le riforme che si stanno verificando e prendere il bene dalle cose e separarlo dal male. Io, sul tema delle Procure sono molto attento; è vero, io sono un Procuratore quindi sono di quelli, come dire, che dirige e che quindi è cattivo per definizione. Però, immaginare nelle procure un potere diffuso fra i sostituti secondo me indebolisce fortemente l'indipendenza esterna della magistratura; l'indipendenza interna si salvaguarda attraverso norme di controllo e procedure trasparenti che riguardano il Pubblico ministero, il Procuratore della Repubblica e che devono essere amministrate dall'interno dell'ufficio e dal Consiglio Superiore dalla Magistratura. Ma attenzione, perché avere tanti piccoli Pubblici Ministeri ciascuno, asseritamente, autonomo e indipendente li mette nelle mani, tranne naturalmente le eccezioni, li mette nelle mani di poteri che poi noi non controlliamo che possono essere la polizia giudiziaria in qualche modo che crea rapporti di particolare qualità e interesse con alcuni, che possono essere quelli più deboli che ne risentono anche in termini di pavidità della loro azione; quindi discutiamo e teniamo aperto il confronto sul tema delle Procure.
Ma il tema delle Procure dobbiamo avere presente che non è la stessa cosa del tema del giudicante da questo punto di vista. Perché, e ce lo insegna proprio la storia della lotta alla mafia, la lotta alla mafia non si può fare per singoli magistrati ma si deve fare per gruppi di magistrati, dove il valore fondamentale è quello del coordinamento ma è un valore fondamentale che richiede che, dopo il coordinamento, ci sia la responsabilità e la responsabilità deve essere data in capo ai Procuratori della Repubblica con un' accortezza: perché quello che si sta verificando in questo momento è anche una gerarchizzazione di altro tipo, cioè esterna. L'ultima legge, quella in materia di codice rosso approvata, tutti contenti ma in realtà crea soltanto criticità agli uffici e non risolve assolutamente il problema della tutela delle donne, perché io avoco un procedimento a un collega che nei tre giorni non ha sentito la persona informata sui fatti, dopodiché si innesta una sub procedura perché con quella ragione di spiegarmi per quale ragione non l'ha fatto, io allora prendo l'altra collega che pure lei è in ritardo di tre giorni le tolgo il procedimento e li riassegno, perché non è pensabile che sia io quello che poi deve sentire le persone offese, visto che c'ho altri problemi compreso quello di autorizzare i comunicati stampa ma questa è un'altra storia. Ecco, quindi abbiamo creato nuova burocrazia. Ma, dicevo, la storia è quella che ci insegna che i procedimenti complessi si fanno con più magistrati, con soggetti responsabili che li dirigono, li dirigono secondo la regola della democrazia e non dell'autocrazia naturalmente ma è un passaggio fondamentale. Infine, e davvero concludo, a tutti noi una sola raccomandazione che viene da Leonardo Sciascia: dal dialogo fra il Procuratore della Repubblica e il vecchio professore Franzò, che lo interroga, che è una pagina, questa sì, che va mandato a memoria da tutti i magistrati della Repubblica: “Il magistrato scoppiò a ridere, l'italiano ero piuttosto debole in italiano ma, come vede, non è poi un gran guaio. Sono qui, Procuratore della Repubblica. L'italiano non è l'italiano, è il ragionare disse il professore. Con meno italiano lei starebbe forse ancora più in alto: la battuta era feroce, il magistrato impallidì e passo a un duro interrogatorio”.
Forse non molti ne conoscono la denominazione che ha assunto allo spirare del secolo scorso, ma tutti noi siamo incorsi almeno una volta in quel fallo cognitivo che, facendoci sopravvalutare le nostre conoscenze relativamente ad un determinato tema, ci induce a pronunciarci su di esso, supponendo di averne pienamente titolo. Dalla fine del secolo scorso questa distorsione auto-percettiva ha preso il nome di "Effetto Dunning Kruger" (EDK), eponimi due psicologi statunitensi che nel 1999 pubblicarono un articolo con il quale portarono all’attenzione degli studiosi di settore il frequente fenomeno per cui soggetti inesperti o incompetenti in un determinato ambito ritengono comunque di avere cognizioni adeguate per esprimere fondate e interessanti considerazioni al riguardo. Le persone incompetenti, sostengono questi studiosi, «non solo giungono a conclusioni sbagliate […] ma la loro incompetenza li priva dell’abilità di rendersene conto». Sovente, infatti, le abilità «che generano competenza in un dato campo sono spesso le stesse abilità richieste per poter valutare» la propria e l’altrui (in)competenza. Nonostante qualche mistificante vulgata dell’EDK, questa inconsapevolezza che ci induce a pronunciarci, anche con una certa perentorietà, in materie delle quali non abbiamo un’adeguata conoscenza (dalla medicina alla giustizia, dalla politica economica alla politica estera, dal calcio alla meteorologia), non ha a che fare con il livello intellettivo o culturale. Fattori ambientali, sociali, relazionali ci sospingono letteralmente, nonostante lo scarso governo di una determinata materia, ad esprimere il nostro parere, che presumiamo significativo e condivisibile.
Ovviamente, la diffusione pervasiva dei social media costituisce una “tentazione” ulteriore ad interloquire su quasi tutto, con l’aggravante che i ritmi di questa comunicazione sollecitano quello che Daniel Kahneman chiama Sistema 1; quello, cioè, che presiede alle nostre risposte istintive e poco ponderate, non essendo ritmi compatibili con il Sistema 2, quello deputato alla riflessione e all’approfondimento critico. Ci si ferma quasi sempre all’ «illusione dell’evidenza», che, come stato magistralmente ammonito, «è l’ostacolo maggiore contro cui si spunta troppo spesso lo spirito critico, il divano più comodo su cui la pigrizia dell’intelletto beatamente si adagia» (Bruno de Finetti, "L’invenzione della verità").
Se le cose stanno così, si spiegano senza difficoltà le banalizzazioni che problemi anche delicati subiscono nel network sociale creato dalla comunicazione via smartphone.
Meno agevole è comprendere le ragioni che inducono i talkshow di approfondimento dei principali problemi di attualità ad invitare soggetti incompetenti rispetto al tema trattato. Figure anche significative nel loro settore di appartenenza (politologi, criminologi, biologi, scrittori, filosofi, economisti, sportivi, attori, personaggi dello spettacolo, magistrati, e via almanaccando) vengono interpellati su questioni rispetto alle quali vantano un’approfondita incompetenza.
Certo, talvolta ospitando il personaggio famoso si punta scopertamente ad aumentare l’audience; altre volte si vuole offrire l’occasione all’interlocutore, di cui quell’emittente in passato si è avvalsa per approfondire argomenti sui quali lo stesso era competente, di presentare il suo ultimo libro o il suo ultimo spettacolo o la sua ultima iniziativa.
Forse, però, non si è lontano dal vero se si ritiene che il coinvolgimento nel confronto dialettico di soggetti incompetenti, ancorché non conosciutissimi, risponde anch’esso a strategie di marketing, sebbene meno immediatamente evidenti.
L’incompetente, infatti, tanto più se dialetticamente esuberante e sanguigno, procura spesso un sensibile innalzamento dello share, garantendo toni frontali ed accesi molto apprezzati in questa stagione del dibattito pubblico.
L’incompetente quasi sempre semplifica sino alla banalizzazione, non coglie implicazioni e sfumature, ha un approccio di intransigente contrapposizione: si dimostra incapace, insomma, di un dialogo articolato e costruttivo. Si esprime spesso sbattendo perentoriamente il suo pugno verbale sul tavolo del dialogo. Propizia lo scontro. Fatalmente, agli argomenti si sostituiscono le affermazioni perentorie, l’enfasi retorica, gli slogan, i punti esclamativi.
Una prospettazione semplicistica e oppositiva ha molto presa sul pubblico per una duplice ragione: i termini del problema, spesso travisati, vengono rappresentati in una forma elementare, per così dire ad assorbimento istantaneo, non richiedendo sforzo di comprensione; lo scontro dialettico frontale - ancorché spesso contenutisticamente inconsistente, quando non fortemente manipolativo - induce coinvolgimento emotivo: certi moderni gladiatori verbali risvegliano nell’enorme arena mediatica antiche, mai sopite, perverse passioni. Una partecipazione emotiva che l’argomentare rigoroso e approfondito non riesce certo ad assicurare. La competizione ha sostituito la competenza, come ha scritto Valerio Magrelli. E nella competizione mediatica vince chi alza di più la tensione emotiva, chi aumenta i decibel, chi ingrandisce caratteri e titoli di stampa.Persino le agenzie delle previsioni meteorologiche per guadagnare, sgomitando, il proscenio dell’attenzione popolare fanno ricorso a titoloni allarmistici.
Quando riguarda la cosa pubblica, il fenomeno in questione assume forse espressioni meno accentuate, ma di certo più deprimenti, tenuto conto dell’importanza del bene su cui si controverte. Anche a voler tralasciare, per non cedere allo sconforto, la preoccupante capacità di mobilitazione che l’influencer di turno (modella, calciatore, attore, cantante) - in possesso di una popolarità inversamente proporzionale alla competenza - riesce ad ottenere su temi di particolare rilevanza sociale, assistiamo quotidianamente a patetiche comparsate mediatiche con le quali personaggi politici spesso del tutto ignari della materia su cui disquisiscono, recitano secondo copione la frasetta di circostanza con cui andrebbe risolto il problema del momento: uno stucchevole psittacismo da manuale. Non esistono precisazioni, condizionali, incertezze, concessioni al dissenso, oneste prospettazioni di controindicazioni, ammissioni di migliorabilità della soluzione proposta o di aspetti apprezzabili in quella avversata. Si prospetta una realtà manichea impermeabile al dubbio. Eppure, per quanto ci si possa impegnare, nessuno riuscirà mai a dire o fare tutte le cose in modo giusto o tutte le cose in modo sbagliato. Quanto sarebbe più credibile un filogovernativo che ammettesse “la decisione presa dalla maggioranza necessita in effetti, come suggerisce la minoranza, di un ripensamento in punto di…” o un oppositore che ravvisasse nella tale iniziativa del governo alcuni aspetti senz’altro positivi. Sarebbero entrambi più creduti quando si trovassero ad ostentare propri meriti o a denunciare altrui deficienze. In questo confronto da stadio, invece, il dibattito pubblico scade a contesa, in cui prevale la prontezza nella battuta, la telegenìa, la rissosità verbale, l’incompetenza banalizzante spesso in sintonia con quella del telespettatore e del lettore, che quasi sempre ha in uggia la complessità e il dubbio. Problemi difficili hanno così risposte semplici e sbagliate. Qualcuno, parafrasando, penserà: “è la democrazia, bellezza!”. No, non è la democrazia, ma la sua degenerazione caricaturale: la “tifocrazia”. Ci si divide seguendo non la luce di una idea o di un ideale, ma la schiena di uno dei pifferai del momento.
* da Avvenire, 21 luglio 2023.
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