Sommario: 1. Premessa – 2. La “documentazione antimafia” – 3. Il “controllo giudiziario” - 4. Rapporti fra informazione antimafia e controllo giudiziario - 4.1. Demarcazione dei relativi presupposti - 4.2. Favorevole conclusione della procedura di controllo giudiziario: effetti e conseguenze - 5. Conclusioni.
1. Premessa
“La mafia…..è un fatto umano... che si può vincere impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni” (Giovanni Falcone).
In quest’ottica, attraverso l’elaborazione del cd. “Codice Antimafia” (Decreto Legislativo 6.9.11 n. 159), il Legislatore ha inteso perseguire, a forza, il complesso obiettivo come sopra citato.
In un contesto così delicato, tuttavia, la principale questione che si pone è quella di riuscire ad assicurare il difficile bilanciamento fra due contrapposti interessi, entrambi aventi rilevanza costituzionale, quali la salvaguardia dell’ordine pubblico economico ed il diritto di iniziativa economica privata.
Se pertanto, da un lato, l’art. 84 comma 1 contempla il sistema della “documentazione antimafia”, la cui finalità è quella di estromettere dal contesto economico sano quelle imprese condizionate dalla criminalità organizzata, privandole della possibilità di poter contrarre con la Pubblica Amministrazione; dall’altro, l’art. 34-bis, introdotto a distanza di pochi anni (Legge 17.10.17 n. 161) dall’entrata in vigore del Codice, persegue la finalità di riallineare ad esso contesto economico sano quelle realtà imprenditoriali ritenute come soltanto “occasionalmente” inquinate dal fenomeno mafioso.
Il presente contributo, anche alla luce delle peculiari esperienze professionali maturate al riguardo, si propone di analizzare - premessi brevi cenni descrittivi sugli istituti - il rapporto (rectius: la correlazione) esistente fra i predetti differenti strumenti, che, pur essendo basati su distinti presupposti giuridici, hanno ad oggetto la valutazione dei medesimi fatti da parte da parte del Giudice Amministrativo e del Giudice della Prevenzione, con ogni inevitabile conseguente inferenza.
2. La “documentazione antimafia”
Il sistema della documentazione antimafia è costituito (art. 84 comma 1 D.Lgs. 6.9.11 n. 159) dalle differenti categorie della “comunicazione antimafia” e della “informazione antimafia”.
L’emissione di tali provvedimenti comporta, tra l’altro, l’esclusione di un imprenditore dalla titolarità di rapporti contrattuali con le Pubbliche amministrazioni, determinando a suo carico una particolare forma di incapacità giuridica (Consiglio di Stato, A.P. 6.4.18 n. 3).
Mentre la “comunicazione antimafia” si traduce, in via essenziale, nell'attestazione in ordine alla sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, sospensione o divieto di cui all'art. 67 del Codice Antimafia ed opera, in tal senso, alla stregua di uno strumento vincolato, avente una funzione di natura accertativa, che fotografa la cristallizzazione di una situazione espressamente tipizzata dal Legislatore; la “informazione antimafia” si fonda su di una valutazione, frutto dell’esercizio di un potere amministrativo avente contenuto ampiamente discrezionale, che, muovendo anche dalle “situazioni indizianti” elencate al comma 4 dell’art. 84, conduce alla elaborazione di un quadro indiziario dal quale poter desumere, sulla base di un criterio di natura probabilistica (“più probabile che non”), che l’attività d’impresa possa essere esposta ad un “tentativo” di infiltrazione mafiosa.
L’informazione antimafia, alla luce dell’ampiezza di esso potere valutativo, finisce per essere equiparata ad una misura di prevenzione sui generis, che anticipa massimamente la soglia di prevenzione.
Epperò, attesane la natura squisitamente cautelare, non è richiesta, ai fini della sua adozione, la prova di un fatto concreto, essendo ritenuta sufficiente, secondo il consolidato orientamento seguito dalla giurisprudenza amministrativa, la sussistenza di elementi “sintomatico-presuntivi”, integrati da dati di comune esperienza evincibili dall’osservazione dei fenomeni sociali, dai quali sia deducibile, sulla base della predetta citata regola causale del “più probabile che non” ed alla luce di una loro considerazione “unitaria” e non già atomistica (cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri), il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata.
È dunque radicalmente estranea all’informazione antimafia qualsiasi logica penalistica di certezza probatoria raggiunta al di là del ragionevole dubbio.
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Sono almeno due, al riguardo, gli spunti di riflessione critica.
Da una parte, risalta l’occorsa elaborazione di un ormai granitico orientamento giurisprudenziale che, andando oltre il dato letterale del quadro normativo di riferimento, interpreta in senso ampio la nozione di “tentativo di infiltrazione mafiosa” [certamente non inteso quale compimento di “atti idonei, diretti in modo non equivoco, a commettere”], sostituendola, in sostanza, con quella di mero “rischio” di condizionamento e/o di ingerenza mafiosa.
Dall’altra, la predisposizione di un “sistema di prevenzione” fatto funzionare per tramite di uno strumento (rectius: provvedimento) di natura amministrativa, che, anche alla luce delle indicazioni rese dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nella nota sentenza De Tommaso, sconta un evidente deficit di tipicità.
Il rischio che si verifica, in tal senso, è quello di comportare un’anticipazione dell’intervento dei pubblici poteri e della soglia della difesa sociale tale da “avanzare la frontiera della prevenzione” fino al punto di poter desumere il pericolo di infiltrazione mafiosa da elementi financo immaginari od aleatori, da semplici sospetti, intuizioni o percezioni soggettive non assistite da alcuna evidenza indiziaria e pur in assenza di azioni che appaiano idonee rispetto al supposto fine dell’interferenza e del condizionamento delle scelte imprenditoriali, ciò che consegnerebbe l’istituto dell’informazione antimafia ad un diritto della paura, che finirebbe per comminare una sorta di “pena del sospetto”.
La conseguente difficoltà è quella degli amministrati di poter agevolmente censurare dinanzi al Giudice Amministrativo le scelte compiute dall’Autorità Prefettizia e ciò attesi i noti limiti riguardanti il sindacato giurisdizionale involgente le scelte tecnico-discrezionali dell’Amministrazione.
3. Il “controllo giudiziario”
Muovendo nell’ottica di garantire il bilanciamento dei contrapposti interessi descritti in premessa, il Legislatore - anche, si ritiene, al fine di colmare gli inconvenienti di sistema sopra descritti - ha innovato il Codice Antimafia mediante l’introduzione dell’art. 34-bis, rubricato “controllo giudiziario delle aziende”.
Essa misura ha come obiettivo primario quello di ricondurre ad un ambito di piena consolidata legalità quella impresa, già raggiunta da un’informazione antimafia, ma affetta, secondo una valutazione che ne viene operata dal Giudice della Prevenzione, da un condizionamento e/o da una ingerenza mafiosa ritenuta di tipo solo “occasionale”, che può perciò essere estirpata mediante l’ausilio di un programma di sostegno attuato da un Giudice Delegato e da un Amministratore Giudiziario all’uopo nominati, chiamati ad affiancare il proprietario dell’azienda e ad esercitare dei poteri di controllo sull’attività d’impresa [siffatta misura va pertanto tenuta nettamente distinta dalla diversa fattispecie della “amministrazione giudiziaria” (art. 34), che implica la estromissione del proprietario dei beni e dell’azienda, sia pure temporaneamente (art. 34, comma 2), dall’esercizio dei propri poteri].
Il controllo giudiziario, indubbiamente qualificabile alla stregua di una “misura di salvataggio”, è perciò coadiuvante di un nuovo corso della gestione della azienda, finalizzato ad un suo recupero alla libera concorrenza, una volta affrancata dalle infiltrazioni mafiose che ne avevano condizionato l’attività.
Presupposti indefettibili per la sottoposizione di una data impresa alla misura di salvataggio in discorso, che, oltre che d’ufficio, può avvenire anche su istanza di parte (art. 34-bis comma 6), sono:
- la occorsa adozione in suo danno di un’informazione antimafia;
- la intervenuta impugnazione di esso provvedimento interdittivo prefettizio dinanzi al Giudice Amministrativo;
- la pendenza del ricorso proposto dinanzi al Giudice Amministrativo avverso tale provvedimento;
- la sussistenza del requisito della “occasionalità” dell’agevolazione mafiosa.
Il controllo giudiziario, rispetto all’informazione antimafia, che ne è l’antecedente logico-causale, costituisce dunque un post factum; e la sua disposizione, scevra da qualsivoglia automatismo, presuppone sempre e comunque l’accertamento, da parte del Giudice della Prevenzione, della sussistenza, unitamente agli altri presupposti come sopra passati in rassegna, del requisito della occasionalità del condizionamento mafioso, che implica, secondo l’interpretazione fornita dalla Suprema Corte di Cassazione (Cass. Pen. SS.UU. 19.11.19 n. 46898), la presenza di un contributo agevolatore avente carattere solo isolato e discontinuo [si evidenzia, per completezza, come il provvedimento con cui il Giudice della Prevenzione neghi eventualmente l’applicazione del controllo giudiziario richiesto sia impugnabile con ricorso alla Corte di Appello anche per il merito (Cass. Pen. SS.UU. 19.11.19 n. 46898)].
Dalla eventuale sottoposizione dell’azienda ad essa misura discende, ope legis (art. 34-bis comma 7), la sospensione degli effetti della informazione antimafia gravata dinanzi al Giudice Amministrativo, oltre che, per l’effetto, degli atti strettamente consequenziali alla stessa.
Siffatto effetto sospensivo, tuttavia, si produce solo pro futuro, non potendo il provvedimento giurisdizionale che dispone il controllo giudiziario avere portata retroattiva sui provvedimenti già eventualmente adottati in conseguenza dell’adozione del provvedimento interdittivo prefettizio (ex multis, Consiglio di Stato Sez. III 29.5.23 n. 5231).
Nel corso del periodo di controllo, che ha durata non inferiore ad un anno e non superiore a tre anni (art. 34 bis comma 2), l’Amministratore Giudiziario all’uopo nominato riferisce periodicamente, almeno bimestralmente, gli esiti dell’attività di controllo al Giudice Delegato e al Pubblico Ministero [art. 34 bis comma 2 lett. b)].
Al termine del periodo di durata inizialmente previsto, il Giudice della Prevenzione, tenuto conto di quanto relazionato dall’Amministratore Giudiziario, può disporre la revoca della misura ovvero prorogarne - nel rispetto del predetto limite di durata massima triennale - il periodo di durata.
4. Rapporti fra informazione antimafia e controllo giudiziario
4.1. Demarcazione dei relativi presupposti
Informazione antimafia e controllo giudiziario, pur essendo fondati sui differenti presupposti giuridici come sopra passati in rassegna, hanno ad oggetto la valutazione dei medesimi fatti, circostanza, quest’ultima, che, inevitabilmente, finisce per creare, di riflesso, delle inferenze nei rapporti tra i pur autonomi accertamenti delibati dal Giudice Amministrativo e dal Giudice della Prevenzione.
Mentre il primo è chiamato a verificare la legittimità del provvedimento interdittivo prefettizio; il secondo verifica esclusivamente la sussistenza del requisito della occasionalità della agevolazione mafiosa, sì che la relativa valutazione si fonda su parametri non sovrapponibili alla ricognizione probabilistica del rischio di infiltrazione, che costituisce invece presupposto del provvedimento interdittivo prefettizio.
Deve infatti essere radicalmente esclusa la sussistenza in capo al Tribunale di Prevenzione di poteri di controllo dei presupposti della interdittiva antimafia, stante che, in tal caso, si finirebbe per introdurre nel sistema una duplicazione del controllo sulla legittimità della misura interdittiva stessa (sul punto, Cass. Penale Sez. VI, 9.5.19 n. 26342).
Ciò premesso, la questione che si pone è allora quella di stabilire se e in che misura le risultanze dell’accertamento compiuto dal Giudice della Prevenzione possano incidere sull’esito del giudizioamministrativo incoato avverso il provvedimento interdittivo prefettizio costituente l’antecedente logico-causale della misura del controllo giudiziario.
Al riguardo, i Giudici di Palazzo Spada hanno chiarito come la pronuncia resa dal Giudice della Prevenzione non valga a produrre un accertamento vincolante, con efficacia di giudicato, sul rischio di infiltrazione dell’impresa da parte della criminalità organizzata, escludendo, per l’effetto, che il provvedimento prefettizio possa essere sindacato alla luce delle risultanze della (successiva) delibazione di ammissibilità al controllo giudiziario, avente una diversa prospettiva d’indagine (sul punto, Consiglio di Stato Sez. III 4.2.21 n. 1049).
Il rischio concreto che, tuttavia, consegue ad un ragionamento siffatto è che l’ordinamento possa divenire, a spese dell’amministrato, “schizofrenico”, dando origine al paradosso, già verificatosi nella prassi, per cui, da un lato, il Giudice Amministrativo ritenga non illogica la prognosi inferenziale elaborata dall’Autorità Prefettizia, negando, per l’effetto, la concessione della misura cautelare della sospensione dell’efficacia della gravata informazione antimafia; e, dall’altro, il Giudice della Prevenzione ritenga, dal canto suo, l’impresa istante non sottoponibile alla misura del controllo giudiziario muovendo dal presupposto che l’ingerenza mafiosa posta a fondamento del provvedimento interdittivo prefettizio sia inesistente e non raggiunga pertanto neppure la soglia della “occasionalità”.
Ipotesi, queste ultime, che, in entrambi i casi, concretamente impediscono l’esercizio dell’attività d’impresa.
Ed ecco il paradosso cui si accennava: laddove l’azienda fosse ritenuta un po’ più asservita all’ingerenza mafiosa da parte del Giudice della Prevenzione, sarebbe avvantaggiata nelle more della definizione del giudizio di merito dinanzi al Giudice Amministrativo, stante che, in tal caso, avrebbe la possibilità di proseguire, sia pure sotto il controllo del Giudice Delegato, l’attività d’impresa [il che comporta altresì una evidente disparità di trattamento con quelle altre imprese che, in quanto ritenute come occasionalmente agevolate (e quindi, a stretto rigore, aventi una posizione peggiore agli occhi dell’ordinamento), possono proseguire l’attività d’impresa in regime di controllo giudiziario].
È allora in questa fase che le due differenti delibazioni compiute dal Giudice Amministrativo e dal Giudice della Prevenzione devono, di riflesso, finire per “influenzarsi”.
Si invoca, al riguardo, una recente pronuncia del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana (sentenza 4.1.23 n. 13), nell’ambito della quale il Giudice Amministrativo d’appello, che aveva inizialmente negato la concessione della misura cautelare di sospensione dell’esecutività della sentenza di I grado, accoglieva infine il proposto ricorso in appello [annullando, in accoglimento del ricorso di I grado, l’informazione antimafia] proprio a partire dalle risultanze della (successiva) delibazione di ammissibilità al controllogiudiziario.
Risalta come, in tale specifico contesto, il Giudice Amministrativo (del tutto correttamente, a parere di chi scrive) non abbia potuto non tenere conto della valutazione compiuta dal Giudice della Prevenzione, spintosi sino al punto di negare l’ammissibilità dell’impresa richiedente al controllo giudiziario ma non già, si badi, in considerazione di un supposto ed ormai cronico e strutturale asservimento dell’impresa alla ingerenza mafiosa, bensì rilevando, in senso contrario, l’insussistenza in radice dello stesso presupposto della solo “occasionale agevolazione”.
È stato in altri termini evidenziato come, a venire in rilievo, fosse un operatore economico scevro da qualsiasi condizionamento, oltre che allineato al contesto economico sano.
Se pertanto è astrattamente condivisibile la valutazione della giurisprudenza amministrativa secondo cui la delibazione sull’ammissibilità al controllo giudiziario non produce un accertamento vincolante, con efficacia di giudicato, sul rischio di infiltrazione dell’impresa da parte della criminalità organizzata, è tuttavia altresì innegabile che siffatta delibazione possa (rectius: debba) produrre, di riflesso, una qualche inferenza nell’ambito dell’autonomo giudizio amministrativo.
4.2. Favorevole conclusione della procedura di controllo giudiziario: effetti e conseguenze
Si è già avuto modo di chiarire come l’informazione antimafia rappresenti l’antecedente logico del controllo giudiziario; e che l’adozione di quest’ultima misura giurisdizionale implichi la automatica sospensione - ma solo pro futuro - degli effetti del provvedimento interdittivo prefettizio.
Per altro verso, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha altresì recentemente chiarito come l’ammissione di una data impresa alla misura del controllo giudiziario non comporti l’obbligo di sospendere (art. 295 c.p.c.) il giudizio amministrativo incoato avverso l’originario provvedimento prefettizio, stante che, in tal caso, verrebbe snaturata la funzione tipica del processo, da strumento di tutela delle situazioni giuridiche soggettive ed attuazione della legge, a mero strumento per l’attivazione di ulteriori mezzi di tutela (Consiglio di Stato, A.P. 13.2.23 n. 7).
Diviene allora di assoluto interesse, in un siffatto contesto, individuare, da un lato, il percorso che dovrà essere seguito dall’azienda che abbia favorevolmente concluso, riallineandosi al contesto economico sano, il periodo di controllo giudiziario; e, dall’altro, le sorti della originaria informazione antimafia (oltre che del ricorso proposto avverso la stessa dinanzi al Giudice Amministrativo) che aveva condotto alla adozione di essa misura di salvataggio.
Soccorrono, sul punto, le previsioni di cui agli artt. 86 comma 2 e 91 comma 5 del Codice Antimafia.
È infatti opinione di chi scrive che, a fronte della favorevole definizione del controllo giudiziario, l’azienda sia onerata di richiedere alla competente Autorità Prefettizia di procedere, sulla base del combinato disposto delle predette norme, ad aggiornare, avuto riguardo ad esso fatto sopravvenuto, l’esito dell’informazione antimafia già gravata dinanzi al Giudice Amministrativo e già costituente l’antecedente della conclusasi procedura di controllo giudiziario.
Fermo restando come l’Amministrazione abbia l’obbligo - coercibile ai sensi e per gli effetti degli attt. 31 e 117 C.P.A. (sul punto, T.A.R. Emilia Romagna - Parma 15.2.22 n. 41) - di provvedere su di essa richiesta nei modi e tempi di legge (art. 2 Legge 7.8.90 n. 241), deve tuttavia essere evidenziato come, in questa fase, l’azienda finirà per patire gli effetti di quello che può essere definito un vero e proprio vulnus normativo.
Ed invero, nelle more della definizione della incoata procedura di aggiornamento, si (ri)verificherà, attesa, sul punto, l’assenza di qualsivoglia indicazione contenuta in seno all’art. 34-bis del Codice Antimafia, la riespansione dell’efficacia dell’originaria interdittiva conseguente al fatto, in sé considerato, della mera conclusione della procedura di controllo giudiziario e ciò pur e nonostante il suo esito positivo.
L’incredibile paradosso è che l’impresa che aveva potuto ritualmente esercitare la propria attività durante il periodo di controllo giudiziario, attesa l’automatica sospensione degli effetti della presupposta informazione antimafia, sarà, per così dire, “svantaggiata” dalla favorevole definizione di essa procedura che le aveva consentito di esercitare l’attività d’impresa, con la conseguenza che la stessa non potrà operare fintantoché non sarà favorevolmente definito altresì il procedimento incoato ex artt. 86 comma 2 e 91 comma 5 del Codice Antimafia mediante il rilascio di un’informazione liberatoria.
In tal caso, il ricorso proposto avverso l’originario provvedimento interdittivo non potrà che essere dichiarato improcedibile per sopravvenuta cessazione della materia del contendere [l’azienda avrà infatti raggiunto l’obiettivo di “superare”, sia pure mediante l’aggiornamento basato sul fatto sopravvenuto dell’esito positivo della procedura di controllo giudiziario, l’originario provvedimento interdittivo prefettizio, con la ovvia conseguenza che da esso ricorso non potrà più trarre alcun tipo di utilitas].
Laddove invece, come spesso accade, l’Autorità Prefettizia, pur e nonostante l’esito favorevole del controllo giudiziario, dovesse negare l’aggiornamento richiesto, l’azienda dovrà necessariamente gravare il “diniego di aggiornamento” dinanzi al Giudice Amministrativo, richiedendo, attesa l’urgenza derivante dal vulnus come sopra descritto, l’adozione di una misura cautelare propulsiva (cd. remand).
In tal caso, appare quanto mai complesso individuare, in termini di assoluta certezza, le sorti del ricorso proposto avverso l’originario provvedimento interdittivo.
Certamente lo stesso diverrebbe improcedibile laddove l’azienda non procedesse a tempestivamente gravare l’opposto diniego di aggiornamento.
Quanto, invece, ad una pronuncia di merito, si ritiene che la stessa non potrebbe che essere di segno negativo.
Invero, la disposizione del controllo giudiziario [non in disparte la posizione di acquiescenza prestata a fronte della volontaria sottoposizione ad essa misura di salvataggio], unitamente alla favorevole definizione di tale procedura, consistita nella rimozione di quelle situazioni che avevano determinato l’adozione della informazione antimafia, varranno, in concreto, a dimostrarne l’originaria legittimità.
Non si ritiene pertanto residui spazio, in definitiva, per una pronuncia di accoglimento del ricorso nel merito.
5. Conclusioni
È auspicabile, alla luce del quadro normativo e giurisprudenziale sin qui descritto, che il Legislatore abbia ad intervenire sulla questione del rapporto intercorrente fra gli istituti dell’informazione antimafia e del controllo giudiziario, superando, segnatamente, il vulnus normativo conseguente alla favorevole definizione di quest’ultima procedura ed alla riespansione degli effetti dell’originario provvedimento interdittivo prefettizio.
Se è vero - come è vero - che la favorevole definizione di essa predetta procedura produce l’effetto di riallineare l’impresa al contesto economico sano, non è adeguato, a parere di chi scrive, che, nelle more della definizione del procedimento di aggiornamento ex artt. 86 comma 2 e 91 comma 5 del Codice Antimafia, la stessa venga in concreto privata della possibilità di esercitare l’attività d’impresa.