ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
di Carmine Filicetti
Sommario: 1. La vicenda contenziosa - 2. La decisione – 3. Conclusioni.
1. La vicenda contenziosa
La statuizione del Consiglio di Stato origina da una controversia di natura monitoria, in quanto la società appellata agiva per l’esecuzione del giudicato derivante da un decreto ingiuntivo del Tribunale di Cagliari al fine di ottenere il pagamento di una somma nei confronti di un’azienda sanitaria sarda.
Quanto deciso dal G.O. veniva portato all’attenzione del Tar sardo che, con la sentenza n. 124 del 14 novembre 2018, accoglieva il ricorso, dichiarando l’obbligo della P.A. di provvedere all’esecuzione del giudicato e, per il caso di persistente inadempimento, nominava commissario ad acta[1] il Direttore Generale dell’Assessorato alla Sanità della Regione Sardegna, con facoltà di delega.
Ricevuta la nomina dal Tar, il funzionario pubblico acquisiva la prova dell’avvenuto pagamento di tutte le fatture integranti la sorte capitale del decreto ingiuntivo azionato e ne dava atto con una doppia nota a sua firma.
In sostanza il commissario ad acta, organo straordinario del giudice d’ottemperanza, espletava la sua funzione al fine di assicurare una piena tutela della P.A. oggetto di potere sostitutivo[2].
L’appellata notificava reclamo, affinché il Tribunale disponesse l’integrale esecuzione del decreto ingiuntivo; di contro il commissario ad acta, aveva dichiarato che nulla era più dovuto dall’azienda sanitaria cosicché l’appellata proponeva reclamo, con ricorso ex art. 114 avverso i predetti atti del commissario.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna con la sentenza n. 770 del 30 settembre 2019, accoglieva il ricorso, ritenendo - in conformità alla tesi della ricorrente - irrilevante il pagamento disposto dalla P.A. prima del decreto ingiuntivo.
L’azienda sanitaria soccombente proponeva appello, per ottenere la riforma della sentenza impugnata e il conseguente rigetto integrale del ricorso originario. In particolare, l’appellante articolava i motivi di ricorso in appello nei seguenti termini:
- l’erroneità della sentenza n. 770 del 30 settembre 2019 gravata, in quanto contrastante con il giudicato costituito dal decreto ingiuntivo n. 1443/2017 del Tribunale di Cagliari, la cui esecuzione era oggetto del giudizio di ottemperanza;
- il giudicato non può che essere eseguito attraverso l’esecuzione dei pagamenti in esso previsti, consistente nel pagamento delle fatture poste a base del provvedimento monitorio, ed eseguite dall’Azienda appellante.
2. La decisione
Il giudice di secondo grado, prima di entrare nel merito della questione, svolgeva delle considerazioni di natura preliminare relative alla qualificazione dell’avvenuto incasso, nello specifico si soffermava sull’istituto dell’adempimento parziale dell’obbligazione, ex art. 1176 c.c., ed escludeva l’applicazione di questi al caso de quo in quanto la somma già corrisposta dalla P.A. in alcun modo poteva essere considerata di natura creditoria, sia a titolo di eccezione di compensazione che di altro; tale qualificazione trovava giustificazione in quanto il pagamento del debito risulta rilevante sul piano oggettivo, ed estingue l’obbligazione, anche se effettuato anteriormente alla sentenza che dispone la condanna al pagamento della somma[3].
Inoltre precisava che il requisito oggettivo dell’adempimento è la conformità della prestazione eseguita in relazione alla determinazione della prestazione dovuta che, nella specie, trattandosi di somma di denaro non poteva che consistere nell’esatta corrispondenza della somma versata a quella indicata nel decreto ingiuntivo di cui è stata chiesta l’esecuzione.
Orbene è indubbio che nella sentenza in commento, il giudice amministrativo veniva chiamato ad esercitare una giurisdizione estesa al merito[4], con la conseguenza che l’indagine doveva essere estesa alla propedeutica verifica dell’inadempimento da parte della P.A; invero, non si tratta di sollevare eccezioni che avrebbero dovuto essere illustrate in sede di opposizione al provvedimento monitorio[5], bensì di rimarcare l’insussistenza dell’inadempimento, che costituisce il presupposto indefettibile della stessa ammissibilità del giudizio di ottemperanza, sicché il giudice è stato chiamato a valutare se e quali effetti abbia prodotto sul decreto ingiuntivo non opposto in ragione del successivo contratto transattivo intervenuto tra le parti, trattandosi di una questione preliminare di merito che il giudice è tenuto a risolvere per valutare se sussiste il diritto di agire in via esecutiva al fine di verificare se il diritto incorporato nel decreto ingiuntivo portato in esecuzione era realmente esistente oppure sia venuto meno per il pagamento già eseguito dal debitore, in epoca anteriore al decreto ingiuntivo.
Non a caso, l’avvenuto adempimento della intera somma rileva ipso iure, con la conseguenza che il debitore che ha pagato il suo debito, eseguendo la prestazione dovuta, resterà liberato dal debito non essendo mai giustificata dall’ordinamento una indebita locupletazione sotto qualsiasi forma[6].
Il rimedio generale dell’exceptio doli risponderebbe ad un principio di solidarietà che impone a ciascun contraente di esercitare i propri diritti selezionando, fra più modalità possibili, quella meno incisiva della sfera giuridica altrui, assecondando i canoni portanti del nostro ordinamento di correttezza e buona fede, che impongono al titolare del diritto di astenersi dal porre in essere condotte che, seppur formalmente lecite, si traducono in una lesione del diritto della controparte.
Il giudice si è soffermato a sottolineare come nel rapporto tra il privato e l’amministrazione vi sia l’obbligo dirispettare le norme generali dell’ordinamento civile che impongono di agire con lealtà e correttezza.
Il Collegio si è dunque persuaso del principio per il quale - qualora il creditore abbia ottenuto una sentenza di condanna e in sede di esecuzione e chieda l’esecuzione, senza tenere conto dell’adempimento già effettuato in precedenza – si sia in presenza di un suo comportamento non corretto, che abilita il debitore a chiedere al giudice di esecuzione – sostanzialmente con una exceptio doli - di rilevare il precedente pagamento: una tale difesa, del resto, configura una eccezione in senso lato, dal momento che l’avvenuto pagamento, finanche parziale, può essere rilevato anche d’ufficio, quando emerga dagli atti[7].
L’aver agito in sede giurisdizionale per ottenere dall’amministrazione la totalità della somma dovuta, nonostante la stessa sia stata in precedenza incassata, connota la condotta dei privati per mala fede e scorrettezza e, dunque, il collegio ha ritenuto di accogliere integralmente l’appello condannando l’appellata alle doppie spese di giudizio.
3. Conclusioni
L’attuazione del giudicato ed il delicato rapporto intercorrente tra questo e l’esecuzione dello stesso dinanzi al giudice dell’ottemperanza[8] costituisce, da tempo, occasione di riflessione in ordine alla sua natura e alle divergenze che possono scaturire allorché si tratti di dare compiuta attuazione alle sentenze del giudice civile[9].
In una prospettiva costituzionale, il giudizio di ottemperanza non deve necessariamente modellarsi ed essere inquadrato sul processo esecutivo ordinario, attese le peculiarità funzionali del giudizio amministrativo, che può essere esteso al merito e dotato di potenzialità sostitutive e intromissive nell'azione amministrativa, non comparabili con i poteri del giudice dell'esecuzione nel processo civile.
Pertanto, nel nostro ordinamento, non esiste un principio costituzionalmente rilevante di necessaria uniformità di regole processuali tra i diversi tipi di processo (civile e amministrativo), potendo i rispettivi ordinamenti processuali differenziarsi sulla base di una scelta razionale del legislatore, derivante dal tipo di configurazione del processo e dalle situazioni sostanziali dedotte in giudizio.
In sostanza, il legislatore ha delineato due modelli fortemente diversificati: se da un lato il giudizio d’ottemperanza rappresenta il punto di caduta più avanzato del confronto fra il principio di effettività della tutela e il principio di separazione fra i poteri, dall’altro il giudizio esecutivo richiama in causa, oltre al principio di effettività della tutela, i diritti fondamentali della proprietà sui beni (e i crediti).
Il bilanciamento di tali principi è funzionale all’effettività della tutela giurisdizionale, garanzia riconosciuta dall’art. 24 Cost., che permette di poter agire in giudizio per la tutela dei propri diritti, tutela che ovviamente comprende anche la fase dell’esecuzione forzata[10].
È indubbio che la tutela in sede esecutiva sia componente essenziale del diritto di accesso al giudice: l’azione esecutiva rappresenta uno strumento indispensabile per l’effettività della tutela giurisdizionale poiché risulta essere l’unico mezzo capace di soddisfare le pretese creditorie in mancanza di adempimento spontaneo da parte del debitore.
Tuttavia, la fase di esecuzione coattiva delle decisioni di giustizia, proprio in quanto componente intrinseca ed essenziale della funzione giurisdizionale, deve ritenersi costituzionalmente necessaria, in ragione del fatto che “il principio di effettività della tutela giurisdizionale […] rappresenta un connotato rilevante di ogni modello processuale”[11].
Certamente uno dei casi che viene sottoposto in maniera regolare dinanzi al G.A., riguarda l’attuazione del giudicato contenente l’adempimento dell’obbligazione relativo al pagamento di una somma di danaro, derivante per lo più da provvedimenti di natura monitoria che, nel caso di specie, presenta la peculiare caratteristica di essere stata adempiuta, ratione temporis, dalla P.A. prima del decreto ingiuntivo.
La sentenza in commento è connotata dal particolare aspetto in ordine ai profili cognitori – di regola rimessi al G.O. – che nel caso di specie vengono esercitati dal G.A. il quale, per l’appunto, estende la propria valutazione non solo all’ottemperanza pura e semplice, ma interviene ed estende il suo potere decisorio a delle valutazioni prodromiche utili a verificare se il diritto portato in sede di ottemperanza sia ancora esistente o meno.
La decisione, dunque, ricalca i precedenti giurisprudenziali del Consiglio di Stato che sul punto sono abbastanza fermi nel mantenere inalterato l’orientamento assunto[12].
In virtù della natura del giudizio di ottemperanza, il giudice amministrativo esercita una giurisdizione estesa al merito[13], ove si afferma che rientra nel perimetro della cognizione del giudice dell’ottemperanza valutare se e quali effetti abbia prodotto sul decreto ingiuntivo il successivo contratto transattivo intervenuto tra le parti.
Il dato temporale dell’adempimento dell’obbligazione di pagamento, seppur consente in un primo momento di azionare il processo monitorio non è sufficiente a condannare l’obbligato anche in sede amministrativa, poiché si realizzerebbe di fatto una ripetizione di pagamento.
Non a caso, ove il giudice dell’ottemperanza venga chiamato a risolvere tali questioni questi deve svolgere delle valutazioni preliminari utili a stabilire se sussiste il diritto di agire in via esecutiva, al fine di verificare se il diritto incorporato nel decreto ingiuntivo portato in esecuzione sia attualmente esistente o sia venuto meno per volontà delle parti.
Del resto, l’adempimento parziale rileva ipso iure, con la conseguenza che il debitore che ha pagato in parte il suo debito – se è condannato a pagare il credito per l’intero – resterà obbligato solo per la differenza, non essendo mai consentita dall’ordinamento una indebita locupletazione sotto qualsiasi forma[14].
Deve, dunque, essere dato il giusto risalto ai relativi doveri e comportamenti gravanti reciprocamente su amministrazione e privato.
Sebbene dalla giurisprudenza sia costantemente ricordato, forse in maniera risonante, in riferimento alla condotta tenuta dall’amministrazione, che ai sensi dell’art. 97 Cost. deve agire con imparzialità e in ossequio al principio del buon andamento, anche al fine di ritenere sussistenti forme di responsabilità della stessa[15], tale attenzione grava e deve essere richiesta in maniera parimenti pregnante alla parte privata[16], onerata ad agire secondo le clausole generali di correttezza e buona fede, i cui principali riferimenti normativi si trovano negli articoli 1175 e 1375 del codice civile ai quali, com’è noto, devono essere improntati i rapporti fra i consociati tenuti, ai sensi dell’art. 2 della Costituzione, al rispetto dei doveri inderogabili di solidarietà[17].
A tale scopo e a maggior tutela dei privati, sprovvisti delle competenze necessarie a svolgere valutazioni di tipo tecnico, è certamente invocabile una maggiore cautela da parte dei legali che dovrebbero far desistere la parte assistita ad intraprendere azioni infruttuose in virtù della responsabilità professionale che caratterizza la prestazione d’opera intellettuale, di cui all’art. 2229 c.c., instaurata col proprio cliente.
[1] La dottrina sul commissario ad acta e sul giudizio di ottemperanza è molto vasta, a titolo non esaustivo ma significativo si rinvia ai contributi di: D. Vaiano, Il commissario ad acta nel sistema dei giudizi di ottemperanza, Roma, 1996; G. Orsoni, Il commissario ad acta, Padova, 2001; A. Cioffi, Sul regime degli atti del commissario ad acta nominato dal giudice dell’ottemperanza, in I Tribunali Amministrativi Regionali, 2001, 1, II, p. 1 ss.; V. Caputi Jambrenghi, Commissario ad acta, in Enc. giur., Agg., Vol. VI, Milano, 2002, p. 284 ss.; S. D’Antonio, Il commissario ad acta nel processo amministrativo: qualificazione dell’organo e regime processuale, Napoli, 2012; S. Pignataro, Il commissario ad acta nel quadro del processo amministrativo, Bari, 2019.
[2] Sulle funzioni del commissario ad acta si è espressa l’Ad. plen. 25 maggio 2021 n. 8.
[3] Cons di Stato Sez. IV, n. 3058 del 2021; Cass. civ., sez. I, n. 9912 del 2007.
[4] Cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 12 aprile 2017, n. 1704; sez. IV, 29 agosto 2012, n. 4638; cfr. in particolare, Cons. Stato, sez. V, 4 luglio 2018, n. 4093.
[5] Secondo il pacifico e costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, non è possibile dedurre in sede di opposizione all’esecuzione promossa in base a titolo di formazione giudiziale fatti estintivi, impeditivi o modificativi del diritto azionato anteriori alla formazione del titolo stesso (cfr., fra le tante: Cass. civ., VI, ordinanza 14 febbraio 2020, n. 3716).
[6] Sul diritto ad ottenere la restituzione dell’indebito in caso di doppio pagamento, Cass. civ., Sez. III, 15 febbraio 2019, n. 4528.
[7] Sul principio dell’exceptio doli il Cons. di Stato, sez. V, 22 marzo 2023, nel caso di specie, tratta di una fattispecie in cui si chiede di effettuare al giudice dell’ottemperanza un giudizio di cognizione di merito, non ammesso in quanto il giudicato copre il dedotto ed il deducibile.
[8] Il giudizio di ottemperanza nasceva in stretta correlazione con l’attribuzione al giudice ordinario del potere della disapplicazione. Tale giudizio è, quindi, figlio dell’esigenza di garantire una più incisiva tutela rispetto al provvedimento illegittimo, ma nel rispetto del principio della separazione dei poteri.
L’obbligo di conformarsi al giudicato civile è stato, in origine, concepito come obbligo dell’Amministrazione di annullare l’atto amministrativo disapplicato, annullamento precluso al giudice ordinario in virtù del principio di separazione dei poteri. Nel corso del tempo, dopo che la giurisprudenza ha esteso il rimedio anche alle sentenze del giudice amministrativo, regola oggi contenuta nell’art. 112 c.p.a., il giudizio di ottemperanza ha visto accentuarsi la funzione, strettamente connessa al riconoscimento della giurisdizione di merito, di sostituzione dell’Amministrazione (inottemperante) al fine di assicurare l’adempimento della pronuncia giurisdizionale, pur nella consapevolezza che detta sostituzione non avviene nell’esercizio del potere di cura dell’interesse pubblico attribuito dalla legge, ma solo con riferimento al decisum ottemperando (trovando titolo nella sentenza medesima).
[9] Una precisa ricostruzione in termini unitari dell’istituto dell’ottemperanza, sia con riferimento al giudicato civile sia a quello amministrativo, cfr.: F. Francario, Il giudizio di ottemperanza. Origini e prospettive, in Il Processo, 3/2018, 171-215, Id., Giudicato e ottemperanza, in F. Francario, Garanzia degli interessi protetti e della legalità dell’azione amministrativa, sez. II, Napoli, 2019; F. Taormina, L’ottemperanza al giudicato. La giustizia nell’amministrazione, in Esecuzione civile e ottemperanza amministrativa nei confronti della p.a., Atti dei seminari tenuti presso il Consiglio di Stato (30 novembre 2017) e il Dipartimento di Giurisprudenza della Luiss Guido Carli (6 febbraio 2018), B. Capponi - A. Storto (a cura di), Napoli, 2018, 163-258; A. Storto, Il giudizio di ottemperanza come rimedio alle lacune dell’accertamento, 139 e ss.; A. Police, Giudicato amministrativo e sentenze di Corti sovranazionali. Il rimedio della revocazione in un’analisi costi benefici, 181 e ss; G. Montedoro, Esecuzione delle sentenze CEDU e cosa giudicata nelle giurisdizioni nazionali, 199 e ss.
[10] Corte cost. 22 giugno 2021 n. 128.
[11] Corte cost. 5 dicembre 2018 n. 225.
[12] Nella risoluzione di una vicenda abbastanza analoga il Cons. Stato sez. IV, n. 3058 del 2021 è addivenuto alle stesse conclusioni richiamando i medesimi principi.
[13] Cons. Stato, sez. IV, 12 aprile 2017, n. 1704; sez. IV, 29 agosto 2012, n. 4638; cfr. in particolare, Cons. Stato, sez. V, 4 luglio 2018, n. 4093.
[14] Ex plurimis, sul diritto ad ottenere la restituzione dell’indebito in caso di doppio pagamento, Cass. civ., Sez. III, 15 febbraio 2019, n. 4528.
[15] In generale, Cons. Stato, sez. V, 10 agosto 2018, n. 4912; sez. III, 16 maggio 2018, n. 2920; con specifico riferimento alla responsabilità precontrattuale, Cons. Stato, sez. II, 20 novembre 2020, n. 7237; sez. V, 2 maggio 2017, n. 1979; sez. IV, 23 agosto 2016, n. 3671; Ad. Pl., n. 5 del 2018.
[17] Cfr., Cons. Stato, sez. II, 4 giugno 2020, n. 3537.
di Maria Laura Maddalena
Sommario: 1. Premessa. 1.1. Perché un esame di diritto comparato della materia espropriativa. 1.2. Come è nata l’idea di questa ricerca. 1.3. Panoramica degli elementi comuni e differenziali riscontrati tra i vari Paesi esaminati. 2.1. La disciplina dell’espropriazione in Francia: il procedimento di espropriazione. 2.2. Il controllo del giudice amministrativo sulla dichiarazione di pubblica utilità. 2.3. Il riparto di giurisdizione tra “voi de fait” e “emprise irrégulière”. 2.4. Il superamento del principio di intangibilità dell’opera pubblica e i limiti alla restituzione del bene illegittimamente espropriato. 3.1. L’espropriazione in Spagna: la procedura di esproprio. 3.2. Conseguenze del ritardo nella procedura di esproprio. 3.3. La tutela giudiziaria e il caso di “via de echo”. 4. L’espropriazione per pubblica utilità nel diritto inglese (“Compulsory purchase of land”). 5. L’espropriazione per pubblica utilità in Germania. 6. Conclusioni.
1. Premessa
1.1. Perché un esame di diritto comparato della materia espropriativa.
Un esame di diritto comparato in materia di espropriazione di pubblica utilità, nonostante si tratti di un tema poco studiato in Italia, è tuttavia, ad avviso di chi scrive, di particolare interesse per una molteplicità di ragioni.
In primo luogo, occorre considerare che tutti i Paesi europei sono chiamati a confrontarsi con l’art.1 del Protocollo n. 1 della Convenzione dei diritti dell’uomo e con la giurisprudenza della Corte EDU sul tema. È pertanto sicuramente utile comprendere quali risposte i vari ordinamenti europei abbiano dato su questi temi.
Inoltre, non va dimenticato che la Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea all’art. 17 prevede che nessuno può essere privato della proprietà se non per causa di pubblico interesse, nei casi e nei modi previsti dalla legge e contro il pagamento in tempo utile di una giusta indennità per la perdita della stessa.
La rilevanza di tale previsione, tuttavia, è piuttosto marginale, in concreto.
Infatti, l’art. 51 della Carta prevede che essa si applica agli Stati membri solo se ed in quanto essi agiscano “nell'attuazione del diritto dell'Unione” e l’espropriazione per pubblica utilità non è di per sé materia coperta dal diritto UE[2], ma disciplinata dal diritto interno degli Stati membri. Né, a mente del secondo comma dell’art. 51, la Carta introduce competenze nuove o compiti nuovi per l’UE, modificando le competenze e i compiti definiti dai Trattati.
Pertanto, come ha affermato la Cassazione, “la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, alla luce della clausola di equivalenza sancita dall'art. 52, par. 3, non ha determinato una "trattatizzazione" indiretta e piena della Cedu, la quale è predicabile solo per le ipotesi nelle quali la fattispecie sia disciplinata dal diritto europeo e non già da norme nazionali prive di alcun legame con il diritto dell'Unione europea[3].
Nonostante ciò, è evidente che la presenza di una tale previsione in una fonte così qualificata del diritto dell’Unione non possa non svolgere un ruolo, quanto meno sotto il profilo dell’interpretazione, nella giurisprudenza degli Stati membri, anche quando si controverta di fattispecie regolate solo dal diritto interno, come nel caso della espropriazione finalizzata alla realizzazione di opere pubbliche. Infatti, anche la giurisprudenza della Corte di giustizia UE, quando ha trattato della tutela della proprietà in ambito UE si è sempre ispirata ai Principi costituzionali degli Stati membri.
Infine, una terza ragione, che tuttavia caratterizza tutte le indagini di diritto comparato, si fonda sulla generale constatazione che lo studio delle discipline degli altri Paesi consente spesso all’interprete di meglio comprendere, tramite le differenze e similitudini riscontrate, il proprio ordinamento, come se lo si guardasse da fuori, liberandosi dai condizionamenti della propria tradizione giuridica, anche al fine di prospettare eventuali soluzioni alternative maggiormente efficaci alla prova dei fatti. Peraltro, talvolta – come vedremo – si scopre che gli altri ordinamenti hanno seguito lo stesso percorso argomentativo, pur nell’ambito di diversi riferimenti normativi.
1.2. Come è nata l’idea di questa ricerca.
In questo quadro, la presente ricerca ha preso le mosse da due semplici domande: 1) la CEDU ha riscontrato anche in altri Stati europei, come avvenuto in Italia, casi di violazione dell’art. 1 del protocollo n. 1 per la realizzazione di espropriazioni indirette o di fatto? 2) come si comportano gli altri ordinamenti nel caso in cui vuoi per l’annullamento o per la sopravvenuta inefficacia di un atto della procedura, l’esproprio finisca per essere privato della sua base legale? Viene disposta in questi casi la restituzione del bene al privato o si cercano soluzioni alternative al fine comunque di preservare l’interesse pubblico sotteso al mantenimento in mano pubblica dell’opera ancorché illegittimamente realizzata? In relazione al primo quesito, una semplice disamina delle pronunce CEDU mostra che, a parte alcune risalenti pronunce riguardanti la Grecia (sent. del 24.6.1993, Papamichalopulos e altri c. Grecia) e alcuni casi recenti riguardanti la Turchia (Sarica et Dlaver c. Turchia, 27.10.2010), Romania (caso Vergiu c. Romania, 11.1.2011) il Portogallo (Rolim Comericial s.a. c. Portugal, X sez. 16.4.2013, riguardante appunto un caso di espropriazione di fatto in cui la corte suprema portoghese non aveva ritenuto di poter disporre la restituzione del bene nello stato iniziale poiché la privazione della proprietà perseguiva comunque un obiettivo sociale) in cui la Corte ha ravvisato la violazione del principio di legalità di cui all’art. 1 del protocollo n.1, i casi concernenti l’Italia, se si guarda al recente passato, appaiono sicuramente i più numerosi. Per meglio comprendere le ragioni di questo fenomeno, si è ritenuto di confrontare le procedure di esproprio nei vari Paesi europei, circoscrivendo però questa indagine a Francia, Spagna, Regno Unito e Germania).
Per cercare di dare una risposta al secondo quesito, la ricerca si è concentrata in particolare l’attenzione sui casi in cui, nei Paesi esaminati, si riscontra l’assenza o il venir meno della “base legale” per procedere ad una legittima espropriazione. Si tratta delle ipotesi della c.d. espropriazione indiretta, dove l’amministrazione agisce in via di fatto (voi de fait o via del echo) ovvero ultra vires. Si esamineranno quindi le soluzioni adottate dai vari Paesi europei esaminati in tale ipotesi.
La ricerca è stata effettuata in primo luogo sui testi normativi e giurisprudenziali, in alcuni casi tradotti, e su alcuni studi di diritto di autori stranieri, elencati nella bibliografia.
1.3. Panoramica degli elementi comuni e differenziali riscontrati tra i vari Paesi esaminati.
Si può fin d’ora anticipare che in quasi tutti i Paesi si rinvengono alcuni aspetti simili e altri invece profondamente diversi rispetto alla nostra disciplina dell’espropriazione, che probabilmente possono essere utili al fine di spiegare il minor contenzioso per violazione dell’art. 1 del protocollo 1 della Convenzione rispetto alla situazione italiana:
1) in molti casi, il procedimento si articola in una struttura bifasica: una prima parte relativa alla dichiarazione di pubblico interesse per la realizzazione dell’opera pubblica e una seconda fase concernente il trasferimento della proprietà e la corresponsione dell’indennizzo. Inoltre spesso (ad esempio in Germania e in Spagna) vi è un esplicito raccordo normativo, ben presente anche nel nostro TU dell’espropriazione, con la previa pianificazione urbanistica.
Va invece rilevato che non ho rinvenuto nella mia ricerca profili relativi al tema dei vincoli preordinati all’esproprio e alla loro indennizzabilità.
2) Un aspetto di profonda differenza che si riscontra è che spesso si ha il coinvolgimento dell’autorità giudiziaria già nella fase del trasferimento della proprietà per la determinazione dell’indennizzo e addirittura in alcuni casi per l’adozione del provvedimento di esproprio (come avviene in Francia e in UK) e non solo in funzione di controllo successivo dell’attività amministrativa già esercitata, il che garantisce la corresponsione del pieno ristoro del proprietario espropriato.
3) L’indennizzo è generalmente calcolato in tutti i Paesi esaminati in base al valore di mercato del bene, principio che sicuramente stempera molto l’interesse sotteso alla declaratoria della illegalità dell’esproprio, che invece nel nostro ordinamento, fino a poco tempo fa, costituiva l’unico modo per ottenere un risarcimento pieno.
4) Addirittura in Germania, il valore dell’indennità di esproprio viene maggiorata rispetto al valore di mercato del bene per compensare la circostanza che il trasferimento del bene è avvenuto con una procedura espropriativa. Inoltre, in Francia e in Spagna è prevista la corresponsione di un ristoro monetario aggiuntivo nel caso in cui si siano verificate espropriazioni prive di base legale.
5) Spesso si registra il coinvolgimento degli interessati nella fase preventiva della procedura espropriativa, mediante strumenti di inchiesta pubblica o dibattito pubblico (Francia, Gran Bretagna, Germania), spesso con un contraddittorio non meramente scritto, come avviene in Italia, ma anche in forma di incontro pubblico, il che probabilmente facilita la risoluzione anticipata di possibili controversie.
6) Si prevede come regola il pagamento dell’indennizzo debba avvenire prima che l’amministrazione entri in possesso del bene, anche se poi ad esempio in Spagna e Francia, come in Italia ed anche in Germania, è possibile per l’amministrazione entrare in possesso del bene in via d’urgenza, salvo deposito di quanto offerto in pagamento.
7) È frequente il ricorso a commissione di tecnici ed esperti per determinare il valore del bene da espropriare (in Spagna, Regno Unito e Germania);
8) sono efficacemente favorite (soprattutto in Germania e nel Regno Unito) forme di negoziazione con i proprietari da espropriare per giungere ad un negozio traslativo della proprietà del bene, con conseguente deflazione del contenzioso.
9) Un aspetto comune al nostro ordinamento e che caratterizza, dal punto di vista processuale, quasi tutti i Paesi esaminati ( con l’eccezione della Spagna) è che il sindacato sugli atti della procedura espropriativa appartiene al giudice amministrativo ove esistente (o al giudice specializzato per la pubblica amministrazione come in Inghilterra e Galles come l’Hight Court), mentre le questioni sulla determinazione dell’indennizzo sono di spettanza del giudice ordinario (Lands Tribunals in UK e giudice ordinario in Francia e Germania).
10) Altro aspetto comune quanto meno all’ordinamento francese e inglese (oltre che italiano) sempre dal punto di vista processuale è che laddove si rinvenga l’esercizio da parte della amministrazione di una attività materiale di impossessamento del bene privato, che non risulti collegata in alcun modo con l’esercizio del potere (voi de fait, ultra vires, ecc.) il giudice ritenuto competente è quello ordinario. Viceversa in tutti i casi in cui sussista un collegamento con l’esercizio del potere (anche solo con riferimento all’intervenuto annullamento di atti della procedura espropriativa) il giudice resta quello amministrativo.
Cercherò dunque di illustrare per ciascuno di questi Paesi i tratti salienti della procedura di espropriazione, mettendo in risalto, ove possibile, le più rilevanti pronunce delle CEDU intervenute in materia nei confronti dei vari Paesi.
2.1. La disciplina dell’espropriazione in Francia: il procedimento di espropriazione. L’espropriazione per causa di pubblica utilità in Francia è disciplinata dal “Code de l’expropriation pour cause de utitlité publique”, composto, come il nostro testo unico sull’espropriazione, da una prima parte composta da norme di rango legislativo e da una seconda parte da norme regolamentari, che si occupano dei profili di dettaglio. Tali norme regolamentari però nell’ordinamento francese sono emanate dal Conseil d’Etat.
Il principio previsto dal codice civile francese (articolo 545), che risale alla dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789, è che: "nul ne peut être contraint de céder sa propriété, si ce n’est pour cause d’utilité publique et moyennant une juste et préalable indemnité". “Nessuno può essere costretto a cedere la sua proprietà se non per una causa di utilità pubblica e per mezzo di una giusta e preventiva indennità.”
Va subito detto che le condanne nei confronti della Francia per mancato rispetto della Convenzione EDU sono poche[4] e non risulta che la Francia sia stata invitata a modificare la disciplina della espropriazione per conformarsi ai principi del diritto europeo o convenzionale.
La procedura espropriativa, sin dal 1810, è distinta in due fasi: una amministrativa, durante la quale viene dichiarata la pubblica utilità dell'opera e la trasferibilità dei beni, l'altra giudiziale che dà luogo, in assenza di accordo bonario, al trasferimento della proprietà e all’indennizzo dei proprietari. Il modello napoleonico bifasico, pure con varie modifiche, si è mantenuto attraverso i secoli.
Il Code de l’expropriation prevede, come primo atto della procedura, la dichiarazione di pubblica utilità, che deve essere adottata all’esito di una previa “enquête publique”, vale a dire di una inchiesta pubblica, effettuata da un commissario o da una commissione di inchiesta, nella quale si perviene, nel contraddittorio con i proprietari, alla dichiarazione di pubblica utilità dell’opera.
Vi sono due tipologie di inchiesta pubblica, quella di diritto comune, relativa alla realizzazione di opere non suscettibili di incidere sull’ambiente, della durata di minimo 15 giorni, e quella finalizzata alla realizzazione di opere che per la loro natura, localizzazione o dimensione sono suscettibili di avere un impatto negativo sull’ambiente o sulla salute umana, della durata di almeno un mese. In questo secondo caso, il progetto dell’opera deve essere accompagnato da uno studio di impatto ambientale.
I risultati dell’inchiesta pubblica sono comunicati a tutti i soggetti interessati.
La dichiarazione di pubblica utilità, adottata all’esito dell’”enquête publique”, deve contenere e motivi e le giustificazioni che del carattere di utilità pubblica dell’opera e può essere impugnata dinanzi al giudice amministrativo nel termine di due mesi dalla sua pubblicazione.
Essa deve pervenire entro un anno dalla chiusura dell’inchiesta pubblica.
La validità della dichiarazione di pubblica utilità non può eccedere i 5 anni oltre i quali (in mancanza di proroga, se il trasferimento non ha avuto luogo si deve procedere con una nuova dichiarazione di pubblica utilità.
Il provvedimento è adottato di norma dal Prefetto o dal Ministro, tuttavia va sottolineato che un decreto del Conseil d’Etat individua le categorie di lavori e di opere che devono essere dichiarate di interesse pubblico dallo stesso Conseil d’Etat. (si tratta di autostrade, aeroporti, canali di navigazione, creazione o prolungamento di linee ferroviarie nazionali di lunghezza superiore a 20 km, centrali elettriche, ecc. ovvero di tutte le opere di maggiore rilevanza).
Accanto all’inchiesta pubblica vi è l’”enquête parcellaire” volta alla determinazione esatta delle particelle da espropriare.
Questa fase serve ai proprietari per sapere esattamente che essi rischiano di essere assoggettati alla procedura espropriativa e serve inoltre a raccogliere tutte le informazioni utili su eventuali inesattezze catastali al fine di identificare con certezza gli attuali proprietari.
L’inchiesta particellare si conclude con il decreto prefettoriale di espropriabilità, che può essere impugnato dinanzi al giudice amministrativo entro due mesi da ciascun proprietario.
La seconda fase della procedura concerne il trasferimento di proprietà, che può avvenire o su accordo delle parti o in via autoritativa, mediante un’ordinanza pronunciata non dall’amministrazione ma dal giudice dell’espropriazione, designato nell’ambito dei magistrati appartenenti al Tribunal de grande istance, il quale appartiene all’ordine giudiziario e non è un giudice amministrativo.
Un aspetto interessante è che l’ordinanza di espropriazione determina il trasferimento della proprietà ma, secondo quanto affermato dal Conseil constitutionnel sin dalla decisione del 25 luglio 1989 e recepito dal codice dell’espropriazione, l’immissione in possesso da parte dell’amministrazione è subordinata al fatto che l’indennizzo di esproprio sia stato pagato. [5]
In casi di urgenza (art. 15.9 del Code de l’espropriation), tuttavia, il giudice può fissare l’indennizzo o un ammontare provvisionale di esso e disporre immediatamente l’immissione in possesso, in cambio del pagamento dell’indennizzo[6].
L’ordinanza di trasferimento della proprietà, essendo un provvedimento di natura giurisdizionale, può essere impugnata solo per ricorso per Cassazione per i vizi di incompetenza, eccesso di potere e vizio di forma.
In assenza di accordo tra le parti, il giudice dell’espropriazione determina anche l’indennizzo dovuto. Questa determinazione può essere impugnata dinanzi alla Corte d’appello, la cui decisione è suscettibile ancora di ricorso per Cassazione.
L’indennizzo, come afferma costantemente il Conseil constitutionnel, deve coprire interamente il pregiudizio diretto, materiale e certo causato dall’espropriazione. Vanno inoltre risarcite le spese accessorie (spese per l’acquisto di un bene analogo, spese per lo spostamento dell’impresa in un altro sito, ecc.).
Il pregiudizio morale, invece, non è indennizzabile (così il Conseil costitutionnel, sent. del 21.1.2011). Su tale limitazione tuttavia si è espressa negativamente la Corte europea dei diritti dell’uomo. (CEDU, 11 aprile 2002, Ricc. 46044/99, prec.).
Per la determinazione del valore degli immobili il giudice può anche nominare un esperto. Dovrà essere preso in esame sia la consistenza del bene che l’uso effettivo al quale esso adibito. Per la determinazione del valore deve farsi riferimento alla data dell’ordinanza che trasferisce la proprietà.
Nella procedura di determinazione dell’indennizzo, è prevista l’audizione delle parti e del direttore dei servizi fiscali, che svolge le funzioni di Commissario del Governo dinanzi al giudice dell’espropriazione. Egli garantisce gli interessi economici dello Stato e degli enti pubblici e può fare appello.
Nel caso Yvon contro Francia, deciso dalla CEDU con sentenza del 24.04.2003, si è posta la questione di compatibilità di questa figura con l’art. 6 della Convenzione. La Corte ha ritenuto che la presenza del funzionario pubblico del procedimento giurisdizionale, dotato di particolari competenze e di informazioni maggiori, a fianco dell’amministrazione espropriante, costituisse una lesione del principio di parità delle parti, attribuendogli una posizione dominante, idonea ad influire sulla decisione del giudice, e ha quindi ravvisato una violazione dell’art. 6 della Convenzione[7].
L'articolo L. 13-17 del codice di espropriazione prevede che l'importo dell'indennità principale, fissato dal giudice dell'espropriazione, "non può superare la stima effettuata dal servizio dei beni o quella risultante dal parere emesso dalla commissione di operazioni immobiliari, se un trasferimento gratuito o a pagamento, meno di cinque anni prima della data della decisione sul trasferimento di proprietà, ha dato luogo a un accertamento amministrativo reso definitivo ai sensi della normativa tributaria o a una dichiarazione di importo inferiore a tale stima". L'obiettivo perseguito da tali disposizioni è quello di dissuadere i proprietari che hanno sottovalutato il loro patrimonio nell'ambito delle loro dichiarazioni fiscali o negli atti di trasferimento, a sopravvalutarli in un secondo momento nel caso in cui siano oggetto di una procedura di espropriazione. In una decisione del 20 aprile 2012, il Consiglio costituzionale ha ritenuto tali diposizioni conformi a Costituzione, in quanto il legislatore persegue il fine di evitare frodi fiscali. In ogni caso però il giudice dell’espropriazione dovrà tener conto dell’andamento del mercato, cosicché permane in capo ad esso un margine di apprezzamento discrezionale.
Solo dopo un mese dal pagamento dell’indennizzo o la consegna in deposito di detta somma, in caso di rifiuto di ricevere il pagamento, il giudice dispone l’immissione in possesso del bene. Entro un mese gli occupanti sono tenuti a lasciare libero l’immobile, altrimenti il giudice dell’espropriazione può disporre la loro espulsione. Se dopo 5 anni, gli immobili espropriati non sono stati adibiti allo scopo previsto o hanno cessato di essere usati per questi fini, i precedenti proprietari possono chiedere la retrocessione, nel termine di 30 anni.
I tratti salienti della procedura di esproprio in Francia sono dunque in primo luogo il coinvolgimento dell’autorità giudiziaria (il giudice dell’espropriazione) nella fase di determinazione dell’indennizzo e nell’adozione dell’ordinanza di trasferimento del bene, nonché per l’immissione in possesso.
Vi è dunque un presidio giudiziario a tutela del diritto di proprietà mentre secondo la nostra Costituzione l’intervento obbligatorio del giudice in via preventiva è solo previsto in caso di lesione delle libertà fondamentali.
Va tuttavia rilevato che il giudice in questa fase non pronuncia previo contraddittorio ma solo verificando la sussistenza della dichiarazione di pubblica utilità e dell’ordinanza di trasferibilità dei beni e di tutti i presupposti di legge.
Nella sua decisione del 12 maggio 2012, il Consiglio costituzionale ha tuttavia ritenuto che le disposizioni in esame non pregiudichino le esigenze di un giusto ed equo procedimento derivanti dall'articolo 16 della Dichiarazione del 1789, anche se la procedura di trasferimento della proprietà non è contraddittoria, il Consiglio ha rilevato che il giudice si limita esclusivamente a verificare che il fascicolo trasmessogli dall'autorità espropriatrice sia costituito secondo le prescrizioni del codice degli espropri. Esistono, inoltre, altri rimedi, contro la dichiarazione di pubblica utilità e il decreto di trasferibilità e contro lo stesso provvedimento di esproprio che possono essere impugnati mediante ricorso in Cassazione[8].
Altro profilo rilevante è che il pagamento dell’indennizzo deve sempre precedere l’immissione in possesso del bene da parte dell’amministrazione o l’acquisto della proprietà.
Infine, un aspetto di enorme interesse è il ruolo centrale svolto dal Conseil d’Etat nella fase di adozione della dichiarazione di pubblica per le opere di maggiore impatto e comunque il forte sindacato da parte del giudice amministrativo su tale atto, quando esso viene adottato dal Ministro o dal prefetto.
2.2. Il controllo del giudice amministrativo sulla dichiarazione di pubblica utilità (segue). Il giudice amministrativo francese esercita un controllo approfondito sulla legittimità della dichiarazione di pubblica utilità, in quanto deve verificare:
– che l’operazione risponda ad una finalità di interesse generale;
– che l’espropriazione costituisca l’unico modo per realizzare l’operazione, non essendoci altre possibilità alternative (clausola di sussidiarietà);
– che gli inconvenienti di ordine sociale, i costi economici e le lesioni della proprietà privata non siano eccessivi rispetto all’interesse generale che l’operazione soddisfa (bilanciamento) (arret Commune de Lavallois –Perret, CE19 ottobre 2012).
La teoria del bilanciamento degli interessi è stata elaborata dal CE nel 1971 (arret Ville Novel Est, 28 maggio 1971). Si tratta di un controllo sulla discrezionalità amministrativa avente un’incidenza massima, consentendo al giudice di sostituire il suo apprezzamento a quello dell’amministrazione. Nella pratica, tuttavia, quasi mai il giudice ritiene che gli inconvenienti per la proprietà privata siano eccessivi rispetto ai vantaggi pubblici, a parte i casi di sproporzione manifesta.
Si rinvengono invece casi in cui è stata ritenuta affetta da detournement de povuoir una dichiarazione di pubblica utilità la cui finalità principale sia stata unicamente di favorire l’interesse privato (ad es. facilitare l’accesso ad una proprietà privata, la creazione di un centro ippico privato, ecc.).
2.3. Il riparto di giurisdizione tra “voi de fait” e “emprise irrégulière”. Come si è visto, la procedura di esproprio vede il giudice amministrativo come giudice della dichiarazione di pubblica utilità mentre il giudice dell’espropriazione, che appartiene all’ordine giudiziario ordinario, è competente sulla determinazione dell’indennizzo e pronuncia l’ordinanza di trasferimento della proprietà. Il giudice ordinario ha tuttavia anche giurisdizione in caso di voie de fait (via di fatto) che viene definito come un attentato ad una libertà fondamentale o al diritto di proprietà quando l’atto o il comportamento dell’amministrazione sia manifestamente insuscettibile di essere ricollegato ad un suo potere. (Il verbo usato è “rattacher” che vuol dire letteralmente riattaccare.)
L’ipotesi più semplice è quella in cui l’amministrazione decida di impossessarsi di un terreno senza giustificazione di un titolo e senza utilizzare le vie legali dell’espropriazione (Cour de Cassation, 30 novembre 1994, arret San Ferréol –d’Aurore).
In realtà, tuttavia, le ipotesi in cui è stata riconosciuta una voi de fait ( e dunque la giurisdizione ordinaria) sono molto rare.
Infatti, la giurisprudenza della Cour de Cassation e del Coinseil d’Etat ha elaborato la figura della “emprise irrégulière”, la quale riguarda solo le lesioni della proprietà privata immobiliare e si rinviene nei casi in cui l’impossessamento di un terreno privato da parte di un’amministrazione pubblica sia avvenuto sì in modo irregolare, ma è tuttavia possibile rinvenire un collegamento con l’esercizio del potere.
In questi casi, la giurisdizione spetta al giudice amministrativo.
La prima distinzione tra voi de fait e emprise irrégulière si trova in un arrêt della Cour de Cassation del 1996 (SCI Azul residence, 7 maggio 1996). Il caso riguardava la presa di possesso di un terreno espropriato in virtù di un’ordinanza di esproprio che poi era stata cassata. La Corte ha rilevato che sebbene in via di principio l’annullamento dell’ordinanza abbia effetto retroattivo e che, pertanto, l’apprensione del bene avrebbe dovuto essere considerato come voit de fait, tuttavia un’analisi più pragmatica deve indurre a considerare che al momento della presa di possesso del bene, l’impossessamento risultava in effetti autorizzato, il che ha come conseguenza che questa attività si ricollegava all’esercizio di un potere dell’amministrazione.
Di contro, la Cour de Cassation ha ritenuto che vi fosse voi de fait in un caso di costruzione di un canale sulla proprietà privata realizzata senza titolo, sulla base di reiterate autorizzazioni di occupazione temporanea, finalizzate solo a consentire il deposito dei materiali di scavo e a permettere la circolazione dei macchinari (Demaine immobilizer de la Muette, 5 maggio 2010).
Il Tribunal des conflicts, in una storica pronuncia del 6 maggio 2002 (arrêt Binet), ha affermato in particolare che la competenza del giudice ordinario per voi de fait si rinviene in assenza di alcun collegamento con l’esercizio del potere e quando nessuna procedura di regolarizzazione sia stata avviata. In tutti gli altri casi non si ha la voi de fait ma una “emprise irrégulière”.
Un’interpretazione ulteriormente restrittiva della voi de fait è stata prospettata sempre dal Tribunal des conflicts nella sentenza del 17 giugno 2013 (arrêt Bergoend), che ha stabilito che essa si può ravvisare solo quando oltre alla mancanza di collegamento con l’esercizio del potere e della procedura di regolarizzazione, vi è anche l’estinzione del diritto di proprietà. L’uso della parola estinzione è significativa e va a sostituire la precedente espressione più ampia di “privazione”.
Nel caso di specie, il Tribunale ha affermato che l’installazione, anche senza titolo, di un'opera pubblica sul suolo di un privato non costituisce un atto manifestamente insuscettibile di essere collegato a un potere che l'amministrazione ha.
Si trattava della realizzazione di un’opera pubblica di distribuzione di energia elettrica, che non è qualificabile come un atto manifestamente non ricollegabile ad un potere dell'ente incaricato del pubblico servizio e non comporta, inoltre, l'estinzione di un diritto di proprietà. In questi casi, dunque, è stato affermato che la giurisdizione spetta al giudice amministrativo.
Più di recente, nella sentenza del 15 dicembre 2016 , anche la Corte di Cassazione francese ha ribadito che va ricondotta alla voi de fait quella aggressione al diritto di proprietà che, oltre a non essere ricollegabille all’esercizio di un pubblico potere ne comporta l’estinzione.
Le parole della nostra Corte cost. nella sentenza n. 204/2004 e soprattutto nella sentenza n. 191/2006 sul collegamento all’esercizio del potere e sulla distinzione tra comportamenti meri e comportamenti amministrativi, ricollegabili sia pure mediatamente all’esercizio del potere, ai fini del riparto di giurisdizione, sembrano proprio riecheggiare un tale modo di ragionare, espresso quasi dieci anni prima dalla Cour de Cassation francese.
Nell’ordinamento francese, né a seguito di voi de fait nè in caso di emprise irreguliere vi è trasferimento del diritto di proprietà dal privato alla pubblica amministrazione.
Il problema tuttavia si pone quando l’opera pubblica risulti nel frattempo essere stata realizzata.
2.4. Il superamento del principio di intangibilità dell’opera pubblica e i limiti alla restituzione del bene illegittimamente espropriato.
La giurisprudenza francese ha dovuto affrontare una tematica identica a quella che in Italia ha condotto in passato alla elaborazione dell’istituto di cui all’art. 42 bis TU espropriazioni.
Dopo aver in un primo tempo elaborato anche in Francia la figura della espropriazione indiretta, la giurisprudenza francese è però poi giunta al superamento dell’originario principio della intangibilità dell’opera pubblica ma con opportuni temperamenti, in modo da tutelare comunque l’interesse pubblico. Le somiglianze con l’elaborazione giurisprudenziale e normativa italiana sono notevoli, soprattutto – come si vedrà tra breve – laddove la valutazione circa la restituzione dell’opera viene ricollegata alla esistenza di procedure di regolarizzazione o sanatoria ex post, ma quello che emerge è che l’approccio francese appare tutto sommato ispirato ad una logica di buon senso, che la CEDU non ha fino ad ora mostrato di censurare.
Vediamo più in dettaglio l’evoluzione della giurisprudenza francese sul punto. Occorre partire dall’art. 17 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, il quale protegge la proprietà come diritto sacro e inviolabile, del quale nessuno può essere privato se non quando la necessità pubblica, legalmente dichiarata, lo esiga in modo evidente e a condizione di una giusta e predeterminata indennità. Si tratta di una formulazione che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo ha sostanzialmente richiamato. Una espropriazione dunque non può essere legittima se l’opera per la quale essa è effettuata non presenta i caratteri della utilità pubblica. Il giudice della utilità pubblica, come si è già detto, è il giudice amministrativo, dinanzi al quale va impugnata la dichiarazione di pubblica utilità.
Cosa accade nel caso in cui la dichiarazione di pubblica utilità sia annullata? La giurisprudenza risalente aveva elaborato in questi casi, in applicazione del principio della intangibilità dell’opera pubblica, inaugurato nel 1853 (Conseil d’Etat, caso Robin de Grimaoudière 7.6.1853), la teoria della expropriation indirecte, con effetti analoghi alla nostra acquisizione invertita. In sostanza, il giudice si rifiutava di disporre la demolizione dell’opera pubblica ancorché edificata su terreni privati non regolarmente indennizzati, ma fissava invece l’ammontare dell’indennizzo dovuto e disponeva il trasferimento della proprietà dei terreni alla amministrazione.
A seguito di alcune pronunce della CEDU (sent. del 24.6.1993, Papamichalopulos e altri c. Grecia), la giurisprudenza francese ha abbandonato la teoria della espropriazione indiretta (Cour de cassation, arret 6.1.1994 Cts Baudon de Mony c/EDF).
Permaneva però di fatto il principio di intangibilità dell’opera pubblica, cosicché veniva negata la restituzione del bene e il proprietario aveva solo diritto ad una specifica indennità, senza poter ottenere la restituzione in natura (Cour de Cassation, arret Bergerioux, 4.4.2002).
Un primo problema che ha affrontato la giurisprudenza francese in questi casi riguarda l’individuazione del giudice competente quando sia richiesta la demolizione o lo spostamento dell’opera pubblica illegittimamente realizzata.
Fu il Tribunal des confilcts che, nel disciplinare il riparto di competenza tra giudice amministrativo e ordinario in un caso, già citato sopra (l’affaire Binet, 6.5.2002), avente ad oggetto il rifiuto dell’amministrazione di distruggere o spostare un’opera pubblica, nell’affermare la sussistenza della giurisdizione amministrativa, a meno che l’opera pubblica non sia stata edificata in voie de fait, ovvero in mancanza di alcun atto che possa in alcun modo riconnettersi all’esercizio di un potere pubblico e nessuna procedura di regolarizzazione sia stata iniziata. In questo secondo caso, infatti, la competenza sarebbe del giudice ordinario.
Dunque il collegamento con l’esercizio del potere e l’avvio di una procedura di regolarizzazione radicano la giurisdizione amministrativa sulla domanda di restituzione del fondo illegittimamente trasformato dalla costruzione dell’opera pubblica.
Il Conseil d’Etat, tuttavia, nel 2003 (arret del 29.1.2003 Syndacat Dipartimental de l’elecrticité et du gaz) ha adottato una interpretazione leggermente differente da quella del Tribunal des conflicts nel caso Binet. Infatti, ha ritenuto di dover prendere in considerazione, ai fini del riconoscimento della propria giurisdizione, non solo se un’attività di regolarizzazione fosse stata avviata ma anche se essa fosse semplicemente possibile; mentre per la Cour de Cassation e per il Tribunal des conflicts occorre che la procedura di regolarizzazione non solo esista ma sia anche stata effettivamente iniziata.
A seguito della pronuncia Binet, il giudice amministrativo francese si è visto riconoscere una competenza generale in materia di azioni di demolizione o di spostamento di opere pubbliche consequenziali all’annullamento della dichiarazione di pubblica utilità, essendo le fattispecie di competenza del giudice ordinario di voi de fait – come si è visto - molto rare. (In questi casi, infatti, anche la competenza sulla domanda di demolizione dell’opera pubblica illecitamente realizzata spetterebbero al giudice ordinario.)
Successivamente, la giurisprudenza – mutando rispetto al precedente orientamento tradizionale sostenuto nell’arrêt Binet - ha ritenuto compente il giudice amministrativo anche per la domanda di risarcimento del danno, in modo che possa disporre sia la rimozione dell’emprise irrégulière sia la riparazione pecuniaria.
Inoltre, nella stessa sentenza del 29 gennaio 2003 (Syndacat départemental de l’électricité ed du gaz des Alpes maritimes), il Conseil d’Etat ha sottolineato che il giudice nel decidere se ordinare o meno la demolizione di un’opera pubblica debba anche prendere in considerazione da una parte gli inconvenienti che la presenza dell’opera provoca per il proprietario del terreno e l’altra parte le conseguenze per l’interesse generale della demolizione, e deve valutare quindi se, nella comparazione tra i vari interessi, la demolizione dell’opera pubblica non costituisca una misura eccessiva per l’interesse generale.
Il Consiglio di Stato nella citta sentenza ha dettato il "protocollo pretorio" dell'azione per la demolizione di un'opera pubblica irregolarmente ubicata su proprietà privata.
Secondo questo protocollo, spetta al giudice amministrativo:
1) verificare se sia possibile la regolarizzazione mediante sanatoria dell'opera pubblica;
2) in caso contrario, effettuare una valutazione costi benefici e consentire la demolizione dell'opera pubblica nella misura in cui " non comporti un eccessivo pregiudizio all'interesse generale".
Per fare questo, deve tener conto degli svantaggi della presenza della struttura per i proprietari del fondo e delle conseguenze della demolizione per l'interesse generale.
Può dunque affermarsi che se il principio della intangibilità dell’opera pubblica più dirsi in teoria superato, tuttavia le condizioni perché un ordine di demolizione di un’opera pubblica sia effettivamente emanato dal giudice amministrativo, con restituzione del terreno al privato illegittimamente espropriato, sono effettivamente molto restrittive. Inoltre, non sembra tale ipotesi discostarsi molto da quella censurata dalla CEDU in numerose pronunce contro l’Italia.
Va tuttavia rilevato che in taluni casi (ad esempio nel 2011) il Conseil d’Etat, dopo aver annullato la dichiarazione di pubblica utilità, ha effettivamente ordinato la distruzione di un opera pubblica irregolarmente edificata (un porto turistico) e la remissione in pristino dello stato dei luoghi, ma per la verità, non tanto al fine di tutelare l’interesse dei proprietari bensì in considerazione dell’interesse pubblico alla preservazione di uno spazio naturale fragile e al mantenimento della biodiversità (arrêt Communauté d’agglomentation du lac de Bourget del 20.5.2011).
Un altro caso di enorme interesse da segnalare, anche per la sua sorprendente coincidenza anche temporale con un’analoga decisione del nostro Consiglio di Stato di annullamento non retroattivo, riguarda l’annullamento della dichiarazione di pubblica utilità per la realizzazione di un eliporto presso l’ospedale di Laon per vizi di procedura.
In questa decisione, il Consiglio ha ritenuto che l’annullamento retroattivo della dichiarazione di pubblica utilità avrebbe provocato un danno eccessivo al servizio di aiuto medico urgente e pertanto ha ritenuto di disporre l’annullamento della dichiarazione di pubblica utilità a decorrere da un termine di sei mesi dalla pubblicazione della sentenza, in modo da consentire nel frattempo l’adozione di una nuova dichiarazione di pubblica utilità immune dai vizi procedurali riscontrati (Conseil d’Etat 19.7.2011).
Nel 2005 è stata introdotta una nuova norma nel codice dell’espropriazione (art. 223.2) secondo la quale, una volta che il giudice amministrativo ha annullato in modo definitivo una dichiarazione di pubblica utilità o un decreto di espropriabilità, il proprietario espropriato può far constatare al giudice dell’espropriazione l’assenza di base legale per il trasferimento di proprietà.
La norma prevede che i soggetti espropriati possono chiedere al giudice l’accertamento della circostanza che il trasferimento della proprietà è avvenuto senza base legale e domandare il suo annullamento.
Il giudice amministrativo constata l’assenza di base legale per il trasferimento di proprietà e statuisce sulle conseguenze dell’annullamento di esso.
Le parti saranno dunque convocate davanti al giudice insieme al commissario del Governo Il proprietario potrà quindi ottenere, se è possibile, la restituzione dell’immobile ovvero il pagamento dei danni.
In ogni caso deve essere pagata all’espropriato una specifica indennità per il pregiudizio causato dall’operazione irregolare.
In conclusione, possiamo dire che il percorso giurisprudenziale francese non appare aver seguito vie tanto dissimili da quelle seguite dalla Corte costituzionale e dai giudici italiani né per quanto riguarda il riparto di giurisdizione né in relazione alla soluzione da adottare in caso di domanda di restituzione di terreni su cui siano state realizzate, in modo illegittimo, opere di interesse pubblico. L’unica differenza che appare rilevante, e che forse è la ragione per cui non si rinvengono sostanzialmente condanne da parte della CEDU nei confronti della Francia come invece è avvenuto per l’Italia, appare la circostanza che – forse in maniera più pragmatica – il giudice francese ha abbandonato subito la costruzione teorica della espropriazione indiretta e ha rimesso direttamente all’autorità giudiziaria, anziché alla stessa amministrazione mediante un procedimento successivo ai sensi dell’art. 42 bis Tu espropriazioni, la decisone circa la possibilità o meno di disporre la restituzione del bene illegittimamente trasformato dalla amministrazione con la realizzazione dell’opera pubblica, previa regolarizzazione della procedura.
3.1. L’espropriazione in Spagna: la procedura di esproprio. La disciplina dell’espropriazione in Spagna è forse quella più simile alla disciplina italiana. La legge sull’espropriazione forzata risale al 1954 e tuttavia è stata più volte modificata, anche di recente.
Il Tribunale costituzionale ha ritenuto la sua compatibilità con la costituzione del 1978, che all’art. 33, dopo aver statuito la “funzione sociale” della proprietà (usando le stesse parole del nostro art. 42 Cost), al comma 3 recita: “nessuno può essere privato dei suoi beni e diritti se non per causa giustificata di utilità pubblica o di interesse sociale, previa corresponsione dell’indennizzo e in conformità con il disposto delle leggi”. Il pagamento del giusto prezzo (justiprecio) non necessariamente deve essere preventivo, ammettendosi anche le espropriazioni di urgenza.
Per la legge spagnola, il “justiprecio” deve garantire una compensazione integrale della perdita patrimoniale subita dall’espropriato. Esso pertanto deve essere in grado di consentire all’espropriato di sostituire il bene espropriato con un altro avente le stesse caratteristiche e pertanto deve essere calcolato al valore di mercato.
Il momento cui far riferimento per la determinazione del valore del bene è quello in cui inizia il procedimento di esproprio, con irrilevanza di successivi mutamenti di prezzo. Per la determinazione del justiprecio non vanno considerati il valore sentimentale o affettivo, tuttavia alla somma così definita si aggiunge un “premio del afecciòn” pari al 5% dell’importo del justiprecio.
Vanno anche indennizzate le perdite e i danni derivanti dall’attività di esproprio. Per esempio, in caso di espropriazione di un negozio, il valore dell’indennizzo comprenderà non solo il valore del locale ma anche la perdita della clientela ecc.
La procedura di espropriazione è molto simile a quella della legge italiana. Il primo requisito è la previa dichiarazione di utilità pubblica o di interesse sociale. Questa è di norma contenuta in una legge in forma generica ed è implicita nell’approvazione dei piani di realizzazione di opere pubbliche.
Essa necessita quindi di una specificazione che si effettua mediante una dichiarazione di necessità dell’occupazione che specifica nel dettaglio beni e diritti concreti che si intendono espropriare, i quali devono essere solo e soltanto quelli indispensabili per il perseguimento del fine e che siano idonei dal punto di vista tecnico e sociale per il conseguimento del fine pubblico.
È su questi parametri che viene svolto il controllo di legalità mediante il ricorso al giudice del contencioso adminstrativo (la Audiencia general).
Per quanto riguarda la determinazione del “justiprecio”, naturalmente è possibile che le parti addivengano ad un accordo, altrimenti la procedura procede mediante un’offerta di indennizzo da parte dell’amministrazione o da parte del proprietario e se questa non viene accettata si procede alla determinazione del valore del bene da parte di un collegio (Jurado Provincial de Expropiación) composto da un magistrato, che lo presiede, designato dal presidente della Audiencia, da un avvocato dello Stato, da due funzionari tecnici, un rappresentante della camera di commercio o del collegio professionale o della organizzazione, e infine un notaio. Si tratta di un organo che dovrebbe comprendere in sé sia le funzioni peritali che quelle giudiziali. In esso infatti dovrebbero essere rappresentati sia gli interessi fiscali dello Stato che gli interessi patrimoniali della proprietà privata, nonché tutti gli aspetti tecnici, compresi quelli – di competenza notarile – relativi alle transazioni immobiliari. La sua capacità di determinare effettivamente un giusto prezzo di espropriazione è tuttavia molto criticata.
La procedura in totale non dovrebbe durare più di 50 giorni. Avverso questa determinazione, che deve essere approfonditamente motivata, può essere proposto ricorso contencioso administrativo.
Il pagamento deve essere effettuato dopo sei mesi dalla determinazione del justiprecio. Decorsi i sei mesi, la somma produrrà interessi legali.
In caso di controversia o di rifiuto da parte del proprietario di accettare il pagamento, l’amministrazione può effettuare il deposito della somma presso la Cassa depositi.
Solo dopo il pagamento del prezzo, l’amministrazione può immettersi nel possesso dei beni espropriati per via amministrativa.
È possibile, come si diceva, anche una procedura di occupazione urgente, prima del pagamento del justiprecio. Essa era nata come strumento eccezionale per le ricostruzioni dopo la guerra civile, nel 1939, ma poi è diventata quella in concreto più frequente.
In questi casi occorre una determinazione del Consejo de Ministros o della Comunidad autonoma corrispondente. Essendo la procedura più rapida, spesso nella pratica si ricorre ad essa anziché a quella generale, similmente a quanto avviene in Italia. In questi casi è previsto il previo deposito di una somma a titolo di indennizzo per il pregiudizio: entro il termine di 15 giorni i terreni devono essere espropriati.
3.2. Conseguenze del ritardo nella procedura di esproprio. Il c.d. danno da demora costituisce una specificità del diritto spagnolo. L’art. 56 della ley de l’espropriation forzosa prevede infatti che se, dopo sei mesi dall’inizio del procedimento di esproprio non è ancora stato determinato il justiprecio, l’amministrazione è tenuta a pagare un indennizzo, che consisterà negli interessi legali del justiprecio, da liquidarsi retroattivamente una volta che esso sia stato definitivamente determinato.
Il regolamento precisa tuttavia che la responsabilità per il ritardo va imputata a chi l’ha causato, cosicché essa non verrà pagata se è imputabile all’espropriato.
Decorsi quattro anni senza il pagamento della quantità fissata, si dovrà procedere a rinnovare la valutazione delle cose o dei diritti oggetto di esproprio.
Si discute inoltre in giurisprudenza se l’eccessiva durata del procedimento di espropriazione possa essere sanzionata, in applicazione delle regole generali sul procedimento amministrativo, con la “caducidad” ovvero l’estinzione del procedimento. Si tratta di una sanzione prevista in via generale dall’art. 44 della legge sul procedimento amministrativo comune, per tutti i procedimenti aventi effetti sfavorevoli ovvero finalizzati all’adozione di atti restrittivi, tra cui anche il procedimento di espropriazione. In senso contrario, tuttavia, si è pronunciato il Tribunal Supremo nel 2012, sostenendo che il procedimento di esproprio è un procedimento complesso e la fase concernente la determinazione del justiprecio è posta nell’interesse del privato espropriato. Inoltre, il Supremo ha sottolineato che la legislazione speciale espressamente prevede il danno da demora appunto per indennizzare il privato espropriato per il ritardo nella procedura di determinazione dell’indennizzo.
3.3. La tutela giudiziaria e il caso di “via de echo”.
Gli atti della procedura di esproprio compresi quelli relativi alla determinazione del justiprecio possono essere impugnati con recurso contencioso administrativo dinanzi a la Audiencia (tribunale collegiale) in prima istanza.
Si può dedurre il vizio di sostanza o di forma e la violazione o l’omissione dei precetti della legge sull’espropriazione. Nel caso di contestazione della determinazione dell’indennizzo occorre che si lamenti che il valore determinato sia inferiore di almeno un sesto rispetto a quello invocato.
Anche nel diritto spagnolo si è posto il problema della c.d. espropriazione di fatto che costituisce forse la più comune manifestazione della c.d.via de echo[9], sostanzialmente corrispondente alla voi de fait del diritto francese.
Va subito chiarito però che essa non incide sulle questioni di riparto di giurisdizione tra giudici del contencioso admnistrativo e giudici civili, posto che la legge dell’espropriazione espressamente attribuisce la competenza anche in caso di via de echo alla giurisdizione amministrativa.
La via de hecho è prevista dall’art. 53.1 della legge 29/1998 sul contencioso administrativo e si realizza quando l’amministrazione agisce al di fuori della sua sfera di competenza, ovvero prescindendo dal procedimento stabilito.
Di essa non si occupa espressamente la legge generale del procedimento n. 39 del 2015, che non la nomina, tuttavia, all’art. 97.1, detta legge proibisce alle amministrazioni pubbliche di porre in essere attività materiali che limitino i diritti dei privati senza che sia stata previamente adottato il provvedimento che ne costituisca il fondamento giuridico.
La dottrina e la giurisprudenza hanno definito variamente la nozione di via de echo.
Il Tribunal costitucional ritiene che l’amministrazione incorra in via de echo sia se esercita poteri che non le sono stati conferiti sia se, pur esercitando tali poteri, agisce andando oltre il procedimento stabilito. Essa pertanto comprende sia le attività materiali attuate dalla amministrazione senza aver adottato previamente l’atto amministrativo che ne costituisce il fondamento giuridico, sia quelle attività materiali di esecuzione che eccedano l’ambito riconducibile all’atto amministrativo previamente adottato.
Altra giurisprudenza[10] vi include anche l’attività materiale posta in essere in attuazione di atti viziati da nullità di pieno diritto (nulidad de pleno derecho) per incompetenza o per vizio sostanziale del procedimento.
A questi casi la giurisprudenza ha ricondotto la assenza di informazione pubblica previa e l’adozione dell’atto di necessità dell’occupazione e l’omissione di notificazione di quest’ultimo agli interessati.[11]
Di questi casi si occupa espressamente l’art. 125 della legge sull’espropriazione, definendo la via de echo con riferimento alle ipotesi in cui senza i requisiti sostanziali della dichiarazione di utilità pubblica o di interesse sociale, senza dichiarazione di necessità di occupazione e senza previo pagamento del deposito, l’amministrazione occupi la cosa oggetto di espropriazione.
In questo caso, il soggetto interessato potrà ottenere la tutela possessoria.
Si tratta di una precisazione normativa necessaria giacché altrimenti si sarebbe dovuto applicare il divieto generale di ricorrere contro l’amministrazione mediante interdetti possessori.
La norma tuttavia non esclude altre forme di tutela e in particolare il ricorso alla giurisdizione contenzioso amministrativa, compente – come si è detto – per espressa disposizione di legge anche in caso di via de echo. Inoltre, nel caso in cui si riscontri la via de echo, la restituzione in natura del bene illecitamente appreso è teoricamente prevista, sempre che lo stato di cose lo consentano in quanto l’opera pubblica non sia stata nel frattempo edificata. Laddove invece tale restituzione non sia possibile, verrà liquidato un risarcimento costituita dal justiprecio al quale va aggiunta una percentuale del 25% per compensare il pregiudizio derivante dalla privazione illegittima della proprietà.
Di recente, però, la giurisprudenza ha affermato che nel caso di espropriazioni illecite debba riconoscersi la riparazione integrale del danno realmente causato e che quindi non occorra riferirsi ai più rigidi criteri per la determinazione del justiprecio ma direttamente al valore di mercato del bene.
A questa somma vanno poi aggiunti gli interessi legali a decorrere dalla data dell’occupazione del bene. A proposito della questione della restituzione del bene e della riduzione in pristino dello stato dei luoghi, il Tribunal Supremo ha dichiarato, con sentenza del 6 novembre 2007, che qualora l’opera pubblica o di interesse pubblico sia già realizzata ed essa soddisfi l’interesse generale, non è ragionevole ordinare la riduzione in pristino. In sostanza, il giudice deve apprezzare la situazione concreta e può sia ordinare la riduzione in pristino e la restituzione del bene in natura sia disporre, in alternativa, il pagamento di un indennizzo in sostituzione della restituzione del bene. Il presupposto, in questo secondo caso, è l’impossibilità, accertata nel processo, di eseguire in natura la sentenza. Tuttavia, i motivi che possono determinare tale impossibilità – sia fisica che giuridica – possono essere vari: la circostanza che sono state costruite case che sono state vendute a terzi in buona fede, oppure che sono state destinate a fini o servizi di utilità pubblica.
In questi casi, il giudice può accordare la sostituzione della restituzione del bene col pagamento dell’indennizzo, sempre che la decisione sia motivata e che non si tratti di mere difficoltà o molestie. In sostanza, i giudici spagnoli semplicemente constatano che – come affermato dal Consejo de Estado nel 1962 – nel caso in cui la sentenza intervenga quando l’esecuzione dell’opera è già stata effettuata, essa si scontra con fatti consumati e inamovibili, rispetto ai quali l’unica tutela dell’espropriato è quella risarcitoria (indemnizaciòn).
Inoltre, in molti casi l’effetto della sentenza è solo quello di imporre all’amministrazione di rinnovare il procedimento. Come si vede, la problematica che da noi ha dato vita all’istituto di cui all’art. 42 bis TU edilizia, viene semplicemente risolta dai giudici spagnoli, come anche da quelli francesi, nell’ambito di definizione delle modalità di esecuzione della sentenza. E’ pertanto rimesso allo stesso giudice l’apprezzamento se in concreto sia possibile o meno la riduzione in pristino o il ristoro per equivalente, tenendo in debito conto anche l’interesse pubblico al permanere dell’opera pubblica.
Non si ravvisano approfonditi tentativi di ricostruzione dogmatica circa la giustificazione del titolo di acquisto della proprietà da parte dell’amministrazione, ma ci si limita al semplice rinvio al concetto di impossibilità della restituzione in natura.
La natura del sistema giurisdizionale spagnolo, nel quale il giudice amministrativo è solo un giudice specializzato, fa sì che non vi sia – come in molti altri paesi – differenza tra il giudice degli atti della procedura di esproprio e il giudice della determinazione dell’indennizzo, ma tutte le competenze sono concentrate in capo ai magistrati del contencioso administrativo, anche nel caso di via de echo. Detto giudice è anche compente per tutte le questioni di risarcimento per danni, connessi alla procedura di esproprio. Non vi è dunque alcuno spazio lasciato al giudice civile e questa costituisce una peculiarità dell’ordinamento spagnolo rispetto agli altri ordinamenti in cui quasi sempre si ravvisa una sfera di competenza in capo al giudice civile, in particolare per quanto attiene alle controversie sulla determinazione dell’indennizzo.
4. L’espropriazione per pubblica utilità nel diritto inglese (“Compulsory purchase of land”).
Il compulsory purchase of land è un meccanismo legale attraverso il quale alcuni enti (denominati acquiring authorities) possono acquistare beni immobili senza il consenso dei proprietari.
Prevista da numerose leggi speciali a seconda del tipo di progetto al quale l’esproprio è finalizzato, l’espropriazione per pubblica utilità in Gran Bretagna è stata disciplinata in modo generale dal Acquisition of Land Act del 1981.
Questa legge prevede che l’acquisto coattivo di terra possa essere proposto da governi locali, dal governo nazionale e amministrazioni varie e anche da società commerciali (esercenti servizi pubblici per esempio per l’acqua o l’energia elettrica), per la realizzazione di opere di interesse pubblico (infrastrutture, autostrade, ferrovie, ecc.). Spesso si tratta di opere approvate nei piani di sviluppo locali (development plans). Tuttavia, va subito sottolineato che la procedura è sempre sottoposta ad un controllo accentrato a livello governativo, in quanto ogni procedimento deve essere autorizzato da un Ministro competente. Addirittura in taluni casi particolari, è necessaria l’autorizzazione del Parlamento: ad esempio nei casi in cui l’area da espropriare appartenga ad un ente locale o faccia parte del patrimonio indisponibile (National trust), se si tratti di un luogo aperto e di uso comune, a meno che non venga assicurata la sostituzione con un altro spazio, infine se si tratti di siti di antichi monumenti o archeologici.
Venendo più in dettaglio, va detto che la procedura[12] si articola in due fasi: quella di autorizzazione dell’esproprio e quello di determinazione della “compensation”, ovvero dell’indennizzo, con contestuale trasferimento del diritto di proprietà.
Il primo passo della fase autorizzatoria è – come si diceva – un “order” da parte della amministrazione procedente, il quale non ha effetti nei confronti del proprietario espropriato, e serve solo a dare avvio alla procedura.
Esso è redatto dalla stessa autorità espropriante e deve contenere l’esatta indicazione del terreno da espropriare, la finalità dell’esproprio, l’autorità espropriante e la fonte normativa sulla cui base si agisce.
Esso è accompagnato da uno Statement of Reasons che indica le ragioni per cui si procede con un CPO.
Il CPO va pubblicato per due settimane sui giornali locali e notificato individualmente a ciascuno dei proprietari. Vanno quindi lasciati almeno 21 giorni per la formulazione di eventuali obiezioni. Se nessuno dei proprietari formula obiezioni, l’ordine viene confermato dal Ministro competente; se anche uno solo dei proprietari obietta, va fissata un’audizione (hearing) con l’autorità espropriante e i proprietari, inoltre è possibile avere una interlocuzione scritta con il consenso dei proprietari, oppure – se viene convocata una “public inquiry” alla quale tutte le persone interessate possono partecipare, anche eventualmente per iscritto.
L’autorità espropriante deve comunque tentare di negoziare con i proprietari prima della public inquiry per trovare un accordo.
La public inquiry si svolge dinanzi ad un ispettore nominato dal ministro, secondo norme approvate nel 2007, the Compulsory Purchase (Inquiries Procedure) Rules. Si tratta di un tecnico, un ingegnere o architetto.
Le parti devono portare le loro prove e l’ispettore più anche effettuare visite sul sito.
Nel corso dell’inquire si applicano le norme della “natural justice” cioè, benché non si tratti di un procedimento giudiziale, del diritto al contraddittorio e della correttezza del procedimento (fairness).
Si apre quindi una fase di negoziazione, in cui l’autorità espropriante cerca di tener conto delle obiezioni mosse. Il Ministro, quindi, deve decidere se confermare l’ordine, tenendo conto delle obiezioni mosse e dei risultati dell’udienza o nell’incontro pubblico e del report dell’ispettore, dal quale può in teoria anche discostarsi. La conferma ministeriale, che deve essere notificata agli interessati e motivata, segna la fine della fase di autorizzazione.
La notizia della conferma deve essere pubblicata su uno o più giornali locali.
La conferma ministeriale del Compulsory Purchase Order è sottoposta a judicial review secondo un regime speciale e più restrittivo rispetto a tutte le altre ipotesi di judicial review.
Essa infatti deve essere impugnato entro 6 settimane (anziché negli ordinari 3 mesi) dalla pubblicazione dell’atto di conferma e può essere contestato solo se esorbita dai poteri attribuiti dalla legge sull’acquisizione dei suoli (“is not within the powers of this Act”) oppure per violazione di prescrizioni contenute nella stessa legge (“any requirement of this act has not been complied with”). Il ricorso va indirizzato alla Hight Court, nell’ambito della quale ora è istituita una sezione specializzata che si occupa solo di judicial review (Administrative court), la quale può sospendere cautelarmente l’efficacia delle operazioni fino a conclusione del procedimento.
La sospensione cautelare è di fatto concessa molto raramente. Tuttavia, nonostante ciò le amministrazioni di norma non procedono nelle operazioni di esproprio poiché temono che l’atto possa essere annullato e che siano proposte eventuali azioni di danno. Wade[13]sostiene quindi che via sia in sostanza una “sospensione virtuale”.
La Corte, se verifica che l’atto effettivamente esorbita dai poteri attribuiti dalla legge o che gli interessi del ricorrente sono stati sostanzialmente pregiudicati, annulla l’atto o in toto o limitatamente alla parte di esso che lede la proprietà del ricorrente.
In sostanzia, si tratta di un controllo di mera legalità (statutory review), in quanto solo questo tipo di violazioni di legge possono essere fatte valere.
Si discute molto per stabilire quali siano in concreto queste violazioni di legge che possono esser fatte valere: si tratta in primo luogo del classico atto “ultra vires” e in secondo luogo di minori irregolarità procedurali.
In pratica, il giudice valuterà:
1) se l’atto è ultra vires, ovvero esorbita i limiti del potere attributo dalla legge;
2) se sono state commesse violazioni procedurali;
3) se l’ispettore o il ministro non hanno assunto una corretta decisione, in quanto non ci sono prove a supporto della decisione intrapresa o sono state prese in considerazioni ragioni irrilevanti e trascurati profili di rilievo.
Naturalmente anche l’autorità espropriante potrà impugnare, per gli stessi motivi, un eventuale atto di rifiuto di conferma.
L’efficacia di questa autorizzazione dura tre anni, decorsi i quali il potere di esproprio si estingue. Spesso tuttavia le Corti impongono tempi molto più stretti ritenendo che un ingiustificato ritardo nel completamento della procedura di esproprio possa essere inteso come abbandono della procedura, con conseguente perdita del potere di eseguire l’esproprio.
Inoltre, in caso di ritardo, il proprietario può compulsare il soggetto procedente ad agire e può chiedere il ristoro dei danni da ritardo, se nel frattempo ha subito perdite.
Entro i tre anni, o anche in termini inferiori, l’amministrazione espropriante deve giungere ad un accordo sulla somma da pagare come compensazione dell’acquisto coattivo della proprietà.
Dopo la fase di autorizzazione, per giungere al trasferimento del bene, l’autorità procedente può sempre tentare un accordo oppure seguire due procedure: quella del Notice to treat/Notice to entry o quella del General vesting order.
È tuttavia possibile anche iniziare con la procedura del Notice to treat e poi spostarsi su quella del General vesting order.
Secondo la prima procedura, va effettuata, da parte dell’amministrazione espropriante, una diffida a trattare per la determinazione dell’indennizzo e per il trasferimento del bene (“notice to treat”). Il proprietario può rispondere all’autorità emanante con un notice of claim for compensation, entro 21 giorni dalla comunicazione, così dando avvio alla trattativa per la determinazione della compensation.
L’autorità espropriante può anche decidere di tirarsi indietro entro 6 settimane, se ritiene che il valore del terreno sia troppo elevato.
A seguito dell’avvio di queste trattative si può addivenire, con l’accordo del proprietario, ad un vero e proprio contratto di vendita.
Il proprietario deve però dimostrare il proprio titolo e trasferire la proprietà del bene. Se il proprietario non deposita il notice to claim, o comunque non si addiviene ad alcun accordo, la procedura continua per la determinazione della “compensation” dianzi al giudice. Le relative controversie sono di competenza dei Land Tribunals.
L’espropriante può pagare la somma determinata anche direttamente dinanzi al giudice, se il proprietario rifiuta di accettarla, ottenendo un documento unilaterale di compravendita con il quale la proprietà viene definitivamente acquisita dall’espropriante.
Essa deve essere determinata in base al valore di mercato, in applicazione del principio di equivalenza l’espropriato ha diritto a mantenere la sua situazione inalterata, senza avvantaggiarsi e senza essere danneggiato dalla espropriazione.
In casi particolari, dove non vi è un mercato, il valore va determinato con riferimento al costo di acquisto di un terreno equivalente altrove.
La compensation può anche essere effettuata in natura ed essere costituita ad un altro terreno. E’ importante sottolineare che sull’espropriato grava l’obbligo di mitigare gli effetti economici negativi della procedura espropriativa, altrimenti essi non gli verranno riconosciuti.
In aggiunta al valore del bene verranno riconosciuti i danni morali, ovvero il disturbo e il ricorso ad una procedura forzosa. Si tratta in genere di un incremento del 10 per cento.
Il valore del bene va determinato comunque con riferimento al momento in cui vi è il trasferimento del possesso.
Dopo il notice to treat, l’autorità espropriante può comunicare un “notice to entry”, nel quale rende nota la data in cui prenderà possesso del fondo (entro tre giorni dalla notifica).
In ogni caso, l’acquisto del titolo di proprietà avverrà solo all’esito del giudizio dinanzi ai Land Tribunals o mediante accordo.
La procedura alternativa è quella della “General Vesting declaration”, che è una procedura autoritativa che consente non solo l’immissione in possesso del bene da parte dell’autorità espropriante ma anche il trasferimento coattivo della proprietà ad essa, acquisto che si verifica non prima del ventottesimo giorno dalla comunicazione dell’atto.
Una volta effettuata la General vesting declaration, il diritto di proprietà si converte nel diritto alla compensation e il giorno del trasferimento della proprietà è quello a cui far riferimento per la valutazione dell’immobile. Secondo una circolare governativa, la General vesting declaration va comunque effettuata al massimo entro tre anni dalla confirmation del compulsory purschase order.
5. L’espropriazione per pubblica utilità in Germania.
La Costituzione tedesca, all’art. 14, al comma 3, stabilisce che l’espropriazione può essere solo consentita per il pubblico bene. Essa può solo essere ordinata per gli scopi previsti dalla legge che determini anche la natura e la quantità dell’indennizzo. Questo deve essere determinato stabilendo un equo bilanciamento tra il pubblico interesse e l’interesse dei soggetti lesi. In caso di controversie circa l’ammontare del compenso, può essere proposto ricorso dinanzi alle corti ordinarie.
Ci sono molte leggi che legittimano l’espropriazione sia a livello nazionale che degli Stati federali.
In genere si tratta di leggi sulle infrastrutture (nuove strane, autostrade, ferrovie, aeroporti, reti elettriche, impianti nucleari, ecc.) ma ci sono anche leggi che consentono l’espropriazione per altre ragioni, ad esempio per la protezione della natura e del paesaggio, per la protezione di monumenti, dell’acqua o per la realizzazione di opere pubbliche previste dai piani urbanistici e di sviluppo. Ci sono più di venti leggi a livello federale e nazionale in materia di espropriazione. Tuttavia i principi sono comuni. In primo luogo occorre una causa di pubblica utilità, ovvero per il pubblico bene, normalmente contenuta nei piani urbanistici o di sviluppo[14].
Viene poi in rilievo la c.d. clausola di sussidiarietà, che impone all’amministrazione di tentare di ottenere l’acquisto della proprietà in altri modi prima di ricorrere all’espropriazione (mediante un accordo o anche una riallocazione del terreno). In sostanza, l’amministrazione deve provare di non essere riuscita ad ottenere il terreno in altro modo.
L’amministrazione deve inoltre dimostrare di non poter perseguire la finalità pubblica con misure meno invasive della proprietà, ad esempio espropriando solo una parte del terreno o mediante l’imposizione di servitù. Pertanto, in primo luogo l’autorità espropriante deve presentare una “ragionevole offerta” al proprietario. Si tratta di un passaggio di enorme importanza: infatti se questa offerta è effettivamente ragionevole, e tuttavia non viene accettata, essa costituirà un limite per la quantificazione dell’indennizzo ed eventuali incrementi di valore del bene intervenuti successivamente saranno irrilevanti. In questo modo vengono scoraggiate tattiche dilatorie. Se invece il tribunale riconoscerà che l’offerta non era ragionevole, la procedura espropriativa non potrà proseguire se non a seguito della presentazione di una nuova “ragionevole offerta”. L’autorità espropriante, inoltre, deve dimostrare in termini di capacità economica e tecnica di essere in grado, in tempi rapidi, di realizzare l’opera di pubblica utilità.
Anche soggetti privati possono farsi promotori di espropriazioni purché agiscano per fini di pubblica utilità (si pensi alle scuole, agli ospedali, alla società esercenti servizi pubblici, ecc.).
Nel caso Boxberg del 1987, la Corte costituzionale Federale ha statuito che l’aumento dei posti di lavoro e lo sviluppo economico sono solo un bene pubblico indiretto, essi pertanto non possono costituire una causa di pubblica utilità ai fini di attivare una procedura espropriativa. Questo orientamento è stato poi confermato. La procedura di esproprio prevede che l’autorità competente sia quella al più alto livello. Essa deve garantire una giusta procedura e un giusto indennizzo. È infatti in posizione di indipendenza rispetto all’amministrazione espropriante.
Le fasi della procedura prevedono:
1) una pre – negoziazione, che si apre con la ragionevole offerta di pagamento;
2) una procedura amministrativa preliminare, in cui l’autorità responsabile verifica i requisiti per iniziare la procedura vera e propria; in questa fase, viene nominato un collegio di esperti per valutare la congruità della ragionevole offerta e per determinare il valore del bene. Anche durante questa fase la procedura generalmente si conclude con l’accordo delle parti.
3) la procedura ufficiale, che prevede una audizione delle parti. Essa si apre con un avviso pubblico dell’avvio della procedura. Anche in questa fase si tenta sempre di raggiungere un accordo tra le parti, le quali possono anche accordarsi solo sul trasferimento di proprietà e non anche sulla determinazione dell’indennizzo. In effetti si calcola che solo il 10 per cento dei casi non si definiscono in via amichevole. In questi casi, l’autorità espropriante dispone l’espropriazione e determina autonomamente l’indennizzo.
Spesso, sulla base dell’urgenza, il richiedente può essere immesso nel possesso dell’area prima della conclusione della procedura. In questo caso, egli deve previamente versare la somma offerta come “offerta ragionevole”.
La quantificazione dell’indennizzo, secondo le linee guida entrate in vigore nel 2008, deve contemperare il privato e pubblico interesse, ma deve comunque fondarsi sul principio di equivalenza, per cui l’espropriato deve essere messo in grado di acquistare un terreno della stessa qualità e caratteristiche. La determinazione del valore del bene secondo i prezzi di mercato viene affidato a un comitato di esperti, riconosciuto in modo ufficiale, e la valutazione è fatta secondo criteri standard. La data per la determinazione del valore è quella dell’atto di trasferimento della proprietà o – se vi è stata immissione anticipata nel possesso – quella dello spossessamento. Vanno inoltre computati eventuali ulteriori danni: per esempio dovuti al frazionamento del terreno, perdita di profitti e costi per il dislocamento dell’attività in altro sito, perdita della clientela ecc.
L’indennizzo può anche essere disposto in natura o mediante il riconoscimento di altri diritti. Non sono previsti specifici limiti temporali in cui la procedura deve concludersi, ma si richiede che la procedura sia la più rapida possibile.
È tuttavia prevista la possibilità di revocare l’esproprio se il beneficiario non effettua i pagamenti entro un mese da quando la decisione dell’amministrazione procedente che determina l’indennizzo è stata assunta.
Per quanto riguarda la tutela giurisdizionale, come in Italia, le controversie relative alla determinazione dell’indennizzo spettano ai giudici ordinari mentre l’impugnazione dell’atto di esproprio è di competenza del giudice amministrativo.
La Corte europea dei diritti dell’uomo si è occupata di recente del diritto tedesco in materia di esproprio in relazione ad un caso particolare, concernente l’esproprio senza indennizzo dei c.d. “nuovi contadini” della ex Germania dell’est, i quali erano stati assegnatari di terre a seguito della riforma agraria durante il regime comunista. Una legge tedesca, adottata dopo la riunificazione (1992) aveva statuito che i Land potessero espropriare senza indennizzo queste terre a meno che gli attuali proprietari, eredi dei “nuovi contadini”, non svolgessero più attività agricola.
La Corte, ribaltando il giudizio, della Camera del 22.2.2004, nella sent. della Grande Camera del 30 giugno 2005 (Jahn e altri c. Germania), ha ritenuto che ricorressero nel caso di specie quelle eccezionali circostanze che giustificano l’esproprio senza indennizzo, trattandosi di regolamentare il passaggio dall’economia socialista al regime di libero mercato.
In sostanza la Corte ha ritenuto che vi fosse il fondamento normativo, costituito da norme chiare e compatibili con la Cost. tedesca, secondo quanto stabilito dalla Corte costituzionale federale. Che vi fosse lo scopo legittimo di riportare chiarezza nei rapporti proprietari a seguito della riforma agraria socialista, richiamando a questo scopo la propria giurisprudenza che riconosce un amplissimo margine di apprezzamento discrezionale allo Stato nazionale in caso di adozione di particolari misure di pubblico interesse (caso Lithgow e altri c. Regno Unito, 8 luglio 1986, concernente la nazionalizzazione delle industrie navali. In quell’occasione, la Corte aveva ritenuto non illegittima la previsione di un indennizzo inferiore al valore di mercato). I commentatori hanno criticato questa pronuncia in quanto in altri analoghi casi (Ex re della Grecia c. Grecia 23 novembre 2000, in relazione alla transizione tra la monarchia e la repubblica in Grecia, e James e altri c. Regno Unito del 21.2.1986), l’obbligo di un qualche indennizzo, anche se non necessariamente parametrato al valore di mercato del bene, era stato affermato. Si è inoltre constato che la legge tedesca, nel sottrarre la proprietà agli eredi dei “nuovi contadini” aveva privato di effetti una legge del 1990, volta proprio, all’indomani della caduta del muro, a favorire la transizione verso il libero mercato[15].
6. Conclusioni.
La rassegna sopra effettuata delle procedure di esproprio nei vari ordinamenti europei mette in luce l’esistenza di molti aspetti comuni e di alcuni tratti – ai quali si è già fatto cenno all’inizio di questo studio – differenti: in particolare, il coinvolgimento dell’autorità giudiziaria – spesso – già nella fase del procedimento, soprattutto per la determinazione dell’ammontare dell’indennizzo, a garanzia dell’effettivo ristoro dei proprietari incisi dal procedimento secondo il principio dell’equivalenza.
Va inoltre detto che in alcuni Paesi (Gran Bretagna) il sistema stesso scoraggia la possibilità di fenomeni di espropriazione indiretta in quanto l’immissione in possesso del bene viene subordinata alla definizione della procedura in via amichevole o alla risoluzione definitiva della controversia giudiziale. Inoltre, grande attenzione è quasi ovunque riservata alla predisposizione di strumenti per favorire la definizione in via amichevole della procedura di esproprio.
È emerso, infine, che tutti i Paesi esaminati si sono trovati a dover affrontare e risolvere il problema della sorte dell’opera pubblica realizzata nonostante l’assenza di base legale della procedura espropriativa (per annullamento di atti del procedimento o per realizzazione di attività meramente materiali di impossessamento non autorizzate da provvedimenti amministrativi).
In tutti questi casi, si è valorizzato l’interesse pubblico come condizione ostativa alla restituzione del fondo illegittimamente trasformato, facendo ricorso a strumenti di sanatoria o regolarizzazione ex post e comunque alla impossibilità di eseguire una condanna alla restituzione del bene al privato illegittimamente espropriato.
Ciò nonostante, come si è detto, sono piuttosto rari i casi in cui altri Paesi oltre l’Italia hanno subito condanne per il fenomeno della espropriazione indiretta.
Quale può esserne la ragione?
In primo luogo, può dirsi che vi sono ragioni di ordine sistematico, prima fra tutte quella dell’ammontare dell’indennizzo.
Infatti, in tutti i Paesi esaminati, l’indennizzo viene quantificato con riferimento al valore di mercato e talvolta anche maggiorato, mentre da noi, fino a poco tempo fa, esso era significativamente inferiore al valore di mercato del bene, il che ha certamente determinato la presentazione dinanzi alla Corte di Strasburgo di numerose azioni, e quindi le conseguenti condanne da parte della CEDU nei confronti dell’Italia.
Inoltre, va certamente rimarcato che in Italia, per una serie di ragioni anche storiche, la “patologia” nel procedimento espropriativo è diventata la regola (si pensi ai numerosi annullamenti della dichiarazioni di pubblica utilità dovute a violazione dell’art. 7 della l. 241/90 che hanno determinato l’assenza di “base legale” del procedimento espropriativo), mentre negli altri Paesi era certamente l’eccezione.
Quello che si è detto sopra chiarisce come la questione della espropriazione di fatto (voi de fait o via de echo) o della realizzazione dell’opera pubblica in assenza di un procedimento espropriativo legittimo sia stata trattata in modo sostanzialmente non dissimile dall’Italia almeno anche da Spagna e Francia, le quali, senza teorizzare esplicitamente l’espropriazione indiretta, anzi formalmente ripudiandola, giungono poi in sostanza agli stessi risultati.
In sostanza, i giudici dei Paesi europei esaminati sembrano limitarsi a constatare che la prevalenza dell’interesse pubblico preclude nella maggior parte dei casi la restituzione del bene illegittimamente trasformato e impone una misura risarcitoria, senza troppo approfondire il tema delle modalità di trasferimento della proprietà, rimesso ad una procedura di regolarizzazione ex post.
Non si rinvengono invece ricostruzioni teorico dogmatiche similari alla nostrana “occupazione appropriativa” né fonti normative che, come il nostro attuale art. 42 bis, abbiano fornito rigorosa base legale per risolvere il problema della espropriazione indiretta o di fatto. Anzi, alcuni commentatori francesi hanno ammesso che il rifiuto di restituzione del bene al privato illegittimamente espropriato costituisce espropriazione indiretta, al pari delle ipotesi sanzionate dalla CEDU.
In definitiva, quello che è emerso, è che la misura restitutoria del terreno illegittimamente espropriato appare veramente rara in tutti gli altri ordinamenti e comunque recessiva di fronte all’interesse pubblico al mantenimento dell’opera pubblica, sia pure indebitamente realizzata.
È stata invece ampiamente valorizzata la regolarizzazione dell’espropriazione, particolarmente enfatizzata dalla giurisprudenza francese, o della rinnovazione del procedimento, prospettata in alcune pronunce dal giudice spagnolo.
Ampio spazio inoltre viene ovunque riservato alle misure risarcitorie, comprensive (con l’eccezione della Francia) anche del danno da “disturbo” o del danno morale ovvero (come in Spagna) da uno speciale indennizzo per la privazione illegittima della proprietà, a tutela delle posizioni dei privati lesi della loro situazione proprietaria.
In conclusione, solo la nostra Cassazione ha elaborato così a chiare lettere una ricostruzione dogmatica che prevede l’acquisizione della proprietaria da fatto illecito, mentre negli altri ordinamenti ci si è limitati a non disporre la restituzione del fondo.
In sostanza, sembrerebbe che la questione, tanto enfatizzata, dalla Corte EDU circa la carenza di “base legale” nella espropriazione indiretta, sia stata posta dinanzi ai giudici europei con tanta chiarezza solo nei giudizi concernenti l‘Italia.
Viene dunque da chiedersi – è una provocazione – se non sia stata propria la nostra forse eccessiva raffinatezza concettuale, nella elaborazione di una soluzione giuridica al problema della espropriazione di fatto, che ha portato solo noi ad affermare principi evidentemente incompatibili con la CEDU e ha collezionare, quindi, così tante condanne.
Per fortuna, l’attuale art. 42 bis ha ora risolto il problema. Si tratta in verità di una norma assi più strutturata e garantista dei generici richiami a “regolarizzazioni” fatte in altri ordinamenti, così mostrando che il nostro rigore nella elaborazione delle categorie giuridiche e la nostra raffinatezza teorica può anche essere volta a trovare soluzioni di buon senso e conformi ai principi della CEDU.
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Compulsory Purchase (Vesting Declarations) Act 1981
Acquisition of Land Act 1981
Code de l’expropriation pour cause de utitlité publique
Land Expropriation in Europe, Legal Memorandum, January 2013
Ley de Expropiación Forzosa, de 16 de diciembre de 1954 (LEF).
La Ley de Expropiación Forzosa. Análisis y perspectivas de reforma, Ministerio de Hacienda, 2003 https://dialnet.unirioja.es/servlet/libro?codigo=489949.
Juris classeur, fasc. 400.10, Expropriation – Regine general et object de la procedure, 24.10.2010.
[1] Relazione tenuta al Corso dal titolo: Le procedure espropriative, a venti anni dall’entrata in vigore del D.P.R. n. 327 del 2001, tenutosi presso il Consiglio di Stato il 16 e 17 marzo 2023.
Il presente scritto aggiorna, modifica e approfondisce un precedente scritto dell’autrice, Maria Laura Maddalena, L’espropriazione per pubblica utilità in Europa, alla luce della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: esperienze nazionali a confronto, apparso su www.lexitalia.it (2014).
[2] Sul punto la giurisprudenza della Corte è stata sempre chiara nell’affermare che l'obbligo di rispettare i diritti fondamentali definiti nell’ambito dell’Unione vale per gli Stati membri soltanto quando essi agiscono nell'ambito di applicazione del diritto dell'Unione (sentenza del 13 luglio 1989, Wachauf, causa 5/88, Racc. 1989, pag. 2609; sentenza del 18 giugno 1991, ERT, Racc. 1991, pag. 1-2925; sentenza del 18 dicembre 1997, Annibaldi, causa C-309/96, Racc. 1997, pag. I-7493) e non in materia non coperte dal diritto UE.
[3] Ne consegue che è stato affermato dalla Cassazione che non è ravvisabile alcuna "disciplina" da parte delle norme dell'U.E. nella generica previsione, contenuta nell'art. 17 par. 1 della Carta, del diritto alla percezione di una "giusta indennità" da parte del soggetto privato della proprietà per "causa di pubblico interesse", trattandosi di disposizione che non è espressiva del regolamento di una "materia" di interesse comunitario ed è priva di attitudine regolatrice di situazioni indeterminate in quanto non inclusiva di alcun criterio o parametro determinativo.”
[4] Simon Gilbert, Expropriation et Convention européenne des droits de l’homme, p. 73-86 , 2016. https://doi.org/10.4000/crdf.591
[5] In caso di appello della decisione del giudice sull’entità dell’indennizzo, è consentita la presa di possesso dell’immobile previo pagamento di quanto offerto in pagamento e di quanto determinato dal giudice.
[6] Il Conseil Costitutionell 15 luglio 1989 ha ritenuto conforme a costituzione tale disciplina.
[7] Cfr. Pierre Tifine, Le droit de l'expropriation à l'épreuve de la procédure de question prioritaire de constitutionnalité, 2014, https://www.lexbase.fr/article-juridique/20362349-doctrine-le-droit-de-l-expropriation-a-l-epreuve-de-la-procedure-de-question-prioritaire-de-constit.
[8] Pierre Tifine, Le droit de l'expropriation à l'épreuve de la procédure de question prioritaire de constitutionnalité, 2014, https://www.lexbase.fr/article-juridique/20362349-doctrine-le-droit-de-l-expropriation-a-l-epreuve-de-la-procedure-de-question-prioritaire-de-constit.
[9] José R. Chaves García, La vía de hecho: un virus administrativo endémico, 2020, https://elconsultor.laley.es/Content/Documento.aspx?params=H4sIAAAAAAAEAMtMSbF1CTEAAmNDY3NjM7Wy1KLizPw8WyMDIwMDcyMDkEBmWqVLfnJIZUGqbVpiTnEqAGsXJ-U1AAAAWKE.
Juan José González López, La responsabilidad por vía de hecho en la expropiación a la luz de la disposición adicional de la ley de expropiación forzosa.
[10] La sentenza del Tribunal Supremo, Sala de lo Civil, 616/1993.
[11] Tribunal Supremo, Sala de lo Contencioso-Administrativo, 15 ottobre de 2008.
[12] https://www.gov.uk/guidance/compulsory-purchase-and-compensation-guide-1-procedure#introduction.
[13] Sir William Wade, Administrative law, Oxford, 1994, 756.
[14] Winrich Voss, Compulsory Purchase in Poland, Norway and Germany – Part Germany, TS 3F – Compulsory Purchase and Compensation I.
[15] Ulrike Deutsch, Expropriation without Compensation – the European Court of Human Rights sanctions German Legislation expropriating the Heirs of “New Farmers”, inGerman Law Journal Vol. 06 No. 10, in www.germanlawjournal.com.
di Vittorio Gaeta
Non siamo in tempi in cui si possano invocare moderazione o umanità nella discussione pubblica o nella battaglia politica, tanto meno nella vera e propria guerra che contro la giudice Iolanda Apostolico del Tribunale di Catania - rea di aver negato la convalida di alcuni provvedimenti di trattenimento di stranieri nel CIE di Pozzallo, fondati su norme da disapplicare perché ritenute in contrasto con regole europee - è stata unilateralmente proclamata da buona parte del sistema politico-mediatico. Quanto accaduto negli ultimi giorni, tuttavia, supera ogni immaginazione.
Domenica 15 ottobre alcuni quotidiani del gruppo Caltagirone pubblicano in prima pagina la foto della giudice con il testo “Aggredì gli agenti al corteo, assolto il figlio di Apostolico, la giudice lo difese”. Così “il Messaggero”, che nelle pagine interne racconta di un processo celebrato un anno fa a Padova contro attivisti di sinistra che, nel protestare contro un corteo del gruppo neofascista Forza Nuova, avrebbero commesso reati di resistenza e violenza a pubblico ufficiale: tra questi il figlio della giudice, la quale testimoniando al processo ne avrebbe favorito l'assoluzione (ma, di tredici imputati, solo uno fu condannato). L'articolo, corredato della solita foto della giudice alla manifestazione del 2018 (disinvoltamente definita “dell’ultra-sinistra”) in favore dello sbarco dei migranti trattenuti sulla nave “Diciotti”, fa un accenno strabiliante: “all'epoca il volto della Apostolico era di fatto sconosciuto, ma ora che è balzata agli onori della cronaca, un flash ha illuminato la memoria di chi un anno fa l’ha vista deporre in aula a Padova a favore del figlio”. Ci si chiede di chi sia la memoria del soggetto che, avendo assistito a quella deposizione nell'aula di Padova, è stato di recente illuminato dal cosiddetto flash: in un caso del genere, l’anonimato nella trasmissione ai giornali della notizia risulta arduo da commentare.
Si scatena così la gazzarra, nella quale esponenti mediatici e di maggioranza esigono le dimissioni di Apostolico, la cui testimonianza a Padova sarebbe un’inopportuna espressione di militanza politica; replica la Giunta distrettuale dell'ANM di Catania, con un severo comunicato di solidarietà verso la giudice. Nei cui confronti, prima del flash patavino, iniziava a languire il can-can sul video della manifestazione di epoca in cui non si occupava di immigrazione, cinque anni prima dei dinieghi di convalide di trattenimenti. Il can-can dell’incivile profilazione della magistrata, di cui ha parlato l’ex-ministro Flick in un'intervista dell'8 ottobre a “la Stampa”.
In questa barbarie, alcuni banali punti fermi vanno ricordati.
È normale che chi è a conoscenza di fatti rilevanti per un processo venga indicato dalle parti come testimone da ascoltare, che si tratti o meno di un magistrato, tenuto a deporre come ogni altra persona. Non ha alcuna rilevanza che il potenziale testimone sia un parente: la sua deposizione sarà ammessa e valutata dal giudice, che dovrà tenere conto della possibilità di inquinamento anche involontario derivante dal legame con la parte, ma sarà poi libero di ritenerla attendibile. Il testimone infine, diversamente da quanto si è letto in queste ore, non è un “difensore” del soggetto che lo indica, e certamente può deporre su circostanze apprese de relato dalla parte.
Tutto questo in termini generali. E in particolare? In particolare, a Padova un giudice ritenne credibile la teste, e nel complesso debole l’impianto accusatorio, avendo assolto non solo suo figlio, ma dodici imputati su tredici. Quindi la magistrata Apostolico esercitò il suo dovere civico e, secondo il giudice che la ascoltò, disse la verità contribuendo a fare assolvere il figlio (ma altri undici imputati furono assolti a prescindere da quella testimonianza).
Questi i fatti, se a qualcuno interessano. Il resto è faziosità.
E mentre la diffamazione personale prova a ravvivarsi con i cosiddetti flash, l’attacco ai dinieghi di convalida di trattenimenti cerca nuove strade. Non si nega più il potere del giudice di disapplicare le norme nazionali contrastanti con il diritto dell’UE, tanto più che fu Fratelli d’Italia, nella scorsa legislatura, a chiedere invano di introdurre (con modifica costituzionale!) l’opposto principio di prevalenza del diritto nazionale su quello eurounitario (atto nr. 291 della XVIII legislatura, prima firmataria l’on. Meloni), principio che ovviamente comporterebbe una disapplicazione di segno opposto. Né si può ignorare che alla contestata disapplicazione hanno proceduto anche altri magistrati, nel mentre si scopre (“Fatto quotidiano” del 14 ottobre) che alcuni centri di “rimpatri veloci” sono pressoché vuoti per la gravosità delle procedure di convalida.
L’attenzione si sposta allora sui limiti della disapplicazione: senza più negarlo, si assume che questo potere del giudice nazionale potrebbe esercitarsi solo in casi estremi, di evidente contrasto con il diritto eurounitario. Tesi formulata nell’intervento a Palermo il 14 ottobre del sottosegretario Mantovano davanti al capo dello Stato, e accentuata nella conversazione con “il Foglio” del 16 ottobre del politico-magistrato: “La disapplicazione, in presenza di una fonte comunitaria, è sempre un caso estremo quando una norma nazionale è evidentemente illegittima. Ma una norma evidentemente illegittima non è qualcosa che si riscontra ordinariamente: il capo dello Stato non firma norme evidentemente illegittime. La gestione di un fenomeno così complesso e delicato come l'immigrazione non può passare per via giudiziaria.”
Per la verità, un giudice si rivolge alla Corte di giustizia dell'UE solo quando l’interpretazione di regole comunitarie che potrebbero ostare all’applicazione di norme interne non sia univoca, altrimenti provvede direttamente all’eventuale disapplicazione. Se poi sia stata corretta la valutazione dei giudici che in questi giorni negano le convalide dei trattenimenti lo deciderà la Cassazione, se il Ministero competente, oltre ad annunciarle, proporrà le impugnazioni di legge.
Ma, al cospetto dell’argomentazione che “una legge nazionale va disapplicata se in evidente contrasto con le norme UE, ma una legge nazionale in quanto firmata dal capo dello Stato non può essere in evidente contrasto con le norme UE”, torna irresistibile alla mente (a ciascuno i propri flash!) il “Comma 22” di un libro e film di molti anni fa: “chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo”. Potenza dei paralogismi.
(La foto di copertina è un fotogramma del film "Comma 22" di Mike Nichols, 1970).
Tutti saprebbero fare un giornale se solo occorresse l’inchiostro tipografico. E invece ci vuole qualcos’altro. Non basta saper non pensare: per fare un giornale, bisogna anche saper esprimere l’assenza di pensiero. Il pensiero, caustico, di un giornalista e scrittore austriaco, è l’occasione per una critica di quelle frequenti letture massimaliste - già presenti e riaffermate con cadenza regolare all’interno e all’esterno della magistratura - che pretendono di spingere il dovere di imparzialità ancora oltre. Verso l’affermazione di un vuoto, radicale e pericoloso dovere di manifestare il non pensiero valoriale - apparire imparziali - tangibile espressione del dovere di astenersi dal pensiero valoriale - essere imparziali. Apparire imparziali, essere imparziali. Essere imparziali, apparire imparziali. Non troppo sullo sfondo c’è il tentativo, mediaticamente molto efficace, di riduzione partitica del discorso valoriale e la volontà di attribuire ad un pezzo delle istituzioni colpe non altrimenti attribuibili. Non avere un pensiero e saperlo esprimere, è questo un giudice?
Essere imparziali, apparire imparziali.
Imperativo ipotetico.
Riecheggia profonde dispute filosofiche sul rapporto apparenza/sostanza/fenomeno/essenza. Propende per la sintesi, afferma la coincidenza.
Richiama quel sentire per cui ciò che sappiamo sull’altro, e ciò che gli altri sanno di noi, si fonda su manifestazioni esteriori. Non c’è un accesso diretto al pensiero altrui e non c’è un obbligo di manifestazione del pensiero. È l’apparente paradosso per cui la profondità coincide con la superficie. È la constatazione per cui, nel rapportarsi, gli esseri umani non possono evitare di prendere le cose per come esse appaiono.
Imperativo ipotetico. Trasformato in martellante citazione, in immediata sensazione.
Al centro del dibattito in questi giorni, come in altri passati e in altri che verranno, mostra la sua natura stratificata e i pericoli che affiorano sulla sua superficie.
Il dovere di non manifestare il proprio pensiero.
Lo strato più profondo, nucleare e indiscusso dell’imperativo è quello per cui il magistrato ha il dovere di non manifestare il proprio pensiero, nel dibattito pubblico, in merito ai procedimenti e ai giudizi assegnati quale giudice naturale.
Il dovere di manifestare il proprio pensiero, nel dibattito pubblico, con equilibrio e misura.
Lo strato intermedio, mobile e dai confini incerti, è quello per cui il magistrato ha il diritto di manifestare, nel dibattito pubblico, il proprio pensiero e il dovere di farlo con equilibrio e misura.
È la forma-contesto della manifestazione (frequentazione partitica o associativa, articolo, convegno, cena, manifestazione di piazza, “like”, conflittualità, ecc…) al centro di un complesso dibattito, intriso di divisioni valoriali e politiche, di concetti inafferrabili e, a volte, di una velata ipocrisia, che in ogni caso ha il pregio di tentare una comprensione della realtà.
La Costituzione, in tal modo, mostra il proprio sfavore nei confronti di attività o comportamenti idonei a creare tra i magistrati e i soggetti politici legami di natura stabile, nonché manifesti all’opinione pubblica, con conseguente compromissione, oltre che dell’indipendenza e dell’imparzialità, anche della apparenza di queste ultime: sostanza e apparenza di principi posti alla base della fiducia di cui deve godere l’ordine giudiziario in una società democratica (…) Il cittadino-magistrato gode certamente dei diritti fondamentali di cui agli artt. 17, 18 e 21 Cost. L’esercizio di questi ultimi diritti gli consente di manifestare legittimamente le proprie idee, anche di natura politica, a condizione che ciò avvenga con l’equilibrio e la misura che non possono non caratterizzare ogni suo comportamento di rilevanza pubblica (Corte Costituzionale n. 170/2018).
«C'è un punto di etica professionale che va chiarito: un magistrato, per il suo specifico ruolo costituzionale, ha doveri più stringenti di un qualsiasi altro funzionario pubblico. Da qui il dovere di non partecipare a manifestazioni conflittuali che possano mettere in discussione la sua credibilità come soggetto imparziale. Si possono manifestare in modo corretto, non conflittuale, le proprie opinioni.» Come? «Con studi, articoli, interventi in sedi proprie; evitando sempre di essere e di apparire parte di un conflitto sociale o politico» (un ex magistrato e politico).
Il magistrato (…) può anche partecipare ai partiti politici purché in maniera “non sistematica né continuativa” (Sezioni Unite civili n. 8906/2020 così massimata: Ai fini della configurabilità dell'illecito disciplinare, mentre la condotta della iscrizione, per la sua valenza di atto formale, che rivela di per sé una stabile e continuativa adesione del magistrato a un determinato partito politico, lo integra indipendentemente dal ricorso di particolari circostanze, la condotta della partecipazione a partiti politici costituisce, invece, illecito solo quando sia qualificabile secondo i parametri di cui alle clausole generali della "sistematicità" e della "continuatività"; con riguardo a tale fattispecie, è pertanto escluso ogni automatismo sanzionatorio).
Ma la vera perversione è il potere. Qui non esistono la destra e la sinistra; esiste solo il centrotavola (un giornalista).
Complesso, fragile, calibrare il dovere di equilibrio e misura in ragione della forma. Complesso, insidioso, farlo in ragione del contenuto della manifestazione del pensiero. Una società realmente pluralista non può permettersi di pesare la libertà in base a delle semplici petizioni di principio o in ragione del solo contenuto o della sola forma del pensiero.
Le difficoltà più serie di un uomo cominciano quando egli è libero di fare ciò che vuole (un naturalista e filosofo)
È comunque il ruolo del magistrato nella società al centro effettivo di quel dibattito valoriale. L’esser magistrato impone di non partecipare al dibattito pubblico e quindi il dovere di non manifestare il proprio pensiero. Dicono alcuni. L’esser magistrato impone di partecipare al dibattito pubblico e quindi il dovere di manifestare il proprio pensiero. Dicono altri.
Nella vita sociale il magistrato si comporta con dignità, correttezza, sensibilità all'interesse pubblico (art. 1 Codice etico A.N.M.).
L’aderente al Gruppo si riconosce nei seguenti principi: (…) l’espressione del proprio pensiero con equilibrio e senso della misura (Statuto Unicost).
Riconosce il diritto del magistrato a partecipare alla discussione pubblica, in particolare sui temi inerenti la tutela dei diritti e le politiche giudiziarie. In nessun caso, tale partecipazione deve pregiudicare l'immagine di imparzialità del magistrato (Carta dei Valori Area DG).
Da sempre pensiamo che un magistrato debba parlare solo attraverso i suoi provvedimenti e proprio per questo chiediamo che la critica muova dal loro contenuto, sulla base di un confronto intellettualmente onesto, basato sul rifiuto del metodo dell'argumentum ad hominem (comunicato Magistratura Indipendente del 4 ottobre 2023).
L’appassionata partecipazione alla conoscenza e alla critica del mondo, l’impegno civile nella vita del Paese non rendono il magistrato meno imparziale: semmai, lo rendono meno misero e non lo espongono al rischio di cadere vittima del potere e del sapere della parte processualmente più forte. Crediamo non ci sia cittadino, di destra o di sinistra, a volere un giudice sulle nuvole, debole e ignaro. La vera imparzialità è equidistanza dalle parti in carne ed ossa del caso concreto, non è, invece, lontananza dalla realtà, indifferenza ai valori e dai principi della Costituzione e delle Convenzioni internazionali (comunicato Magistratura democratica del 7 ottobre 2023).
Il dovere di manifestare il non pensiero.
Lo strato superficiale, quasi gassoso, che si vuole attribuire all’imperativo è quello per cui il magistrato ha il dovere di manifestare il non pensiero, l’assenza di pensiero.
L’imperativo ipotetico essere imparziali, apparire imparziali è declinato così nella pretesa e manifesta neutralità del giudice e del suo pensiero. Declinazione che assume, quando esteso in eccesso, anche il dovere di manifestare il pensiero con equilibrio e misura.
Da ragazzo, in un paese più povero ma non infelice, conoscevo un magistrato, il padre di un amico di scuola divenuto insigne storico, che la sera stava sempre e rigorosamente a casa salvo eccezioni famigliari contenute, e ascoltava l'”Italiana” di Mendelssohn. Sbirciò cinque minuti di Italia-Germania 4 a 3, ma non di più, mentre noi incasinavamo di urla la stanza della televisione nel suo appartamento (un giornalista liberale su un giornale liberale).
La Costituzione prevede che la legge può stabilire il divieto di iscrizione a partiti politici per i magistrati. La neutralità comporta che vi sia un distacco dagli interessi dei partiti politici. Quindi sarebbe bene che i magistrati fossero imparziali e neutrali e che quindi non partecipassero a delle riunioni pubbliche (un ex giudice costituzionale intervenuto in una trasmissione televisiva).
Sono sempre stato un modesto e semplice soldato (...) Io non ho partecipato e non parteciperei mai ad una manifestazione di qualsiasi tipo. Non solo che abbia un connotato politico ma anche una semplice presa di posizione in un senso o nell'altro (…) Ribadisco che per me il magistrato non deve fare esternazioni sui temi che lambiscono l'esercizio delle sue funzioni (un ex magistrato in una intervista).
E qui arriviamo al terzo punto del problema, ovvero alla deriva, ci sia concesso, “eversiva” di un pezzo di magistratura convinta da anni di dover rispondere a una vocazione politica (editoriale di un giornale garantista).
Basta magistrati che interpretano le leggi in vigore. Il loro compito è applicarle (un giornalista ed ex politico).
È sollecitata l’immagine ideale di un magistrato giusto, imparziale poiché neutro. Grazie alla padronanza della tecnica. In ragione della distanza da tutto e tutti. Nell’asetticità della sua stanza chiusa la coscienza e la scienza permettono al magistrato di assumere una decisione che appare di diritto e di giustizia e che quindi è resa secondo diritto e secondo giustizia.
Condizione culturale e sociale, dal sapore pandemico, che garantisce, echeggiando profili di giuridica santità, l’imparzialità e la genuinità della tecnica per mezzo della castità politica ed etica.
E in tale ordine di pensiero si colloca il dovere di manifestare l’astensione dal pensiero.
Il giudice ideale è un puro della tecnica e si mostra quale puro della tecnica.
Il giudice ideale non ha-manifesta alcun convincimento che si collochi all’interno di uno dei grandi temi dell’umanità, della propria comunità e quindi del dibattito pubblico (questione economica, questione femminile, questione ambientale, questione del lavoro debole, questione migratoria, ecc..). La presenza di un pensiero trascina il magistrato nella polvere della politica, strappandolo dalle candide braccia della tecnica.
Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia (un umorista).
E lungo il sentiero di tale pensiero, comunque non indifferente alla realtà delle cose, viene poggiata la trappola logico-giuridica dell’astensione per opportunità, accompagnata dal ventaglio disciplinare. E un po’ più in qua c’è la trappola della incompatibilità ambientale e, un po’ più in là, quella della valutazione di professionalità.
Sappiamo infatti ora che la Giudice ha avuto modo di esprimere sui social - e addirittura in una manifestazione pubblica - idee molto precise e schierate in tema di immigrazione, in aperta polemica con la politica dell’attuale Governo e di suoi esponenti apicali; e così pure avrebbero fatto suoi stretti congiunti. Padronissima la Giudice di manifestare liberamente il proprio pensiero, ma ad una elementare condizione: che di tutto potrà poi occuparsi professionalmente, fuorché di quei temi (…) Esiste l’istituto dell’astensione, la categoria della opportunità, il dovere del Giudice non solo di essere - come dice la stessa Corte di Cassazione - ma ancor prima di apparire imparziale. Un sistema sano innanzitutto previene simili situazioni, ed eventualmente chiede conto della infrazione di queste basilari regole di civiltà giuridica. A meno che il famoso idiomatismo sulla moglie di Cesare valga per tutti, ma non per i magistrati e le loro mogli. (Un avvocato in un articolo apparso su un giornale riformista).
Essi tuttavia possono, anche senza il loro consenso, essere trasferiti ad altra sede o destinati ad altre funzioni, previo parere del Consiglio superiore della magistratura (…) quando, per qualsiasi causa indipendente da loro colpa non possono, nella sede occupata, svolgere le proprie funzioni con piena indipendenza e imparzialita' (Regio Decreto 31 maggio 1946, n. 511).
L’imparzialità consiste nell’esercizio della giurisdizione condotto in modo obiettivo ed equo rispetto alle parti (…) Il giudizio ‘negativo’ in ordine a tale profilo è determinato dalla gravità del fatto o dei fatti ascrivibili al magistrato. La gravità del fatto o dei fatti va valutata anche alla luce delle possibili ripercussioni negative nel tempo sulla credibilità dell’esercizio delle funzioni giudiziarie da parte del magistrato (Circolare C.S.M. sulle valutazioni di professionalità).
Essere imparziali, apparire imparziali.
Se sostanza e apparenza devono coincidere allora il dovere di manifestare l’assenza di pensiero è anche e prima di tutto dovere di assenza di pensiero in merito ai grandi temi valoriali che inevitabilmente arrivano, anche a causa di una legislazione assente o confusa, sulla scrivania del giudice.
In disparte l’artificiosa scissione tra tecnica, valori, diritto, politica, la sollecitazione dell’immagine di un giudice, tecnico neutro - assente dal pensiero pubblico e assente nel pensiero, indifferente ai grandi temi etici - contribuisce ad un inganno culturale collettivo, ad un processo e ad un rischio.
Dicono una cosa che sanno che non è vera nella speranza che, se continueranno a dirla a lungo, sarà vera (un drammaturgo inglese)
Il processo, ormai da tempo in corso, è quello della degradazione culturale e valoriale della funzione giurisdizionale e del magistrato. Degradazione che conduce ad un giudice statistico-tecnocrate dotato di una cultura artificiosa, di una intelligenza artificiale e di una spiccata sensibilità numerica - fragile stampella della democrazia pluralista - il cui unico compito è scrivere sentenze “a palate” senza doversi occupare di quel che accade poco fuori la sua stanza, figuriamoci oltre.
Non è l’intelligenza artificiale che ha imparato a pensare come noi, siamo noi che abbiamo smesso di pensare (un professore di filosofia teoretica).
Al di là di tali circostanze, occorre evitare che un’eccessiva e impropria dilatazione del requisito dell’imparzialità porti ad una mortificazione assoluta della libertà di manifestazione del pensiero del magistrato, sul quale incombe sia il dovere di salvaguardare il prestigio della funzione giudiziaria, sia quello di contribuire alla crescita culturale della propria comunità (un magistrato).
L’inganno culturale collettivo è l’affermazione di tre assiomi che sfuggono alla discussione e alla critica: la possibilità di un pensiero neutro, con la conseguenza di nascondere la centralità della realtà e del discorso valoriale; l’applicazione della dialettica schmittiana amico-nemico come unico canone di interpretazione del politico e della discussione politico-valoriale; la coincidenza di quest’ultima con la discussione partitica, con la conseguenza di strattonare la magistratura nella lotta partitica ogni volta in cui è chiamata a pronunciarsi su temi di discussione politica e valoriale.
È pura illusione immaginare la loro indifferenza ai valori, come la loro neutralità culturale (Sezioni Unite civili n. 8906/2020)
È pura illusione pensare che anche la stessa intelligenza artificiale sia neutra posto che apprende e manipola un insieme di dati, che sono espressione di una società, riflettendone gli equilibri e gli squilibri.
Il compito del magistrato è quello di decidere. Orbene, decidere è scegliere e, a volte, tra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio (magistrato proclamato beato il 9 maggio 2021).
Il rischio finale è quello che intravide una filosofa politica (che amava definirsi pensatrice) nell’ascoltare la deposizione processuale di un “burocrate” genocida: trovarsi di fronte a un uomo né diabolico, né stupido né malvagio, ma di fronte a un uomo ordinario, contrassegnato dalla “mancanza di pensiero” che si manifestava attraverso una cieca adesione a “codici d’espressione e di condotta convenzionali e standardizzati”.
Quanto più lo si ascoltava, tanto più era evidente che la sua incapacità di esprimersi era strettamente collegata a un’incapacità di pensare (…) Comunicare con lui era impossibile, non perché mentiva (ipotesi che fino alla fine tenne in dubbio i giudici), ma perché le parole e la presenza degli altri, quindi la realtà in quanto tale, non lo toccavano.
È possibile fare il male (le colpe di omissione alla stessa stregua di quelle commesse) in mancanza non solo di “moventi abietti” (come li chiama la legge), ma di moventi tout court, di uno stimolo particolare dell’interesse o della volizione? Si può credere che la malvagità, comunque la si definisca, questa “determinazione a mostrarsi scellerati”, non sia una condizione necessaria per compiere il male? Il problema del bene e del male, la nostra facoltà di distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato sarebbe forse connesso con la nostra facoltà di pensiero? (…) Potrebbe l’attività del pensare come tale, l’abitudine di esaminare tutto ciò a cui accade di verificarsi o di attirare l’attenzione, indipendentemente dai risultati e dal contenuto specifico, potrebbe quest’attività rientrare tra le condizioni che inducono gli uomini ad astenersi dal fare il male, o perfino li “dispongono” contro di esso?
Quando tutti si lasciano trasportare senza riflettere da ciò che gli altri credono e fanno, coloro che pensano sono tratti fuori dal loro nascondiglio perché il loro rifiuto a unirsi alla maggioranza è appariscente, e si converte perciò stesso in una sorta di azione. In simili situazioni la componente catartica del pensiero (la maieutica di Socrate, che porta allo scoperto le implicazioni delle opinioni irriflesse e non esaminate, e con ciò le distrugge - si tratti di valori, di dottrine, di teorie, persino di convinzioni) si rivela implicitamente politica. Tale distruzione, infatti, ha un effetto liberatorio su un’altra facoltà, la facoltà di giudizio, che non senza ragione si potrebbe definire la più politica fra le attitudini spirituali dell’uomo. (…) La facoltà di giudicare ciò che è particolare (così come scoperta da Kant), l’attitudine a dire “questo è sbagliato”, “questo è bello” e così via, non è la stessa cosa dell’attività di pensare. Il pensiero ha a che fare con l’invisibile, con le rappresentazioni di cose che sono assenti; il giudicare concerne sempre particolari nelle vicinanze e cose a portata di mano. Nondimeno l’uno è in relazione con l’altro, allo stesso modo dell’essere coscienti e della coscienza morale.
Non avere un pensiero e saperlo esprimere, è questo un giudice?
di Renato Rolli e Martina Maggiolini***
Sommario: 1. Ricostruzione della vicenda contenziosa; 2. Sulle questioni di legittimità Costituzionale (già note); 3. Sull’occasionalità della permeabilità mafiosa; 4. Osservazioni conclusive: ancora lacune da colmare.
1. Ricostruzione della vicenda contenziosa
Il tema relativo al contrasto dell’infiltrazione mafiosa richiede un bilanciamento costante di diritti pubblici e privati. Per tale ragione è necessario indagare la pervasività del fenomeno mafioso al fine di attivare gli strumenti più idonei al contrasto e meno invasivi per le società destinatarie del provvedimento prefettizio.
L’attuale vocazione imprenditoriale delle mafie ha imposto la previsione di più duttili strumenti di bonifica aziendale in alternativa a quelli ablatori. Ci si allontana dallo scopo sanzionatorio-ablatorio per giungere al recupero di economie che, seppure incise da tentativi di infiltrazione mafiosa, mostrano una possibilità di risanamento.
Si è progressivamente affermata la tendenza ad individuare svariati strumenti alternativi di tipo preventivo e di controllo, calibrati sul diverso grado di condizionamento mafioso, volte a tutelare la continuità dell’attività dell’impresa (bonifica prima e successiva riabilitazione)[1].
Dalla ricostruzione della pronuncia in commento è possibile cogliere non pochi spunti riflessivi sull’evoluzione del tema.
Il ricorrente, titolare della società a conduzione familiare operante nel settore navale impugnava due distinti provvedimenti il primo proposto per l’annullamento dell’interdittiva adottata dalla Prefettura di Reggio Calabria sull’istanza di aggiornamento ex art. 91 co. 6 D.lgs. n. 159/2011 di precedente inibitoria, il secondo proposto per l’annullamento di un nuovo provvedimento interdittivo ovvero per la dichiarazione di applicabilità delle misure alternative di prevenzione collaborativa applicabili in caso di agevolazione occasionale.
Preliminarmente la società, con istanza di riesame, chiedeva l’aggiornamento dell’interdittiva sulla base della risalenza nel tempo dei precedenti penali e di polizia, dell’immutata composizione a base familiare della società e l’assenza di qualsiasi interessamento alle vicende societarie da parte dei parenti controindicati, allegando la sopravvenuta sentenza penale di assoluzione ottenuta dai parenti del ricorrente, imputati per il reato di associazione mafiosa.
Medio tempore la Prefettura adottava una nuova informazione interdittiva ritenendo attuale il pericolo di condizionamento mafioso della società.
Con altro ricorso la società impugnava la nuova informazione interdittiva e sollevava diverse eccezioni di incostituzionalità. Il ricorrente sosteneva che l’atto impugnato sarebbe viziato per illegittimità costituzionale degli art. 92 e 94 bis D.lgs. 159/2011 in relazione agli artt. 3 co.2, 4, 24 e 41 della Costituzione, nella parte in cui non prevede che l’autorità prefettizia possa limitare gli effetti dell’interdittiva, circoscrivendo le decadenze e i divieti scaturenti dalla sua adozione, ove “per effetto degli stessi verrebbero a mancare i mezzi di sostentamento all’interessato e alla famiglia” [2].
Si prospetta l’incostituzionalità dell’art. 94 bis D.lgs n. 159/2011, nella parte in cui prevede che le misure di prevenzione collaborativa siano sempre applicabili nei casi di agevolazione occasionale anche a soggetti avulsi da controindicati rapporti di parentela e non lo siano, invece, quando i tentativi di infiltrazione mafiosa derivano esclusivamente dalla mera esistenza di relazioni con familiari presuntivamente portatori di pericolosità ma senza presupporre un’agevolazione né cronica né estemporanea.
Il ricorrente, poi, contestava l’omessa e/o la contraddittoria valutazione di nuovi elementi evidenziati in sede di richiesta di aggiornamento dell’informativa antimafia, allegando provvedimenti giurisdizionali, antecedenti all’impugnata interdittiva, a sé favorevoli, e recenti provvedimenti favorevoli ottenuti dai fratelli. A sostegno di una comprovata estraneità all’ambiente criminoso, il ricorrente introduceva le risultanze delle indagini difensive che, ripercorrendo la vita della società, avrebbero negato contatti dei soci con l’ambiente mafioso scongiurando il rischio di ingerenze illecite [3].
La Prefettura, infine, avrebbe omesso di valutare i margini per l’applicazione delle misure di prevenzione collaborativa, verificando in concreto se i tentativi di infiltrazione mafiosa fossero “riconducibili a situazioni di agevolazione occasionale”.
Il ricorrente, dunque, concludeva per l’annullamento dei provvedimenti impugnati ovvero per la dichiarazione di applicabilità delle misure alternative di cui all’art.94 bis e, in ogni caso, per la condanna al risarcimento dei danni o in forma specifica, derivanti dall’illegittimità del provvedimento impugnato.
Le misure cautelari urgenti venivano respinte dal Presidente del TAR e l’Amministrazione costituendosi chiedeva la reiezione del gravame.
Il Collegio disponeva la riunione dei due ricorsi per evidenti ragioni di connessione soggettiva ed oggettiva, riservando a separato provvedimento la decisione del ricorso inerente ad atti consequenziali all’interdittiva e, per le motivazioni che seguono riteneva fondata la violazione dell’art. 94 bis D.lgs. n. 159/2011 e pertanto annulla il provvedimento interdittivo nella parte de qua.
2. Sulle questioni di legittimità Costituzionale (già proposte)
È sempre utile in tema di interdittiva richiamare l’ormai consolidata giurisprudenza di legittimità al fine di analizzare eventuali, ulteriori e nuovi profili.
Il Collegio, sul ricorso per l’annullamento dell’interdittiva adottata dalla Prefettura sull’istanza di aggiornamento ex art. 91 co. 6 D.lgs. n. 159/2011 di precedente inibitoria, rilevava la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità avanzate alla luce delle sentenze della Corte Costituzionale n.180/2022 e n. 57/2020.
La Corte Costituzionale ribadiva che “L'informazione antimafia interdittiva adottata dal Prefetto nei confronti dell'attività privata delle imprese oggetto di tentativi di infiltrazione mafiosa non viola il principio costituzionale della libertà di iniziativa economica privata perché, pur comportandone un grave sacrificio, è giustificata dall'estrema pericolosità del fenomeno mafioso e dal rischio di una lesione della concorrenza e della stessa dignità e libertà umana”; “l'ampio potere amministrativo non si può ritenere sproporzionato rispetto all'interesse della collettività al mantenimento di una situazione di concorrenza sul mercato, la cui tutela impone di colpire in anticipo il grave e pericoloso fenomeno mafioso [4].
Con più recente pronuncia, la Corte Costituzionale dichiarava inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 92, D.lgs. 159/2011, sollevate, in riferimento agli artt. 3, comma 1, 4 e 24 della Costituzione, nella parte in cui non viene riconosciuto al prefetto la facoltà di escludere decadenze e divieti stabiliti dal comma 5 dell’art. 67 del medesimo decreto legislativo, ove valuti che, in conseguenza degli stessi, verrebbero a mancare i mezzi di sostentamento all’interessato e alla sua famiglia [5].
Il ricorrente deduceva, poi, l’incostituzionalità dell’art. 94 bis D.lgs. n. 159/2011 nella parte in cui non prevede l’applicazione delle misure di prevenzione collaborativa anche a beneficio dell’imprenditore non occasionalmente agevolato dalla mafia ma legato da parentele a soggetti che possono essere ricondotti all’apparato mafioso.
Il TAR adito riteneva irrilevante e manifestamente infondata l’eccezione poiché il ricorrente non indicava specificamente i profili costituzionali effettivamente violati poiché la norma indicata richiede quale unico presupposto al fine dell’applicazione delle misure alternative a quella di tipo interdittivo la riconducibilità dei tentativi di infiltrazione criminosa “a situazioni di agevolazione occasionale” a prescindere dalla sussistenza di controindicati rapporti di parentela.
Ed ancora il provvedimento interdittivo è ritenuto in contrasto con diversi dettati costituzionali (art. 3, 27, 111 Cost.) e convenzionali (art. 6 paragrafi 2 e 3 del Trattato CEDU).
Il ricorrente, sul punto, riteneva inadeguato il criterio probabilistico come effettivamente probatorio al fine di individuare la presenza di situazioni di permeabilità mafiosa condizionanti l’attività economica della singola impresa.
In realtà, la giurisprudenza è ormai unanime nel ritenere che la regola probatoria del “più probabile che non” non è connotata da un diverso procedimento logico, bensì dalla minore forza dimostrativa dell’inferenza logica richiesta.
Il Consiglio di Stato [6] ha chiarito a più riprese che “il pericolo di infiltrazione mafiosa deve essere valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipica dell’accertamento (…) penale, e quindi fondato su prove, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere “più probabile che non”, appunto, il pericolo di infiltrazione mafiosa” [7].
La formula "elastica" scelta nella materia che ci occupa fondata su base indiziaria trova giustificazione nella ragionevole ponderazione tra l’interesse privato al libero esercizio dell’attività imprenditoriale e l’interesse pubblico alla salvaguardia del sistema socioeconomico dagli inquinamenti mafiosi.
Sovente il primo pare recessivo rispetto al secondo, poiché collegato alle preminenti esigenze di “difesa dell'ordinamento contro l’azione antagonistica della criminalità organizzata” [8]. Dunque, il criterio del "più probabile che non" è conforme al sistema della Convenzione EDU e della Costituzione [9] per cui non può essere condivisa l’eccezione di legittimità.
3. Sull’occasionalità della permeabilità mafiosa
Il provvedimento in commento impone di analizzare il concetto di occasionalità della permeabilità mafiosa che non appare di immediata comprensione.
Il provvedimento impugnato è la risposta all’istanza di riesame della prima interdittiva, la cui legittimità è già stata definitivamente dichiarata con sentenza passata in giudicato [10].
L’amministrazione nel valutare l’istanza di riesame è tenuta a determinazioni diverse rispetto alla fase genetica del provvedimento interdittivo.
Già consolidata giurisprudenza ha chiarito che l’autorità prefettizia in sede di riesame deve limitarsi a “verificare se la domanda sia accompagnata da un fatto realmente nuovo, perché sopravvenuto ovvero non conosciuto, che possa essere ritenuto effettivamente incidente sulla fattispecie e a valutare se possano ritenersi venute meno quelle ragioni di sicurezza e di ordine pubblico in precedenza ritenute prevalenti sull'iniziativa e sulla libertà di impresa del soggetto inciso” [11].
Ciò che rileva in sede di riesame non è il mero trascorso del tempo bensì il sopraggiungere di elementi oggettivi diversi o contrari che ne facciano venire meno la portata sintomatica, in quanto ne controbilanciano, smentiscono o superano la forza indiziante [12].
Dalla documentazione allegata non si evince alcun elemento che faccia presumere la totale estraneità della società al contesto criminoso anzi il giudice adito ritiene che sui soci gravi il fermo sospetto che essi non siano né possano davvero considerarsi estranei o comunque indifferenti a logiche, interessi e profitti di derivazione illecita. Per tale ragione, il Collegio reputa che l’impugnata interdittiva resista alle censure formulate dal ricorrente.
Ciò che si evince è uno stretto legame di parentela dei soci con soggetti ritenuti appartenenti alla criminalità organizzata e per questo esposti ampiamente a una loro influenza che allontana la società dal reingresso nel sistema dell’economia sana.
Seppur alcuni fatti riportati appaiono come risalenti nel tempo, sia dottrina che giurisprudenza sono unanime nel ritenere che “il mero decorso del tempo, di per sé solo, non implica, cioè, la perdita del requisito dell’attualità del tentativo di infiltrazione mafiosa e la conseguente decadenza delle vicende descritte in un atto interdittivo, né l’inutilizzabilità di queste ultime quale materiale istruttorio per un nuovo provvedimento, donde l’irrilevanza della “risalenza” dei dati considerati ai fini della rimozione della disposta misura ostativa, occorrendo, piuttosto, che vi siano tanto fatti nuovi positivi quanto il loro consolidamento”[13].
Ciò che rileva è l’ampiezza del reticolo parentale che innesta famiglie e interessi economici convergenti nello stesso settore commerciale aventi lo stesso bacino territoriale d’utenza, da cui è del tutto logico e ragionevole prefigurare come attendibile l’eventuale rischio di “contagio” tra le due imprese e pertanto non è concepibile un’analisi atomistica dei fattori ma è necessaria una lettura complessiva dell’apparato probatorio (probabilistico) [14].
Seppur il ricorrente abbia fornito una ricca documentazione tesa a dequotare gli elementi che vedono la società legata ad ambienti criminosi, da tentativi di infiltrazione mafiosa a situazioni di agevolazione non cronica ma occasionale, l’amministrazione, in sede di riesame, non ha considerato la possibilità di ricorrere all’applicazione di misure alternative a quella inibitoria, violando l’art. 94 bis D.lgs n. 159/2011.
Il Collegio riteneva tale profilo di censura fondato.
L’art. 94 bis D.lgs n. 159/2011 prevede che l’autorità prefettizia, ove accerti che i tentativi di infiltrazione mafiosa sono da ritenersi riconducibili a situazioni di agevolazione occasionale, dispone con provvedimento motivato, all'impresa, l’adozione, per un periodo non inferiore a sei mesi e non superiore a dodici mesi, di una o più delle misure di prevenzione collaborativa.
Lo stesso Collegio[15] ha già precisato che “Con la misura di prevenzione collaborativa, prevista dall’art. 94 bis del codice antimafia introdotta dal D.L. 6 novembre 2021, n. 152 “Disposizioni urgenti per l'attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e per la prevenzione delle infiltrazioni mafiose”, si struttura un nuovo modello collaborativo con il mondo produttivo che modula l’afflittività della misura preventiva antimafia in relazione all’effettivo grado di compromissione dell’impresa rispetto al contesto criminale. Tale provvedimento si pone come alternativa all’informazione antimafia interdittiva, ed è attivabile nei casi in cui l’influenza mafiosa abbia un’intensità tale da farla reputare esclusivamente occasionale. L’impresa raggiunta dal provvedimento, pur continuando ad operare nel proprio settore economico, preservando i propri contratti d’appalto, è tenuta ad adottare modelli aziendali orientati all’auto accreditamento della propria affidabilità imprenditoriale (self cleaning) e a fornire comunicazioni inerenti la propria vita economica e imprenditoriale che consentiranno ai componenti del Gruppo Interforze Antimafia per la provincia di Reggio Calabria di monitorare il suo comportamento operativo, escludendo in tal modo che possa essere oggetto di infiltrazione mafiosa”.
L’obiettivo delle misure di prevenzione collaborativa, come, del resto, nel controllo giudiziario è quello di “decontaminare” l’economia delle imprese non del tutto attagliate dall’infiltrazione mafiosa e reinserirle nel mercato sano mediante un apparato fondato sul principio di progressività proprio delle misure di prevenzione, che si adatta allo stato di necessità di prevenzione del singolo imprenditore.
Appare necessario ora chiarire se le misure di prevenzione collaborative siano precluse dal rinnovato accertamento dello status di impresa mafiosa anche ove ciò sia dipeso da “influenze” che, pur essendo state consolidate in passato, siano ora divenute solo “occasionali” e potenzialmente tramutabili in attività sane.
Il Prefetto è tenuto a verificare ragionevolmente se i fatti oggetto di riesame siano idonei a far degradare la condizione permeabilità mafiosa dell’impresa da cronica ad occasionale, senza determinare un’immediata liberazione dell’impresa destinataria di interdittiva.
Dunque, accanto al criterio probabilistico indeterminato si affianca oggi un nuovo concetto se possibile ancora più indeterminato: l’occasionalità.
Esso, dunque, diventa una nuova misura del livello del rischio di infiltrazione.
Se dottrina e giurisprudenza hanno contribuito nel delineare la portata del principio probabilistico, ora dovranno impegnarsi nel definire un ulteriore criterio, prima facie privo di contenuto.
Un primo contributo chiarificatore sul presupposto dell’agevolazione occasionale proviene dalla giurisprudenza che ha dichiarato come “la verifica dell’occasionalità dell’infiltrazione mafiosa, pertanto, non deve essere finalizzata ad acquisire un dato statico, consistente nella cristallizzazione della realtà preesistente, ma deve essere funzionale a un giudizio prognostico circa l’emendabilità della situazione rilevata, mediante gli strumenti di controllo previsti dalla suddetta disposizione, ivi compresi gli obblighi informativi e gestionali previsti dal comma 3 dell’art. 34-bis [16].
Dunque, l’ammissione alle misure di prevenzione collaborativa deve essere accolta ove l’infiltrazione non risulta cronica ma solo "occasionale" e dunque sia possibile raggiungere la bonifica dell’impresa tramite sistemi virtuosi e la successiva immissione della stessa nel mercato sano.
Pertanto, il grado di infiltrazione deve essere talmente esiguo da scongiurare l’ipotesi che l’azienda, anche dopo l’esperimento della misura, risulti ancora sensibile ai condizionamenti esterni. In altre parole, laddove l’infiltrazione, lungi dall’essere solo “occasionale”, si configuri, al contrario, come stabilmente radicata, cronica, insanabile, non è ragionevole, secondo il criterio del più probabile che non, formulare un giudizio prognostico positivo circa l’eliminazione del pericolo concreto di nuovi tentativi.
Il dato ultimo è quello di accompagnare l’impresa all’interno di un circuito economico privo di ingerenze criminose con l’obiettivo di salvaguardare l’economia e lo stato occupazionale di alcune ‘zone private’, per le più disparate ragioni, dalla possibilità di esercitare attività lavorative. Valorizzare la cooperazione pubblico-privata salvaguardando la continuità aziendale risponde alle diverse necessità. Per cui l’autorità prefettizia dovrà decidere motivatamente sulla scorta della documentazione allegata dall’impresa se essa possa allontanarsi definitivamente dai tentativi di infiltrazione e/o condizionamento.
4. Osservazioni conclusive: ancora lacune da colmare
Le misure ex art. 94 bis non rappresentano una completa novità, ma appaiono assimilabili a quelle che l’autorità giudiziaria può disporre con il controllo giudiziario delle aziende di cui all’art. 34-bis cod. ant di cui abbiamo detto altrove [17].
In dottrina si è osservato come la «ratio sottesa alla prevenzione collaborativa è la stessa del controllo giudiziario» e si rinviene nell’esigenza di «non travolgere le imprese solo macchiate da marginali presenze mafiose, spesso inevitabili in alcuni territori»; si può trattare «di un “controllo amministrativo” che, in caso di esito positivo, anticipa e sostituisce il controllo giudiziario, e in caso di insuccesso ne ritarda o ne rende solo eventuale l’applicazione» [18].
Così agendo, il legislatore ha aperto «la strada ad una forma di cooperazione partecipata, questa volta però non tra impresa e tribunale, bensì tra impresa e autorità amministrativa, consentendo a quest’ultima di entrare in azienda e verificare la presenza o meno dei pericoli di infiltrazione mafiosa senza però esporla al rischio di una paralisi e salvaguardando il going concern aziendale e i livelli occupazionali» [19].
Il controllo amministrativo, in caso di esito positivo, anticipa e sostituisce il controllo giudiziario, e in caso di insuccesso ne ritarda o ne rende solo eventuale l’applicazione [20].
Dunque, l’interdittiva si configura quale extrema ratio, da utilizzarsi solo al fine di contrastare croniche infiltrazione mafiose.
Il grado di esposizione dell’impresa al pericolo di condizionamento mafioso risulta imprescindibile ai fini del dosaggio delle misure da adottare sin dalla fase prefettizia.
Il regime interdittivo diviene dunque la misura più rigida e risulta contornata dalle “misure amministrative di prevenzione collaborativa” di cui all’art. 94-bis d.lvo n. 159/2011, dirette – sulla falsariga di quelle che sostanziano lo strumento del controllo giudiziario ex art. 34-bis – al risanamento di economie insane.
La ratio del più recente intervento legislativo è riconducibile all’esigenza di non espellere integralmente dal circuito economico le imprese non irrimediabilmente compromesse dal contatto mafioso, in quanto fatte solo “occasionalmente” oggetto degli interessi della criminalità organizzata, e quindi, piuttosto che alla finalità di ampliare l’ambito applicativo degli strumenti preventivi, a quella di modificarlo qualitativamente ove ricorra tale forma “debole” di condizionamento.
La verifica dell’occasionalità solleva non poche perplessità.
Di recente, la giurisprudenza ha mostrato abbracciare una soluzione ben precisa che, somministrando un’interpretazione delle modalità con le quali il suddetto accertamento deve avvenire, guarda al futuro e non al passato, cogliendo l’esigenza di salvaguardare quanto più possibile la continuità delle aziende colpite dal controllo.
Ed invero, Cass. pen., sez. II, 16 marzo 2023, n. 11326, specifica che «la verifica dell'occasionalità dell'infiltrazione mafiosa non deve essere finalizzata ad acquisire un dato statico, consistente nella cristallizzazione della realtà preesistente, ma deve essere funzionale a un giudizio prognostico circa l'emendabilità della situazione rilevata, mediante gli strumenti di controllo previsti dall'art. 34-bis, commi 2 e 3, d.lgs. n. 159 del 2011».
In altri termini, a nostro parere gli stessi soggetti che applicano il controllo giudiziario dovrebbero essere in grado di comprendere, già nel momento in cui si trovano a dover scegliere se ricorrere a quest’ultimo o alla più rigida misura dell’amministrazione giudiziaria, e anche attraverso la possibilità di adottare tutti gli strumenti che ne garantiscano una adeguata sorveglianza, quante possibilità concrete esistano per l’azienda colpita dalla misura di intraprendere un fruttuoso cammino per il suo riallineamento a contesti economici sani, completamente depurati da fenomeni criminosi.
La Suprema Corte distingue fra l’agevolazione occasionale di cui al primo comma dell’art. 34-bis ed il contesto giuridico e fattuale in cui può operare il controllo giudiziario su richiesta dell’impresa interessata, ex comma 6 del medesimo articolo, che pure deve essere connotato dal carattere della occasionalità.
Secondo tale orientamento, tanto nel caso di controllo giudiziario cd. “prescrittivo” (quello ex comma 1) quanto nel caso di controllo giudiziario cd. “volontario” (quello ex comma 6) la relativa misura è disposta qualora si possa verificare che in futuro, anche in esito all’esperimento della misura stessa, l’attività dell’impresa risulti scevra da qualsivoglia tentativo di contagio mafioso.
Tuttavia, essendo diversi sia i soggetti cui i due commi si riferiscono (il primo comma dell’art. 34-bis rimanda alla condotta di cui all’art. 34, co.1 ma in forma occasionale, mentre il comma 6 riferisce specificamente alle imprese attinte da informazione antimafia che impugnano il provvedimento interdittivo stesso) e diverse pure le modalità di esecuzione di controllo giudiziario eventualmente esperibili (il comma 6 rimanda solo alla lett. b) del comma 2 della stesso articolo), diversi sono, di conseguenza, i termini in cui bisogna intendere verificato il presupposto dell’occasionalità. Nella prima ipotesi, l’occasionalità rileva come dato qualitativo e quantitativo del grado di infiltrazione in base al quale il giudice della prevenzione decide per l’applicazione della misura del controllo. Nell’ipotesi ex comma 6, invece, l’occasionalità non va intesa secondo la nozione tecnica di cui al comma 1, bensì in previsione di una futura depurazione dell’azienda da nuovi tentativi di penetrazione mafiosa. Nel testo della sentenza sopracitata si legge: “la verifica dell’occasionalità dell’infiltrazione mafiosa non deve essere finalizzata ad acquisire un dato statico, consistente nella cristallizzazione della realtà preesistente, ma deve essere funzionale a un giudizio prognostico circa l’emendabilità della situazione rilevata, mediante gli strumenti di controllo previsti dall’art. 34- bis, commi 2 e 3, D.Lgs. N. 159 del 2011(Sez. 6, n. 1590-2021, cit.)”.
In sintesi, il requisito dell’occasionalità che, laddove accertato, permette l’applicazione su richiesta del controllo giudiziario, sospendendo di conseguenza gli effetti della misura interdittiva che insiste sull’impresa interessata, si deve riscontrare sulla base di un duplice giudizio: in negativo, verificando la non stabilità e non attualità dell’agevolazione; in positivo, formulando una prognosi favorevole di bonifica e radicale risanamento dell’impresa[21].
Dunque, il controllo giudiziario si conferma essere un nuovo paradigma di prevenzione patrimoniale, fondato su di un livello di azione certamente più ridotto anche rispetto alla simile amministrazione giudiziaria, ma indubbiamente proporzionato alle esigenze del caso concreto.
È solo con lo sguardo al futuro che il controllo giudiziario dovrebbe garantire un reale sostegno alle imprese vittima del giogo criminale.
Da ultimo il Consiglio di Stato ha chiarito come “nel segno della anticipazione della soglia di difesa dell’ordine pubblico economico e del tessuto economico legale dall’ingerenza mafiosa, tipica del provvedimento interdittivo, anche la meramente occasionale disponibilità dell’impresa ad accettare di “venire a patti” con la criminalità organizzata, pur senza entrare stabilmente a fare parte dei relativi ranghi, con lo scopo di trarre vantaggio dalla sua protezione o anche solo di sottrarsi alle conseguenze negative derivanti dal rifiuto della sua prossimità, integri una situazione oggettivamente allarmante, in quanto idonea a manifestare un elemento di fragilità nella rete di contenimento apprestata dallo Stato nei confronti della invadenza mafiosa” [22].
Appare evidente che al fine di attivare le misure di prevenzione collaborativa è necessario riempire di contenuto il concetto di “occasionalità” per scongiurare il rischio che l’indeterminatezza possa causare una non attivazione della misura in commento. Probabilmente il processo evolutivo che ha visto consolidarsi il principio del “più probabile che non” sarà lo stesso sentiero che percorrerà il concetto di “occasionalità”.
*** Seppur frutto di un lavoro unitario è possibile attribuire i primi due paragrafi al Prof. Renato Rolli i restanti alla dott.ssa Martina Maggiolini
[1] Cfr. Marcella Vulcano, Le modifiche del decreto-legge n. 152/2021 al codice antimafia: il legislatore punta sulla prevenzione amministrativa e sulla compliance 231 ma non risolve i nodi del controllo giudiziario, Giurisprudenza penale, 2021
[2] V. Corte Costituzionale n. 532 del 2002
[3] Si consenta il rinvio su diverse questioni relative ai provvedimenti prefettizi a R. Rolli, L’informativa antimafia come “frontiera avanzata” (Nota a sentenza Cons. Stato, Sez. III, n. 3641 dell’8 giugno 2020), in Questa rivista, 3 luglio 2020
[4] V. Corte Costituzionale, 26.03.2020, n. 57
[5] v. TAR Reggio Calabria 20 marzo 2023 n. 252
[6] A partire dalla fondamentale sentenza n. 1743/2016
[7] V. Cons. Stato, sez. III, 26 settembre 2017, n. 4483; Cons. Stato, sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758; Cons. Stato, sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743; Corte Cost. 26 marzo 2020, n. 57 e la giurisprudenza successiva ad essa conforme, da aversi qui per richiamata. Dunque, l’interprete è sì vincolato a sviluppare un’argomentazione rigorosa sul piano metodologico, “ancorché sia sufficiente accertare che l’ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione più appropriata, la c.d. probabilità cruciale”.
[8] T.A.R. Campania, Napoli, Sez. I, 14 febbraio 2018, n. 1017
[9] V. Cons. Stato, Sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758; Cons. Stato, Sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343
[10] Cfr. Cons. Stato, sez. III, n. 4979/2020
[11] Cfr. TAR Reggio Calabria 5 luglio 2019 n. 444
[12] Cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. III, 13 dicembre 2021, n. 8309; Cons. Stato, sez. III, 21 maggio 2021, n. 3915; TAR Napoli, sez. I, 11 maggio 2021 n. 3113
[13] Cfr. Cons. Stato sez. III, 9 dicembre 2021 n. 8187
[14] È indubbio, infatti, che “uno degli indici del tentativo di infiltrazione mafiosa nell'attività d'impresa - di per sé sufficiente a giustificare l'emanazione di una interdittiva antimafia - è identificabile nella instaurazione di rapporti commerciali o associativi tra un'impresa e una società già ritenuta esposta al rischio di influenza criminale” (v. Cons. Stato, sez. III, 25 novembre 2021 n. 7890)
[15] V. TAR Reggio Calabria 3 maggio 2023 n. 392
[16] Cfr. Sez. 2, n. 9122 del 28/01/2021; Sez. 6, n. 30168 del 07/07/2021
[17] Cfr. Ampiamente M.A. Sandulli, Rapporti tra il giudizio sulla legittimità dell’informativa antimafia e l’istituto del controllo giudiziario, in questa rivista, 2022
[18] V. M. VULCANO, Le modifiche del decreto-legge n. 152/2021 al codice antimafia: il legislatore punta sulla prevenzione amministrativa e sulla compliance 231 ma non risolve i nodi del controllo giudiziario, in Giur. pen. web, 11, 2021, p. 11.
[19] Ibidem
[20] V. Corte di Cassazione, sez. II penale - 16 marzo 2023 N. 11326 “La verifica dell'occasionalità dell'infiltrazione mafiosa non deve essere finalizzata ad acquisire un dato statico, consistente nella cristallizzazione della realtà preesistente, ma deve essere funzionale a un giudizio prognostico circa l'emendabilità della situazione rilevata, mediante gli strumenti di controllo previsti dall'art. 34-bis, commi 2 e 3, D.Lgs. n. 159 del 2011”.
[21] La stessa pronuncia richiama un precedente delle Sezioni Unite, SS.UU. n. 46898 del 26/09/2019, ponendo l’attenzione “sulle concrete possibilità che la singola realtà aziendale ha o meno di compiere fruttuosamente il cammino verso il riallineamento con il contesto economico sano, anche avvalendosi dei controlli e delle sollecitazioni che il giudice delegato può rivolgere nel guidare l’impresa infiltrata”.
[22] Cfr. Consiglio di Stato, sez. III, n. 6144 del 22/06/2023
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