ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
di Angela Arbore
In questi giorni plumbei per l’intero assetto della nostra democrazia, riflettendo sui rapporti tra Poteri dello Stato ed in genere sul rapporto tra magistratura e società, mi è venuta in mente la lettera a Diogneto.
Si tratta di un testo-opuscolo dei primi secoli del cristianesimo, rinvenuto nel 1436 da un umanista italiano, dove ad un tal Diogneto si spiegavano le ragioni e le finalità della neonata religione cristiana.
Il principio più interessante che voglio richiamare ai nostri fini è l’affermazione che “i cristiani sono del mondo ma non nel mondo”.
Pertanto, parafrasando ed adattandolo alla magistratura, potremmo dire la stessa cosa.
Occorre cioè la consapevolezza che la magistratura è fatta da uomini e donne che vivono ed operano nel mondo, ma in qualche modo comunque non “sono del mondo”.
Tale consapevolezza non può essere disgiunta da un’altra, ossia che la magistratura in questi ultimi decenni è profondamente cambiata, essendo appunto specchio ed espressione della società.
Ebbene, se questa è la premessa, la vicenda della collega Apostolico deve esigere e richiedere una reazione netta, univoca e compatta, rispetto alla quale mi colpiscono ed interrogano profondamente tentennamenti ed esitazioni che invece abbiamo dovuto registrate in varie forme.
Perché in gioco qui è la tutela, non corporativa, non declinata in arroccata protezione delle proprie prerogative, della caratteristica essenziale dello iuris dicere; quel che allarma poi è che si è colpita l’attività e la funzione di una giudice civile, addetta alla trattazione di una materia delicata e sensibile, di una giudice che per tipologia, struttura, organizzazione del lavoro ed altri fattori qui non rilevanti, potrebbe apparire più indifesa.
La collega è stata attaccata, con le modalità inusitate che abbiamo visto, solo per aver reso un provvedimento, evidentemente non gradito, ritenendola "rea" di aver esercitato la sua funzione di motivare, che è l’essenza stessa della giurisdizione, ossia motivare ed applicare le norme inserendole nei contesti nazionali e sovranazionali, che è l’essenza del nostro lavoro di ogni giorno.
Possibile che non si colga il legame tra quanto è successo e il complessivo percorso riformatore in atto, che prevede tra l’altro la creazione di un “fascicolo del magistrato”, sia pur destinato ad altre finalità, ma pericoloso già nella sua evocazione?
Abbiamo questo dovere di tutela.
Dobbiamo sentirlo forte.
E lo dobbiamo esercitare soprattutto pensando ai colleghi più giovani, che altrimenti potrebbero sentirsi indifesi ed impauriti, timorosi e spinti quindi a chiudersi rispetto alle necessarie e doverose interlocuzioni con il “mondo”.
Questo vogliamo insegnare loro nei nostri percorsi formativi?
Ma allora dovremmo parlare di tanto altro, se dovessimo approfondire, ma non è il focus rilevante in questa sede, il tema dell’etica del magistrato.
Più che mai allora dobbiamo oggi ricordare quanto ha detto V. Zagrebelsky, ossia che “c’è differenza tra un magistrato grigio ed opaco ed un magistrato neutrale e che i grigi, gli opachi, gli scialbi sono spesso i più proni” e che “Non è forse vero che il conformismo è spesso l’anticamera della corruttibilità?”.
E la prospettiva quindi non vorremmo che fosse ancora più plumbea, perché un altro dei ricordi sollecitati alla mia memoria in questi giorni è quello di un meraviglioso film del 2006, Le vite degli altri, dove alla domanda del bambino al padre, funzionario della Stasi su “chi” fosse la Stasi, il padre risponde “ma lo sai chi è ?”
“Sì, gente cattiva che mette le persone in prigione.”
“Davvero? E come si chiama?”
“Come si chiama chi?”
“La tua palla, il nome della tua palla...”
“…ma la palla non ha un nome!”
Ma la magistratura tutta invece non deve temere chi non ha un nome, non deve essere opaca, ma deve continuare a svolgere, con responsabilità e consapevolezza, il suo servizio di iuris dicere nella società e per la società.
(Discorso tenuto in occasione dell'assemblea del Comitato Direttivo Centrale dell'ANM, Roma, 21 e 22 ottobre 2023)
di Giuseppe Santalucia
Dall'ultimo Comitato Direttivo Centrale non sono per noi successe grandi cose, cioè non numerose ma significative. Credo, però, che un pensiero vada fatto ai fatti del mondo che ci stanno purtroppo rattristando fortemente: la seconda guerra che sta scoppiando alle porte, alle nostre porte.
Io provo anche un senso di imbarazzo e disagio a parlare delle nostre cose nel momento in cui il mondo intorno a noi si infiamma, però supero questa, come dire, sensazione di parlare di piccole cose di fronte ai grandi drammi del mondo, pensando che quando succedono chi come noi non ha voce per occuparsi delle grandi cose non può che rafforzarsi nell'impegno di fare il proprio dovere, ciascuno facendo ciò che deve, facendolo al meglio può contribuire a che, come dire, le cose si rimettano a posto. Non possiamo intervenire sullo scenario internazionale, possiamo essere ancora più consapevoli dell’importanza di, un sabato, occuparci delle nostre cose e di farlo bene.
È un dovere, quello della rappresentanza associativa, che alla luce di questa considerazione generale può sembrare un po', come dire, eccentrica e dei fatti che sono avvenuti dà il senso di quello che intendo io. Un dovere che dobbiamo sentire ancora più forte perché abbiamo nel nostro Statuto il compito di difendere l'ordine giudiziario, non solo i magistrati, ma l'ordine giudiziario e i fatti che sono avvenuti nei primissimi giorni di ottobre ci chiamano a questo dovere.
Una difesa composta, una difesa razionale, riflessiva, aperta a discutere di tante questioni che sono implicate da quello che è avvenuto: mi riferisco ai fatti catanesi, ai provvedimenti di non convalida dei trattenimenti di cittadini extracomunitari, seguiti poi da polemiche giornalistiche anche per quanto avvenuto al Tribunale di Firenze. Dunque, aperti a trattare tutte le questioni che possono essere implicate senza però perdere di vista il dato centrale: il dato centrale è che da una critica a provvedimenti giudiziari, assolutamente legittima da chiunque provenga, si è passati - come tutti sappiamo - a una critica alla persona o, meglio, alla ricerca di elementi che possano gettare un'ombra di parzialità, di inadeguatezza sul magistrato che ha emesso determinati provvedimenti. Io credo che il nucleo della vicenda sia questo. Si è aperta, poi, una discussione sulla imparzialità, sull'apparenza di imparzialità, temi importanti che io non voglio, come dire, mettere in un angolo perché sono i temi nostri, i temi propri dell'essere magistrati, il tema dell'etica del magistrato e l’etica è un nostro tema. Un po’ quello che ha detto il Ministro della giustizia quando ha detto, secondo me, parlando della collega Apostolico e della sua partecipazione - per quanto sappiamo noi passiva - ad una manifestazione sul molo del porto di Catania ai tempi della nave Diciotti, tenuta fuori dal porto per una volontà ministeriale, una presenza passiva quella che sappiamo noi, lui ha detto, il Ministro, “poteva andare” - questa frase mi ha colpito molto – “ma non doveva”. In questo autorevole giudizio del Ministro, io vedo una opinione importante che è quella che non c'è stata nessuna violazione disciplinare perché se posso esercito un diritto ma “non doveva”, perché c'è un profilo dell'etica che, secondo l'opinione del Ministro, il punto di vista del Ministro, come dire, doveva essere tenuto in conto dalla collega.
Io faccio due riflessioni su questo, stimolato appunto da questa breve battuta che è gravida di significati: che il non doveva dell’etica è un tema nostro, io non penso che il Ministro, al di là di un’opinione, possa come chiunque altro parlarne di più e approfondire la questione. L’etica nel codice etico l’abbiamo elaborata noi sulla base di una legge dello Stato, perché è una precisa scelta che sia l'organo associativo - che è l’organo che rappresenta il ceto professionale - a poter stabilire quali sono le regole dell'etica, non ci viene imposta perché se facciamo questo noi, come dire, trasportiamo le regole dell'etica sul campo del disciplinare e questo è pericolosissimo. Quindi io condivido ciò che dice il Ministro “può” - questo è un dato importante – ha esercitato un diritto costituzionale, basta leggere la sentenza della Corte costituzionale che dice che i diritti costituzionali spettano ai magistrati come a chiunque altro; si pone un problema di modalità di esercizio: bene, sulle modalità di esercizio, se non c'è, come dire, questione disciplinare perché c'è una possibilità, una liceità stabilita dall'ordinamento, quello spetta a noi e ne potremo discutere ma non è questo il momento.
Il momento oggi è chiederci qualcosa di diverso da quello che si è chiesto il Ministro: se io potrò, io magistrato, dopo la campagna di denigrazione, di caccia all'uomo giornalisticamente messa in piedi con fotografie che riprendono la collega mentre circola per le strade di Catania su un ciclomotore - non so bene quale fosse il senso del post di questo giornalista - o chiedersi quale sia il senso, il contenuto di una deposizione testimoniale fatta nel procedimento che ha riguardato il figlio, tutto questo è altro, come dire, dal censorio sul piano dell'etica. È una caccia all'uomo, è una ricerca di una profilazione di questo magistrato in modo tale da poterlo consegnare all'opinione pubblica come un soggetto inadeguato, peggio, ancora, forse leggendo la rassegna stampa, come un soggetto che, in qualche modo, non assicura il contrasto dell'immigrazione illegale nel momento in cui, per i fatti cui accennavo prima, l'immigrazione illegale può diventare pericolosissima per la sicurezza nazionale visto il Ministro dell’interno ed altri che richiamano i pericoli di infiltrazione di terroristi. Se si compone il quadro l'operazione è pericolosissima. Allora io mi chiedo: potrà un magistrato, alla luce di questa esperienza che abbiamo vissuto attraverso questa povera collega consegnata in questo modo all'opinione pubblica, fare il proprio dovere, lo potrà fare, lo farà e potrà, non può e non deve ma devo e potrò fare ciò che io devo, perché quello che io devo è fare giustizia prescindendo da tutte queste considerazioni che appartengono al potere politico, al Governo. Io se faccio immigrazione non posso caricarmi di altro tipo di considerazioni che è quello che il Ministro dell'interno fa, se il Ministro dell'interno ritiene che ci siano infiltrazioni che faccia il suo, ma non si può caricare la giurisdizione di altro. La giurisdizione va rispettata per quello che è: un potere indipendente.
La domanda che io sento forte oggi è: potremmo - come ha scritto anche un giornalista molto acuto – “potremmo fare ciò che dobbiamo fare senza occuparci dei rischi che questo nostro esercizio del dovere comporta?” Rischi personali. Ed è questa la domanda che io rimando al Ministro della giustizia, ribaltando i termini delle sue considerazioni che pure, come dire, mi trovano d'accordo. E lo faccio al Ministro della giustizia cercando di cogliere tutto il significato costituzionale della sua rilevanza, è l’unico Ministro nominato in Costituzione, perché credo che il senso fosse quello di schermare quanto più possibile un potere autonomo e indipendente dalle incursioni governative e che tutto si convogliasse e fosse reso, come dire, al Ministro della giustizia perché lui è l’unico nostro interlocutore, dell'ordine giudiziario. Io su questo vorrei che si riflettesse, perché noi abbiamo avuto invece un altro Ministro che attraverso un post ha scatenato questo tipo di, come dire, di aggressione alla persona, postando un video di cinque anni fa. Alla domanda, non importa da dove nasce il video, non importa cosa è successo, importa quello che c'era nel video, io sollecito una riflessione e ve la consegno. Io credo che questa domanda sia una domanda fuorviante e non perché non ci si deve occupare dell'apparenza di imparzialità o dell’imparzialità, ma perché in questo momento quello che a noi interessa è proprio come nasce una aggressione di una persona ad un magistrato, in ragione dei provvedimenti che ha assunto. Quindi nessuna sotto considerazione dei temi che possono essere implicati dalla partecipazione a una manifestazione pubblica, e come dire lascio impregiudicata, a me non interessa, ci sono gli organi istituzionali che si dovranno occupare, leggo nelle parole del Ministro già, come dire, un'anticipazione di quello che lui pensa.
Il tema oggi è un altro: è proprio da dove nasce il video, da dove nasce questo modo di fare di un Ministro, di tutto ciò che poi ne consegue, perché ovviamente il Ministro ha postato questo video, poi come dire da quel video è nata una campagna giornalistica dai toni aggressivi inusitati, è nata anche - noi non abbiamo preso posizione - una indicazione dal partito di appartenenza del Ministro che dice che bisogna cambiare la composizione delle sezioni immigrazione, per restituire alle sezioni maggiore efficienza e maggiore indipendenza; non si è concretizzata in nulla ma vedete che, da quel modo di fare, da quella scelta infelice di additare all'opinione pubblica un magistrato, disinteressandosi dei contenuti del provvedimento, perché non c'è stata finora una critica al provvedimento - critica che noi come dire accettiamo come fisiologia, non c’è oggi nessun tipo di chiusura corporativa - si è passati a una aggressione alla persona. E da questo ci sono responsabilità anche, come dire, oggettive se si fa, se si impostano i rapporti con l'ordine giudiziario disinteressandosi del ruolo costituzionale del Ministro, perché non mi avrebbe scandalizzato se in un Consiglio dei ministri il Governo avesse conferito incarico al Ministro della giustizia di approfondire la questione - quello che vuole la Costituzione - il titolare dell'azione disciplinare è il Ministro della giustizia, è l'unico componente del governo, è l'unico Ministro che viene citato nella Costituzione e la sua citazione non è perché la giustizia è più importante dell’interno, degli esteri o dell'economia, ma perché la relazione che si instaura è con un ordine che deve essere preservato da questo tipo di incursioni che ci indeboliscono fortemente, che indeboliscono al di là della persona, indeboliscono l'ordine giudiziario, la sua immagine, la sua credibilità, e che addirittura ne fanno un potere talmente indipendente da risultare arbitrario, talmente indipendente ed arbitrario da poter anche essere ragione di un indebolimento della sicurezza nazionale sul fronte dell'immigrazione e dei pericoli connessi. Questo è il tema. Non è il tema della imparzialità e dell'apparenza, perché sennò perdiamo di vista quello che è successo. Parliamo di tutto ma scegliamo i tempi, non facciamoci imporre l'agenda di una trattazione di questioni importanti da chi usa questi strumenti per aggredire non solo una persona ma anche la funzione giudiziaria. È un po' come dire, semplificando, visto che siamo anche su Radio Radicale, è un po' come la favoletta del lupo e dell’agnello, nessuno leggendo quella favoletta che conosciamo tutti del lupo e dell’agnello si è chiesto se veramente il genitore dell'agnello avesse intorbidito le acque sei mesi prima, poteva essere di una certa rilevanza, non sto comparando l'apparenza di imparzialità all’intorpidimento delle acque del lupo, però non è quello il tema.
Occupiamocene in un’altra sede, sapendo che il dato centrale per un magistrato è l’imparzialità e l'apparenza di imparzialità è un valore importante ma ancillare. Senza l'imparzialità, l'apparenza ci trasforma in sepolcri imbiancati, per usare le parole evangeliche. Con l’imparzialità e senza l'apparenza possiamo essere avventati, incauti, possiamo incorrere in un giudizio censorio sul piano dell’etica e dei comportamenti professionali, ma certamente non abbiamo tradito la nostra funzione. Non avviene così se ci curiamo troppo dell'apparenza e poco dell’imparzialità, perché se no ci trasformiamo in soggetti che ipocritamente sfruttano il potere che hanno per fini che sono altri da quello di far giustizia. Quindi con questo tipo di coordinate credo che potremmo affrontare la questione che oggi ci interpella, perché quello che è accaduto è fortemente grave. Si dice: ma stava in una piazza pubblica, stava in un porto, quindi quando io pubblico qualcosa di pubblico non commetto nulla, nemmeno di non commendevole. Non è così. Perché io mi chiedo se qualcuno detiene, e chi e a che titolo e perchè, un video di quando cinque anni fa transitavo in una piazza pubblica, non rispettando un verde o un rosso, e allora è possibile che succeda questo, che se domani io faccio un provvedimento non gradito - perché il nucleo è quello, quei provvedimenti non sono stati graditi a chi ha legittimamente delle aspettative, ha fatto un decreto legge, io tutto questo lo lascerei sullo sfondo - ma è possibile che accada presto, che ci siano cassetti che conservano anche comportamenti pubblici da utilizzare alla bisogna per costruire una narrazione intorno ad un magistrato di un certo tipo. Se il magistrato ha sbagliato ci sono gli strumenti e noi rifletteremo. Credo che io sento il bisogno di riflettere su questi temi perché oggi i temi che ci interpellano fortemente sono l’imparzialità, con tutte le sue declinazioni possibili, e l’interpretazione. Perché, guardate, la critica poi si è spostata dal Tribunale di Catania al Tribunale di Firenze, che ha argomentato un po' più diffusamente sul rapporto tra atto e decreto ministeriale, sui luoghi sicuri, sul potere normativo e sul potere interpretativo del giudice; il tema è questo: quali sono i confini della interpretazione che è consentita, quali all'interno di una discussione sulla imparzialità.
Io ricorderei che la prima verifica dell'imparzialità è la motivazione. Dunque, comunque partiamo da lì, partiamo dal provvedimento e non invertiamo l'ordine delle questioni partendo dalla persona per gettare un'ombra sul provvedimento. La nostra prima cartina al tornasole dell'imparzialità è ciò che scriviamo, come argomentiamo. Dopodiché il tema si è posto autorevolmente, si è posto anche in un convegno prestigiosissimo a Palermo, che è il tema dell'interpretazione, del rapporto tra gli ordinamenti, dell'ordinamento sovranazionale dell’Unione e dell'interpretazione conforme, sono temi che ricorrono, sono temi che come dire stanno ravvivando un dibattito dottrinale, sono temi importantissimi su cui noi dovremmo riflettere, ma tutto questo non oggi. Oggi c'è da rivendicare la indipendenza della funzione giudiziaria e la intollerabilità di questo modo di impostare i rapporti con dei provvedimenti non graditi, pensando anche e senza sottovalutare nessuno degli aspetti. Guardate, io ve lo dico con assoluta convinzione, per me il tema è importantissimo, che non basta non andare in una manifestazione pubblica per essere al riparo perché, come abbiamo avuto prova da quello che è successo col Tribunale di Firenze la questione si sposta: ha fatto un convegno, ha parlato contro un decreto, ha fatto un’esperienza ministeriale con questo o con quello.
Ora il confine, quando si parla di apparenza di imparzialità tra il lecito e il non opportuno è, come dire, estremamente labile; riflettiamo noi prima che ce lo impongono gli altri. Riflettiamo sapendo che non è tema del legislatore, non è tema del governo, perché l'etica è un tema nostro. Dopodiché noi abbiamo alle porte un congresso; ci occuperemo anche di questo. Io, non come presidente, ma come magistrato, come componente della nostra categoria, sento fortemente il bisogno di rinnovare una nostra riflessione autonoma sull'interpretazione, e sui poteri e sui limiti dell’interpretazione. Vi anticipo, ancor prima di consegnarvi questa riflessione, che questo è il tema. Non possiamo cedere strumenti che sono ormai a noi consegnati da tempo in una complessità dell'ordinamento che vede l’interferenza di fonti normative non più organizzate secondo il principio della gerarchia - questo lo vorrei ricordare, la legge la si rispetta collocandola in un nuovo ordine, non dandole una primazia che oggi, non per volontà nostra, può non avere più in certi settori - quindi non cedendo strumenti, ma avendo consapevolezza che gli strumenti di cui disponiamo sono particolarmente incidenti e quindi cautela, attenzione, serietà professionale, questa è la riflessione che oggi il tema dell'interpretazione credo si imponga a tutti noi. Sapere quanto il potere giudiziario, per ragioni di evoluzione storico-istituzionali, ha a disposizione rispetto al potere degli anni Cinquanta, ma non è certamente quel tipo di sistemazione del rapporto del giudice e legge che possiamo invocare o evocare come un paradiso felice che ci vedeva in rapporti sereni col potere politico. Rinnovare una riflessione alla luce di tutto ciò che è successo anche per prendere atto, per riattestare la consapevolezza della delicatezza del lavoro che facciamo e quindi una delicatezza che, poi, sono strumenti come il bisturi, non penseremmo mai di levare il bisturi dalle mani di un chirurgo ma pretendiamo che lo usi con la massima cautela, con la massima professionalità, e anche il tema dell'imparzialità è strettamente connesso, perché noi interpretiamo, motiviamo e diamo in quel modo la manifestazione prima della nostra imparzialità.
Trattiamoli in un congresso, trattiamoli, facciamoli temi congressuali, facciamo di più, prepariamo un congresso non come tradizionalmente è avvenuto, ponendo questi temi facendo intervenire cattedratici, esperti o autorevoli giuristi, lasciando un po' l’assemblea spettatore passivo. Facciamo in modo che dalle Sezioni, con il coinvolgimento del Comitato Direttivo Centrale, si inizi sin da subito, se decidiamo, una riflessione nelle varie articolazioni di cui si compone l’Associazione Nazionale Magistrati, che si arrivi al congresso con maggiore consapevolezza, avendo già delle proposte e delle idee su questi temi, che si discuta noi perché credo che il tema appartenga interamente a noi e non alla politica e non al resto. Non possiamo pensare che ci siano interventi sulla interpretazione, non possiamo pensare che ci possano essere interventi sulla imparzialità e l'apparenza, che ripeto sono temi che appartengono esclusivamente all'etica e alla professionalità e su questo credo che le invasioni di campo sarebbero di altri e non nostre. Quindi facciamolo perché c’è bisogno di farlo, quello che è avvenuto è comunque indicativo dell’urgenza della riflessione, facciamolo nelle sedi proprie, nelle sedi della riflessione collettiva. Oggi il nostro impegno è, invece, un impegno di difesa dell'ordine per non cadere nella trappola di parlare di altro rispetto a ciò che invece è l’urgenza.
(Discorso tenuto in occasione dell'assemblea del Comitato Direttivo Centrale dell'ANM, Roma, 21 ottobre 2023).
di Giuliano Scarselli
«Art. 101 Costituzione, la norma per la quale i magistrati sono soggetti soltanto alla legge, dove l’accento cade sull’avverbio - soltanto - (…) essa comanda la disobbedienza a ciò che la legge non è, disobbedienza al pasoliniano palazzo, disobbedienza ai potentati economici, disobbedienza alla stessa interpretazione degli altri giudici, e dunque libertà interpretativa.»
Giuseppe Borrè, Le scelte di magistratura democratica, in www.questionegiustizia.it.
1. Premessa. Nomofilachia e vincolatività dei precedenti della Cassazione. La necessità di ripercorrere il cammino. 2. Nessuna menzione della nomofilachia nella normativa degli Stati preunitari e poi nella legge di ordinamento giudiziario del Regno d’Italia r.d. 6 dicembre 1865 n. 2626. 3. Nessuna menzione della nomofilachia nella legge di ordinamento giudiziario del fascismo r.d. 30 dicembre 1923 n. 2786. 4. La nomofilachia presente per la prima volta nella legge di ordinamento giudiziario r.d. 30 gennaio 1941 n. 12 ma non nel codice di procedura civile del ’40 (r.d. 28 ottobre 1940 n. 1443). 5. La bocciatura della rilevanza costituzionale della nomofilachia nei lavori dell’Assemblea costituente. 6. Segue: nessuna menzione della nomofilachia, infatti, nella carta costituzionale. 7. La prima valorizzazione del principio di nomofilachia con l’emersione della crisi della Cassazione quanto a carichi di lavoro. 8. La creazione della contrapposizione tra ius constitutionis e ius litigatoris quale ulteriore momento rafforzativo della funzione di nomofilachia. 9. Il successivo ulteriore sviluppo del concetto di nomofilachia. 10. Qualche riflessione conclusiva in difesa della libertà di interpretazione della legge da parte della magistratura.
1. Io credo sia sotto gli occhi di tutti che da un po’ di tempo il concetto di nomofilachia si è modificato, ovvero si è molto esteso, fino, direi, a confondersi e sovrapporsi a quello della vincolatività dei precedenti della Corte di Cassazione, soprattutto se provenienti dalle Sezioni unite. In nome del trattamento paritario di tutti i cittadini di fronte alla legge, in nome della prevedibilità delle decisioni, e in nome della certezza del diritto, nomofilachia oggi significa che i giudici debbano, salve rarissime eccezioni, conformarsi agli orientamenti della Cassazione, con meccanismi non molto diversi da quelli della stare decisis del sistema di common law. Per dare una idea di questo più incisivo modo di intendere la nomofilachia credo che niente possa essere più eloquente se non riportare l’opinione di nostri magistrati di assoluto prim’ordine, ovvero due giudici della Corte Costituzionale e due Presidenti della Corte di Cassazione.
In un primo scritto si legge: “Il ruolo della Corte di Cassazione nella sua funzione nomofilattica ha avuto nuovo impulso (...) nel loro insieme queste disposizioni realizzano appunto la forza del precedente come forma attenuata del principio di stare decisis. In tal modo il nostro ordinamento si avvicina a quelli di common law perché il precedente, pur sempre non vincolante, viene presidiato con misure processuali dirette a favorire la funzione nomofilattica della Corte di Cassazione”[2].
In un altro: “Pur in assenza di un obbligo di conformazione, vi è un’innegabile influenza del precedente autorevole (...) è indubbio che l’autorevolezza cresce in relazione alla posizione del giudice nell’ordine giudiziario, pur con alcune oscillazioni ed incongruenze, negli ultimi sviluppi della disciplina processuale emerge la ricerca di meccanismi che incentivino e garantiscano la coerenza, l’uniformità e la prevedibilità delle risposte alla domanda di giustizia (...) In conclusione, gli sviluppi normativi dell’ultimo decennio appaiono orientati ad incrementare il peso del precedente in generale e dei precedenti delle sezioni unite in particolare.”[3]
Ed infine in un terzo: “L’affermazione del valore soltanto dichiarativo della giurisprudenza ed il corollario che se ne trae in ordine al valore debole del precedente peccano in un certo grado di astrattezza e sono sempre più soggetti a forti torsioni, dando luogo a non poche contraddizioni, tanto più in un epoca di progressivo avvicinamento, se non addirittura di tendenziale integrazione, degli orientamenti giuridici dell’Europa continentale con quelli anglosassoni di common law nei quali la regola dello stare decisis ha un valore molto più pregnante. Già il fatto che in questi ultimi ordinamenti detta regola sia tuttora espressa ricorrendo ad una formula latina la dice lunga sulla comune radice dell’istituto”[4].
Le posizioni sembrano convergere su questo: non si ritiene che i giudici del merito debbano obbligatoriamente uniformarsi agli indirizzi della Corte di Cassazione, perché ovviamente questo (ancora) non sarebbe conforme al nostro sistema di diritto; tuttavia è lasciato intendere che tale conformazione debba essere il modo normale di rendere giustizia, anche per l’ormai forte avvicinamento del nostro sistema di civil law con quello anglosassone, che appunto prevede il vincolo del precedente. E v’è, inoltre, insieme a questa idea, che potremmo etichettare di nomofilachia rafforzata, l’altra, che è quella dell’esistenza di una sempre più marcata gerarchizzazione della giurisdizione, visto che l’autorevolezza cresce in relazione alla posizione del giudice nell’ordine giudiziario. Tutti, insomma, convergono sul fatto che ci si trovi oggi alla ricerca di meccanismi che incentivino e garantiscano la coerenza, l’uniformità e la prevedibilità delle risposte alla domanda di giustizia, e dunque che la nomofilachia sia un criterio di rilevanza costituzionale assoluto nell’esercizio della funzione giurisdizionale.
1.2. In proposito, mi piace ricordare che questo orientamento, che mi sono permesso di definire di nomofilachia rafforzata, trova, se si vuole, sulla sua strada, un amico autorevole del passato, ovvero niente meno che Piero Calamandrei[5]. Piero Calamandrei, infatti, non solo teorizzò che la funzione prima e assoluta della Corte di cassazione dovesse essere quella della nomofilachia, ma anche sostenne che per il raggiungimento di detto scopo la legge doveva sottrarre alla Corte di Cassazione il sindacato sugli errores in procedendo[6], e doveva introdurre misure tali da fissare un giusto rapporto tra il numero dei ricorsi da decidere e le capacità della Corte di provvedervi[7], tanto che da altra parte Piero Calamandrei arrivava addirittura a scrivere che la Corte di cassazione “rende giustizia ai singoli soltanto nei limiti in cui ciò le possa servire per raggiungere il suo scopo di unificazione della giurisprudenza”[8]. Ovviamente, a quel tempo, nessuno prese in grande considerazione queste tesi di Piero Calamandrei, che apparivano a (quasi) tutti i processualisti e costituzionalisti di allora sue personali intemperanze, e basta, per convincersi di ciò, leggere la recensione che Enrico Finzi fece dei lavori di Piero Calamandrei sulla Cassazione[9], o ancora riportare il più tardo pensiero di Salvatore Satta, che contestava le (fantasiose) ricostruzioni storiche fatte dal processualista fiorentino[10], o infine dar menzione della voce ancor più autorevole, e tutta in senso contrario, di Lodovico Mortara[11].
Oggi, però, i tempi sono cambiati, e tutti sono invece d’accordo che la ragione normale in grado di giustificare l’esercizio della giurisdizione della Cassazione non sia affatto, come pretendeva Lodovico Mortara, il “reclamo del cittadino che reputa leso il proprio diritto dalla sentenza del giudice inferiore”, bensì esattamente la necessità che questa dia indicazioni generali sui modi di interpretazione della legge, ovvero la nomofilachia. Di Lodovico Mortara non si ricorda più nessuno, mentre Piero Calamandrei è ancora nel pensiero e nella bocca di tutti; per Piero Calamandrei è giunto il momento del riscatto[12].
1.3. Insomma, poiché il tema della nomofilachia non è tema isolato nel contesto del nostro sistema di tutela dei diritti, e poiché la trasformazione della nomofilachia in vincolatività del precedente non è passaggio che non abbia conseguenze su altri diritti costituzionali afferenti alla tutela dei diritti, e poiché qualcuno potrebbe oggi difendere le posizioni di quella che ho definito nomofilachia rafforzata asserendo che altro non è se non l’intuizione di Piero Calamandrei di cento anni fa, a me sembra opportuno porre sull’argomento alcune precisazioni, nonché ricordare taluni precedenti storici che hanno interessato l’argomento.
A ciò sono dedicate le pagine che seguono.
2. Direi in primo luogo questo: se guardiamo alle origini della Corte di cassazione intesa in senso moderno, dobbiamo prendere le mosse dal Tribunal de cassation istituito con decreto del 27 novembre 1790. Esso, nell’idea primordiale dei rivoluzionari, ed in particolar modo di Robespierre, non doveva essere un organo giudiziario ma un organo di controllo costituzionale, da porre al fianco del potere legislativo per sorvegliare, e se del caso sanzionare, gli organi giudiziari qualora questi si fossero sottratti all’osservanza della legge. In questo quadro Prieur affermava nella seduta dell’Assemblea dell’11 novembre 1790 che il Tribunal de cassation doveva essere “une sentinelle établie pour maintien des lois”[13].
Il Tribunal de cassation, però, in verità, e fin dall’inizio, manteneva la struttura processuale che già si era formata prima della Rivoluzione presso i Conseil des parties, e quindi il Tribunale, salve rare eccezioni, più che controllare il potere legislativo, provvedeva ad annullare, su istanza di un litigante, le sentenze che contenessero una contravention espresse au texte de la loi, ovvero svolgeva le funzioni tipiche di un organo giurisdizionale. Con queste caratteristiche, che niente (direi) avevano a che vedere con la funzione di uniformare gli orientamenti della giurisprudenza, l’istituto della Corte di cassazione passava dalla Francia all’Italia[14]. Faceva una prima e breve apparizione nel periodo napoleonico, e veniva poi recepita in forma più stabile e convinta nei sistemi giudiziari di molti stati italiani preunitari: nel Regno delle due Sicilie, che accoglieva l’idea di una Corte di cassazione con le leggi processuali del 29 maggio 1817 e 26 marzo 1819[15]; nel granducato di Toscana, che istituiva il Consiglio supremo di giustizia con il regolamento per i tribunali del 27 aprile 1814[16] e poi con il Motu proprio del 6 agosto 1838 lo trasformava in una vera e propria Corte di cassazione[17]; nel Regno di Sardegna, che istituiva la Corte suprema di cassazione con il regio editto del 30 ottobre 1847[18]. Tutte queste Corti, ad istanza di parte, provvedevano a controllare la legalità delle sentenze portate alla loro attenzione e ad annullare quelle pronunciate in violazione della legge. Non v’era, in quel periodo, se non in modo del tutto indiretto e assai marginale, l’idea che la Corte suprema potesse assolvere anche la funzione di evitare contrasti giurisprudenziali fornendo l’orientamento da seguire nel futuro per i casi dubbi[19], tanto che un giurista quale Pisanelli affermava che l’istituzione della cassazione non è volta ad “impedire la difformità nell'applicazione del diritto”[20], visto che “la cassazione italiana fu organizzata fino dall'origine in modo tale da escludere che potesse avere come scopo essenziale l'uniformità della giurisprudenza”[21], e considerato altresì che v’era da evitare che con la cassazione si avesse: “una bella massa di casi, in cui ciascuno, con un po’ di fatica di schiena e assai poco lavoro di testa, possa trovare il suo caso”[22].
A seguito dell’Unità d’Italia la cassazione veniva recepita nella legge sull’ordinamento giudiziario r.d. 6 dicembre 1865 n. 2626, tanto nei processi civili quanto in quelli penali; e ciò avveniva, però, si badi, con il mantenimento delle cassazioni esistenti nel periodo anteriore all’unità, ovvero con le Corti di cassazione di Torino, Firenze, Napoli e Palermo, alle quali veniva aggiunta dieci anni dopo, ovvero nel 1875, una nuova Corte di cassazione per la capitale. Che alla cassazione del regno d’Italia non venissero in particolare affidate funzioni di nomofilachia è di nuovo confermato tanto dall’art. 73 dello Statuto albertino, per il quale “L’interpretazione delle leggi in modo per tutti obbligatorio spetta esclusivamente al potere legislativo”, quanto dalla stessa legge sull’ordinamento giudiziario, che non conteneva alcuna disposizione analoga all’attuale art. 65 r.d. 12/41 ma semplicemente all’art. 122, nel dare la funzione della Corte di cassazione, afferma che essa assicura la “esatta osservanza della legge”. E d’altronde, anche a volere, la funzione di nomofilachia poteva essere svolta solo indirettamente e con grandi difficoltà in quel periodo per due semplici ragioni: a) perché le Corti erano una pluralità; b) e soprattutto perché le decisioni della Corte, per il diritto processuale di allora, non erano nemmeno vincolanti per il giudice del rinvio[23], cosicché immaginare una funzione prevalente di uniformità degli orientamenti in un simile contesto appariva veramente arduo.
3. Questa situazione, che vedeva operare in Italia ben cinque corti di cassazione, sarebbe durata per il diritto civile lungo tempo, e precisamente fino al 1923, quando, con il r.d. 24 marzo 1923 n. 601, venivano soppresse, a favore della Corte di Cassazione di Roma, le Corti di Torino, Firenze, Napoli e Palermo.
Può dirsi che la soppressione delle Corti regionali fu dettata da ragioni di nomofilachia? Io direi di no.
Chi vada infatti a rileggersi gli scritti in argomento del periodo compreso tra il 1860 e l’inizio del nuovo secolo, nota che le discussioni ruotavano soprattutto sul dilemma “Corte di Cassazione” oppure “tribunale di terza istanza”, ovvero avevano ad oggetto la scelta (una più francese, l’altra più legata alle tradizioni italiche) tra un organo giurisdizionale supremo che giudichi solo del diritto con funzioni meramente rescindenti, oppure un organo giurisdizionale supremo che giudichi in terza istanza nel merito, senza particolari limiti di cognizione[24]. Certo, tra i fautori della cassazione non mancavano voci, anche autorevoli, volti a rilevare come l’uniforme interpretazione delle leggi difficilmente si potesse ottenere con ben cinque Corti di Cassazione nel Regno[25] , ma non mancavano nemmeno voci, non meno autorevoli, per le quali “coloro i quali desiderano e sperano mediante l'istituzione di unica Corte di Cassazione questo risultato (l’uniformazione della giurisprudenza), non debbono essere uomini che abbiamo molta pratica e famigliarità con gli affari giudiziari”[26]. Ad ogni modo credo sia fuori da ogni possibile, seria, discussione, che il r.d. 24 marzo 1923 n. 601 non veniva posto in essere dall’esigenza di consentire una più uniforme interpretazione della legge, ma, tutto al contrario, per soddisfare i giochi di potere di allora, e per la preferenza del governo fascista appena arrivato al potere, per ragioni evidenti, di avere una unica Corte di Cassazione, e di averla a Roma[27].
Si trattava, soprattutto, di provvedere ad una gerarchizzazione del sistema giudiziario[28] e di comprimere quella maggiore indipendenza della magistratura che la pluralità delle Corti aveva fino a quel momento assicurato[29]. E di ciò, credo, si trova conferma nella immediata riforma dell’ordinamento giudiziario, avvenuta con il r.d. 30 dicembre 1923 n. 2786, poiché questa, nell’assegnare all’unica Corte di Cassazione di Roma la funzione nel nuovo sistema, adoperava infatti, con l’art. 61, la stessa, identica, espressione usata dalla legge sull’ordinamento giudiziario del 1865 n. 2626, ovvero che la cassazione ha la funzione “dell’esatta osservanza della legge” ma non anche quella della “uniformità della giurisprudenza”[30]. E se con riferimento al r.d. 1865/2626 si poteva rilevare che la mancata individuazione della funzione della cassazione nella uniformità della giurisprudenza poteva dipendere dalla circostanza che in quel momento storico erano presenti nel paese quattro Corti di Cassazione, lo stesso non si poteva più dire con riferimento al r.d. 30 dicembre 1923 n. 2786, poiché in quel momento il sistema provvedeva proprio all’unificazione della Corte. Anzi, il confronto tra il decreto sull’ordinamento giudiziario del 1865 rispetto a quello di riforma del 1923 prova l’esatto contrario, poiché la circostanza che, esattamente nel momento in cui si giunge alla Corte di Cassazione unica tuttavia si mantiene l’individuazione della funzione della stessa sempre e solo nella “esatta osservanza della legge” senza niente aggiungere circa l’uniformità della giurisprudenza, prova che la cassazione unica rispondeva, appunto, ad una logica di potere e di accentramento, ma non anche ad una di nomofilachia, che il legislatore continuava a non menzionare.
4. Ed infatti, la c.d. funzione di nomofilachia, a livello di norma positiva, emerge solo, per la prima volta, nel 1941, con la nuova legge sull’ordinamento giudiziario n. 12, non esistendo niente di simile, come abbiamo detto, né presso le Corti dell’Italia pre-unitaria, né nella legge di ordinamento giudiziario della nuova Italia unita (r.d. 2626/1865), né, ancora, nella legge di ordinamento giudiziario a seguito dell’unificazione della Cassazione in Roma con la contestuale soppressione delle Corti regionali (r.d. 2786/1923). È solo, infatti, con l’art. 65 del r.d. 30 gennaio 1941 n. 12, che per la prima volta, a norma di legge, si afferma che la Corte di Cassazione “assicura l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale”. Ora, io credo non dovrebbe essere oggetto di dubbio che il passaggio dalla sola “osservanza della legge” degli anni 1865 e 1923, alla “uniforme interpretazione” e alla “unità del diritto oggettivo nazionale” del 1941, costituisca lo sviluppo e il risultato di quegli orientamenti politici e dottrinali pubblicisti manifestatisi per tutto il ventennio, ovvero sia il risultato di quello che il fascismo non riuscì a fare nel 1923, appena preso il potere, e invece riuscì a realizzare nel 1941, dopo quasi vent’anni di governo. Non dovrebbe infatti essere opinabile che la dizione dell’art. 65 r.d. 12/41 sia tipica di quel periodo, e rispondente alla logica autoritaria e gerarchica propria del fascismo. Da segnalare, poi, che appena un anno prima dell’approvazione della legge sull’ordinamento giudiziario, il governo di Mussolini aveva approvato altresì il codice di procedura civile (r.d. 28 ottobre 1940 n. 1443), il quale, però, nel disciplinare la cassazione, disponeva un accesso alla Corte in modo non difforme a quello già esistente nel codice di rito del 1865. Ed infatti, l’accesso in cassazione per la giustizia civile non trovava limiti alcuno nella disciplina del nuovo codice, né si introducevano misure, limiti, o filtri alla possibilità delle parti di impugnare le sentenze di grado di appello (o in unico grado) al fine di favorire la “unità del diritto oggettivo nazionale”, né, ancora, si pensò di escludere dal sindacato della Corte gli errores in procedendo, così come sosteneva Piero Calamandrei, che al contrario venivano ammessi con il n. 4 dell’art. 360 c.p.c.; e addirittura il codice del ‘40 ampliava il campo di operatività della cassazione, prevedendo altresì il ricorso per questioni attinenti alla motivazione ex art. 360 n. 5 c.p.c. ovvero per circostanze sconosciute al vecchio testo dell’art. 517 n. 7 c.p.c. 1865, che si riferiva solo a contraddizioni del dispositivo[31], con esclusione di ricorso sia per contraddittorietà tra motivi e dispositivo[32], sia per contraddittorietà tra motivi[33].
5. Dopo la caduta del fascismo i temi della Cassazione e della nomofilachia venivano affrontati in Assemblea costituente, e va a tal fine ricordato in primo luogo il dibattito avutosi presso la seconda sottocommissione, nelle sedute dal 20 dicembre 1946. Piero Calamandrei, infatti, che faceva parte della sottocommissione, e del quale abbiamo già detto circa le sue idee in punto di nomofilachia, provava a inserire tale principio in Costituzione. Presentava un progetto che all’art. 12, 2° comma recitava che: “al vertice dell’ordinamento giudiziario, unica per tutto lo Stato, siede in (...) la Corte di Cassazione, istituita per mantenere l’unità del diritto nazionale attraverso la uniformità dell’interpretazione giurisprudenziale e per regolare le competenze fra i giudizi”[34]. Tal progetto trovava però l’opposizione di Targetti, il quale (così espressamente dai verbali) “dichiara di avere personalmente molti dubbi circa la necessità assoluta, invariabile attraverso il tempo dell’unicità della cassazione”[35]. Alla posizione di Targetti aderiva, con talune precisazioni, Bozzi, e poi Ambrosini, Di Giovanni e Castiglia[36]. Calamandrei veniva messo in minoranza, ed il progetto di costituzionalizzare il principio di unicità della Corte di Cassazione e di nomofilachia non aveva seguito, tanto che lo stesso Calamandrei, dopo anche il successivo intervento di Targetti nella seduta pomeridiana del 20 dicembre 1946[37], “dichiarava di aderire alla proposta di Targetti e di ritirare il capoverso in esame”[38]. Parallelamente, va pure ricordato, che Giovanni Leone presentava un progetto, ove però, con l’art. 17, si statuiva semplicemente che “in ogni causa devono essere osservati tre gradi di giurisdizione”[39]. È evidente che tale progetto, contrariamente a quello di Piero Calamandrei, non aveva come scopo quello di costituzionalizzare il principio di nomofilachia e di unicità della Corte, ma solo quello di assicurare ai cittadini il terzo grado di giudizio, inteso come controllo di legalità nell’applicazione della legge. Su tale progetto prendevano la parola altri componenti, quali Ambrosini e Di Giovanni, i quali manifestavano perplessità non tanto relativamente al principio, quanto alla opportunità di inserirlo in costituzione piuttosto che nei codici di procedura[40]. Giovanni Leone insisteva, asserendo che “è proprio attraverso le norme di procedura che viene più facilmente elusa la garanzia del cittadino al ricorso”[41], ed anche il Presidente Conti “è d’avviso che tale formula potrebbe essere inserita fra i principi generali”[42]. Si arrivava, così, nella seduta del 31 gennaio 1947[43], all’approvazione di un testo, ovvero dell’art. 102 del progetto, il quale disponeva che: “Contro le sentenze pronunciate in ultimo grado da qualsiasi organo giudiziario ordinario o speciale è sempre ammesso il ricorso alla Corte di Cassazione”[44].
6. Al plenum dell’Assemblea costituente, dunque, arrivava il progetto di Giovanni Leone, e non quello di Piero Calamandrei, e tuttavia Piero Calamandrei non si dava per vinto. Piero Calamandrei, infatti, con dubbio comportamento, dopo aver ritirato il capoverso in questione in sottocommissione come sopra riportato, riproponeva il medesimo testo bocciato e ritirato per la costituzionalizzazione del principio di nomofilachia anche in Assemblea[45]. Avverso ciò prendeva però la parola di nuovo Targetti, ricordando la vicenda della sottocommissione e il ritiro dello stesso Piero Calamandrei di quel testo, e rimprovera il collega: “L’onorevole Calamandrei si contraddice”[46]. La proposta di Piero Calamandrei non aveva quindi seguito in Assemblea, la quale, tutto al contrario, discuteva del solo progetto di Giovanni Leone; e poiché l’idea di accogliere il principio secondo il quale è generalmente riconosciuto a tutti il diritto di accedere alla Corte di cassazione per il controllo di legalità dei provvedimenti che incidono su diritti non trovava contrasto alcuno[47], il testo provvisorio, senza sostanziali modificazioni, veniva approvato dall’Assemblea, e andava a formare l’odierno art. 111 Cost.[48]. Nessuna menzione della nomofilachia, dunque, veniva data nella carta costituzionale e nessuna traccia di contenuto analogo a quello dell’art. 65 r.d. 12/41 o di quello proposto da Piero Calamandrei in sottocommissione all’art. 12, 2° comma, si trova così oggi nell’art. 111 Cost. Mi sia consentito aggiungere, a chiusura di questa parte, che questa chiara vicenda, che risulta espressamente dai verbali dei lavori dell’Assemblea costituente, non è praticamente riportata da nessuno. Tutti oggi convengono sul fatto che il valore della nomofilachia sia un valore costituzionalmente protetto, e a tal fine vengono richiamati gli artt. 3 e 111 Cost.; nessuno però riporta quanto successe in Assemblea costituente in punto di nomofilachia. È posizione legittima ritenere che il valore della nomofilachia sia riconducibile a principi costituzionali; tuttavia completezza di informazione vorrebbe che, in ogni caso, da parte di tutti, prima di esprimere giudizi, non si prescindesse da una vicenda così precisa, e direi assolutamente imprescindibile, per disquisire circa la costituzionalità o meno del principio di nomofilachia. Si può ritenere oggi che la nomofilachia sia un valore costituzionale, non si può però tralasciare che questa non era la posizione dei nostri costituenti[49].
7. Ad ogni modo, possiamo a questo punto passare agli anni successivi della nostra età repubblicana. Direi fino agli anni ‘80, il valore della nomofilachia non era certo negato, nessuno lo ha mai negato, e tuttavia lo stesso era riconosciuto, se si vuole anche conformemente alle vicende di cui all’Assemblea costituente, senza quella forza che esso ha oggi. Mi sia qui consentito ricordare in proposito, tra gli stessi giudici, le posizioni di Senese[50], di Pivetti[51], e di Franceschelli[52]. Sostanzialmente, è ovvio che quando una Corte è posta al vertice dei mezzi di impugnazione, inevitabilmente svolge (anche) una funzione di guida ed indirizzo dei giudici dei gradi inferiori, e quindi inevitabilmente svolge una funzione che possiamo ricondurre alla nomofilachia. E tuttavia l’esercizio di questa funzione si realizza in modo secondario, indiretto, ovvero decidendo le sorti di una impugnazione. Altrimenti non si capisce perché il giudizio sia attivato dalle parti private, perché le parti private se ne debbano assumere i costi e i rischi di soccombenza, perché le parti private possano rinunciarvi per transazione così come prevede l’art. 390 c.p.c.; altrimenti l’iniziativa processuale dovrebbe essere lasciata sempre in mano alla Procura generale, il concetto di soccombenza non dovrebbe esistere; nessun privato ne dovrebbe sopportare in proprio i costi, e anche il sistema della lite, del contraddittorio, delle parti contrapposte, non avrebbe (un gran) senso in un processo la cui funzione prima è quella di nomofilachia.
Quand’è, allora, che la posizione sulla nomofilachia muta? Ebbene, io direi che muta parallelamente all’aggravarsi della crisi della Corte di Cassazione: più negli anni successivi si rileva lo stato di crisi della Cassazione, più parallelamente si afferma che la sua funzione è quella di nomofilachia[53]. È una posizione comprensibile dal punto di vista pratico, non dal punto di vista teorico. Visto che il carico di lavoro della Corte di cassazione ammontava già a 10.517 ricorsi negli anni 1985-1986[54], si inizia ad interrogarsi sulla funzione primaria di essa[55], e a formulare le prime ipotesi per sgravare la Corte di tale ruolo[56]. E, in questo contesto, poco dopo, prende corpo una distinzione prima per niente usata, che è quella tra ius constitutionis e ius litigatoris. Questa terminologia, a mio parere, segna un passaggio concettuale ulteriore in punto di nomofilachia: se fino ad allora, direi, i più riconoscevano che la funzione prima della Cassazione fosse quella di fornire ai cittadini il controllo di legalità delle decisioni dei giudici di merito, e quindi il suo compito primo fosse quello di decidere i ricorsi, con l’avvento di questa contrapposizione terminologica l’ordine si inverte, e si comincia a sostenere che prima viene la funzione di nomofilachia e solo dopo quella della decisione dei ricorsi. Per ius constitutionis, infatti, si intende la funzione pubblica della Corte di Cassazione, ovvero quella di nomofilachia, mentre per ius litigatoris si intende la funzione privata, ovvero quella di decidere i ricorsi. Conviene, vista la rilevanza del tema, spendere qualche parola in più su questa contrapposizione che ancora oggi è in uso.
8. Come ho già avuto modo di sottolineare, la contrapposizione tra ius constitutionis e ius litigatoris risale al tardo diritto romano ma con un significato del tutto diverso da quello oggi dato[57].
Esattamente, il diritto romano distingueva la quaestio facti dalla quaestio iuris, e da tali questioni potevano discendere, per la sentenza, l’error iuris e l’error facti. Per evitare che, grossolanamente, e come in origine, l’error iuris comportasse la nullità della sentenza, e l’error facti rendesse invece necessario l’appello a fronte di una sentenza da considerare valida, nel diritto romano tardo classico si pose la distinzione tra ius constitutionis e ius litigatoris, e si stabilirono criteri di questo genere: a) la sentenza era da considerare contra ius constitutionis quando pronunciata con errori di diritto sulla esistenza e/o sul contenuto delle norme, ovvero con errori giuridici posti nella premessa maggiore dell’attività logica del giudice; b) la sentenza era invece da considerare contra ius litigatoris quando viziata da errori nella ricostruzione del fatto, oppure da errori di diritto non rientranti nella categoria dello ius constitutionis, quali quelli relativi alla sussunzione della norma al fatto, legati alla premessa minore dell’attività logica del giudice[58]. La sentenza contra ius constitutionis era da ritenere inesistente, e la sua inesistenza/nullità poteva esser fatta valere in ogni tempo; al contrario la sentenza contra ius litigatoris era valida ed efficace, e solo, per sanare l’errore commesso dal giudice, poteva essere oggetto di impugnazione[59].
Tutto ciò si trovava in modo chiaro nel Digesto (49.8.1.2.): Contra constitutiones autem iudicatur, cum de iure constistutionis, non de iure litigatoris pronuntiatur; quo casu appellatio necessaria est[60].
Orbene, ci si chiederà che pertinenza abbia questa contrapposizione, divenuta poi di moda, con la Corte di Cassazione, prima ancora che con la nomofilachia. Ed infatti non ha pertinenza, e non a caso se torniamo al Regno d’Italia di ius constitutionis e ius litigatoris non v’è traccia né nel Commentario del codice di procedura civile di Mancini-Pisanelli-Scialoja, né nella imponente voce monografica “Cassazione” di Enrico Caberlotto del Digesto Italiano. Di più: è espressione che non si trova mai, parlando del giudizio e della Corte di cassazione, fino agli anni ’20. Non la si trova nel Trattato di Luigi Mattirolo, nel Commentario di Ludovico Mortara, nelle Istituzioni di Giuseppe Chiovenda. Né queste espressioni sono state, non dico studiate, ma nemmeno usate, dai giuristi del passato che si occuparono della cassazione: da Giuseppe Pisanelli a Carlo Lessona, da Matteo Pescatore a Vittorio Emanuele Orlando.
8.2. Riscopre invece la distinzione tra ius constitutionis e ius litigatoris Piero Calamandrei con uno scritto minore giovanile[61]. Con esso, tuttavia, Calamandrei si limitava a richiamare la contrapposizione per come si era formata in età tardo-classica, senza storpiature particolari[62], avvertendo che la distinzione però avrebbe perso di significato con il basso medioevo”[63]. Dalla sentenza inesistente perché contra ius constitutionis alla sentenza appellabile perché contra ius litigatoris si passava così alla sentenza che, ove non impugnata, e in quanto passata in giudicato, era sempre efficace e vera, sulla falsariga di quello che per noi sarebbe stato successivamente l’art. 162 c.p.c. Di nuovo, si potrebbe ribadire che la contrapposizione tra ius constitutionis e ius litigatoris, per come sorta storicamente e per come riportata dallo stesso Piero Calamandrei, non ha pertinenza con il giudizio di cassazione. Il problema è che, successivamente, Piero Calamandrei si cimentava con il tema della cassazione, e scriveva su essa, come è noto, due ponderosi volumi; e in quei volumi, ovviamente, non faceva a meno di riportare quanto aveva già precedentemente scritto, e quindi riportò anche lo scritto giovanile sopra menzionato, ma lo fece nella parte introduttivo-storica dello studio sulla cassazione (vol. I, 21 e ss.; e 46 e ss.), senza attribuire a questa contrapposizione alcun valore specifico. Prova ne è che queste dissertazioni del Calamandrei non condizionarono la successiva dottrina sulla cassazione, che continuò ad occuparsi del tema senza quasi mai, ancora, far riferimento allo ius constitutionis e ius litigatoris. Niente di ciò, infatti, si trova ancora nella Logica del giudice e il suo controllo in cassazione di Guido Calogero, nel Manuale di Enrico Redenti, nella voce dell’Enciclopedia del Diritto di Salvatore Satta, nel Manuale di Virgilio Andrioli, nel saggio Il vertice ambiguo di Michele Taruffo; e così di seguito.
Solo ai nostri giorni si ripesca questa contrapposizione, e le si attribuisce un senso tutto nuovo: così, contra ius constitutionis non sono più le sentenze inesistenti perché pronunciate dal giudice in assenza o spregio di norme giuridiche; contra ius constitutionis sono viceversa tutte le sentenze che consentono alla cassazione di poter emanare pronunce aventi funzione di nomofilachia, ovvero pronunce in grado di fissare principi giuridici da rispettare in futuri casi. Parimenti contra ius litigatoris non sono più le sentenze con errata ricostruzione dei fatti o con violazione di legge relativamente alla sua applicazione concreta al fatto, ma sono tutte le questioni che interessano solo il ricorrente, e non consentono alla cassazione, con la pronuncia che le si chiede, di svolgere funzione di nomofilachia.
8.3. Dunque, sia consentito, la contrapposizione tra ius constitutionis e ius litigatoris per anteporre la funzione di nomofilachia a quella della decisione dei ricorsi può ritenersi operazione concettuale senza alcuna base storica, ovvero può semplicemente considerarsi frutto di una invenzione, perché la funzione della Corte di Cassazione non è né di ius constitutionis né di ius litigatoris, e perché la contrapposizione ha origini e significato del tutto diversi, che niente hanno a che vedere con la Corte di Cassazione, e tanto meno con la sua funzione di nomofilachia.
9. Però, al di là di tutto questo, negli anni ancora successivi il principio di nomofilachia ancor più si rafforza. Esso diviene, se non un proprio e vero diritto tiranno, quanto meno un’esigenza che prevale, e deve prevalere, su tutte le altre.
La dottrina si assesta nel ritenere la nomofilachia un valore costituzionale da ricondursi allo stesso art. 3 Cost..[64]: e addirittura taluni iniziano a sostenere che lo stesso art. 111 Cost. andrebbe abrogato nella parte che qui interessa[65], o quanto meno letto in modo tale da assicurare che “il numero dei ricorsi sui quali la Corte abbia a pronunciarsi nel merito sia tendenzialmente ridotto” affinché “la Corte si pronunci solo quando la violazione di legge denunciata involga una questione di rilievo generale o sia stata risolta in contrasto con orientamenti costanti della corte”[66]. L’idea che inizia a prendere corpo è quella che la funzione di nomofilachia debba assicurarsi con la riduzione del diritto al ricorso, e a prova di ciò può essere portato il nuovo art. 360 bis c.p.c. di quegli anni[67].
Con il nuovo millennio gli interventi sulla nomofilachia si fanno sempre più forti e radicali[68]; e se si volge uno sguardo alla dottrina più recente, si scopre che, in realtà, attualmente, non abbiamo più una nomofilachia, ma infinite sfumature di essa: abbiamo una nomofilachia diretta e una indiretta[69], una nomofilachia statica e una nomofilachia dinamica, una nomofilachia di settore e una nomofilachia orizzontale[70], e poi una nomofilachia calcolabile[71], e una nomofilachia da studiare unitamente e in raffronto ad altri fenomeni: nomofilachia e solipsismo[72], nomofilachia e monoprotagonismo[73], nomofilachia e cronofilachia[74] ecc... Insomma, la nomofilachia è una e tante cose insieme, è una nomofilachia creativa[75], da analizzare quale “risposta legislativa alla postmodernità del discorso giuridico”[76], e da brandire, come “sempre più spesso infatti fa la Corte di Cassazione, come un randello”[77]. L’uniformità delle decisioni diventa un valore che supera tendenzialmente ogni altro, e la contrapposizione tra precedente vincolante della common law e precedente persuasivo della civil law, qualcosa che deve perdere la sua forza e tendenzialmente venire meno.
10. Stiamo così marciando, silenti e disattenti, verso la fine della libertà nell’interpretazione della legge. Della nomofilachia si esaltano i valori, ma se ne omettono i pericoli e degli inconvenienti. Il valore della nomofilachia è quello dell’ordine, e certo l’ordine è un principio cardine nell’amministrazione della cosa pubblica. Però, sia consentito, l’ordine, in una democrazia, è un valore se ogni tanto, accanto a sé, ha anche il disordine, poiché se al contrario tutto è invece sempre e solo ordine, allora lì qualcosa potrebbe entrare in crisi. Un contrasto di giurisprudenza è certamente un fenomeno negativo nell’amministrazione della giustizia; ma se un domani non dovessero più esserci contrasti in giurisprudenza, ciò sarebbe ancora peggio. Poiché un contrasto di giurisprudenza significa, in buona sostanza, che l’ordinamento accede ad un principio di libertà; un contrasto di giurisprudenza significa che i giudici sono liberi, e la libertà dei giudici è la condizione prima perché tutti noi lo si possa essere. Al contrario, se si manda ai giudici il messaggio che questi non devono interpretare la legge ma devono aderire all’interpretazione che della legge è già stata data; se si dà ai giudici una banca dati sempre più completa ed attrezzata in modo che su tutto sia possibile trovare un precedente; se si digitalizza il processo e si creano per il giudice degli automatismi che forniscono agevolmente la risoluzione dei casi; e se infine, fatto tutto questo, si aggiunge che se il giudice non dovesse trovare in quell’automatismo la risoluzione del caso questi non dovrebbe egualmente interpretare la legge ma rimettere la questione alla Corte di Cassazione ai sensi del nuovo art. 363 bis c.p.c., allora, evidentemente, noi non potremo più dire che i giudici si distinguono soltanto per funzioni, perché in realtà, non sarà più così; allora noi non potremo più sostenere che i giudici sono soggetti soltanto alla legge, perché in verità vi saranno altre cose, diverse dalla legge, in grado di determinarli; allora noi non potremo più affermare che la magistratura è un potere diffuso, perché non v’è diffusione del potere se la facoltà dello ius dicere è rimasta solo al vertice. E se il lavoro dei giudici si ridurrà a meri adempimenti burocratici, allora i giudici non si sentiranno più i destinatari di una funzione primaria dello Stato, si sentiranno dei semplici dipendenti, atti a sbrigare delle pratiche, per niente soddisfatti del lavoro svolto. E uno Stato democratico non può avere dei giudici che lavorino così.
In estrema sintesi, la nomofilachia non è un bene come la salute, che più se ne hai meglio è; è un bene che deve trovare dei limiti e dei bilanciamenti, come li ha sempre avuti, poiché altrimenti rischia di compromettere altri valori, altri principi, altre esigenze non meno rilevanti. E che la magistratura costituisca un potere diffuso, è un bene al quale non possiamo rinunciare.
10.2. Il rafforzamento della nomofilachia non poggia, poi, a pensarci, su niente, e lo scopo di questo saggio è proprio quello di ricordare questa evidenza: non sulla storia, poiché nella storia della nostra Italia la nomofilachia non ha mai rappresentato un punto centrale nella funzione giurisdizionale esercitata dalla Cassazione; non sulla Costituzione, poiché in Assemblea costituente, se si esclude Piero Calamandrei, nessuno pensava che la nomofilachia potesse essere una tecnica giudiziaria da ricondurre a principio costituzionale, e nessuno immaginò infatti di trasformare il precetto dell’art. 65 r.d. 12/41 in norma costituzionale; non sulla contrapposizione tra ius consistitutionis e ius litigatoris, poiché abbiamo visto che trattasi di una contrapposizione che ha origini totalmente diverse, che niente hanno a che vedere con la Corte di Cassazione; non su un valore ideologico, perché è fuori discussione che la nomofilachia abbia un aspetto autoritario, possa presupporre una struttura gerarchizzata della magistratura, tanto che da un punto di vista normativo la si trova infatti disciplinata solo nell’art. 65 del r.d. 12/41, ovvero in una normativa che fu varata dal fascismo: non la si trova nella legge di ordinamento giudiziario r.d. 6 dicembre 1865 n. 2626, non la si trova nella legge di ordinamento giudiziario r.d. 30 dicembre 1923 n. 2786, non la si trova nella Costituzione, non la si trova in altre leggi dell’età repubblicana. E dunque, il rafforzamento della nomofilachia, da parte sua, non ha che ragioni pratiche: essa ha preso corpo in modo direttamente proporzionale alla crisi della Corte di Cassazione; più la Cassazione è entrata in crisi per l’alto numero dei ricorsi, più si è diffusa l’idea di una nomofilachia forte. Ma la crisi della Cassazione non può costituire la ragione per portare la nomofilachia a dimensioni analoghe a quelle dello stare decisis. La nomofilachia ha già creato una miriade di ipotesi di inammissibilità dei ricorsi prima inesistenti, ha già ridotto i casi nei quali l’accesso in cassazione è possibile, ha già trasformato le udienze pubbliche in camere di consiglio e le sentenze in ordinanze; ora evitiamo che essa soffochi anche la libertà dei giudici di interpretare la legge. Noi non abbiamo ragioni per rincorrere i sistemi di common law; quei sistemi, infatti, hanno delle compensazioni che noi non abbiamo, e una storia completamente diversa dalla nostra.
10.3. Chiudo con un ricordo. Negli anni ’90, prima dell’arrivo della SSM, ho avuto l’onore e la fortuna di essere stato chiamato più volte a Frascati per i corsi formativi organizzati dal CSM. Lì ho avuto la possibilità di confrontarmi e discutere con magistrati che ovviamente ancora oggi bene ricordo; una grande e indimenticabile soddisfazione per me. Ricordo il mio entusiasmo di essere lì: restavamo lì a giorni, lì si mangiava, si dormiva, si passava anche il tempo libero passeggiando nel giardino. Uno di quei magistrati, in uno di quegli eventi, a tavola, una volta, facendo riferimento ai giovani che partecipavano ai corsi, mi disse: “Si tratta soprattutto di trasmettere loro il senso della giurisdizione, e dobbiamo averlo noi per prima questo senso della giurisdizione.” Il discorso non si sviluppò: io non chiesi all’interlocutore cosa intendesse per senso della giurisdizione, né l’interlocutore ritenne di dovermelo spiegare. Ricordo però che l’interlocutore disse questa cosa con un tale orgoglio, un tale senso di appartenenza, una tale consapevolezza del suo significato, che quella frase ancora oggi io non l’ho dimenticata. Mi fu subito chiaro che per senso della giurisdizione egli intendeva una cosa precisa, che non aveva bisogno di essere spiegata: si trattava di quella sintesi tra libertà e responsabilità che costituisce il compito primo, fondamentale, del giudice. Ebbene, credo sia necessario che quel senso della giurisdizione non si smarrisca, che ogni giudice continui a sentire quel senso, che abbia sempre la convinzione che nello svolgimento della delicata funzione dello ius dicere, nessuno sta sopra di lui, solo la legge, così come vuole l’art. 101, 2° comma Cost. Diceva Giuseppe Borrè: “Tutto ciò che è “super” ha in sé un virus nemico dei valori della giurisdizione”.
*Già in Ambientediritto, fasc. 1, 2023.
[2] Così espressamente AMOROSO – MORELLI, La funzione nomofilattica e la forza del precedente, in AA.VV., La cassazione civile, Bari, 2020, 473.
[3] CURZIO, Il giudice e il precedente, Quest. Giustizia 4/2018, 37 e ss.
[4] RORDORF, Stare decisis: osservazioni sul valore del precedente giudiziario nell’ordinamento italiano, Foro it., 2016, V, 279.
[5] CALAMANDREI, La cassazione civile, ora in Opere giuridiche, Napoli, 1976, VI, VII; ed in forma più ridotta anche in ID., Cassazione civile, voce del Nuovo Digesto it., Torino, 1937, XVI, 981 e ss.; nonché ID., Per il funzionamento della cassazione unica, Riv. dir. pubbl., 1924, 317 e ss.
[6] V. infatti CALAMANDREI, La cassazione civile, cit., VII, 390 e ss.; ID, Cassazione civile, voce del Nuovo Digesto it., cit., 1031.
[7] V. infatti sul punto TARUFFO, Il vertice ambiguo, Bologna, 1991, 55, per il quale “Calamandrei.........lega il tema della cassazione unica ad una serie di interventi di riforma che gli appaiono necessari per consentire alla Corte di svolgere in modo ottimale le sue funzioni”.
[8] CALAMANDREI-FURNO, Cassazione civile, voce del Noviss. Digesto, Torino, 1968, II, 1056.
[9] Sul punto v. infatti la recensione di E. FINZI, Recensione a P. Calamandrei, in Arch. Giur., 1922, 107 e ss.: “Quanto alla sua concludenza, dirò francamente che la dottrina del Calamandrei mi ha lasciato assai perplesso: io temo forte che il bell’edificio, costruito con mirabile arte dialettica, sia piuttosto debole nella sua fondamenta” (FINZI, op. cit., 123). Finzi, infatti, ritiene che l’errore in cui cade Calamandrei sia proprio quello di considerare la nomofilachia come funzione prima, e fors’anche unica, della Cassazione. Continua FINZI, op. cit., 123: “....che lo scopo di nomofilachia non possa più essere nell’essenza stessa dell’Istituto, anche il C. tende a riconoscere.........storicamente si dimostra che ogni istituto di nomofilachia deve essere estraneo all’ordinamento giudiziario..............Ad escludere poi la nomofilachia dalle finalità tipiche della cassazione moderna, alle ragioni logiche e storiche ricordate, se ne aggiunge un’altra di indole sociologica”.
[10] Così SATTA, Corte di cassazione, voce dell’Enc. del Diritto, Milano, 1962, X, 797 e 799, per il quale vi sono: “ricerche pressoché impossibili, perché bisognerebbe aver vissuto in quel tempo”, e “tale diversità sarebbe data dallo scopo che sarebbe stato attribuito alla Corte (ignoto al Tribunal) di unificare la giurisprudenza. Noi siamo scettici”, Per talune note critiche alla ricostruzione storica della Cassazione in Calamandrei v. anche TARUFFO, Il vertice ambiguo, cit., 49. Per le (possibili) ragioni per le quali Calamandrei assunse certe posizioni (soprattutto nel secondo volume) v. CIPRIANI, Il progetto del guardasigilli Mortara e i due volumi di Calamandrei, in Giust. Proc. civ., 2008, 791 e ss.
[11] MORTARA, Commentario del codice e delle leggi di procedura civile, Milano, 1923, II, 21-22: “La Corte di cassazione non è istituita per la difesa astratta del diritto obiettivo, ma per mezzo di tale difesa tende a reintegrare il diritto subbiettivo dei litiganti, al pari di ogni altro organo della funzione giurisdizionale……..poiché il reclamo del cittadino che reputa leso il proprio diritto dalla sentenza del giudice inferiore è la causa normale che provoca l’esercizio della sua giurisdizione”.
[12] Chi mi conosce, sa quanto io ami Piero Calamandrei, a mio parere il più grande processualista del ‘900 (v. SCARSELLI, In devoto omaggio, Pisa, 2022, 87 e ss.).
Però, sulla Cassazione, Piero Calamandrei è un mistero.
È un mistero che è stato (anche) oggetto di particolare indagini, e non posso, in questo contesto, non ricordare Franco CIPRIANI, Piero Calamandrei e l’unificazione della Cassazione, in AA.VV., Poteri del giudice e diritti delle parti nel processo civile, Napoli, 2010, 275 e ss.; e poi ancora CIPRIANI, Piero Calamandrei e la procedura civile, ed. II, ESI, Napoli, 2009; ID, Storie di processualisti e di oligarchi, Milano, 1991, 317 e ss.; ID, Scritti in onore dei patres, Milano, 2006, 435 e ss..
[13] V. già SCARSELLI, La crisi della cassazione civile e i possibili rimedi, Giusto proc. civ., 2010, 653 e ss..
[14] A conferma di ciò ricordo l’art. 2 del decreto 27 novembre 1790, che, nel fissare i compiti del nuovo Tribunal de cassation, espressamente asseriva: “Les fonctions du tribunal de Cassation seront de prononcer sur toutes les demandes en Cassation contre les Jugements rendu en dernier ressort, de juger les demandes de renvoi d’un tribunal à un autre pour cause de suspicion légitime, les confluite de jurisdiction et les règlements de juges, les demandes de prise à partie contre un tribunal entier” (in CABERLOTTO, Cassazione e Corte di cassazione, voce del Digesto, Torino, 1887-1896, VII, I, 36). Dunque, al momento, nessun riferimento, nemmeno indiretto, si faceva ad una presunta funzione del Tribunal de cassation di uniformare gli orientamenti giurisprudenziali.
[15] PICARDI, Giuseppe Pisanelli e la cassazione, Riv. dir. proc., 2000, 637.
[16] Vedilo in PICARDI-GIULIANI, Testi e documenti per la storia del processo, Milano, 2004, II, VI.
[17] V. SCARSELLI, La corte di cassazione di Firenze (1838 – 1923), Giusto proc. civ., 2012, 623; ed anche in SCARSELLI, Per un ritorno al passato, Milano, 2012, 195 e ss.
[18] Vedilo anche nel Codice di procedura civile del regno di Sardegna a cura di PICARDI-GIULIANI, Testi e documenti per la storia del processo, Milano, 2004, II, XII. Nello Stato pontificio veniva accolta l’idea di una Corte di terzo grado, seppur con significative differenze rispetto al modello francese, con il Regolamento gregoriano del 10 novembre 1834 (v. PICARDI-GIULIANI, Testi e documenti per la storia del processo, Milano, 2004, II, X), mentre l’idea di una Corte di Cassazione non veniva accolta per niente nel Lombardo-Veneto, atteso che la legislazione austriaca e tedesca rimase estranea a questa istituzione (v. anche PICARDI, Il regolamento giudiziario di Giuseppe II e la sua applicazione nella Lombardia austriaca, Riv. dir. proc., 2000, 36).
[19] Lo sostiene anche TARUFFO, Il vertice ambiguo, cit., 63, nota 13, per il quale “Di essa (della nomofilachia) non vi è traccia, infatti, né nella disciplina della Cassazione in Francia, né in quella delle legislazioni italiane preunitarie e unitaria”.
[20] PISANELLI, Relazione ministeriale sul progetto del codice di procedura civile, presentata al Senato nella tornata del 26 novembre 1863, La legge, 1865, V, 237.
[21] G. SAROCCHI, S. LESSONA, E. FINZI, E. BARSANTI, A. TELLINI, Sul problema delle Cassazioni territoriali, Firenze, 1923, 7.
[22] CARCANO, La cassazione e lo statuto, Mon. Trib., 1872, XIII, 31.
[23] V. in proposito MATTIROLO, Trattato di diritto giudiziario civile, 1896, IV, 1080, per il quale “Per le parti della sentenza che furono cassate, e per le quali si fece luogo al rinvio, il giudice del rinvio, ha, nel sistema della legge vigente, una giurisdizione PIENA, LIBERA, ASSOLUTA....... (maiuscolo di Mattirolo)...........Questa giurisdizione non gli è già delegata dalla Corte di cassazione.........il giudice del rinvio è investito direttamente ed esclusivamente della sua giurisdizione dalla legge”.
[24] Per questo dibattito v. infatti CABERLOTTO, Cassazione e Corte di cassazione, cit., VII, I, 41 e ss. (il titolo I della voce è infatti intitolato dall’autore: “Cassazione o Terza Istanza?”); ed anche F.S. GARGIULO, Cassazione, voce dell’Enciclopedia giuridica italiana diretta da P.S. Mancini, Milano, 1905, III, II, 21 e ss.
[25] Una delle più autorevoli in tal senso fu quella di MATTIROLO, Trattato di diritto giudiziario civile, cit., IV, 866 e ss.
[26] MANCINI, Discorso tenuto alla Camera dei Deputati nella Seduta del 20 febbraio 1865, VIII legislatura Sessione 1863-65, in Discorsi parlamentari, Roma, 1893, 217.
[27] V. gli studi indicati nella nota che segue, e CIPRIANI, Storie di processualisti e di oligarchi, Milano, 1991, 235, per il quale: “Mussolini, dunque, in pochi mesi riuscì a fare quello che non si era riusciti a fare in sessant’anni”.
E non a caso, infatti, tal cosa, predicata da taluni (ma contrastata da altri) per oltre sessanta anni, veniva a realizzarsi proprio con l’avvento del fascismo, e in modo del tutto singolare, poiché si realizzava con un decreto (r.d. 601/1923) emanato in forza di una legge delegata, la legge 3 dicembre 1922 n. 1601, che non consentiva affatto una simile decisione, poiché la delega fissata in quella legge aveva ad oggetto il solo “riordinamento del sistema tributario e della pubblica amministrazione” (v., sul punto, MECCARELLI, Le corti di cassazione nell’Italia unita, Milano, 2005, 33), riordino che difficilmente poteva comportare anche l’abolizione di uffici giudiziari dell’importanza delle Corti di cassazione di Torino, Firenze, Napoli e Palermo.
Si tratta, pertanto, di un colpo di mano, e non certo di una decisione presa con l’analisi e la compiuta ponderazione delle problematiche emerse fin dal 1865, colpo di mano confermato anche dalla successiva rimozione di Mortara dalla presidenza della Corte, avvenuta con r.d. 3 maggio 1923 n. 1028 (v. CIPRIANI, Storie di processualisti e di oligarchi, cit., 236 e ss.) e la nomina del nuovo presidente nella persona di Mariano D’Amelio.
E conferma di ciò si trova ancora nelle pagine di S. LONGHI, Presentazione a Studi in onore di Mariano d’Amelio, Roma, 1933, I, V, per il quale: “Soltanto da Roma devono emanare le massime della interpretazione della legge, le quali tanto più contribuiscono alla prosperità del popolo quanto più sono sapientemente interpretate con fermezza e con costanza di decisioni per i casi analoghi”.
[28] V. infatti anche MAROVELLI, L’indipendenza e l’autonomia della magistratura italiana, dal 1848 al 1923, Milano, 1967, 272 e ss.; nonché TARUFFO, La giustizia civile in Italia dal ‘700 a oggi, Bologna, 1980, 216 e ss.
[29]È cosa riconosciuta anche da CALAMANDREI, Cassazione civile, voce del Nuovo Digesto it., cit., 1030, che sulla scelta della cassazione unica del ’23 scrive: “Il rafforzamento dell’autorità dello Stato operatosi in Italia in quest’ultimo decennio, non poteva che rafforzare insieme l’idea che sta alla base della cassazione............l’idea romana della prevalenza dell’interesse pubblico sull’interesse privato, della supremazia dello stato sulla volontà individuale”.
[30] Lo rileva anche TARUFFO, Il vertice ambiguo, cit., 63, per il quale “il t.u. sull’ordinamento giudiziario (introdotto con il r.d. 30 dicembre 1923 n. 2786) non cambia nulla per quanto attiene alla funzione della Cassazione”.
[31] Così Cass. Firenze 4 luglio 1887, Temi veneta, 1887, 397.
[32] V. infatti Cass. Firenze 6 giugno 1887, La Legge, 1887, II, 726.
[33] V. infatti Cass. Torino 12 agosto 1884, La legge, 1884, II, 657.
[34] V., infatti, La costituzione della Repubblica nei lavori preparatori dell’Assemblea costituente, Roma, Camera dei Deputati, 1976, VIII, 1958.
[35] op. cit., VIII, 1958.
[36] V. ancora op. cit., VIII, 1958-9.
[37] op. cit., VIII, 1961.
[38] op. cit., VIII, 1962.
[39] op. cit., VIII, 1957.
[40] op. cit., VIII, 1957.
[41] Così, espressamente, il verbale dei lavori, in op. cit., VIII, 1957.
[42] op. cit., VIII, 1957.
[43] op. cit., I, LXVIII.
[44] op. cit., VIII, 1958.
[45] V. seduta pomeridiana del 27 novembre 1947, op. cit., 415
[46] TARGETTI, op. cit., V, 4169.
[47] V. ancora op. cit., V, 3659 e ss.
[48] Per questi aspetti v. e MARTONE, Unicità della cassazione e unità della giurisdizione nei lavori dell’Assemblea costituente, in Atti del convegno Giurisdizione e giudici nella Costituzione, Roma 18 giugno 2008, in Quaderni del CSM, 2009, n. 155, 100 e ss.
[49] Salve mie mancanze, il dato lo trovo espresso in modo chiaro solo in IMPAGNATIELLO, Il concorso tra cassazione e revocazione, Napoli, 2003, 391: “Quel che è certo è che l’art. 111 Cost. non fa alcun riferimento alla nomofilachia, neppure solo indiretto”.
[50] SENESE, Funzioni di legittimità e ruolo di nomofilachia, Foro it. 1987, V, 263: “Mi pare difficilmente contestabile l’osservazione che la nascita dell’istituto della cassazione e della funzione di nomofilachia sia storicamente e strutturalmente legata ad un modello statuale accentrato, geloso della sovranità nazionale, gerarchizzato, ed ad una struttura piramidale della giustizia, e che tutto diverso sia il modello statuale disegnato dal nostro sistema costituzionale”.
[51] M. PIVETTI, Osservazioni sul modello di Corte di Cassazione, in MANNUZZU – SESTINI, Il giudizio di cassazione nel sistema delle impugnazioni, Democrazia e diritto, 1/1992, 274, menzionato da IMPAGNATIELLO, cit., 391: “È certo che tale compito (la nomofilachia) non è l’unico né il principale tra quelli attribuiti alla suprema Corte, sicché la sua realizzazione non può in alcun caso essere perseguita a scapito della funzione consistente nell’assicurare alle parti la garanzia del caso concreto”.
[52] FRANCESCHELLI, Nomofilachia e Corte di cassazione, in Giustizia e costituzione, 1986, 39: “In un sistema caratterizzato dal pluralismo..........il bene supremo della giustizia, non è........una staticità e uniformità di giurisprudenza....ma è, al contrario, una disponibilità ad intendere il nuovo e ad interpretare il pluralismo, e quindi ad un confronto continuo di posizioni”.
[53] Per tutto questo dibattito in quegli anni v. DENTI, A proposito di Corte di Cassazione e di nomofilachia, Foro it., 1986, V, 417; TARUFFO, La Corte di cassazione e la legge, Riv. trim. dir. proc. civ., 1990, 349; CHIARLONI, La cassazione e le norme, Riv. dir. proc., 1990, 982; ID., Efficacia del precedente giudiziario e tipologia dei contributi della giurisprudenza, Riv. trim. dir. proc. Civ., 1989, 118; MONTESANO, Aspetti problematici del potere giudiziario, id., 1991, 665; LA GRECA, Quale cassazione? Proposte dell’assemblea generale, Dir. pen. e proc., 1999, 784; ed ancora CHIARLONI, Un mito rivisitato: note comparative sull’autorità del precedente giurisprudenziale, Riv. dir. proc., 2001, 614.
[54] V. PROTO PISANI, Cassazione civile e riforme costituzionali, Foro it., 1998, V, 167.
[55] AA.VV., Per la corte di cassazione, Foro it., 1987, V, 205 e ss.; AA.VV., La cassazione civile, id., 1988, V, 1 e ss.
Successivamente BORRÈ – PIVETTI – ROVELLI, Dibattito su…..la cassazione e il suo futuro, Quest. Giust., 1991, 817; PIZZORUSSO, La corte suprema di cassazione: problemi organizzativi, Doc. giustizia, 1991, 5, 15.
[56] V. anche BRANCACCIO, Della necessità urgente di restaurare la Corte di cassazione, Foro it., 1986, V, 461. Precedentemente MIRABELLI, Discorso di commiato del primo presidente della Corte di cassazione, Foro it., 1985, V, 222.
[57] SCARSELLI, Sulla distinzione tra ius constitutionis e ius litigatoris, Riv. dir. proc., 2017, 355 e ss.
[58] V. in argomento ORESTANO, L’appello civile in diritto romano, Torino, 1953, 276; LAURIA, Contra constitutiones, in Studi e ricordi, Napoli, 1983, 79; PUGLIESE, Note sull’ingiustizia della sentenza nel diritto romano, in Studi in onore di Emilio Betti, Milano, 1962, III, 775.
[59] Sulla nullità della sentenza SCIALOIA, Procedura civile romana, Roma, 1894, 266; F. VASSALLI, Studi giuridici, Milano, 1960, III, 1, 389 e ss.
[60] Peraltro, in quel passo, non si dà una definizione della contrapposizione tra ius constitutionis e ius litigatoris, ma si procede con un esempio.
Si dice: se il giudice dichiari che né il numero dei figli, né una determinata età, né alcun privilegio in capo al richiedente possano esonerarlo dai servizi pubblici (munera) o dall’ufficio della tutela (ovvero il giudice, contrariamente al diritto vigente, affermi l’inesistenza di una norma in vigore), egli pronuncia contra ius constitutionis, e la sua sentenza è inesistente/nulla. Se invece il giudice non neghi che dette circostanze possano effettivamente comportare l’esonero dai servizi pubblici o dalla tutela, così come infatti le norme dispongono, ma non le accerti per errore nella persona del richiedente, egli allora pronuncia contra ius litigatoris, e la sentenza in questi casi, al contrario, è valida ed efficace, e solo può essere rimossa con l’impugnazione dell’appello.
Il passo del Digesto, e questa esemplificazione, vengono così comunemente interpretate dalla dottrina romanista nel senso che la contrarietà allo ius constitutionis, e quindi la nullità della sentenza, vi è quando il giudice, nel sillogismo logico, erra nel porre la premessa maggiore, affermando, anche in via di interpretazione, l’esistenza di una norma che non esiste, o negando l’esistenza di una norma che c’è. Viceversa se il giudice pone correttamente la premessa maggiore, ma erra nella ricostruzione del fatto, o nel percorso logico che, data la premessa minore del fatto, porta alla conclusione, allora il giudice pronuncia sentenza contra ius litigatoris.
Vi sono, ovviamente, tra gli studiosi di diritto romano, discussioni sull’interpretazione del principio del Digesto, e per queste possiamo rinviare agli studi giuridici, ad esempio, di Filippo Vassalli o di Riccardo Orestano; ma sono discussioni su aspetti di contorno, che non interessano il problema che qui stiamo affrontando.
Per quello che a noi interessa, si ribadisce, il giudice pronuncia contra ius constitutionis quando erra nel porre la regola giuridica della premessa maggiore del sillogismo; pronuncia al contrario contra ius litigatoris quando erra nella ricostruzione del fatto o nella sussunzione della norma al fatto.
[61] CALAMANDREI, La teoria dell’error in iudicando nel diritto italiano intermedio, in Rivista critica di scienze sociali, 1914, 8 e ss.; anche in Studi sul processo civile, Padova, 1930, I, 143.
[62] CALAMANDREI, La teoria dell’error in iudicando nel diritto italiano intermedio, in Rivista critica di scienze sociali, cit., 146: “La distinzione delle sentenze in due classi, secondo che esse violassero lo ius constitutionis o lo ius litigatoris si basava dunque su un criterio di ordine costituzionale. Finché il giudice si limitava a commettere errori nell’accertamento del fatto o nell’applicazione della norma al fatto, egli rimaneva nel campo di funzioni a lui demandato, e, se commetteva degli errori, li commetteva nell’ambito del suo potere (ius litigatoris); ma se il giudice si metteva in aperto contrasto col precetto della legge allora eccedeva il potere che l’ordinamento pubblico gli aveva attribuito e non funzionava più come organo giurisdizionale (ius constitutionis).”
[63] V. CALAMANDREI, La teoria dell’error in iudicando nel diritto italiano intermedio, in Rivista critica di scienze sociali, cit., 153, ovvero quando si inizia invece a ritenere che: “la sentenza passata in giudicato pro veritate habetur e la sua autorità è tanta che essa può fare de non ente ens, de falso verum et de albo nigrum.”
[64] CROCE, La lunga marcia del precedente: la nomofilachia come valore costituzionale?, a proposito di Corte costituzionale 30/2011, Contratto e impresa, 2011, 847.
[65] Così CHIARLONI, Sui rapporti tra funzione nomofilattica della cassazione e principio della ragionevole durata del processo, in www.judicium.it.; ed anche CARPI, L’accesso alla Corte di cassazione ed il nuovo sistema di filtri, nel Convegno Giurisdizione di legittimità e regole di accesso nell’esperienza europea, (Roma, 5 marzo 2010, organizzato dalla Corte suprema di Cassazione), per il quale dovremmo pensare “alla modifica dell’art. 111, 7° comma, della Costituzione, attraverso un più moderno bilanciamento della garanzia per il singolo con la garanzia, questa sì fondamentale, per e dell’ordinamento”.
[66] Così PROTO PISANI, Sulla garanzia costituzionale del ricorso per cassazione sistematicamente interpretata, Foro it., 2009, V, 381; ma v. già ID., Crisi della cassazione: la (non più rinviabile) necessità di una scelta, Foro it., 2007, V, 122. Precedentemente in argomento v. DENTI, L’art. 111 della costituzione e la riforma della cassazione, Foro it., 1987, V, 228.
[67] In questo senso v. già l’art. 131 del progetto della commissione bicamerale presieduta da Massimo D’Alema, che nell’ottobre del 1987 prevedeva che “contro le sentenze è ammesso ricorso per cassazione nei casi previsti dalla legge, che assicura comunque un doppio grado di giudizio”. In argomento BILE, La commissione bicamerale e la corte (“suprema”?) di cassazione, Giust. Civ., 1998, II, 65.
[68] LA TORRE, La corte di cassazione italiana all’inizio del duemila, Foro it., 2000, V, 107; CARBONE, Organizzazione del lavoro della cassazione e ordinamento giudiziario, Corr. Giur., 2000, 124.
[69] v. E CARBONE, Quattro tesi sulla nomofilachia, Politica del diritto, 2004, 599; G.S. COCO, Esatta interpretazione e nomofilachia: appunti critici, Legalità e giustizia, 2006, I, 7.
[70] COSTANTINO, Appunti sulla nomofilachia e sulle nomofilachie di settore, Riv dir. proc., 2018, 1443; SPANGHER, Nomofilachia rinforzata, serve trasparenza, Diritto penale e processo, 2018, 985; CARRATTA, Il P.M. in cassazione promotore di nomofilachia, Giur. it., 2018, 772; CANZIO, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, Contratto e impresa, 2017, 364.
[71] CANZIO, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, Contratto e impresa, cit., 364.
[72] CANZIO, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, Contratto e impresa, cit., 364.
[73] COMOGLIO, Nomofilachia o nomoprotagonismo?, Nuova giur. civ. comm., 2011, 10253.
[74] AULETTA, Dalla nomofilachia alla cronofilachia: le Sezioni unite esigono il tempestivo deposito della sentenza munita di relata, Riv. dir. proc., 2010, 180.
[75] CARRATTA, L’art. 360 bis c.p.c.e la nomofilachia creativa dei giudici della cassazione, Giur. it., 2011, 885.
[76] CANZIO, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, Contratto e impresa, cit., 364.
[77] SASSANI, Si dice nomofilachia ma non si sa dove il sia, Riv. es. forzata., 2011, 4.
di Paola Ghinoy
Sommario: 1. La questione affrontata - 2. La certezza del diritto come valore - 3. I casi di “imprevedibilità strutturale” della decisione: 3.1. Le questioni nuove - 3.2. Le clausole generali - 3.3. L’adeguamento a principi sovranazionali specifici e determinati – 3.4. La mancata rispondenza sopravvenuta delle norme al contesto di riferimento – 4. Il ruolo del giudice del lavoro
1. La questione affrontata [1]
La domanda che mi viene posta dal moderatore è la seguente: «Nella loro attività interpretativa i giudici possono esprimere una volontà soggettiva in conflitto con quanto dichiarato dalla “legge”? Se ciò è possibile, come possono farlo rispettando l’etica costituzionale della funzione giudiziaria?
Prendendo a prestito le parole di Omar Chessa “la discrezionalità chiamata in causa dai concetti valutativi incorporati nel diritto deve essere esercizio di ratio e non di voluntas”.
Del resto, l’onere della motivazione impone al giudice di prendere in considerazione, e di confrontarsi, con le diverse concezioni e interpretazioni accreditate nel dibattito teorico e giurisprudenziale e gli prescrive di fornire argomenti coerenti, pertinenti, idonei a sorreggere la valutazione alla quale egli giunge.
Così Gino Scaccia che, che riferendosi proprio al giudice, con una sintesi felice precisa: “La sua discrezionalità soggettiva è in tal modo contenuta dall’esigenza di oggettivizzarsi in un percorso motivazionale basato sulla coerenza tra le parti del discorso, la plausibilità rispetto ai paradigmi interpretativi e applicativi preminenti, la corrispondenza delle conclusioni raggiunte a una complessiva ragionevolezza”.
Per altro verso, l’elasticità dei concetti giuridici e la difficoltà per il giudice di riempire la cornice dispositiva attingendo a principi consolidati e stabili paradigmi culturali, porta ad ampliare i confini della creatività giurisprudenziale: soprattutto in questi casi il giudice è tentato di essere infedele alla legge ingiusta forzando gli strumenti dell’interpretazione, pur di ricondurla a un ideale di equità e ragionevolezza, ma incontra i limiti sistemici della separazione dei poteri.
In conclusione, quali sono i presupposti e limiti della discrezionalità del giudice-interprete?»
La domanda è fondamentale e investe i presupposti e limiti della discrezionalità del giudice-interprete. Gli interventi sul tema di Riccardo Del Punta, anche fortemente critici rispetto a certe impostazioni interpretative, non sono mancati, e hanno avuto il pregio di invitare anche noi magistrati ad un’auto-analisi e ad interrogarci sulla nostra identità di giuristi. [2]
Cercherò quindi di affrontare questi temi, senza la pretesa di rispondere esaurientemente, ma esponendo il frutto di una riflessione che mi ha accompagnato nel corso della mia vita professionale e che ancora mi accompagna.
2. La certezza del diritto come valore
Siamo tutti consapevoli del valore della certezza del diritto e della prevedibilità della decisione.
Ricordava Norberto Bobbio che il diritto o è certo o non è diritto. Un diritto non prevedibile lede il principio di eguaglianza, in quanto la difformità di decisioni su casi simili implica che due situazioni uguali vengano trattate in modo difforme. La certezza del diritto è insomma, per Bobbio, ma non solo per lui, il fondamento dell’eguaglianza e della legalità. Una sollecitazione forte alla prevedibilità delle decisioni viene anche dagli economisti, che ricordano come l’alea dei giudizi scoraggia gli investimenti dall’interno e dall’ esterno del Paese.
Assai significativo è che il Presidente della Repubblica, che è anche il Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, alla cerimonia d’inaugurazione della terza sede della Scuola Superiore della Magistratura a Castel Capuano lo scorso 15/05/2023 abbia sentito il bisogno di sottolineare la funzione dichiarativa assolta dalla giurisprudenza, con esclusione di qualunque efficacia direttamente creativa. Ha altresì ribadito che l’uniformità delle decisioni non rappresenta un limite all’attività decisionale, ma ne costituisce un punto di approdo, in quanto è diretta a promuovere la prevedibilità delle decisioni e, dunque, la loro comprensibilità e la loro autorevolezza.
Non possiamo sottrarci a tale richiamo.
Ho quindi potuto particolarmente apprezzare nel corso delle mie funzioni di Consigliere della Corte di Cassazione gli sforzi effettuati per la sua attuazione.
Un particolare rilievo in tal senso ha rivestito la rigorosa applicazione del terzo comma dell’articolo 374 cpc, introdotto dal d.lgs 2 febbraio 2006, n. 40, secondo cui «se la sezione semplice ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle Sezioni unite, rimette a queste ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso». Si tratta di una norma introdotta nella prospettiva della prevenzione e del superamento dei contrasti, quindi del rafforzamento della funzione nomofilattica assegnata dall’articolo 65 della legge di ordinamento giudiziario alla Corte di cassazione e, in particolare, della garanzia della uniforme interpretazione e applicazione del diritto oggettivo. La norma, come è stato scritto, presenta una forte valenza di principio [3], perché con essa si afferma, per la prima volta nel nostro ordinamento, «un (sia pur circoscritto) valore legale del precedente», prevedendosi un vincolo di coerenza al quale la sezione semplice della Corte di cassazione è tenuta ad attenersi nel concreto esercizio della giurisdizione.
La ricerca dell’uniformità delle decisioni ha condotto nella Sezione lavoro della Corte di Cassazione anche ad un significativo sforzo organizzativo, con la divisione dei collegi in aree tematiche e lo spoglio accurato delle sopravvenienze, al fine di trattare questioni omogenee in specifiche udienze “dedicate”, così da evitare contrasti inconsapevoli ed armonizzare le soluzioni di casi analoghi.
3. I casi di “imprevedibilità strutturale” della decisione
Vi sono tuttavia situazioni ed altri contesti per i quali esiste una sorta di “imprevedibilità strutturale” della decisione (secondo la locuzione utilizzata da Oronzo Mazzotta) [4]. Casi che mettono l’interprete di fronte a situazioni non risolvibili sulla base del richiamo ai precedenti e che come tali impegnano il Giudice ad uno sforzo interpretativo autonomo.
Casi che, a ben vedere, mettono in crisi la “giustizia predittiva”, pur nelle sue elaborazioni più attente [5].
3.1. Tra i primi vi è la decisione delle questioni nuove, in relazione alle quali non si è ancora consolidato un orientamento di merito né tantomeno è intervenuto un chiarimento di legittimità.
Per queste ipotesi potrà giovare il rinvio pregiudiziale introdotto con il D.lgs n. 149 del 2022, la c.d. riforma Cartabia, all’art. 363-bis c.p.c.
In base a tale nuovo istituto, il giudice di merito può rimettere alla Corte di cassazione la soluzione di una questione esclusivamente di diritto, necessaria alla definizione anche parziale del giudizio e che non sia stata ancora risolta dalla Corte di cassazione, a condizione che la questione presenti gravi difficoltà interpretative e sia suscettibile di porsi in numerosi giudizi.
La decisione della Cassazione è vincolante solo nell’ambito del processo in cui viene resa, ma non vi è dubbio che essa costituirà un precedente di riferimento anche per i giudici che comunque si troveranno ad affrontare la medesima questione.
Tale istituto non sarà comunque risolutivo dei possibili contrasti, considerato che il principio di diritto reso dalla Cassazione potrà operare solo con riguardo alla questione devoluta, che risente della ricostruzione della fattispecie e delle allegazioni e conclusioni delle parti in quel giudizio, sicché non potrà essere idoneo a dirimere tutte le possibili questioni analoghe.
3.2. Altra ipotesi di c.d. imprevedibilità strutturale della decisione è quella determinata dall’applicazione delle clausole generali, ovvero di quelle fattispecie in cui il criterio di valutazione non è individuato, ma richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione richiama tacitamente (per il diritto del lavoro particolare rilievo assumono tra le altre la buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto e la giusta causa di risoluzione del rapporto) [6]. Rispetto ad esse è lo stesso legislatore che ha costruito una sorta di indeterminatezza intenzionale, allo scopo di adeguare le norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo.
Il legislatore con l'art. 30, co. 1, della L. n. 183 del 2010 ha inteso limitare la discrezionalità interpretativa del giudice del lavoro nei casi nei quali le disposizioni di legge in tema di rapporto di lavoro privato o pubblico contengano clausole generali, escludendone il sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente.
Ciò non esclude tuttavia che nel caso delle clausole generali il giudice di merito debba operare in concreto, determinando soluzioni non puntualmente prevedibili ex ante, con la conseguenza che la mediazione fra i contrapposti interessi delle parti deve necessariamente essere operata sul campo e con riferimento ad una specifica fattispecie.
Non si può in proposito far altro che affidarsi alla tipizzazione giurisprudenziale creatasi nel tempo, al fine di appagare quelle esigenze di uniformità che consentono, a loro volta, di assicurare una certa prevedibilità della decisione, sempre che non sopravvengano modifiche negli stessi parametri esterni da applicare.
3.3. Si può poi presentare la necessità di adeguamento a principi sovranazionali che impongano la disapplicazione di norme in contrasto.
Ancora di recente, nella sentenza del 19 settembre resa in Causa C-113/22, nell’affermare che deve essere considerata discriminatoria – e in quanto tale lesiva dei principi di diritto comunitario – la normativa spagnola che prevede una integrazione della pensione di invalidità soltanto per le madri e non anche per i padri, la Corte UE ha ribadito al punto 41 della motivazione che quando una discriminazione, contraria al diritto dell’Unione, sia stata constatata e finché non siano adottate misure volte a ripristinare la parità di trattamento, il rispetto del principio di uguaglianza può essere garantito solo mediante la concessione alle persone appartenenti alla categoria sfavorita degli stessi vantaggi di cui beneficiano le persone della categoria privilegiata. In tale ipotesi, continua la Corte UE, il giudice nazionale è tenuto a disapplicare qualsiasi disposizione nazionale discriminatoria, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione da parte del legislatore, e deve applicare ai componenti del gruppo sfavorito lo stesso regime che viene riservato alle persone dell’altra categoria.
Ciò è quanto è avvenuto in Italia nel caso del caso dell’assegno per il nucleo familiare disciplinato dall’art. 2 del d.l. 69/1988 convertito in l. 153/1988, in relazione al quale dopo gli interventi della Corte di Cassazione, della Corte UE , ancora della Corte di Cassazione ed infine della Corte Costituzionale con la sentenza n. 67/2022, si è definitivamente chiarito l’ obbligo per il giudice nazionale di disapplicare la normativa interna che escludeva di prendere in considerazione i familiari del soggiornante di lungo periodo che risiedano in un paese terzo.
In tali casi, che non sono limitati alla normativa antidiscriminatoria ma attengono a tutte le direttive che pongano principi specifici e determinati, si può realizzare, per definizione e sino ad un nuovo intervento del legislatore, uno scollamento ad opera dei giudici rispetto alle decisioni adottate nel rispetto della normativa nazionale, non più coerente con i principi del sistema complesso di norme nel quale ci troviamo ad operare.
3.4. Esiste poi un’ulteriore specie d’ imprevedibilità che deriva dal legislatore stesso, in particolare quando quest’ultimo non è intervenuto (non ancora, o non ha la forza politica per intervenire) su una determinata situazione o su un determinato istituto del quale sia acclarato il superamento.
Si pongono infatti casi in cui le norme, quali risultanti per effetto dell’interpretazione che si è andata consolidando, non rispondono più al mutato contesto sociale sottostante.
Si pensi al recente dibattito sulla natura precettiva dell’art. 36 della Costituzione e all’ammissibilità dell’intervento giudiziale sull’ammontare delle retribuzioni previste dai contratti collettivi.
L’art. 36 della Costituzione, com’è noto, stabilisce il diritto di ogni lavoratore “ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa”.
La norma comprende quindi due principi: quello della proporzionalità e quello della sufficienza della retribuzione; il primo legato alla funzione corrispettiva, e più propriamente al sinallagma contrattuale, e il secondo espressione della funzione sociale della retribuzione e, quindi, del valore sociale assegnato al lavoro dalla Carta costituzionale. Si tratta di due facce ricomposte in una nozione unitaria di retribuzione che tiene insieme le due funzioni, rispondenti rispettivamente a una logica economicistica e a una logica sociale.
In merito alla rispondenza dei trattamenti economici con i principi di proporzionalità e sufficienza previsti dall’art. 36 Cost., la giurisprudenza ha tradizionalmente utilizzato, quale parametro per esprimere un giudizio di proporzionalità e sufficienza della retribuzione riconosciuta ai lavoratori, le tabelle retributive previste dalla contrattazione collettiva.
La scelta della Costituente fu infatti quella di non attribuire espressamente alla legge il compito di stabilire un salario minimo al fine di non ostacolare l’azione sindacale. Nell’impianto costituzionale, i contratti collettivi stipulati a norma dell’art. 39, vale a dire dalle organizzazioni sindacali registrate e dotate di personalità giuridica, avrebbero dovuto avere efficacia erga omnes, vale a dire efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto stesso si riferisce.
La mancata attuazione dell’art. 39 aprì il problema dei tanti lavoratori che non potevano beneficiare dell’applicazione di un contratto collettivo in quanto il datore di lavoro, non affiliato ad alcuna associazione datoriale, non era giuridicamente tenuto alla sua applicazione.
La giurisprudenza, tuttavia, nel corso del tempo ha posto la diretta percettività dell’art. 36 della Costituzione, in maniera del tutto svincolata dall’art. 39. Nel caso della mancanza di una retribuzione pattuita dalle parti, è il giudice che la determina in esecuzione dell’art. 2099 c.c., ricavandola proprio dai minimi tabellari di cui ai contratti collettivi. La retribuzione prevista dalla norma collettiva era ritenuto il parametro più idoneo a specificare (nei confronti dei non iscritti) la retribuzione prevista dall'art. 36 Cost.
Nel nostro ordinamento vi sono, del resto, numerose norme che assurgono a parametro di legalità i trattamenti economici e normativi previsti dai CCNL di settore sottoscritti dalle OOSS comparativamente più rappresentative. Tali CCNL, ad esempio, sono il termine di riferimento della legittimità del trattamento retributivo del socio lavoratore di cooperativa (si veda l’art. 7, comma 4, del d.l. n. 248/2007 convertito in L. 31/2008). L’ art. 30 IV comma del codice degli appalti vigente (D. Lgs. 50/16) prevede che “Al personale impiegato nei lavori, servizi e forniture oggetto di appalti pubblici e concessioni è applicato il contratto collettivo nazionale e territoriale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”. La l. n. 199 del 29 ottobre 2016, legge sul caporalato, ha riformato l’art. 603 bis c.p., individuando un’elencazione degli indici di sfruttamento dei lavoratori, tra i quali vi è quello della “reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato”.
In definitiva, l’ordinamento giuridico conferma la valutazione data dalla richiamata giurisprudenza, secondo la quale il trattamento sancito dal CCNL costituisce parametro di legittimità rispettoso dei principi sanciti in via generale dall’art. 36 Cost.
La contrattazione collettiva tuttavia però ha cambiato volto: si è assistito a una progressiva frammentazione delle rappresentanze sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro, alla moltiplicazione dei contratti collettivi sottoscritti per le stesse categorie (ad oggi ne risultano depositati presso il CNEL 1.037 tra lavoro pubblico e privato), alla deregolazione e aziendalizzazione, anche per via legislativa, della contrattazione, alla diffusione dei contratti c.d. “pirata”, siglati da organizzazioni sindacali prive di effettiva rappresentatività.
Il datore di lavoro privato del resto, nella sua libertà sindacale (e con l’eccezione delle società cooperative di cui si è detto), non incontra vincoli nella scelta della sigla sindacale cui aderire e del relativo contratto collettivo da applicare.
Ed allora, si comprende come i giudici di merito, ed ora anche la Corte di Cassazione (vedi da ultimo le sentenze n. 27771, 27713, 27769 del 2 ottobre 2023 e le altre rese all’esito della stessa udienza tematica del 14.9.2023) abbiano affermato che la presunzione di rispondenza delle previsioni dei contratti collettivi all’art. 36 della Costituzione è relativa e può essere superata qualora risulti in giudizio la prova contraria, che può emergere sulla base di indicatori economici e statistici. Non può infatti escludersi a priori che il trattamento retributivo determinato dalla contrattazione collettiva, pur dotata di effettiva rappresentatività, risulti in concreto lesivo del principio di proporzionalità e/o di sufficienza. È dunque possibile far valere in giudizio l’insufficienza della retribuzione prevista dal CCNL applicato, con richiesta di applicazione di diversa retribuzione risultante da altri contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe.
4. Il ruolo del giudice del lavoro
Mi pare che alla luce di tutto quanto detto si possa affermare che la messa in crisi dell’interpretazione consolidata in certi casi non costituisce una sfida persa della prevedibilità, ma una spinta dal basso all’adeguamento del sistema.
E in questo senso si apprezza il ruolo dell’attività giurisprudenziale di sviluppo del diritto positivo per la soluzione di nuovi problemi di decisione, come scriveva Luigi Mengoni.
Ne deriva che il sistema oggi deve leggersi come un insieme aperto al nuovo senza perdere la memoria del passato, che è cristallizzato nell’elaborazione acquisita in primo luogo, nonché ovviamente nella tavola dei valori costituzionali.
Sebbene le pressioni cui il giudice è sottoposto per smaltire il ruolo lo focalizzano sui parametri di produttività, è però essenziale che egli non perda l’attenzione al contesto sociale e sovranazionale in cui il sistema opera: in questa complessa e delicata attività di ricucitura il ruolo del giudice del lavoro è infatti ineliminabile, perché costituisce l’estremo terminale della giustizia ed è un essenziale mediatore sociale.
[1] Questo scritto costituisce il testo rivisto dell’ intervento tenuto alla Tavola Rotonda “Ideologie e tecniche nell’interpretazione del diritto del lavoro“ coordinata da Vincenzo Antonio Poso, tenutasi a Lucca nel Convento di San Cerbone il 24 settembre 2023 in occasione delle Conversazioni sul lavoro dedicate a Giuseppe Pera dai suoi allievi, intitolate “Lavoro Persona Mercato, Sulla strada tracciata da Riccardo Del Punta”.
[2] V. R. Del Punta, Il giudice del lavoro tra pressioni legislative e aperture di sistema, in Rivista italiana di diritto del lavoro 2012,1,461; R. Riverso-C. Ponterio, Quale Giudice del lavoro? In Rivista italiana di diritto del lavoro 2012,1,720 ed ancora R. Del Punta, Il giudice e la Costituzione, in Rivista italiana di diritto del lavoro 2012,1,723.
[3] V. “Il precedente nel rapporto tra sezioni unite e sezioni semplici: l’esperienza della Cassazione civile” di Alberto Giusti, in https://www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/582/qg_2018-4_12.pdf.
[4] O. Mazzotta, L’interpretazione nel diritto del lavoro, istruzioni per l’uso, in Lavoro e diritto n. 2/3 del 2014, pgg. 263/272.
[5] V. L. Viola, La giustizia predittiva del lavoro, Lavoro Diritti Europa 2023, https://www.lavorodirittieuropa.it/images/VIOLA_1.pdf.
[6] V. E. Scoditti, Clausole generali e certezza del diritto, in https://www.questionegiustizia.it/articolo/clausole-generali-e-certezza-del-diritto.
di Luigi Cavallaro [1]
Per strano che possa sembrare ai nostri giorni, bisogna ammettere che, nell’ambito della giurisprudenza del lavoro, l’enfasi sul ruolo “politicamente creativo” dell’interpretazione giudiziale, che costituisce un portato ormai diffusamente condiviso delle più recenti teorie dell’interpretazione del diritto, non ha per lungo tempo messo capo ad alcuna contrapposizione tra il giudice e il legislatore: al netto degli eccessi imputabili, nei primi anni ’70, a taluni pretori giustamente definiti “d’assalto”, la disciplina positiva dei rapporti di lavoro era stata per un buon quindicennio dalla metà degli anni ’60 di segno spiccatamente progressivo e volta all’inveramento di tutte le promesse che la Costituzione repubblicana aveva rivolto al mondo del lavoro; e sebbene gli anni ’80 fossero stati anni di riflusso e i primi ’90 perfino di magra, gli interventi normativi non avevano comunque intaccato il formidabile nucleo di tutele eretto a presidio dello statuto del lavoratore dipendente.
Non c’è dunque da stupirsi se, nella sua relazione al convegno nazionale del Centro Studi Domenico Napoletano dell’aprile 2014, Riccardo Del Punta rilevava come per almeno un cinquantennio il tema dell’interpretazione non aveva mai avuto motivo di porsi pubblicamente al dibattito: dominando nella giurisprudenza del lavoro una sorta di “concettualismo progressista”, in virtù del quale tutto il sistema giuslavoristico si poteva considerare logicamente deducibile da un unico principio ordinatore, quello di protezione del lavoratore subordinato in quanto soggetto debole, il criterio di verità del diritto del lavoro e la direzione di fondo dell’attività interpretativa erano affatto prevedibili, al punto che “il dichiarato, o presupposto, anti-cognitivismo di principio si risolveva […] in un cognitivismo di fatto”.
Questo stato di cose è bruscamente cambiato allorché, dopo l’adesione alla moneta unica (1992), il nostro ordinamento giuslavoristico ha cominciato ad aprirsi alle istanze liberalizzatrici provenienti dall’Unione Europea, in ossequio alle quali il legislatore interno ha progressivamente smantellato i presidi fondamentali intorno ai quali era stata eretta la cittadella fortificata del nostro diritto del lavoro: dall’introduzione del lavoro interinale (1997) alla liberalizzazione dei contratti a termine (2001), dalla c.d. legge Biagi (2003) al Collegato lavoro (2010), fino ad approdare alla c.d. riforma Fornero (2012), che ha infranto il tabù della reintegrazione nel posto di lavoro prevista dall’art. 18 St. lav., e alla successiva e conseguente disciplina dei decreti delegati dal c.d. Jobs Act (2015): che, vale la pena ricordarlo, è un acronimo per Jumpstart Our Business Startups Act, ossia “legge per lo sviluppo delle nostre imprese in fase di decollo”, e non una riscrittura nella lingua d’Albione dell’italianissimo “Statuto dei lavoratori”.
Di fronte ad una valanga di così ampia portata, una parte della giurisprudenza del lavoro si è in effetti messa di traverso, cercando di sterilizzare o quanto meno di minimizzare le conseguenze delle innovazioni normative che riscrivevano al ribasso diritti e tutele; e richiamata da una dottrina che, assurta nel frattempo a consigliere del Principe, le rimproverava di non volersi far carico degli ulteriori valori ed obiettivi che il diritto del lavoro era andato in quegli anni introiettando, essa – Costituzione alla mano – ha fieramente e pubblicamente ribadito il suo non possumus: chi non ne avesse memoria, potrà utilmente rileggere la discussione che, una decina d’anni fa, vide opporsi sulle pagine della Rivista italiana di diritto del lavoro lo stesso Del Punta e due colleghi appartenenti a Magistratura democratica, Carla Ponterio e Roberto Riverso.
Una reazione irragionevole? A sentire molti e autorevoli interventi che si sono succeduti in queste due giornate di conversazione, parrebbe di sì. Pur con qualche distinguo, la dottrina mainstream mi pare infatti abbastanza consentanea sull’idea che le riforme dell’ultimo ventennio non avrebbero in alcun modo rovesciato il segno progressista della legislazione del lavoro, ma ne avrebbero piuttosto accompagnato la normale evoluzione da un modello tutto incentrato sulla protezione del lavoratore ad uno più attento alle sue istanze di libertà: un po’ come quei buoni genitori, che, via via che i figli crescono, rinunciano, magari con rammarico e certo con preoccupazione, a seguirli passo passo per proteggerli da ogni pericolo e si acconciano a concedere spazi sempre crescenti alla loro autonomia individuale. Del resto, non era forse dedicato all’auspicio di “un diritto del lavoro maggiorenne” il sottotitolo di un notissimo libro che Pietro Ichino pubblicò poco meno di trent’anni fa, in cui, con lucida antiveggenza, si prefiguravano le traiettorie ed i sentieri sui quali si sarebbero poi incamminate le riforme del nostro diritto del lavoro? E non è forse nel segno della riflessione di un filosofo progressista come Amartya Sen che lo stesso Riccardo Del Punta ha spiegato il senso complessivo delle riforme ultime, che – abbandonata l’assurda pretesa di ingabbiare i lavoratori a vita in occupazioni divenute inefficienti – si propongono piuttosto di affidare a percorsi formativi funzionali allo sviluppo delle loro capabilities la possibilità che essi trovino nuove e migliori occasioni di lavoro?
Per quanto, ripetiamo, autorevolmente sostenuta, si tratta invero di una tesi assai discutibile. Amartya Sen, prima d’essere filosofo, è stato (ed è) un insigne economista affatto interno al mainstream neoclassico ed insignito del premio Nobel per l’economia per i suoi contributi all’economia del benessere e alla teoria delle scelte sociali, tutti costruiti all’insegna del più rigoroso individualismo metodologico; e a guardarla bene, la sua teorica delle capabilities non è più che una riverniciatura nel linguaggio compassionevole della sinistra liberal anglosassone delle assai più becere teorizzazioni sul “capitale umano” di Gary Becker (altro premio Nobel per l’economia), con le quali condivide l’assunto di fondo secondo cui la disoccupazione troverebbe la sua causa causans in deficit riguardanti l’offerta di lavoro: una leggenda che gli economisti ortodossi si tramandano dai tempi di Adam Smith, alla cui Teoria dei sentimenti morali (1758) non a caso si è rifatto lo stesso Sen per argomentare l’idea che quei poveracci deficitari di “capitale umano” non andrebbero abbandonati a se stessi (come invece sostenuto da Becker), ma piuttosto aiutati a sviluppare le abilità e le competenze necessarie a trovare un’occupazione.
Un approccio del genere, che scarica sui disoccupati la responsabilità della loro disgraziata condizione, non solo oblitera che la disoccupazione contemporanea assai più grandemente dipende da problemi che concernono la domanda di forza-lavoro e la distribuzione del reddito tra capitale e lavoro (come ha spiegato, inascoltata e anzi brutalmente zittita, una lunga tradizione del pensiero economico che da Marx, Keynes e Kalecki arriva ai nostri Sraffa, Garegnani e Pasinetti), ma soprattutto dimentica che la “libertà” dei lavoratori presuppone la piena occupazione: come scrisse Joan Robinson (una grande economista che fu discepola diretta di Keynes e non ebbe mai il Nobel per l’economia: et pour cause), “la prima funzione della disoccupazione […] è quella di mantenere l’autorità del padrone sul lavoratore comune. Il padrone è normalmente in posizione di dire: ‘Se non vuoi il lavoro, ci sono molti altri che lo vogliono’. Quando il lavoratore dice ‘Se non mi vuoi, ci sono molti altri che mi vogliono’, la situazione è radicalmente mutata.” Che è come dire che solo allora, cioè in condizioni di piena occupazione, i lavoratori possono efficacemente perseguire l’obiettivo della loro libertà.
Nemmeno può più sostenersi che l’abbassamento delle tutele del lavoro potrebbe comunque servire a conseguire la piena occupazione, come vent’anni fa affermavano non solo il mainstream neoclassico ma anche le maggiori istituzioni economiche internazionali, come il Fmi, l’Ocse e la Banca mondiale: una dopo l’altra, tutte, alla prova dei fatti, hanno dovuto ammettere che nessuna diminuzione delle tutele del lavoro ha effetti statisticamente significativi sull’occupazione e sulle altre variabili macroeconomiche; e sempre più studi recenti (ma non di parte mainstream, naturalmente) hanno semmai evidenziato una significativa correlazione tra la diminuzione di quelle tutele e l’abbassamento dei salari: che è un altro dei problemi con cui le nostre società sono adesso chiamate drammaticamente a misurarsi.
Quando, in anni passati, mi son trovato, proprio qui a San Cerbone, ad argomentare queste e simili cose, Riccardo si arrabbiava: “Questi marxisti!”, diceva, sobbalzando sulla sedia. Salvo che questi sono i miei convincimenti personali; e non hanno mai avuto rilievo alcuno nella mia esperienza di giudice del lavoro.
Di più: non dovevano né potevano averne alcuno. Ho sempre pensato che avesse ragione Lodovico Mortara a sostenere che, quando si accosta al testo della legge, il giudice dovrebbe sempre dimenticare le sue opinioni personali e politiche; e non meno presente, nella mia esperienza, è stato un monito di Salvatore Satta, secondo cui il giudice che scegliesse di farsi legislatore si renderebbe responsabile di esercizio arbitrario delle proprie ragioni.
Sono convincimenti che ho rafforzato nel corso degli anni (dei decenni, ormai) e che mi hanno indotto a distanziarmi sempre più dalle posizioni di certa magistratura sedicente “progressista”, a molti dei cui esponenti imputo precisamente un’idea dell’esercizio della giurisdizione che mi pare incompatibile con il comma 2° dell’art. 101 Cost.: prendere espressamente e sistematicamente le parti di qualcuno – si tratti del lavoratore, del migrante, del tossicodipendente o di chi altri si voglia – e piegare il testo della legge alla necessità di dargli ragione equivale a non essere più terzo rispetto alla vicenda processuale, dunque a non essere più un giudice; e pretendere di farlo in nome della Costituzione è perfino ridicolo, sol che si pensi che nella Costituzione c’è tutto e il suo contrario (con la sola eccezione del fascismo) ed è compito esclusivo del legislatore – salvo il controllo di legittimità costituzionale – bilanciare gli interessi che in ogni umana vicenda si contrappongono.
Per dirla con una battuta, l’idea che i giudici possano fare la rivoluzione mi pare non soltanto anticostituzionale, ma perfino antimarxista, se il marxismo può vantare ancora una qualche pretesa epistemica. La verità è che quando il conflitto di classe si riduce a controversia di lavoro, i lavoratori come classe hanno già perso; e il fatto che qualcuno di loro possa vincere semplicemente perché trova un giudice che prende sfacciatamente le sue parti dovrebbe ripugnare a chiunque abbia un’idea anche soltanto “borghese” dell’uguaglianza.
Si dirà che un’impostazione di questo genere, nella misura in cui pretende di contenere il soggettivismo giudiziale e di riaffermare la centralità del Parlamento nel circuito della produzione normativa, è affatto ideologica; e certo le si contrapporranno altre visioni, più sensibili alle antiche suggestioni dell’“uso alternativo del diritto”, secondo cui il giudice, lungi dall’acquietarsi al disposto della legge quale manifestazione della volontà politica del legislatore, dovrebbe piuttosto farsi interprete delle istanze di giustizia che emergono dalla realtà sociale, ricercando nei principi consegnati alla Costituzione e alle carte sovranazionali dei diritti il modo per soddisfarle anche a prescindere dalla diversa (o avversa) volontà del legislatore.
Ma qui bisogna intendersi. È indubbio che, su un piano astratto, la centralità del Parlamento o la centralità del giudice possono essere considerate opzioni ideologiche equivalenti. Ma se dall’astratto teorizzare scendiamo al concreto del dato normativo, subito ci accorgiamo che i nostri costituenti hanno operato al riguardo una scelta precisa: lo testimoniano gli artt. 70 ss. e 101, comma 2°, Cost., che, insieme all’art. 49 disegnano un sistema in cui alla politica legislativa di matrice parlamentare è riservata la posizione dominante, mentre a quella giurisdizionale una solo servente. Non ci può essere perciò contraddizione maggiore nell’invocare i principi costituzionali per sostituire al bilanciamento operato dal legislatore quello voluto dal giudice: posto che in tale bilanciamento si esprime la discrezionalità politica del legislatore (sulla quale nemmeno la Corte costituzionale dovrebbe intromettersi: art. 28, l. n. 87/1953), bisognerebbe semmai riconoscere non soltanto che la legge altro non è che “politica giuridicizzata”, ma soprattutto che la soggezione del giudice alla legge, di cui all’art. 101 comma 2° Cost., si esprime anche come soggezione a quella politica e all’ideologia che per suo tramite si manifesta: nient’altro che questo dice l’art. 12 prel. c.c. quando impone al giudice di interpretare la legge secondo l’“intenzione del legislatore”.
Insomma, se è vero che nessuna ideologia può parlare per leggi fintanto che resta minoritaria, non è meno vero che il giudice non può prestare ascolto ad una ideologia minoritaria senza con ciò stesso violare gli artt. 101 Cost. e 12 prel. c.c.; e se pure una sentenza oltre la legge di un giudice “progressista” può apparire come un passo in avanti verso l’uguaglianza sociale, costituisce al tempo stesso – lo notò opportunamente Uberto Scarpelli molti anni addietro – un passo indietro rispetto all’eguaglianza politica: “alle decisioni politiche prese dall’organo della rappresentanza politica, il Parlamento, tutti concorriamo, sia pure in maniera minima, indiretta ed esposta ad ogni sorta di pressioni e compressioni; il giudice che si svincoli dalla legge è invece per me, cittadino, il portatore di un potere autocratico, al quale io resto estraneo, un piccolo despota, benché certo, nel caso del giudice progressista, un despota illuminato.” Fermo restando che non bisogna essere storici di professione per sapere che gli attacchi più feroci al positivismo giuridico vennero portati nella Germania nazionalsocialista, dove il presidente del Volksgerichsthof amava ripetere che “le leggi sono da interpretare e da applicare sul fondamento della presupposizione della giustizia materiale e dell’ingiustizia materiale”, e che l’impiego di argomentazioni naturalistiche e/o moralistiche è da sempre appartenuto all’arsenale di quei giuristi conservatori che, di fronte alla minaccia rappresentata da legislatori progressisti, intendevano apprestare ostacoli e difese onde mantenere lo status quo.
Ecco perché, tornando in conclusione alla mia esperienza, una volta riconosciuti gli intenti “liberalizzatori” perseguiti dalla legislazione del lavoro nell’ultimo trentennio e, in specie, il ruolo residuale che, nel nuovo sistema normativo, avrebbe dovuto assumere la reintegrazione nel posto di lavoro rispetto all’indennizzo economico, di quelle leggi e dell’intenzione che le animava ho fatto nel mio lavoro scrupolosa applicazione, ad onta del mio personale e silenzioso dissenso. Che poi questo fatto mi abbia guadagnato presso molti colleghi, avvocati e professori universitari la nomea di giudice “di destra” è destino tanto singolare quanto inevitabile, del quale non posso che prendere atto. “Di destra sono quelle leggi”, mi verrebbe fatto di obiettare, ma Riccardo si arrabbierebbe e sobbalzerebbe ancora una volta sulla sedia: “Questi marxisti!”.
[1] Testo rivisto dell’intervento tenuto alla tavola rotonda “Ideologie e tecniche nell’interpretazione del diritto del lavoro”, in occasione delle Conversazioni sul lavoro dedicate a Giuseppe Pera dai suoi allievi “Lavoro Persona Mercato. Sulla strada tracciata da Riccardo Del Punta” (Lucca, Convento di San Cerbone, 23-24 settembre 2023).
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