ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
di Roberto Leonardi
Sommario: 1. Il fatto. – 2. Gli artt. 14 bis e 17 bis, l. n. 241/1990. - 3. Il silenzio assenso orizzontale e l’art. 146, d.lgs. n. 42/2004, nella sentenza del Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 8610/2023. - 4. Brevi considerazioni conclusive.
1. Il fatto
Un privato, proprietario di un terreno insistente nel Piano del Parco nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni, sottoposto a tutela paesaggistica, ai sensi dell’art. 142, c. 2, lett. f), del d.lgs. n. 42/2004, chiedeva il rilascio del permesso di costruire per l’edificazione di una residenza turistico-alberghiera, formulando a tal fine anche la domanda di autorizzazione paesaggistica[1]. Il Comune interessato indiceva una conferenza di servizi decisoria in forma semplificata e con modalità asincrona, al fine di acquisire tutti gli atti di assenso, compreso il parere della Soprintendenza competente, nonché il nulla osta dell’Ente Parco nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni. Quest’ultimo rilasciava il proprio nulla osta, mentre la Soprintendenza, dopo aver chiesto, in un primo momento, la trasmissione di integrazioni e di chiarimenti, esprimeva, successivamente, un parere negativo. Riattivata ad opera del Comune competente l’istruttoria procedimentale, la Soprintendenza confermava il proprio parere negativo. Da qui seguiva la determina del Comune, con la quale si statuiva che “l’intervento dal punto urbanistico è conforme al PRG e alle norme di attuazione attualmente vigenti e pertanto è assentibile”, mentre “il dissenso espresso non era superabile, senza apportare modifiche sostanziali alla decisione oggetto della conferenza così come rappresentato dal parere contrario della Soprintendenza”.
Tale decisione veniva impugnata dal soggetto privato interessato e il Tar Campania, Salerno, 4 novembre 2022, n. 2946, accoglieva il ricorso, annullando, pertanto, la determina comunale.
Il giudice di prime cure, innanzi tutto, rilevava la tardività del parere negativo della Soprintendenza, generando, in questo modo, il cd. silenzio assenso orizzontale nell’ambito della conferenza di servizi, ai sensi dell’art. 14 bis, l. n. 241/1990, implicando l’inefficacia del parere medesimo, ai sensi dell’art. 2, c. 8 bis, l. n. 241/1990[2]. Pertanto, si osserva che secondo l’art. 17 bis, cit., nell’ambito della conferenza di servizi, gli assensi delle Amministrazioni preposte alla tutela dei cd. interessi sensibili, tra cui la tutela beni culturali e paesaggistici, si intendono acquisiti decorsi 90 giorni dalla richiesta del parere. Allo stesso tempo, gli artt. 22 e 25, d.lgs. n. 42/2004, non si applicano cumulativamente, “la prima norma escludendo”, seguendo le parole del giudice campano e le previsioni di legge, “ espressamente che il procedimento ivi disciplinato (diffida del privato e ricorso avverso il silenzio inadempimento) possa essere applicato agli atti di assenso resi nelle conferenze di servizi”. Nel secondo caso, artt. 25 e 26, d.lgs. n. 42/2004, in tema di conferenza di servizi, i pareri delle Amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili si intendono acquisiti decorsi 90 giorni dalla richiesta, ai sensi dell’art. 17 bis, cit.. Applicando diversamente la norma, il silenzio della Soprintendenza nell’ambito della conferenza di servizi arrecherebbe un danno al privato e, allo stresso tempo, si andrebbe in contrasto con il dato letterale dell’art. 17 bis, cit., che non troverebbe mai applicazione nell’ambito di una conferenza di servizi in materia di beni culturali, dovendo, anche in questo, il privato impugnare il silenzio inadempimento dell’Amministrazione. In conclusione, “attesa l’inefficacia del parere reso tardivamente dalla Soprintendenza, in ragione dell’intervenuta formazione del silenzio assenso”, la determina di conclusione dei lavori del Comune è da reputarsi illegittima.
Il Ministero dei beni culturali propone appello avverso tale decisione e il Consiglio di Stato si pronuncia con la sentenza in esame. Il Ministero sostiene che il silenzio assenso orizzontale, disciplinato dall’art. 17 bis, cit., debba applicarsi esclusivamente nell’ambito dei rapporti tra Amministrazioni e non nell’ambito dell’autorizzazione paesaggistica, inteso dal Ministero come procedimento monostrutturato in cui prevale la volontà di una singola Amministrazione. Pertanto, nella fattispecie in esame, il parere della Soprintendenza non sarebbe tamquam non esset, dovendo il Comune tenerne conto nell’ambito della determinazione inerente al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica.
2. Gli artt. 14 bis e 17 bis, l. n. 241/1990
Prima di esaminare la sentenza del Consiglio di Stato, pare opportuno soffermarsi, se pur brevemente, suoi caratteri degli istituti oggetto di contrasto interpretavo, per poi esaminare la loro applicazione nello specifico caso dell’autorizzazione paesaggistica[3].
L’art. 14 bis, cit., dispone che la conferenza di servizi decisoria, art. 14, c. 2, l. n. 241/1990, si svolge in forma semplificata e in modalità asincrona, secondo le modalità previste dall’art. 47 del d.lgs. 7 marzo 2005 n. 82[4]. La conferenza semplificata è stata considerata in dottrina[5] un ossimoro o una contraddizione in termini, mancando l’esame contestuale degli interessi coinvolti, vero tratto caratterizzante della conferenza di servizi, oltre alla certezza della decisione finale, superando il dissenso, che ha contraddistinto la conferenza di servizi fin dalla l. 24 novembre 2000, n. 340, con la quale il principio dell’unanimità del consenso è stato sostituito con il principio maggioritario.
A conferma di quanto appena detto potremmo considerare quanto disposto dalla legge delega n. 124/2015 e dal successivo decreto delegato, per poter affermare che anche il legislatore non consideri la conferenza simultanea come la vera conferenza di servizi decisoria. Infatti, l’art. 2, c. 1, lett. a), della legge delega, tra i criteri direttivi, fa riferimento alla ridefinizione e riduzione dei casi in cui la convocazione della conferenza dei servizi è obbligatoria, anche in base alla complessità del procedimento. L’art. 14 bis, c. 2, cit., dispone che la conferenza simultanea è indetta dall’Amministrazione procedente entro cinque giorni lavorativi dall’inizio del procedimento d’ufficio o dal ricevimento della domanda se il procedimento è ad iniziativa di parte. Al contempo, il previgente art. 14, c. 2, cit., prevedeva che la conferenza di servizi fosse sempre indetta qualora l’Amministrazione procedente dovesse acquisire atti di assenso da parte di altre Amministrazioni e non li avesse ottenuti nel termine di 30 giorni dalla richiesta. Pertanto, una volta ricevuti gli atti di assenso, la conferenza di servizi non era più necessaria.
Secondo il dettato attuale, la conferenza semplificata è obbligatoria, ma non è la vera conferenza di servizi, mentre quella simultanea, la vera conferenza di servizi, nel rispetto del criterio di riduzione della legge delega, è diventata residuale e, quindi, limitata ai casi in cui l’Amministrazione procedente debba superare il dissenso espresso da un’altra Amministrazione nel corso della conferenza semplificata, ovvero, qualora sia necessaria per la complessità del provvedimento da adottare.
Un primo profilo di esame, che in modo particolare rileva in questa sede, è il rapporto tra la conferenza di servizi semplificata e il silenzio assenso tra Amministrazioni e tra un’Amministrazione e un gestore di beni o servizi, art. 17 bis, cit..
La legge delega prevede, tra i criteri guida, il coordinamento delle norme inerenti ai due istituti, mentre la relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo ha sintetizzato il tema osservando che “la formulazione della disposizione, art. 14 bis, cit., che fa riferimento a più atti di assenso, chiarisce che ove sia necessario un solo atto di assenso, si applica l’art. 17 bis della stessa l. n. 241/1990”[6]. In realtà, il Cons. Stato, Comm. Spec., n. 1640/2016, nel parere reso in riferimento ad alcuni profili critici dell’art. 17 bis, cit., ha osservato che “la tesi secondo cui l’art. 17 bis trova applicazione nel caso in cui l’Amministrazione procedente debba acquisire l’assenso di una sola Amministrazione, mentre nel caso di assensi di più Amministrazioni opera la conferenza di servizi, rappresenta, in effetti, quella che fornisce il criterio più semplice per la risoluzione dell’apparente sovrapposizione normativa (…). In alternativa, per estendere l’ambito applicativo dell’art. 17 bis, cit., in modo che appaia, comunque, compatibile con il suo tenore letterale, si potrebbe sostenere che il silenzio assenso di cui all’art. 17 bis, cit., opera sempre, anche nel caso in cui siano previsti assensi di più Amministrazioni e, se si forma, previene la necessità di convocare la conferenza di servizi. Quest’ultima andrebbe convocata, quindi, nei casi in cui il silenzio assenso non si è formato a causa del dissenso espresso dalle Amministrazioni interpellate e avrebbe lo scopo di superare quel dissenso nell’ambito della conferenza appositamente convocata”.
Il Consiglio di Stato sembra, così, voler superare la conferenza semplificata, la quale, invece, viene confermata nel testo definitivo e applicata qualora gli atti di assenso siano più di uno, escludendo in questo caso l’applicazione dell’art. 17 bis, cit.. Infatti, l’art. 14, c. 2, cit., dispone che “la conferenza di servizi decisoria è sempre indetta dall’Amministrazione procedente quando la conclusione positiva del procedimento è subordinata all’acquisizione di più pareri, intese, concerti, nulla osta o altri atti di assenso comunque denominati, resi da diverse amministrazioni, inclusi i gestori di beni o servizi pubblici”.
In definitiva, come osservato in dottrina, seguendo un mero criterio quantitativo, gli istituti della conferenza di servizi semplificata e quello dell’art. 17 bis non verrebbero a sovrapporsi, seguendo una modulazione della procedura in relazione alle questioni sostanziali da affrontare: per gli affari più semplici, il silenzio assenso, ex art. 17 bis; per quelli leggermente più complessi, la conferenza semplificata; per quelli di una certa complessità, la conferenza simultanea[7].
Tuttavia, il criterio quantitativo non pare essere l’unico alla base di una netta distinzione tra i due istituti. Si pensi, ad esempio, al differente ambito oggettivo di applicazione. L’art. 17 bis, cit., si applica anche all’adozione di provvedimenti amministrativi e provvedimenti normativi, mentre la conferenza di servizi ai soli provvedimenti amministrativi. Inoltre, l’art. 14, c. 2, cit., tra gli assensi da acquisire, menziona i pareri e le intese, esclusi dall’art. 17 bis[8].
La conferenza di servizi e il silenzio assenso tra Amministrazioni troveranno spazio nell’acquisizione di pareri vincolanti per la loro natura decisoria, principio fondamentale che rileva per la sentenza in esame. Al contempo non si applica l’art. 17 bis ai pareri non vincolanti, per i quali, come del resto per le valutazioni tecniche, continuano ad applicarsi le procedure di cui agli artt. 16 e 17, l. n. 241/1990.
L’art. 17 bis, cit., opera, quindi, solo nella fase decisoria, nella fase in cui l’amministrazione procedente, completata l’istruttoria e nella quale operano anche gli artt. 16 e 17, cit., propone uno schema di provvedimento ad un’altra Amministrazione, anche preposta alla cura degli interessi sensibili, alla cui inerzia, nei termini di 30 o 90 giorni, segue il silenzio assenso. Invece, la conferenza simultanea, essendo obbligatoria per l’acquisizione di più atti di assenso e dovendo essere convocata nel termine di cinque giorni lavorativi dall’inizio del procedimento d’ufficio o dal deposito dell’istanza di parte, deve effettuare un’istruttoria completa e in questa devono essere acquisiti anche i pareri meramente consultivi e non vincolanti, oltre alle valutazioni tecniche.
Un altro tratto distintivo della conferenza di servizi semplificata (art. 14 bis) e del silenzio assenso orizzontale (art. 17 bis) è dato dalla disciplina della qualificazione dell’assenso implicito e dalla modalità di superamento del dissenso. Nel primo caso, l’art. 14 bis, c. 3, introduce i requisiti necessari per far valere il dissenso e in assenza dei quali si ha un assenso implicito[9], mentre l’art. 17 bis non menziona qualità specifiche del dissenso, operando così in caso d’inerzia dell’Amministrazione. Inoltre, in riferimento al superamento del dissenso, l’art. 17 bis, c. 2, stando alla lettera della norma, ritiene superabile solo il dissenso tra Amministrazioni statali, nel quale caso, il Presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, decide sulle eventuali modifiche da apportare allo schema di provvedimento presentato dall’amministrazione procedente.
Un ulteriore tratto distintivo dei due istituti è dato dal profilo soggettivo della conferenza di servizi simultanea e del silenzio assenso tra amministrazioni. Difatti, l’art. 14 fa riferimento a tutte le Amministrazioni pubbliche, compresi i gestori dei beni e dei servizi pubblici, mentre l’art. 17 bis, cit., individuerebbe, come amministrazioni procedenti, le sole Amministrazioni pubbliche, mentre le Amministrazioni pubbliche e i gestori di pubblici servizi sarebbero i soggetti a cui chiedere gli atti di assenso comunque denominati.
Soffermandoci ancora sui caratteri essenziali dell’istituto introdotto dall’art. 17 bis, cit., possiamo dire che è un silenzio assenso endoprocedimentale, con effetti all’interno di un procedimento amministrativo, “come fatto equivalente alla valutazione, da parte delle autorità interpellate, circa la sussistenza di elementi contrari all’adozione e al contenuto del provvedimento prospettato dall’autorità decidente”[10].
Tale silenzio si differenzia, pertanto, da quello ‘provvedimentale’ operante per l’inerzia dell’Amministrazione nei procedimenti ad istanza di parte, nei quali, allo scadere del termine per la conclusione del procedimento, il privato ottiene l’effetto utile previsto dalla norma di riferimento, rispondendo in questo modo, tale istituto, alle istanze di liberalizzazione delle attività economiche private[11]. Questa conseguenza all’inerzia dell’Amministrazione, applicata al rapporto verticale amministrazione/privato, da cui dobbiamo distinguere, ai sensi dell’art. 17 bis, cit., il silenzio applicato al rapporto orizzontale tra amministrazioni, è disciplinata ancora oggi dall’art. 20, l. n. 241/1990, il quale, tra le sue specificità, contempla al c. 4 l’espressa esclusione del silenzio assenso nei procedimenti ad istanza di parte riguardanti i cd. interessi sensibili, tra cui la tutela dei beni culturali, ai quali, invece, come si è detto, l’art. 17 bis, c. 3, cit., applica il silenzio assenso tra Amministrazioni[12].
La differenza tra l’art. 17 bis e l’art. 20, c. 4, cit., permane, almeno formalmente, e da qui sono scaturiti nella giurisprudenza amministrativa i dubbi interpretativi sulla compatibilità dei due articoli in una visione di sistema[13].
Il silenzio endoprocedimentale e quello provvedimentale sollevano un altro profilo critico legato alla ratio stessa dei due istituti. Infatti, se in entrambi i casi si vogliono perseguire esigenze di semplificazione, con i rischi annessi, allo stesso tempo il silenzio provvedimentale deve garantire un equilibrio e un bilanciamento tra la tutela dell’interesse pubblico e quello del privato cui si lega un legittimo affidamento. In quello endoprocedimentale, invece, l’equilibrio da cercare è tra la tutela di diversi interessi pubblici, il principio di legalità, il principio delle competenze e quello della leale collaborazione tra Amministrazioni e non tanto l’istituto del silenzio in quanto tale, ma la sua generalizzazione tra Amministrazioni solleva qualche dubbio sulla realizzazione di tale equilibrio. Come del resto ha sollevato qualche dubbio, per rimanere nell’ambito della necessità di un coordinamento tra Amministrazioni, soprattutto nella tutela dei beni culturali, ma non solo, il rapporto tra il silenzio assenso tra Amministrazioni e la conferenza di servizi, di cui si è già detto, come strumento di semplificazione amministrativa da impiegare nei procedimenti a struttura complessa e nei procedimenti collegati. Non a caso, la delega per il riordino della disciplina in materia di conferenza di servizi, ex art. 2, l. n. 124/2015, indica tra i princìpi e i criteri direttivi per il legislatore delegato “il coordinamento delle disposizioni in materia di conferenza di servizi con quelle dell’art. 17 bis”.
La rilevanza dell’art. 17 bis, cit., e i profili critici derivanti da importanti dubbi interpretativi del medesimo per problemi di coordinamento e di sovrapposizione fra gli interventi dell’Amministrazione, a causa della sua non piena sincronizzazione con gli altri strumenti già presenti, hanno prodotto la formulazione di un quesito da parte della Presidenza del Consiglio, Ufficio legislativo del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, a seguito del quale è stato reso il parere n. 1640/2016, della Commissione speciale del Consiglio di Stato, appositamente istituita[14], parere diventato centrale anche nelle argomentazioni della sentenza in esame.
La Commissione ha, innanzitutto, sottolineato la portata sistemica e il valore di principio del silenzio assenso tra Amministrazioni, paragonandolo per la sua portata di principio generale alle modifiche introdotte dalla l. n. 124/2015 all’art. 21 nonies, l. n. 241/1990, in tema di annullamento d’ufficio[15] e in particolare in riferimento al termine di 18 mesi entro il quale poter intervenire da parte dell’amministrazione in autotutela. Infatti, secondo la Commissione, come sono stati posti limiti temporali all’esercizio del potere pubblico allo scopo di dare certezza ai rapporti tra l’amministrazione e i cittadini, consolidando le situazioni giuridiche soggettive di questi ultimi, allo stesso tempo la generalizzazione del silenzio assenso tra amministrazioni rappresenterebbe un secondo principio generale da applicare ai rapporti tra Amministrazioni nei casi in cui il procedimento debba concludersi con una decisione pluristrutturata[16], nella quale, ex lege, il provvedimento finale dell’amministrazione procedente deve essere preceduto da un assenso vincolante di un’Altra amministrazione che assumerebbe, in tale procedimento amministrativo, il ruolo di codecisore.
Nel definire la portata generale di tale nuovo paradigma, la Commissione speciale ha enunciato tre fondamenti: uno costituzionale, uno di sistema e uno europeo.
Per il primo, il principale fondamento costituzionale dell’art. 17 bis, cit., è individuato nel principio del buon andamento, ex art. 97, c. 2, Cost.[17], letto in un’ottica moderna, volto a tutelare, attraverso una conclusione tempestiva dei procedimenti, “il primato dei diritti della persona, dell’impresa e dell’operatore economico rispetto a qualsiasi forma di dirigismo burocratico”[18] e a qualificare l’attività amministrativa come prestazione che deve soddisfare i diritti civili e sociali, ex art. 117, c. 2, lett. m), Cost.[19].
In riferimento al secondo, il silenzio assenso tra Amministrazioni attua il principio di trasparenza, a sua volta declinazione del principio della buona amministrazione[20], alla cui attuazione darebbe un importante contributo “l’introduzione di rimedi di semplificazione dissuasivi e stigmatizzanti il silenzio”[21].
L’ulteriore fondamento è, secondo la Commissione speciale, da rinvenirsi nel diritto europeo, in un principio desumibile dalla cd. direttiva Bolkestein (2006/123/CE, definita dalla stessa Commissione microcosmo per sottolinearne la specificità dell’oggetto), la quale, allo scopo di prevenire gli effetti negativi dell’incertezza sul mercato, ha limitato i casi in cui un’attività possa essere sottoposta ad autorizzazione e ha introdotto il principio della tacita autorizzazione, sostenendo “come anche in ambito europeo sia sempre più avvertita l’esigenza di introdurre rimedi semplificanti per neutralizzare gli effetti negativi dell’inerzia dell’amministrazione”. In realtà, se la direttiva Bolkestein rappresenta appunto un microcosmo, la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, come del resto quella della Corte costituzionale, ha tradizionalmente espresso un orientamento contrario nei confronti di una tipizzazione del silenzio assenso in luogo del provvedimento espresso.
L’art. 17 bis, cit., come si diceva, dispone che l’assenso deve intendersi acquisito qualora l’Amministrazione codecidente sia rimasta inerte per 30 giorni dal ricevimento dello schema di provvedimento, corredato della relativa documentazione, da parte dell’amministrazione procedente. In tal modo, s’inserisce un termine unico, per così dire ordinario, che va a determinare e a delimitare i tempi dell’azione amministrativa, prevalendo su termini diversi disposti dalla normativa vigente, a eccezione di quanto disposto dal c. 3 del medesimo articolo, che introduce esso stesso un termine diverso, di 90 giorni, per gli atti di assenso delle amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili. Il termine di 30 giorni è suscettibile di un’unica interruzione, qualora, nel medesimo termine, vengano manifestate esigenze istruttorie o motivate richieste di modifica, provando in questo modo, a mio parere, che l’istruttoria procedimentale non possa essere considerata completa e conclusa solo a seguito della decisione presa dall’amministrazione procedente, necessitando, di contro, che l’istruttoria debba essere considerata completa e conclusa anche da parte dell’amministrazione a cui sia stato richiesto l’assenso comunque denominato.
Qualora, pertanto, non lo fosse, l’assenso, il concerto o il nulla osta dovranno essere comunicati nei 30 giorni successivi alla ricezione degli elementi istruttori o dello schema di provvedimento. Decorso tale ulteriore termine, entra in gioco il nuovo meccanismo di semplificazione: l’amministrazione codecidente non potrà più esprimere il proprio dissenso e così l’inerzia viene “sanzionata”, come espressamente e significativamente scritto dalla Commissione speciale nel parere citato, e l’equipollenza del silenzio con il provvedimento espresso favorevole diventa il rimedio nei confronti della natura patologica dell’inerzia dell’amministrazione.
Sempre in riferimento al termine, per i procedimenti relativi alla tutela degli interessi sensibili, come si diceva, l’art. 17 bis, c. 3, fissa un termine più di lungo, di 90 giorni, per la formazione del silenzio, pur facendo salvo, contestualmente, un termine ancora diverso, previsto per le discipline di settore.
L’utilizzo dell’aggettivo diverso, nella sua genericità e in assenza di ulteriori specificazioni, lascia intendere che il termine per la formazione del silenzio possa essere più lungo, ma anche più breve di 90 giorni, come è il caso del termine di 45 giorni, previsto dall’art. 146, d.lgs. n. 42/2004[22], riducendo drasticamente, in questo caso, la differente tutela prevista dall’art. 17 bis, cit., tra interessi ordinari e interessi sensibili[23].
Per quanto riguarda l’ambito di applicazione soggettivo, l’art. 17 bis, cit., si applica a tutte le pubbliche amministrazioni, regioni ed enti locali compresi, come ribadito nel parere n. 1640/2016, cit..
Difatti, la disciplina del silenzio assenso è da ricondurre alla potestà legislativa esclusiva dello Stato attinente ai livelli essenziali delle prestazioni, ai sensi dell’art. 117, c. 2, lett. m), Cost.[24]. Inoltre, in riferimento a questi ultimi, l’art. 29, c. 2 ter, l. n. 241/1990, nel ricondurre anche le disposizioni della legge sul procedimento sul silenzio assenso ai livelli essenziali delle prestazioni, non distingue il silenzio endoprocedimentale e quello provvedimentale, anche perché, pur nella diversità strutturale dell’art. 17 bis e dell’art. 20, cit., in entrambi i casi l’obiettivo, almeno negli intenti, è quello della semplificazione e dell’accelerazione dell’azione amministrativa.
Sempre nell’ambito soggettivo di applicazione, devono essere considerate le Regioni a Statuto speciale, le Province autonome di Trento e Bolzano[25], le Autorità indipendenti, in virtù della natura amministrativa loro riconosciuta[26], nonché gli organi politici, sia nella qualità di organo procedente, sia in quella di organo che deve esprimere un assenso comunque denominato. In questo caso, si potrebbe porre un problema in ordine alla modalità di composizione del disaccordo, di cui all’art. 17 bis, c. 2, in caso d’inerzia dell’organo politico, che si aggiunge alle perplessità anche nei confronti della stessa scelta di affidare a un organo politico, come avviene già per la conferenza di servizi, la composizione amministrativa definitiva degli interessi da tutelare in caso di dissenso di un’amministrazione: scelta ancor più critica se si tratta d’interessi sensibili per l’alto profilo tecnico sotteso, in violazione del principio della separazione dell’indirizzo politico dall’attività di gestione amministrativa.
Quanto ai gestori di beni o servizi pubblici, ultimando con l’ambito di applicazione soggettivo dell’art. 17 bis, il richiamo sembrerebbe indicare l’applicazione del silenzio assenso ai casi in cui essi siano chiamati a rendere un atto di assenso comunque denominato, e non a quelli in cui gli stessi quali amministrazioni procedenti che necessitino di un assenso per concludere un proprio procedimento. Sul punto, il parere n. 1640/2016, cit., della Commissione speciale ha seguito un orientamento estensivo, equiparando i gestori alle amministrazioni, negli ambiti e nei limiti in cui la loro attività sia procedimentalizzata[27].
Passando all’ambito di applicazione oggettivo, l’art. 17 bis, si applica espressamente ai procedimenti diretti all’adozione di provvedimenti non solo amministrativi, ma anche quelli normativi di competenza delle amministrazioni. In questo ambito, tuttavia, la questione più significativa e critica attiene all’applicabilità o meno dell’istituto anche nei casi in cui sia prevista l’acquisizione di assensi, concerti o nulla osta comunque denominati da parte di amministrazioni preposte alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, dei beni culturali o della salute dei cittadini[28].
In riferimento a questi interessi, l’art. 17 bis, c. 3, cit., introduce, come si diceva, una disciplina diversa rispetto a quella prevista dall’art. 20, c. 4, cit., il quale continua a regolare, pur dopo l’introduzione dell’art. 17 bis, il silenzio assenso dell’Amministrazione procedente a seguito di un’istanza di parte, il cui c. 4, esclude la generalizzazione del silenzio assenso, come disposto dall’art. 20, c. 1, nei procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggio, l’ambiente, la tutela dal rischio idrogeologico, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza, l’immigrazione, l’asilo e la cittadinanza, la salute e la pubblica incolumità[29].
L’estensione del silenzio assenso endoprocedimentale agli interessi sensibili solleva una serie di profili critici cui la Commissione speciale, con il parere n. 1640/2016, ha cercato di dare una risposta, trovando un’adesione completa dalla sentenza in esame.
Il riferimento è, innanzi tutto, alla necessità di coordinamento tra l’art. 17 bis e gli artt. 16 e 17, cit., nonché al rapporto tra il silenzio assenso tra Amministrazioni e il silenzio che si produce nell’ambito della conferenza di servizi. Non meno di rilievo è la necessità di coordinamento, come si diceva, tra l’art. 17 bis, l’art. 20, c. 4, cit., e l’art. 146, d.lgs. n. 42/2004 in tema di beni culturali, oltre alle implicazioni dell’applicazione dell’art. 17 bis al medesimo decreto legislativo. Il tutto inserito, come già si è detto, in un orientamento generale della Corte costituzionale e della Corte di Giustizia UE contrario all’applicazione all’inerzia dell’amministrazione del rimedio preventivo e generalizzato del silenzio assenso quando gli interessi coinvolti siano di rango primario e tra questi figurano di certo gli interessi ambientali.
3. Il silenzio assenso orizzontale e l’art. 146, d.lgs. n. 42/2004 nella sentenza del Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 8610/2023
In un primo quadro legislativo così delineato, il Consiglio di Stato, con la sentenza in esame, è chiamato a pronunciarsi sull’applicabilità del cd. silenzio assenso orizzontale agli atti di tutela dei cd. interessi sensibili, nello specifico al parere paesaggistico reso tardivamente nell’ambito di una conferenza di servizi, ai sensi dell’art. 14 bis, cit.. Tale questione, oggetto di contrasto interpretativo e di ampio dibattito dottrinale, è strettamente correlata, come già si è detto, con l’applicabilità o meno dell’art. 17 bis, cit., al procedimento di autorizzazione paesaggistica[30].
Il giudice d’appello ricostruisce il quadro normativo e giurisprudenziale di riferimento.
Prima della riforma introdotta dalla l n. 124/2015[31], l’art. 146, d.lgs. n. 42/2004, prevedeva che l’Amministrazione competente, il Comune a seguito della delega della Regione, doveva provvedere sulla domanda del privato nel termine di 60 giorni, dopo aver acquisito il parere della Soprintendenza da rendere nel termine di 45 giorni dalla ricezione degli atti. Decorso inutilmente tale termine, il Comune doveva provvedere sulla domanda anche senza l’acquisizione del parere della Soprintendenza, la quale poteva comunque intervenire tardivamente fino alla conclusione formale del procedimento di autorizzazione paesaggistica. In tale fattispecie, il silenzio della Soprintendenza era da configurare come silenzio devolutivo e, pertanto, l’autorizzazione paesaggistica veniva imputata al Comune che l’aveva rilasciata.
La l. n. 124/2015 ha mutato radicalmente questa impostazione tradizionale, ripensando e modificando profondamente l’attenuazione dell’applicazione dei procedimenti di semplificazione qualora siano coinvolti interessi cd. sensibili[32]. Pertanto, proponendo una trasformazione del ruolo della semplificazione, da valore strumentale a bene o valore di natura finale e, allo stesso tempo, attenuando la primarietà degli interessi cd. sensibili in favore di un loro bilanciamento con altri valori costituzionalmente rilevanti, la cd. legge Madia ha modificato l’istituto della conferenza di servizi, artt. 14 ss., e ha introdotto il cd. silenzio assenso orizzontale tra pubbliche amministrazioni, ai sensi dell’art. 17 bis, di cui si è già detto.
La giurisprudenza, anche dopo la Riforma Madia, ha, in diversi casi, ancora utilizzato il modello del silenzio devolutivo[33]. Secondo questo modello interpretativo, in caso di inerzia della Soprintendenza, il parere tardivo sarebbe obbligatorio, ma non vincolante, obbligando, pertanto, l’Amministrazione procedente ad una sua valutazione anche in riferimento ai profili paesaggistici[34]. Questo in applicazione dell’art. 146, c. 9, d.lgs. n. 42/2004, non abrogato dall’art. 17 bis, cit., ai sensi del quale “decorsi inutilmente sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte del Soprintendente, senza che questi abbia reso il prescritto parere, l’amministrazione competente provvede comunque sulla domanda di autorizzazione”. In definitiva, secondo questo primo orientamento giurisprudenziale[35], l’autorizzazione paesaggistica costituirebbe un provvedimento mono-strutturato, nel quale il parere della Soprintendenza verrebbe ad inserirsi, condividendo con l’Amministrazione procedente la fase istruttoria e non quella decisoria. Se si accetta tale orientamento, non può trovare applicazione in questo modello l’art. 17 bis, cit., che ha introdotto una forma di co-decisione attraverso il silenzio, imponendo all’Amministrazione procedente di condurre un’istruttoria completa al fine di predisporre uno schema di provvedimento da sottoporre, nel caso di specie, alla Soprintendenza come Amministrazione co-decidente. Si tratta, dunque, di un atto a contenuto decisorio e di un giudizio di merito tecnico-discrezionale. Il parere di compatibilità paesaggistica rientra tra i pareri a contenuto tecnico, in ragione della specificità della materia su cui deve esprimersi ed è qualificato dallo stesso legislatore obbligatorio non vincolante[36].
A questo primo orientamento se ne è opposto un altro, secondo il quale il silenzio assenso orizzontale, di cui all’art. 17 bis, cit., si applicherebbe anche al parere reso dalla Soprintendenza. Condivide tale orientamento la sentenza in esame, considerandolo “maggiormente conforme al quadro normativo di riferimento”[37].
Sul piano sistematico, i pareri vincolanti contribuirebbero alla formazione di un provvedimento finale pluristrutturato[38], considerando il parere della Soprintendenza “espressione di una cogestione attiva del vincolo paesaggistico”[39], modello considerato dalla sentenza in esame maggiormente conforme al dettato costituzionale. Infatti, la dequotazione di tale parere a mero parere consultivo indebolirebbe il delicato equilibrio sotteso all’art. 146, d.gs. n. 42/2004, rispetto al riparto delle funzioni legislative di cui all’art. 117 Cost.. Sarebbe, invece, maggiormente in linea con un quadro costituzionalmente vincolato riconoscere al parere della Soprintendenza un carattere co-decisorio, come si desume anche dalla riforma dell’art. 146, operata dal d.l. n. 70/2011, conv. in l. n. 106/2011 con la quale si è stabilito che la Regione, o il Comune delegato, devono trasmettere alla Soprintendenza una proposta motiva, dopo un’adeguata istruttoria.
In definitiva, a tali pareri vincolanti, necessari per definire il contenuto della decisione finale in qualità di atti co-decisori (cd. decisione pluristrutturata), si applicherebbe l’art. 17 bis, cit., partendo anche da una sua esegesi letterale inequivocabile, come affermato dal citato parere del Consiglio di Stato, n. 1640/2016, il quale ha affermato che “la formulazione testuale del comma 3 dell’art. 17 bis, l. n. 241 del 1990, consente di accogliere la tesi favorevole all’applicabilità del meccanismo di semplificazione anche ai procedimenti di competenza di Amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili, ivi compresi i beni culturali e la salute dei cittadini. Sul punto la formulazione letterale del c. 3 è chiara e non lascia spazio a dubbi interpretativi: le Amministrazioni preposte alla tutela degli interessi sensibili beneficiano di un termine diverso (quello previsto dalla normativa di settore o, in mancanza, del termine di novanta giorni), scaduto il quale sono, tuttavia, sottoposte alla regola generale del silenzio assenso”[40].
Ed è proprio sulla base di indici ermeneutici in favore della tesi della natura co-decisoria del parere della Soprintendenza che il Consiglio di Stato, con la sentenza in esame, argomenta la condivisione di tale orientamento.
Oltre alle disposizioni già esaminate dell’art. 14 bis e dell’art. 17 bis, cit., anche la ratio e il dato letterale del novellato art. 2, c. 8 bis, l. n. 241/1990, pare sostenere questa tesi[41]. Infatti, si afferma che “le determinazioni relative ai provvedimenti, alle autorizzazioni, ai pareri, ai nulla osta e agli atti di assenso comunque denominati, adottate dopo la scadenza dei termini di cui agli articoli 14 bis, c. 2, lett. c), 17 bis, c. 1 e 3, 20, c. 1, ovvero successivamente all’ultima riunione di cui all’art. 14 ter, c. 7, nonché i provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti, di cui all’art. 19, c. 3 e 6 bis, primo periodo, adottati dopo la scadenza dei termini ivi previsti, sono inefficaci, fermo restando quanto previsto dall’articolo 21-nonies, ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni”.
Afferma il Consiglio di Stato che “la lettera di tale disposizione, riferendosi espressamente alle fattispecie del silenzio maturato nel corso di una conferenza di servizi, ex art. 14 bis e nell’ambito dell’istituto di cui all’art. 17 bis, è inequivocabile nell’affermare il principio (che non ammette eccezioni) secondo cui le determinazioni tardive sono irrilevanti in quanto prive di effetti nei confronti dell’autorità competente, e non soltanto privi di carattere vincolante. Da ciò discende che non c’è più spazio, alla luce del novum normativo in disamina, per tentare la strada della sopravvivenza del c.d. silenzio-devolutivo, stante la formulazione volutamente onnicomprensiva della nuova norma. Come già ricordato, il testo della legge, specie quando formulata, come nel caso in esame, mediante la c.d. tecnica per fattispecie analitica, fornisce la misura della discrezionalità giudiziaria e costituisce un limite insuperabile rispetto a opzioni interpretative che ne disattendano ogni possibile risultato riconducibile al suo potenziale campo semantico (così come delimitato dalla disposizione), per giungere ad esiti con esso radicalmente incompatibili”.
Così come simili previsioni si ricavano anche dal d.P.R. 13 febbraio 2017, n. 31 (Regolamento recante individuazione degli interventi esclusi dall'autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata), che, all’art. 11 (Semplificazioni procedimentali), c. 9, il quale prevede espressamente che “in caso di mancata espressione del parere vincolante del Soprintendente nei tempi previsti dal c. 5, si forma il silenzio assenso ai sensi dell’art. 17 bis della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni e l’amministrazione procedente provvede al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica”.
Tale disposizione è chiarissima nel qualificare il parere (semplificato) della Soprintendenza come atto co-decisorio ai sensi dell’art. 17 bis, cit., come ulteriormente ribadito dal Ministero dei Beni culturali con le circolari 10 novembre 2015, prot. n. 27158 e 20 luglio 2016, prot. N. 21892.
Fondamentale, secondo la sentenza in esame, nell’affermare la conformità a Costituzione dell’applicazione del silenzio assenso orizzontale al procedimento di autorizzazione paesaggistica, è la decisione della Corte cost., 22 luglio 2021, n. 160.
Questa sentenza, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, c. 6, della legge della Regione Siciliana 6 maggio 2019, n. 5 (Individuazione degli interventi esclusi dall’autorizzazione paesaggistica o sottoposti a procedura autorizzatoria semplificata), che aveva introdotto il silenzio-assenso c.d. verticale (ovvero nel rapporto con il privato) sulla domanda di autorizzazione paesaggistica, formula delle argomentazioni a sostegno della compatibilità costituzionale dell’applicazione del silenzio assenso orizzontale agli interessi culturali paesaggistici.
Afferma, infatti, la Corte che il silenzio assenso previsto dalla norma regionale citata assume una valenza del tutto diversa rispetto a quanto disciplinato all’art. 11, c. 9, del d.P.R. n. 31 del 2017 (ovvero allo schema del silenzio assenso c.d. orizzontale). Non si tratta, infatti, sempre secondo la Corte, “di silenzio assenso endoprocedimentale, destinato a essere seguito da un provvedimento conclusivo espresso dell’Amministrazione procedente, ma di un silenzio assenso provvedimentale, destinato a sostituire l’autorizzazione paesaggistica richiesta, secondo quanto previsto dall’art. 20, cit., (…); l’assenso del soprintendente sulla proposta di assenso ricevuta dall’Amministrazione procedente si forma per silentium, ma ciò non esonera quest’ultima dalla necessità di concludere il procedimento con una decisione espressa, come si desume, del resto, dall’ultima parte del citato c. 9 dell’art. 11 del d.P.R. n. 31/2017, secondo cui l’Amministrazione procedente, una volta formatosi il silenzio assenso sul parere del soprintendente, «provvede al rilascio dell’autorizzazione paesaggistica». Ciò, in linea con il divieto stabilito all’art. 20, c. 4, cit., che esclude l’applicazione del silenzio assenso nei rapporti verticali tra privati e pubbliche amministrazioni preposte alla tutela dei cd. interessi sensibili, tra cui, per quanto qui rileva, quelli relativi agli atti e ai procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico”.
Proprio muovendo dalla distinzione con il silenzio assenso orizzontale, la decisione della Corte censura la disposizione regionale sottoposta al suo esame, la quale, introducendo una surrettizia forma di silenzio assenso verticale, contrasta con il principio generale stabilito all’art. 20, c. 4, cit., che vieta la formazione per silentium del provvedimento conclusivo nei procedimenti ad oggetto la tutela di interessi sensibili.
4. Brevi considerazioni conclusive
L’orientamento che esclude l’applicazione del silenzio assenso verticale al parere da rendere, da parte della Soprintendenza, nell’ambito del procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, contraddice anche la ratiodell’art. 17 bis, cit., intesa come funzionale a evitare che, ove il procedimento debba concludersi con l’adozione di una decisione pluristrutturata, la condotta inerte dell’Amministrazione interpellata possa produrre un blocco del procedimento, impedendo, così, l’adozione del provvedimento finale.
In tale quadro, l’istituto in esame si inserisce in un’evoluzione normativa che ha nel tempo reso più fluida l’azione amministrativa, tentando di neutralizzare gli effetti negativi dell’inerzia dell’Amministrazione, in un primo momento nei rapporti con i privati e, in seguito, anche nei rapporti tra Amministrazioni.
Il nuovo strumento di semplificazione conferma, pertanto, la natura per così dire patologica che caratterizza il silenzio dell’Amministrazione, soprattutto nell’ambito di un rapporto orizzontale con un’altra Amministrazione co-decidente.
L’istituto del silenzio-assenso orizzontale è la prova della contrarietà del legislatore nei confronti dell’inerzia amministrativa, inerzia che viene stigmatizzata al punto tale da ricollegare al silenzio dell’Amministrazione interpellata la più grave delle “sanzioni” o il più efficace dei “rimedi”, ossia l’equiparazione del silenzio all’assenso con conseguente perdita del potere di dissentire e di impedire la conclusione del procedimento.
Queste esigenze non sono circoscrivibili alla specifica natura del procedimento di volta in volta preso in esame, imponendosi in via generalizzata, pur le eccezioni previste dall’art. 17 bis, c. 4, l. n. 241/1990) per ogni forma di esercizio del pubblico potere, amministrativo o normativo, qualora il provvedimento finale presupponga una fase di co-decisione di competenza di un’altra Amministrazione.
A tal proposito, sono rilevanti le argomentazioni del citato parere del Consiglio di Stato nel quale si afferma che “il Consiglio di Stato ritiene si possa parlare di un ‘nuovo paradigma’: in tutti i casi in cui il procedimento amministrativo è destinato a concludersi con una decisione pluristrutturata nel senso che la decisione finale da parte dell’Amministrazione procedente richiede per legge l’assenso vincolante di un’altra Amministrazione, il silenzio dell’Amministrazione interpellata, che rimanga inerte non esternando alcuna volontà, non ha più l’effetto di precludere l’adozione del provvedimento finale ma è, al contrario, equiparato ope legis ad un atto di assenso e consente all’Amministrazione procedente l’adozione del provvedimento conclusivo. Il silenzio assenso orizzontale, previsto dall’art. 17 bis, opera, nei rapporti tra Amministrazioni co-decidenti, quale che sia la natura del provvedimento finale che conclude il procedimento, non potendosi sotto tale profilo accogliere la tesi che, prospettando un parallelismo con l’ambito applicativo dell’art. 20 concernente il silenzio assenso nei rapporti tra privati, circoscrive l’operatività del nuovo istituto agli atti che appartengono alla categoria dell’autorizzazione, ovvero che rimuovono un limite all’esercizio di un preesistente diritto. La nuova disposizione, al contrario, si applica a ogni procedimento (anche eventualmente a impulso d’ufficio) che preveda al suo interno una fase co-decisoria necessaria di competenza di altra amministrazione, senza che rilevi la natura del provvedimento finale nei rapporti verticali con il privato destinatario degli effetti dello stesso”.
Le medesime conclusioni si impongono in riferimento all’art. 14 bis, cit., così come modificato con il d.lgs. 30 giugno 2016, n. 127 (Norme per il riordino della disciplina in materia di conferenza di servizi, in attuazione dell’articolo 2 della legge 7 agosto 2015, n. 124), che presenta un analogo meccanismo semplificatorio.
In definitiva, il quadro normativo è chiaro e lo è anche la ratio sottesa agli artt. 14 bis e 17 bis, anche in riferimento alle autorizzazioni paesaggistiche, come ben argomentato dal parere del Consiglio di Stato, comm. spec., n. 1640/2016, cit., al quale la sentenza in esame aderisce. Tuttavia, provando ad andare oltre il quadro sistematico normativo e la sua inequivocabile interpretazione letterale e preso atto di un orientamento giurisprudenziale maggioritario nell’applicazione di tale quadro normativo anche alla tutela degli interessi cd. sensibili, si potrebbe concludere sostenendo che, se il silenzio assenso orizzontale è la “cura” e l’inerzia della Pubblica Amministrazione e il dirigismo burocratico sono la “malattia” del sistema, bisognerebbe approfondire se, in materia di tutela del patrimonio culturale-paesaggistico, la cura individuata in sede politica-legislativa non sia peggiore della malattia[42].
[1] Per un inquadramento generale della materia, si rinvia al Codice dei beni culturali e del paesaggio, (a cura di) M.A. Sandulli, Milano, 2019, 1161 ss.; P. Marzaro, La “cura” ovvero “l’Amministrazione del paesaggio”: livelli, poteri e rapporti tra Enti nella riforma del 2008 del Codice Urbani (dalla concorrenza dei poteri alla paralisi dei poteri?), in Riv. Giur. Urb., 2008, 4, 416 ss.; G. Mastronardo, Valore del paesaggio, in A. Angiuli, V. Caputi Jambrenghi (a cura di), Commentario al codice dei beni culturali e del paesaggio, 2005, 344 ss..
[2] Si rinvia a Cons. Stato, Sez. V, 21 gennaio 2022, n. 255, in www.giustizia-amministrativa.it.
[3] Sul tema, v. S. Caggegi, Funzione del parere di compatibilità paesaggistica e sindacabilità degli atti finalizzati alla tutela ambientale. Nota a Consiglio di Stato, sez. IV, 21 marzo 2023, n. 2836, in www.giustiziainsieme.it; G. Delle Cave, «In interpretatione non fit claritas»: sulla duplice (anzi triplice) esegesi pretoria in materia di silenzio assenso ex art. 17 bis l. n. 241/1990 e parere paesaggistico soprintendizio, ivi; Id., Autorizzazione paesaggistica e silenzio assenso tra P.A.: un connubio (im)possibile? competenze procedimentali e portata applicativa dell’art. 17 bis l. n. 241/1990; ivi; S. Speranza, Silenzio assenso tra P.A. e autorizzazione paesaggistica. Le prospettive del Consiglio di Stato (nota a Consiglio di Stato, Sezione Sesta, n. 4098 del 24 maggio 2022); ivi; F. D’Angelo, Note in tema di «concerto», «parere vincolante» e «cogestione» di funzioni amministrative, ivi.
[4] Ai sensi dell’art. 47, d.lgs. n. 85/2005, Trasmissione dei documenti tra le pubbliche amministrazioni.
[5] In questi termini, L. De Lucia, La conferenza di servizi nel d.lgs. 30 giugno 2016 n. 127, cin Riv. Giur. Urb., 201621. Contra, S. Battini, La trasformazione della conferenza di servizi e il sogno di Chuange-Tzu, in S. Battini (a cura di), La nuova conferenza di servizi, Roma, 2016, rileva che “la conferenza semplificata risponde allo scopo di distinguere, secondo il principio di adeguatezza, tipi di conferenze diversi per categorie di decisioni differenti. Per le decisioni più semplici, la conferenza con riunione può rappresentare perfino una soluzione di complicazione, mentre può risultare utile come strumento che della conferenza di servizi tradizionale presenta alcuni tratti, come le istruttorie parallele e il dialogo telematico, ma non la riunione contestuale”.
[6] Il criterio strettamente quantitativo è stato sostenuto da P. Marzaro, Il coordinamento orizzontale tra amministrazioni, in Riv. Giur. Urb.., 2016, 25. Contra, L. De Lucia, La conferenza di servizi nel d.lgs. 30 giugno 2016, n. 127, cit., 21, il quale considera tale distinzione fondarsi “su un labilissimo dato testuale”. Si veda, altresì, il parere del Cons. Stato, Comm. Spec., n. 890/2016, con il quale s’invita il governo a chiarire il rapporto tra la conferenza di servizi e l’art. 17 bis, cit., “il quale risulta a propria volta finalizzato ad acquisire secondo una particolare modalità ulteriormente semplificata per silentium i medesimi atti di assenso”.
[7] In questi termini, L. De Lucia, La conferenza di servizi, cit., 22. Cfr., altresì, P. Marzaro, Silenzio assenso tra amministrazioni, in www.federalismi.it, 28, in cui si afferma che “il coordinamento orizzontale tra amministrazioni si muoverà, dunque, lungo una linea che va dalla decisione pluristrutturata più semplice a quella più complessa; dall’art. 17 bis, quando il provvedimento richiede l’acquisizione di un solo atto di consenso, e dunque vi sia una sola amministrazione co-decidente, all’art. 14, quando sia coinvolta una pluralità di amministrazioni, accanto a quella procedente”. S. Battini, La trasformazione della conferenza di servizi, cit., 21, osserva che “la disciplina della conferenza semplificata assorbe e persino sopravanza quella del silenzio assenso fra amministrazioni, introdotto dall’art. 3 della stessa l. n. 124/2015: i due istituti sono sovrapponibili e si coordinano nel senso che l’uno si applica in casi di decisione pluristrutturata con due amministrazioni, l’altro nei casi di decisioni pluristrutturate complesse, che coinvolgono un numero più elevato di amministrazioni”.
[8] Sulla necessità di considerare anche le intese tra gli atti di assenso comunque denominati e acquisibili sia con la conferenza di servizi, sia con il silenzio assenso, v. F. Scalia, Prospettive e profili problematici della nuova conferenza di servizi, cit., 634, il quale osserva che “non si vedono difficoltà nel comprendere anche le intese tra gli assensi comunque denominati acquisibili con entrambi gli strumenti. Se il silenzio amministrativo è, al pari della conferenza di servizi, uno strumento di coordinamento orizzontale tra amministrazioni codecidenti, esso deve poter operare anche nei rapporti tra Stato e regione e anche quando la norma imponga l’acquisizione dell’intesa di quest’ultima. Ciò salvo che la norma stessa preveda l’unanimità dei consensi (è il caso, ad esempio, dell’accordo di programma disciplinato dall’art. 34 d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267), ipotesi in cui l’intesa non è acquisibile tacitamente neanche in sede di conferenza di servizi”.
Contra, L. De Lucia, La conferenza di servizi, cit., 21, il quale rileva che per evidenti ragioni costituzionali, l’art. 17 bis non menzioni le intese. Ancora, F. Scalia, Prospettive e profili problematici della nuova conferenza di servizi, Riv. Giur. Edil., 2016, 6, II, 634, rileva che “non paiono condivisibili i rilievi di una possibile illegittimità costituzionale della norma per la sua applicabilità anche a materie di competenza regionale. Invero, a tacer del fatto che tale profilo non è stato colto dalle stesse Regioni, che non hanno impugnato la norma dinanzi alla Corte costituzionale, la legittimità dell’estensione del suo ambito di applicazione alle Regioni ed enti locali è garantita dall’art. 117, c. 2, lett. m), Cost., che attribuisce alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni. L’art. 29, c. 2 ter, della l. n. 241/1990 riferisce ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all’art. 117, c. 2, lett. m) Cost. le disposizioni della legge concernenti la dichiarazione di inizio attività e il silenzio assenso. Il generico richiamo al silenzio assenso non è da ritenersi riferito al solo istituto operante su istanza del privato e disciplinato dall’art. 20 della legge, quanto anche al nuovo istituto operante tra amministrazioni, e ciò sia per il dato letterale (la norma non distingue le due ipotesi oggi disciplinate, sia per il profilo logico-sistematico, essendo entrambi gli istituti informati ai medesimi obiettivi di semplificazione ed accelerazione”.
Di avviso diverso, E. Scotti, Il silenzio assenso tra amministrazioni, in Alb. Romano, a cura di, L’azione amministrativa, Torino, 2017, 570, la quale rileva “nell’estensione dell’applicazione del nuovo istituto alle amministrazioni regionali e locali un profilo di illegittimità costituzionale, in quanto si determinerebbe così una disciplina generale delle decisioni complesse che supera lo stesso autolimite posto dall’art. 29, c. 1, all’ambito della disciplina della l. n. 241/1990 e che vorrebbe applicarsi universalmente, a prescindere dall’amministrazione coinvolta e a prescindere dalla materia (e dunque, dalla competenza legislativa, statale o regionale coinvolta)”. P. Marzaro, Silenzio assenso tra amministrazioni, cit., 13, individua il fondamento costituzionale dell’art. 17 bis non tanto nell’art. 117, c. 2, lett. m) Cost., tramite l’art. 29, c. 2 ter, ma piuttosto “direttamente nella giurisprudenza costituzionale in materia di semplificazione, da cui si possono trarre innumerevoli segni circa l’applicabilità dei regimi di semplificazione alla generalità delle amministrazioni pubbliche in quanto attinenti ai livelli essenziali delle prestazioni di cui alla lett. m) dell’art. 117, c. 2, Cost.”.
[9] Ai sensi dell’art. 14 bis, c. 3, cit., “entro il termine di cui al c. 2, lett. c), le amministrazioni coinvolte rendono le proprie determinazioni, relative alla decisione oggetto della conferenza. Tali determinazioni, congruamente motivate, sono formulate in termini di assenso o dissenso e indicano, ove possibile, le modifiche eventualmente necessarie ai fini dell’assenso. Le prescrizioni o condizioni eventualmente indicate ai fini dell’assenso o del superamento del dissenso sono espresse in modo chiaro e analitico e specificano se sono relative a un vincolo derivante da una disposizione normativa o da un atto amministrativo generale ovvero discrezionalmente apposte per la migliore tutela dell’interesse pubblico”.
Cfr. TAR Sardegna, Sez. II, 22 gennaio 2019, n. 38, in Foro amm., 2019, 1, 186, in cui si afferma che “l’espressione — attraverso la relazione dell’’autorità (regionale o, in subdelega, comunale) chiamata ex art. 146, c. 5, d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 alla cogestione della tutela paesaggistica delle aree soggetta a tutela — di un motivato parere negativo, in ordine alla possibilità del rilascio dell’autorizzazione paesaggistica, implica l’impossibilità di qualificare come silenzio assenso la mancata partecipazione del Ministero alla conferenza di servizi convocata per definire la domanda autorizzatoria”.
[10] In questi termini, v. G. Sciullo, Legge Madia e amministrazione del patrimonio culturale: una prima lettura, in Aedon, 2015, 3, che richiama G. Falcon, Lezioni di diritto amministrativo, Padova, 2013, 112.
[11] Sul punto, F. Merusi, Metamorfosi dell’intervento pubblico nell’economia. Dall’autorizzazione alla riserva di provvedimento inibitorio, in Dir. amm., 2015, 579 ss., afferma che “il silenzio assenso s’ispira a una logica di semplificazione della macchina amministrativa, ma la sua applicazione, secondo gli intenti del legislatore, serve a muover l’economia”.
[12] Sul tema, si è espresso subito, in modo critico, sull’art. 17 bis, cit., F. de Leonardis, Il silenzio assenso in materia ambientale, in www.federalismi.it, 2015, sostenendo che sarebbe in atto “una vera e propria fuga in avanti in quella che si potrebbe definire la guerra di logoramento degli interessi sensibili che vengono sempre parificati a quelli ordinari”.
Contra, G. Vesperini, Le norme generali sulla semplificazione, in La riforma della pubblica amministrazione, in Gior. dir. amm., 2015, 5, 629 ss., definisce la semplificazione come uno dei princìpi chiave della Riforma Madia e ‘la riduzione del regime speciale riservato ai cd. interessi sensibili’ momento fondamentale attraverso il quale si realizza tale principio.
Sulle difficoltà di contemperamento tra la disciplina del silenzio assenso previsto dall’art. 17 bis e quello previsto dall’art. 20, l. n. 241/1990, si vedano anche le osservazioni di F. de Leonardis, Il silenzio-assenso in materia ambientale, cit., 4 ss.; P. Marzaro, Certezze e incertezze, in www.giustamm.it, 7 ss. e F. Scalia, Il silenzio assenso, cit., 15.
Il problema delle incongruenze nell’individuazione degli interessi sottoposti a una disciplina differenziata, rispettivamente, nell’art. 17 bis e nell’art. 20 cit. è evidenziato da M.A. Sandulli, Gli effetti diretti, della l. 7 agosto 2015, n. 124 sulle attività economiche, in www.federalismi.it, 2015, 5.
Allo stesso tempo, F. Scalia, Il silenzio assenso, cit., osserva che “la norma non introduce nulla di nuovo quanto al profilo dell’intensità della tutela degli interessi sensibili e anzi, letta insieme alla norma di delega legislativa in materia di silenzio assenso, contenuta nella stessa l. n. 124/2015, art. 5, può rappresentare l’occasione per ricondurre in ambito di coerenza costituzionale la normativa già vigente in tema di silenzio in materia ambientale”. L’art. 5, l. n. 124/2015, ha delegato il Governo ad adottare, entro dodici mesi “uno o più decreti legislativi per la precisa individuazione dei procedimenti oggetto di segnalazione certificata di inizio attività o di silenzio assenso, ai sensi degli artt. 19 e 20 della l. n. 241/1990”. L’A., inoltre, sottolinea che “l’esame della disciplina della conferenza di servizi consente di affermare che almeno dal 2010 il meccanismo del silenzio assenso opera nel nostro ordinamento come strumento di acquisizione di atti di assenso anche nelle materie sensibili. Il d.l. n. 78/2010, conv. in l. n. 122/2010, è intervenuto sugli artt. 14 ter e 14 quater della l. n. 241/1990, recanti rispettivamente la disciplina dei lavori della conferenza di servizi e gli effetti dei dissensi espressi in seno alla stessa. All’esito di tale intervento l’art. 14 ter prevede che ‘si considera acquisito l’assenso dell’amministrazione, ivi comprese quelle preposte alla tutela della salute e della pubblica incolumità, alla tutela paesaggistico-territoriale e alla tutela ambientale, esclusi i provvedimenti in materia di VIA, VAS e AIA, il cui rappresentante, all’esito dei lavori della conferenza, non abbia espresso definitivamente la volontà dell’amministrazione rappresentata’. Tale innovazione, quindi, estende l’ipotesi di silenzio assenso, prevista dal testo originario del c. 7, alle amministrazioni portatrici di interessi sensibili, le quali potranno esprime il loro dissenso solo in conferenza, pena altrimenti il considerarsi acquisito il relativo atto di assenso”.
Un rimedio analogo è previsto anche da altre norme di settore. Ad esempio nei procedimenti affidati allo Sportello unico attività produttive si prescinde dall’applicazione del silenzio assenso disponendo che “in caso di mancato ricorso per le altre amministrazioni per pronunciarsi sulle questioni di loro competenza, l’amministrazione procedente conclude in ogni caso il procedimento prescindendo dal loro avviso; in tal caso, salvo il caso di omessa richiesta dell’avviso, il responsabile del procedimento non può essere chiamato a rispondere degli eventuali danni derivanti dalla mancata emissione degli avvisi medesimi”. Art. 38, c. 3, lett. h), d.l. n. 112/2008 conv. in l. n. 133/2008, art. 1, c. 1, a cui fa riferimento l’art. 7, c. 3, d.p.r. n. 160/2010.
[13] M. Bombardelli, Il silenzio assenso tra amministrazioni, in Urb. e app., 2016, 765, rileva che “le disposizioni sul silenzio assenso tra amministrazioni non vanno direttamente a modificare la disciplina d’istituti già esistenti. Tuttavia, esse alimentano l’instabilità del quadro normativo perché calano in un contesto già fortemente strutturato - quello appunto degli strumenti di semplificazione di cui al Capo IV, l. n. 241/1990 - delle opzioni interpretative non pienamente coerenti, che creano incertezza per le amministrazioni chiamate ad applicarle e per alcuni aspetti introducono anche dei vincoli contrastanti con la disciplina di altri strumenti di semplificazione”.
Il problema della collocazione dell’art. 17 bis, cit., in un sistema normativo complesso è stato affrontato da P. Marzaro, Coordinamento tra Amministrazioni, cit., 6 ss., con riferimento alle difficoltà di coordinamento tra le previsioni in materia di silenzio assenso di cui all’art. 17 bis, cit., e le regole settoriali come quelle previste nel Testo Unico dell’edilizia, nella disciplina dello Sportello unico per le attività produttive o nel rilascio dell’autorizzazione paesaggistica di cui art. 146, d.lgs. n. 42/2004.
[14] C. Vitale, Il silenzio assenso tra pubbliche amministrazioni: il parere del Consiglio di Stato, in Gior. dir. amm., 2017, 1, 95.
[15] Sul tema, v. M.A. Sandulli, Gli effetti della 7 agosto 2015, n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio assenso e autotutela, cit..
[16] Cfr. TAR Campania, Napoli, Sez. VI, 7 giugno 2019, n. 3099, in www.giustizia-amministrativa.it, in cui si afferma che “a seguito dell’introduzione della disciplina contenuta nell’art. 17 bis, cit. , viene in rilievo un’ipotesi di silenzio assenso orizzontale tra amministrazioni, connesso al decorso dello speciale termine di novanta giorni, da ritenersi applicabile alla fattispecie in quanto riferita (anche) alle autorizzazioni paesaggistiche - procedimento caratterizzato da una fase decisoria pluristrutturata, subordinata ad acquisire un parere vincolante”.
[17] Il buon andamento è un principio costituzionale “cardine della vita amministrativa e quindi condizione dello svolgimento ordinato della vita sociale” (Corte. cost. 9 dicembre 1968, n. 123, in www.giurcost.org), consacrato dall’art. 97, c. 2, Cost., che “coincide con l’esigenza dell’ottimale funzionamento della pubblica amministrazione, tanto sul piano dell’organizzazione quanto su quello della sua attività” (V. Cerulli Irelli, Lineamenti di diritto amministrativo, Torino, 2023, 163). Il buon andamento si traduce nell’esigenza di un’amministrazione che sia efficace, efficiente ed economica, criteri enunciati dall’art. 1, l. n. 241/1990, e che costituiscono parametri giuridici dell’attività e dell’organizzazione amministrativa (E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, 2023, 56 s.; G. Corso, Manuale di diritto amministrativo, Torino, 2020, 158; M.R. Spasiano, I princìpi di pubblicità, trasparenza e imparzialità, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2019, 117 ss.). L’efficacia esprime il rapporto tra obiettivi programmati e obiettivi/risultati raggiunti; l’efficienza indica il rapporto tra risultati/obiettivi raggiunti e risorse impiegate per raggiungerli; infine, l’economicità implica l’ottimale impiego di risorse (di persone e mezzi) da acquisire per il perseguimento dell’interesse pubblico.
Per una disamina sul tema, cfr. A. Andreani, Il principio costituzionale di buon andamento della pubblica amministrazione, Padova, 1979; A. Police, Principi generali dell’azione amministrativa, in M.R. Spasiano, D. Corletto, M. Gola, D.U. Galetta, A. Police, C. Cacciavillani (a cura di), La pubblica amministrazione e il suo diritto, Milano, 2012, 73 ss.; R. Caridà, Princìpi costituzionali e pubblica amministrazione, 2014, in www.giurcost.org; M.R. Spasiano, Il principio di buon andamento, in M.A. Sandulli (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 2023, 47.
[18] Ad una prima lettura dell’art. 17 bis, cit., si è percepito che il nuovo silenzio assenso fosse un istituto per superare il costante veto delle Sovrintendenze.
Sul tema annoso, cfr. P. Marzaro, Autorizzazioni paesaggistiche: sta per tramontare il veto della sovrintendenza, in Edilizia e territorio, 2009, 10 ss.; Id., L’amministrazione del paesaggio. Profili critici ricostruttivi di un sistema complesso, Torino, 2009, passim.
[19] Sul punto, v. Corte cost. 9 maggio 2014, n. 121, in Giur. cost., 2014, 2118.
[20] Sul diritto alla buona amministrazione e le sue declinazioni, v. C. Celone, Il diritto alla buona amministrazione tra ordinamento europeo e italiano, in Il diritto dell’economia, 2016, 3, 669 ss., e dottrina e giurisprudenza ivi citata; A. Police, Princìpi e azione amministrativa, in F.G. Scoca (a cura di), Diritto amministrativo, Torino, 2022, 214; F. Manganaro, Trasparenza e obblighi di pubblicazione, in Nuove Autonomie, 2014, 3, 561; F. Merloni, La trasparenza come strumento di lotta alla corruzione tra legge n. 190 del 2012 e d.lgs. n. 33 del 2013, in B. Ponti (a cura di), La trasparenza amministrativa dopo il d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, Rimini, 2013, 17-18; M. Immordino, Strumenti di contrasto alla corruzione nella pubblica amministrazione tra ordinamento italiano e brasiliano. Relazione introduttiva, in Nuove Autonomie, 2014, 3, 395 ss.; A. Contieri, Trasparenza e accesso civico, ivi, 569, 576; A. Zito, Il ‘diritto ad una buona amministrazione’ nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e nell’ordinamento interno, in Riv. it. dir. pubbl. comun., 2002, 431.
Cfr., inoltre, M.R. Spasiano, Riflessioni in tema di trasparenza anche alla luce del diritto di accesso civico, in Nuove Autonomie, 2015, 1, 65 ss., il quale osserva come la trasparenza amministrativa imponga scelte precise a livello organizzativo e funzionale, ma ancora prima a carattere culturale, che presuppongono, tra l’altro, la loro comprensibilità, la predisposizione di forme di partecipazione a monte delle stesse, la chiarezza, la qualità e la semplicità dell’informazione, la certezza dei tempi, l’effettivo esercizio delle funzioni amministrative con l’abbandono delle diverse forme di silenzio (73-74). La valorizzazione del modello partecipativo differenzia, tra l’altro, secondo l’A., l’accezione di trasparenza che emerge dall’art. 1 del d.lgs. n. 33/2013, prima citato, da quella che si ricava dall’art. 11 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), poiché la norma europea prospetta un principio fondato più sulla partecipazione che sull’accessibilità, in quanto imperniato sul dialogo e sulla consultazione preventiva, da parte degli organi dell’Unione, delle associazioni rappresentative e della società civile (64). L’esigenza di sviluppare la dimensione partecipativa della trasparenza viene tuttavia avvertita anche dal legislatore italiano, che, nel 2016, con la modifica all’art. 1, c. 1, del predetto decreto, ha voluto precisare come la trasparenza serva anche a promuovere la partecipazione dei soggetti interessati all’attività amministrativa.
Il principio di imparzialità è uno dei princìpi che presiedono l’attività amministrativa, art. 1, cit.. Il principio in parola trova fondamento costituzionale nell’art. 97, c. 2, Cost. ed è richiamato dall’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali UE e consiste nel divieto, rivolto alle amministrazioni di operare discriminazioni e favoritismi durante l’esercizio della loro attività. Il principio d’imparzialità è, pertanto, posto a garanzia della parità di trattamento e dell’eguaglianza dei cittadini di fronte all’amministrazione, in ossequio al generale principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 Cost..
Per un approfondimento, per tutti si rinvia a M.R. Spasiano, Princìpi generali dell’attività amministrativa, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, cit., 117 ss., e dottrina e giurisprudenza ivi indicata.
[21] M.A. Sandulli, Conclusioni di un dibattito sul principio della certezza delle regole, in F. Francario, M.A. Sandulli (a cura di), Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, Napoli, 2018, 305, osserva che “l’incertezza del diritto amministrativo e, a maggior ragione, nel diritto processuale amministrativo, è sempre molto grave perché lede il diritto alla buona amministrazione”.
[22] L’art. 146, d.lgs. n. 146/2004 dispone che sull’istanza di autorizzazione paesaggistica è competente la regione, dopo aver acquisito, su una proposta di provvedimento, il parere vincolante del soprintendente ai sensi del c. 5. Quest’ultimo deve pronunciarsi sulla compatibilità paesaggistica dell’intervento progettato entro 45 giorni, c. 8. Il c. 9 dell’art. 146, così come modificato dall’art. 25, d.l. n. 133/2014, cd. Sblocca Italia, dispone che “in ogni caso, decorsi sessanta giorni dalla ricezione degli atti da parte del soprintendente, l’amministrazione competente provvede sulla domanda di autorizzazione”. Non si tratta di ipotesi di silenzio assenso, ma di silenzio devolutivo, in quanto la norma riconduce al decorso del termine, non il formarsi di un assenso tacito, ma l’onere per l’amministrazione procedente di provvedere pur senza il parere vincolante che il soprintendente non ha reso nei termini. Si pone così un problema di compatibilità tra questa disposizione, l’art. 16 e l’art. 17 bis, cit. Quello previsto dall’art. 146 è da considerarsi un parere vincolante e come tale escluso dall’applicazione dell’art. 16 e da ricomprendere, invece, tra gli assensi comunque denominati di cui all’art. 17 bis, cit..
Sul tema, V. Parisio, L’attività consultiva, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, cit., 708, osserva che “ricomprendere i pareri vincolanti nella sfera di operatività dell’art. 16 condurrebbe ad un’insanabile contraddizione logica, in quanto un parere definito dalla legge come vincolante finirebbe di fatto con perdere tale sua qualificazione se si riconoscesse all’amministrazione attiva la possibilità di prescinderne”. Inoltre, v. M.S. Giannini, Diritti amministrativo, II, Milano, 1988, 565, in cui si afferma che “i pareri vincolanti non sono pareri, ma atti di decisione”.
Critico sull’applicazione del silenzio assenso in materia di beni culturali, P. Carpentieri, Beni culturali. Semplificazione e tutela del patrimonio culturale, in Libro dell’anno del diritto, Roma, 2012, il quale afferma che “il silenzio assenso postula la dispensabilità del controllo e la disponibilità dei beni interessi coinvolti, mentre la tutela è lo spazio dell’indispensabilità e della indisponibilità. La Corte costituzionale ha ripetutamente affermato che per il profilo paesaggistico opera il principio fondamentale risultante da una serie di norme in materia ambientale, della necessità della pronuncia esplicita, mentre il silenzio dell’amministrazione preposta al vincolo ambientale non può avere valore di assenso”.
[23] Sul d.lgs. n. 42/2004, cd. Codice dei beni culturali e del paesaggio, con particolare riferimento all’art. 146, v. M.R. Spasiano, Commento all’art. 146, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dei beni culturali e del paesaggio, Milano, 2019, 1321, il quale condivisibilmente osserva che “l’ambito di applicazione e i notevoli benefici in termini di celerità e semplificazione della procedura sono senza dubbio da salutare positivamente, nella misura in cui rappresentano l’esito di un corretto bilanciamento tra i diversi interessi pubblici e privati coinvolti, in una prospettiva di razionalizzazione della disciplina paesaggistica, lontana da approcci assolutizzanti”.
Cfr., inoltre, sulla semplificazione in tema di patrimonio culturale, M. Sinisi, L’autorizzazione paesaggistica tra liberalizzazione e semplificazione (D.P.R. 13 febbraio 2017, n. 31): la ‘questione aperta’ del rapporto tra semplificazione amministrativa e tutela del paesaggio, in Riv. giur. edil., 2017, 4, 235 ss.; S. Amorosino, Il nuovo regolamento di liberalizzazione e di semplificazione delle autorizzazioni paesaggistiche (d.P.R. n. 31 del 2017), in Riv. giur. urb., 2017, 174 ss.; P. Marzaro, Autorizzazione paesaggistica semplificata e procedimenti connessi, ivi, 2017, 220 ss.; G. Mari, La rilevanza della disciplina del silenzio assenso tra amministrazioni pubbliche nei procedimenti relativi a titoli abilitativi edilizi: il ruolo dello sportello unico dell’edilizia: considerazioni a margine di una recente Circolare del MIBACT, in Riv. giur. edil. 2016, 61 ss.; E. Zampetti, La disciplina dell’autorizzazione paesaggistica tra esigenze di semplificazione e garanzie costituzionali, in Nuove autonomie, 2014, 316.
In giurisprudenza, sull’applicazione del silenzio assenso all’art. 146, d.lgs. n. 42/2004, v. TAR Sardegna, Sez. II, 8 giugno 2017, n. 394, in Rivi. giur. edil., 2017, 3, 759, nota di A. Del Prete, Il silenzio assenso tra pubbliche amministrazioni: profili critici e problematici, ivi, 2018, 3, I, 705.
Il TAR Sardegna afferma che “dal momento che il nuovo silenzio assenso tra amministrazioni pubbliche di cui all’art. 17 bis, l. n. 241/1990, si applica anche ai casi in cui è prevista l’acquisizione di assensi concreti o nulla osta comunque denominati di amministrazioni preposte alla tutela ambientale paesaggistico-territoriale, dei beni culturali e della salute dei cittadini per l’adozione di provvedimenti normativi e amministrativi di competenza di amministrazioni pubbliche il pare vincolante riservato alla soprintendenza dal c. 5 dell’art. 146, d.lgs. n. 42 del 2004, s’intende formato per silentium, decorso il termine di 90 giorni dalla ricezione della relazione tecnica istruttoria predisposta dalla regione contenente una proposta di provvedimento”.
In termini simili, cfr. TAR Abruzzo, 10 maggio 2018, n. 153, in www.giustizia-amministrativa.it.
[24] Sul punto, v. Corte cost., 27 giugno 2012, n. 164, in Giur. cost., 2012, 2233, in cui si afferma che “l’art. 117, c. 2, lett. m), Cost., permette una restrizione dell’autonomia legislativa delle Regioni, giustificata dallo scopo di assicurare un livello uniforme di godimento dei diritti civili e sociali tutelati dalla stessa Costituzione (…). Inoltre, l’attività amministrativa può assurgere alla qualifica di ‘prestazione’ della quale lo Stato è competente a fissare un livello essenziale a fronte di uno specifico diritto di individui, imprese, operatori economici e, in genere, soggetti privati”.
[25] Sul punto, v. Corte cost. 20 luglio 2012, n. 203, in Giur. cost., 2012, 2966; Id., 24 luglio 2012, n. 207, ivi, 2012, 3017.
[26] La Commissione speciale citata osserva “il termine di 30 giorni per rendere o ricevere l’assenso da parte delle autorità amministrative indipendenti ed il silenzio assenso non trovano applicazione esclusivamente quando una norma speciale preveda un diverso meccanismo di coordinamento o una disciplina incompatibile con il silenzio significativo, in base al principio di specialità”. Il riferimento è, ad esempio, all’art. 5, c. 5 bis, d.lgs. n. 58/1998, che esclude l’applicazione del silenzio assenso nei rapporti tra la Banca d’Italia e la Consob.
[27] La Commissione speciale del Consiglio di Stato si è spinta oltre includendo nell’ambito soggettivo di applicazione dell’art. 17 bis, cit., anche le società in house quando siano titolari di procedimenti amministrativi, data “l’assenza di un rapporto di alterità soggettiva con l’ente pubblico di riferimento”.
[28] V. Parisio, Interessi ‘forti’ e interessi ‘deboli’: la natura degli interessi come limite alla semplificazione del procedimento amministrativo nella legge 7 agosto 1990 n. 241, in Dir. e proc. amm., 2014, 4, 839. Di semplificazioni ‘prudenti’ parla M. Renna, Le semplificazioni amministrative (nel decreto legislativo n. 152 del 2006), in Riv. giur. amb., 2009, 5, 649.
[29] M.A. Sandulli, Gli effetti della 7 agosto 2015 l. n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a., silenzio assenso e autotutela, cit., afferma che “nonostante la carenza fosse stata espressamente rimarcata in sede di audizione, la medesima deroga temporale non è prevista per gli assensi delle amministrazioni preposte alla difesa e alla tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza. Dal momento che si tratta d’interessi sicuramente non meno rilevanti di quelli considerati dal c. 3, è da ritenere che l’omissione non sia voluta ed è auspicabile che la disposizione sia sollecitamente integrata”.
[30] A sostegno della conclusione per cui le disposizioni di cui agli artt. 14 bis e 17 bis sono animate da un’analoga ragione giustificatrice, merita di essere richiamata la decisione della Corte cost. n. 246/2018 nella quale è stato chiarito che l’art. 17 bis, sebbene collocato al di fuori degli articoli espressamente dedicati alla conferenza di servizi (artt. 14-14-quinquies), trova applicazione anche nel caso in cui occorra convocare la conferenza di servizi in quanto «il silenzio assenso di cui all’art. 17 bis opera sempre (anche nel caso in cui siano previsti assensi di più amministrazioni) e, se si forma, previene la necessità di convocare la conferenza di servizi.
[31] Per un inquadramento generale del tema, cfr. R. Leonardi, La tutela dell’interesse ambientale tra procedimenti, dissensi e silenzi, Torino, 2020; M.A. Sandulli, Gli effetti diretti della l. 7 agosto 2015 n. 124 sulle attività economiche: le novità in tema di s.c.i.a. silenzio assenso e autotutela, in federalismi.it, 2015, 17 ss.; P. Marzaro, Silenzio assenso tra Amministrazioni: dimensioni e contenuti di una nuova figura di coordinamento orizzontale all'interno della nuova amministrazione disegnato dal Consiglio di Stato, in federalismi.it, 2016; Id., Il coordinamento orizzontale tra amministrazioni: l'art. 17 bis della l. n. 241 del 1990 dopo l'intervento del Consiglio di Stato. Rilevanza dell'istituto nella gestione dell'interesse paesaggistico e rapporti con la conferenza di servizi, in Riv. giur. urb., 2016, 2, 10 ss.; G. Mari, Autorizzazioni preliminari e titoli abilitativi edilizi: il ruolo dello sportello unico dell'edilizi, la conferenza di servizi e il silenzio assenso id cui agli artt. 17-bis e 20 l. n. 241/1990, in Aa.Vv., Semplificazione e trasparenza amministrativa: esperienze italiane ed europee a confronto, atti dei convegni Strategie di contrasto alla corruzione: l. 06/11/2012 n. 190 e s.m.i. e Titoli abilitativi edilizi, Sblocca Italia e Decreti del Fare, Napoli, 2016, 39 ss.; A. Police, Il dovere di concludere il procedimento e il silenzio inadempimento, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell'azione amministrativa, Milano, cit.
[32] Si veda per questo profilo, Consiglio di Stato, Sez. VI, 23 settembre 2022, n. 8167 – secondo cui “Negli ordinamenti democratici e pluralisti si richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi. Così come per i “diritti” (sentenza della Corte cost. n. 85 del 2013), anche per gli “interessi” di rango costituzionale (vieppiù quando assegnati alla cura di corpi amministrativi diversi) va ribadito che a nessuno di essi la Costituzione garantisce una prevalenza assoluta sugli altri. La loro tutela deve essere “sistemica” e perseguita in un rapporto di integrazione reciproca. La primarietà di valori come la tutela del patrimonio culturale o dell’ambiente implica che gli stessi non possano essere interamente sacrificati al cospetto di altri interessi (ancorché costituzionalmente tutelati) e che di essi si tenga necessariamente conto nei complessi processi decisionali pubblici, ma non ne legittima una concezione “totalizzante” come fossero posti alla sommità di un ordine gerarchico assoluto. Il punto di equilibrio, necessariamente mobile e dinamico, deve essere ricercato - dal legislatore nella statuizione delle norme, dall’Amministrazione in sede procedimentale, e dal giudice in sede di controllo - secondo principi di proporzionalità e di ragionevolezza”.
[33] Consiglio di Stato, Sez. I, 28 giugno 2021, n. 1114, in www.giustizia-amministrativa.it, secondo cui qualora “sia trascorso inutilmente il termine, l'organo statale non è privato del potere di esprimersi, ma il parere in tal modo dato perde il proprio carattere di vincolatività. In ordine all’efficacia eventualmente da riconoscere a un parere negativo da parte della Soprintendenza, reso successivamente al decorso del termine di quarantacinque giorni, si possono infatti dare tre possibili esiti: a) la consumazione del potere per l'organo statale di rendere un qualunque parere (di carattere vincolante o meno)…; b) la permanenza in capo alla Soprintendenza del potere di emanare un parere di carattere comunque vincolante (dovendosi in particolare riconoscere carattere meramente ordinatorio al richiamato termine); c) la possibilità per l'organo statale di rendere comunque un parere in ordine alla compatibilità paesaggistica dell'intervento, privo di effetti vincolanti ma autonomamente valutabile dall'amministrazione titolare dell'adozione dell'atto autorizzatorio finale” (nello stesso senso Id., parere 25 gennaio 2021, n. 103”
[34] Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 27 luglio 2020, n. 4765; Id., 29 marzo 2021, n. 2640; Id., 7 aprile 2022, n. 2584, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[35] Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 29 marzo 2021, n. 2640, cit..
[36] A. Berlucchi, Il parere tardivo espresso dalla soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici ex art. 146 d.lgs. n. 42/2004: spunti di riflessione, in Riv. giur. ed., 2017, 1, 130 ss.
[37] La soluzione preferita dal Collegio trova conferma anche in ulteriori precedenti del Consiglio di Stato: Cons. Stato, Sez. V, 14 gennaio 2022, n. 255; Id., Sez. IV, 14 luglio 2020, n. 4559; Id., Sez. VI, 1° ottobre 2019, n. 6556, tutte in www.giusitizia-amministrativa.it.
[38] A sostegno di questa conclusione, il Collegio ricorda che una consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato che aveva già in passato chiarito la natura co-decisoria del parere vincolante. V. Cons. Stato, Sez. VI, 21 novembre 2016, n. 4843; 15 maggio 2017, n. 2262, 17 marzo 2020, n. 1903; 16 giugno 2020, n. 3885; 5 ottobre 2020, n. 5831; 18 marzo 2021, n. 2358; 27 maggio 2021, n. 4096; Sez. IV, 19 aprile 2021, n. 3145, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[39] Cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 19 aprile 2021, n. 3145; Id., sez. VI, 21 novembre 2016, n. 4843; Id., 18 marzo 2021, n. 2358; Id., 19 marzo 2021 n. 2390, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[40] Si legge nella sentenza in esame che “il testo della legge, specie quando formulata, come nel caso in esame, mediante la c.d. tecnica per fattispecie analitica, fornisce la misura della discrezionalità giudiziaria; esso, come è stato autorevolmente osservato, rappresenta il punto fermo da cui occorre muovere nell’attività interpretativa e a cui, (all’esito del combinato ricorso a tutti gli altri canoni di interpretazione) è necessario ritornare. Ne consegue che il testo della legge costituisce, almeno nei casi come quello in esame, un limite insuperabile rispetto ad opzioni interpretative che ne disattendano ogni possibile risultato riconducibile al suo potenziale campo semantico (così come delimitato dalla disposizione), per giungere ad esiti con esso radicalmente incompatibili. Tali considerazioni trovano pedissequo riscontro nella giurisprudenza delle Corti superiori interne e internazionali.
Nella medesima direzione è, in primo luogo, orientata la giurisprudenza costituzionale che ha individuato nell’univoco tenore letterale della norma un limite all’interpretazione costituzionalmente conforme (Cort. cost 26 febbraio 2020, n. 32). A non dissimili conclusioni giunge anche la Corte di giustizia dell’Unione Europea, la quale ha ricordato in proposito che, nell’applicare il diritto nazionale (in particolare le disposizioni di una normativa appositamente adottata al fine di attuare quanto prescritto da una direttiva) il giudice nazionale deve interpretare tale diritto per quanto possibile alla luce del testo e dello scopo della direttiva. Tuttavia l’obbligo per il giudice nazionale di fare riferimento al contenuto di una direttiva nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme pertinenti del suo diritto nazionale trova i suoi limiti nei principi generali del diritto, in particolare in quelli di certezza del diritto e di non retroattività, e non può servire da fondamento ad un’interpretazione contra legem del diritto nazionale (Corte di giustizia, Grande Sezione, 15 aprile 2008,C-268/06,v. sentenze 8 ottobre 1987, causa 80/86, Kolpinghuis Nijmegen, Racc. pag. 3969, punto 13, nonché Adeneler e a., cit., punto 110; v. anche, per analogia, sentenza 16 giugno 2005, causa C-105/03, Pupino, Racc. pag. I-5285, punti 44 e 47). Analoghe e, sotto certi profili ancora più stringenti considerazioni (in quanto relative anche alla interpretazione delle c.d. clausole generali), si rivengono nella più recente giurisprudenza della Corte di Cassazione, nella quale si legge che “anche quando non si trova al cospetto di un enunciato normativo concepito come regola a fattispecie, ma è investito del compito di concretizzare la portata di una clausola generale… il giudice non detta né introduce una nuova previsione normativa. La valutazione in sede interpretativa non può spingersi sino alla elaborazione di una norma nuova con l'assunzione di un ruolo sostitutivo del legislatore. La giurisprudenza non è fonte del diritto. Il giudice comune, nel ruolo – costituzionalmente diverso da quello del legislatore – di organo chiamato non a produrre un quid novi sulla base di una libera scelta o a stabilire una disciplina di carattere generale, ma a individuare e dedurre la regola del caso singolo bisognoso di definizione dai testi normativi e dal sistema. Una pluralità di ragioni giustifica l'indicato approccio metodologico. Il rispetto del pluralismo e dell'equilibrio tra i poteri, profilo centrale della democrazia, perché la ricerca dell'effettività deve seguire precise strade compatibili con il principio di leale collaborazione e con il dialogo istituzionale che la Corte costituzionale ha avviato con il legislatore…. Non c'è spazio, in altri termini, né per una penetrazione diretta - attraverso la ricerca di un bilanciamento diverso da quello già operato dal Giudice delle leggi - di quell'ambito di discrezionalità legislativa che la Corte costituzionale ha inteso far salvo, né per una messa in discussione del punto di equilibrio da essa indicato. La riserva espressa della competenza del legislatore si riferisce, evidentemente, al piano della normazione primaria, al livello cioè delle fonti del diritto: come tale, essa non estromette il giudice comune, nel ruolo - costituzionalmente diverso da quello affidato al legislatore - di organo chiamato, non a produrre un quid novi sulla base di una libera scelta o a stabilire una disciplina di carattere generale, ma a individuare e dedurre la regola del caso singolo bisognoso di definizione dai testi normativi e dal sistema” (cfr. Corte di Cassazione, Sezioni unite civili del 30 dicembre 2022, n. 38162)”.
[41] Il comma 8 bis dell’art. 2 della l. n. 241/1990, introdotto dal d. l. n. 76/2020 (c.d. Decreto Semplificazioni), sancisce, in estrema sintesi, l’inefficacia del provvedimento emanato oltre i termini procedimentali in tutti i casi in cui operi il regime del silenzio assenso, nonché nelle ipotesi di SCIA.
Sul tema, v. M. Calabrò, Il silenzio assenso nella disciplina del permesso di costruire. L’inefficacia della decisione tardiva nel d.l. n. 76/2020 (c.d. decreto semplificazioni), in giustiziainsieme.it, 2020. Anche sulla base di questa disposizione, si è giunti a considerare irrilevante, in quanto privo di effetti nei confronti dell’autorità competente, il parere tardivo della Soprintendenza.
[42] Per riflessioni critiche sul crescente impiego dell’istituto del silenzio assenso, v. M. A. Sandulli, Silenzio assenso e termine per provvedere. Esiste ancora l’inesauribilità del potere amministrativo?, in Il processo, 1/2022, 11 ss. e ivi ulteriori riferimenti.
Sulle criticità in merito all’applicazione dell’art. 17 bis alle materie sensibili, si veda, in particolare, G. Corso, La riorganizzazione della P.A. nella legge Madia: a survay, in www.federalismi.it, 2015; F. Scalia, Il silenzio assenso nelle c.d. materie sensibili alla luce della riforma Madia, in Urb. e app., 2016, 1, 11 ss.; E. Scotti, Silenzio assenso tra amministrazioni, in A. Romano (a cura di), L’azione amministrativa, 2016, Torino, 566 ss.; F. Martines, La “non decisione” sugli interessi pubblici sensibili: il silenzio assenso fra amministrazioni pubbliche introdotto dall'art. 17 bis della l. 241/1990, in Dir. amm., 2018, 3, 747 ss.; F. de Leonardis che (nel citato scritto Il silenzio assenso in materia ambientale: considerazioni critiche sull'art. 17 bis introdotto dalla cd. riforma Madia) osserva come «appare chiaro che norma costituisce una vera e propria fuga in avanti in quella che si potrebbe definire la guerra di logoramento degli interessi sensibili che vengono sempre più parificati a quelli ordinari»; M. Calabrò, Silenzio assenso e dovere di provvedere: le perduranti incertezze di una (apparente) semplificazione, in www.federalismi.it, 2020, 10.
Sommario: 1. «Diritto vivente»: un'introduzione - 2. La «nomofilachia» e la forza del «precedente» - 3. I rapporti nel tempo fra Corte di Cassazione e Corte costituzionale.
1. «Diritto vivente»: un’introduzione
La dottrina del diritto vivente, in disparte la solidità dei riferimenti tecnico-giuridici del concetto, riflette la fluidità e il dinamismo del tessuto delle relazioni e delle tensioni fra Corte costituzionale e Potere giudiziario - in particolare la Corte di cassazione, ma anche il Consiglio di Stato e la Corte dei conti - e nello stesso tempo identifica e monitora la tenuta del modello italiano di giustizia costituzionale [1].
Risulta invero fluida e dinamica la stessa definizione del sintagma «diritto vivente», con riguardo alla identificazione della norma (non della disposizione, secondo la tradizionale lezione crisafulliana [2]), «come essa vive nell’esperienza giurisprudenziale»[3], perciò nell’effettività dell’ordinamento, che costituisce l’oggetto (e il presupposto interpretativo) dello scrutinio di costituzionalità delle leggi in via incidentale.
Con riguardo alla regola procedurale del giudizio di costituzionalità, la Corte qualifica come situazione di fatto, idonea ad attestare l’esistenza di un diritto vivente [4] l’interpretazione giurisprudenziale consolidata della norma, le cui coordinate sono offerte dal tenore univoco, reiterato, costante e conforme dell’orientamento del giudice di legittimità (soprattutto delle sezioni unite della Cassazione laddove compongono conflitti infrasezionali, ma anche di una sezione semplice se esclusivamente competente nella materia), nonché dalla specificità della questione di diritto attinta da quella opzione ermeneutica.
2. La «nomofilachia» e la forza del «precedente»
La dottrina del diritto vivente s’intreccia con il progressivo affermarsi nel tempo, anche nel lessico del legislatore, del ruolo di guida coerenziatrice della Corte suprema di cassazione nella formazione del «precedente» [5], con la conseguente logica conformativa ad esso.
In funzione della tendenziale certezza del diritto, particolarmente avvertita nella materia processuale, e degli elementi qualitativi della prevedibilità e omogeneità delle decisioni e della uguaglianza degli spazi di tutela dei diritti fondamentali della persona, il legislatore moderno (dall’ancora vigente art. 65 ord. giud. di cui al r.d. n. 12/1941 fino alle più recenti riforme del processo civile e penale di cassazione: d.lgs. n. 40/2006; d.l. n. 168/2016, conv. dalla l. n. 197/2016; l. n. 103 del 2017; d.lgs. n. 149 del 2022) riscopre il valore della «uniforme applicazione della legge», enfatizzando, per il perseguimento dell’obiettivo, lo strumento della «nomofilachia».
Le moderne teorie dell’interpretazione hanno messo in risalto la centralità della figura dell’interprete, il suo ruolo integrativo o parzialmente creativo della norma - sempre che non superi la linea di rottura con il dato positivo emergente dalla letteralità del testo («non contro ma oltre la legge» [6]) -, l’assetto multilevel delle fonti, sia legislative che giurisprudenziali, e il conseguente pluralismo delle letture ermeneutiche.
Sicché, a fronte del rischio di liquidità e incalcolabilità del diritto [7], il sistema di giustizia appresta, mediante la sapiente costruzione da parte della Corte di cassazione di una rete di autorevoli precedenti, «una bussola agli operatori del diritto per orientarsi in un contesto ordinamentale tanto fluido» [8].
Si avverte tuttavia che la nomofilachia, nella più larga e moderna accezione, orizzontale e circolare, «non è un valore assoluto ma metodologico» che, nell’inarrestabile evoluzione della giurisprudenza, confluisce dinamicamente nel «dovere funzionale di ragionevole mantenimento della soluzione ragionevolmente conseguita» [9].
Essa si atteggia nella veste di metodo discorsivo, ispirato al principium cooperationis, e si qualifica in termini di procedura di formazione del precedente, il cui vincolo ermeneutico, seppure indiretto e mediato [10], assume un carattere logico-argomentativo in forza delle ragioni che lo giustificano (auctoritas rerum similiter iudicatarum).
Ne discende, come lineare corollario, che i relativi canoni debbano essere assistiti da un rigoroso disciplinamento, anche deontologico, che assicuri il rispetto, insieme con la «legalità penale», anche della «legalità dell’interpretazione» [11].
3. I rapporti nel tempo fra Corte di cassazione e Corte costituzionale
Le relazioni fra le due Corti hanno vissuto fasi di tensioni e conflitti talora anche aspri. Dalla «prima» alla «seconda guerra», meglio: dalla concorrenza fra le due Corti per l’occupazione degli spazi di autonoma lettura interpretativa della norma, passando attraverso vari e progressivi assestamenti delle tecniche di composizione di volta in volta adottate (ad esempio: le sentenze interpretative di rigetto o di accoglimento, la doppia pronuncia e la teoria dell’interpretazione conforme), sembra intravedersi, dopo circa trent’anni, la transizione verso una più matura e virtuosa età del dialogo e della cooperazione, in coerenza sia con gli interventi legislativi che si sono sviluppati nel tempo a favore degli schemi e delle prospettive della nomofilachia, sia con la contestuale e operosa apertura al dialogo con le Corti europee di Strasburgo e Lussemburgo.
Appaiono, infatti, significativamente apprezzabili sia la progressiva valorizzazione da parte delle decisioni della Corte costituzionale degli approdi ermeneutici della Cassazione (soprattutto delle sezioni unite), sia il self restraint esercitato dalla stessa Corte a favore del rilievo nomofilattico del diritto vivente formatosi sulla questione controversa, fatti salvi in ogni caso il margine di apprezzamento degli indici rivelatori circa la effettiva «vivenza» della norma e la riserva di valutazione della compatibilità di questa con la Costituzione.
Si è perspicuamente affermato che fluidità, criticità e nuove declinazioni nella concreta applicazione della dottrina del diritto vivente rendono l’equilibrio sempre incerto e instabile quanto alle rispettive linee di confine. Si avverte tuttavia la comune consapevolezza che il modello italiano di giustizia costituzionale si andrà delineando storicamente anche alla stregua della qualità delle relazioni che s’instaureranno, di tempo in tempo, fra Corte costituzionale e Potere giudiziario, in particolare la Corte di cassazione.
[1] L’assunto è confermato dal titolo - “A che punto è la dottrina del diritto vivente?” - del confronto sul tema, aperto ai giovani studiosi dalla Direzione della Rivista Giurisprudenza costituzionale, i cui contributi saranno pubblicati nel n. 5/2023 della stessa Rivista.
[2] V. CRISAFULLI, voce Disposizione (e norma), in Enc. Dir., XIII, 1964, Milano, p. 195 ss.
[3] T. ASCARELLI, Giurisprudenza costituzionale e teoria dell’interpretazione, Cedam, 1957.
[4] L’espressione compare, per la prima volta, in C. cost., n. 276/74, cui adde, per gli indicatori dei caratteri del diritto vivente, C. cost., n. 89/2018 e n. 89/2021.
[5] M. TARUFFO, Precedente e giurisprudenza, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2007, p. 709 ss.; P. CURZIO, Il giudice e il precedente, in Quest. giust., n. 4/2018, p. 578 ss. Cfr., volendo, G. CANZIO, Legalità penale, processi decisionali e nomofilachia, Atti del convegno “Tra legge e giudice alla ricerca di un equilibrio per la legalità penale” (Firenze, 20 maggio 2022), in Sist. pen., n. 12/2022, p. 49 ss.; ID., La funzione nomofilattica fra dissenting opinion ed esigenze di trasparenza, in Scenari e trasformazioni del processo penale. Ricordando Massimo Nobili, a cura di C. Iasevoli, ESI, 2020, p. 125 ss.
[6] Si esprime esattamente e sorprendentemente in termini G. MATTEOTTI, Il concetto di sentenza penale, in Riv. Pen., 1918, vol. LXXXVIII, p. 362. Sul tema, v. Cass., sez. un. pen., n. 8770/2018, Mariotti e n. 18288/2010, P.G. in proc. Beschi.
[7] N. IRTI, Un diritto incalcolabile, in Riv. dir. civ., 2015, p. 11 ss. Sulla crisi del normativismo e sulle moderne tecniche di legistica, cons. AA.VV., Giudici e legislatori, in Dir. pubbl., 2016, p. 483 ss.
[8] B. SBORO, Il “diritto vivente” nel giudizio incidentale, in Quad. cost., n. 2/2023, p. 381 ss.
[9] G. BORRE’, L’evoluzione della Corte nel diritto commerciale e del lavoro, nel diritto pubblico e processuale civile, in La Corte di cassazione nell’ordinamento democratico, Milano, 1996, p. 252 ss.
[10] Sulla regola di raccordo fra sezioni semplici e sezioni unite della Cassazione, v. per il giudizio civile l’art. 374, comma 3, c.p.c., sost. dall’art. 8 d.lgs. n. 40 del 2006, e per il giudizio penale l’art. 618, comma 1-bis, c.p.p., ins. dalla l. n. 103 del 2017, in coerenza con quanto analogamente previsto sia per il giudizio amministrativo dall’art. 99, comma 3, d.lgs. n. 104 del 2010 che per quello contabile dagli artt. 42, comma 2, l. n. 69 del 2009 e 117 d.lgs. n. 174 del 2016, con riguardo alle decisioni dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato e, rispettivamente, delle sezioni riunite della Corte dei conti. Per il positivo scrutinio di legittimità costituzionale della regola, C. cost. n. 30 del 2011.
[11] F. PALAZZO, Legalità penale, interpretazione ed etica del giudice, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2020, 1249; V. MANES, Dalla fattispecie al precedente: appunti di deontologia ermeneutica, in Dir. pen. contemp., 17/1/2018; A. SANTANGELO, Precedente e prevedibilità. Profili di deontologia ermeneutica nell’era del diritto penale giurisprudenziale, Torino, 2022.
[12] L. SALVATO, La nomofilachia nella dialettica tra Corte costituzionale e Corte di cassazione, in www.forumquaderni costituzionali.it, 9/11/2018; F. VIGANO’, Il diritto giurisprudenziale nella prospettiva della Corte costituzionale, in Sist. pen., 19/1/2021.
*Intervento pronunciato in occasione del convegno, I Cento anni della Corte di cassazione "Unica", Roma 28 novembre 2023.
Nel primo decennale della Cassazione unificata Piero Calamandrei la definì «la porta, per la quale la scienza del diritto entra più liberamente nelle aule di giustizia». Resta tuttavia vivo il dibattitto sulla “questione cassazione”, che è anche quella dell’eccessivo numero di ricorsi, segnalato già alla fine del 1800 da Pisanelli, insito in una delle funzioni della Corte, attinente allo ius litigatoris: verificare la corretta applicazione della legge in ogni singola vertenza, in una sorta di terzo grado di giudizio. Radicandosi quest’ultimo, scrisse Mortara, nel «pregiudizio […] il quale canonizzò nel numero tre una mistica guarentigia di verità e di giustizia», questa mistica è causa della proliferazione dei ricorsi e di una crisi rimediabile con un accorgimento semplice: ripristinare le cassazioni regionali.
La questione è più complessa, specie con riferimento alla funzione inerente allo ius constitutionis: rendere principi uniformanti di interpretazione, quale organo supremo «custode della legge», in virtù di un’idea risalente, come lo è il dubbio sulla possibilità di tenerla unita alla prima e sulla sua attualità. La funzione si radica nel modello del giudice “bocca della legge”, fissato nel Corpus iuris di Giustiniano, non realizzato dall’onnipotenza dell’imperatore, assurto secoli dopo a fondamento della concezione della giurisdizione della modernità giuridica, improntata all’ideale illuministico del diritto chiaro e preciso, al primato della legge scritta.
Note ragioni hanno condotto al declino della identificazione del diritto nella legge, sembrando assegnare alla giurisdizione una funzione di creazione del diritto. Stabilire «qual è il “diritto” dello Stato di diritto» è diventato complicato; è entrata in crisi la giustificazione concettuale della funzione nomofilattica. Alla questione sono dedicate intere biblioteche; a noi spetta operare avendo quale faro la Costituzione.
La funzione nomofilattica, come configurata dal nostro ordinamento, ha recepito le intuizioni di Piero Calamandrei secondo cui «la norma che fa obbligo al giudice di giudicare secondo la legge, è una norma di diritto costituzionale che regola i rapporti tra la funzione giurisdizionale e la funzione legislativa»; «il carattere costituzionale del principio della “fedeltà del giudice alla legge”» giustifica un organo incaricato di verificarne l’osservanza. A questa concezione è ispirata la nostra Carta, che ci ha liberato dall’origine divina del potere dei governanti, che ha disarticolato, fissando un equilibrio tra diritti e doveri, sovranità popolare e pluralismo, tra i poteri dello Stato. L’antico dilemma del rapporto tra legiferare e giudicare è stato sciolto stabilendo (art. 101, secondo comma, Cost.): «i giudici sono soggetti soltanto alla legge». La nozione di «legge» è stata resa riferibile all’ordinamento giuridico, interno ed internazionale, nella sua complessità, ma ne è stato mantenuto fermo il primato, fissando, mediante un sapiente sistema di raccordi, i cardini essenziali dello Stato costituzionale di diritto e di una moderna democrazia pluralista: i principi di separazione dei poteri e di legalità quali aspetti della forma democratica, garantiti anche dal primato della legge.
Nell’ordinamento costituzionale l’interpretazione della disposizione implica il potere-dovere di scegliere tra diverse possibili risposte, ma la scelta presuppone un quadro di diritto positivo che il giudice deve leggere nel miglior modo possibile, che preesiste alla sua decisione, non è creato da lui: è una funzione "dichiarativa", con esclusione di un’efficacia direttamente creativa.
La Costituzione ha stabilito il perdurante primato della legge; è, quindi, attuale la funzione nomofilattica, garanzia dell’equilibrio dei poteri, del principio di uguaglianza e del diritto fondamentale alla certezza, funzione che, per contenuto e finalità, deve spettare ad una Corte unica. Aveva ragione Piero Calamandrei quando nel corso dei lavori della Costituente esclamò: «voler parlare di una Cassazione plurima è una mostruosità!», certo lo è per la funzione nomofilattica.
Questa funzione dà ragione della configurazione del pubblico ministero di legittimità quale parte della Corte, non mero agente “presso” quest’ultima (art. 104, Cost.), portatore dell’interesse pubblico alla difesa del diritto e della sua unità, cui spetta, quale parte pubblica, fornire gli elementi per la corretta identificazione del significato e dell’applicazione della legge, per garantire una formazione dialettica del giudizio che deve prescindere dagli interessi specifici delle parti.
Il legislatore ha rivitalizzato la funzione nomofilattica, da ultimo, disegnando una Corte che opera a tre livelli, per dare risposte tempestive ed adeguate alle finalità per le quali è nata. Gli input sono stati valorizzati dalla Corte e dalla Procura generale con misure che stanno dando positivi risultati, di cui non posso dare conto.
Vi sono criticità della disciplina, ma involgono tecnicalità alle quali si può dare soluzione, purché siamo consapevoli della sfida da affrontare: recuperare la consapevolezza della nomofilachia quale funzione di garanzia dell’equilibrio costituzionale, che ha il suo fondamento nel primato della legge, cui solo spetta assicurare la razionalità politica e giuridica di cui ogni collettività ha bisogno; recuperare la fiducia nella capacità ordinante della scienza giuridica: coerenza sistematica e precisione dommatica sono irrinunciabili ai fini della certezza; ricordare che la cultura giuridica è di tutti gli operatori del diritto ed è centrale il dialogo, che vuol dire capacità di ascolto e rifiuto dell’autoreferenzialità; affermare che finalità del processo è accertare la «verità giudiziaria», che è tale solo se raggiunta nel rispetto dei principi del giusto processo, di cui custode ultimo è la Corte, baluardo contro il rischio della plebiscitarizzazione del giudizio, alimentato dalle nuove forme della comunicazione.
È una sfida difficile, che può, deve, essere vinta, non dalla sola Corte, ma da questa insieme al Foro ed all’Accademia, nel ricordo dell’affermazione di Pisanelli riportata da Calamandrei in apertura al II volume sulla Cassazione civile: la Corte è «una di quelle grandi conquiste che la civiltà non può più perdere senza indietreggiare essa stessa».
*Intervento pronunciato in occasione del convegno, I Cento anni della Corte di cassazione "Unica", Roma 28 novembre 2023.
[Immagine: Giorgio Vasari, Giustizia, 1542, Venezia, Gallerie dell'Accademia]
di Giuseppe Amara
Nel presente contributo verranno riportate le principali novità introdotte dalla legge 24 novembre 2023, n. 168 recante “Disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica”, sia all’interno del Codice penale che del Codice di rito che nell’ambito di altre norme, tra cui il testo unico in materia di misure di prevenzione. In nota, per comodità di lettura, verrà riportato il testo di legge.
Sommario: 1. Premessa - 2. Modifiche al Codice penale – 3. Modifiche al Codice di procedura penale - 4. Modifiche al Testo unico in materia di misure di prevenzione - 5. Ulteriori modifiche - 6. Conclusioni.
1. Premessa
Il 24 novembre scorso è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale la legge 168/2023 contenente disposizioni per il contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica, in vigore dal 9 dicembre.
A fronte dell’intento del Legislatore di porre un argine ad una piaga strutturale del nostro tessuto sociale che, in quanto tale, non può essere trattata alla stregua di un fenomeno emergenziale di nuova emersione, ad una prima rapida lettura del testo, si registrano talune incongruenze sistematiche che richiederanno un’attenta attività di sussunzione.
Il Legislatore, nell’ottica di un raccordo con la normativa sovranazionale (Convenzione di Istanbul dell’11 maggio 2011 sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ratificata ai sensi della legge 77/13) e la giurisprudenza CEDU, è intervenuto introducendo modifiche al Codice penale, al Codice di rito ed alla normativa in materia di misure di prevenzione e di ammonimento e di informazione alle vittime.
Di seguito una rapida carrellata di quelle di ritenuto maggior impatto pratico.
2. Modifiche al Codice penale
È stato riscritto il comma 5 dell’art. 165 c.p. [1], sulla sospensione condizionale della pena, con peculiare riferimento all’analitica descrizione dei percorsi di recupero cui deve sottoporsi l’imputato condannato per taluni reati come da – immutata – elencazione. In particolare, all’art. 15, il Legislatore ha introdotto un riferimento specifico alla frequenza richiesta nella partecipazione ai suddetti corsi (almeno bisettimanale), al contempo precisandone la natura di percorsi di recupero che andranno svolti presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero; ancora, si è posto l’accento sulla necessità che la verifica del positivo superamento sia demandata al Giudice il quale dovrà valutare i contenuti delle relazioni informative degli enti interessati, verificando la rispondenza degli obiettivi raggiunti dall’imputato alle prescrizioni impartite. È stata poi prevista una disciplina di coordinamento tra la cessazione della misura cautelare in caso di condanna con pena condizionalmente sospesa ai sensi dell’art. 300 comma 3 c.p.p., e le comunicazioni all’autorità di pubblica sicurezza deputata a valutare la necessità di adottare una delle misure di prevenzione di cui al d.lgs. 159/11. In particolare, è stata introdotta una tempistica alquanto stringente che impone all’autorità di P.S. di decidere “tempestivamente” sulla opportunità di avanzare la relativa richiesta ed al Tribunale di pronunciarsi entro 10 giorni, applicando, se del caso, una misura di prevenzione di durata non inferiore a quella dei corsi di recupero. Sul punto, come già puntualmente argomentato, la norma dovrà essere letta in stretto coordinamento con l’art. 166 comma 2 c.p. che prevede come la condanna a pena condizionalmente sospesa non possa costituire in alcun caso, di per sé sola, motivo per l'applicazione di misure di prevenzione, richiedendo pertanto la necessaria presenza di fatti nuovi sottostanti l’applicazione della misura di prevenzione. Ancora, viene sollecitata la tempestiva comunicazione di ogni violazione al P.M., così da consentirgli di attivare le facoltà di cui all’art. 168 comma 1 n. 1 c.p. afferenti alla revoca del beneficio.
Con il medesimo art. 15 (comma 2) è stato poi introdotto il secondo comma dell’art. 18 bis delle disposizioni di coordinamento e transitorie del Codice penale che, nei casi di cui sopra, ha previsto un sistema di controlli e comunicazioni tra cancelleria del Giudice, UEPE ed ufficio del Pubblico Ministero, funzionale a verificare l’effettiva partecipazione ai suddetti corsi ed eventuali violazioni rilevanti ai fini della revoca della sospensione.
Spostandosi sul libro II del Codice, il Legislatore è intervenuto coprendo una lacuna emersa nella prassi quotidiana, in particolare è stata prevista l’estensione dell’oggettività della fattispecie di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa di cui all’art. 387 bis c.p., adesso integrata anche dalla violazione dell’ordine di protezione previsto dall’art. 342 ter c.p., primo comma, del codice civile, ovvero di un provvedimento di eguale contenuto assunto nel procedimento di separazione personale di coniugi o nel procedimento di cessazione degli effetti civili del matrimonio. Ancora, il Legislatore è intervenuto sulla pena della fattispecie, aumentando nel massimo la cornice edittale (che passa da 3 anni a 3 anni e 6 mesi), così da consentire l’adozione di misure cautelari, ad oggi non consentite nonostante si vertesse in ipotesi di arresto obbligatorio in flagranza di reato cui, pertanto, seguiva sempre l’immediata liberazione dall’arrestato. Tale previsione, peraltro, andrà letta in coordinamento con quelle processuali, di seguito riportate, ed in particolare con l’art. 280 comma 3 bis c.p.p. che, di fatto, consentirà l’adozione di misure anche di natura custodiale e con la modifica dell’art. 391 comma 5 c.p.p. tramite inserimento della fattispecie di cui all’art. 387 bis c.p. nel novero di quelle che consentono l’applicazione di misura anche al di fuori dei limiti di pena.
Stante il riflesso sostanziale, si riporta all’attenzione la modifica dell’art. 8 (ammonimento del Questore) del d.l. 23/11/09 n. 11, convertito in l. 38/09, modifica consistita nell’estendere la portata dell’aggravante specifica e la procedibilità d’ufficio nei delitti di cui agli artt. 612 bis e ter c.p. anche alle ipotesi in cui il fatto sia stato commesso in danno di persona offesa diversa da quella tutelata attraverso la precedente procedura di ammonimento. Sul punto, si segnala che la modifica ha inteso inoltre estendere la portata applicativa dell’ammonimento d’ufficio del Questore, aumentando il novero delle fattispecie presupposto
3. Modifiche al Codice di procedura penale
Le modifiche al Codice di procedura penale risultano molteplici e particolarmente incisive: disciplinano istituti processuali di nuovo conio e ne ampliano la portata di altri già noti. Di seguito, si riporteranno quelle di maggior rilievo pratico.
Innanzi tutto, si richiamano talune norme che, unitariamente lette, hanno come chiaro intento quello di inasprire il trattamento cautelare relativamente ai reati di cui all’art. 387 bis c.p. (violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa) e di lesioni aggravate dagli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, del Codice penale.
In particolare, all’art. 275 comma 2 bis c.p.p. in tema di criteri di scelta delle misure è stato aggiunto un periodo che estende anche ai reati anzidetti la deroga alla disciplina che esclude l’applicabilità della misura della custodia cautelare in carcere in caso di prognosi di condanna non superiore ai tre anni di reclusione.
Ancora, nella medesima ottica, è stato introdotto il comma 3 bis all’art. 280 c.p.p. che esclude l’applicazione dei commi 1, 2 e 3 in relazione al medesimo elenco di reati (articoli 387 bis e 582, nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma c.p.). La portata di questa norma, all’evidenza, risulta amplissima risultando ammissibile, in ipotesi, applicare anche la custodia carceraria per fattispecie che in passato erano prive di copertura cautelare anche non custodiale ovvero per fattispecie che, quanto meno in astratto, potrebbe non riguardare strettamente casi di violenza domestica o sulle donne (si pensi, ad esempio, alle lesioni aggravate dal rapporto di parentela in assenza di convivenza).
Ancora, è stato aggiunto un periodo al comma 6 dell’art. 282 bis c.p.p. (allontanamento dalla casa familiare) che prevede la possibilità di applicare la misura anche a talune fattispecie che, in astratto, non lo consentirebbero, precisando, inoltre, l’utilizzo obbligatorio delle modalità di controllo previste dall’art. 275 bis c.p.p., il c.d. “braccialetto elettronico”, il cui diniego all’applicazione può comportare anche l’applicazione congiunta di misure più gravi, con la prescrizione al cautelato del divieto di avvicinarsi, ad una distanza inferiore ai 500 metri, alla casa familiare e ad altri luoghi frequentati dalla persona offesa (prevedendo deroghe per ragioni lavorative). Si rileva come tale margine spaziale risulti alquanto ampio e, unitamente, alla previsione dell’arresto obbligatorio in flagranza per violazione dell’art. 387 bis c.p., con contestuale applicazione di misure cautelari ora consentite, potrà generare talune criticità operative ed interpretative, specie nei comuni di minore estensione. Analoga formulazione (distanza minima – applicazione obbligatoria del braccialetto elettronico – applicazione congiunta di misure più gravi in caso di rifiuto o impossibilità tecnica) è stata poi ripresa nel successivo art. 282 ter c.p.p. (divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa).
Ancora, con l’art. 7 è stata introdotta una norma che, per la prima volta, prevede una crono scansione dell’iter di adozione di una misura cautelare. In particolare, con l’introduzione dell’art. 362 bis c.p.p., è previsto che il Pubblico Ministero, effettuate le indagini ritenute necessarie, senza ritardo e comunque entro trenta giorni dall’iscrizione della notizia di reato a carico dell’indagato, valuti la sussistenza dei presupposti per l’applicazione di misure cautelari e, nei venti giorni successivi al deposito della richiesta, il Giudice per le Indagini Preliminari provveda sulla suddetta richiesta. Non è chiara la necessità di introdurre nel Codice di rito un termine (peraltro ben più ampio di quello in cui nella prassi, usualmente, avvengono le determinazioni in questo ambito), privo di alcun apparente rilievo – quanto meno – di natura processuale in caso di sua violazione (con controllo demandato alla Procura Generale presso la Corte d’Appello e Procura Generale presso la Corte di Cassazione, come da modifica illustrata nel paragrafo 5).
Si rimanda a quanto rappresentato nel paragrafo precedente in relazione alla modifica dell’art. 391 comma 5 c.p.p. tramite inserimento della fattispecie di cui all’art. 387 bis c.p. nel novero di quelle che consentono l’applicazione di misura anche al di fuori dei limiti di pena.
È inoltre stato aggiunto l’art. 382 bis c.p.p. (arresto in flagranza differita) che consente agli ufficiali di Polizia Giudiziaria di procedere ad arresto dell’indagato per i reati di cui agli artt. 387 bis – 572 – 612 bis c.p. anche al di fuori dai casi di flagranza, entro le 48 ore successive dalla commissione del fatto e qualora emerga l’inequivoca attribuibilità del fatto alla persona offesa sulla base di documentazione video fotografica o altra documentazione legittimamente acquisita da dispositivi informatici e telematici. Si è fatto, dunque, ricorso ad un istituto, quello della flagranza differita, già conosciuto dall’ordinamento (vedasi normativa di contrasto alla violenza commessa in occasione o a causa di manifestazioni sportive) ed oggetto di ampio dibattito, tenendo a mente i contenuti della riserva di giurisdizione di cui all’art. 13 Cost.
Altra norma di portata innovativa introdotta dal Legislatore è quella di cui al comma 2 bis dell’art. 384 bis c.p.p. (allontanamento d’urgenza dalla casa familiare dal Pubblico Ministero) che introduce un’ipotesi di misura precautelare di natura non custodiale. Ed in particolare, anche al di fuori dell’ipotesi di flagranza del reato, il P.M., con decreto motivato, può disporre l’allontanamento dalla casa familiare, con divieto di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa agli indiziati dei delitti di cui agli artt. 387 bis – 572 – 612 bis - 582, nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, sulla scorta di fondati motivi che inducono a ritenere sussistente l’esigenza cautelare di cui alla lettera c) dell’art. 274 c.p.p., esigenza che viene ritenuta preponderante sulla tempistica necessaria per richiedere e, in ipotesi, ottenere un’ordinanza cautelare dal G.I.P. Segue la procedura di convalida al G.I.P. sulla falsariga di quella dell’arresto/fermo (richiesta di convalida entro le 48 ore successive all’esecuzione e provvedimento del giudice competente nelle ulteriori 48 ore successive). In ordine a tale, innovativa, previsione di legge, si segnala una scollatura fra il novero dei reati che consentono l’adozione del provvedimento (fra cui anche il reato di atti persecutori) e l’apparente impossibilità di richiedere la misura del solo divieto di avvicinamento, se non come prescrizione ulteriore a quella dell’allontanamento dalla casa familiare che, evidentemente, presuppone un rapporto di convivenza, difficilmente ipotizzabile nei reati di cui all’art. 612 bis c.p. Ancora, si rileva come sia prevista l’adozione della sola misura non custodiale, non potendo il pubblico ministero disporre l’applicazione di una misura custodiale né l’applicazione provvisoria del braccialetto elettronico, limiti questi idonei ad incidere negativamente sull’effettività della tutela della persona offesa.
La previsione di un binario privilegiato per la definizione dei procedimenti iscritti per reati afferenti alla “violenza sulle donne e domestica” è confermata dalla modifica di due norme delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, ovvero l’art. 127 che prevede la necessità di comunicare al Procuratore Generale presso la Corte d’Appello, con cadenza trimestrale, i dati relativi ai procedimenti iscritti di cui all’art. 362 bis c.p.p. (la norma che, come detto, prevede una crono scansione cautelare di non chiaro rilievo, quanto meno processuale) dati che, almeno semestralmente, in un’ottica verticistica dei rapporti tra magistrati dell’ufficio del Pubblico Ministero, andranno comunicati al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, nonché l’art. 132 bis che, come noto, disciplina i criteri di priorità assoluta nella formazione dei ruoli di udienza e trattazione dei processi, ai quali sono stati aggiunti quelli per reati di cui agli artt. 387 bis, 558 bis, 572, 582, nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, I comma, numero 1, e II comma, 583 quinquies, 593 ter, 609 bis-octies, 612 bis, 612 ter III comma c.p.
Si segnala, da ultimo, come siano aumentati gli scambi informativi tra A.G. ed Autorità di Pubblica Sicurezza deputata all’applicazione di misure di prevenzione e di vigilanza della persona offesa (vedasi la modifica dell’art. 299 c.p.p. in tema di revoca e sostituzione delle misure cautelari, con introduzione dei commi 2-ter e 2-quater, ovvero quella già menzionata di cui all’art. 165 c.p.).
4. Modifiche al testo unico in materia di misure di prevenzione
Il Legislatore, nella medesima ottica di tutela delle donne e delle vittime di violenza domestica, è intervenuto potenziando le misure di prevenzione; lo ha fatto ampliando il novero dei soggetti destinatari delle misure di prevenzione di cui all’art. 4 d.lgs. 159/11, estendendo il novero delle fattispecie spia della pericolosità, prevedendo l’applicabilità, nella sorveglianza speciale, delle misure di controllo di cui all’art. 275 bis c.p.p. (inserimento del comma 3 ter dell’art. 6 d.lgs. 159/11). Ancora, è stata disciplinata, espressamente, all’art. 8 comma 5 del d.lgs. 159/11 la possibilità che il Tribunale, relativamente alla nuova casistica di soggetti pericolosi, imponga il divieto di avvicinarsi a determinati luoghi, frequentati abitualmente dalle persone cui occorre prestare protezione, e l'obbligo di mantenere una determinata distanza, non inferiore a cinquecento metri, da tali luoghi e da tali persone. Infine, è stata aggiunta la previsione dell’adozione di provvedimenti d’urgenza per la medesima categoria di soggetti pericolosi (art. 9 d.lgs. 159/11) ed in particolare, il Tribunale può disporre la temporanea applicazione, con le particolari modalità di controllo previste dall'articolo 275 bis c.p.p., del divieto di avvicinarsi alle persone cui occorre prestare protezione o a determinati luoghi da esse abitualmente frequentati e dell'obbligo di mantenere una determinata distanza, non inferiore a cinquecento metri, da tali luoghi e da tali persone, fino a quando non sia divenuta esecutiva la misura di prevenzione della sorveglianza speciale. È stato, inoltre, potenziato il novero degli obblighi informativi in favore della persona offesa.
5. Ulteriori modifiche
La legge 168/2023 ha, inoltre, previsto talune modifiche di natura ordinamentale, al fine di valorizzare, ulteriormente, quelle codicistiche sopra riportate.
A tal proposito, l’art. 5 della legge ha previsto l’aggiunta di un periodo al comma 4 dell’art. 1 del d.lgs. 106/06 in materia di organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, ove è stato prevista anche a livello normativo, precisandola, la necessità che i reati di “violenza contro le donne e domestica” siano trattati da magistrati inseriti in un gruppo.
Di rilievo, inoltre, l’introduzione dell’art. 13 bis alla legge 7 luglio 2016, n. 122 che prevede una provvisionale sulla domanda di indennizzo da richiedere, ai sensi della medesima legge, al Prefetto territorialmente competente.
6. Conclusioni
Il contrasto alla violenza domestica ed in particolare sulla donna è – e deve restare – una priorità del Legislatore.
A fronte di tale ineludibile esigenza, l’intervento normativo qui esaminato pone una specifica attenzione all’inasprimento del trattamento sanzionatorio e soprattutto cautelare, in linea con le esigenze pubbliche di sicurezza.
Vengono inoltre previste norme che, seppur prive di rilievo processuale, introducono una tempistica serrata nella valutazione del rilievo cautelare di vicende spesso nebulose, tempistica la cui violazione, seppur priva di alcun rilievo processuale, potrà determinare altre forme di responsabilità.
A fronte di tale esigenza securitaria, marcata invece è l’esigenza di una crescita culturale e sociale che passi dalle formazioni intermedie e di cui, evidentemente, non potrà farsene carico il Magistrato nell’esercizio delle sue funzioni ma ciascun cittadino che potrà farlo, a mente un passaggio del preambolo della citata Convenzione di Istanbul: “Riconoscendo che il raggiungimento dell’uguaglianza di genere de jure e de facto è un elemento chiave per prevenire la violenza contro le donne; Riconoscendo che la violenza contro le donne è una manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi, che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione; Riconoscendo la natura strutturale della violenza contro le donne, in quanto basata sul genere, e riconoscendo altresì che la violenza contro le donne è uno dei meccanismi sociali cruciali per mezzo dei quali le donne sono costrette in una posizione subordinata rispetto agli uomini”.
Analogamente, si evidenzia un’esigenza di formazione specifica e multisettoriale fortemente avvertita dagli operatori ma che, allo stato, rimane programmatica e demandata a quanto previsto dall’art. 6 del testo di legge che, in parte, si limita a positivizzare pratiche virtuose già presenti nei programmi di formazione della Scuola Superiore della Magistratura ed alla Procura Generale presso la Corte di Cassazione, per poi demandare all’Autorità politica delegata per le pari opportunità, la predisposizione di apposite linee guida nazionali, al fine di orientare una formazione adeguata e omogenea degli operatori che a diverso titolo entrano in contatto con le donne vittime di violenza.
[1] All'articolo 165 del codice penale, il quinto comma è sostituito dal seguente: « Nei casi di condanna per il delitto previsto dall'articolo 575, nella forma tentata, o per i delitti, consumati o tentati, di cui agli articoli 572, 609-bis, 609-ter, 609-quater, 609-quinquies, 609-octies e 612-bis, nonché agli articoli 582 e 583-quinquies nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, la sospensione condizionale della pena è sempre subordinata alla partecipazione, con cadenza almeno bisettimanale, e al superamento con esito favorevole di specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati per i medesimi reati, accertati e valutati dal giudice, anche in relazione alle circostanze poste a fondamento del giudizio formulato ai sensi dell'articolo 164. Del provvedimento che dichiara la perdita di efficacia delle misure cautelari ai sensi dell'articolo 300, comma 3, del codice di procedura penale è data immediata comunicazione, a cura della cancelleria, anche per via telematica, all'autorità di pubblica sicurezza competente per le misure di prevenzione, ai fini delle tempestive valutazioni concernenti l'eventuale proposta di applicazione delle misure di prevenzione personali previste nel libro I, titolo I, capo II, del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, fermo restando quanto previsto dall'articolo 166, secondo comma, del presente codice. Sulla proposta di applicazione delle misure di prevenzione personali ai sensi del periodo precedente, il tribunale competente provvede con decreto entro dieci giorni dalla richiesta. La durata della misura di prevenzione personale non può essere inferiore a quella del percorso di recupero di cui al primo periodo. Qualsiasi violazione della misura di prevenzione personale deve essere comunicata senza ritardo al pubblico ministero presso il giudice che ha emesso la sentenza di condanna, ai fini della revoca della sospensione condizionale della pena ai sensi dell'articolo 168, primo comma, numero 1) ».
[2] Vedasi Linee Guida della Procura di Tivoli nell’applicazione della legge 168/2023, reperibili al seguente link https://www.procura.tivoli.giustizia.it/documentazione/D_11031.pdf.
[3] All'articolo 18-bis delle disposizioni di coordinamento e transitorie per il codice penale, di cui al regio decreto 28 maggio 1931, n. 601, è aggiunto, in fine, il seguente comma: « Nei casi di cui all'articolo 165, quinto comma, del codice penale, la cancelleria del giudice che ha emesso la sentenza la trasmette, al passaggio in giudicato, all'ufficio di esecuzione penale esterna, che accerta l'effettiva partecipazione del condannato al percorso di recupero e ne comunica l'esito al pubblico ministero presso il giudice che ha emesso la sentenza. Gli enti o le associazioni presso cui il condannato svolge il percorso di recupero danno immediata comunicazione di qualsiasi violazione ingiustificata degli obblighi connessi allo svolgimento del percorso di recupero all'ufficio di esecuzione penale esterna, che ne dà a sua volta immediata comunicazione al pubblico ministero, ai fini della revoca della sospensione ai sensi dell'articolo 168, primo comma, numero 1), del codice penale ».
[4] a) All'articolo 387-bis: 1) dopo le parole: « tre anni » sono aggiunte le seguenti: « e sei mesi »; 2) è aggiunto, in fine, il seguente comma: « La stessa pena si applica a chi elude l'ordine di protezione previsto dall'articolo 342-ter, primo comma, del codice civile, ovvero un provvedimento di eguale contenuto assunto nel procedimento di separazione personale dei coniugi o nel procedimento di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio».
[5] 3) Il comma 4 è sostituito dal seguente: « 4. Si procede d'ufficio per i delitti previsti dagli articoli 612-bis e 612-ter quando il fatto è commesso da soggetto ammonito ai sensi del presente articolo, anche se la persona offesa è diversa da quella per la cui tutela è stato già adottato l'ammonimento previsto dal presente articolo »; b) all'articolo 11, comma 1, dopo la parola: « 572, » sono inserite le seguenti: « 575, nell'ipotesi di delitto tentato, 583-quinquies, » e le parole: « 609-octies o 612-bis del codice penale, introdotto dall'articolo 7 » sono sostituite dalle seguenti: « 609-octies, 612-bis o 612-ter del codice penale ».
[6] a) all'articolo 275, comma 2-bis, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: « La disposizione di cui al secondo periodo non si applica, altresì, nei procedimenti per i delitti di cui agli articoli 387-bis e 582, nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, del codice penale »;
[7] «3-bis. Le disposizioni del presente articolo non si applicano nei procedimenti per i delitti di cui agli articoli 387-bis e 582, nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, del codice penale».
[8] All'articolo 282-bis, comma 6: 1) dopo la parola: « 572, » sono inserite le seguenti: « 575, nell'ipotesi di delitto tentato, »; 2) dopo le parole: « 582, limitatamente alle ipotesi procedibili di ufficio o comunque aggravate, » è inserita la seguente: « 583-quinquies, »; 3) le parole: « anche con le modalità di controllo previste dall'articolo 275-bis » sono sostituite dalle seguenti: « con le modalità di controllo previste dall'articolo 275-bis e con la prescrizione di mantenere una determinata distanza, comunque non inferiore a cinquecento metri, dalla casa familiare e da altri luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa, salvo che la frequentazione sia necessaria per motivi di lavoro. In tale caso, il giudice prescrive le relative modalità e può imporre limitazioni »; 4) sono aggiunti, in fine, i seguenti periodi: « Con lo stesso provvedimento che dispone l'allontanamento, il giudice prevede l'applicazione, anche congiunta, di una misura più grave qualora l'imputato neghi il consenso all'adozione delle modalità di controllo anzidette. Qualora l'organo delegato per l'esecuzione accerti la non fattibilità tecnica delle predette modalità di controllo, il giudice impone l'applicazione, anche congiunta, di ulteriori misure cautelari anche più gravi ».
[9] d) All'articolo 282-ter: 1) il comma 1 è sostituito dal seguente: « 1. Con il provvedimento che dispone il divieto di avvicinamento il giudice prescrive all'imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa ovvero di mantenere una determinata distanza, comunque non inferiore a cinquecento metri, da tali luoghi o dalla persona offesa, disponendo l'applicazione delle particolari modalità di controllo previste dall'articolo 275-bis. Nei casi di cui all'articolo 282-bis, comma 6, la misura può essere disposta anche al di fuori dei limiti di pena previsti dall'articolo 280. Con lo stesso provvedimento che dispone il divieto di avvicinamento il giudice prevede l'applicazione, anche congiunta, di una misura più grave qualora l'imputato neghi il consenso all'adozione delle modalità di controllo previste dall'articolo 275-bis. Qualora l'organo delegato per l'esecuzione accerti la non fattibilità tecnica delle predette modalità di controllo, il giudice impone l'applicazione, anche congiunta, di ulteriori misure cautelari anche più gravi »; 2) al comma 2, le parole: « una determinata distanza da tali luoghi o da tali persone » sono sostituite dalle seguenti: « una determinata distanza, comunque non inferiore a cinquecento metri, da tali luoghi o da tali persone, disponendo l'applicazione delle particolari modalità di controllo previste dall'articolo 275-bis ».
[10] Dopo l'articolo 362 del codice di procedura penale è inserito il seguente: « Art. 362-bis (Misure urgenti di protezione della persona offesa). - 1. Qualora si proceda per il delitto di cui all'articolo 575, nell'ipotesi di delitto tentato, o per i delitti di cui agli articoli 558-bis, 572, 582, nelle ipotesi aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, 583-bis, 583-quinquies, 593-ter, da 609-bis a 609-octies, 610, 612, secondo comma, 612-bis, 612-ter e 613, terzo comma, del codice penale, consumati o tentati, commessi in danno del coniuge, anche separato o divorziato, della parte dell'unione civile o del convivente o di persona che è legata o è stata legata da relazione affettiva ovvero di prossimi congiunti, il pubblico ministero, effettuate le indagini ritenute necessarie, valuta, senza ritardo e comunque entro trenta giorni dall'iscrizione del nominativo della persona nel registro delle notizie di reato, la sussistenza dei presupposti di applicazione delle misure cautelari. 2. In ogni caso, qualora il pubblico ministero non ravvisi i presupposti per richiedere l'applicazione delle misure cautelari nel termine di cui al comma 1, prosegue nelle indagini preliminari. 3. Il giudice provvede in ordine alla richiesta di cui al comma 1 con ordinanza da adottare entro il termine di venti giorni dal deposito dell'istanza cautelare presso la cancelleria ».
[11] Dopo l'articolo 382 del codice di procedura penale è inserito il seguente: « Art. 382-bis (Arresto in flagranza differita). - 1. Nei casi di cui agli articoli 387-bis, 572 e 612-bis del codice penale, si considera comunque in stato di flagranza colui il quale, sulla base di documentazione video-fotografica o di altra documentazione legittimamente ottenuta da dispositivi di comunicazione informatica o telematica, dalla quale emerga inequivocabilmente il fatto, ne risulta autore, sempre che l'arresto sia compiuto non oltre il tempo necessario alla sua identificazione e, comunque, entro le quarantotto ore dal fatto ».
[12] All'articolo 384-bis del codice di procedura penale, dopo il comma 2 sono aggiunti i seguenti: « 2-bis. Fermo restando quanto disposto dall'articolo 384, anche fuori dei casi di flagranza, il pubblico ministero dispone, con decreto motivato, l'allontanamento urgente dalla casa familiare, con il divieto di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla persona offesa, nei confronti della persona gravemente indiziata di taluno dei delitti di cui agli articoli 387-bis, 572, 582, limitatamente alle ipotesi procedibili d'ufficio o comunque aggravate ai sensi degli articoli 576, primo comma, numeri 2, 5 e 5.1, e 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, e 612-bis del codice penale o di altro delitto, consumato o tentato, commesso con minaccia o violenza alla persona per il quale la legge stabilisce la pena dell'ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni, ove sussistano fondati motivi per ritenere che le condotte criminose possano essere reiterate ponendo in grave e attuale pericolo la vita o l'integrità fisica della persona offesa e non sia possibile, per la situazione di urgenza, attendere il provvedimento del giudice.
[13] a) all'articolo 4, comma 1, lettera i-ter), sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: « o dei delitti, consumati o tentati, di cui agli articoli 575, 583, nelle ipotesi aggravate ai sensi dell'articolo 577, primo comma, numero 1, e secondo comma, 583-quinquies e 609-bis del medesimo codice ».
[14] Al fine di favorire la specializzazione nella trattazione dei processi in materia di violenza contro le donne e di violenza domestica, all'articolo 1, comma 4, del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: « In caso di delega, uno o più procuratori aggiunti o uno o più magistrati sono sempre specificamente individuati per la cura degli affari in materia di violenza contro le donne e domestica ».
[15] Art. 6 Iniziative formative in materia di contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica «1. In conformità agli obiettivi della Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, fatta a Istanbul l'11 maggio 2011, ratificata ai sensi della legge 27 giugno 2013, n. 77, entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, l'Autorità politica delegata per le pari opportunità, anche con il supporto del Comitato tecnico-scientifico dell'Osservatorio sul fenomeno della violenza nei confronti delle donne e sulla violenza domestica, sentita l'assemblea dell'Osservatorio stesso, fermo restando quanto previsto in materia di formazione degli operatori di polizia dall'articolo 5 della legge 19 luglio 2019, n. 69, predispone apposite linee guida nazionali al fine di orientare una formazione adeguata e omogenea degli operatori che a diverso titolo entrano in contatto con le donne vittime di violenza. 2. Nella definizione delle linee programmatiche sulla formazione proposte annualmente dal Ministro della giustizia alla Scuola superiore della magistratura, ai sensi dell'articolo 5, comma 2, del decreto legislativo 30 gennaio 2006, n. 26, sono inserite iniziative formative specifiche in materia di contrasto della violenza sulle donne e della violenza domestica.
[16] Vedasi documento varato lo scorso 3 maggio 2023 denominato “Orientamenti in materia di violenza di genere”.
di Francesco Volpe
Sommario: 1. Se l’azione di rivalsa preesistesse al codice dei contratti pubblici del 2023 – problemi di costituzionalità della nuova disciplina per violazione dell’art. 76 cost. – 2. La nozione di operatore economico. – 3. L’estensione dell’illecito commesso dall’operatore economico. – 4. Buona fede della stazione appaltante e azione di rivalsa. – 5. Il significato di responsabilità concorrente a raffronto con gli artt. 2055 e 1950 c.c. – 6. Dall’azione di rivalsa alla sussistenza di un rapporto di responsabilità solidale tra la stazione appaltante e l’aggiudicatario illegittimo, ai fini del risarcimento del danno. L’azione diretta nei confronti dell’aggiudicatario: giurisdizione ordinaria e diverso regime di diritto sostanziale. – 7. Giurisdizione e limiti dell’azione di regresso dell’aggiudicatario illegittimo nei confronti della stazione appaltante. Conseguenze della doverosità dell’autoannullamento dell’aggiudicazione riconosciuta illegittima dal giudice ordinario nell’azione risarcitoria intentata dall’offerente pretermesso verso l’aggiudicatario
1. Se l’azione di rivalsa preesistesse al codice dei contratti pubblici del 2023 – problemi di costituzionalità della nuova disciplina per violazione dell’art. 76 Cost.
Il nuovo codice dei contratti pubblici ha introdotto un’azione di rivalsa che la stazione appaltante, condannata al risarcimento del danno, può esercitare nei confronti dell’operatore economico quando costui, con un suo comportamento illecito, abbia cagionato l’illegittimità dell’aggiudicazione[1].
Già in sede di esame preliminare emergono alcuni profili d’incertezza a proposito di detta azione.
È incerto, in primo luogo, se si tratti di una vera e propria novità. Il codice dice, testualmente, che “resta ferma”[2] la responsabilità dell’operatore economico e questo potrebbe alludere a una sorta di retroattività travestita; vale a dire a uno di quei casi in cui s’intende introdurre una nuova disciplina che si applica anche per il passato, senza però volerlo esplicitare.
Forse, però, non è così, in questo caso. Che l’amministrazione possa rifarsi sull’operatore economico era questione già sostenuta da, pur non amplissima, giurisprudenza.
Ad esempio, una pronuncia del Consiglio di Stato[3] aveva ammesso tale forma di tutela, costruendo un ragionamento che passava per il richiamo operato dall’art. 41, comma 2, c.p.a. all’istituto del litisconsorzio necessario[4], mentre la stessa Plenaria[5] aveva riconosciuto l’azionabilità in astratto della pretesa alla rivalsa, salvo prospettare, dubitativamente, che la sede giurisdizionalmente competente non potesse essere quella del giudice amministrativo.
Se, dunque, la rivalsa forse preesisteva al nuovo codice dei contratti pubblici, la vera novità consiste nel fatto che oggi è esplicitamente ammessa la sua azionabilità proprio davanti al giudice speciale[6], il cui sindacato risulterebbe essere stato, in tal modo, ampliato.
Si pone, così, un problema di validità costituzionale della riforma, perché al legislatore delegato che ha emanato il nuovo codice non era stato affidato il mandato d’incidere sul criterio di riparto[7],[8].
Per la verità, anzi, non era stato consegnato neppure il più generale compito di riscrivere l’intero processo in materia di appalti[9].
2. La nozione di operatore economico.
Un secondo punto incerto attiene alla definizione di chi sia l’operatore economico su cui rivalersi.
Secondo l’allegato I,1 del codice, esso è qualsiasi soggetto capace di offrire sul mercato prestazioni di lavori, servizi o forniture corrispondenti a quelli oggetto di una procedura di evidenza pubblica[10]. Quel che qualifica l’operatore economico, dunque, è solo una sua attitudine: quella di operare sui mercati e nemmeno sui soli mercati pubblici.
A fronte di una definizione così ampia, non sembra che, anche ai fini dell’azione di rivalsa, la figura dell’operatore economico debba essere circoscritta al solo aggiudicatario illegittimo. Nella categoria potrebbero rientrare altre figure che pure potrebbero concorrere a cagionare un’aggiudicazione illegittima e, quindi, un risarcendo danno. Ad esempio, potrebbe essere tale l’impresa ausiliaria nelle ipotesi di avvalimento; potrebbe essere un offerente, diverso dall’aggiudicatario, che abbia falsato la media delle offerte economiche o la media per il calcolo delle anomalie. Potrebbe essere operatore economico anche il subfornitore dell’aggiudicatario, il quale abbia falsamente attestato le certificazioni inerenti ai beni scambiati.
Ma se è così, si pone ancora una volta un problema di giurisdizione.
È pur vero, infatti, che, in materia di appalti, il giudice amministrativo si occupa anche di diritti soggettivi (e la rivalsa attiene a un diritto soggettivo). Ma, con riguardo a questa più ampia platea di operatori economici, è difficile sostenere che le controversie siano tutte lambite da quell’esercizio del potere provvedimentale che, secondo la Corte costituzionale[11], è necessario affinché la fattispecie possa essere sindacata, ancorché si verta in una materia di giurisdizione esclusiva[12].
3. L’estensione dell’illecito commesso dall’operatore economico.
Un terzo punto incerto attiene ai confini del comportamento illecito che esporrebbe l’operatore economico a rivalsa.
In estrema sintesi, se è facile comprendere che rientra nella sfera dell’illecito il comportamento dell’aggiudicatario che abbia prodotto in gara dichiarazioni false o false certificazioni, può essere considerato illecito anche il comportamento di quell’operatore, che, senza mentire e senza tacere, abbia invece presentato un’offerta difforme dalla lex specialis[13]?
A ben vedere anche questo offerente viola il diritto oggettivo perché viola gli artt. 91[14] e 107[15] c.c.p. E, secondo quanto ha affermato la sentenza Preden[16], se vi è una violazione del diritto oggettivo accompagnata dalla lesione di una posizione giuridicamente qualificata, questo fatto costituisce causa di risarcimento del danno e quindi di illecito. Eppure, in questo caso, l’offerente non ha tenuto alcun comportamento fraudolento e l’errore ricade sulla stazione appaltante che ha valutato male l’offerta[17], cosicché non è incongruo chiedersi se sia corretto che la responsabilità dell’operatore economico debba essere a tal punto estesa.
4. Buona fede della stazione appaltante e azione di rivalsa.
Questi motivi di incertezza a cui sin qui si è accennato non si risolvono in minimalia.
Preme, però, soffermarsi su altre, più ampie, questioni.
Innanzi tutto, in che modo questa rivalsa e questa responsabilità concorrente avrebbero a che fare con il principio di buona fede, stante che di questa responsabilità si parla nell’art. 5 c.c.p.?
Questo profilo pare più chiaro: se il risarcimento e la conseguente rivalsa vengono correlati alla buona fede, ciò avviene in senso inverso rispetto a quello con cui si invoca (spesso in modo incauto) l’incidenza di tale clausola generale sul diritto amministrativo.
Qui non è in gioco, se non per aspetti marginali[18], la buona fede nutrita dal privato nei confronti dell’agire provvedimentale della pubblica amministrazione, ma, al contrario, la buona fede che la stazione appaltante ripone sul fatto che l’operatore economico non terrà comportamenti scorretti nel formulare la sua offerta[19]. Comportamenti che, poi, potrebbero condurre a un’aggiudicazione illegittima e a un danno da risarcire a terzi. Sicché, quando questi comportamenti si verificassero, l’Amministrazione che avesse sostenuto gli oneri del risarcimento avrebbe titolo per agire contro i soggetti di cui essa si fosse fidata.
5. Il significato di responsabilità concorrente a raffronto con gli artt. 2055 e 1950 c.c.
Inquadrata in questo modo la questione, resta, però, da affrontare il problema principale: che cosa voglia dire “rivalsa” e che cosa voglia dire “responsabilità concorrente”.
Questi termini alludono a una tutela civilistica o, almeno, para-civilistica[20].
Ma, se il richiamo alla rivalsa è piuttosto diffuso nel codice civile (ad esempio in materia di obblighi dei coeredi[21] o in materia di condominio[22]), i riferimenti testuali a una responsabilità concorrente nella disciplina codicistica sono rarefatti (per non dire quasi inesistenti), sì da generare il dubbio che il codice dei contratti pubblici, nell’enunciarla, abbia volutamente impiegato una formula ambigua, come tale capace di sottrarsi a categorie e a regimi già noti.
L’interprete, però, non può limitarsi a constatare che questa responsabilità concorrente sarebbe una cosa finora ignota, lasciando alla discrezionalità (o all’arbitrio) di chi poi giudicasse il compito di decidere come applicarla.
Un tentativo di ricostruzione va pur sempre compiuto.
Anche nella prospettiva di una esegesi analogica, osservo pertanto che sembra piuttosto simile a questa responsabilità quanto è previsto nell’art. 2055 del codice civile, che riguarda una fattispecie affine a quella ora in esame. Vale a dire quella in cui più persone siano responsabili dell’illecito aquiliano[23].
L’art. 2055 c.c., come è noto, riconosce a chi abbia risarcito il danno il regresso contro ciascuno degli altri soggetti che abbiano concorso a causarlo, nella misura determinata dalla gravità della rispettiva colpa e del personale apporto eziologico.
Nel dubbio sulla gravità delle singole colpe, esse si presumono uguali, ma, ai nostri fini, potrebbe assumere rilievo la c.d. fiducia, a cui si riferisce l’art. 2 del codice dei contratti pubblici, che la stazione appaltante nutre, per volontà di legge[24], sul corretto comportamento degli offerenti. Forse, nel caso della responsabilità concorrente ora esaminata, questa presunzione iuris tantum sull’equiparazione delle colpe potrebbe avere, pertanto, un minor rilievo, quando non si debba riconoscere che essa sia stata addirittura rovesciata.
Vi è, anzi, da chiedersi se la rivalsa di cui parla il codice dei contratti pubblici significhi che la stazione appaltante possa rifarsi sull’operatore economico solo pro quota o se, piuttosto, essa implichi un regresso integrale per quanto corrisposto a titolo di risarcimento. Ché proprio a questa seconda soluzione sembra, in effetti, indirizzare il termine “rivalsa” e a questo sembra spingere, in verità, tutto l’impianto della riforma processuale in materia di appalti.
Vale a dire il favorire una sorta di neutralità della stazione appaltante rispetto al processo.
E così, in effetti, potrebbe concretarsi la questione, giacché, se l’aggiudicazione fosse annullata, l’appalto proseguirebbe con l’affidamento a un nuovo aggiudicatario (magari individuato dallo stesso giudice in sede di risarcimento in forma specifica); se, invece, la tutela costitutiva fosse sostituita o integrata da una tutela risarcitoria per equivalente, l’amministrazione potrebbe rivalersi, appunto, in modo integrale su quell’operatore economico che l’abbia spinta ad assumere un’aggiudicazione invalida. Conformemente al principio del risultato espresso nell’esordio del nuovo codice[25], in entrambe le ipotesi si procederebbe verso l’esecuzione dell’appalto, senza ulteriori oneri per l’ente pubblico[26].
Una tale impostazione, peraltro, sarebbe coerente anche con l’opinione, talora serpeggiante[27], secondo la quale le controversie in materia di appalti pubblici avrebbero sì carattere pubblicistico da un punto di vista formale, salvo il considerare che, da un punto di vista sostanziale, esse sarebbero invece controversie civilistiche che si agitano tra un ricorrente e un controinteressato impegnati a contendersi l’aggiudicazione, restando alla parte resistente quasi un ruolo di mera spettatrice della lite.
Se così fosse, il termine di riferimento, nel codice civile, all’azione di rivalsa dovrebbe forse individuarsi, più che nell’art. 2055 c.c., nell’art. 1950 c.c. La stazione appaltante, quando fosse chiamata a sostenere il risarcimento, finirebbe per somigliare a un fideiussore, o a un garante, che ha regresso integrale sul debitore principale. In questo caso, sull’operatore economico che ha cagionato l’illegittimo esito della gara.
6. Dall’azione di rivalsa alla sussistenza di un rapporto di responsabilità solidale tra la stazione appaltante e l’aggiudicatario illegittimo, ai fini del risarcimento del danno. L’azione diretta nei confronti dell’aggiudicatario: giurisdizione ordinaria e diverso regime di diritto sostanziale.
Allo stato, mi pare difficile stabilire se si tratti di un caso di concorso nell’illecito o di un caso di fideiussione: l’oscurità del sintagma “responsabilità concorrente” è pur sempre funzionale a qualcosa.
Approfondire la questione, tuttavia, è, entro certi limiti, poco importante, benché sembri preferibile la prima ipotesi, non fosse altro perché il richiamo al concetto di concorso è presente pure nell’art. 2055 c.c.
Tanto che si faccia capo all’art. 2055 c.c., tanto che valga l’art. 1950 c.c., il rapporto che corre tra la stazione appaltante e l’aggiudicatario illegittimo ricadrebbe, comunque, in un’ipotesi di responsabilità solidale[28].
Le implicazioni di questa conclusione sono evidenti.
Se si tratta di responsabilità solidale, questo significa che l’offerente illegittimamente pretermesso ha (come è consueto) azione risarcitoria diretta nei confronti della stazione appaltante.
Ma significa, pure, che egli ha azione diretta anche nei confronti dell’aggiudicatario illegittimo[29],[30].
S’inaugura così una nuova forma di tutela niente affatto trascurabile, non fosse altro perché l’aggiudicatario illegittimo può essere un debitore cospicuamente solvibile e perché i suoi beni, che non sono né demaniali né patrimoniali indisponibili, appaiono, almeno in astratto, più facilmente aggredibili.
Se, tuttavia, l’offerente volesse rivolgere gli strali risarcitori direttamente contro l’operatore economico concorrente, la controversia non sarebbe esperibile davanti al giudice amministrativo[31].
Vi si oppone sia il fatto che il nuovo art. 124 c.p.a parla solo dell’azione di rivalsa introdotta dalla stazione appaltante verso l’operatore economico (e non parla d’altro), sia il considerare che difetterebbe, ancora una volta, quell’esercizio del potere di cui il medesimo aggiudicatario, chiamato a rispondere in via diretta del danno, non può essere neppure astrattamente titolare, in quanto soggetto di diritto privato.
L’aggiudicatario illegittimo, d’altra parte, compare nel processo amministrativo come controinteressato e non come parte resistente. Non è quindi semplice concepirlo come principale legittimato passivo delle domande avanzate dal ricorrente.
Per queste ragioni, si deve dunque ipotizzare che l’offerente pretermesso debba agire contro l’aggiudicatario davanti al giudice ordinario.
Questo assunto non si riduce solo a un problema di giurisdizione.
Con il giudice, viene a mutare l’intero regime di diritto sostanziale della pretesa fatta valere, perché davanti al giudice ordinario non si applica la disciplina dell’art. 30 c.p.a. Non si applica dunque il termine decadenziale di centoventi giorni per la proposizione della domanda risarcitoria autonoma[32]; l’attore non è tenuto a dimostrare di avere azionato tutti i mezzi di tutela possibili per ridurre l’ammontare del danno. A ben vedere, del resto, il giudice ordinario, che non ha il potere di annullare, non sarebbe neppure chiamato a disapplicare l’aggiudicazione. Anzi, proprio la permanenza degli effetti provvedimentali sarebbe causa diretta del danno[33].
Viene, in ogni caso, a emergere un doppio binario di tutela per l’offerente illegittimamente pretermesso.
A suo arbitrio, egli potrà rivolgersi al giudice amministrativo, per chiedere preliminarmente l’annullamento dell’aggiudicazione, dichiarando di essere disponibile a subentrare nell’appalto, introducendo un’eventuale domanda risarcitoria per equivalente nei prescritti termini degli artt. 30 e 120 c.p.a. e avendo cura di rispettare gli speciali oneri di diligenza che escludono il suo concorso nel danno. Il tutto in un processo caratterizzato da una fase istruttoria che la disciplina vigente regola in modo, ancor oggi, embrionale.
Diversamente, quel medesimo offerente pretermesso potrà disinteressarsi degli effetti dell’aggiudicazione e, lasciando che gli stessi rimangano inattaccati, potrà agire in sede civile contro l’aggiudicatario illegittimo nel termine prescrizionale di cinque anni, limitandosi a rispettare l’art. 1227 c.c. nel suo contenuto ordinario e godendo di una fase istruttoria certamente più definita, il cui valore, in materia risarcitoria, è ben evidente, sia che si tratti di determinare l’an, sia che si tratti di determinare il quantum.
Questa seconda forma di tutela risulta davvero incoraggiante e forse proprio a questo tende, sia pure senza dichiararlo, il recepimento dell’azione di rivalsa: a portare il contenzioso in materia di appalti fuori persino dallo stesso processo amministrativo, una volta che ci si sia assicurati che gli effetti dell’aggiudicazione rimangano impregiudicati e che non si aggiungano oneri patrimoniali in capo all’ente pubblico[34].
7. Giurisdizione e limiti dell’azione di regresso dell’aggiudicatario illegittimo nei confronti della stazione appaltante. Conseguenze della doverosità dell’autoannullamento dell’aggiudicazione riconosciuta illegittima dal giudice ordinario nell’azione risarcitoria intentata dall’offerente pretermesso verso l’aggiudicatario.
Anche quest’ultima salvaguardia della stazione appaltante viene, infatti, concretamente a imporsi.
Invero, se la fattispecie dovesse essere inquadrata nell’art. 2055 c.c. (anziché nell’art. 1950[35]), si dovrebbe considerare anche la prospettiva che l’aggiudicatario, il quale abbia sostenuto in sede civilistica l’onere del risarcimento, possa agire lui stesso in regresso contro la stazione appaltante, nei limiti della quota di responsabilità di quest’ultima.
Quest’azione di regresso dell’operatore economico sulla stazione appaltante apparterrebbe alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, perché la responsabilità della stazione dipende dall’aggiudicazione illegittima che essa stessa ha emanato. Ivi, non si potrebbe negare che il potere sia stato esercitato.
Tanto stabilito, una volta fatto valere il regresso sulla stazione appaltante davanti al giudice speciale, potrebbe essere contestato, in primo luogo, che la sentenza del giudice ordinario, pronunciata inter alios, non farebbe stato, secondo quanto previsto dall’art. 1306 c.c., e potrebbe, tra le altre cose, essere revocata in dubbio la stessa illegittimità dell’aggiudicazione già fatta oggetto di accertamento incidentale, e senza copertura di giudicato, da parte del giudice ordinario.
In ogni caso, la medesima stazione appaltante potrebbe riflettere sull’operatore economico le eccezioni personali che avrebbe potuto opporre se l’offerente si fosse rivolto direttamente contro di lei. E quindi potrebbe opporre sia l’eccezione sul termine decadenziale (nel frattempo inevitabilmente scaduto), sia l’eccezione relativa all’art. 1227 c.c. aggravato, quale recepito dall’art. 30 c.p.a. E, proprio per l’ipotesi assunta, quest’ultima eccezione si rivelerebbe verosimilmente fondata, perché il danneggiato che avesse agito per il risarcimento del danno contro l’aggiudicatario illegittimo mai avrebbe potuto chiedere al giudice ordinario, al quale si è rivolto, l’annullamento dell’aggiudicazione stessa.
In concreto, mentre la responsabilità solidale della stazione appaltante è assistita da regresso sull’operatore economico, la responsabilità economica dell’operatore economico, invece, non è assistita da un effettivo regresso sulla stazione appaltante.
La stessa irrilevanza della condanna civile dell’operatore economico dovrebbe confermarsi anche quanto alle sorti del provvedimento di aggiudicazione ancorché il medesimo provvedimento debba essere dichiarato illegittimo (sia pure incidenter tantum e senza conseguenze disapplicative) dal giudice ordinario per accogliere la domanda risarcitoria avanzata dall’offerente pretermesso contro l’aggiudicatario illegittimo, sì da generare ulteriori e indiretti effetti conformativi circa il dovere di autoannullamento da parte dell’autorità amministrativa[36].
A tal riguardo, quando pure questo problema si dovesse prospettare in concreto, l’appalto, molto probabilmente, sarebbe già stato eseguito. Quell’autoannullamento non sortirebbe così alcuna conseguenza di fatto. Esso, anzi, potrebbe addirittura costituire, forse, l’occasione per pretendere dall’aggiudicatario illegittimo la restituzione dell’importo equivalente alla differenza tra i compensi corrisposti e la minor somma inter expensum et melioratum, perché - caduta l’aggiudicazione e, eventualmente, caduti insieme anche gli effetti del contratto - l’aggiudicatario risulterebbe aver agito sine titulo e a lui non resterebbe che invocare, a ristoro della sua prestazione, l’art. 2041 c.c.
In conclusione, se l’azione di rivalsa rafforza la neutralità delle stazioni appaltanti rispetto al contenzioso in materia di appalti, essa comporta anche un significativo trasferimento delle responsabilità in capo all’aggiudicatario illegittimo.
D’ora in poi, pertanto, le ditte dovranno essere molto caute nel costruire le proprie offerte in gara.
[1] La nuova azione si ricava dal combinato disposto dell’art. 5, comma 4, d. lgs. 31 marzo 2023, n. 36, secondo il quale “Ai fini dell’azione di rivalsa della stazione appaltante o dell’ente concedente condannati al risarcimento del danno a favore del terzo pretermesso, resta ferma la concorrente responsabilità dell’operatore economico che ha conseguito l’aggiudicazione illegittima con un comportamento illecito” con l’art. 124, comma 1, c.p.a, come riformato dal medesimo decreto legislativo e secondo il quale: “L'accoglimento della domanda di conseguire l'aggiudicazione e di stipulare il contratto è comunque condizionato alla dichiarazione di inefficacia del contratto ai sensi degli articoli 121, comma 1, e 122. Se non dichiara l'inefficacia del contratto, il giudice dispone il risarcimento per equivalente del danno subìto e provato. Il giudice conosce anche delle azioni risarcitorie e di quelle di rivalsa proposte dalla stazione appaltante nei confronti dell'operatore economico che, con un comportamento illecito, ha concorso a determinare un esito della gara illegittimo”.
[2] Si veda l’art. 5, citato alla nota precedente.
[3] Cons. di Stato, VI, 15 ottobre 2012, n. 5279.
[4] Così la pronunzia sopra citata: “Sotto il profilo processuale, l’accertamento della responsabilità concorrente dell’a.t.i. aggiudicataria e delle quote concorsuali di riparto interno tra quest’ultima e l’amministrazione, cui la Sezione è pervenuta per le ragioni innanzi esposte, deve, nel caso di specie, ritenersi ‘coperto’ non solo dai principi fondanti la giustizia amministrativa (in base ai quali la controversia va decisa con l’esercizio di poteri decisori e conformativi), e dal sopra richiamato art. 41, comma 2 (il quale ha previsto il litisconsorzio necessario del beneficiario dell’atto, in ragione dei peculiari poteri concernenti le statuizioni da adottare anche nei confronti del beneficiario dell’atto illegittimo), ma anche dalle domande, eccezioni e difese versate in giudizio, con il conseguente rispetto del generale principio processuale della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato; ciò, sulla base di un’interpretazione sostanzialistica degli atti processuali di parte, formulati in modo onnicomprensivo e idoneo a ricomprendere nelle richieste e difese formulate dalle parti anche gli evidenziati momenti di accertamento”.
[5] V. Cons. di Stato, Ad. pl., 12 maggio 2017, n. 2. La lite concerneva un caso in cui l’offerente pretermesso aveva chiesto il risarcimento (peraltro, in sede di giudizio di ottemperanza e a seguito della sopravvenuta impossibilità di ottenere un risarcimento in forma specifica) con condanna diretta dell’aggiudicatario pretermesso. Sul punto, la Plenaria ha così statuito: “Tutte le richiamate norme processuali vanno coordinate ed interpretate alla luce dei limiti che incontra la giurisdizione amministrativa. Esse sono, infatti, norme sul rito, che presuppongono (e non pongono) la giurisdizione, che deve, quindi, desumersi dai criteri generali di riparto e non direttamente da esse. In punto di riparto, la domanda che la parte privata danneggiata dall’impossibilità di ottenere l’esecuzione in forma specifica del giudicato proponga nei confronti dell’altra parte privata, beneficiaria del provvedimento illegittimo, esula dall’ambito della giurisdizione amministrativa.
Si tratta, infatti, di una controversia tra due soggetti privati, avente ad oggetto un diritto soggettivo di contenuto patrimoniale. Sul punto va ricordato che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, anche di recente (cfr. Cass. Sez. Un. ord. 3 ottobre 2016, n. 19677), hanno ribadito che, in base agli articoli 103 Cost. e 7 c.p.a., il giudice amministrativo ha giurisdizione solo per le controversie nelle quali sia parte una pubblica amministrazione o un soggetto ad essa equiparata; con la conseguenza che esula dalla sua giurisdizione la domanda di risarcimento del danno proposta da un privato contro un altro privato, ancorché connessa con una vicenda provvedimentale (nella specie, si trattava della domanda di risarcimento del danno contro il funzionario autore materiale del provvedimento illegittimo). Tale lettura riduttiva dell’estensione della giurisdizione amministrativa viene fondata sul dato testuale dell’art. 103 Cost. e dell’art. 7 c.p.a., in specie laddove, nell’individuare la giurisdizione del giudice amministrativo sulle controversie nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie, di diritti soggettivi, riferisce tali controversie a «l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo» e le afferma come «riguardanti provvedimenti, atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni». Tale ultimo inciso viene quindi valorizzato come limite all’estensione della giurisdizione amministrativa. 26. Né in senso contrario possono invocarsi ragioni di connessione, in quanto, come affermato anche da questa Adunanza plenaria con sentenza 29 gennaio 2014, n. 6, «salvo deroghe normative espresse, nell’ordinamento processuale vige il principio generale della inderogabilità della giurisdizione per motivi di connessione» (in termini cfr. Cass. Sez. Un. 19 aprile 2013, n. 9534; Cass. Sez. Un. 7 giugno 2012, n. 9185). 27. La carenza del presupposto processuale della giurisdizione risulta, quindi, risolutiva e costituisce, già di per sé, un ostacolo insormontabile all’interpretazione “sostanzialistica” sostenuta dall’orientamento giurisprudenziale sopra richiamato. 28. Del resto, va osservato che l’art. 41, comma 2, ultimo periodo, c.p.a. non prevede, a rigore (e in senso tecnico), un litisconsorzio necessario nei confronti del privato beneficiario dell’atto illegittimo. Litisconsorzio la cui necessità è del resto esclusa, come è noto, anche nel caso di obbligazioni solidali. Nei confronti di tale soggetto, infatti, la citata norma processuale non consente la formale proposizione di una domanda risarcitoria, ma stabilisce solo che la domanda proposta contro l’amministrazione (che, quindi, è individuata come unica legittimata passiva), gli debba essere notificata, al fine di realizzare la c.d. denuntiatio litis. In base all’art. 41, comma 2, ultimo periodo c.p.a., in altri termini, il privato non è destinatario di una domanda di risarcimento del danno contro di lui diretta, ma solo destinatario della notificazione della domanda proposta contro l’amministrazione, al fine di rendere possibile l’opponibilità del giudicato. Lo scopo della norma in esame è, infatti, solo quello di fare in modo che l’eventuale giudicato di condanna tra il privato danneggiato dal provvedimento e l’amministrazione possa essere opposto anche al terzo beneficiario, come “fatto” che accerta l’antigiuridicità, nell’eventuale giudizio di “rivalsa”, quanto all’illegittimità dell’atto e ai presupposti della condanna risarcitoria subita dall’amministrazione”. Sul punto della esperibilità di una rivalsa fatta valere dalla stazione appaltante, la Plenaria non ha preso esplicita posizione: “La ricostruzione che precede non esclude che l’amministrazione, chiamata a risarcire il danno ai sensi dell’art. 112, comma 3, c.p.a., possa vantare un’azione nei confronti del beneficiario che ha tratto vantaggio dal provvedimento illegittimo travolto dal giudicato. Si tratta di azione di regresso collegata a un’obbligazione risarcitoria di natura solidale o di azione di ingiustificato arricchimento per il disequilibrio causale derivante dal collegamento tra le posizioni sostanziali in gioco, essa – secondo la disciplina sostanziale e processuale propria dell’azione che si ritenga esperibile – presupporrebbe l’accertamento (della sussistenza) della giurisdizione di questo giudice, della sua proponibilità nell’ambito del giudizio di ottemperanza, anzi che con azione ordinaria, ma, soprattutto, richiederebbe una domanda in tal senso dell’amministrazione”.
[6] Anche questa prospettiva, peraltro, aveva già ottenuto un riscontro positivo nella giurisprudenza. Così, Cons. Stato, II,13.12.2020, n. 8546.
[7] Il problema non era sfuggito al legislatore delegato, come dimostra la relazione al nuovo Codice dei contratti pubblici che ha cercato di risolvere la questione osservando che non è stato modificato il criterio di riparto, ma il regime di diritto sostanziale: “La prima questione che potrebbe porsi, in astratto, è quella di un possibile eccesso di delega della disposizione in esame. Essa, tuttavia, disciplina direttamente non un determinato rimedio processuale, ma un principio di diritto sostanziale (la cui applicazione ha poi inevitabili ricadute sul terreno dei rimedi): sicché non pare potersi ragionevolmente prefigurare un simile vizio della disposizione. In particolare, come ricorda la Relazione, l'articolo 1, comma 1, della legge delega prevede “l'adeguamento della disciplina vigente “ai principi espressi dalla giurisprudenza delle giurisdizioni superiori, interne ed internazionali”. In questo senso il comma 3 dell'articolo 5, “nell'escludere il carattere incolpevole dell'affidamento in caso di illegittimità agevolmente rilevabile in base alla diligenza professionale richiesta ai concorrenti”, recepisce i princìpi enucleati nella sentenza dell'Adunanza Plenaria n. 20 del 2021, disciplinando le “condizioni” di risarcibilità del danno da provvedimento favorevole poi annullato. La disposizione, inoltre, cala nella specifica materia i princìpi da tempo pacificamente operanti in materia in punto di delimitazione dell'area di danno risarcibile (limitata al c.d. interesse negativo), e alla necessità che il danno di cui si chiede il risarcimento sia “effettivo e provato”. Sempre sul terreno della conformità al parametro costituzionale, potrebbe in tesi dubitarsi (avuto riguardo ai canoni tratteggiati dalla sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 2004) della conformità della scelta di riservare al giudice amministrativo la cognizione dell'azione di rivalsa dell'amministrazione. Tali dubbi, tuttavia, si superano solo che si abbia riguardo al collegamento, opportunamente sottolineato dalla Relazione al Codice, con l'esercizio del potere. La Relazione, invero, contiene tale riferimento in relazione all'ipotesi di lesione dell'affidamento del privato: “Pur non intervenendo sul riparto della giurisdizione (che non rientra nell'oggetto della legge-delega), la norma si basa, comunque, sul presupposto secondo cui la lesione dell'affidamento che viene in rilievo nell'ambito del procedimento di gara, anche quando realizzato attraverso comportamenti, presenta un collegamento forte con l'esercizio del potere e, pertanto, anche quando il privato lamenta la lesione della propria libertà di autodeterminazione negoziale, la relativa controversia risarcitoria non può che rientrare nella giurisdizione amministrativa, specie in considerazione del fatto che, nella materia degli appalti pubblici, il giudice amministrativo gode di giurisdizione esclusiva (art. 133, comma 1, lett. e), n. 1, c.p.a.), che si estende, oltre che ai comportamenti amministrativi (in base alla previsione generale contenuta nell'art. 7 c.p.a.), anche alle “controversie risarcitorie”. Tuttavia, non può dubitarsi che, nel caso speculare, l'affidamento dell'amministrazione è leso in sede di esercizio del potere: e dunque l'azione di rivalsa non è proposta iure privatorum, ma ha la funzione di ristorare il danno subìto nella fase di esercizio del potere amministrativo”.
[8] Ritenere, come sostiene la Relazione, che il codice dei contratti pubblici non avrebbe modificato la giurisdizione, limitandosi a recepire nel diritto sostanziale, un principio generale, potrebbe portare, peraltro, a opinare che l’azione di rivalsa possa essere esperita – proprio in quanto principio generale – anche al di fuori del contenzioso sui contratti pubblici. V., in tema P. Patrito, Il nuovo codice dei contratti pubblici - Il nuovo “rito appalti” e il parere di precontenzioso dell’Anac, Giur. it., 2023, 1983: “Resta, ancora, da domandarsi se la regola di cui all’art. 124 c.p.a., riguardi le sole controversie in tema di contratti pubblici oppure se essa possa estendersi anche ad altre. Si pensi, ad esempio, all’impugnativa di un permesso di costruire con richiesta di risarcimento del danno: nel caso in cui risulti che il provvedimento lesivo, per cui l’Amministrazione è stata condannata al risarcimento, fosse stato originato da una falsa rappresentazione della realtà dipesa dall’istante, può ritenersi ammissibile l’esperimento da parte dell’Amministrazione della domanda riconvenzionale o quella in via principale in separato giudizio? Secondo un primo punto di vista, si potrebbe giustificare la giurisdizione amministrativa in tale fattispecie (e in altre simili) sulla base dell’eadem ratio: anche nell’ipotesi prospettata , è stato, per riprendere le espressioni di cui all’art. 124 c.p.a., il “comportamento illecito” del privato che “ha concorso a determinare” un provvedimento illegittimo e causativo del danno, per cui non dovrebbero ammettersi conclusioni diverse in punto di giurisdizione sulla domanda risarcitoria proposta dall’Amministrazione. Tale osservazione risulterebbe avvalorata se si ritenesse che l’art. 124 c.p.a. si è limitato a dare sanzione a orientamenti giurisprudenziali precedenti, che si sono quindi basati su principi generali, come tali percorribili anche per altri casi: nulla vieterebbe allora di considerare la disposizione in esame come la positivizzazione, in un ambito particolare, di una regola di portata generale. Va ancora osservato che, molto spesso, le regole processuali in tema di contratti pubblici vengono estese agli altri ambiti, fornendo l’appiglio normativo per offrire soluzioni, anticipate dal legislatore in tale materia, a fattispecie che ne fuoriescono: si pensi, ad esempio, all’orientamento del Consiglio di Stato in tema di modulazione degli effetti nel tempo della sentenza di annullamento, che, tra l’altro, motiva la possibilità per il giudice amministrativo di far decorrere tali effetti a partire da ora o per il futuro proprio con riferimento alla disciplina in tema di inefficacia del contratto ai sensi degli artt. 121 e seg., c.p.a. Tuttavia, è da dire che, nelle ipotesi prese ora in considerazione, manca l’espressa disposizione di diritto positivo che assegni la giurisdizione al giudice amministrativo, che, invece, sembra risultare necessaria, anche tenuto conto delle considerazioni, prima ricordate, dell’Adunanza Plenaria n. 2/2017, che dubitava della sufficienza dell’ermeneusi per radicare la giurisdizione del giudice amministrativo sulla domanda riconvenzionale della stazione appaltante: da questo punto di vista, e alla luce del principio di stretta legalità processuale e della certezza o prevedibilità delle regole processuali, soprattutto nell’ottica della tutela del controinteressato o del privato asserito autore del danno, si dovrebbe concludere nel senso dell’esclusione – ed è questa la soluzione che pare più corretta – dell’estensione dell’art. 124 c.p.a., alle fattispecie ivi non espressamente considerate”.
[9] Circa i problemi di eccesso di delega, rispetto alla legge 21 giugno 2022, n. 78, v. M. Lipari, La tutela giurisdizionale amministrativa e il precontenzioso ANAC nel nuovo Codice dei contratti pubblici, lamministrativista.it, 2023
[10] Art. 1, All. cit: “Nel codice si intende per: (…) l) «operatore economico», qualsiasi persona o ente, anche senza scopo di lucro, che, a prescindere dalla forma giuridica e dalla natura pubblica o privata, può offrire sul mercato, in forza del diritto nazionale, prestazioni di lavori, servizi o forniture corrispondenti a quelli oggetto della procedura di evidenza pubblica”.
Nel previgente codice (art. 3, d. lgs. 18 aprile 2016, n. 50), mancava, invece, la corrispondenza con l’oggetto della procedura: “Ai fini del presente codice si intende per: (…) p) «operatore economico», una persona fisica o giuridica, un ente pubblico, un raggruppamento di tali persone o enti, compresa qualsiasi associazione temporanea di imprese, un ente senza personalità giuridica, ivi compreso il gruppo europeo di interesse economico (GEIE) costituito ai sensi del decreto legislativo 23 luglio 1991, n. 240, che offre sul mercato la realizzazione di lavori o opere, la fornitura di prodotti o la prestazione di servizi”.
[11] Il richiamo, ovviamente, è a Corte cost., 6 luglio 2004, n. 204.
[12] Particolarmente rilevante, in questo senso, è l’esempio del subfornitore, il quale potrebbe essere anche del tutto ignaro del fatto che la sua controparte contrattuale intenda presentare la merce in una gara pubblica.
[13] La criticità è stata colta anche da M.A. Sandulli, Il contenzioso sui contratti pubblici, lamministrativista.it, 2023: “Per non dire del rischio che, con un'interpretazione allargata del concetto di illecito, le conseguenze degli errori del committente - e, a monte, dell'incertezza delle regole - siano fatte sostanzialmente ricadere in massima parte sull'aggiudicatario, disincentivando gli imprenditori a partecipare alle gare indette nel nostro Paese”.
[14] Art. 91, comma 5, cit.: “Le offerte tecniche ed economiche, redatte secondo le modalità di cui al comma 1, sono corredate dai documenti prescritti dal bando o dall'invito o dal capitolato di oneri. Nelle offerte l'operatore economico dichiara alla stazione appaltante il prezzo, i costi del personale e quelli aziendali per la sicurezza e le caratteristiche della prestazione, ovvero assume l'impegno ad eseguire la stessa alle condizioni indicate dalla stazione appaltante e dalla disciplina applicabile, nonché fornisce ogni altra informazione richiesta dalla stazione appaltante nei documenti di gara”.
[15] Art. 107, comma 1, cit: “1. Gli appalti sono aggiudicati sulla base di criteri stabiliti conformemente agli articoli da 108 a 110 previa verifica, in applicazione dell'articolo 91 e dell'allegato II.8, quest'ultimo con riguardo ai mezzi di prova e al registro online, della sussistenza dei seguenti presupposti: a) l’offerta è conforme alle previsioni contenute nel bando di gara o nell'invito a confermare l'interesse nonché nei documenti di gara”.
[16] Corte cass., Ss. Uu., 22 luglio 1999, n. 500: “Non può negarsi che nella disposizione in esame risulta netta la centralità del danno, del quale viene previsto il risarcimento qualora sia "ingiusto", mentre la colpevolezza della condotta (in quanto contrassegnata da dolo o colpa) attiene all'imputabilità della responsabilità. L'area della risarcibilità non è quindi definita da altre norme recanti divieti e quindi costitutive di diritti (con conseguente tipicità dell'illecito in quanto fatto lesivo di ben determinate situazioni ritenute dal legislatore meritevoli di tutela), bensì da una clausola generale, espressa dalla formula "danno ingiusto", in virtù della quale è risarcibile il danno che presenta le caratteristiche dell'ingiustizia, e cioè il danno arrecato non iure, da ravvisarsi nel danno inferto in difetto di una causa di giustificazione (non iure), che si risolve nella lesione di un interesse rilevante per l'ordinamento (altra opinione ricollega l'ingiustizia del danno alla violazione del limite costituzionale di solidarietà, desumibile dagli artt. 2 e 41, comma 2, Cost., in riferimento a preesistenti situazioni del soggetto danneggiato giuridicamente rilevanti, e sotto tale ultimo profilo le tesi sostanzialmente convergono). Ne consegue che la norma sulla responsabilità aquiliana non è norma (secondaria), volta a sanzionare una condotta vietata da altre norme (primarie), bensì norma (primaria) volta ad apprestare una riparazione del danno ingiustamente sofferto da un soggetto per effetto dell'attività altrui. In definitiva, ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana non assume rilievo determinante la qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto, poiché la tutela risarcitoria è assicurata solo in relazione alla ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante. Quali siano gli interessi meritevoli di tutela non è possibile stabilirlo a priori: caratteristica del fatto illecito delineato dall'art. 2043 c.c., inteso nei sensi suindicati come norma primaria di protezione, è infatti la sua atipicità. Compito del giudice, chiamato ad attuare la tutela ex art. 2043 c.c., è quindi quello di procedere ad una selezione degli interessi giuridicamente rilevanti, poiché solo la lesione di un interesse siffatto può dare luogo ad un "danno ingiusto", ed a tanto provvederà istituendo un giudizio di comparazione degli interessi in conflitto, e cioè dell'interesse effettivo del soggetto che si afferma danneggiato, e dell'interesse che il comportamento lesivo dell'autore del fatto è volto a perseguire, al fine di accertare se il sacrificio dell'interesse del soggetto danneggiato trovi o meno giustificazione nella realizzazione del contrapposto interesse dell'autore della condotta, in ragione della sua prevalenza”.
[17] Una interpretazione a tal punto rigida è stata, dunque, esclusa dalla citata pronuncia Cons. di Stato, II,13.12.2020, n. 8546.
[18] Il richiamo al principio di buona fede non è sufficiente, peraltro, a configurare il rapporto corrente tra la Stazione appaltante e l’aggiudicatario illegittimo in termini di responsabilità precontrattuale, ancorché questa sia verosimilmente la soluzione più convincente. Tale opinione era stata sostenuta, in effetti, da alcuni autori che esaminarono alcune delle poche sentenze sull’azione di rivalsa introdotte prima del nuovo codice dei contratti pubblici. Si veda così, in particolare, B. Biancardi, Responsabilità precontrattuale nei contratti pubblici - Responsabilità precontrattuale nelle procedure di evidenza pubblica: quali regole a parti invertite?, Giur. it., 2021, 1708 s.s. A favore di detta tesi milita il fatto che, con l’offerta, il futuro aggiudicatario illegittimo, il quale abbia indotto la stazione appaltante a false rappresentazioni e quindi l’abbia spinta a un esito della gara illegittimo, non ha ancora instaurato un vero rapporto contrattuale, destinato a sorgere in seguito all’aggiudicazione stessa. Peraltro, il principio di buona fede trova campo di applicazione anche nella responsabilità contrattuale propriamente detta (1375 c.c.).
[19] Se mai, la buona fede dell’aggiudicatario illegittimo può valere al fine di valutare un eventuale esonero della propria responsabilità verso la stazione appaltante che agisce in rivalsa. Acquisisce dunque valore l’inciso, pure contenuto nel citato art. 5, ma comma 3, secondo il quale “l'affidamento non si considera incolpevole se l'illegittimità è agevolmente rilevabile in base alla diligenza professionale richiesta ai concorrenti”.
[20] Si pone così il problema se l’azione di rivalsa sia esperibile anche al di fuori dell’ambito dei contratti pubblici, in tutte le occasioni in cui una Amministrazione sia chiamata a risarcire il danno a terzi per l’emanazione di un provvedimento favorevole nei confronti di altro soggetto. Così, ad esempio, se il risarcimento fosse conseguenza di un titolo edilizio illegittimo. Sul punto pare convincente la tesi sostenuta da P. Patrito, Il nuovo “rito”, cit., 1989, il quale propende per la soluzione favorevole, sul presupposto che la rivalsa fosse istituto preesistente al nuovo Codice e applicabile in virtù di principi generali, salvo dover riconoscere che la giurisdizione, in difetto di disposizioni che attribuiscano un sindacato anche di tipo esclusivo, non dovrebbe appartenere al giudice speciale. Cosicché – si ritiene qui di dover osservare – davanti al giudice ordinario potrebbero contrapporsi due liti: quella introdotta dall’autorità amministrativa nei confronti del beneficiario illegittimo per il suo concorso nella generazione del risarcito danno e la lite introdotta invece dal medesimo beneficiario che, una volta visto annullato il provvedimento a sé favorevole, potrebbe invocare il risarcimento del proprio danno, nei confronti della amministrazione pubblica, per la lesione della propria buona fede. Le due liti, il cui accoglimento sembra reciprocamente escludente, verrebbero dunque a poggiare sull’individuazione di quale tra i due soggetti fosse effettivamente in buona fede e, a tal riguardo, si deve dubitare che i contorni con cui l’art. 5 del codice descrive la buona fede stessa (in particolar modo la clausola secondo la quale “l’affidamento non si considera incolpevole se l’illegittimità è agevolmente rilevabile in base alla diligenza professionale richiesta ai concorrenti”) possa estendersi alla generalità delle altre fattispecie provvedimentali.
[21] Art. 754 c.c.
[22] Artt. 1129 e 1132 c.c.
[23] Il richiamo all’art. 2055 c.c. era già presente nella citata sentenza Cons. di Stato, VI, 15 ottobre 2012, n. 5279: “Va fatta applicazione di un principio generale dell’ordinamento giuridico (cui si ispira anche l’art. 2055 del codice civile), per il quale vi è la solidarietà anche quando il danno sia stato concausato da due autori del fatto, le cui condotte siano rispettivamente una colposa e una dolosa”.
[24] Art. 2, d. lgs. 31 marzo 2023, n. 36: “L'attribuzione e l'esercizio del potere nel settore dei contratti pubblici si fonda sul principio della reciproca fiducia nell'azione legittima, trasparente e corretta dell'amministrazione, dei suoi funzionari e degli operatori economici”.
[25] Così, l’art. 1 del codice.
[26] Una prima lettura di detto principio, soprattutto con riferimento a nuove accezioni del principio di buon andamento a cui l’art. 1 del codice lo associa, è resa da A.M. Chiarello, Una nuova cornice di principi per i contratti pubblici, Dir. econ., 148 s. Spunti, nel senso qui prospettato, sono proposti anche da G. Napolitano, Il nuovo Codice dei contratti pubblici: i principi generali, Giorn. dir. amm., 2023, 287: “L’affermazione del principio di conservazione dell’equilibrio contrattuale mira a codificare una disciplina generale da applicare per la gestione delle sopravvenienze straordinarie e imprevedibili tali da determinare una sostanziale alternazione nell’equilibrio contrattuale. Si tratta, peraltro, di ipotesi diventate molto frequenti nella congiuntura economica e sociale segnata dalla pandemia e dal conflitto in Ucraina. La relazione dichiara che le soluzioni al problema che nei vari ordinamenti giuridici va sotto il nome di frustration of purpose, Wegfall der Geschäftsgrundlage, imprévision, individuate nel Codice traggono ispirazione dai principi e dalla prassi internazionale dei rapporti commerciali tra privati, in particolare alla disciplina contenuta nei Principi Unidroit e nel Codice europeo dei contratti. Come è stato subito evidenziato da attenta dottrina, la scelta del legislatore di fare riferimento al diritto comune dei contratti commerciali invece che al diritto speciale dei contratti pubblici di altri ordinamenti indica una precisa opzione normativa, nel senso di una tendenziale parificazione della posizione delle parti e addirittura di una tutela rafforzata dell’esecutore anche rispetto a quanto attualmente previsto dal codice civile italiano. Invece della tutela meramente demolitoria apprestata dal codice civile, infatti, il nuovo Codice dei contratti pubblici mira a garantire la sopravvivenza del contratto e la salvaguardia degli interessi economici delle parti. Si intende così conciliare lo speciale interesse dell’amministrazione committente alla continuità delle prestazioni e delle forniture con quello degli operatori alla tutela dell’equilibrio economico-finanziario (a garanzia anche dei loro lavoratori e fornitori)”.
[27] La tesi è riportata anche da M.A. Sandulli, Il contenzioso, cit.: “Come rilevato in altre occasioni, non posso non esprimere serie preoccupazioni per la riferita disposizione, che, se letta nel contesto di un sistema di tutela giurisdizionale che indebitamente privilegia la tutela risarcitoria per equivalente rispetto a quella soprassessoria e caducatoria (in evidente spregio anche alla qualità della prestazione), corre il rischio di ridurre il contenzioso sui contratti de quibus a una controversia tra privati. Il che, oltretutto, farebbe dubitare della ratio della sua attribuzione alla giurisdizione esclusiva al giudice amministrativo, che ha, invece, la sua ragion d'essere nel garantire la “giustizia nell'amministrazione”, a necessaria e imprescindibile tutela dell'effettività dei principi enunciati dall'art. 97 e dalle altre disposizioni costituzionali che regolano e limitano l'esercizio del potere amministrativo”.
[28] In questi termini, espressamente, si era già espressa la citata pronuncia Cons. di Stato, VI, 15 ottobre 2012, n. 5279.
[29] A meno che non si intenda esprimersi, in questo caso, in termini di una sorta di “responsabilità azzoppata”, come pure è stato suggerito, in epoca antecedente al codice dei contratti pubblici, da P. Patrito, La responsabilità solidale dell’amministrazione e del beneficiario del provvedimento illegittimo: profili sostanziali e processuali, Giur. it., 2013, 1428 s. Altro tema è quello di valutare le ragioni di una solidarietà, in senso proprio o improprio, tra la stazione appaltante e il privato beneficiario della aggiudicazione illegittima; se, cioè, essa miri, come è di consueto nella teoria delle obbligazioni, a favorire la scelta del patrimonio aggredibile, da parte del creditore, oppure se si ispiri a una sorta di corresponsabilità nell’esercizio della funzione pubblica (M. Bombardelli, La determinazione procedimentale dell’interesse pubblico, Torino, 1996, 175; P. Patrito, ibidem, il quale ultimo, peraltro, richiama le tesi opposte a detta ultima prospettazione, sostenute da A. Police, La predeterminazione delle decisioni amministrative. Gradualità e trasparenza nell’esercizio del potere discrezionale, Napoli, 1997, 14 e da S. Tarullo, Il principio di collaborazione procedimentale. Solidarietà e correttezza nella dinamica del potere amministrativo, Torino, 2008, 344).
[30] A favore dell’esperibilità dell’azione risarcitoria diretta dell’offerente illegittimamente pretermesso nei riguardi dell’aggiudicatario si esprime, esplicitamente, anche la Relazione di accompagnamento al Codice (pag. 246): “L’innovazione punta a rafforzare la tutela risarcitoria sia del terzo pretermesso, leso dall'aggiudicazione illegittima, il quale può agire direttamente, oltre che nei confronti della stazione appaltante, anche nei confronti dell'operatore economico che, contravvenendo ai doveri di buona fede, ha conseguito una aggiudicazione illegittima; sia della stessa stazione appaltante, che può agire in rivalsa nei confronti di quest'ultimo o dell’eventuale terzo concorrente che abbia concorso con la sua condotta scorretta a determinare un esito della gara illegittimo”.
[31] Il rilievo è stato colto anche da G. Pesce, Le istanze di tutela nel nuovo codice dei contratti pubblici, tra principio dispositivo e interesse pubblico: prime riflessioni, judicium.it, 2023. V. anche P. Patrito, Il nuovo codice dei contratti pubblici - Il nuovo “rito appalti” e il parere di precontenzioso dell’Anac, cit. e P. Tonnara, Le modifiche al “rito appalti e concessioni” a seguito del nuovo Codice dei contratti pubblici, lamministrativista.it, 2013: “Rimane, invece, esclusa dalla giurisdizione amministrativa l'eventuale domanda risarcitoria che un concorrente volesse esperire nei confronti di un altro partecipante alla procedura di affidamento, atteso che “l'art. 103 Cost. non consente di ritenere che il giudice amministrativo possa conoscere di controversie di cui non sia parte una P.A., o soggetti ad essa equiparati”.
Si consideri anche Cass., Ss.Uu., 9 marzo 2020, n. 6690, con riguardo alla domanda di risarcimento introdotta verso il funzionario preposto a un organo svolgente, nella specifica fattispecie, funzioni amministrative: “In tal senso, deve trovare applicazione il principio secondo cui "l'art. 103 Cost., non consente di ritenere che il giudice amministrativo possa conoscere di controversie di cui non sia parte una P.A., o soggetti ad essa equiparati, sicchè la pretesa risarcitoria avanzata nei confronti del funzionario in proprio, cui si imputi l'adozione del provvedimento illegittimo, va proposta dinanzi al giudice ordinario, non ostando a ciò la proposizione della domanda anche nei confronti dell'ente pubblico sotto il profilo della responsabilità solidale dello stesso, stante l'inderogabilità per ragioni di connessione della giurisdizione" (Cass., S.U., 13 giugno 2006, n. 13659).
A tal riguardo (come, segnatamente, messo in risalto da Cass., S.U., 3 ottobre 2016, n. 19677), il presupposto della giurisdizione amministrativa alla luce dell'art. 103 Cost., "è, infatti, che la tutela giurisdizionale coinvolgente le situazioni giuridiche nella giurisdizione di legittimità ed in quella esclusiva debba avere luogo con la partecipazione in posizione attiva o passiva della pubblica amministrazione" o "del soggetto che, pur non facendo parte dell'apparato organizzatorio di essa, eserciti le attribuzioni dell'Amministrazione, così ponendosi come pubblica amministrazione in senso oggettivo".
Il dettato costituzionale - che radica la giurisdizione del giudice amministrativo "nei confronti della pubblica amministrazione" - è confermato dallo stesso codice del processo amministrativo, il cui art. 7, comma 1, riferisce alle "pubbliche amministrazioni" (e in base del medesimo art. 7, al comma 2, anche ai soggetti ad esse "equiparati") l'esercizio del potere suscettibile di incidere sulle posizioni di interesse legittimo e (nelle particolari materie) di diritto soggettivo e, quindi, di attivare la cognizione del giudice amministrativo a tutela di dette situazioni soggettive.
In tal senso, il perimetro della giurisdizione del giudice amministrativo non può estendersi anche alle controversie in cui il potere amministrativo "venga in discussione in quanto esercitato dai soggetti all'Amministrazione legati da rapporto organico, cioè considerandosi il solo dato che il loro agire si è esplicato formalmente come espressione del potere amministrativo".
Il riferimento esplicito e chiaro alle forme dell'esercizio del potere in quanto poste in essere da "pubbliche amministrazioni" evidenzia come "soggettivamente la controversia esige che una delle parti sia la pubblica amministrazione e l'altra il soggetto che faccia la questione sull'interesse legittimo o sul diritto soggettivo”.
[32] È opportuno rammentare che, ai fini della notificazione del ricorso con cui si faccia valere una domanda risarcitoria autonoma, non vale il dimezzamento dei termini previsto dall’art. 120, comma 2, c.p.a., perché esso si applica alle sole domande costitutive di annullamento.
[33] La tesi fu sostenuta da chi scrive anche per contestare la fondatezza della c.d. pregiudiziale amministrativa, in epoca anteriore all’emanazione del codice di rito. Ci si permette, così, di rinviare a F. Volpe, Norme di relazione, norme d’azione e sistema italiano di giustizia amministrativa, Padova, 2004, 388 s.
[34] Peraltro, si prospetterebbe, così, l’ipotesi che rimanga in essere una aggiudicazione illegittima, a favore di soggetto che non avrebbe potuto beneficiarne, in contrasto con i principi ispiratori sostenuti dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di ricorsi (introduttivo e incidentale) reciprocamente escludenti (CGUE, 4 luglio 2013, in C-100/12; CGUE, 5 aprile 2016, in C- 689/13; CUGE, 10 maggio 2017, inC- 131/16; CGUE 5 settembre 2019, in C‑333/18. Il problema del carattere obiettivo del giudizio amministrativo in materia di appalti, quale suggerito da siffatta giurisprudenza sovranazionale (sul punto, v. F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), giustiziainsieme.it, 2020., verrebbe, in tal modo eluso, trasferendo la decisione sostanziale della controversia dal giudice amministrativo al giudice ordinario.
[35] L’ipotesi che la rivalsa presupponga un regresso integrale della stazione appaltante sull’aggiudicatario illegittimo non merita neppure di essere presa in considerazione, al fine di dimostrare la neutralità dell’autorità amministrativa al processo, perché proprio l’integralità del regresso la implica.
[36] L’esistenza di tale figura sembra essere sopravvissuta all’art 21 – nonies, legge 7 agosto 1990, n. 241 anche nelle enunciazioni della giurisprudenza. Così, Cons. di Stato, V, 7 gennaio 2019, n. 130: “In taluni casi però, l’annullamento d’ufficio ha carattere doveroso, nel senso che può essere attivato a fronte di mero vizio di legittimità del provvedimento di primo grado, senza il concorso della sussistenza attuale di un interesse pubblico ulteriore rispetto al mero ripristino della legalità violata: la causa esaminata era per il Tar uno di questi, il caso dell’esecuzione di una decisione del giudice ordinario passata in giudicato che avesse ritenuto illegittimo un atto amministrativo”. Tra gli autori recenti sembra contestare la figura N. Posteraro, Sulla possibile configurazione di un’autotutela doverosa (anche alla luce del codice dei contratti pubblici e della Adunanza Plenaria n. 8 del 2017), federalismi.it., 2017, 6, alla nota n. 11.
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