ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Notificazione per pubblici proclami e integrità del contraddittorio nel processo amministrativo (commento a Cons. di Stato, Sez. VII, 12 febbraio 2024, n. 1414)
Sommario: 1. Premessa. – 2. Una breve ricostruzione della vicenda processuale. – 3. La notificazione per pubblici proclami nel processo amministrativo. – 4. L’orientamento “restrittivo” del T.A.R. Lazio sull’applicazione dell’istituto. – 5. La soluzione “garantista” adottata dal Consiglio di Stato nella sentenza in commento. – 6. Alcune interessanti precisazioni sull’ordine di esame delle questioni in rito e sulla priorità della tutela del contraddittorio. – 7. Alcune brevi considerazioni conclusive sui dicta della sentenza.
1. Premessa
La sentenza in commento offre delle interessanti precisazioni sul perimetro applicativo dell’istituto della notifica per pubblici proclami nel processo amministrativo con riferimento alla tutela del contraddittorio processuale[1].
Il Consiglio di Stato, in antitesi ad un orientamento maggiormente restrittivo del TAR Lazio, ritiene che l’applicazione di tale forma di notificazione possa essere richiesta anche in assenza della previa instaurazione del contraddittorio nei confronti di almeno un controinteressato, sempre che la relativa istanza venga richiesta tempestivamente (entro il termine decadenziale per la proposizione del ricorso) e che vi sia una situazione di particolare difficoltà nel procedere alla notificazione nelle forme ordinarie (a causa del numero delle persone da chiamare in giudizio).
La sentenza, inoltre, si sofferma sull’ordine di esame delle questioni in rito a seguito di rinvio ex art. 105, comma 1 c.p.a. in presenza di contraddittorio non integro[2]. Più precisamente, viene evidenziato come la decisione del giudice di primo grado di pronunciare l’irricevibilità del ricorso a contraddittorio non integro, cambiando il precedente ordine di esame delle questioni in rito, possa comportare la necessità di un ulteriore rinvio al giudice di primo grado nel caso in cui detta decisione venga riformata in appello, con evidente detrimento della ragionevole durata del processo[3].
2. Una breve ricostruzione della vicenda processuale.
La vicenda processuale da cui origina il caso di specie si è sviluppata attraverso due pronunciamenti del TAR Lazio a cui si sono susseguite altrettante sentenze del Consiglio di Stato, l’ultima delle quali è la pronuncia in commento[4].
Con il ricorso introduttivo proposto dinanzi al TAR del Lazio, il ricorrente impugnava una graduatoria regionale per il reclutamento a tempo indeterminato di personale docente nelle scuole secondarie di primo e secondo grado, lamentando il mancato riconoscimento del punteggio per il servizio prestato nella scuola con contratto a tempo indeterminato. Il Collegio investito della questione, però, non entrando nel merito della controversia, dichiarava il ricorso inammissibile per la mancata notifica ad almeno uno dei controinteressati, senza aggiungere null’altro nella motivazione della sua decisione[5].
Detta sentenza veniva appellata da parte ricorrente che sosteneva di aver tempestivamente proposto l’istanza di autorizzazione alla notifica per pubblici proclami, ai sensi dell’art. 41, comma 4 c.p.a., istanza sulla quale il TAR adito non si era pronunciato né in sede collegiale, né in sede monocratica. Veniva, cioè, evidenziato come l’omessa notifica non fosse imputabile al ricorrente, ma al giudice che non si era pronunciato sull’autorizzazione alla notifica per pubblici proclami. In accoglimento di tale motivo di gravame il Consiglio di Stato annullava la decisione di primo grado con rinvio al medesimo giudice ex art. 105, comma 1 c.p.a.[6].
Il TAR Lazio – reinvestito della questione con ricorso notificato anche nelle forme ordinarie a due controinteressati – non si uniformava alla sentenza del Consiglio di Stato e, dopo aver meglio argomentato le motivazioni che lo avevano portato a determinarsi per l’inammissibilità del primo ricorso a causa dell’omessa notifica ad almeno uno dei controinteressati, riteneva di non dover comunque procedere all’estensione del contraddittorio in considerazione della manifesta irricevibilità del ricorso originario, eccepita dall’amministrazione resistente nell’ambito del primo giudizio (ma non presa in esame nella prima sentenza)[7].
Questa seconda sentenza (di irricevibilità) del TAR Lazio veniva impugnata nuovamente in Consiglio di Stato dove il Collegio adito, trattenendo la decisione nel merito, ha definito la vicenda conteziosa con la sentenza in commento[8]. Con detta pronuncia il giudice d’appello, superate le eccezioni di inammissibilità (per omessa notifica ad almeno uno dei controinteressati) e di irricevibilità (per tardività nella notifica del primo ricorso), ha accolto l’appello dichiarando fondato il ricorso di primo grado, con il conseguente annullamento dei provvedimenti originariamente impugnati dal ricorrente.
3. La notificazione per pubblici proclami nel processo amministrativo.
Per comprendere adeguatamente il portato di questa decisione appare utile effettuare una breve analisi dell’istituto della notifica per pubblici proclami nell’ambito del processo amministrativo[9].
Detta modalità di notificazione è prevista in due distinte disposizioni del codice del processo amministrativo: nell’art. 41 c.p.a., relativo alla “Notificazione del ricorso e suoi destinatari”, il cui comma 4, prevede che “Quando la notificazione del ricorso nei modi ordinari sia particolarmente difficile per il numero delle persone da chiamare in giudizio il presidente del tribunale o della sezione cui è assegnato il ricorso può disporre, su richiesta di parte, che la notificazione sia effettuata per pubblici proclami prescrivendone le modalità”; e nell’art. 49 c.p.a., relativo alla “Integrazione del contraddittorio”, il cui comma 3 prevede che “Il giudice, nell’ordinare l’integrazione del contraddittorio, fissa il relativo termine, indicando le parti cui il ricorso deve essere notificato. Può autorizzare, se ne ricorrono i presupposti, la notificazione per pubblici proclami prescrivendone le modalità”. La notifica per pubblici proclami, quindi, è prevista: sia anteriormente all’instaurazione del giudizio, quando può essere chiesta dal ricorrente ed autorizzata dal Presidente con riferimento alla notifica del ricorso introduttivo; sia posteriormente all’instaurazione del giudizio, quando può essere disposta d’ufficio dal giudice successivamente alla notifica del ricorso nelle forme ordinarie ad alcuno dei controinteressati, ma sia necessario darne notizia anche ad altri soggetti[10].
Con l’entrata in vigore del codice del processo amministrativo, pertanto, le concrete modalità effettuazione della notifica per pubblici proclami sono state rimesse integralmente al giudice che le dispone liberamente a seconda del caso concreto[11]. Consolidata giurisprudenza, però, ha precisato come, in mancanza di specifiche indicazioni da parte del giudice, debba ritenersi senz’altro applicabile, in forza c.d. “rinvio esterno” di cui all’art. 39, comma 2 c.p.a.[12], la disciplina contenuta nel codice di procedura civile, secondo la quale la notificazione per pubblici proclami si perfeziona mediante il deposito di copia dell’atto nella casa comunale del luogo in cui ha sede l’ufficio giudiziario davanti al quale si promuove o si svolge il processo e con l’inserimento di un estratto di esso nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica[13].Quindi, in assenza di diverse prescrizioni da parte del giudice che la dispone, la notifica per pubblici proclami può ritenersi perfezionata soltanto mediante il rispetto del suddetto iter procedimentale e con la prova del deposito della documentazione ad essa relativa nella Segreteria del giudice che ha ordinato l’incombente, con la conseguenza che l’omissione di tale ultimo adempimento comporta l’improcedibilità del ricorso[14].
La notificazione del ricorso per pubblici proclami, per sua natura eccezionale in relazione alle minori garanzie che presenta rispetto alla notificazione in forma ordinaria, deve essere eseguita in modo da rendere più probabile e meno disagevole la conoscenza effettiva da parte dei destinatari; quindi, in linea generale (ossia salva l’ipotesi di difficoltà di identificazione dei controinteressati), il relativo annuncio deve contenere l’indicazione dei nominativi dei controinteressati, oltre che degli estremi del ricorso, del nome del ricorrente e dell’amministrazione intimata, dei provvedimenti impugnati e di un sunto dei motivi di gravame in carenza dei quali la notifica è inesistente[15].
4. L’orientamento “restrittivo” del T.A.R. Lazio sull’applicazione dell’istituto.
Ciò premesso sulla disciplina normativa e sull’applicazione giurisprudenziale relative all’esercizio di detta modalità di notificazione, occorre evidenziare come una parte della giurisprudenza ne confini l’operatività solo previo esperimento della notifica nelle forme ordinarie ad almeno uno dei controinteressati.
Secondo tale orientamento viene dichiarato inammissibile il ricorso che non sia stato notificato ad alcun controinteressato non essendo sufficiente, in mancanza di detta notifica, la mera istanza di autorizzazione alla notifica per pubblici proclami, la quale sarebbe idonea solo a consentire l’integrazione del contraddittorio, ma non l’instaurazione del giudizio[16].
A tale impostazione ermeneutica sono ispirate anche le due sentenze del TAR Lazio intervenute nel caso di specie[17]. Mentre con la prima pronuncia la Sezione Terza Bis del TAR Lazio si è limitata a sancire l’inammissibilità del gravame per “omessa notifica ai controinteressati”, nella seconda sentenza il Collegio adito ha spiegato più diffusamente le ragioni di detta inammissibilità. A tal riguardo viene evidenziato come, nell’istanza presentata per l’autorizzazione alla notifica per pubblici proclami, non vi fosse traccia delle difficoltà incontrate dalla parte ricorrente nel reperire l’indirizzo di almeno uno dei controinteressati per ottemperare alla disposizione di cui all’art. 41, comma 2 c.p.a. Inoltre, viene rimarcato come non siano state depositate prove circa l’avvenuta richiesta di tali recapiti all’amministrazione, non potendosi così ritenere assolto l’obbligo di diligenza che grava sulla parte ricorrente nell’instaurazione del contraddittorio minimo previsto dalla legge. In altri termini, secondo il Collegio, la circostanza dell’elevato numero dei controinteressati avrebbe potuto rilevare in sede di integrazione del contraddittorio, legittimando l’autorizzazione alla notificazione per pubblici proclami ai sensi dell’art. 49, comma 3 c.p.a., ma non anche ai fini della verifica circa l’instaurazione del contraddittorio minimo prevista, a pena di inammissibilità, dall’art. 41, comma 2 c.p.a., costituendo quest’ultima un vero e proprio onere processuale incombente sulla parte ricorrente rispetto al quale, in caso di errori, omissioni o carenze imputabili alla parte, al giudice non è consentito supplire in via officiosa[18].
Il TAR Lazio, in sostanza, non esclude sic et simpliciter la notifica per pubblici proclami ex art. 41, comma 4 c.p.a. antecedentemente all’instaurazione del giudizio, ma la assoggetta a stringenti requisiti nel caso in cui vi siano dei soggetti controinteressati individuati nell’atto, limiti consistenti nel dovere di fornire la prova che l’instaurazione del giudizio nelle forme ordinarie (con la notifica ad almeno un controinteressato) non sarebbe stata altrimenti possibile o sarebbe stata quantomeno difficoltosa (dovendo la parte dare una prova della difficoltà incontrata). Secondo tale impostazione, pertanto, in presenza di più controinteressati individuati nell’atto impugnato, il disposto dell’art. 41, comma 2 c.p.a. escluderebbe la possibilità di utilizzare la notifica per pubblici proclami ex art. 41, comma 4 c.p.a. per l’instaurazione della lite[19], residuando solamente quella esperibile ex art. 49, comma 3 c.p.a., previa notifica ordinaria del ricorso in via ordinaria ad almeno uno dei controinteressati[20].
Tale opzione interpretativa appare francamente non condivisibile, come autorevolmente chiarito dal Consiglio di Stato nella sentenza in commento.
5. La soluzione “garantista” adottata dal Consiglio di Stato nella sentenza in commento.
La Settima Sezione del Consiglio di Stato, con le due sentenze che sono intervenute nel caso di specie, ha censurato con fermezza questo filone ermeneutico[21].
Già con la sentenza n. 3657/2022 il giudice d’appello aveva prescritto con chiarezza che l’omessa notifica del ricorso ai controinteressati (su cui si fondava la dichiarazione di inammissibilità della sentenza gravata) non poteva essere imputata ad un errore della parte ricorrente (poi appellante), ma era attribuibile al giudice adito che non si era pronunciato sull’istanza di autorizzazione alla notifica per pubblici proclami contenuta nel ricorso. Il ricorrente, infatti, aveva inteso assolvere al suo onere di instaurazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 41, comma 4 c.p.a. in ragione della presenza, affermata nell’istanza, dell’“immenso numero dei destinatari”, necessitando l’autorizzazione del giudice per effettuare la notifica per pubblici proclami, autorizzazione che, però, non è stata mai comunicata.
Con la sentenza in commento, poi, la Settima Sezione del Consiglio di Stato, richiamando il proprio consolidato orientamento sul punto, ha confermato come la corretta interpretazione da dare all’art. 41, comma 4 c.p.a. sia quella secondo la quale l’istituto della notifica per pubblici proclami debba trovare applicazione in tutti i casi nei quali “la notificazione del ricorso nei modi ordinari sia particolarmente difficile per il numero delle persone da chiamare in giudizio” e come questa notifica, contrariamente a quanto ritenuto da un diverso orientamento, non sia affatto prevista per le sole ipotesi di integrazione del contraddittorio, né che la stessa esiga la rigorosa prova delle “difficoltà incontrate dalla parte ricorrente nel reperire l’indirizzo di almeno uno dei controinteressati per ottemperare alla disposizione di cui all’art. 41, co. 2, c.p.a.” come, invece, parrebbe imporre la sentenza impugnata.
Tale impostazione pare assolutamente condivisibile da chi scrive, in quanto maggiormente coerente con il dettato normativo vigente e più affine alla ratio semplificatoria propria dell’istituto[22]. Infatti, l’art. 41 c.p.a. (dedicato alla notifica del ricorso) prevede (al più volte citato comma 4) la notifica per pubblici proclami come modalità alternativa a quella tradizionale. Confinare tale modalità alternativa di notificazione solo ad un momento successivo all’instaurazione della lite (in presenza di più controinteressati individuati nell’atto) non pare una soluzione compatibile con la disposizione dell’art. 41 c.p.a. che non pone alcun limite a tale forma di notifica se non quelli previsti dal comma 4, ossia, la preventiva tempestiva richiesta al Presidente e l’esistenza di un numero di persone che renda difficile la notificazione nei modi ordinari. La norma, infatti, consente al ricorrente di instaurare tempestivamente il ricorso nei confronti di tutti i destinatari, ma qualora tale facoltà gli venga preclusa a causa del silenzio serbato sulla richiesta di autorizzazione alla notifica per pubblici proclami, non si potrà considerare ad esso addebitabile l’omessa regolare instaurazione del contraddittorio.
Ovviamente, resta fermo in capo al Presidente il potere di verifica sulla sussistenza dei presupposti per la concessione dell’autorizzazione alla notifica per pubblici proclami. In ragione di un tanto è importante che detta domanda di autorizzazione sia effettuata in maniera tempestiva (come è avvenuto nel caso di specie), in modo da non incorrere in decadenze che possano determinare la gravissima conseguenza dell’inammissibilità dell’azione proposta[23].
6. Alcune interessanti precisazioni sull’ordine di esame delle questioni in rito e sulla priorità della tutela del contraddittorio.
La portata della pronuncia in oggetto non si limita esclusivamente a definire il perimetro applicativo della notifica per pubblici proclami, ma offre anche degli interessanti spunti di riflessione sull’importanza della corretta instaurazione del contraddittorio[24] e sull’ordine di esame delle altre questioni in rito in presenza di un rinvio al giudice di primo grado[25].
L’occasione per tale riflessione è stata offerta, al Consiglio di Stato, dalla pervicacia della Sezione Terza Bis del T.A.R. Lazio che, ricevuta nuovamente la controversia per effetto del rinvio ex art. 105 c.p.a., invece di uniformarsi al giudicato, ha deciso di non disporre l’estensione del contraddittorio nei confronti di tutti i soggetti controinteressati, in considerazione dell’asserita manifesta irricevibilità dell’atto introduttivo del primo giudizio[26]. Va detto, però, che nella prima sentenza del TAR Lazio[27] il Collegio aveva definito la controversia pronunciando l’inammissibilità del ricorso per omessa corretta instaurazione del contraddittorio invece che pronunciarsi sull’irricevibilità dello stesso.
Come evidenza correttamente il giudice d’appello investito (per la seconda volta) della questione, a fronte del chiaro vincolo processuale stabilito dall’art. 105 c.p.a.[28], il TAR adito avrebbe dovuto consentire la realizzazione del pieno contraddittorio con i controinteressati mediante lo strumento della notificazione per pubblici proclami prima di assumere qualsiasi ulteriore decisione di rito o di merito. Il giudice di primo grado, invece, ha deciso di anteporre la questione dell’irricevibilità del ricorso a quella della corretta instaurazione del contraddittorio, sovvertendo l’ordine di esame delle questioni (in rito) che aveva posto alla base della sua prima decisione.
La scelta di definire il giudizio con una pronuncia di irricevibilità senza prima consentire l’integrazione del contraddittorio mediante la notificazione per pubblici proclami viene fortemente criticata dal Consiglio di Stato sotto plurimi aspetti.
Innanzitutto, viene stigmatizzato il dissenso interpretativo in ordine all’applicazione dell’istituto della notifica per pubblici proclami che è stato (ri)manifestato dal giudice di primo grado successivamente al pronunciamento sul punto del giudice d’appello, evidenziando come “la fisiologica dialettica tra i collegi giudicanti, che possono esprimere soluzioni interpretative disomogenee, deve contemperarsi con il vincolo endoprocessuale derivante dall’applicazione dell’art. 105 del c.p.a. Una volta cristallizzata la decisione del giudice di appello, esigenze ovvie di certezza impediscono che lo stesso tema possa essere rimesso in discussione, ancorché in termini dubitativi o ipotetici”[29].
Secondariamente, il giudice d’appello ritiene che la soluzione interpretativa sposata dal giudice di prime cure, secondo la quale l’integrazione del contraddittorio potrebbe essere evitata in caso di manifesta irricevibilità del ricorso originario ai sensi dell’art. 49 c.p.a., non sia comunque meritevole di accoglimento. Così ragionando, infatti, non si tiene conto del rapporto tra la citata previsione dell’art. 49 c.p.a. e i vincoli derivanti dall’annullamento con rinvio, come stabilito dall’art. 105 c.p.a. Inoltre, viene evidenziato pure come nella presente vicenda processuale detta opzione non sembra comportare alcun effettivo vantaggio in termini di “economia processuale” anche alla luce della semplificazione correlata alla notificazione per pubblici proclami che avrebbe comportato, al più, una breve e ragionevole dilazione della fissazione dell’udienza di discussione.
In terzo luogo, il Collegio evidenzia come, nel corso dell’originario giudizio davanti al TAR, l’amministrazione aveva eccepito (tra l’altro, in modo errato[30]) la tardività del ricorso, ma il Collegio aveva rilevato d’ufficio l’asserita inammissibilità dello stesso per omessa notifica ai controinteressati. In altre parole, il giudice di prime cure aveva ritenuto di assegnare alla verifica dell’integrità del contraddittorio carattere prioritario rispetto alla valutazione sulla ricevibilità del ricorso (in relazione all’eccezione sollevata dall’amministrazione), secondo il normale ordine logico delle questioni, presumibilmente non reputando il ricorso “manifestamente irricevibile”[31]. Nel giudizio di rinvio, invece, il TAR, anche prescindendo dal mancato rispetto del vincolo di cui all’art. 105 c.p.a., ha deciso di invertire l’esame delle questioni, valutando prima il tema della ricevibilità rispetto a quello della ritualità e della completezza del contraddittorio[32].
Infine, sempre secondo il Collegio, da tale inversione discenderebbe anche un inconveniente di ordine “pratico”. Infatti, nel caso di una nuova sentenza di appello che statuisca la tempestività del gravame (come quella in commento), si dovrebbe effettuare un nuovo rinvio (il terzo) al giudice di primo grado per consentire alle parti controinteressate di esercitare i propri diritti di difesa in relazione alle questioni di rito e di merito della controversia, con palese compressione dell’irrinunciabile valore costituzionale della ragionevole durata del processo[33].
7. Alcune brevi considerazioni conclusive sui dicta della sentenza.
Il primo aspetto di interesse della sentenza in commento è costituito dalla chiara definizione dell’ambito applicativo della notifica per pubblici proclami nel processo amministrativo, istituto che non può essere confinato a mero strumento di integrazione del contraddittorio in presenza di un ingente numero di controinteressati individuati nell’atto. Sul punto bisogna rilevare come l’art. 41, comma 2 c.p.a. non preveda che la notifica ad almeno uno dei controinteressati debba essere effettuata in una specifica forma e, pertanto, a parere di chi scrive, perché si ritenga correttamente integrato il contraddittorio, tale notifica può benissimo essere effettuata anche per pubblici proclami, previo ottenimento della richiesta autorizzazione. La notifica per pubblici proclami, quindi, deve considerarsi a tutti gli effetti alternativa alla notifica nelle forme ordinarie e non necessariamente successiva alla stessa, costituendo, in presenza di un’obiettiva difficoltà nella notifica ordinaria, uno strumento idoneo ex se ad instaurare correttamente il giudizio e non un mero strumento di integrazione del contraddittorio[34].
Il secondo aspetto di interesse della pronuncia riguarda, invece, la “dialettica” tra i giudici amministrativi in caso di accoglimento dell’appello e di rinvio al giudice di primo grado ex art. 105, comma 1 c.p.a. Nel caso di specie, in sede di rinvio, è stato prescritto un vicolo conformativo al giudice di primo grado in merito alla necessaria integrazione del contraddittorio. Secondo la pronuncia in commento, tale vincolo conformativo deve estendersi anche al rispetto dell’ordine di analisi delle questioni in rito. Pertanto, all’esito del rinvio, il giudice di primo grado che abbia già deciso (in prima istanza) la controversia basandosi su una questione di rito, non potrà (in seconda istanza) invertire l’ordine di esame delle questioni dedotte in giudizio, ponendo a fondamento della decisione una diversa pronuncia in rito[35]. Infatti, a seguito di rinvio ex art. 105, comma 1 c.p.a. con un espresso vincolo conformativo in merito all’integrazione del contraddittorio, il giudice di primo grado avrebbe dovuto preliminarmente dare esecuzione a tale incombenza e, solo a contraddittorio integro, avrebbe dovuto affrontare le altre questioni di rito e di merito dedotte in giudizio. Altrimenti, si corre il rischio che il giudice d’appello, riformando la nuova sentenza, si trovi a dover disporre un ulteriore rinvio, situazione che si è verificata nel caso di specie[36].
Questa inversione nell’ordine di analisi delle questioni in rito non può essere condivisa neanche alla luce del disposto dell’art. 49, comma 2 c.p.a., che esclude l’integrazione del contraddittorio in caso di manifesta irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza del ricorso. A parte il fatto che, in tale circostanza, la tardività posta alla base della seconda sentenza del TAR non era così manifesta (come emerso, poi, nel relativo giudizio di appello), tale meccanismo non sembra comunque poter operare in presenza di un rinvio al primo giudice con un ben individuato effetto conformativo in merito alla prescritta integrazione del contraddittorio[37]. L’integrità del contraddittorio, pertanto, assume in questo contesto una rilevanza “rafforzata” nell’ambito della dinamica processuale, non solo in quanto fondamentale all’attuazione del diritto di diritto di difesa delle parti in giudizio, ma anche come strumento per il perseguimento di un altro ineludibile principio, ossia quello della ragionevole durata del processo.
[1] Sulla disciplina generale della notificazione nel processo civile si segnalano: M.S. GIANNINI, Certezza pubblica, in Enc. dir., VI, Milano, 1960, p. 773 ss.; C. PUNZI, Notificazione (dir. proc. civ.), in Enc. dir., XXVIII, Milano, 1978, 642 ss.; G. BALENA, Notificazione e comunicazione, in Dig. civ., XII, Torino, 1995, 259 ss.; S. LA CHINA, Notificazione (diritto processuale civile), Postilla, in Enc. giur. Treccani, Roma, 2006. Sul tema della notifica del ricorso nel processo amministrativo si segnala F. DE LEONARDIS, Notificazione del ricorso (giur. amm.), in Dig. Disc. Pubbl., IV Agg., 2010, p. 296 ss.
[2] Sull’istituto della rimessione al primo giudice nel processo amministrativo si rinvia a: S. CASSARINO, Il rinvio al giudice di primo grado nella sentenza amministrativa di appello, in Dir. proc. amm., 1995, p. 10 ss.; S. MENCHINI, La rimessione della causa al primo giudice nell’appello amministrativo, in Dir. proc. amm., 1996, p. 336 ss.; S. PERONGINI, L’annullamento della sentenza appellata con rinvio al primo giudice, secondo il codice del processo amministrativo, in Riv. trim. dir. proc. amm., 2010, p. 1109 ss. Per un commento all’art. 105 c.p.a. si segnala: R. DE NICTOLIS – M. NUNZIATA, Commento all’art. 105 c.p.a., in G. MORBIDELLI (a cura di), Codice della giustizia amministrativa, Milano, 2015, p. 965 ss.
[3] Sulla ragionevole durata del processo, tra i tanti contributi, si segnalano: F. AULETTA, La ragionevole durata del processo amministrativo, inDir. proc. amm., 2007, p. 959 ss.; M. ALLENA, Art. 6 CEDU. Procedimento e processo amministrativo, Napoli, 2012; M.A. SANDULLI, Il tempo del processo come bene della vita, in Federalismi.it, n. 18/2014.
[4] Cons. di Stato, Sez. VII, 12 febbraio 2024, n. 1414, in www.giustizia-amministrativa.it.
[5] T.A.R. Lazio (Roma), Sez. Terza Bis, 21 ottobre 2020, n. 10724, in www.giustizia-amministrativa.it.
[6] Cons. di Stato, Sez. VII, 10 maggio 2022, n. 3657, in www.giustizia-amministrativa.it.
[7] T.A.R. Lazio (Roma), Sez. Terza Bis, 24 marzo 2023, n. 5194, in www.giustizia-amministrativa.it.
[8] Cons. di Stato, n. 1414/2014, cit.
[9] Sul tema della notifica per pubblici proclami nel processo amministrativo si rinvia ai contributi di: G. FARRELLI, La nuova frontiera del processo amministrativo telematico: la notifica per pubblici proclami, in www.giustamm.it, 2014; N. PAOLANTONIO, Autorizzazione alla notifica per pubblici proclami e tutela del contraddittorio, in Dir. proc. amm., 1991, p. 103 ss., a cui si rimanda anche per un’interessante e completa analisi storico-evolutiva dell’istituto (pur se anteriore all’entrata in vigore del codice del processo amministrativo).
[10] In altre parole, questa forma eccezionale di notifica può essere utilizzata in due momenti diversi e con presupposti applicativi differenti: in base all’art. 41, comma 4 c.p.a., può essere richiesta dalla parte e concessa dal Presidente per la notifica del ricorso introduttivo al fine dell’instaurazione della lite; in base all’art. 49, comma 3 c.p.a., può essere concessa d’ufficio dal giudice per ordinare l’integrazione del contraddittorio tramite l’invio del ricorso, già notificato nelle forme ordinarie ad almeno un soggetto controinteressato, anche a tutti gli altri soggetti controinteressati.
[11] La notificazione per pubblici proclami era già prevista nel r.d. n. 642/1907 (Regolamento per la procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato), all’art. 14, secondo il quale: “Quando la notificazione del ricorso nei modi ordinari sia sommamente difficile per il numero delle persone da chiamarsi in giudizio, il presidente della sezione adita può disporre che sia fatta per pubblici proclami, autorizzando il ricorrente a far inserire nel foglio degli annunzi della Provincia ove ha sede l’autorità che emise il provvedimento e nella Gazzetta ufficiale del Regno, un sunto del ricorso e le sue conclusioni, con le cautele consigliate dalle circostanze, e designando, se sia possibile, alcuni fra gli interessati ai quali la notificazione debba farsi nei modi ordinari”. Questa disposizione è stata abrogata dall’art. 4 dell’all.4 al d.lgs. n. 104/2010.
[12] Sull’operatività e sui limiti del rinvio alle norme processualcivilistiche previsto dall’art. 39 c.p.a. si rinvia a: W. GIULIETTI, Commento all’art. 39 c.p.a., in G. MORBIDELLI (a cura di), Codice della giustizia amministrativa, cit., p. 553 ss.
[13] In tal senso vedasi, tra le tante: Cons. di Stato, Sez. VI, 31 agosto 2016, n. 3764, in www.giustizia-amministrativa.it.
[14] In tal senso vedasi: Cons. Stato, Sez. IV, 29 luglio 2008, n. 3759, in www.giustizia-amministrativa.it.
[15] Così prevede T.A.R. Calabria (Catanzaro), Sez. II, 31 maggio 2018, n. 1159, in www.giustizia-amministrativa.it. In senso analogo si vedano anche: Cons. di Stato, Sez. V, 14 ottobre 2014, n. 5089 e Cons. di Stato, Sez. VI, 23 gennaio 2013, n. 384, entrambe in www.giustizia-amministrativa.it.
[16] T.A.R. Lazio, (Roma), Sez. I, 17 aprile 2020, n. 4013, in www.giustizia-amministrativa.it.
[17] T.A.R. Lazio, n. 10724/2020, cit. e T.A.R. Lazio, n. 5194/2023, cit.
[18] Sull’impossibilità di tale soccorso, la sentenza T.A.R. Lazio, n. 5194/2023, cit., richiama la sentenza T.A.R. Lazio (Roma), Sez. Prima Quater, 15 giugno 2017, n. 7048, in www.giustizia-amministrativa.it.
[19] O meglio, la notifica ex art. 41, comma 4 c.p.a., in assenza di una previa notificazione nelle forme ordinarie, sarebbe astrattamente possibile (rectius idonea ad evitare l’inammissibilità) solo nei casi ove la parte ricorrente sia in grado di fornire una concreta prova dell’impossibilità (o della concreta difficoltà) di provvedere a detta preventiva notifica ordinaria ad almeno un controinteressato.
[20] Bisogna, però, dare atto che la giurisprudenza del TAR Lazio sul punto non è stata univoca negli ultimi anni. Una maggiore apertura all’applicazione dell’art. 41, comma 4 c.p.a., per esempio, è riscontrabile nella pronuncia T.A.R. Lazio (Roma), Sez. Prima Bis, 30 agosto 2018, n. 9089, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale, per evitare l’inammissibilità del ricorso, parte ricorrente avrebbe dovuto “partecipare il ricorso, ad almeno uno di essi, ovvero, in subordine, chiedere, nel termine decadenziale, l’autorizzazione alla notifica del gravame per pubblici proclami”.
[21] Il riferimento è alle pronunce: Cons. di Stato, n. 3657/2022, cit. e Cons. di Stato, n. 1414/2024, cit.
[22] La ratio di tale norma, infatti, è quella di tutelare il diritto di difesa del ricorrente (facilitando la sua attività notificatoria) e non, sicuramente, quella di gravarlo di una doppia attività di notificazione, prima quella ordinaria ad almeno un controinteressato e, poi, quella per pubblici proclami a seguito dell’instaurazione del contraddittorio.
[23] Sul punto si segnala: Cons. Stato, Sez. IV, ord., 18 ottobre 2019, n. 5263, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo la quale: “osservato che il ricorso per motivi aggiunti svolto in prime cure, nel corpo del quale è stata formulata istanza di autorizzazione alla notifica per pubblici proclami, risulta essere stato spedito per la notifica l’ultimo giorno utile; [e] rilevato che la parte ricorrente ha l’onere di sollecitare l’autorizzazione alla notifica per pubblici proclami in tempo utile per poter procedere all’incombente entro il termine decadenziale per la proposizione dell’impugnazione, come stabilito dall’art. 29 c.p.a. […] non ricorrono le condizioni per la concessione della rimessione in termini, giacché […] gli impedimenti di fatto relativi all’esatta individuazione dei contro-interessati, in disparte l’effettiva gravità, potevano essere superati con una più sollecita proposizione dell’azione giurisdizionale”.
[24] Sul principio del contraddittorio nel processo amministrativo si segnalano: L. MIGLIORINI, Il contraddittorio nel processo amministrativo, Napoli, 1996; E. FOLLIERI, Il contraddittorio in condizioni di parità nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 2006, p. 499 ss.
[25] Sul rapporto tra il rinvio al primo giudice e l’integrità del contraddittorio si segnala: C.E. GALLO, Omessa integrazione del contraddittorio e rinvio al giudice di primo grado nel giudizio amministrativo, in Dir. proc. amm., 1996, p. 336 ss.
[26] Sul punto la sentenza T.A.R. Lazio, n. 5194/2023, cit., ha così argomentato: “In disparte la questione di inammissibilità di cui sopra [quella relativa all’inammissibilità ex art. 41, comma 1 c.p.a. per omessa notifica ad almeno un controinteressato nelle forme ordinarie], nell’odierno giudizio in riassunzione il Collegio ritiene di non dover comunque procedere con l’estensione del contraddittorio nei confronti di tutti i soggetti controinteressati ex art. 49, co. 2 c.p.a., in considerazione della manifesta irricevibilità dell’atto introduttivo del giudizio, così come eccepita dall’Amministrazione resistente con memoria depositata il 31 luglio 2020 nell’ambito del giudizio originario iscritto al r.g. n. 05139/2020, alla quale parte ricorrente non ha replicato in nessuno dei suoi scritti difensivi successivamente presentati”.
[27] T.A.R. Lazio, n. 4013/2020, cit.
[28] Infatti, la sentenza Cons. di Stato, n. 3657/2022, cit., ha annullato con rinvio al giudice di prime cure ex art. 105, comma 1 c.p.a. la prima pronuncia di primo grado (T.A.R. Lazio, n. 10724/2020, cit.), sostenendo che la mancata formazione del contraddittorio nei confronti dei soggetti controinteressati fosse imputabile non già alla parte ricorrente quanto, piuttosto, alla circostanza che il TAR non avesse considerato la tempestiva istanza di autorizzazione alla notificazione per pubblici proclami ritualmente proposta nel ricorso.
[29] Cons. di Stato, n. 1414/2024, cit.
[30] Non si ritiene, in tal sede, di entrare nel merito della vicenda controversa. Ci si limita ad evidenziare come, con la sentenza in commento, il giudice abbia conclusivamente accolto l’appello e, in riforma della sentenza appellata, abbia dichiarato ricevibile e fondato il ricorso di primo grado, con consequenziale annullamento dei provvedimenti impugnati.
[31] Sul punto la sentenza Cons. di Stato, n. 1414/2024, cit., precisa che: “in ogni caso, il carattere “manifesto” della asserita irricevibilità non sembra affatto emergere dagli atti, esigendo, semmai, un accurato esame dei dati fattuali e della normativa di proroga dei termini, applicabile nella presente vicenda. Non solo: la decisione del TAR è, anche sotto questo profilo, errata, per le ragioni indicate in prosieguo”.
[32] Secondo Cons. di Stato n. 1414/2024, cit.: “Questo modo di operare, secondo il collegio d’appello, ha accresciuto le incertezze sul corretto modo di sviluppo del giudizio, complicandone, irragionevolmente, l’esito fisiologico”.
[33] Nel caso di specie, il Collegio, proprio per evitare un ulteriore rinvio al giudice di primo grado, ha deciso di trattenere in decisione la controversia evidenziando come “la circostanza che il TAR, per ben due volte consecutive, abbia erroneamente impedito la rituale formazione del contraddittorio processuale, induce il Collegio a ritenere che il giudizio debba essere trattenuto, per la trattazione del merito, in questo grado. Va ricordato, infatti, che, nella presente fase di appello, il contraddittorio è stato realizzato nei confronti di tutti i controinteressati, mediante la notificazione per pubblici proclami. Pertanto, il diritto di difesa di tali parti risulta comunque garantito, ancorché, non riferito all’effettiva pienezza del diritto al doppio grado di giudizio” (Cons. di Stato n. 1414/2024, cit.).
[34] In altre parole, la notifica per pubblici proclami ex art. 41, comma 4 c.p.a. deve essere intesa come un vero e proprio strumento di instaurazione del contraddittorio minimo previsto dall’art. 41, comma 2 c.p.a. e non va confusa con la notifica per pubblici proclami ex art. 49, comma 3 c.p.a., che è successiva alla notifica nelle forme ordinarie ad almeno uno dei controinteressati e che costituisce uno strumento di integrazione del contraddittorio.
[35] Si rammenta riassuntivamente che il TAR Lazio, in prima battuta, aveva statuito l’inammissibilità del gravame per omessa notifica ad almeno uno dei controinteressati e, in seconda battuta, aveva rilevato la manifesta irricevibilità del gravame.
[36] A tal proposito va precisato che, nella sentenza in commento, il giudice ha deciso di trattenere la causa e di deciderla nel merito, pur dando atto che, in questa situazione, sarebbe stato corretto un terzo rinvio al giudice di prime cure. La scelta di non effettuare tale rinvio – quantomeno “forzata” a parere di chi scrive – è stata giustificata con la scelta di adottare “una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 105 del c.p.a., delimitando ragionevolmente le ipotesi concrete di annullamento con rinvio al T.A.R.”, anche avuto riguardo al “valore costituzionale irrinunciabile della ragionevole durata del processo tanto più rilevante quando la dilatazione dei tempi del processo deriva da reiterati errori ed omissioni di valutazione e decisione compiuti dal giudice”.
[37] Ciò non toglie che il giudice di primo grado, integrato il contraddittorio come prescritto dal giudice d’appello, poi, avrebbe ben potuto porre alla base della sua seconda decisione la questione della tardività del primo ricorso.
Sul tema si leggano anche: Audizione di Claudio Castelli in materia di separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura, L'audizione di Armando Spataro alla Camera dei Deputati del 25 gennaio 2024 sulla separazione delle carriere dei magistrati, Collegialità del giudice della misura cautelare e separazione delle carriere: due tasselli di uno stesso mosaico di Costantino De Robbio, Mozione sul d.d.l. costituzionale in materia di separazione delle carriere, Separazione delle carriere a Costituzione invariata. Problemi applicativi dell’art. 12 della legge n. 71 del 2022 di Pasquale Serrao d’Aquino, La separazione della carriera dei magistrati: la proposta di riforma e il referendum di Paola Filippi, La separazione delle carriere dei magistrati: una proposta di riforma anacronistica ed inutile di Armando Spataro, La separazione delle carriere dei magistrati? una riforma da evitare di Armando Spataro, La mafia si combatte con investimenti tecnologici, non con la separazione delle carriere di Maurizio De Lucia, Separazione delle funzioni dei magistrati vs. celerità dei processi e tutela dei diritti. Intervista di Marta Agostini al prof. David Brunelli.
Il presente contributo costituisce un aggiornamento e un ampliamento dell'articolo pubblicato il 29 maggio 2024.
Il disegno di legge costituzionale sulla separazione delle “distinte carriere” dei magistrati.
Eterogenesi dei fini, aporie e questioni aperte [1]
di Giovanni Canzio
I) Nel breve saggio Il pubblico ministero «parte imparziale»?, pubblicato in Questione Giustizia, nn. 1-2/2024, avevo svolto, fra l’altro, alcune considerazioni critiche in replica alla proposta di legge costituzionale n. 23 del 13 ottobre 2022, d’iniziativa del deputato Enrico Costa, in materia di separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura, cui ha fatto seguito di recente il – non sovrapponibile - disegno di legge costituzionale presentato il 13 giugno 2024 dal Presidente del Consiglio dei Ministri e dal Ministro della giustizia in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare (Atto n. 1917/C).
Il progetto, che prevede la sostanziale destrutturazione di larga parte del vigente modello costituzionale sull’ordinamento e del sistema di governo autonomo della magistratura, sembra potenzialmente destinato a determinare, di riflesso, una più spiccata autoreferenzialità (anche nei rapporti con la narrazione mediatica e con l’opinione pubblica) e un ancora più accentuato distacco o indifferenza della pubblica accusa rispetto alle sorti del processo e all’accertamento della verità.
L’organo di giustizia sarebbe naturalmente sollecitato ad assumere il ruolo di incontrastato vertice della polizia giudiziaria, con la disponibilità di rilevanti risorse di personale e tecnologiche e con la funzione di dirigere indagini finalizzate al raggiungimento di obiettivi concreti e immediati, che potrebbero pure apparire sconnessi dalla lontana nel tempo e imprevedibile opera del giudice – terzo e imparziale - di ricostruzione probatoria dei fatti e della verità nel contraddittorio fra le parti.
Sembra evidente il rischio che, per una paradossale eterogenesi dei fini, prevalgano vieppiù logiche di chiusura corporativa, opposte alla linea, tracciata dalla Costituzione, dell’attrazione ordinamentale del pubblico ministero nel sistema e nella cultura della giurisdizione.
In poche parole, con il distacco del pubblico ministero dal perimetro della cultura della giurisdizione si viene prospettando la costituzione di un secondo e autonomo potere giudiziario, indipendente da ogni altro potere dello Stato e dallo stesso potere pertinente alla giurisdizione in senso stretto, sulla base di un eccentrico e inedito modello nel panorama della giustizia internazionale, nel quale non è dato rinvenire il riconoscimento di un così largo statuto di autonomia e indipendenza a favore di un pubblico ministero “separato” dal giudice e dalla giurisdizione. Con l’effetto collaterale, certamente non auspicato dai promotori dell’iniziativa riformatrice, di legittimare, con l’ulteriore frammentazione dei poteri dello Stato, l’obiettivo rafforzamento, oltre ogni ragionevole limite, della sfera di influenza nel sistema di giustizia dell’organo di accusa, al quale, munito di ampie risorse investigative e di forti garanzie di autonomia e indipendenza, resta attribuito il ruolo di titolare esclusivo dell’inchiesta e dell’azione penale.
La smisurata implementazione della figura e dei poteri di questo organo di giustizia potrebbe a questo punto rendere inefficace – nelle dinamiche dei comportamenti concreti, pure extrafunzionali – il precetto, preminente e valido per ogni magistrato, di «agire e apparire agire liberi» da ogni condizionamento o influenza esterna indebita.
Un duro colpo, dunque, al delicato equilibrio dell’architettura costituzionale disegnata per la Magistratura nel Titolo IV del Capo II della Costituzione, nei termini approvati dai Costituenti e fortemente voluti, in particolare, da Piero Calamandrei (con altri eccelsi giuristi, quali Leone e Bettiol), allora presidente del ricostituito Consiglio Nazionale Forense dopo la sconfitta del fascismo, nonché alle reali esigenze di tutela dei diritti della persona.
En fin, un risultato certo non esaltante per il complessivo assetto delle garanzie della difesa a fronte della inedita ampiezza dei poteri del magistrato inquirente.
Anziché proporre interventi destinati ad esaltare vieppiù la logica di separatezza e autoreferenzialità dell’ufficio del pubblico ministero e a rivelarsi inoltre compressivi dell’indipendenza interna dei singoli magistrati di quell’ufficio, meriterebbe attenzione, viceversa, la proposta alternativa di aprire ulteriori, ancora più pregnanti finestre di controllo di legalità del giudice – questo sì davvero «terzo e imparziale» – fin nei momenti topici delle indagini preliminari, non soltanto, quindi, molto più tardi e spesso infruttuosamente nel giudizio.
Come pure andrebbe perseguito con determinazione il valore della condivisione della missione di giustizia e dell’organizzazione della giurisdizione da parte della magistratura e dell’avvocatura, che, nel reciproco riconoscimento dei rispettivi ruoli e funzioni, ne accrescerebbe l’autorevolezza e ne rafforzerebbe l’indipendenza rispetto al potere politico (essendo l’una sinergicamente custode e garante dell’indipendenza dell’altra), insieme con l’idea di una comune cultura della giurisdizione che dovrebbe virtuosamente contaminare i pur differenti mestieri del giudice, del pubblico ministero e dell’avvocato.
Le suesposte considerazioni, che riguardano la cornice, i contenuti e le finalità del disegno legislativo di riforma costituzionale, vanno tuttavia integrate da una serie di specifici rilievi critici attinenti agli aspetti strettamente tecnico-giuridici della relativa legistica.
Occorre, da un lato, sgomberare il terreno del confronto politico e culturale da talune premesse fattuali empiricamente non verificate e per ciò stesso non vere (post-truth) e, dall’altro, avanzare alcune domande su temi finora inesplorati, poiché - va rimarcato con forza - restano senza risposta numerose, rilevanti questioni di straordinario rilievo istituzionale e organizzativo, pure strettamente collegate e conseguenziali al disegno costituzionale di separazione delle distinte carriere dei magistrati giudicanti e requirenti.
II) Talune premesse del ragionamento, che talora vengono anche pubblicamente enunciate, a fondamento del disegno di riforma costituzionale sono storicamente non corrispondenti alla verità.
- “Soltanto grazie alla separazione delle carriere, il giudice sarà davvero terzo e imparziale”: come dire “fino ad oggi i giudici si sono dimostrati non terzi rispetto alla posizione di parità delle parti e parziali”.
L’affermazione non risponde a verità e ciò è testimoniato dall’elevato numero di decisioni giudiziarie che non confermano l’ipotesi formulata dall’accusa sia in primo grado (oltre il 40%), sia nei gradi di impugnazione in appello e in cassazione.
- “La separazione delle carriere realizza finalmente la riforma epocale della giustizia”.
La separazione delle carriere dei magistrati non ha alcuna influenza, diretta o indiretta, sulla qualità e sull’efficace funzionamento della macchina della giustizia. La riforma strutturale e organica del sistema giudiziario italiano, in adesione a quanto concordato con l’Unione Europea (sulla base del Next Generation EU e del PNRR), è stata realizzata negli anni 2021-2022 dal Governo Draghi e dal Ministro della Giustizia, Marta Cartabia, e viene oggi faticosamente attuata nelle aule di giustizia da magistrati e avvocati, nonostante le persistenti criticità organizzative in materia di organici del personale di magistratura e di cancelleria, di risorse materiali, di logistica e di procedure informatiche, tutte ascrivibili alla competenza del Ministro della giustizia.
- “La riforma in senso accusatorio del codice di procedura penale del 1989 non ha avuto successo perché non è stata allora completata dalla riforma ordinamentale sulla separazione delle carriere dei magistrati”.
Invero, fino ad oggi non si era dubitato che il progetto riformatore del 1989 avesse evidenziato criticità e disfunzionalità -innanzitutto- per la debolezza dei poteri e delle funzioni, perciò della figura, del giudice nelle fasi delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare, mirata al controllo del corretto e non superfluo esercizio dell’azione penale, anche a causa del filtro a maglie larghe previsto per il decreto di rinvio a giudizio. Fattori, questi, che hanno altresì impedito il pieno dispiegarsi dei riti alternativi, alla cui larga attivazione era condizionato il successo del nuovo rito.
- “Le finestre di giurisdizione, oggi recepite dalla legge Cartabia, sono frutto di una lettura creativa della giurisprudenza di legittimità diretta a contrastare la proposta di riforma della separazione delle carriere”.
Il termine “finestre di giurisdizione”, viceversa, risale ai lavori del Progetto del disegno di legge delega di riforma del processo penale, elaborato dalla Commissione “Riccio” (fra i componenti accademici si ricordano i professori di procedura penale G. Spangher, G. Giostra, G. Illuminati, F. Caprioli) e definitivamente approvato il 19/12/2007 con l’allegata relazione di accompagnamento, in funzione del rafforzamento del controllo giurisdizionale durante le indagini preliminari. E ciò per realizzare il “diritto al giudice” anche in quella fase, che già al tempo risultava egemonizzata dal ruolo del Pubblico Ministero, ancor prima della deriva del processo mediatico e del populismo penale.
- “La giurisdizione disciplinare della magistratura ordinaria va sottratta al Consiglio superiore della magistratura perché sarebbe stata fino ad oggi esercitata secondo logiche correntizie di pregiudiziale favore o sfavore nei confronti dei magistrati incolpati”.
Sono invece noti, soprattutto ai magistrati e agli avvocati loro difensori, il sistematico, talora esasperato, rigore e l’efficace funzionamento - salvo rarissimi e deprecabili episodi che non vanno certamente oscurati - sia in primo grado della Sezione disciplinare del CSM, presieduta dal Vicepresidente, che in sede d’impugnazione di legittimità delle Sezioni unite civili della Corte di cassazione, e ancora prima l’equilibrato e corretto esercizio del potere d’inchiesta disciplinare riservato, oltre che al Ministro della giustizia, al Procuratore generale presso la Corte di cassazione.
III) A questo punto, vanno elencate, secondo un doveroso ordine logico, quelle che si configurano a prima lettura come aporie, contraddizioni, lacune o questioni aperte del disegno di legge di riforma costituzionale, che invece si ritiene meritino puntuali risposte e soluzioni esplicite e coerenti.
1. Una volta separate le distinte carriere dei magistrati e istituiti i due organi di governo autonomo della magistratura, giudicante e inquirente, in quali modi e termini verrebbero regolati e decisi gli eventuali conflitti fra i due organi, entrambi presieduti dalla medesima persona del Presidente della Repubblica?
2. In quali forme sarebbero disciplinate le necessarie esigenze di coordinamento fra i due organi di governo autonomo della magistratura e fra ciascuno di essi e il Ministro della giustizia, ai fini dell’efficace funzionamento e del buon andamento del complessivo sistema di giustizia?
3. A un’analoga sorte di separazione delle carriere non dovrebbero andare incontro tanto la giustizia militare quanto quella contabile, per le quali sono parimenti previste le distinte funzioni inquirenti e giudicanti? Si perverrebbe così a un’ulteriore moltiplicazione e frammentazione, a livello costituzionale, dei Poteri dello Stato?
4. In quale proporzione sarebbe distribuita fra giudici e pubblici ministeri la quota di un terzo dei giudici della Corte costituzionale nominati dalle supreme magistrature ordinaria ed amministrativa, ai sensi dell’art. 135, commi 1 e 2, Cost.?
5. Quale sorte sarebbe riservata allo speciale ufficio della Procura Generale presso la Corte di cassazione, che, com’è noto, non svolge un ruolo di inchiesta o di accusa nel processo, bensì quello di autorevole collaboratore nell’esercizio della funzione nomofilattica e nella formazione del diritto vivente ad opera dei Giudici di legittimità, sia civili che penali, nonché di titolare, insieme col Ministro della giustizia, del potere d’inchiesta disciplinare nei confronti di tutti i magistrati ordinari, sia inquirenti che giudicanti?
6. A quale ufficio sarebbe attribuito il ruolo di vertice/dirigente/coordinatore, a livello nazionale, della complessa struttura e articolazione organizzativa della magistratura inquirente? Allo stesso organo di governo autonomo della magistratura inquirente o al Ministro della giustizia o a un’Autorità indipendente o, indistintamente, a ciascuno dei capi delle singole Procure della Repubblica?
7. A quale speciale e indipendente Autorità sarebbe attribuito il potere di inchiesta disciplinare nei confronti dei magistrati giudicanti, che viene oggi esercitato dal Procuratore generale presso la Corte di cassazione e dal Ministro della giustizia nei confronti di tutti i magistrati, sia inquirenti che giudicanti?
8. All’Alta Corte disciplinare, composta anche da magistrati del pubblico ministero e da giudici, viene attribuita la giurisdizione disciplinare, sia in primo che in secondo grado, per tutti i magistrati della giurisdizione ordinaria, benché separati e facenti capo a distinti e autonomi organi. Dunque, le distinte figure dei magistrati ordinari, giudicanti e requirenti, prima si separerebbero e poi si riunificherebbero nell’ambito di un’unica giurisdizione disciplinare? Perché restano estranei all’Alta Corte i procedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati appartenenti ai plessi delle giurisdizioni speciali (militare, amministrativa, contabile), che pure sono notoriamente connotati da storiche e vistose criticità?
9. Se il procedimento disciplinare conserverà, come sembra, il suo tradizionale carattere “giurisdizionale” e non sarà degradato a mera procedura di tipo amministrativo, sopravviverà il giudizio di legittimità riservato alle Sezioni unite civili della Corte di cassazione avverso le decisioni di appello (anche per motivi di merito) dell’Alta Corte disciplinare nei confronti di tutti i magistrati, sia inquirenti che giudicanti. A prescindere dall’evidente appesantimento (ben tre gradi di giudizio!) di una procedura che dovrebbe essere ispirata a criteri di semplificazione e di ragionevole durata per il rilievo dei valori in gioco, come si costituirebbe il collegio dell’Alta Corte disciplinare in caso di cassazione con rinvio di una sua decisione?
10. Sarebbe prevista una regola di proporzione fra magistrati inquirenti e giudicanti ai fini del collocamento fuori del ruolo organico della magistratura, soprattutto nelle funzioni apicali di rilievo presso il Ministero della giustizia?
11. Come si articolerebbe il concorso di accesso alla magistratura: in termini di unità o di separazione delle materie e delle prove per i candidati alla magistratura inquirente o giudicante? E prima ancora come si atteggerebbe l’insegnamento delle materie giuridiche nelle Università: in termini di comune cultura della giurisdizione o di anticipata e funzionale specializzazione degli studi?
12. Come si realizzerebbe la formazione professionale, iniziale e continua, dei magistrati: presso un’unica Scuola superiore della magistratura, articolata in plurimi e coordinati segmenti, o presso due differenti e autonome Scuole?
13. Sarebbe prevista una differente collocazione logistica degli uffici dei magistrati inquirenti e di quelli giudicanti oppure questi continuerebbero ad operare nei medesimi edifici e uffici destinati all’attività giudiziaria?
14. La distinzione degli organi di governo autonomo si rispecchierebbe anche nella composizione e nelle funzioni dei Consigli giudiziari distrettuali (uno o due distinti Consigli giudiziari)?
15. In quali forme e tempi sarebbe prevista la doverosa disciplina intertemporale per consentire l’ordinata transizione, su domanda ed eventualmente anche in sovrannumero, dagli uffici attualmente rivestiti dai magistrati, inquirenti e giudicanti?
IV) Si tratta di aporie, contraddizioni e questioni aperte a differenti soluzioni legislative che evidenziano silenzi, lacune e vuoti progettuali del disegno costituzionale di riforma dell’ordinamento giurisdizionale in ordine ad aspetti di assoluto rilievo, sia istituzionale che organizzativo, rispetto ai quali non appare affatto confortante l’astratta e generica disposizione transitoria, secondo cui “Le leggi del Consiglio superiore della magistratura, sull’ordinamento giudiziario e sulla giurisdizione disciplinare sono adeguate alle disposizioni della presente legge costituzionale entro un anno dalla sua entrata in vigore”.
Dunque, in pervicace ossequio a una scelta di matrice politica e ideologica si prospetta la destrutturazione della sapiente e ineguagliabile architettura della Costituzione repubblicana, con l’obiettivo consapevole o meno (che sembra leggersi dalla profilazione mediatica delle persone dei singoli magistrati ai test psico-attitudinali dei candidati magistrati, alla scandalosa estrazione “a sorte” dei componenti chiamati a far parte di un organo costituzionale secondo la pessima regola “uno vale uno”, alla ingiustificata sottrazione della giurisdizione disciplinare dei magistrati ordinari al suo alveo naturale) della delegittimazione della magistratura ordinaria e, va sottolineato, solo di quella ordinaria, come Ordine autonomo e indipendente da ogni altro Potere, e del declino della fiducia dei cittadini nell’opera dei magistrati.
Un’operazione, questa, che certamente non fa bene all’equilibrio fra i Poteri dello Stato e alla tenuta complessiva dello Stato di diritto e della democrazia.
[1] Testo, riveduto e ampliato, dell’intervento svolto nel convegno organizzato il 27 giugno 2024 presso l’Università degli Studi di Milano: “Separare e sorteggiare. Primo confronto sul disegno di legge costituzionale di riforma del Consiglio superiore della magistratura”.
Diamanti e ruggine, riportando tutto a casa
per Bob Dylan nel giorno del suo compleanno
di Paolo Spaziani
Greenwich Village, New York, una notte di agosto. Al numero 115 di Mac Dougal Street una coppia di giovani sposi scende trepidante le scale illuminate del "Cafe Wha?". Lui ha una Vintage acustica color ciliegia e una Hohner Blues Harps in tonalità do. Poco prima, sotto Washington Square, hanno comprato una copia pirata di Blonde On Blonde e lei ha scattato una foto in direzione di 4th Street. L'ultimo musicista ha terminato le sue canzoni, ha riposto la dodici corde nella custodia, e ha assaporato la prima tirata della Lucky che aveva tenuto sull'orecchio, contando i pochi dollari nel suo cappello. Albert ha una stanza al St. James Hotel, vorrebbe finire il caffè e andare a dormire ma non sa resistere alla curiosità. "Sai suonare, ragazzo?" Ho viaggiato dalla foresta di sequoie alle acque della corrente del Golfo, ma sapevo di trovarti qui, sull'isola di New York. Ho scritto per te una canzone, ora la canto e la saprò bene prima di cominciare. Ma non chiedermi di restare: ho un lungo viaggio da fare. Non ho una casa, ma anche se l'avessi non saprei trovare la strada per tornarci. Non ho una storia, anzi una volta ero vecchio, ora sono giovane. Non ho parole per risponderti, il vento le soffia via dalla mia armonica. Vorrei venirmene dietro a te, in un viaggio infinito il mio vero amore sarebbe ghiaccio e fuoco. E tutto il bene del mondo porterei con i miei occhi nei tuoi. Tristezza è un sassofono che suona lontano ma sempre giovani sono i velieri che fanno ritorno sul mare. L'unica cosa che resta sono tamburi arabi e la musica blues, che nessuno sa suonare come me. "Da dove vieni, ragazzo?" Volevo viaggiare verso sud. Ad Omaha presi un treno, credo fosse diretto ad Albuquerque. Ma a Sterling incontrai un pittore. Immagino dipingesse il suo capolavoro. E sul quadro volle disegnare i miei occhi. Così lo abbandonai. Rimediai un passaggio fino a Topeka, non volevo andarci ma era destino incontrarla. Guidava una vecchia Chevy e mi disse sorridendo che viaggiava verso il mare. Quando le chiesi un passaggio si chinò ad annodare i lacci delle mie scarpe. Mi lasciò sulla riva dell’oceano della Louisiana guardandomi salire su un peschereccio, appena fuori Delacroix. Il resto lo sai, sono tornato appena ho potuto. Non sapevo stare senza la mia armonica e i suoi versi erano veri e splendenti, come se fossero scritti nella mia anima. "E dove andrai, ora, ragazzo?" I ricordi portano diamanti e ruggine. Andremo via prima che la pioggia ricominci a cadere. Sulle anime delle persone che abitano le foreste ci aspetta il volto celato del boia. Nelle prigioni umide bevono acqua contaminata e le acceca il sole sui promontori che affondano negli abissi. Lasciano marcire i venti preziosi e scambiano i loro averi ognuno desiderando le cose dell'altro. Tra principesse e principi irreali, lascerò che all'alba il mio amore venga da me e mi racconti i suoi sogni. E in una canzone infinita saranno sempre cantati. "Parli bene, ragazzo, ma non vedo nulla, oltre questa vecchia chitarra e questa armonica stonata. Nulla, oltre il tuo corpo nudo. Chi sei dunque ragazzo?" Una poesia è una persona nuda. Qualcuno dice che sono un poeta.
Questo contributo fa parte della discussione aperta da questa Rivista sul disegno di legge di riforma costituzionale n. 935, comunicato alla Presidenza del Senato il 15 novembre 2023, che prende il nome di premierato. Si veda anche Premierato sì, ma non così di Stefano Ceccanti.
Trent’anni dopo.
L’Ingegneria costituzionale e le Riforme.
di Alessandro Mangia
Sommario: 1. Che cos’è la forma di governo – 2. Il Triangolo che cambia – 3. La nuova legittimazione duale del Governo. – 4. Partiti e Quirinale – 5. Una riforma limitata – 6. L’eliminazione dei Senatori a vita – 7. L’eliminazione dello scioglimento disgiunto – 8. Il modello Westminster di vent’anni fa. Legge elettorale e i principi ‘supremi’ - 9. La procedimentalizzazione del rapporto di fiducia – 10. Responsabilità giuridica e responsabilità politica – 11 La libertà del parlamentare e l’ingegnere costituzionale – 12. Sapienza politica, educazione alla politica, e ingegneria costituzionale.
1. Che cos’è la forma di governo
Se si deve svolgere una riflessione in margine al Disegno di Legge Costituzionale n. 935/2024, presentato al Senato in data 15 Novembre 2024 (cd. Riforma Meloni) è bene partire subito da una premessa.
E questa premessa è offerta dalla antica osservazione di M. Duverger per cui la forma di governo non è una parte della Costituzione: la ormai ridicolmente celebre ‘Costituzione dei poteri’, isolabile da un ‘Costituzione dei diritti’, da una ‘Costituzione Economica’, o da altro.
Né la forma di governo è una disciplina che può essere esaminata ‘tecnicamente’, come a qualcuno piace dire da trent’anni, nella logica dell’‘ingegnere’ costituzionale, nel tentativo di isolare il proprio discorso dal sovraccarico politico che inevitabilmente accompagna ogni discorso sulle riforme.
La forma di governo è sempre un risultato di fatto in rapporto ad una situazione attuale e concreta: è, cioè, il risultato dell’interazione fra a) le norme costituzionali che distribuiscono la funzione di indirizzo politico tra gli organi dello Stato (e di questo si occupa la riforma in questione); b) la legislazione elettorale, ossia il modo in cui i voti vengono convertiti in seggi (di cui la riforma si occupa in parte, e a grandissime linee); c) la composizione del sistema politico, ossia la sua articolazione in partiti. Che è analizzabile in termini di numero, struttura, divaricazione ideologica, radicamento territoriale. E di cui il diritto non può occuparsi, ma che deve tenere presente, come ben sapeva un Maestro del Diritto costituzionale come L. Elia che, sulla base di questa osservazione, aveva costruito, nel 1970, una sua teoria della forma di governo, tutta incentrata sul ruolo dei partiti[1] e delle ‘forze politiche’.
E, a questa tripartizione classica, andrebbe aggiunta la ricognizione di quella che, in mancanza, di meglio si suole definire ‘prassi’ di azione degli organi costituzionali: perché, invariati quei tre elementi di cui si è appena detto, è la ‘prassi’ a generare, della forma di governo, quelle trasformazioni (Verfassungswandlungen)[2] che i giuristi in passato hanno cercato di ricondurre alle categorie della ‘consuetudine’ o della ‘convenzione’ costituzionale, fino a parlare, in certe fasi, di diritto costituzionale ‘informale’ o ‘non scritto’ (ungeschriebenes Verfassungsrecht) a proposito delle ‘regolarità’ (non delle ‘regole’) di funzionamento delle istituzioni [3].
Se ci si limita ad esaminare uno solo di questi quattro elementi, ogni osservazione non può che essere parziale e di limitata utilità.
2. Il Triangolo che cambia
Qualche tempo fa R. Bin ha provato a spiegare questa peculiarità del discorso attorno alla forma di governo, dicendo che la forma di governo italiana è un Triangolo i cui vertici sono Governo, Parlamento e Presidenza della Repubblica. E questo Triangolo non è fisso, ma si trasforma e cambia nel tempo, restando però sempre un triangolo: quel che si è chiamato, per amor di geometria, ‘isomorfismo’ della forma di governo[4].
Si tratta di una buona metafora. E lo è per diverse ragioni: innanzi tutto perché spiega con un’immagine semplice qualcosa di complesso: e cioè il fatto che le forme di governo ‘divengono’ nel tempo, e quindi costringono gli studiosi a confrontarsi con qualcosa che, ad es., era chiarissimo a chi, all’inizio del XIX Secolo, era già avvertito del fatto che “La Costituzione … è, ma allo stesso tempo diviene: e cioè procede nel suo processo di formazione. Questo procedere è una modificazione che non è immediatamente percepibile e non assume la forma della revisione formale”, sicché “il perfezionarsi di una situazione è apparentemente silenzioso e inosservato. Ed è questa la ragione per cui, con il trascorrere del tempo, una Costituzione può giungere ad essere qualcosa di molto diverso da ciò che è stata in passato” [5].
Ed è, in secondo luogo, quella del Triangolo, una buona metafora perché allarga il campo d’analisi delle riflessioni condotte negli ultimi trent’anni. Che hanno inseguito, con la logica dell’“ingegneria costituzionale”, il mito del ‘Governo di legislatura’. Che si sarebbe dovuto raggiungere attraverso forme di ‘razionalizzazione’ del rapporto politico tra Governo e Parlamento (la famosa ‘sfiducia costruttiva’ ne è un ottimo esempio), o attraverso interventi sulla legislazione elettorale, fino a dar vita ad un genere letterario autonomo, a cavallo tra diritto costituzionale e scienza politica.
L’immagine del Triangolo porta, insomma, nel campo d’indagine quello che del Triangolo è il vertice: ovverosia il Presidente della Repubblica. Ed aiuta così a mettere a fuoco alcune trasformazioni degli ultimi anni, sfuggite a chi si è impegnato solo sul problema della ‘durata’ dei governi, o sulle vicende della legislazione elettorale.
Si tratta di trasformazioni riconducibili alla circostanza per cui la Presidenza della Repubblica avrebbe assunto, rispetto ai tempi della cd. Prima Repubblica, un ruolo talmente stagliato da essere stato, in certe fasi, assolutamente dominante rispetto a Governo e Parlamento, realizzando di fatto durante il Governo Draghi – e questo è stato evidente - una concentrazione di potere politico mai vista prima nella Storia repubblicana.
Il che non è avvenuto per caso. Se in passato - e così è stato dal 1948 fino al triennio 1991/1993 - la Presidenza della Repubblica aveva dato mostra di un profilo non troppo definito rispetto all’asse Governo-Parlamento, imperniato su un sistema dei partiti estremamente stabile (la vecchia idea del ‘Presidente-Notaio della Repubblica), è da allora che all’improvvisa debolezza del sistema politico ha dovuto fare riscontro, con sempre maggiore consapevolezza, il ruolo del Quirinale.
Il Triangolo disegnato qualche tempo fa da R. Bin, insomma, ha preso a cambiare forma allora, con la fine dei partiti della Prima Repubblica. E da allora il vertice ha preso ad allontanarsi dalla base, fino a staccarsene nettamente.
Credo sia questo, più che il vecchio e consumato tema della ‘stabilità’ e della ‘governabilità’, l’elemento su cui si dovrebbe concentrare l’attenzione e su cui si dovrebbe ragionare. Perché è questo l’elemento che ha segnato, dal punto di vista della forma di governo, il percorso della cd. Seconda Repubblica rispetto alla Prima[6]. Qualche rifiuto ad emanare Decreti legge del Governo; la conseguente prassi della contrattazione preventiva del Governo con il Quirinale in ordine al contenuto dei Decreti Legge prima della delibera in Consiglio dei Ministri e della trasmissione al Presidente per l’emanazione ex art. 15 l. 400/1988; un uso quotidiano e troppo consapevole del potere di esternazione, sapientemente amplificato dalla stampa ufficiale; qualche rifiuto di nomina di Ministri proposti dal Presidente del Consiglio incaricato che un tempo si sarebbe confinato nel riserbo dei colloqui tra Quirinale e Presidente del Consiglio – come è sempre stato e che invece è diventato una stupefacente dichiarazione a reti unificate; qualche assunzione di ruolo politico e copertura di Governi cd. ‘tecnici’ o ‘del Presidente’, non solo nella fase della Pandemia, dove questo fenomeno è stato eclatante; la concentrazione in capo al Quirinale del cd. Potere Estero, solo marginalmente disciplinato dall’art. 80 Cost. (non tutti i Trattati devono passare per le Cruna dell’Ago dell’autorizzazione alla ratifica ex art. 80); interventi estemporanei sull’attività di inchiesta del Parlamento; ‘moniti’ al Governo e alle forze politiche puntualmente rilanciati da Uffici Stampa efficientissimi, testimoniano di una trasformazione nel ‘funzionamento’ della forma di governo che non sempre è stata capita fino in fondo dalla cronaca politica. E nemmeno dagli studiosi, se non i più avvertiti[7].
E che è culminata nella creazione per fatti concludenti dell’istituto della rielezione del Presidente della Repubblica sulla base del principio - tutt’altro che pacifico - per cui ciò che è extra legem dev’essere per forza legittimo.
Il che, pur essendo assai discutibile dal punto di vista della logica giuridica, è sembrato d’un tratto un principio ovvio, da sempre presente in Costituzione. E comunque sanzionato dall’acclamazione parlamentare (tanto diversa da un plebiscito popolare?) ad un Presidente rieletto nel 2013 che, a conferma del suo nuovo ruolo di Presidente rieletto, si è subito preoccupato di rimbrottare un Parlamento acclamante.
Il che sembra un’ottima dimostrazione del fatto che la forma di governo dipende sempre, schmittianamente, dalla situazione di fatto e dall’occasione politica. E che le riforme – ad es. l’introduzione dell’istituto della rieleggibilità del Presidente della Repubblica - si compiono assai più per fatti concludenti, come si è detto all’inizio, che per via di legislazione costituzionale[8].
3. La nuova legittimazione duale del Governo
Il punto interessante, però, è che questa progressiva concentrazione di ruolo politico del Quirinale si è realizzata quasi sempre con il consenso, o con l’acquiescenza del sistema politico.
E ciò è avvenuto per molte ragioni, non ultimo il semplice fatto che un sistema dei partiti complessivamente debole e poco autorevole, come era quello della Seconda Repubblica, doveva cercare un elemento di legittimazione fuori di sé. E questo elemento, dopo qualche iniziale fase di conflitto (i tempi dei ‘non ci sto’ del conflitto Scalfaro/Berlusconi), è stato cercato – e trovato – in chi, di volta in volta, ha occupato il Quirinale.
Alla sovralegittimazione del Quirinale da parte di partiti deboli e poco istituzionalizzati, ha fatto così riscontro una prestazione di garanzia da parte del Quirinale stesso nei confronti del sistema politico – o di certe sue parti - che ha ridefinito in termini del tutto nuovi la nozione di organo di ‘garanzia’, che ormai ha assunto, nella vita dello Stato, connotati che un tempo erano propri solo del Diritto civile. E che, si ammetterà, era del tutto sconosciuta ai tempi della Prima Repubblica, quando ad essere garanti della Costituzione erano non gli inquilini del Quirinale (e il relativo aiutantato burocratico, un tempo confinato nei ruoli che gli spettavano), ma i Partiti usciti dall’esperienza Costituente: soprattutto quelli a più forte e diffuso radicamento popolare. Che di quella Costituzione erano i garanti per la semplice ragione di esserne stati i creatori.
Venuto meno quel sistema, e sovraccaricato di funzioni il Quirinale, la forma di governo repubblicana, che nella mente di chi l’aveva pensata doveva essere una forma di governo a legittimazione unica, di tipo monista/parlamentare, ha preso a funzionare secondo i vecchi schemi della legittimazione duale dello Statuto Albertino: dove ad una legittimazione dal ‘basso’ del Governo, espressa dal Parlamento statutario (con i limiti che sappiamo), doveva corrispondere una legittimazione dall’ ‘alto’, di tipo ‘istituzionale/burocratico’, espressa dall’ inquilino di turno del Quirinale.
Ed era. In Età Statutaria, dall’incontro fra queste due legittimazioni – una dal ‘basso’ ed una dall’ ‘alto’ – che dovevano nascere tanto i Governi, nominati dal Monarca e fiduciati dal Parlamento, come le leggi, votate dal Parlamento e sanzionate dal Monarca (art. 3 St. Alb.)[9].
È chiaro che, non esistendo più dal 1946 una Monarchia, non è più questa la situazione, nonostante gli accostamenti – goffamente celebrativi – tra il nome di battesimo di qualche Presidente della Repubblica e il titolo di ‘inquilino del Quirinale’.
Ma è difficile negare che il rapporto strutturale che si è andato a creare fra i vertici del Triangolo non sia divenuto assai simile a quello tipico dell’Età Statutaria.
Se a questo si aggiunge che, da quella fase, il Quirinale, per diverse ragioni, sempre più evidenti dai tempi del Governo Monti del 2011, si è fatto carico del ruolo di terminale delle esigenze riassunte nella formula del ‘vincolo esterno’, proveniente, di volta in volta dall’Unione Europea e dai cd. ‘Mercati’[10], è facile capire come, dopo la crisi del Novembre 2011, il vero problema della forma di governo italiana non sia stata tanto – come si ripete dal 1991-1993 dai cd. ‘ingegneri costituzionali’ – ‘la cronica instabilità’ o la ‘debolezza’ dei Governi.
Il nuovo problema, semmai, è stato la concentrazione di potere politico che si realizza nel momento in cui due vertici del Triangolo – Presidenza della Repubblica e Presidenza del Consiglio - si avvicinano fino ad identificarsi: nel momento, cioè, in cui, per ragioni esogene al sistema dei partiti, sono entrati in scena i Governi del Presidente (Governo Monti 2011; Governo Draghi 2021), che hanno trasformato il Triangolo di R. Bin in una linea retta che ha un unico vertice e un unico punto d’arrivo.
4. Partiti e Quirinale
E questo punto d’arrivo è dato da un Parlamento fatto di partiti deboli, con scarso radicamento popolare e con enorme volatilità di consenso, sempre più popolato da capi locali da tenere a bada da parte dei rispettivi Segretari (o, come si dice oggi, dei Leader), attraverso una contrattazione continua e, soprattutto, attraverso il potere di composizione delle liste elettorali[11]. Che è poi l’unico istituto che garantisce la ‘governabilità’ non dello Stato, ma dei Partiti, sancito dal meccanismo delle liste ‘bloccate’: con conseguente impossibilità per gli elettori di scegliere il proprio rappresentante.
In questa situazione non è difficile cogliere le ragioni della trasformazione del ruolo della Presidenza della Repubblica, e dell’assunzione, da parte di questa, di un ruolo arbitrale che in passato - prima della crisi 1991-1993 - non aveva mai avuto. E che nemmeno era stato immaginato in quell’Assemblea Costituente in cui il ruolo degli appena ricostituiti Partiti era forte e definito, appoggiato com’era da un consenso popolare diffuso quanto erano diffuse le speranze di ricostruzione dopo lo sfacelo della II Guerra Mondiale.
System der Bedürfnisse) >span class="s1">a base economica, stavolta nemmeno legato ad un territorio, come poteva essere ancora nel XIX Secolo[12].
Sicché, quando ci si è accorti che il Triangolo era cambiato, il Notaio era già diventato, nel migliore dei casi, Arbitro attivo. E questo, per una ragione o l’altra, è stato accettato da tutti, a dimostrazione del fatto che la forma di governo è sempre una ‘situazione attuale e concreta’ in senso schmittiano (il risultato di una combinazione complessa di variabili), e solo in parte una disciplina da analizzare tecnicamente.
Prova ne siano – se ce ne fosse bisogno - i dubbi e le polemiche agitati nei mesi scorsi sulla stampa in ordine alla possibilità che il Quirinale non firmasse – ex art. 87 Cost. - un Disegno di Legge governativo che incidesse, almeno in parte, sulle sue prerogative.
5. Una riforma limitata
La riforma Meloni consta di cinque punti, chiaramente messi in luce dalla Relazione di accompagnamento. E si presenta programmaticamente come una riforma ‘minimale’.
E senz’altro lo è, almeno rispetto ai discorsi sulle macroriforme della II parte della Costituzione andate a referendum nel 2016 (Riforma Renzi), nel 2006 (Riforma Berlusconi), nel 2001 (Riforma del Titolo V), figlie del dibattito trentennale sulle riforme che, si diceva sopra, ha dato vita ad un genere letterario ormai autosufficiente. E lo è, a maggior ragione, una riforma limitata se messa a confronto con il materiale e gli articolati accumulatisi negli anni a far data della Bicamerale De Mita-Jotti e (1993) e dalla Bicamerale Berlusconi-D’Alema (1997) e delle proposte di Semipresidenzialismo e di Premierati ‘forti’ e ‘deboli’ che vi trovavano formulate.
Per inciso, molto di quanto prodotto in quella sede è stato trasposto nella riforma del Titolo V approvata con referendum nel 2001, i cui prodotti sono ben noti a quanti hanno dimestichezza con il Diritto delle Regioni.
6. L’eliminazione dei Senatori a vita
Il primo punto è dato dalla abrogazione dell’art 59/2 Costituzione, relativo alla prerogativa presidenziale di nominare cinque Senatori a vita “che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo artistico, scientifico e letterario”. Sul che non c’è troppo da dire, se non del fatto che sarebbe l’eliminazione di un istituto oggettivamente privo di funzione, che ha dato men che mediocre prova di sé, che è stato usato maldestramente in occasione della nomina di qualche Governo tecnico.
E la cui presenza nel sistema non è nient’altro se non un omaggio riservato ai Costituenti al vecchio art. 33 St. Alb., per il quale il Senato avrebbe dovuto essere “composto di membri nominati a vita dal Re, in numero non limitato, aventi l'età, di quarant'anni compiuti, scelti fra le categorie seguenti:
1° Gli Arcivescovi e Vescovi dello Stato;
2° Il Presidente della Camera dei Deputati;
3° I Deputati dopo tre legislature, o sei anni di esercizio;
4° I Ministri di Stato;
5° I Ministri Segretarii di Stato;
6° Gli Ambasciatori;
7° Gli Inviati straordinarii, dopo tre anni di tali funzioni;
8° I Primi Presidenti e Presidenti del Magistrato di Cassazione e della Camera dei Conti;
9° I Primi Presidenti dei Magistrati d'appello;
10° L'Avvocato Generale presso il Magistrato di Cassazione, ed il Procuratore Generale, dopo cinque anni di funzioni;
11° I Presidenti di Classe dei Magistrati di appello, dopo tre anni di funzioni;
12° I Consiglieri del Magistrato di Cassazione e della Camera dei Conti, dopo cinque anni di funzioni;
13° Gli Avvocati Generali o Fiscali Generali presso i Magistrati d'appello, dopo cinque anni di funzioni;
14° Gli Uffiziali Generali di terra e di mare. Tuttavia i Maggiori Generali e i Contr'Ammiragli dovranno avere da cinque anni quel grado in attività;
15° I Consiglieri di Stato, dopo cinque anni di funzioni;
16° I Membri dei Consigli di Divisione, dopo tre elezioni alla loro presidenza;
17° Gli Intendenti Generali, dopo sette anni di esercizio;
18° I membri della Regia Accademia delle Scienze, dopo sette anni di nomina;
19° I Membri ordinarii del Consiglio superiore d'Istruzione pubblica, dopo sette anni di esercizio;
20° Coloro che con servizi o meriti eminenti avranno illustrata la Patria;
21° Le persone, che da tre anni pagano tremila lire d'imposizione diretta in ragione de' loro beni, o della loro industria “.
Che il Costituente, all’atto di rendere il Senato elettivo, abbia conservato solo la categoria 20°, adattandola alla problematica nozione di ‘Patria’, è significativo. Così come è significativo, e non può essere salutata se non con favore, la proposta dell’abolizione definitiva della curiosa categoria del Senatori a vita, che altro non sono se non un residuato, privo di qualunque funzione, della forma di Stato monarchica[13].
7. L’eliminazione dello scioglimento disgiunto
Il secondo punto è dato dalla abrogazione della parte dell’art. 88 che garantisce la possibilità per il Presidente di sciogliere una sola delle due Camere. Si tratta, in realtà, di una norma che poteva avere senso fino al 1963, quando è stata allineata la durata delle Camere e il sistema parlamentare è stato trasformato, dal sistema a debole differenziazione che era stato pensato in Costituente, in un bicameralismo perfetto. Non è difficile capire che si tratta di una norma che, dal 1963, non ha molto senso, non ha mai trovato applicazione, ed è caduta in desuetudine. In un sistema bicamerale perfetto lo scioglimento è del Parlamento tutto, oppure non è. Ma questo sarebbe ininfluente, e l’art. 88 potrebbe tranquillamente restare com’è, non fosse che questa disposizione indebolisce il cuore della riforma medesima, che si trova nella riforma dell’art. 92 Cost. sulle modalità di investitura del Presidente del Consiglio.
8. Il modello Westminster di vent’anni fa. La legge elettorale e i principi ‘supremi’
Il terzo punto, infatti, è rappresentato dalla riscrittura integrale dell’art. 92, ed è orientato a portare, all’interno della forma di governo statale, quel ‘modello Westminster’ del simul stabunt simul cadunt che è stato poi inserito nell’attuale art. 126 Cost., che, sulla base della elezione ‘diretta’ del Presidente della Regione, regola i rapporti fra Presidente e Consiglio. E che, in buona sostanza, faceva già parte delle proposte della Bicamerale D’Alema-Berlusconi del 1997[14].
Il senso della riforma è indicato dalla Relazione di accompagnamento, laddove si specifica che si vuole introdurre ‘un meccanismo di legittimazione democratica diretta del Presidente del Consiglio, eletto a suffragio universale e diretto, con apposita votazione popolare che si svolge contestualmente alle elezioni per le Camere”, assai simile a quello proposto a suo tempo da S. Galeotti, in margine ai lavori del cd. Gruppo di Milano[15]. Si tratta di una variante definita ‘forte’ tra gli addetti ai lavori rispetto alla proposta di premierato ‘debole’ avanzata a suo tempo da A. Barbera nel 1995[16], i cui pregi e difetti sono stati analizzati, e da tempo, dalla dottrina giuridica[17].
«Art. 92. – Il Governo della Repubblica è composto del Presidente del Consiglio e dei ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei ministri Il Presidente del Consiglio è eletto a suffragio universale e diretto per la durata di cinque anni.
Le votazioni per l’elezione delle due Camere e del Presidente del Consiglio avvengono contestualmente. La legge disciplina il sistema elettorale delle Camere secondo i princìpi di rappresentatività e governabilità e in modo che un premio, assegnato su base nazionale, garantisca il 55 per cento dei seggi in ciascuna delle due Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio dei ministri.
Il Presidente del Consiglio dei ministri è eletto nella Camera nella quale ha presentato la sua candidatura. Il Presidente della Repubblica conferisce al Presidente del Consiglio dei ministri eletto l’incarico di formare il Governo e nomina, su proposta del Presidente del Consiglio, i Ministri».
La novità più significativa – e allo stesso tempo il punto più critico – nella redazione del nuovo art. 92 è dato dall’inserimento in Costituzione di una disciplina sul sistema elettorale, che viene sottratta al rituale dibattito politico istituzionale che ha accompagnato fin dall’inizio il discorso sulle riforme, imponendo un sistema elettorale maggioritario, che assegni (almeno) il 55 per cento dei seggi al candidato Presidente vincitore e alle liste collegate, nel tentativo di assicurare al Governo una maggioranza stabile e certa. Il che di per sé è apprezzabile.
L’interrogativo però che sorge subito è che una disciplina del genere può funzionare e non generare effetti di sovra- o sotto-rappresentazione solo in presenza di un sistema dei partiti in cui sia presente un numero limitato di liste. Che genere di rappresentanza garantirebbe una lista (o una coalizione) che raggiungesse – ad esempio – il 20 per cento dei voti espressi, con un tasso di astensione oscillante, come è avvenuto, tra il 36,09 per cento del 2022, il 27,07 del 2018, il 24,80 del 2013, il 21,90 del 2008?
Riemergono qui le osservazioni iniziali sulla struttura della nozione di forma di governo. Una forma di governo funziona in modo differenziato a seconda della concorrenza o meno di alcuni elementi fattuali, quali la composizione del sistema dei partiti, l’affluenza al voto, la distribuzione del consenso tra le liste partecipanti alla consultazione. E questi elementi fattuali non possono essere controllati o indirizzati, se non in minima parte, dal legislatore, costituzionale o meno che sia.
Il fatto che si inseriscano in Costituzione due principi generali, finora appannaggio della scienza politica, e cioè ‘governabilità’ e ‘rappresentatività’, dimostra, da parte dei redattori del nuovo art. 92, piena consapevolezza del problema, ed il tentativo di circoscriverne la portata.
Va da sé che, a rigore, l’inserimento in Costituzione del criterio per cui la legge elettorale deve garantire almeno il 55 per cento al Governo supererebbe molti dei paletti precedentemente posti dalla Corte costituzionale nella sua giurisprudenza in materia elettorale (si cfr., a tacer d’altro, C. cost. 1/2014; C. cost. 35/2017) e che costituiscono oggi un limite alla progettazione di una ennesima legge elettorale. Per inciso, quante sono state le leggi elettorali in vigore in Italia dall’introduzione del Mattarellum e quanti i progetti di riforma[18]? Si ricordi qui solo il dibattito svoltosi in margine al referendum costituzionale del 2020 (cd. ‘Taglio’ dei parlamentari) all’interno del quale si sosteneva la necessità di un ennesimo intervento sulla legislazione elettorale per adeguare gli effetti del (malaugurato) ‘Taglio’ sulla ‘rappresentatività’ degli organi: un dibattito poi spentosi durante l’emergenza Covid.
Ciò detto, pare difficile ritenere che una norma costituzionale espressa possa essere tacciata di incostituzionalità, come pure qualcuno ha generosamente fatto, alla luce dei principi di ‘governabilità’ e ‘rappresentatività’. Così come è difficile pensare che la Corte costituzionale possa estendere il suo sindacato ad una norma costituzionale di deroga espressa, nonostante le invocazioni alla giurisprudenza sui ‘principi supremi’ inaugurata con C. cost. 1146/1988 e proseguita con 238/2014. Quali sarebbero i ‘principi supremi’ in gioco in questo caso? E quanto ‘ideologica’, se non schiettamente ‘politica’, è la loro invocazione?
Anche perché, prendendo sul serio questi argomenti, che si fondano, come al solito, sul parametro della ragionevolezza, una disciplina elettorale che garantisse almeno il 55 per cento dei seggi a liste sovrarappresentate non sarebbe incostituzionale in sé, ma sarebbe, di volta in volta, e di elezione in elezione, incostituzionale a seconda dell’affluenza elettorale e della distribuzione dei voti. A seconda, cioè che si verifichi o no quell’effetto distorsivo della rappresentanza che è implicito in ogni formula elettorale diversa dal ‘proporzionale’ puro.
Insomma, l’asserita incostituzionalità del nuovo art. 92 Cost. in rapporto agli impalpabili ‘principi supremi’, invocati dagli interpreti di un certo ‘neocostituzionalismo’, dipenderebbe in concreto dall’affluenza alle urne, dal numero delle liste, e dalla distribuzione dei voti: sicché, per capirci, a seconda dei casi, l’art. 92 riformato potrebbe essere prima costituzionale, poi incostituzionale, e poi ancora costituzionale in concreto a seconda di come vadano le elezioni.
Il che, si converrà, non sembra un grande modo di ragionare di Costituzione in termini che non vogliano essere, diciamo così, strumentali; o, per dirla in altro modo, improntati ad un certo ‘neocostituzionalismo’ di maniera che vive di ‘principi’ alti e ‘altissimi’, che stanno al di sopra del legislatore costituzionale. E che però sarebbero liberamente e definitivamente – e cioè senza possibilità di impugnazione ex art. 137 Cost. - ‘bilanciabili’ dalla Corte costituzionale.
Anzi, l’esempio della disciplina costituzionale, prima costituzionale, poi incostituzionale, e poi ancora costituzionale, a seconda dell’esito del voto, dovrebbe bastare a mettere in luce quanto strumentali possano essere certe invocazioni che confondono diritto e opzioni politiche. E quanto contraddittori e paradossali siano gli esiti di un sindacato di costituzionalità ridotto, a tacer d’altro, alla libera applicazione di ‘proporzionalità’ e ‘ragionevolezza’ a qualunque fattispecie.
Il problema che queste invocazioni mettono in luce, semmai, è un altro. Ed è il problema di valutare l’opportunità di approvare o meno una riforma, più o meno ben fatta, più o meno utile, più o meno rispondente alle esigenze messe in luce dalla Relazione di accompagnamento: in una battuta, più o meno rispondente agli obiettivi schiettamente ‘politici’ di ogni proposta di riforma costituzionale. Ma qui dovrebbe weberianamente fermarsi il discorso del giurista che non voglia essere attore politico che non aspiri al ruolo di Giudice-Profeta cui ci ha abituati un certo tipo di giurisprudenza, non solo costituzionale[19].
Attiene, insomma, a quella sfera della discrezionalità politica del legislatore, ordinario o costituzionale, che in altri tempi si diceva non avrebbe dovuto essere oggetto di intervento da parte del Giudice costituzionale. E che l’art. 28 l.87/1953 – apparentemente ancora in vigore – intendeva proteggere, fissando così il perimetro entro il quale avrebbe dovuto muoversi la cognizione del Giudice costituzionale, prima ancora che i ‘principi supremi’ fossero immaginati.
9. La procedimentalizzazione del rapporto di fiducia
Il terzo punto riguarda l’intervento sull’art. 94 Cost., che detta una disciplina pure ricalcata sulla logica dell’attuale art 126 Cost. Fermo restando il principio per cui “Il Governo deve avere la fiducia delle due Camere” (co. 1), e che “Ciascuna Camera accorda o revoca la fiducia mediante mozione motivata e mediante appello nominale (co. 2)”; e ferma restando la disciplina della mozione di sfiducia contenuta nei co. 4 e 5, le innovazioni riguardano il co. 3, dove si legge che:
«Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia. Nel caso in cui non sia approvata la mozione di fiducia al Governo presieduto dal Presidente eletto, il Presidente della Repubblica rinnova l’incarico al Presidente eletto di formare il Governo. Qualora anche in quest’ultimo caso il Governo non ottenga la fiducia delle Camere, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere»;
e un eventuale, ultimo co. 6 dove si legge che
«In caso di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio eletto, il Presidente della Repubblica può conferire l’incarico di formare il Governo al Presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al Presidente eletto, per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del Presidente eletto ha ottenuto la fiducia. Qualora il Governo così nominato non ottenga la fiducia e negli altri casi di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio subentrante, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere».
È evidente che, nel complesso, si tratta di una disciplina che mira da un lato (art. 92) ad automatizzare il procedimento di scelta del Presidente del Consiglio, spostandolo dal Capo dello Stato al corpo elettorale; dall’altro mira a procedimentalizzare (art. 94 co. 3) il conferimento della fiducia da parte delle Camere prevedendone lo scioglimento pressoché immediato nel caso in cui, con il voto di fiducia, non intendessero confermare l’indicazione uscita dalla consultazione elettorale. E nella fase successiva mira a garantire che il Programma di Governo approvato dagli elettori prosegua per la durata della legislatura.
Il che è in linea con l’ambizione trentennale di avere governi ‘stabili’ e ‘duraturi’ che garantiscano la ‘governabilità’ del Paese. Il che sembra confermato dall’esperienza di applicazione del cd. ‘Modello Westminster’ all’interno degli Esecutivi regionali.
In realtà, riprendendo i termini di un dibattito vecchio di almeno vent’anni, è lecito dubitare che le dinamiche di funzionamento del sistema di relazioni fra Presidente e Consiglio verificatesi dopo la riforma del 1999 siano destinate a riprodursi a livello nazionale, dove i Governi si trovano a gestire rapporti e interessi – innanzi tutto in sede di redazione ed approvazione della legge di bilancio che li fa essere destinatari di sollecitazioni che le Regioni – con i loro enormi problemi - non devono affrontare.
Ed è lecito dubitare della capacità di tenuta del meccanismo, di per sé molto chiaro e lineare, disegnato nella riforma, per il fatto che questo meccanismo pretende di irreggimentare in uno schema fisso una serie di variabili non compiutamente prevedibili, vincolando l’azione di Governo - che sia guidato dal Presidente del Consiglio investito dall’elezione politica, o da un suo eventuale ‘continuatore’ - alle “dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici” enunciati in origine.
Il che dà per scontato ciò che scontato non è: ovverosia che la vita dello Stato possa essere irreggimentata in una situazione di regolarità perenne, prevedibile dalla politica, e sanzionabile dal corpo elettorale in termini di voto sul ‘programma’ all’atto delle elezioni. E che quel voto sia parametro di legittimazione della successiva azione del governo, guidato che sia dal ‘premier’ o da un suo successore.
Come dovrebbe comportarsi la maggioranza in presenza di un evento imprevisto, perché in natura imprevedibile, come una situazione di tensione internazionale o una Pandemia, o soltanto una crisi finanziaria dipendente da variabili esogene, non controllabili dal Governo? Dovrebbe seguire la linea politica enunciata dal Premier di fronte al caso imprevisto perché imprevedibile, e quindi al di fuori del ‘programma’ originario, oppure dovrebbe rompersi la maggioranza?
E che senso avrebbe in questo caso conferire il mandato a formare un nuovo Governo ad un “un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al Presidente eletto“ se la maggioranza si è già dissolta?
E, ancora, che senso avrebbe, esaurito questo passaggio, sciogliere le Camere e mandare il Paese ad elezioni in una situazione di crisi finanziaria, o sanitaria, o di politica internazionale con conseguente campagna elettorale e governo dimissionario in carica per il disbrigo degli ‘affari correnti’ ?
È chiaro che irrigidire il ‘programma di governo’ trasformandolo in un parametro di legittimazione dell’azione di un Governo sconta il fatto di vincolare l’azione di ogni governo ad un complesso di previsioni e di indirizzi che possono avere senso all’atto delle elezioni, ma che è destinato a perdere via via attualità e praticabilità con l’allontanarsi nel tempo del momento della elezione/investitura.
In altri termini: avrebbe senso, oggi, nel 2024, un governo vincolato ad un programma politico elaborato nel 2019 e sanzionato dal voto popolare del 2019?
Ma non si tratta soltanto di questo. Chi ci dice che, fermo restando lo schema disegnato dalla riforma, la maggioranza di governo, pur restando compatta, non si traduca, di fatto, in un governo diverso attraverso il ‘sostegno esterno’ di forze politiche uscite sconfitte dalla consultazione elettorale? Siamo sicuri che una norma del genere di quella contenuta nel d.d.l. 935/2023 prevenga il trasformismo, non solo del parlamentare, ma delle stesse maggioranze di Governo? Cosa impedirebbe, di fatto, al Presidente del Consiglio ‘eletto’, in una mutata situazione di fatto (ecco tornare la ‘situazione’ schmittiana), di guidare, con il consenso di tutti, un ‘Governo di unità nazionale”, eludendo o aggirando l’“investitura” o il “mandato popolare” ricevuto solo qualche anno prima in contrapposizione a chi oggi sostiene il Governo dall’esterno e ne condiziona le scelte [20]?
10. Responsabilità giuridica e responsabilità politica
In realtà il punto debole di questa proposta di procedimentalizzazione è l’idea che il ‘programma elettorale’ di un dato momento, costruito su una data ‘situazione attuale e concreta’, possa essere irrigidito e assolutizzato fino a divenire parametro unico di legittimazione di un Governo. Sicché, allontanatosi quel Governo dal programma originario, quel Governo dovrebbe automaticamente cadere con ritorno ad elezioni.
Il che, per quanto paradossale, dipende da un certo modo di accostarsi al problema della stabilità dei governi: che, come si è detto, è quello tipico dell’ingegneria costituzionale. Ma dipende, soprattutto da una mancata comprensione della natura della responsabilità politica che il Parlamento può far valere, in un sistema parlamentare, nei confronti del Governo; e, corrispondentemente, della responsabilità politica che l’elettore può far valere nei confronti del singolo parlamentare.
Come è stato messo bene in luce da V. Angiolini anni fa, il discrimine fra responsabilità giuridica e responsabilità politica è la natura del parametro alla luce del quale quella responsabilità può essere fatta valere[21]. La responsabilità giuridica è tale perché – si tratti di responsabilità civile nelle sue diverse forme, penale, o contabile – è sempre una responsabilità a parametro fisso, precostituito dalla legge o comunque dall’ordinamento. E la fissità del parametro è al tempo stesso criterio di giudizio, e garanzia di chi può, potenzialmente, essere ritenuto giuridicamente ‘responsabile’.
Invece ciò che, per approssimazione a questa, i giuristi definiscono responsabilità politica è strutturalmente altro. È, cioè, una forma di responsabilità a parametro mobile: a parametro, cioè, di volta in volta fissato da chi ha il potere (o il dovere) di far valere questa forma di responsabilità, esercitando un controllo sull’azione di chi vi è soggetto. Ed in questa circostanza si esprime un principio di ‘libertà’ della politica, che non sopporta irreggimentazioni o vincoli.
Forse che un Governo che adempia idealmente per una legislatura in modo preciso e puntiglioso il programma enunciato ha diritto a restare in carica? O i parlamentari hanno in ogni momento il potere e il dovere di sfiduciarlo nell’interesse della Nazione, qualora ritengano che l’azione di quel Governo sia inadeguata alla ‘situazione’ del momento, anche se quell’azione è stata perfettamente rispondente alle “dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici” assunti al momento dell’entrata in carica?
È chiaro che in questi casi si sconta una indebita sovrapposizione tra lo schema di funzionamento della responsabilità in senso proprio – che è quella ‘giuridica’ – e quella che, in mancanza di meglio, e per approssimazione, i giuristi hanno definito nel tempo responsabilità ‘politica’[22].
La quale, si badi, non si ritrova soltanto nel rapporto fiduciario intercorrente tra Governo e Parlamento ex art. 94 Cost., ma si ritrova, con le medesime caratteristiche, nell’art. 67 Cost. e nella disciplina del ‘libero mandato’ che regge il sistema della rappresentanza[23].
Forse che il Parlamentare che adempie scrupolosamente per una legislatura agli impegni assunti (non si sa più verso chi? Verso i propri elettori o verso la Nazione di cui ci parla l’art. 67 ?) ha diritto alla rielezione nella legislatura successiva? E il Parlamentare che invece non cambi casacca e gruppo parlamentare deve essere sanzionato perché ritenuto politicamente responsabile con esclusione dalla legislatura successiva? O invece l’elettore, in quanto titolare del potere di far valere – o meno - la responsabilità politica dell’eletto può decidere di riconfermarlo ad onta della sua fedeltà alle ‘dichiarazioni’ elettorali? E con lui riconfermare quella maggioranza più o meno fedele agli ‘indirizzi programmatici’?
11. La libertà del parlamentare e l’ingegnere costituzionale
Semmai, è proprio riflettendo sulla natura dell’art. 67 Cost., e sul principio del libero mandato che vi è racchiuso, che è possibile cogliere il fatto che, per quanto ci si sforzi di ingabbiare una maggioranza all’interno di una logica di premi e punizioni che incentivino o meno certi comportamenti, finché resta il principio del libero mandato a tutelare la libertà di voto del singolo parlamentare non esiste meccanismo che possa garantire nel tempo la durata di una maggioranza.
Il che è stato scoperto ancora trent’anni fa quando si gettava la croce sui governi di coalizione e sulla legge elettorale proporzionale e si raccontava che una legge maggioritaria avrebbe restituito lo Scettro al Principe, e che con una legge elettorale maggioritaria i governi sarebbero stati di legislatura[24]. Poi si è scoperto in fretta che i Governi del maggioritario cadevano per le stesse identiche crisi di coalizione che segnavano i tempi della Prima Repubblica; e che le maggioranze di governo variavano con frequenza anche maggiore di quanto non avvenisse ai tempi della Prima Repubblica.
Ciò che ogni riforma prodotta con la logica dell’ingegneria costituzionale, affermatasi trent’anni fa come soluzione al problema della crisi dei Partiti, sconta è l’irriducibilità della libertà del Parlamentare, garantita dal divieto del mandato imperativo ex art. 67 Cost., ad un sistema di premi e punizioni (se si preferisce, di incentivi e disincentivi) di tipo comportamentale.
Il che è soltanto l’altra faccia del problema derivante dal fatto che, alla caduta del sistema dei Partiti della Costituente, e al vuoto generatosi in quel momento, si è creduto di poter ovviare attraverso una sorta di Automa politico: uscendo, cioè, dalla prospettiva del Costituzionalismo come tecnica per la limitazione e il temperamento di un potere politico già esistente in premessa[25], e prendendo a guardare alla Costituzione come ad una ‘macchina’ che avrebbe dovuto produrre ‘politica’ e ‘decisioni’ in un contesto di stabilità ed efficienza, imposta dalla nuova logica della ‘concorrenza’ del ‘sistema paese’ con altri ‘sistemi paese’ codificata in Maastricht 1992[26].
“Bentham disse una volta che i due grandi ‘motori’ (engines) della realtà sono la punizione e il premio. E sicuramente ‘ingegneria’ deriva da engine. Mettendo assieme metafora e etimologia, sono arrivato a ‘ingegneria costituzionale’ per rendere l’idea, primo, che le costituzioni sono qualcosa di simile a macchine o meccanismi che devono ‘funzionare’ e che devono dare comunque risultati; e, secondo, che è improbabile che le costituzioni funzionino a dovere (come dovrebbero), a meno che non impieghino i ‘motori’ di Bentham, e cioè punizioni e premi”[27]. Così, nel 1995, G. Sartori descriveva il nuovo approccio, mutuato dalle scienze sociali, che avrebbe dovuto sostituire – e che di fatto ha sostituito con i risultati fallimentari che sappiamo – il vecchio ‘metodo giuridico’ nell’affrontare il problema delle ‘riforme’.
Trent’anni di esperienze fallimentari dei sedicenti ingegneri costituzionali - di quanti cioè hanno creduto opportuno importare il metodo empirico delle scienze sociali per ‘misurare’ le rese dei sistemi istituzionali[28] e applicare il behaviourismo alla politica - dovrebbero averci mostrato i grossi ed evidenti limiti di questo approccio
Chi ragiona in questo modo lascia in ombra il fatto che non si può chiedere alla Costituzione e agli artifici tecnici di fare ciò che la politica dovrebbe fare, e cioè fabbricare maggioranze per produrre decisioni condivise e socialmente accettabili e, magari, anche giuste. E lascia in ombra il fatto – ben chiaro a chi, come V. E. Orlando, distingueva nettamente fra ‘diritto’ e ‘politica’ - che c’è uno spazio che spetta alla Costituzione così come c’è uno spazio che spetta alla politica. Perché questi spazi, nella mente del fondatore del ‘metodo’ giuridico, erano separati e separati dovevano restare: nel rispetto reciproco[29].
La Costituzione può fornire un quadro normativo, e alcuni meccanismi di razionalizzazione dei procedimenti attraverso i quali giungere a queste decisioni, ma non può fare molto di più.
E ciò si può dire perché, fino a quando sta in Costituzione il pilastro dell’art. 67, a garanzia della libertà d’azione del parlamentare, il parlamentare ha tutto il diritto di uscire dalla maggioranza di cui fa parte, a prescindere dal sistema di ‘premi’ e ‘punizioni’ inventati dagli ‘scienziati sociali’ improvvisatisi giuristi.
E quando questa libertà si colloca in un sistema multipartitico, dove un governo per forza di cose deve essere governo di coalizione, l’instabilità delle coalizioni non è una patologia del sistema, ma ne è la fisiologica conseguenza nel momento in cui gli interessi dei componenti della coalizione divergono.
Ed è un bene che sia così, perché la libertà del parlamentare è soltanto la proiezione, sul piano delle istituzioni, di quella libertà dell’elettore che è garantita dall’art. 48 Cost. E che è il fondamento di quell’idea di ‘sovranità popolare’ su cui dovrebbe reggersi l’organizzazione della Repubblica[30].
12. Sapienza politica, educazione alla politica, e ingegneria costituzionale
Insomma, ciò che non si capisce – o non si vuole capire – è che senza un sistema di partiti stabile e sufficientemente istituzionalizzato non c’è espediente tecnico che regga di fronte alla imprevedibilità delle situazioni che costellano la vita dello Stato. E, di converso, anche la peggiore (sulla carta) forma di distribuzione del potere di indirizzo tra gli organi di vertice dello Stato può funzionare benissimo in presenza di una classe politica adeguatamente formata e consapevole del proprio ruolo.
Che in un sistema parlamentare le maggioranze vadano e vengano, si compongano, e si ricompongano – giova ripeterlo - è semplice fisiologia del sistema.
La stranezza è arrivata dopo, quando, con una classe politica, è venuta meno anche quella che, in mancanza di meglio, si definiva un tempo ‘sapienza politica’. E si è preteso di sostituire questa ‘sapienza’ con l’‘Ingegneria costituzionale’: e cioè il tentativo di ricreare a tavolino ciò che era venuto meno assieme al sistema politico della Prima Repubblica. La curiosa idea del ‘pilota automatico’ che dovrebbe guidare un Paese, nelle dichiarazioni di un certo funzionariato europeo, è, in fondo, figlia della stessa cultura benthamiana applicata alle istituzioni, e di cui ci parlava, lucidamente, G. Sartori ancora nel 1995[31].
Il problema, semmai, messo da parte Bentham e i suoi epigoni, più o meno consapevoli, è un altro, ed è quello con cui ci confrontiamo da almeno trent’anni: e cioè che se viene meno un sistema dei partiti, viene meno anche la funzione di educazione alla politica che i partiti hanno svolto attraverso le loro scuole di politica e che ne garantiva la replicazione nella continuità.
M. Weber, più di un secolo fa, ci diceva che la politica è una professione (in realtà un Beruf) che si impara. Se una società non educa e non forma, si preclude la replicazione sociale e si ritrova a breve senza una classe politica[32]. E senza una classe politica addestrata all’ufficio di cui ci parlava Weber la libertà del parlamentare – da garanzia della libertà del cittadino – si trasforma, e diventa uno scherzo insopportabile[33]. E dà spazio ai surrogati della politica, i cui frutti sono stati bene espressi da trent’anni di Ingegneria costituzionale.
Di cui, vale la pena di dirlo, questo progetto di riforma, stante la sua brevità, non è nemmeno il frutto peggiore. Semmai è solo un frutto un po’ troppo maturo, e dal sapore già noto.
[1] L. Elia, Governo (forme di), in Enc. Dir., XIX, 1970, ora in Costituzione, Partiti, Istituzioni, Il Mulino, Bologna 2009, 161.
[2] A. Mangia, Mutamento costituzionale e dogmatica giuridica, in Lo Stato n. 18/2022, 61 ss., sulla scorta di G. Jelllinek, Verfassungsänderung und Verfassungswandlung. Eine staatsrechtlich-politische Abhandlung, Berlin, Verlag von O. Haring, 1906, dove, fra l’altro, si parla di ‘mutamento costituzionale per mancato esercizio di funzione (nicht Ausübung) da parte di un organo dello Stato‘. Una traduzione parziale della riflessione di Jellinek si trova ora in M. Carducci (a cura di), Mutamento costituzionale, Lecce, Pensa Editore, 2004
[3] Una sintesi recente del dibattito sul punto del diritto costituzionale ‘non scritto’ si trova ora in H. A. Wolff, Ungeschriebenes Verfassungsrecht unter dem Grundgesetz, Tübingen, Mohr, 2019.
[4] R. Bin R., Il Presidente Napolitano e la topologia della forma di governo, in Quad. Cost. 1/2019,
[5] G. F. W. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, oder Naturrecht und Staastwissenschaft im Grundrisse, herausgegeben von Dr. Eduard Gans, II Aufl, Berlin 1840, § 298: «(Die Entwickelung der Verfassung.) Die Verfassung muß an und für sich der feste geltende Boden sein, auf dem die gesetzgebende Gewalt steht, und sie muß deswegen nicht erst gemacht werden. Die Verfassung ist also, aber ebenso wesentlich wird sie, d. h., sie schreitet in der Bildung fort. Dieses Fortschreiten ist eine Veränderung, die unscheinbar ist und nicht die Form der Veränderung hat … So ist also die Fortbildung eines Zustandes eine scheinbar ruhige und unbemerkte. Nach langer Zeit kommt auf diese Weise eine Verfassung zu einem ganz anderen Zustande als vorher». La trad. it. si trova in Lineamenti di filosofia del diritto. Nuova edizione riveduta, con le Aggiunte di Eduard Gans, a cura di G. Marini, Roma-Bari, Laterza, 2021, 375.
[6] Fondamentale qui resta G. U. Rescigno, A proposito di Prima e Seconda Repubblica, in Studi parl. e di pol. cost. 103/1994, 5.
[7] M. Gorlani, Libertà di esternazione e sovraesposizione funzionale del capo dello Stato, Milano, Giuffré, 2012; D. Galliani, I sette anni di Napolitano. Evoluzione politico costituzionale della Presidenza della Repubblica, Milano, 2012, Università Bocconi Editore, 2012; A. Pertici, Presidenti della Repubblica. Da De Nicola al secondo mandato di Mattarella, Bologna, il Mulino, 2022
[8] A. Mangia, Potere, procedimento, e funzione nella revisione referendaria, in Rivista AIC 3/2017.
[9] P. Colombo, Storia costituzionale della Monarchia italiana, Laterza, Roma-Bari 2001.
[10] Esemplari le considerazioni che si ritrovano in Guerra G., Appunti sul ruolo del Presidente della Repubblica dopo Maastricht, in Democrazia e Diritto 2/2002, 101
[11] G. Sapelli, La democrazia trasformata. La rappresentanza fra territorio e funzione: un’analisi teorico-interpretativa, Milano, Bruno Mondadori, 2007.
[12] Hegel, G. F. W., Grundlinien der Philosophie des Rechts, p. 248. Sulla necessaria separazione (Trennung) fra Stato e società nella prospettiva del governo del ‘Sistema dei Bisogni’ cfr. E. Forsthoff, Der Staat der Industriegesellschaft, C.H. Beck Verlag, München, 1971, trad. it Lo Stato della società industriale, Milano, Giuffré, 2011, a cura di A. Mangia.
[13] S. Bonfiglio, Il Senato in Italia. Riforma del bicameralismo e modelli di rappresentanza, Laterza, Roma-Bari, 2006.
[14] G.G. Floridia – S. Sicardi, I progetti presentati alla Commissione, in P. Costanzo - G. F. Ferrari- G.G. Floridia -R. Romboli - S. Sicardi, La commissione Bicamerale per le riforme costituzionali. I Progetti, i Lavori, i Testi approvati, Cedam, Padova 1998, 139: “In un primo gruppo di progetti, il capo del governo o Primo Ministro è eletto dall’assemblea rappresentativa su designazione del Presidente della Repubblica o su candidature presentate da un terzo dei deputati con un voto a maggioranza assoluta … Un secondo gruppo di progetti prevede invece l’investitura elettorale del premier, ma secondo due modalità alquanto diverse. (i) La prima ipotesi è quella della elezione a suffragio universale, contestuale alle elezioni parlamentari, per lo più a maggioranza assoluta dei voti validi (con un eventuale ballottaggio tra i due candidati più votati) ma talora anche a maggioranza semplice, e spesso accompagnata dall’elezione di un Vice primo Ministro destinato a subentrare sino alla fine del mandato, in caso di morte o impedimento permanente (nel caso di dimissioni si prevede invece il ricorso ad elezioni anticipate delle Camere o del primo Ministro). (ii) La seconda ipotesi è quella di una sua designazione indiretta attraverso un collegamento vincolante con le coalizioni che si formano per le elezioni politiche, per cui il Presidente della Repubblica deve nominare il Primo Ministro candidato collegato allo schieramento che abbia ottenuto il maggior numero di parlamentari… Per l’ipotesi di rottura del rapporto fiduciario si prevedono generalmente lo scioglimento e le elezioni anticipate nel caso in cui sia approvata una mozione di sfiducia a maggioranza assoluta della Camera dei Deputati o del parlamento in seduta comune.”
[15] S. Galeotti, Un Governo scelto dal popolo. “Il Governo di legislatura”. Contributo per una ‘Grande Riforma’ istituzionale, Milano Giuffrè, 1984, su cui G. Pitruzzella, Forme di governo e trasformazioni della politica, cit., 227.
[16] A. Barbera, in Liberal 9/1995, 44.
[17] G. Pitruzzella, Forme di governo e trasformazioni della politica, Laterza, Roma-Bari, 1996, 229: “La seconda versione del neoparlamentarismo si deve soprattutto all’elaborazione di Barbera, il quale, in una delle ultime proposte, ha prospettato un sistema articolato nel modo seguente: a) viene chiesto il collegamento di ciascun candidato nei collegi uninominali a un candidato ; b) viene designato Premier il candidato la cui coalizione proponente abbia conseguito la maggioranza dei seggi (calcolata sulla quota eletta nei collegi uninominali e sulla quota che verrebbe eletta nella proporzionale qualora non si operi alcuna correzione); c) in mancanza di tale maggioranza viene corretta la distribuzione proporzionale del 25 % dei seggi in modo da assicurare la maggioranza del 55 % dei seggi alla lista che sia arrivata prima; d) vengono indette nuove elezioni in caso di rottura della coalizione che ha espresso il Premier designato (da realizzare per convenzione costituzionale senza una modifica della norma costituzionale) … Rispetto alla versione ‘forte’ del neoparlamentarismo c’è qualcosa in meno, perché non esiste la votazione diretta ed esclusiva per il Premier. La versione ‘debole’ del neoparlamentarismo vuole raggiungere un risultato: si è eletti Premier in quanto leader di una maggioranza, e non in quanto singoli. L’obiettivo è quello di collegare la scelta elettorale ed il successivo giudizio di responsabilità ad una piattaforma programmatica e non esclusivamente al fascino personale del candidato Premier, evitando che tra quest’ultimo e il popolo si possa instaurare un circuito plebiscitario.” Semmai è da osservare che è l’ambiguità dell’articolato proposto a generare i problemi a suo tempo messi in luce da G. Pitruzzella, non essendo chiaro, se non dalla Relazione di accompagnamento al d.d.l., che si vuole introdurre ‘un meccanismo di legittimazione democratica diretta del Presidente del Consiglio eletto a suffragio universale e diretto, con apposita votazione popolare che si svolge contestualmente alle elezioni per le Camere”. Nel che sta il punto critico della riforma, rilevato da più parti, e la variante rispetto allo schema proposto da Barbera nel 1995.
[18] Un elenco delle leggi elettorali che si sono susseguite dal 1992 in poi si ritrova in A. Mangia, Legge proporzionale? Cosa nasconde il finto ritorno alla Prima Repubblica (intervista resa a F. Ferraù), in www.ilsussidiario.net (13 09 2019).
[19] A. Mangia, L’interruzione della Grande Opera. Brevi note sul dialogo fra le Corti, in DPCE 3/2019, 859.
[20] Osservazioni analoghe si trovano in Bin R., Il Premierato è una bufala e ha due corni, in www.lacostituzione.info , 22 marzo 2024. Ma critiche analoghe, rivolte all’originario Modello Westminster, si ritrovano in G. Pitruzzella, Forme di governo e trasformazioni della politica, cit., 231.
[21] Angiolini V., Il diritto costituzionale e le ‘braci’ della responsabilità politica, Riv. Dir. Cost. 3/1998, 57
[22] G. U. Rescigno, La responsabilità politica, Giuffré, Milano 1967.
[23] Zanon N., Il libero mandato parlamentare. Saggio critico sull’art. 67 della Costituzione, Giuffré, Milano, 1991.
[24] G. Pasquino, Restituire lo Scettro al Principe. Proposte di riforma istituzionale, Laterza, Roma-Bari 1986.
[25] N. Matteucci, Costituzionalismo, in Dizionario di politica diretto da N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Torino, Utet, 1983, 249.
[26] A. Mangia A., Costituzione e partiti politici. Le riforme tra mito e realtà, in Vita & Pensiero 4/2006, 68.
[27] G. Sartori, Ingegneria costituzionale comparata, Il Mulino, Bologna 1995, 9.
[28] Un buon esempio di questo approccio misurativo/classificatorio è dato dal fin troppo celebre Lijphart A., Patterns id Democracy. Government Forms and Performance in Thirty-Six Countries, Yale University press, 2012, trad. it. Le democrazie contemporanee, Il Mulino, Bologna.
[29] B. Sordi, Diritto pubblico e Diritto privato. Una genealogia storica, Il Mulino, Bologna, 2020, 118. Ma di rilievo sul punto, è anche L. Elia, La Scienza del diritto costituzionale dal Fascismo alla Repubblica, in Costituzione, Partiti, Istituzioni, cit., 317.
[30] G. Guarino, Lezioni di diritto pubblico, I, Milano, Giuffré, 1967, 78 per il quale la sovranità popolare di cui all’art. 1 Cost., lungi dall’essere una sostanza impalpabile, non sarebbe null’altro se non la somma delle libertà e delle posizioni soggettive (poteri, facoltà e interessi legittimi) riconosciute all’individuo dall’ordinamento sulla base dell’art.48 Cost.
[31] J. Bentham, Un Frammento sul Governo, a cura di E. Castrucci, Milano, Giuffré, 1990.
[32] A. Mangia, Merito e trasmissione del sapere nei processi di replicazione sociale. Art. 34 Cost., in I. Rizzi, (a cura di), Per Merito, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2023.
[33] In questo senso già E. Forsthoff, Lo Stato moderno e la virtù, in Stato di diritto in trasformazione, a cura di C. Amrante, Milano 1973.
Nell'immagine: Seduta inaugurale del primo parlamento italiano (18 febbraio 1861), xilografia, 1861, R0480004, Museo del Risorgimento, Torino.
Questo contributo costituisce il primo di una serie di approfondimenti sul "d.d.l. Nordio" di questa Rivista.
D.d.l. Nordio in materia di intercettazioni: l'ennesima ombra gettata sull'operato del pubblico ministero (e l'ennesimo passo verso la separazione delle carriere)
di Andrea Apollonio
La sfiducia mostrata dal legislatore nel d.d.l. Nordio nei confronti del pubblico ministero, per quanto qui interessa sul fronte delle intercettazioni, sembra collocarsi in una più generale tendenza dell'attuale politica criminale di netto rifiuto delle funzioni giurisdizionali (in senso stretto) in capo al magistrato inquirente, non più primo "giudice" del procedimento ma "cane da guardia" della polizia giudiziaria; e neppure in questo ruolo valorizzato appieno sul piano ordinamentale. Non più co-protagonista della giurisdizione teso al pieno accertamento dei fatti, ma irredimibile accusatore ad ogni costo. La distanza tra giudici e pubblici ministeri, che il Costituente aveva convintamente azzerato, almeno a considerare le ultime leggi adottate appare ormai incolmabile.
Sommario: 1. Prologo: il messaggio veicolato dalla classe politica - 2. La "rilevanza" delle comunicazioni intercettate - 3. La "nuova" disciplina della tutela del terzo - 4. La <<compiuta esposizione>> dei fatti (e il pubblico ministero stretto in una morsa) - 5. I divieti (relativi e assoluti) di pubblicazione - 6. Epilogo: intercettazioni, separazione delle carriere e doveri delle parti.
1. Prologo: il messaggio veicolato dalla classe politica
Il c.d. "d.d.l. Nordio" (disegno di legge governativo approvato in prima battuta dal Senato il 13 febbraio 2024) presenta, tra le varie modifiche al codice di procedura penale, una parziale rimodulazione della disciplina delle intercettazioni relativa da un lato all'ampliamento dei divieti di pubblicazione del materiale intercettato e, dall'altro, all'implementazione dei profili di riservatezza del terzo estraneo al procedimento; due profili che tendono ad integrarsi tra loro.
Su questo versante, attraverso i media si è veicolato il messaggio per cui si introducono <<alcune modifiche alla disciplina delle intercettazioni al fine di rafforzare la tutela del terzo estraneo al procedimento>>[1]; in alcune ricostruzioni giornalistiche si parla di <<stop per le intercettazioni>>[2] nel caso di soggetti non indagati e comunque intercettati. L'obiettivo dichiarato della classe politica è dunque quello di <<aumentare la tutela della riservatezza di una persona, estranea al processo, che possa essere citata in una conversazione intercettata>>[3].
Ad osservare più da vicino la legge di nuovo conio, però, ci si avvede che non solo per il terzo che - suo malgrado - viene coinvolto in una attività di intercettazione nulla cambia, giacché - come si vedrà - le formule introdotte sono prive di reale efficacia innovativa, ma che le modifiche normative satellitari in tema di rapporti con la stampa - effettuate con lo stesso d.d.l. Nordio e con la coeva legge di delegazione europea n. 15 del 21 febbraio 2024 - creano, in realtà, un vulnus maggiore per il terzo coinvolto nel procedimento, perché attraverso l'irrigidimento dei divieti di pubblicazione a carico dei giornalisti - a cui però, al netto dei suddetti divieti, non può ovviamente essere preclusa la possibilità di dare una notizia di cronaca giudiziaria, purché rigorosamente verificata - si determina una tensione maggiore nel (e del) circuito giustizia-media, dovendo la notizia stessa, nella sua illustrazione e comprensione, spesso complessa dal punto di vista tecnico-giuridico, essere in qualche misura rielaborata dai professionisti della stampa.
Il d.d.l. Nordio è in questo senso emblematico di come <<quando viene usata come arma ideologica, il garantismo finisce sempre per ritorcersi contro le persone che presume di garantire>>[4].
Ma viste in una più ampia prospettiva ordinamentale, le modifiche introdotte, pur numericamente esigue, gettano una cupa ombra (l'ennesima) sull'operato del pubblico ministero, dipinto come un soggetto della procedura poco attento agli elementi a discarico degli indagati, insensibile alle esigenze di tutela della riservatezza dei soggetti coinvolti (tutti, indagati inclusi) e - sopratutto - incapace di discernere l'effettiva rilevanza (ai fini delle sue stesse indagini) delle conversazioni captate, soccorrendo in seconda battuta, a tali manchevolezze, il giudice: fino al punto di coprire, con un divieto assoluto di pubblicazione, tutti gli atti relativi all'attività di intercettazione lavorati dal pubblico ministero, che non siano stati riportati dal giudice in un suo provvedimento.
La sfiducia mostrata dal legislatore nel d.d.l. Nordio nei confronti del pubblico ministero, per quanto qui interessa sul fronte delle intercettazioni, sembra collocarsi in una più generale tendenza dell'attuale politica criminale di netto rifiuto delle funzioni giurisdizionali (in senso stretto) in capo al magistrato inquirente, non più primo "giudice" del procedimento ma "cane da guardia" della polizia giudiziaria; e neppure in questo ruolo valorizzato appieno sul piano ordinamentale. Non più co-protagonista della giurisdizione teso al pieno accertamento dei fatti, ma irredimibile accusatore ad ogni costo.
La distanza tra giudici e pubblici ministeri, che il Costituente aveva convintamente azzerato, almeno a considerare le ultime leggi adottate appare ormai incolmabile.
2. La "rilevanza" delle comunicazioni intercettate
Il cuore di questa mini-riforma è costituito dalle modifiche dell'art. 268 del codice di procedura penale; le ulteriorimodifiche, verrebbe da aggiungere. Va infatti specificato che il co. 2-ter dell’art. 1 del decreto-legge 10 agosto 2023, n. 105, convertito con modifiche nella legge 9 ottobre 2023, n. 137, già interveniva sulla disciplina della verbalizzazione delle intercettazioni (c.d. "brogliacci", redatti dalla polizia giudiziaria preposta all’ascolto delle conversazioni), modificando i commi 2 e 2-bis dell’art. 268. Da un lato, il comma 2 (che prevede la verbalizzazione sommaria) veniva sostituito dalla previsione più articolata per cui <<nel verbale di esecuzione delle operazioni redatto dalla polizia giudiziaria viene trascritto, anche sommariamente, soltanto il contenuto delle comunicazioni intercettate rilevante ai fini delle indagini, anche a favore della persona sottoposta ad indagine>>; dall'altro veniva specificato che <<Il contenuto non rilevante ai fini delle indagini non è trascritto neppure sommariamente e nessuna menzione ne viene riportata nei verbali e nelle annotazioni della polizia giudiziaria, nei quali è apposta l'espressa dicitura: "La conversazione omessa non è utile alle indagini">>.
Per rafforzare questa previsione veniva poi modificato il comma 2-bis dell’art. 268 con cui si onera il pubblico ministero di controllare che i verbali rispettino il più generale divieto di trascrizione delle comunicazioni "non rilevanti" di cui al novellato comma 2, peraltro sostituendo il richiamo ai dati sensibili, rigidamente imperniato su una nozione normativa, con un più lato rinvio a <<fatti e circostanze afferenti alla vita privata degli interlocutori>>.
Un provvedimento che accentuava ulteriormente gli aspetti della primigenia c.d. "riforma Orlando", che <<era volta, sostanzialmente, a innovare la disciplina delle intercettazioni telefoniche in funzione della necessaria tutela della riservatezza delle persone>>[5]. Peraltro, sempre con la riforma Orlando era già stato modificato, nel contesto, la speculare norma di cui all' art. 114 - che ha nel corso del tempo assunto, com'è stato affermato, una <<funzione centrale nell'intero articolato in quanto si pone all' "incrocio" tra problematiche essenziali, quali la tutela delle indagini e la pubblicità degli atti, il diritto di cronaca e di critica, il diritto di difesa e quello alla formazione della prova penale>>[6] - con l’introduzione del comma 2-bis che fino a ieri stabiliva che è sempre vietata la pubblicazione, anche parziale del contenuto delle intercettazioni non acquisite ai sensi dell’art. 268, 415-bis o 454 c.p.p.: norma che a quel punto vedeva ampliata per le intercettazioni l’ambito di operatività del divieto di pubblicazione previsto per gli altri atti, e su cui si tornerà più avanti.
Le interpolazioni effettuate dal legislatore del 2023 sul tessuto dell'art. 268, che va letto assieme all'art. 114, specificano quella che già era la regola - alquanto scontata - di selezione del materiale intercettato: la trascrizione delle sole comunicazioni rilevanti per le indagini; così come di palese evidenza è il collegamento della "rilevanza" con elementi che si mostrino <<a favore della persona sottoposta ad indagine>>. "Rileva", infatti, ciò che è in grado di confermare o di disattendere l'iniziale, a volte anche solo abbozzata, tesi accusatoria, sulla quale si è espresso il Gip con il suo provvedimento autorizzativo.
In ogni caso, volendosi confrontare con il sistema nel suo complesso, una siffatta "rilevanza" si evince(va) chiaramente dal co. 6 dello stesso articolo (nella parte in cui <<il giudice dispone l'acquisizione delle conversazioni o dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche indicati dalle parti, che non appaiano irrilevanti, procedendo anche di ufficio allo stralcio delle registrazioni e dei verbali di cui è vietata l'utilizzazione e di quelli che riguardano categorie particolari di dati personali, sempre che non ne sia dimostrata la rilevanza>>), ma anche, al di là del dato normativo, su un piano logico, meta-giuridico.
Occorrerebbe, una volta per tutte, chiarire che il concetto di rilevanza è sempre in nuce al procedimento; e che il pubblico ministero, nell'attività di accertamento dei reati cui è preposto, ha interesse - e non può essere diversamente - a fare emergere solo le conversazioni rilevanti, in un senso o nell'altro. Se è vero che una conversazione viene trascritta per essere poi non tanto utilizzabile quanto concretamente utilizzata dal pubblico ministero (un esempio tra tutti: per la richiesta di misura cautelare), non avrebbe alcun senso per l'organo inquirente pescare nel - torbido o limpido che sia - bacino delle conversazioni private prive di agganci con l'indagine che si sta conducendo.
Diversamente, si dovrebbe immaginare una polizia giudiziaria prima (che ascolta, seleziona e trascrive) e un pubblico ministero poi (che effettua una verifica del materiale trascritto, avalla le operazioni compiute e dà ulteriore corso al procedimento, ad es. avanzando la richiesta di misura cautelare) che d'accordo tra loro intendano cristallizzare dettagli della vita personale di indagati e terzi manifestamente irrilevanti ai fini dell'indagine; per ragioni chiaramente - e patologicamente - estranee alle finalità del procedimento penale, quali la divulgazione a mezzo stampa di tali dettagli, quindi per finalità ancora più estranee alla giustizia.
Sembra che sia stata proprio l'idea, che però non risulta in alcun modo corroborata nella prassi, del pubblico ministero "guardone", incline al voyeurismo giudiziario, ad avere inquinato il recente dibattito pubblico sulle intercettazioni, strumento di ricerca della prova semplicemente imprescindibile, e ad avere stimolato i successivi interventi di riforma contenuti - adesso - nel d.d.l. Nordio in commento.
3. La "nuova" disciplina della tutela del terzo
Se il legislatore del 2023 aveva specificato il concetto di "rilevanza" nel campo delle intercettazioni, senza di fatto incidere sulla prassi giudiziaria, meglio definendo però l'idea stereotipata sull'operato e sulla collocazione stessa del pubblico ministero nella cornice ordinamentale sotteso alle recenti riforme, il legislatore del 2024, con il d.d.l. Nordio, la rimarca innestando ulteriori modifiche nel corpo dell'art. 268.
Oggi, a seguito della legge n. 137/2023, l'art. 268 descrive una peculiare dinamica applicativa, una doppia fase di selezione/controllo: in prima battuta (co. 2) v'è la polizia giudiziaria che trascrive soltanto le comunicazioni rilevanti (verbali da ritenersi sempre comprensivi, come si è detto, degli elementi <<a favore della persona sottoposta ad indagine>>); in seconda battuta (co. 2-bis) il pubblico ministero che, verificata la corretta selezione operata dalla polizia giudiziaria (<<dà indicazioni e vigila>>), svolge un ulteriore controllo: si accerta che siano espunte, o comunque non compaiano nei verbali, <<espressioni lesive della reputazione delle persone o quelle che riguardano fatti e circostanze afferenti alla vita privata degli interlocutori>>. Selezioni, verifiche e controlli che, si ribadisce, il pubblico ministero già era tenuto ad effettuare[7], la cui tipizzazione strutturata in questa "doppia fase" dà peraltro corso ad un fraintendimento logico: perché se le conversazioni sono a monte rilevanti per l'indagine (nel senso favorevole o sfavorevole all'indagato) queste vanno in ogni caso trascritte (ne va della completezza dell'indagine) e il controllo del pubblico ministero, che può definirsi "successivo" solo per la peculiare struttura dell'art. 268 giacché nella prassi tale controllo si svolge "in diretta" con costanti interlocuzioni tra l'organo investigativo e quello requirente, in presenza di una conversazione rilevante è volto a ratificare la selezione operata dalla polizia giudiziaria. Non a caso, il legislatore del 2023 non ha potuto esimersi dall'inserire nel co. 2-bis la formula di chiusura <<salvo che risultino rilevanti ai fini dell'indagine>>: che compendia tutto quanto si è detto.
Questo fraintendimento logico si accentua con la modifica apportata, sempre al co. 2-bis, dal d.d.l. Nordio: oggi infatti il pubblico ministero vigila affinché i verbali non riportino, oltreché espressioni lesive o indicazioni sulla vita privata degli interlocutori, <<espressioni [...] che consentono di identificare soggetti diversi dalle parti>>, salvo sempre che risultino rilevanti ai fini dell'indagine.
L'indicazione del legislatore sembra proiettarsi in una duplice direzione operativa: la polizia giudiziaria non dovrebbe riportare le generalità degli interlocutori (ad es. non dovrebbe riportare i dati del titolare dell'utenza chiamata); né dovrebbe riportare espressioni che consentano di identificare qualsivoglia soggetto che non sia compreso nel novero degli indagati - e se queste espressioni inopinatamente compaiono, il pubblico ministero dovrebbe provvedere ad espungerle.
Si tratta di una preclusione normativa che richiede un bilanciamento circa l'importanza della captazione, e che nondimeno lascia perplessi. Anche qui, e a maggior ragione: se una conversazione è rilevante, lo è a tutto tondo: se corrotto e corruttore conversano per dieci minuti del campionato di calcio, e poi toccano per pochi secondi la questione dell'appalto da assegnare scalzando i concorrenti A e B, i dieci minuti saranno omissati, ma quei pochi secondi devono essere illustrati nel dettaglio, e nel dettaglio devono essere indicati (e quindi identificati dalla polizia giudiziaria) i concorrenti A e B di cui costoro parlano.
Oppure, se il corrotto chiama un funzionario alle sue dipendenze per annunciare che il corruttore farà pervenire la documentazione mancante per la "regolare" partecipazione al bando di gara, è necessario identificare il funzionario: che in un momento successivo potrà sempre essere chiamato a rendere informazioni al pubblico ministero per meglio lumeggiare i fatti, e cogliere qualche altro dettaglio del pactum sceleris tra corrotto e corruttore.
L'attività investigativa di identificazione, inoltre, è essenziale che si faccia nell'immediatezza, e la si faccia anche a costo di vincere qualche dubbio sul concetto di rilevanza, nel senso che una conversazione potrebbe essere nell'immediatezza intesa come solo potenzialmente rilevante, per poi acquisire piena e concreta rilevanza nello sviluppo dell'indagine, ed essere così, pur a posteriori, debitamente valutata.
L'identificazione va fatta nell'immediatezza, non la si può fare in seguito (né nel seguito dell'indagine, né in altra fase processuale): dal punto di vista investigativo, la polizia giudiziaria deve disporre di ogni elemento utile a conoscere il contesto in cui opera (ad es. chi sono i concorrenti scalzati dal fascino irresistibile della tangente), mentre dal punto di vista processuale è noto che il dato identificativo non sarebbe più recuperabile una volta chiuse le indagini. Se ad es. in fase dibattimentale il giudice, ritenendolo un elemento conoscitivo utile al pieno accertamento dei fatti, volesse sapere chi è il concorrente B, approfondendo i motivi dell'esclusione, non lo potrebbe più sapere: in dibattimento, non potrebbe chiederlo più a nessuno. E per questo l'iter argomentativo seguito in una sentenza di condanna o di assoluzione potrebbe risultare monco.
Un ulteriore onere viene specularmente addossato al giudice dal d.d.l. Nordio quando - a mente del co. 6 dell'art. 268 - <<dispone l'acquisizione delle conversazioni o dei flussi di comunicazioni informatiche o telematiche indicati dalle parti, che non appaiano irrilevanti, procedendo anche di ufficio allo stralcio delle registrazioni e dei verbali di cui è vietata l'utilizzazione e di quelli che riguardano categorie particolari di dati personali o soggetti diversi dalle parti, sempre che non ne sia dimostrata la rilevanza>>: ed è a questo punto inutile rimarcare che la locuzione <<soggetti diversi dalle parti>> è frutto dell'interpolazione disposta dal d.d.l. in parola, che anche in questo caso sembra prefigurare una indagine "parcellizzata"[8], à la carte.
E varrà anche per il giudice nella fase di stralcio descritta dal co. 6 quanto si è detto per il pubblico ministero: se la conversazione è rilevante, è rilevante anche rispetto all' interlocutore e alle persone terze che nella conversazione vengono citate. Se rilevante, la conversazione - o la parte rilevante di essa - non potrà che essere illustrata in tutto il suo perimetro, ivi compresa - ovviamente - l'identificazione dei soggetti diversi dalle parti.
4. La <<compiuta esposizione>> dei fatti (e il pubblico ministero stretto in una morsa)
Si tratta di regole elaborate con l'intento di specificare nel dettaglio una prassi - ma si potrebbe anche dire: di imbrigliare sempre più pubblico ministero e giudice in vincoli formali poco consoni ad una serena valutazione dell'importanza oggettiva di un dato elemento per l'indagine - ma che rischiano di determinare un effetto inverso, e perverso: se oggi, a seguito della "riforma Cartabia", il pubblico ministero è tenuto - correttamente - a prestare la massima attenzione al momento in cui iscrivere un soggetto nel registro degli indagati (anche in virtù del potere di retrodatazione, affidato a lui stesso e al giudice)[9], considerate le nuove regole a "tutela" del terzo egli - quale riflesso condizionato - sarà portato ad adottare un ulteriore scrupolo nel valutare la sussistenza dei presupposti per l'iscrizione del terzo, in presenza di pur blandi indizi di reità: e il terzo, una volta iscritto, sfugge alle regole (comunque inefficaci, per tutto quanto si è detto) poste a tutela della sua riservatezza.
Il pubblico ministero, in altri termini, è stretto in una morsa: da un lato la conversazione rilevante, che ancora oggi, nonostante tutto, deve essere trascritta e completamente illustrata; dall'altro la tutela della riservatezza del terzo, i cui dati, se confluiscono in una conversazione rilevante, non possono essere pretermessi. Stretto nella morsa, e pressato dall'irrigidimento dei controlli sul registro degli indagati, il rischio è che il pubblico ministero azioni disinvoltamente lo strumento dell'iscrizione, che qualifica in "parte" chi era ab origine "terzo"; questo, se non altro, lo farebbe uscire dal cul de sac in cui lo stesso legislatore (in particolare attraverso il combinato disposto della riforma Cartabia e del d.d.l. Nordio) lo ha infilato.
Un effetto certo non auspicabile nell'economia del procedimento, perché potrebbe appesantire inutilmente il fascicolo d'indagine; non auspicabile, sopratutto, nel quadro delle garanzie del procedimento, se è vero che già la sola iscrizione nel registro degli indagati può alimentare <<la gran cassa dei social media>>[10] ed essere frutto di effetti pregiudizievoli per il soggetto.
La completezza dell'indagine è un valore processuale ed è garanzia sopratutto per l'indagato/imputato, che dovrebbe avere tutto l'interesse ad un pieno accertamento del fatto. È lo stesso legislatore che ha elaborato il d.d.l. Nordio a riconoscerne la portata, con le modifiche degli articoli 291 e 292, per cui, rispetto alla richiesta del pubblico ministero di misure cautelari, nella stessa sono riprodotti soltanto i brani essenziali delle comunicazioni e conversazioni intercettate, <<in ogni caso senza indicare i dati personali dei soggetti diversi dalle parti, salvo che ciò sia indispensabile per la compiuta esposizione>> (art. 291 co. 1-ter). Una formula di chiusura - che a sua volta contempla la clausola di salvaguardia della "compiuta esposizione" (ma non è dato sapere di cosa) - che si ripete anche all'art. 292 rispetto all'ordinanza cautelare, informata alla regola per cui quando è necessario per l'esposizione delle esigenze cautelari e degli indizi, delle comunicazioni e conversazioni intercettate sono riprodotti soltanto i brani essenziali, <<in ogni caso senza indicare i dati personali dei soggetti diversi dalle parti, salvo che ciò sia indispensabile per la compiuta esposizione degli elementi rilevanti>> (co. 2-quater).
Al netto di una evidente asimmetria (al co. 1-ter si parla solo di <<compiuta esposizione>> mentre al co. 2-quater ci si riferisce espressamente agli <<elementi rilevanti>>: e non può che essere così), forse frutto di un lapsus calami, il concetto di <<compiuta esposizione degli elementi rilevanti>> evidenzia per tabulas che laddove una trascrizione rilevante viene trascritta deve essere corredata da tutti i possibili elementi conoscitivi, perché - per l'appunto - deve essere "compiutamente" esposta al giudice, sia nella fase delle indagini preliminari sia delle fasi successive.
Il valore processuale della completezza dell'indagine, e quindi della <<compiuta esposizione>> della rilevanza degli elementi raccolti attraverso l'attività captativa, viene messo in discussione, attraverso un bilanciamento a dir poco difficoltoso quando non impossibile con la (altrettanto doverosa) tutela della riservatezza del terzo, perché si ritiene (a torto o a ragione) che ciò che finisce nel fascicolo del pubblico ministero possa essere, un domani, pubblicato sui giornali o - peggio - fare il giro del web.
Se così, il legislatore avrebbe dovuto concentrarsi su un altro settore del codice, e in particolare sui divieti di cui all'art. 114. L'ha fatto, ma l'ha fatto in guisa da innescare ulteriori effetti perversi sul piano ordinamentale.
5. I divieti (relativi e assoluti) di pubblicazione
Il d.d.l. Nordio è pervaso dalla preoccupazione che tutto ciò che viene trascritto nei verbali delle attività di intercettazione, acquisiti al procedimento, confluendo nel fascicolo del pubblico ministero possa finire, presto o tardi, sulle scrivanie dei giornalisti. Il legislatore non ne fa mistero, avendo le modifiche lo scopo esplicito di <<rafforzare la tutela del terzo estraneo al procedimento rispetto alla circolazione [corsivo nostro] delle comunicazioni intercettate>>[11].
Ne è lampante riprova la modifica del co. 2-bis dell'art. 114, che attraverso le modifiche imposte dal d.d.l. Nordio adesso recita: <<È sempre vietata la pubblicazione, anche parziale, del contenuto delle intercettazioni se non è riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento>>, sostituendo l'ultima parte che si riferiva al contenuto delle intercettazioni <<non acquisite ai sensi degli articoli 268, 415-bis o 454>>.
Quest'ultima formula, pur richiamando tre norme tra loro molto diverse per struttura e fase processuale di riferimento, intendeva evidenziare che, in materia di intercettazioni, per tutto ciò che non era legittimamente acquisito al procedimento, era sempre vietata la pubblicazione, anche parziale; e questo perché tutto ciò che era acquisito al procedimento passava attraverso il già illustrato giudizio di rilevanza svolto dal pubblico ministero[12].
L' interpolazione normativa operata dal d.d.l. Nordio, questa più delle altre esaminate, conduce ad una concezione invero squalificante della figura del pubblico ministero, perché viene sancito il principio per cui, in materia di intercettazioni, vige il divieto assoluto di pubblicazione di qualsiasi atto della polizia giudiziaria (che opera sotto il controllo del pubblico ministero) e dello stesso pubblico ministero (quale ad esempio una richiesta di misura cautelare), se non viene ripreso dal giudice - e fatto proprio - nel suo provvedimento. Confrontando il dato precedente con l'attuale, può dirsi - volendo rimarcare gli effetti più radicali - che è solo l'atto di "appropriazione" del dato dell'intercettazione da parte del giudice a rendere legittima l'acquisizione dello stesso; e che il controllo effettuato medio tempore dal pubblico ministero conserva un valore residuale, meramente infra-procedimentale, perché lo legittima soltanto a presentare quel dato al giudice ai fini delle sue richieste. È interessante notare che nei lavori preparatori del d.d.l. in commento si parla, con riferimento alla modifica dell'art. 114, di "ampliamento" del divieto di pubblicazione del contenuto delle intercettazioni[13]. Così non è: non si tratta di una modifica quantitativa (un mero "ampliamento"), ma qualitativa: è sovvertita la natura del divieto, che adesso copre ogni atto del pubblico ministero, passando da una distinzione tra fasi del procedimento ad una distinzione tra i soggetti del procedimento: non più il pubblico ministero, ma solo il giudice valuta la rilevanza delle conversazioni captate ai fini di una eventuale e successiva ostensione.
Breve: il co. 2-bis riguarda soltanto le intercettazioni ma completa, con una regola speciale, il sistema dei divieti di cui al co. 1 e al co. 2[14], affermando che, sebbene il verbale di intercettazione sia legittimamente confluito nel fascicolo del pubblico ministero attraverso le operazioni di cui all'art. 268, sebbene non sia più, tale verbale o il suo contenuto, coperto da segreto istruttorio (co. 1), sebbene sia stata superata la fase dell'udienza preliminare (co. 2), quegli atti rimangono coperti da un divieto di pubblicazione assoluto, a meno che non siano stati riportati in un provvedimento del giudice e, in particolare, nell'ordinanza di misura cautelare.
Quindi oggi il sistema va ricostruito: vede gli atti delle indagini o dell'udienza preliminare non più coperti dal segreto investigativo che restano sottoposti ad un divieto di pubblicità immediata, nel senso che è vietata la pubblicazione del loro contenuto testuale, non anche del loro contenuto come notizia, dunque di una sintesi contenutistica. La ratio di un tale divieto deve essere colto sul piano procedurale, perché è teso a garantire una <<corretta formazione del convincimento giudiziale>>[15], in virtù del principio di separazione delle fasi che esige che al giudice del dibattimento sia di regola interdetta la preventiva conoscenza degli atti delle indagini preliminari. Quanto invece al contenuto delle intercettazioni, il sistema si chiude con la già vista preclusione assoluta di cui al co. 2-bis.
Va specificato che la violazione dei divieti di cui all'art. 114 comporta - oltre alla responsabilità penale ex art. 684 c.p. e, in caso di violazione del segreto delle indagini, ex art. 326 o art. 379-bis c.p., a condizione che il divieto sia previsto dalla legge e non da un provvedimento dell'autorità giudiziaria - una responsabilità disciplinare per i funzionari pubblici e per gli esercenti professioni per le quali è richiesta una speciale abilitazione dello Stato, come i giornalisti (art. 115)[16]; responsabilità disciplinare cui ovviamente sfuggono tutti coloro che, pur senza essere iscritti ad alcun albo, offrono servizi di informazione alla sterminata comunità del web - e basti solo pensare al popoloso arcipelago dei blog, che possono essere gestiti da qualunque internauta.
6. Epilogo: intercettazioni, separazione delle carriere e doveri delle parti
Ad osservare quest'ultima modifica normativa nella prospettiva ordinamentale, la preclusione assoluta di cui all'art. 114 evidenzia una - irragionevole - distinzione tra atto del procedimento e atto relativo alle intercettazioni, affermando per quest'ultimo una sorta di "presunzione" di legittimità, non all'esito delle operazioni di cui all'art. 268 (come è giusto che sia: all'esito della selezione e dei controlli operati dal pubblico ministero come sopra descritti), ma solo dopo essere stato riportato in un atto del giudice. L'art. 268, che disciplina l'esecuzione delle operazioni di intercettazioni, da solo non basta più a giustificare la pubblicazione del dato procedimentale, e pur in presenza dei requisiti previsti dalla legge: va coordinato con le norme che riguardano i provvedimenti del giudice (es. l'art. 292 in punto di misure cautelari), dovendosi considerare a questo punto assorbente la verifica di legittimità dell'acquisizione (in ragione della rilevanza) svolta dal giudice, spostando in un cono d'ombra le valutazioni effettuate dal pubblico ministero.
In una prospettiva - lo si ripete - ordinamentale, si prefigura un pubblico ministero forzosamente allontanato dal giudice, che diverrebbe a questo punto l'unico, almeno per il tema che qui ci occupa, a poter realizzare un effettivo controllo di natura giurisdizionale. Un pubblico ministero che il d.d.l. Nordio sembra intendere quale organo di direzione e coordinamento della polizia giudiziaria, e solo incidentalmente quale soggetto della giurisdizione.
Il d.d.l. Nordio - è vero - contempla in subiecta materia poche modifiche, ma sono piccoli brani di un complessivo spartito appuntato quasi esclusivamente, a tratti ossessivamente, sull'erosione della sfera delle facoltà e dei poteri del pubblico ministero; senza ulteriori perifrasi, sulla separazione delle carriere intesa quale soluzione radicale, ordinamentale e costituzionale a tutti i mali della giustizia.
Senza voler considerare che la fiducia dei cittadini nella corretta amministrazione della giustizia penale è stata nel tempo minata da fattori endogeni ed esogeni d'ogni tipo, ma tra questi ultimi un ruolo di spicco può essere assegnato alle recenti leggi adottate nel primo scorcio dell'attuale legislatura (si vedano le modifiche sul c.d. "codice rosso", che ampliano e infittiscono a dismisura la rete dei controlli sull'operato del pubblico ministero per questa tipologia di reati), a quelle in procinto di essere varate (si vedano, appunto, le modifiche contenute nel d.d.l. Nordio in commento), agli annunci del governo (si veda quello, ad alto impatto suggestivo, sui test psico-attitudinali per l'accesso alla magistratura); oltreché, s'intende, al continuo rullìo di tamburi sulla sempre imminente legge costituzionale sulla separazione delle carriere.
Forse sono altrove i veri problemi della giustizia italiana.
Forse, tornando al tema delle intercettazioni e delle modifiche varate, il problema non è a monte.
Non è il materiale audio-video captato, in quanto tale, né ovviamente i verbali che ne riportano il contenuto, a costituire il problema, i quali peraltro sono sottoposti ad una particolare cautela prevista nella conservazione nel c.d. "archivio del procuratore" (art. 89-bis disp. att. c.p.p.), istituito sempre dalla riforma Orlando.
Non sono le intercettazioni, in quanto tali, il problema: queste sono, come si sa, il principale e in molti casi unico mezzo di prova di cui l'organo investigativo dispone per il perseguimento di reati carsici ma non per questo meno odiosi, che minano alla base il patto sociale su cui si fonda la nostra democrazia. Solo per citare due tipologie delittuose che solo attraverso le intercettazioni possono essere scoperte: la compravendita di droga e la corruzione del pubblico ufficiale, il cui pactum nessuno ha interesse a denunciare.
Forse il problema è a valle, e sta in chi - legittimamente - dispone di questi atti e potrebbe avere l'interesse a farli pubblicare. Il legislatore è consapevole dei rischi della fuga dell'atto dal procedimento, e se ne avvede nell'art. 116, che disciplina il rilascio di copie degli atti del procedimento, che il d.d.l. Nordio integra con la previsione per cui <<Non può comunque essere rilasciata copia delle intercettazioni di cui è vietata la pubblicazione ai sensi dell’articolo 114, comma 2-bis, quando la richiesta è presentata da un soggetto diverso dalle parti e dai loro difensori, salvo che la richiesta sia motivata dall’esigenza di utilizzare i risultati delle intercettazioni in altro procedimento specificamente indicato>>.
Questo il punto: gli atti che riguardano le intercettazioni effettuate nel procedimento sono - ovviamente - nella disponibilità dei magistrati titolari di quel procedimento, della polizia giudiziaria operante, anche solo temporaneamente (si pensi agli adempimenti esecutivi quali ad es. la notifica dell'ordinanza di misura cautelare), delle parti del procedimento e dei loro difensori.
Se così, il problema andrebbe più correttamente ricondotto nell'alveo dei doveri di ciascuno: ciascun soggetto della procedura dovrebbe essere responsabile - e quindi consapevole - rispetto ai propri doveri di riservatezza, in maniera tale da tenere al riparo il procedimento giudiziario da influenze esterne quali quelle mediatiche, che nei casi più eclatanti rischiano di trasformarlo in un vero e proprio "circo"[17]. E in questo riparto di responsabilità e doveri, un ruolo centrale deve rivestire la leale collaborazione tra magistratura e avvocatura, nelle aule giudiziarie e fuori di esse, volta a definire il perimetro di un'etica condivisa dentro cui l'informazione giudiziaria può esplicare il proprio fisiologico compito[18].
Anche perché, superato il campo deontologico, sta il magmatico campo normativo: che sul piano della legge ordinaria vede un continuo affastellarsi di regole senza soluzione di continuità. E sul punto basti considerare che la legge 21 febbraio 2024, n. 15, legge di delegazione europea 2022 – 2023, chiede ora al Governo di <<modificare l'art. 114 del codice di procedura penale prevedendo, nel rispetto dell'art. 21 della Costituzione e in attuazione dei principi e diritti sanciti dagli articoli 24 e 27 della Costituzione, il divieto di pubblicazione integrale o per estratto del testo dell'ordinanza di custodia cautelare finché non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell'udienza preliminare, in coerenza con quanto disposto dagli articoli 3 e 4 della direttiva (UE) 2016/343>>. Si tratterebbe di spingere ancora più avanti le limitazioni di pubblicità, innescando ulteriori tensioni con il diritto/dovere di cronaca giudiziaria: non è forse questa la <<complessiva rimeditazione del bilanciamento, attualmente cristallizzato nella normativa oggetto delle odierne censure, tra libertà di manifestazione del pensiero e tutela della reputazione individuale, in particolare con riferimento all'attività giornalistica>>, sollecitata di recente dalla Corte Costituzionale[19]; di farlo attraverso l'ennesima modifica all'art. 114, peraltro del tutto scoordinata nel procedere alla distinzione tra l’atto e il suo contenuto, perché, <<oltre che difficilmente attuabile sul piano pratico, da simile distinzione scaturiscono non di rado distorsioni nocive sia sul piano del diritto all’informazione sul processo che su quello di tutela di imparzialità del giudice dibattimentale>>[20].
Una nuova regola juris, l'ennesima, che deve però fare i conti con un bilanciamento di valori costituzionali ancor meglio avvertito sul piano convenzionale, dacché la Corte Edu di Strasburgo si è occupata a più riprese delle questioni connesse alla pubblicazione di atti di un procedimento penale, affermando che non vi è alcuna preclusione, almeno in linea di principio, affinché il giornalista divulghi informazioni di natura confidenziale, purché vi siano tutti i presupposti normativo-costituzionali che sorreggono il diritto di cronaca, e per contro escludendo che il diritto alla riservatezza delle comunicazioni prevalga in ogni caso[21].
I due piani del diritto positivo non solo quindi non riescono ad integrarsi ma generano continui corto-circuiti, tra gli operatori del diritto e quelli dei media.
Ciononostante, è del tutto evidente che il legislatore voglia continuare ad interpolare - una interpolazione senza fine - la normativa di riferimento; quando invece occorrerebbe, perlomeno, una rilevante "pausa di applicazione", volta a verificare la concreta operatività della normativa e a fornire al legislatore gli elementi utili ad immettere nel sistema gli eventuali correttivi.
Si assiste, all'opposto, ad una vera e propria bulimia legislativa, in forza della scelta, chiaramente elettoralistica, della classe politica, di mantenere sempre aperto il cantiere della giustizia penale. Ad una riforma se ne fa seguire un'altra, e poi un'altra ancora. Ad ogni passaggio la confusione normativa aumenta, le questioni si fanno sempre più complesse, il problema, i problemi di fatto irrisolvibili. E la fiducia del cittadino nel sistema-giustizia, nel frattempo, tracolla.
[1] Sì del Senato al Ddl Nordio: dall’abuso d’ufficio alle intercettazioni, ecco cosa cambia, in Il Sole 24 Ore, 13 febbraio 2024.
[2] L. Milella, Riforma della Giustizia, cosa prevede il testo di Nordio: dal bavaglio ai giornalisti allo stop per le intercettazioni, in La Repubblica, 15 giugno 2023.
[3] Così secondo l'AGI del 15 giugno 2023, nel lancio giornalistico titolato "Nel decreto Nordio ci saranno più garanzie per chi è indagato".
[4] A. Nappi, Contro le virgolette: il garantismo delle perifrasi, in Questione Giustizia, 19 marzo 2024.
[5] Relazione di presentazione al Senato del disegno di legge di conversione del decreto legge n. 161 del 30 dicembre 2019, richiamato in C. Gallo, La procedura di deposito e selezione delle intercettazioni, in Questione Giustizia, 21 febbraio 2020.
[6] E. Aprile, Sub 114, in Commentario essenziale - Procedura penale, Piacenza, 2021, p. 116.
[7] A. Zampini, Perimetro del segreto e regime di pubblicabilità delle intercettazioni: rilievi critici e spunti interpretativi, in Riv. it. dir. proc. pen., 2023, p. 1570 ss.
[8] Già all'inizio del percorso riformatore in materia di intercettazioni avviato nel 2018 intravedeva il rischio di "parcellizzazione" dell'indagine e dei suoi profili operativi G. Giostra, I nuovi equilibri tra diritto alla riservatezza e diritto di cronaca nella riformata disciplina delle intercettazioni, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, p. 526 (in nota).
[9] Cfr. P. Filippi, Il pubblico ministero come ridisegnato dalla riforma Cartabia, in Giustizia Insieme, 21 novembre 2023.
[10] V. Manes, Giustizia Mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo, Bologna, 2022, p. 69.
[11] Relazione allegata al Disegno di Legge n. 808 presentato dal Ministro della giustizia (Nordio) e dal Ministro della difesa (Crosetto) comunicato alla Presidenza il 19 luglio 2023 recante "Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all’ordinamento giudiziario e al codice dell’ordinamento militare", p. 4.
[12] G. Pestelli, La controriforma delle intercettazioni di cui al d.l. 30 dicembre 2019 n. 161: una nuova occasione persa, tra discutibili modifiche, timide innovazioni e persistenti dubbi di costituzionalità, in Sistema Penale, 2, 2020, p. 118.
[13] Dossier a cura del servizio studi della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica pubblicato 1° agosto 2023 in ordine alle "Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all'ordinamento giudiziario e al codice dell'ordinamento militare" - A.S. n. 808, p. 21.
[14] Che statuisce, al co. 1, che <<È vietata la pubblicazione, anche parziale o per riassunto, con il mezzo della stampa o con altro mezzo di diffusione, degli atti coperti dal segreto o anche solo del loro contenuto>>; e al co. 2 che <<È vietata la pubblicazione, anche parziale, degli atti non più coperti dal segreto fino a che non siano concluse le indagini preliminari ovvero fino al termine dell'udienza preliminare, fatta eccezione per l'ordinanza indicata dall'articolo 292>>.
[15] G. Giostra, Processo penale e informazione, Milano, 1989, p. 331.
[16] In questo senso, ancora E. Aprile, Sub 114, cit., p. 117.
[17] Citando il titolo del noto pamphlet di D. S. Larivière, Il circo mediatico-giudiziario, Macerata, 1994.
[18] Sia consentito il rinvio a A.Apollonio, La stagione dei doveri nel rapporto tra presunzione di innocenza e informazione giudiziaria - Relazione tenuta all’incontro di studio "Le emergenze del sistema penale", in Diritto di Difesa, 13 ottobre 2023.
[19] Ordinanza n. 132 del 2020 della Corte Costituzionale, richiamata in V. Manes, Introduzione ai principi costituzionali in materia penale, Torino, 2023, p. 30.
[20] G. Illuminati, Divieto di pubblicazione e formazione del convincimento giudiziale, in AA. VV., Processo penale e informazione, Macerata, 2001, p. 52.
[21] Cfr. C. Edu, 1914/02-2007, 7 giugno 2007, Dupuis e altri c. Francia.
(Immagine: Richard Estes, Telephone Booths, acrilico su masonite, 1967, Museo Nacional Thyssen-Bornemisza, Madrid)
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