ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
di Rosita D’Angiolella
Sommario: 1. L’argomentazione giuridica e l’assunzione del metodo. 2. Centralità della dialettica sul metodo per arrivare alla decisione aderente al caso concreto. 3. L’inadeguatezza del “metodo algoritmo” per l’argomentazione giuridica: come la giustizia è messa in pericolo dall’incasellamento acritico in soluzioni preconfezionate.
1. L’argomentazione giuridica e l’assunzione del metodo.
L’incalzare delle trasformazioni digitali e la capacità delle macchine di riprodurre alcuni meccanismi intellettuali del pensiero umano ha posto e pone interrogativi circa la possibilità di affidare alle macchine alcuni processi decisionali anche nell’ambito dell’attività giurisdizionale.
Il tema è molto delicato, anzitutto perché intimamente connesso con l’essenza dell’argomentazione giuridica, la quale è sempre frutto di processi intellettuali ed emotivi del decidente che non sono facilmente riproducibili attraverso un linguaggio simbolico numerico; ma soprattutto perché ogni processo decisionale, che ha la finalità di rinvenire nel sistema il rimedio più appropriato per la soluzione di un contrasto di interessi tra soggetti, implica a monte l’assunzione da parte del giudicante di un metodo che consenta, in primo luogo, di districarsi nell’articolato sistema delle fonti e, quindi, di dettare in concreto la soluzione più appropriata per il caso concreto.
Come è noto la scienza giuridica contemporanea coltiva, rispetto al metodo, almeno due approcci: uno legato, tutt’ora, alla teoria della fattispecie, alla quale ricondurre attraverso procedimenti logico-sillogistici gli elementi qualificanti del fatto; l’altro che, viceversa, muovendo dal fatto, si rende conto che l’applicazione rigida di certe categorie dogmatiche, all’esito di un processo che privilegia rigorosamente la logica sillogistica e la tecnica della sussunzione, può mettere capo a risultati non rispondenti alla migliore tutela degli interessi.
Il problema di fondo, quindi, nasce prima della riflessione sull’uso dell’intelligenza artificiale nell’ambito dei processi decisionali, in quanto involge questioni e scelte tra metodi in dialettica tra loro.
In relazione a tale dialettica tra metodi, l’immediata suggestione è che il metodo che privilegia l’uso della razionalità sillogistica è quello su cui si potrebbe fondare, portandolo alle estreme conseguenze, il riconoscimento di un ruolo alla capacità decisionale dei sistemi di intelligenza artificiale.
Si tratta infatti, come ognuno può avvertire, di una esasperazione della razionalità simbolica attraverso il linguaggio binario. Di quella stessa razionalità, del resto, che ha ispirato recenti orientamenti, anche normativi, tesi a valorizzare automatismi decisionali, a svilire il ruolo della motivazione nell’ambito del provvedimento giurisdizionale, a privilegiare in modo non sempre appropriato il tema della prevedibilità della soluzione mirando, per ragioni troppo spesso legate anche alle patologie del nostro sistema legislativo[1], ad un’identificazione non sempre appropriata tra il prioritario principio della certezza del diritto e la ripetitività della soluzione legata ai sistemi di intelligenza artificiale. Emblematico al riguardo è il tema della responsabilità civile per le lesioni a beni giuridicamente protetti causate dalla tecnologia robotica (es. driveless cars, sistemi di telemedicina per la cura delle malattie), ove le categorie civilistiche tradizionali che per natura esigono un approccio metodologico attento alle sollecitazioni che provengono dalla società e dalla storia, risultano poco adattabili alla razionalità simbolica.
Già da questi cenni si trae, dunque, l’assoluta centralità, del problema del metodo, sempre, ma più che mai oggi, nell’epoca della tecnocrazia, della tecno-economia e del disimpegno di un legislatore che produce leggi incomplete, formulate in modo ambiguo, delle quali spesso sfugge la razionalità e dalle quali altrettanto spesso si percepisce un disinvolto uso delle categorie della tradizione; nell’epoca del pluralismo e della molteplicità di livelli delle fonti (che spaziano da quelle sovranazionali a quelle contenute in atti di rango amministrativo), si richiede lo sforzo dell’interprete di concentrarsi sulla ricostruzione della unitarietà del sistema mettendo al centro del ragionamento la “Persona”.
Di qui la banale constatazione della essenzialità della qualità e della formazione degli interpreti. Il giurista di questi anni non può non interrogarsi circa la coerenza e la adeguatezza del metodo che adotta, nella piena consapevolezza del rischio che ognuno di noi corre, che lo strumentario concettuale abitualmente utilizzato sia sì rispettoso della tradizione, ma al contempo si presti, senza costituirne ostacolo, alla comprensione del caso concreto, alla valorizzazione delle peculiarità soggettive, ambientali e quantitative di esso.
Del resto, la valutazione giuridica di un fatto esige la considerazione tanto dell’esperienza passata, quanto di quella presente, in una stretta interconnessione tra il profilo storico e quello sociologico.
Ed infatti, se la storia della metodologia dei giuristi è parte essenziale del pensiero giuridico moderno, non può negarsi che l’esperienza che concorre all’integrazione della realtà normativa può esprimere istanze e valori anche più avanzati rispetto all’interpretazione corrente, soprattutto a quella giurisprudenziale. In questa consapevolezza risiede la presa d’atto della storicità delle nostre categorie e la perdurante utilità di molte di esse, in ragione della loro attitudine ad adattarsi all’odierna esperienza.
2. Centralità della dialettica sul metodo per arrivare alla decisione aderente al caso concreto.
Che la scienza giuridica si giovi di una pluralità di metodi, spesso concorrenti e complementari, è affermazione ovvia e quasi banale, ma l’attuazione di essi è strettamente dipendente dalle evoluzioni e dagli approdi della dottrina, dallo stato della produzione legislativa nella specificità delle materie, dalle sollecitazioni che su quelle stesse materie provengono dalla politica, dall’organizzazione istituzionale della comunità, dalle diverse sensibilità ed esperienze di chi si dedica alla ricerca. Di qui, l’altrettanto ovvia constatazione per la quale non vi sono a priori metodi giusti e sbagliati, ma soltanto metodi che più o meno si prestano all’attuazione degli obiettivi e dei valori che, in un dato tempo, una data comunità si propone di realizzare.
In tutto questo sta l’indispensabile centralità della dialettica sul metodo, sempre che, tuttavia, si convenga su una presa d’atto, altrettanto essenziale: è tempo di archiviare definitivamente il “mito” della neutralità dei concetti. Le categorie, nella loro irrefutabile storicità, vanno maneggiate criticamente e, sempre con la stessa cautela, vanno raccolte le suggestioni che la dogmatica ci ha trasmesso.
I modelli della tradizione, infatti, ancorché poliedrici, sono ancora caratterizzati dall’uso prevalente di categorie, nella loro implicazione ideologica, storicamente risalenti, non sempre adeguatamente attente agli stimoli provenienti dalla giurisprudenza e non sempre adattabili, se recepite in chiave dogmatica, ad una ricostruzione teorica in linea con le trasformazioni della società.
E i dati salienti delle attuali trasformazioni non possono che essere rinvenuti, prima di tutto, nell’incalzare dell’innovazione tecnologica che incide ormai su tutti gli aspetti della nostra quotidianità, dalla genetica alla comunicazione, dalla produzione all’internazionalizzazione dei mercati, provocando l’esigenza di un più serrato confronto tra culture, nonché nelle dimensioni mondiali dei fenomeni migratori in relazione ai quali si impongono, nel nostro mondo più che altrove, nuovi interessi e diversi valori.
La cosiddetta transizione digitale è il fenomeno più incidente, ma la rivoluzione tecnologica non può esaurirsi, nella sua dimensione giuridica, in pura tecnica di applicazione del software ai dati, dovendo implicare un’attività di comparazione ermeneutica che il giurista è chiamato a svolgere in funzione di controllo dei processi e dei risultati prodotti dai sistemi algoritmici.
Se già appariva illusorio e riduttivo esaurire il ruolo dell’interprete a quello di rinvenire la norma nella singola disposizione di legge, facendo dell’interpretazione una sorta di equazione algebrica, ancor meno conducente appare oggi la pretesa di costruire la scienza giuridica esclusivamente mediante simboli numerici, avvalendosi magari di una intelligenza artificiale capace di riprodurre meccanismi intellettuali tipici della mente umana. Sono queste pretese evoluzioni a rappresentare il maggior pericolo di uniformazione del pensiero giuridico, a farci correre il rischio della rassegnazione all’esistenza di una formula obbligata di pensare, anche per il giurista.
E qui si ritorna al metodo: chi si rifà al proprio ingegno e al proprio bagaglio di cultura e di esperienze per dare corpo alle proprie scelte applica sempre un metodo. La pluralità dei metodi, la loro diversità e contrapposizione in corretta dialettica rappresentano lo strumento più idoneo a contrastare i processi di uniformazione e di omologazione del pensiero giuridico.
Non è questione, come accennato innanzi, di preferire un metodo rispetto a un altro. Se, infatti, grande valore va riconosciuto al metodo deduttivo, il quale muove dai principi, particolare funzione rivestono anche quello induttivo o quello casistico, i quali concentrandosi sulle fattispecie concretamente devolute alla valutazione degli interpreti favoriscono il superamento di pregiudizi concettuali e di costruzioni formalistiche.
E se il compito del giurista, e in particolare del civilista, è quello da più parti a gran voce e autorevolmente rivendicato, di andare al di là delle forme per comprendere appieno l’atteggiarsi delle relazioni nell’ambito della evoluzione dei sistemi sociali, individuando la ‘giusta’ soluzione del conflitto in rapporto ai principi e ai valori fondanti, alla ricerca perenne di un punto di equilibrio tra libertà e autorità, in questa prospettiva assume particolare valenza anche l’argomentare per problemi, metodologia tipica della comparazione. Personalità quali Emanuele Gianturco, Gino Gorla, Uberto Scarpelli ci hanno insegnato, infatti, che il problema va risolto nel sistema, nel pieno rispetto dei principi. E questo vale ancor più nel presente in cui si impone che buona parte della legislazione vigente, proprio perché risalente, sia interpretata, verificandone la conformità a norme sopravvenute o gerarchicamente sovraordinate, al fine di renderla applicabile a nuove fattispecie o a fattispecie che hanno acquisto, nel tempo, diversa valenza.
Ed allora l’equilibrio tra principi, e ancor più in generale tra disposizioni normative, è un equilibrio da rinvenirsi attraverso una dialettica costante tra l’ordine dei principi e la realtà dei fatti, senza che tuttavia ciò legittimi il superamento dello ius positum, che anzi ne è il presupposto. L’opzione ermeneutica, nel rispetto di regole e principi prefissati, presuppone la rilevanza di entrambi gli aspetti, senza che sia possibile rilevare in ciò alcuna contraddittorietà. Cosicché, anche la definizione “metodo induttivo” appare riduttiva e parziale, giacché quando il Giudice, nella motivazione, fa riferimento ai principi, espressi o inespressi, ne riconosce la normatività e non fa altro che applicare il diritto positivo. E questo non vuol dire che la sua sia un’attività puramente dichiarativa, come non può significare che sia attività creativa, dal nulla o dal basso, perché è pur sempre vincolata al ragionevole uso di principi e regole di cui si nutre quella legalità richiamata dall’art. 101 della Costituzione.
3. L’inadeguatezza del “metodo algoritmo” per l’argomentazione giuridica: come la giustizia è messa in pericolo dall’incasellamento acritico in soluzioni preconfezionate.
In un sistema ordinamentale le cui coordinate rimangono quelle del personalismo solidale, l’individuazione della regola più adeguata al singolo rapporto giammai può esaurirsi in una dimensione puramente linguistica e meno che mai di pura logica, sia pure con la dignità del sillogismo e della tecnica della sussunzione. Al contrario, siamo tutti chiamati a rifuggire gli eccessi della razionalità e della logica, spesso paludamento di visioni tendenzialmente nichiliste, per realizzare la più alta finalità dell’ermeneutica: quella di individuare, in una leale collaborazione tra teoria e prassi, dunque nel confronto anche con i fatti, la più alta modalità di concretizzazione di principi e regole. Quella che mette capo alla soluzione più rispondente ai valori giuridificati di cui l’ordinamento si nutre.
La scelta del metodo è dunque scelta della soluzione più giusta, per tale dovendosi intendere quella più aderente agli interessi in gioco e ai valori identificativi del sistema, che, in quanto tali, neppure necessitano di essere, di volta in volta, espressamente richiamati.
In questa prospettiva, si comprende perché il ragionamento giuridico non è riducibile ad un sillogismo lineare e si compone sempre di passaggi teleologici ed assiologici, deduttivi ed induttivi. Così, escogitare algoritmi idonei a predire le soluzioni giurisprudenziali, utilizzando metodi probabilistici o statistici, lungi dal limitarsi a ravvisare nell’argomentazione giuridica una materia logico-matematica, appare nefasta per l’oggetto stesso dell’argomentazione in parola.
Alla soluzione corretta e giusta, come detto, non può considerarsi estraneo il ricorso a quella sensibilità necessaria a cogliere le sfumature irripetibili delle dinamiche di interessi in gioco. La giustizia è messa in pericolo dall’incasellamento acritico in soluzioni preconfezionate, valide per tutti i contesti.
La certezza del diritto non è garantita dalla ripetitività delle soluzioni, giacché altro è affermare che la prevedibilità è utile per gli operatori, altro è pensare di costruire la scienza giuridica mediante la logica simbolica, avvalendosi esclusivamente di una intelligenza artificiale capace di riprodurre solo alcuni meccanismi intellettuali. Sennonché il processo mentale dell’uomo-interprete, il percorso argomentativo che mette capo alla decisione, risente di fattori che sfuggono alla logica sillogistica che appartengono in parte alla peculiarità del fatto, in parte ai concreti interessi delle parti e ai valori della Giustizia, in un contesto mutevole per definizione, perché soggetto alla Storia prima ancora che alle trasformazioni della Società.
A questo proposito, a proposito della cosiddetta ‘giustizia predittiva’, è stato significativamente affermato che: “L’impiego dell’intelligenza artificiale amplifica le questioni che percorrono a ritmo intermittente la concezione del diritto e della giustizia, l’arte di giudicare, il senso stesso dell’incidenza delle facoltà intellettive e volitive umane nel risolvere i casi portati dall’esperienza.”[2]
Credo, in conclusione, che la totale inadeguatezza dell’intelligenza artificiale a sostituire l’argomentare giuridico derivi dalla basilare constatazione che il diritto è scienza sociale e umana, è dell’uomo e per l’uomo e che il compito dell’interprete risiede anzitutto di rendere la fredda astrattezza e generalità della legge più vicina e aderente alla concretezza, alla specificità, alla unicità ed alla umanità del fatto.
[1] Si pensi all’impressionante abuso, nell’ultimo decennio, dei decreti legislativi (che hanno superato per numero ed importanza le leggi del Parlamento), alle numerosissime delegificazioni autorizzate inserite nelle più diverse leggi, alla larghissima delega al Governo per l’adozione di testi unici in numerose ed enormi materie, al mutamento delle modalità di recepimento della normativa comunitaria, alle ricorrenti modificazioni o deroghe delle diverse norme sulle fonti.
[2] ALPA G., L’intelligenza artificiale. Il contesto giuridico, pag. 164, in “Il Poggiolo dei Medardi, collezione diretta da Aljs Vignudelli", I ed. Modena, Mucchi, 2021. L’autore a dopo aver accuratamente ricostruito l’itinerario culturale della giustizia predittiva, passando da Holmes a Max Weber, da Tarello a Llewellyn, in un paragrafo dall’eloquente titolo che riprende un noto saggio di Jerome Frank, ‘Prevedibilità ma non solo: i giudici sono umani?’ e in un altro dal titolo ‘La prevedibilità non è autosufficiente’, completando i suoi riferimenti con la citazione del pensiero di Cardoso, di Frank appunto, di Roscoe Pound ed altri, conclude col pensiero sopra riportato nel testo.
di Giovanni Ariolli
Sommario: 1. Premessa – 2. La nomofilachia tra legalità formale della legge e legalità effettuale del diritto vivente – 3. La prevedibilità delle decisioni: la «forza» del precedente – 4. La giustizia predittiva e l’intelligenza artificiale: quali criticità? – 5. Apologo conclusivo.
1. Premessa [1].
L’esigenza di far fronte all’aumento della domanda di giustizia, assicurando la ragionevole durata dei processi e, al contempo, l’uniforme interpretazione della legge, ha reso sempre più necessario il ricorso all’ausilio di strumenti informatici che agevolassero l’attività del giudice. Dall’uso del personal computer, inizialmente deputato all’archiviazione dei file dei lavori svolti, si è via via assistito alla creazione di programmi di ricerca di testi di legge e di precedenti giurisprudenziali, dotati di software altamente sofisticati, in cui le metodiche di selezione trascendono l’argomento per sfociare «nella regola del caso concreto».
La dichiarata utilità di tali sistemi ai fini della decisione di casi simili e al rispetto dei generali canoni ermeneutici racchiude però in sé alcuni rischi.
Alla «standardizzazione» del dato oggetto di ricerca può conseguire una stratificazione della giurisprudenza che mal si concilia con una società in divenire ove spesso la domanda di giustizia si accompagna a vuoti di tutela legale.
La nomofilachia, quale massima espressione del diritto vivente, si nutre degli orientamenti di merito, nell’ambito di una stretta complementarità tra il dato formale e quello giurisprudenziale, riferendosi la prevedibilità delle decisioni non tanto all’astratta previsione legale, bensì alla norma vivente risultante dall’applicazione e dall’interpretazione dei giudici, in stretto raccordo con le fonti costituzionali e convenzionali.
Per tale ragione è, dunque, utile interrogarsi sul rapporto e sull’utilità del ricorso a sistemi di giustizia predittiva governati da intelligenza artificiale, al fine di assicurare l’uniforme interpretazione della legge.
2. La nomofilachia tra legalità formale della legge e legalità effettuale del diritto vivente.
Il Legislatore assegna alla Corte di cassazione, quale organo supremo della giustizia, il compito di assicurare l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione della legge, l'unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni, nonché di regolare i conflitti di competenza e di attribuzioni, adempiendo agli altri compiti ad essa conferiti dalla legge[2].
Spetta alla Suprema Cassazione e, in particolare, al suo massimo organo collegiale, le Sezioni unite, il compito di «depotenziare il corto circuito fra la legalità formale della legge e la legalità effettuale del diritto vivente, attraverso la formazione di autorevoli precedenti, nell’esercizio della funzione coerenziatrice della giurisprudenza»[3].
Svolge, dunque, una funzione nomofilattica, la quale consiste nell'assicurare l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione delle norme di diritto, da intendersi quale definizione dei corretti criteri ermeneutici e controllo di razionalità dell’opera di selezione della regola effettuata dal giudice di merito. Le sue sentenze costituiscono, infatti, un criterio orientatore della giurisprudenza nazionale, la quale nell'assumere le proprie decisioni tiene conto e si confronta con le sentenze emesse dalla Corte di cassazione.
Il giudice ricerca seleziona e interpreta la norma seguendo, fra fatto, prove e diritto, il percorso della «interpretazione conforme» alla Costituzione, al diritto euro-unitario e a quello convenzionale, che comporta, altresì, la ricognizione della giurisprudenza costituzionale e di quella delle Corti di Lussemburgo e di Strasburgo, nell’ottica di una tutela multilevel dei diritti fondamentali della persona.
Dinanzi ai repentini cambiamenti della società moderna e dinanzi alla crescente domanda di giustizia che un’economia globale e lo sviluppo tecnologico pongono, spetta alla Corte Suprema assicurare la certezza del diritto, quale concreta attuazione del principio convenzionale e costituzionale dell’eguaglianza di ogni individuo dinanzi alla legge (artt. 3 Cost., 7 Convenzione E.D.U. e 20-26 della Carta di Nizza).
La certezza del diritto e la prevedibilità delle decisioni sono, infatti, una componente fondamentale del corretto funzionamento dell’economia di mercato e delle leggi ad essa connesse, dei rapporti tra le imprese e tra i cittadini o tra questi e lo Stato[4].
Non solo. La prevedibilità delle decisioni gioca un ruolo fondamentale anche sotto il profilo della previa conoscibilità della norma che pone il divieto, dei suoi contenuti applicativi e delle conseguenze della propria condotta e del diritto di difesa, così costituendo solido presidio della funzione di prevenzione generale, dell’uguaglianza di trattamento e delle libertà di autodeterminazione della persona.
Il moltiplicarsi ed il sovrapporsi delle fonti normative e giurisprudenziali, dovuto alla difficoltà di governare una società complessa in cui la mediazione del conflitto tende spesso a spostarsi dal momento della creazione della regola a quello della sua applicazione, assieme alle oscillazioni e alla tendenza espansiva delle interpretazioni dei giudici di merito, costituiscono un disvalore che pregiudica la certezza dei rapporti giuridici e rende meno agevoli quelli economici e le relazioni tra i componenti della collettività.
L’interpretazione della legge data dalla Corte suprema ed i principi di diritto da essa affermati assumono negli ordinamenti degli Stati una funzione unificante e costituiscono punto di riferimento per tutti gli operatori del diritto.
A differenza delle sentenze pronunciate dai tribunali, le decisioni delle Corti supreme si dirigono, infatti, non solo alle parti della controversia, ma anche alla collettività che da quelle pronunzie saprà cogliere la regola generale destinata a disciplinare casi analoghi ed a prevenire nuove controversie, così assicurandosi una maggiore efficienza dei traffici giuridici e, auspicabilmente, una deflazione del contenzioso.
3. La prevedibilità delle decisioni: la «forza» del precedente.
La prevedibilità delle decisioni costituisce un valore da preservare; l’operatore economico vedrebbe aggiungersi al rischio di impresa insito nella natura dell’attività esercitata un’alea ulteriore alla quale non è culturalmente preparato e che la propria capacità organizzativa non può affrontare: ossia fronteggiare decisioni giudiziali del tutto imponderabili e incontrollabili perché slegate da criteri interpretativi certi, necessari al corretto funzionamento dell’economia di mercato e dei meccanismi di creazione e redistribuzione della ricchezza ad essa correlati.
Va da sé che il disorientamento provato dall’attore economico di fronte alla giustizia risulta aggravato nel caso del comune cittadino (nelle vesti, a seconda dei casi, di consumatore, utente, contribuente, contraente debole o semplice membro della comunità tenuto ad osservare precetti preservati da sanzioni), spesso sprovvisto degli strumenti economici e culturali per poter accedere in modo pieno ed effettivo alla tutela dei propri diritti, soprattutto allorché questi risultano potenzialmente compromessi da processi informatici che hanno carattere invasivo o dall’invadenza dei pubblici poteri.
L’instabilità delle decisioni pregiudica la possibilità per gli avvocati di svolgere in modo efficace l’attività di mediazione stragiudiziale e di consigliare e difendere in giudizio i cittadini medesimi, individuando anche le scelte processuali che meglio si attagliano al caso concreto.
Inoltre, la difformità della regola da applicare può compromettere, in ambito penale, la funzione di prevenzione generale e ledere il principio di eguaglianza.
Per tali ragioni i principi di certezza del diritto e della prevedibilità delle decisioni sono un valore condiviso tra gli ordinamenti giuridici; al fine di formare “precedenti” che siano autorevoli, ha assunto negli ultimi anni un rilievo preminente il dialogo con le altre Corti supreme.
L’esistenza di un mondo globale, la dimensione internazionale dei traffici giuridici ed economici, la comparsa di nuovi strumenti destinati a regolare aspetti primari delle relazioni tra i consociati anche al di fuori dai confini nazionali, rendono opportuno un confronto con le soluzioni adottate dalle altre Corti. La condivisione delle decisioni arricchisce la conoscenza del giudice nazionale, può essere fonte di ispirazione, migliora la qualità della giurisdizione e permette di fissare comuni standard di tutela dei diritti fondamentali che diventano patrimonio giuridico dei Popoli, traducendosi anche in principi di diritto comunemente affermati dalle Corti sovranazionali.
Il relazionarsi con le decisioni di altre Corti su questioni comuni giova, del resto, alla stessa funzione nomofilattica, la quale non va intesa quale statica conservazione di orientamenti giurisprudenziali cristallizzati nel tempo, ma quale capacità di adeguare l’interpretazione delle norme al continuo mutare delle esigenze e della società, alla luce anche del contributo offerto dai giudici di merito ai quali si presentano i nuovi casi. Comprendere cosa fa un altro giudice arricchisce la cultura giuridica di tutti. In questo percorso assume anche particolare rilievo il contributo dell’Accademia alla quale spetta un fondamentale ruolo guida nel processo ermeneutico, nella formazione alla cultura della legalità e nell’opera di persuasione del giudice verso soluzioni rispettose dei diritti fondamentali.
La nomofilachia, pertanto, non è l’imposizione di una regola interpretativa, bensì l’approdo di un percorso multilivello e stratificato che origina dal caso concreto e si arricchisce di una pluralità dialettica in continuo divenire che ne alimenta la valenza e la persistenza, così discostandosi dal modello del precedente.
4. La giustizia predittiva e l’intelligenza artificiale: quali criticità?
Così evidenziato il valore della prevedibilità delle decisioni quale base legale del sistema giuridico, si apre la riflessione sull’impiego in tale ambito dell’intelligenza artificiale[5].
Centrale per la modernizzazione della società, l’I.A. svolge da anni un ruolo primario anche nel comparto giustizia, con particolare riguardo alla digitalizzazione dei servizi al fine di assicurare all’utenza un servizio più trasparente ed efficiente, nonché per creare sistemi che consentano di identificare previamente i casi ad alto rischio o ad alta priorità, permettendo agli uffici giudiziari di assegnare le risorse in modo più efficiente e di indirizzare e trattare i procedimenti secondo moduli predefiniti volti ad assicurare il principio della ragionevole durata del processo.
Le sperimentazioni avviate hanno, poi, ampliato gli strumenti di conoscenza ed analisi, in fatto e in diritto, a disposizione del magistrato, così da renderlo autenticamente consapevole delle proprie scelte, soprattutto consentendo di avere un quadro completo della giurisprudenza, di merito o di legittimità, astrattamente riferibile al caso di specie, sulla base dell’analisi automatizzata del materiale disponibile, così da evitare conflitti giurisprudenziali inconsapevoli e da accrescere, come effetto derivato persuasivo e non vincolato, la uniformità delle decisioni di fattispecie simili.
Va, pertanto, riconosciuta l’utilità di quegli strumenti tecnologici di supporto del lavoro del giudice volti a ridurre l’alea del giudizio e a garantire una maggiore prevedibilità delle decisioni giudiziarie, attraverso l’uso di algoritmi che possono analizzare grandi quantità di dati giuridici, tra cui testi legislativi, precedenti giudiziari e decisioni dei tribunali, delle corti di merito, della Corte di legittimità e di quelle sovranazionali.
Una implementazione che renda maggiormente fruibile il sapere giuridico, così assicurando al giudice di disporre del complesso delle cognizioni necessarie per svolgere in modo ottimale il proprio lavoro è auspicabile, proprio perché l’adozione di decisioni ragionate che tengono conto degli orientamenti nomofilattici e convenzionali può contribuire a ridurre la discrezionalità delle decisioni giudiziarie, garantendo maggiore coerenza nell’applicazione della legge.
Problemi, invece, si pongono a fronte di quei sistemi che mirano a realizzare processi decisionali alternativi (robotici) a quelli, costituzionalmente vincolati, basati sull’autonomia e sull’indipendenza del giudice, per comprimerne - direttamente o indirettamente – l’ambito valutativo del giudizio.
Si tratta di modelli predittivi volti a fornire una previsione sulla decisione del singolo caso, con l’obiettivo – non inizialmente dichiarato – di sostituire il ragionamento giuridico affidato al giudice e all’interprete con un rigido meccanismo legato a dati probabilistici o statistici desunti da casi catalogati come analoghi.
L’esito di un tale meccanismo non solo finisce per condizionare la decisione, ma anche i successivi esiti impugnatori laddove si giungesse ad assumere quale parametro valutativo il concorrente «esito predittivo» fornito dall’ausilio di intelligenza artificiale. Con possibili ricadute sulla sorte della difesa tecnica, dell’appello, del ricorso per cassazione, ove l’ambito dell’error iuris sarebbe confinato ad ipotesi del tutto residuali, e della stessa motivazione che finirebbe per perdere la funzione essenziale di verifica dell’iter logico seguito dal giudice.
L’attività di interpretazione ed applicazione del diritto, affidata al giudice, non si risolve mai in un’operazione meramente meccanica, soprattutto se si tiene conto della realtà delle società moderne, la cui dinamica risulta spesso troppo fluida e vivace per essere prevista e adeguatamente regolata da norme predeterminate e specifiche.
Con ciò non si vuole affermare che spetti al giudice la funzione creativa del diritto, la cui appartenenza al potere legislativo rappresenta un pilastro del principio della separazione dei poteri, oppure validare egemoni dottrine dell’interpretazione che possono sfociare nell’arbitrio o nel soggettivismo.
Ma la tendenza legislativa ad un ricambio sempre più veloce di disposizioni spesso superate dagli eventi e dall’emersione di nuovi diritti bisognevoli di tutela, accompagnata anche dall’opacità dei testi normativi e dalla presenza di lacune nell’ordinamento, rende non agevole il formarsi del diritto vivente.
L’individuazione dell’effettivo contenuto concreto della norma da applicare al caso concreto passa, infatti, attraverso un’attività interpretativa a cui partecipano, anzitutto, i giudici di merito, mediante un’innovazione giurisprudenziale che consente all’individuo di evolvere nel rispetto dei principi dettati dalla Costituzione e dalle Convenzioni sovranazionali.
Analogamente è a dirsi con riguardo al processo inverso. L’esistenza di indirizzi giurisprudenziali radicati nel tempo non preclude che, a fronte del mutato assetto sociale e all’esigenza di dare piena attuazione ai principi costituzionali e convenzionali, si inneschino i presupposti dell’overruling.
Il delicato compito di bilanciamento tra l’interesse all’affidamento dei cittadini nella prevedibilità del diritto applicato e all’uguaglianza di trattamento, da un lato, e il contrapposto interesse alla dinamica evoluzione dell’interpretazione, dall’altro, non può essere di certo affidato a processi meccanici governati da algoritmi, per quanto sofisticati, rivelandosi del tutto fallace proprio in ragione della molteplicità dei contributi che governano tale necessario dinamismo.
Il valore della prevedibilità delle decisioni non significa affatto postulare una sorta di immobilismo giuridico mediante l’imposizione di un vincolo – financo meccanico – di automatica conformazione. Significa assicurare uniformità laddove manchino valide argomentazioni a sostegno del dissenso tali da determinare la costruzione condivisa di un opposto, nuovo o più autorevole indirizzo.
Per tali ragioni anche l’introduzione di meccanismi sofisticati volti ad individuare l’orientamento giurisprudenziale da applicare al caso in esame presta il fianco a decise riserve.
Vincolare il robot alla giurisprudenza pregressa impedisce l’evoluzione degli indirizzi giurisprudenziali e preclude al diritto di esercitare la sua funzione primaria, ossia fornire risposte a bisogni umani regolandone i rapporti in modo corrispondente alle esigenze sociali del particolare momento storico.
Un simile vincolo, poi, si pone in contrasto con l’art. 101 della Costituzione, subordinando il giudice non solo alla legge, ma alla giurisprudenza predittiva.
5. Apologo conclusivo.
L’introduzione di modelli predittivi basati su dati oggettivi che tengano conto, attraverso un’analisi quantitativa, dei precedenti giudiziari può senz’altro contribuire a ridurre l’area di instabilità degli orientamenti, garantendo una maggiore uniformità nell’applicazione della legge e nella formazione del diritto vivente.
Attraverso l’analisi dei precedenti giudiziari e l’estrazione di informazioni rilevanti dai testi normativi, i sistemi di I.A. possono rivelarsi utili per supportare i giudici nell’adozione di decisioni informate e basate su precedenti consolidati ed autorevoli, evitandosi, al contempo, possibili esiti discriminatori delle decisioni.
Analogamente, l’individuazione di precedenti che siano certi ed autorevoli può svolgere un effetto deflattivo rispetto ad una domanda di giustizia sempre più in crescita, consentendo agli avvocati di adottare strategie di composizione delle liti di carattere stragiudiziale ovvero ricorrere, nel settore penale, a quegli istituti di carattere premiale che, evitando il giudizio di merito, ridondino favorevolmente sulla posizione dell’imputato. Allo stesso modo per i pubblici ministeri, orientando al meglio le determinazioni in ordine all’esercizio dell’azione penale, con ricadute positive anche in ordine ad una migliore allocazione delle risorse per svolgere le investigazioni preliminari.
A conclusioni differenti, invece, deve giungersi con riguardo a quei sistemi che, allontanandosi dall’analisi giuridica e dalla ricerca delle pertinenti informazioni di tale genere, muovano attraverso l’idea del giudice automa o robot, verso una standardizzazione delle decisioni giudiziarie, così impedendo all’ordinamento stesso di progredire, di evolversi e di mutare in ragione del mutamento del contesto di riferimento.
La prevedibilità delle decisioni giudiziarie racchiude in sé una pretesa di certezza giuridica, non di infallibilità matematica.
E tanto a prescindere dall’ulteriore concreto rischio, non oggetto del presente lavoro, ma già evidenziato dalla letteratura a proposito dei sistemi – per lo più di stampo anglosassone ma propri anche di ordinamenti differenti (si pensi al caso del c.d. procuratore robot recentemente introdotto nel sistema cinese) – in cui la prevedibilità delle decisioni passa attraverso algoritmi forieri di pregiudizi ovvero volti a profilare la persona del giudice.
Ma la strategia italiana di transizione digitale, attenta anche a recepire le indicazioni, le linee guida e la normativa dettata in sede di Unione Europea, muovono nel binario di mantenere salda l’indipendenza della magistratura dagli algoritmi, tenendo fermo il controllo umano sulle decisioni. L’intelligenza artificiale può essere un prezioso strumento a supporto dell’attività del giudice, ma non deve mai diventare un suo sostituto.
Note:
[1] Relazione tenuta al Webinar della SSM “La digitalizzazione della Giustizia tra presente e futuro - Giornate di studi, Capri il 13-14 ottobre 2023”. Per un approfondimento dei temi trattati al Convegno si vedano gli atti pubblicati sul sito della SSM.
[2] Artt. 65 del R.D. 30 gennaio 1941, n. 12 e 111 della Costituzione.
[3] G. Canzio, Legalità penale, processi decisionali e nomofilachia, in Sistema penale (online), 26 giugno 2022: Id, Nomofilachia e diritto giurisprudenziale, in AaVv, Il vincolo giudiziale del passato. I precedenti (a cura di Carleo), Bologna, 2018. Sul tema v anche R. Rordorf, Giudizio di cassazione. Nomofilachia e motivazione, in Treccani (encicl. On line), 2012; P. Curzio, Il futuro della cassazione, in Quest. giust., 3/2017; Id, Il giudice ed il precedente, in Quest. giust., 4/2018; G. Mammone, Intelligenza artificiale e rapporto di lavoro tra robot e gig economy. Ci salveranno i giudici e l’Europa?, in Lavoro, diritti ed Europa, 21.2.2023.
[4] M. Luciani, La decisione giudiziaria robotica, in Associazione Italiana Costituzionalisti (Rivista), 3/2018, p. 872 ss.
[5] M. Cassano, Sostenibilità, tecnologia e giustizia: quali i contorni del nuovo sistema? - Lectio magistralis, «Edizione 3» Festival della Giustizia, Camera dei Deputati, Montecitorio, 7 luglio 2023; GM. Flick – C. Flick, L' algoritmo d'oro e la torre di Babele. Il mito dell'informatica, B+C, 2022.
Bibliografia:
Considerata la vastità degli scritti sul tema, possono richiamarsi le relazioni e i contributi recenti resi nell’ambito dell’attività formativa della SSM, unitamente ad altri articoli dotati di riferimenti bibliografici: AaVv, La giustizia digitale, in Quaderni SSM (n. 15), a cura di A. Ciriello, Roma, 2022; Id, Il diritto nell’era digitale Persona, Mercato, Amministrazione, Giustizia, Milano (Giuffrè), 2022; Id, M. Libertini – M.R. Maugeri – E. Vincenti, Intelligenza artificiale e giurisdizione ordinaria. Una ricognizione delle esperienze in corso, SSM, 10.3.2022, P21098; Id, Amedeo, Santosuosso e Giovanni Sartor, La giustizia predittiva: una visione realistica, SSM, 4.10.2022, P22065; Id, Daniela Paliaga e Vincenzo De Lisi, L’algoritmo nel contenzioso giuslavoristico, SSM, 24.11.2021, P21094; Id, Francesco Amigoni, Viola Schiaffonati, Marco Somalvico, Intelligenza artificiale, SSM, 10.1.2023, P20020; Id, Alessandro Pajno, Marco Bassini, Giovanni De Gregorio, Marco Macchia, Francesco Paolo Patti, Oreste Pollicino, Serena Quattrocolo, Dario Simeoli, Pietro Sirena, Intelligenza Artificiale: criticità emergenti e sfide per il giurista, SSM, 10.5.2023, P23024; Id, A. Pajno, F. Donati, A. Perrucci (a cura di), Intelligenza artificiale e diritto: una rivoluzione?, Mulino, 2022; Id., G.M. Riccio, G. Ziccardi, G. Scorza, Intelligenza artificiale. Profili giuridici, Padova, 2022; Id, A. Ciriello, G. Buono, P. Bonanni, G. Del Mondo, Rapporto 4/2022 - Intelligenza artificiale e amministrazioni centrali, in Biolaw Journal, 2022; N. Abriani, Imprese ed intelligenza artificiale, 10.1.2023, P22027; G. Accomando, La dimensione giuridica attraverso l'esempio francese, SSM, 14.1.2020, P19098; A. Adinolfi, Unione europea ed intelligenza artificiale, SSM, 9.12.2020, P20028; M. Ancona, Giustizia predittiva, SSM, 10.3.2022, P21098; M.N. Altimari, PNRR e intelligenza artificiale progetti in corso, SSM, 26.9.2022, P22065; C. Barbaro, Uso dell’intelligenza artifiale nei sistemi giudiziari: verso la definizione di principi etici condivisi a livello europeo?, in Quest. giust., 4/2018; C. Barbaro-Y. Meneceur, Intelligenza artificiale e memoria della giustizia: il grande malinteso, in Quest, giust., 16 maggio 2020; M. Barberis, Giustizia predittiva: ausiliare e sostitutiva. Un approccio evolutivo, in Milan Law Review, 2/2022; Gea Arcella, L’intelligenza artificiale nell’attività contrattuale: effetti e responsabilità, SSM, 8.4.2022, P22040; F. Basile, Intelligenza artificiale e diritto penale, SSM, 16.4.2023, P23023; Id, Intelligenza artificiale e diritto penale: quattro possibili percorsi di indagine, in DPU (online), 2022; E. Battelli, Giustizia predittiva, decisione robotica e ruolo del giudice, SSM, 10.5.2023, P23024; Id, Intelligenza Artificiale: criticità emergenti e sfide per il giurista, SSM, 10.5.2023, P23024; Id, Necessità di un umanesimo tecnologico: sistemi di intelligenza artificiale e diritti della persona, SSM, 10.5.2023, P23024; M. Bisogni, Intelligenza artificiale e sistema penale: tracce di un futuro prossimo, SSM, 13.12.2021, P21098; Id, Intelligenza artificiale e diritto penale (l’inaspettato stato dell’arte nell’ordinamento giuridico italiano), SSM, 21.7.2022, P21032; P. 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Gialuz, Quando la giustizia incontra l’intelligenza artificiale: luci ed ombre dei risk assestment tools tra Stati Uniti ed Europa, in Dir. pen. cont. on line, 2019; M. Libertini, Sistemi di intelligenza artificiale, predittività della giustizia e giustiziabilità dell'algoritmo in una prospettiva comparatistica, SSM, 13.12.2021, P21098; R. Licci, La digitalizzazione della giustizia, 23.11.2022, P22073; G. Lo Sapio, La trasparenza sul banco di prova dei modelli algoritmici, SSM, 14.12.2021, P21098; Id, La black box: l’esplicabilità delle scelte algoritmiche quale garanzia di buona amministrazione, SSM, 10.3.2022, P21098; R. E. Kostoris, Predizione decisoria, diversion processuale e archiviazione, in Sistema penale, 2021; M. Luciani, Nomofilachia, il ruolo del precedente giudiziario e l’impatto sistematico degli strumenti di AI sul diritto, SSM, 13.12.2021, P21098; I.M.L. Marini, L’intelligenza artificiale nel mondo della giustizia: una sfida da cogliere, ma anche da governare, SSM, 11.10.2021, P21343; G. Natale, Intelligenza artificiale, neuroscienze, algoritmi: le sfide future per il giurista, SSM, 21.7.2022, P22065; V. Neri, Tutela giurisdizionale nell’ambito delle decisioni automatizzate: le prime pronunce del giudice amministrativo, SSM 14.12.2021, P21098; M.G. Ortolani, La giustizia predittiva nell’ordinamento giuridico italiano e nei principali ordinamenti di common law, in Annali della facoltà giuridica dell’Università di Camerino – Sudi – n. 12/2023; M. Palazzo, Lo studio della storia del pensiero come apertura all'innovazione. Orientamento del Consiglio UE sulla bozza di regolamento in tema di intelligenza artificiale, in Giust. civ.com, 27.1.2023; M. Palmirani, Il modello di funzionamento dell’I.A., SSM, 26.9.2022, P. 22065; C. Parodi, L’intelligenza artificiale, SSM, 16.4.2023, P23023; D. Piana, Dal rito al calcolo e ritorno. 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Spirito, La sentenza robotica tra prevedibilità delle pronunce giudiziarie e garanzie costituzionali della giurisdizione, SSM, 27.9.2022, P22065; F. Terrusi, Intelligenza artificiale: la proposta di regolamento per l’intelligenza artificiale della Commissione europea del 21 aprile 2021. Il ruolo del codice della Privacy (Corte di Cassazione, ord. 14381\2021), SSM, 13.12.2021, P21098; U. Tombari, Intelligenza artificiale e corporate governance nella società quotata, in Rivista delle Società, fasc.5-6, 2021, p. 1431 ss.; A. Traversi, Intelligenza artificiale applicata alla giustizia: ci sarà un giudice robot? In Quest. giust., 2/2023; G. Ubertis, Intelligenza artificiale, giustizia penale, controllo umano significativo, in Sist. pen., ott. 2023; E. Vincenti, ItalgiureWeb, tra passato, presente e futuro: dalla ricerca giuridica automatizzata all’uso degli strumenti di legal analytics e di intelligenza artificiale, SSM, 14.12.2021, P21098; A. Ziroldi, Intelligenza artificiale e processo penale tra norme, prassi e prospettive, SSM, 13.9.2019, P19069.
(L'immagine di copertina è una litografia riprodotta in Scientific American, Vol. 88, N. 16, aprile 1903 che ritrae Pierre Jaquet-Droz con le sue bambole automatiche dette Automata, talvolta considerate tra i precursori dei computer, alla corte di Luigi XV).
di Roberto Giovanni Conti
Sommario: 1. Premesse. 2. L’atto politico ed il trend giurisprudenziale volto a ridurne le “zone franche”. 3. Il bombardamento della televisione serba da parte della NATO e la sua “politicità” - Cass. S.U., n.8157/2002 - 3.1 Il seguito di Cass., S.U. n.8157/2002. Corte dir. uomo, 14 dicembre 2006, GC, Marković c. Italia, l’opinione dissenziente del Giudice Zagrebelsky. 4. L’onorificenza all’ex Presidente brasiliano Bolsonaro concessa dal comune di Anguillara Veneta e la sua natura (o meno) politica. A proposito di Cass. S.U., n.15601/2023. 5. La lettera di garanzia della Commissione adozioni internazionali e la sua natura politica per il Consiglio di Stato - Cds.n.7250/2021 - soggetta al sindacato giurisdizionale secondo le S.U. civili - Cass. S.U., 26 settembre 2023 n.27177 -. 6. Il segreto di Stato, la sua natura intrinsecamente politica ed i suoi limiti (intrinseci). 7. L’atto politico e la questione migratoria. 8. Qualche considerazione conclusiva a cavallo fra atti politici e sentenze politiche. A) Il ruolo dell’ordine giudiziario a salvaguardia dei diritti ed interessi delle persone rispetto all’atto politico (ed al potere). 8.1 Segue: B) Le sentenze “politiche”. 9. Indipendenza e fiducia come pilastri del rapporto politica-magistratura.
1. Premesse
Non si avverte mai stanchezza nel tornare a ragionare attorno al tema dell’atto politico, della sua sindacabilità da parte del giudice e della sua “resistenza” ad incursioni giudiziarie a più riprese patrocinate dall’esigenza di rispettare i diritti fondamentali. Coglie il nodo centrale del discorso Giancarlo Montedoro quando ci ricorda che si tratta, appunto, di “un concetto con il quale è utile confrontarsi per saggiare la tenuta del sistema giuridico complessivamente inteso”[1].
Ragionare sul tema serve, dunque, anche per affrontare al meglio l’attuale contesto socio-politico che le democrazie occidentali si trovano a dovere fronteggiare, spesso impegnate in situazioni più o meno emergenziali nelle quali i Governi e le istituzioni sovranazionali sono chiamate a scelte politiche delicate, nelle quali si confrontano rilevanti interessi nazionali agganciati, talvolta, ad opzioni di matrice sovranista e/o populista che sembrano sempre di più coinvolgere il mondo occidentale, sia pur con prospettive e modalità diverse.
D’altra parte, la guerra che vede contrapposte la Russia e l’Ucraina, ma ampiamente coinvolti un numero di paesi significativo con posizioni e modalità fra loro variegate, così come il conflitto riesploso drammaticamente fra israeliani e palestinesi sono essi stessi dimostrativi di quanto attorno alla politicità e tutelabilità degli atti politici non debba mai essere abbassata l’asticella dell’attenzione da parte della società e, per quel che qui importa, degli operatori del diritto.
Il filo rosso che lega la ricerca multidisciplinare condivisa con gli accademici impegnati nel panel tenderà, dunque, ad indagare il tema non già sul piano teorico[2], prediligendo piuttosto una verifica che guarda a come le Corti nazionali si sono misurate sul tema. Si precisa fin dall’inizio che alla nozione di “Corte” appena indicata si farà riferimento con precipuo riguardo alla giurisprudenza di merito del giudice ordinario ed al diritto vivente delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, alle quali ultime la Costituzione affida il controllo in ordine al riparto della giurisdizione fra i diversi plessi e, dunque, attribuisce il compito di verificare se esistono posizioni giuridiche soggettive meritevoli di tutela giurisdizionale, tenuto conto di quanto previsto dagli artt. 24 e 113 Cost.
In questa prospettiva le riflessioni che seguono prenderanno le mosse dalla tematica dell’insindacabilità dell’atto politico che ha origine nell’art.31 del R.D. n.1054/1924 - e, prima ancora, nell'art. 3, comma 2, della legge istitutiva della IV Sezione del Consiglio di Stato (L. 31 marzo 1889, n. 5992) - anche se sul piano della tutela civile dei diritti essa è stata più volte invocata per verificare il grado di tutela dei diritti della persona nei confronti del potere statale.
Il piano di indagine guarda, dunque, con particolare attenzione alla law in action ed al dialogo fra le Corti, nel dichiarato e non celato convincimento che è appunto il piano delle applicazioni concrete a disvelare il DNA della politicità degli atti rispetto alla questione della loro giustiziabilità.
Si è cercato così di ragionare sull’affermazione tradizionale, ricorrente nella giurisprudenza tanto del giudice ordinario quanto di quello amministrativo secondo la quale, promanando da un organo costituzionale nell’esercizio della funzione di governo e dunque nell’attuazione dell’indirizzo politico, l’atto politico non è espressione di funzione amministrativa, sottraendosi al sindacato giurisdizionale del giudice ordinario nonché di quello amministrativo[3].
Prospettiva che nel tempo risulta essere stata però erosa dal diritto vivente, vuoi richiedendosi come elemento essenziale la riconducibilità dell’atto esclusivamente ad organi costituzionali, vuoi circoscrivendo il contenuto dell’atto stesso anche per effetto di una lettura diacronica dei principi costituzionali e sovranazionali che prendono direttamente in considerazione i diritti fondamentali della persona.
L’ulteriore riflessione ha riguardato il modo con il quale viene a volte percepita l’attività giurisdizionale che intercetta atti che attengono alla sfera politica, nel tentativo di fissare dei paletti capaci di distinguere in modo quanto più lineare possibile l’agire della politica da quello della giurisdizione.
Da qui il terzo punto cardinale che ha inteso soffermarsi sul ruolo del giudice nell’ordinamento e sul suo rapporto con le fonti del diritto realizzato attraverso l’interpretazione, nel tentativo di individuare il recinto nel quale essa si muove.
Ecco perché la conclusione della riflessione non poteva che coinvolgere la precondizione affinché il giudice possa compiere in modo pregnante, responsabile ed adeguato alla complessità e centralità delle questioni trattate il proprio ruolo secondo Costituzione. Garantire l’indipendenza della magistratura rappresenta, anticipando le conclusioni, la condicio sine qua non per realizzare la protezione effettiva dei diritti in gioco per modo che l’attentato all’indipendenza del giudice non si traduce in una semplice violazione della Costituzione, del diritto UE o della CEDU, ma determina un problema capace di minare l’ordine democratico del Paese e renderlo incompatibile con le premesse indispensabili per la sua partecipazione al sistema UE ed al meccanismo europeo di tutela dei diritti umani.
2. L’atto politico ed il trend giurisprudenziale volto a ridurne le “zone franche”.
La dottrina amministrativa afferma che l'atto politico[4] esprime “l'attività di direzione suprema della cosa pubblica (cioè l’indirizzo politico) e l’attività di coordinamento e controllo delle singole manifestazioni in cui la direzione stessa si estrinseca"[5]. Assolvendo dunque ad una funzione superiore, l’atto politico si disegna come atto libero nel fine, pur dotato di natura discrezionale che mira a tutelare l'interesse generale dello Stato nella sua unità, secondo il libero apprezzamento dell’autorità governativa determinato da detto interesse e da valutazioni di convenienza.
L’insindacabilità dell’atto politico trova a suo fondamento un solido quadro normativo, al quale si è già accennato, oggi direttamente connesso all’art. 7, comma 1, c.p.a. (d.lgs. n.104/2010) a tenore del quale “non sono impugnabili gli atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico”.
Si vedrà che la categoria dell’atto politico è stata tradizionalmente individuata in negativo attraverso una casistica giurisprudenziale che ne ha via via eroso la portata - e con essa le posizioni di privilegio connesse[6] - , tanto da richiedere in modo tassativo la presenza di due elementi essenziali (oggettivo e soggettivo)[7].
Anche la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, in coerenza con la giurisprudenza costituzionale e, in particolare, con quanto affermato da Corte cost.n.81/2012, ha avuto occasione di riconoscere l’insindacabilità di atti politici, così finendo per negare ogni tutela a situazioni con essi contrastanti[8].
In tempi più recenti si è tuttavia assistito ad un ridimensionamento della categoria dell’atto politico. Si tratta di un vero e proprio “cammino” della giurisprudenza, soprattutto di legittimità, sulla quale ci si soffermerà di seguito. E nel ricordare le prese di posizione della Corte costituzionale[9] - fra le altre, C.Cost.n.339/2007 e C.Cost.n.52/2016[10] - il giudice di legittimità non ha mancato di sottolineare che “l’esistenza di aree sottratte al sindacato giurisdizionale va necessariamente confinata entro limiti rigorosi”[11].
Del resto, si era già chiarito che la mancata osservanza da parte del potere governativo degli impegni assunti in tema di riforma del settore scolastico, da attuarsi principalmente mediante iniziative legislative (presentazione di un disegno di legge relativo alla formazione universitaria dei docenti ed alle procedure per l'abilitazione all'insegnamento presso le università, avviamento della previsione legislativa delle norme in materia di rilascio dei diplomi di licenza media), si sottrae ad ogni sindacato giurisdizionale, poiché l'iniziativa della legge ha natura di atto politico, essendo manifestazione tipica della funzione politica e di governo. La Corte ha quindi ritenuto che il comportamento adottato dall’autorità governativa fosse inidoneo a cagionare la lesione di situazioni giuridiche soggettive (sia di diritto soggettivo che di interesse legittimo), e dovesse, pertanto, essere sottratto ad ogni sindacato giurisdizionale - Cass.S.U.8 Gennaio 1993 n°124 -.
Particolarmente pregnante risulta quanto affermato da Cass., S.U. n.21581/2011 che, chiamata a vagliare la decisione del giudice di merito con la quale era stata ritenuta l’insindacabilità della decisione relativa alla mancata attivazione dell'istituto della protezione diplomatica volta a sostenere le richieste dell'istante che svolgeva attività di collegamento marittimo tra l'Italia e il Marocco, all'esito del rigetto dell'autorizzazione all'esercizio (o al suo mantenimento) della linea gestita ai sensi della L. n. 433 del 1985 ha ritenuto censurabile “… la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto di qualificare la posizione giuridica soggettiva fatta valere dal ricorrente con riferimento all'istituto della protezione diplomatica - che, secondo la definizione contenuta nell'art. 1 del relativo progetto adottato dalla Commissione del diritto internazionale (e fatta propria dalla Corte Internazionale di Giustizia con la sentenza 24.5.2007, Sadio Diallo), consiste nella contestazione da parte di uno Stato (attraverso un'attività diplomatica o altri mezzi di risoluzione delle controversie) della responsabilità di altro Stato per un danno causato da un fatto illecito (sul piano internazionale) ad una persona fisica o giuridica che abbia la nazionalità del primo Stato al fine di attivare consequenzialmente tale responsabilità - opinando che l'esercizio dei poteri di cui alla L. n. 69 del 1987, art. 1 potesse ascriversi ad una incensurabile attività di politica estera sottratta integralmente al vaglio della giurisdizione”. Ciò perché, secondo le Sezioni Unite era stato del tutto omesso “… di considerare che i poteri in discorso (dapprima attribuiti al Ministero della marina mercantile, poi trasferiti a quello delle infrastrutture e dei trasporti) sono esercitati su proposta non di un organo politico, bensì di una commissione tecnica, al fine di difendere la marina mercantile nazionale e di disciplinare i traffici commerciali marittimi per la tutela dell'interesse nazionale; poteri il cui contenuto esula del tutto dal novero degli atti politici stricto sensu, trattandosi viceversa di atti di (alta) amministrazione rientranti nell'esercizio di una più specifica politica marittimo-mercantile nazionale.”
Seguendo la medesima direzione, Cass., S.U.n.10416/2014 dava atto che la giurisprudenza di legittimità aveva "confinato in margini esigui l'area della immunità giurisdizionale, da escludere allorquando l'atto sia vincolato ad un fine desumibile dal sistema normativo, anche se si tratti di atto emesso nell'esercizio di ampia discrezionalità", dando rilievo alla riconducibilità dell'atto a parametri giuridici, prima ancora che a profili soggettivi e oggettivi, in passato forieri di tautologiche definizioni della categoria di tali atti.
Cass., S.U.n.18829/2019 ha quindi ribadito che per ravvisare il carattere politico di un atto, al fine di sottrarlo al sindacato del giudice, occorre che sia impossibile individuare un parametro giuridico (sia norme di legge, che principi dell'ordinamento) sulla base del quale svolgere il sindacato giurisdizionale: quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve, appunto, attenersi, in ossequio ai principi fondamentali dello Stato di diritto. In concreto, quando l'ambito di estensione del potere discrezionale, quale che esso sia, sia circoscritto da vincoli posti da norme giuridiche che ne segnano i confini o ne indirizzano l'esercizio, il rispetto di tali vincoli costituisce un requisito di legittimità e di validità dell'atto, sindacabile, appunto, nei modi e nelle sedi appropriate[12].
Sempre le Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., 2 maggio 2019, n. 11588) hanno statuito che la richiesta di promovimento del conflitto di attribuzioni rivolta da un consigliere regionale alla Regione non è sorretta da un interesse protetto dall'ordinamento giuridico, attenendo tale conflitto alla delimitazione dei poteri costituzionalmente riservati all'ente, al quale soltanto spetta la decisione, contraddistinta da ampia discrezionalità e da connotati di politicità, di proporre il ricorso ex art. 134 Cost. Da ciò la Corte ha fatto discendere che la pretesa del terzo di ottenere l'esercizio di tale prerogativa non è azionabile in giudizio, pena la violazione dell'art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo e dell'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, dal momento che il diritto di accesso ad un tribunale postula l'esistenza di una posizione giuridica tutelata nell'ordinamento interno.
3. Il bombardamento della televisione serba da parte della NATO e la sua “politicità” - Cass., S.U. n.8157/2002 -
Il trend rivolto a restringere l’area della politicità degli atti che si è sommariamente descritto non è stato senza arretramenti, anche quando a venire in gioco furono aspetti meramente risarcitori, dunque non direttamente collegati ad incidere sull’azione dell’esecutivo.
In questa direzione non può essere tralasciata l’analisi approfondita della sentenza a Sezioni Unite -Cass. S.U., n.8157/2002- laddove la Corte ha fatto ricorso alla nozione di atto politico nel ricondurre le modalità operative del conflitto iniziato per ragioni umanitarie nei confronti della ex Jugoslavia dalla NATO, collegandosi a quanto in precedenza ritenuto da Cass. S.U., n. 2452/1968, allorché si affermò che gli atti compiuti dallo Stato nel regolamento delle relazioni internazionali si sottraggono totalmente al sindacato sia della giurisdizione amministrativa che di quella ordinaria, in quanto nei confronti dei predetti - stante la preminenza assoluta degli interessi della collettività organizzata a Stato che con tali atti vengono tutelati - non sono configurabili né interessi legittimi né diritti soggettivi. Ne consegue che l’interesse del singolo nei rapporti interstatali resta pienamente sacrificato di fronte all’interesse della collettività, ponendosi una questione di responsabilità degli organi di Governo per gli atti internazionali esclusivamente sul piano politico[13].
Ed è su questa vicenda che sembra necessario soffermarsi, essa coinvolgendo in modo immediato i riflessi che l’area della politicità degli atti produce sulla tutela dei diritti e sulla possibilità che l’ordinamento offre di garantire un’effettiva protezione, anche sul piano risarcitorio.
Per procedere nel senso appena indicato è necessario ripercorrere sinteticamente un fatto accaduto ormai quasi trent’anni fa quando, nella notte del 23 aprile 1999, mentre dal palazzo della radiotelevisione serba Radio Televizija Srbije di Belgrado veniva trasmessa un’intervista rilasciata dall’allora Presidente Milošević a un’emittente americana, un missile lanciato da aerei della NATO decollati dalla base di Aviano centrava la sede televisiva, provocando non solo il temporaneo oscuramento delle trasmissioni, ma anche la morte di 11 civili rimasti travolti dal crollo dell’edificio ed il ferimento di cento persone che lavoravano al momento dell’attacco.
Accanto alle azioni intraprese dalla Serbia e dal Montenegro, subentrati medio tempore alla ex Repubblica Federale Jugoslava innanzi alla Corte Internazionale di giustizia, alcuni congiunti delle vittime, sostenendo che l’avere scelto come bersaglio l’edificio di un’emittente televisiva costituiva un modo di conduzione delle ostilità rivolto deliberatamente a colpire civili e dunque contrario al Protocollo I aggiuntivo alla Convenzione di Ginevra, avevano infatti convenuto innanzi al Tribunale di Roma la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero della Difesa ed il Comando delle Forze Alleate dell’Europa Meridionale – Afsouth – per sentirli condannare in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, patiti[14].
Con l’ordinanza n.8157/2002 le S.U. dichiararono inammissibile il ricorso, osservando che nella controversia venivano in discussione le modalità di conduzione di un conflitto armato e che tali atti, espressione di una funzione politica, non potevano essere sottoposti al sindacato giudiziale circa il modo in cui la funzione era stata esercitata, non essendo configurabile veruna situazione di interesse protetto. Secondo Cass., S.U. n.8157/2002 le disposizioni della Convenzione di Ginevra e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo regolavano rapporti tra Stati, indicavano le Corti internazionali competenti ad affermarle, né erano state trasposte nell’ordinamento interno norme espresse che consentissero alle persone offese di chiedere allo Stato la riparazione dei danni loro derivati dalla violazione delle norme internazionali. Né la giurisdizione interna poteva radicarsi alla stregua della Convenzione di Londra poiché in contestazione non era la commissione di un singolo atto ma una più complessa operazione militare che le parti private avevano chiesto fosse sottoposta ad un vaglio di liceità[15].
3.1 Il seguito di Cass. S.U., n. 8157/2002. Corte dir. uomo, 14 dicembre 2006, GC, Marković c. Italia, l’opinione dissenziente del Giudice Zagrebelsky.
In esito alla decisione delle S.U. appena ricordata i congiunti si rivolgevano alla Corte europea dei diritti dell’uomo lamentando la lesione dei diritti sanciti dagli artt.6 e 1 della Convenzione.
La Grande Camera della Corte dei diritti umani, che con una maggioranza di dieci voti a sette ha escluso l’esistenza di una violazione dell’art.6 CEDU, ritenne che la decisione delle Sezioni Unite non aveva vulnerato il diritto all’accesso alla giustizia sancito da tale disposizione.
La Corte EDU ha inteso ribadire che i compiti ad essa riservati dall’art.19 CEDU sono quelli di accertare il rispetto degli impegni intrapresi dalle parti contraenti aderenti alla Convenzione e non di occuparsi degli errori in fatto o in diritto commessi da una corte nazionale, a meno che essi non abbiano cagionato una lesione dei diritti protetti dalla Convenzione. La responsabilità principale per implementare ed attuare i diritti e le libertà garantite dalla Convenzione, prosegue la Corte europea, è riservata alle autorità nazionali, essendo il ruolo della Corte europea meramente sussidiario al sistema nazionale di protezione dei diritti umani.
Così statuendo, il giudice europeo ha escluso che la decisione che aveva dichiarato il difetto assoluto di giurisdizione fosse in grado di vulnerare i diritti garantiti dalla CEDU, non integrando una forma di immunità per lo Stato in spregio alle regole ordinarie previste dall’ordinamento interno. Non ravvisando, in tal modo, in base alle regole interne l’esistenza di un diritto alla riparazione, la Corte europea non trovò nemmeno ostacoli per contrastare la deduzione, richiamata nelle difese dei ricorrenti, secondo la quale la giurisprudenza delle Sezioni Unite (Cass. S.U. n.5044/2004[16]) aveva superato i principi espressi da Cass. S.U., n. 8157/2002, affermando che dalla violazione dei diritti umani fondamentali non poteva che scaturire il diritto al risarcimento dei danni in favore delle vittime. Il successivo revirement giurisprudenziale del 2004 non poteva infatti far ritenere che il diritto reclamato dagli attori esistesse prima del diverso orientamento espresso dalle Sezioni Unite nel 2002. Né la decisione delle Sezioni Unite del 2002 poteva dirsi integrare una forma di immunità, nemmeno di fatto, poiché il giudice nazionale aveva richiamato la propria pacifica giurisprudenza in ordine all’insindacabilità degli atti di guerra.
Sicché l’inesistenza, affermata in via generale, del diritto al risarcimento del danno da parte dell’autorità giurisdizionale interna non poteva far ritenere sussistente una forma di immunità.
Anche la decisione “in rito” sulla giurisdizione adottata dalle autorità italiane non concretava una violazione del diritto all’accesso alla giustizia tutelato dall’art.6 CEDU, avendo il giudice nazionale evidenziato le ragioni che dovevano condurre all’esclusione del diritto reclamato dai ricorrenti, senza pertanto conculcare il diritto dei ricorrenti ad ottenere una decisione sulla domanda proposta[17].
Rispetto alla decisione assume capitale importanza l’opinione difforme espressa dal giudice Vladimiro Zagrebelsky, condivisa da altri giudici della Corte EDU, nella quale si è ritenuto che la decisione espressa dalla maggioranza ha rappresentato un colpo tremendo al fondamento stesso della Convenzione, proprio nella parte in cui ha condiviso l’affermazione del giudice nazionale che impedisce la risarcibilità di un diritto garantito dalla CEDU quando a cagionarlo è stato un atto politico discostandosi, peraltro, dalla tradizione della stessa Corte, favorevole al riconoscimento di un diritto effettivo alla tutela giurisdizionale - v. sul punto l’opinione parzialmente difforme del giudice Costa -.
Zagrebelsky ricorda nella sua opinione dissenziente che il ricorso all’esame della Grande Camera solleva una questione di estrema importanza nel quadro della Convenzione, icasticamente evocando il tema della “posizione dell’individuo di fronte all’autorità”. L’autorità nella sua forma più temibile: l’autorità basata sulla “ragione di Stato”[18].
4. L’onorificenza all’ex Presidente brasiliano Bolsonaro concessa dal comune di Anguillara Veneta e la sua natura (o meno) politica. A proposito di Cass. S.U., n.15601/2023.
Sono alcune pronunzie delle Sezioni Unite a dare il senso di un “non ritorno” rispetto all’attività di progressivo restringimento dell’area riservata alla politicità degli atti e, quindi, alla loro insindacabilità che la vicenda da ultimo ricordata sembrava avere incrinato.
Merita in questa prospettiva particolare attenzione la vicenda giudiziaria legata ad un’azione popolare, promossa innanzi al giudice amministrativo da un gruppo di cittadini di Anguillara Veneta, contro la cittadinanza onoraria conferita da quell’amministrazione comunale all’allora presidente del Brasile Jair Messias Bolsonaro, discendente di un uomo nato in quel comune.
Adite in sede di regolamento di giurisdizione, le Sezioni Unite della Cassazione - Cass. S.U., n.15601/2023 - hanno dichiarato il difetto assoluto di giurisdizione sulla domanda proposta, escludendo, tuttavia, che l’atto adottato dal comune potesse qualificarsi come dotato di valenza politica in quanto emanato nell'esercizio del potere politico connesso al conferimento della cittadinanza onoraria comunale.
Le Sezioni Unite hanno escluso che nella deliberazione del Consiglio comunale di attribuzione della cittadinanza onoraria ricorressero i tratti tipologici dell'atto politico in senso proprio, ricordando i due profili che caratterizzano la valenza politica dell’atto ed in particolare, quanto al requisito di natura oggettiva, l’essere l’atto “libero nel fine perché riconducibile a scelte supreme dettate da criteri politici (deve concernere, cioè, la costituzione, la salvaguardia o il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione)”, al punto che “è ritenuto tale non l'atto amministrativo che sia stato emanato sulla base di valutazioni specificamente di ordine politico, ma solo l'atto che sia esercizio di un potere politico.”
La nozione di atto politico è dunque di stretta interpretazione e ha carattere eccezionale, perché altrimenti si svuoterebbe di contenuto la garanzia della tutela giurisdizionale che la Costituzione assicura come indefettibile e con i caratteri della effettività e della accessibilità, costituendo dunque eccezione alla regola dell'impugnabilità dell'atto. Nel caso di specie, la natura politica dell'atto di conferimento della cittadinanza onoraria è stata esclusa dalle Sezioni Unite, da un lato, per l’assenza del requisito oggettivo, non ritenendo la Corte il conferimento di quella onorificenza atto riconducibile alle supreme scelte in materia di costituzione, salvaguardia e funzionamento dei pubblici poteri.
Per altro verso, le S.U. hanno ritenuto la mancanza di specifici parametri giuridici protesi a riconoscere posizioni di vantaggio meritevoli di protezione e, a monte, rivolti a regolare il potere del consiglio comunale di conferire o meno un’onorificenza non destinata ad accrescere in alcun modo la sfera giuridica del destinatario.
Dopo avere ricordato l'art. 101 Cost., comma 2 il quale, nel fissare il principio della soggezione dei giudici soltanto alla legge, individua nella legge il fondamento e la misura del sindacato ad opera del giudice, le S.U. hanno chiarito che “in assenza di un parametro giuridico alla politica, il sindacato deve arrestarsi: per statuto costituzionale, il giudice non può essere chiamato a fare politica in luogo degli organi di rappresentanza. Lo preclude il principio ordinamentale della separazione tra i poteri. La "zona franca" è il riflesso della presenza di una politicità dell'atto che non si presta ad una rilettura giuridica. L'insindacabilità è il predicato di un atto non sottoposto dall'ordinamento a vincoli di natura giuridica. Ove, viceversa, vi sia predeterminazione dei canoni di legalità, quello stesso sindacato si appalesa doveroso. Il giudice, quale che sia il plesso di appartenenza, è non solo rispettoso degli ambiti di attribuzione dei poteri, ma anche, sempre per statuto costituzionale, garante della legalità, e quindi non arretra là dove gli spazi della discrezionalità politica siano circoscritti da vincoli posti da norme che segnano i confini o indirizzano l'esercizio dell'azione di governo. La giustiziabilità dell'atto dipende dalla regolamentazione sostanziale del potere. Se dunque esiste una norma che disciplina il potere, che ne stabilisce limiti o regole di esercizio, per quella parte l'atto è suscettibile di sindacato.”
Nel caso di specie le Sezioni Unite hanno escluso l’esistenza di specifici parametri giuridici protesi a riconoscere posizioni di vantaggio meritevoli di protezione che potessero giustificare la proponibilità in astratto dell’azione popolare intentata da alcuni cittadini del comune di Anguillara Veneta[19].
A tale conclusione tuttavia le Sezioni unite aggiungono, a mo’ di chiusura del loro ragionamento, la possibilità che l’atto di conferimento dell’onorificenza da parte del comune possa essere oggetto di sindacato giurisdizionale innanzi al giudice ordinario “in casi estremi (si pensi, per esempio, alla cittadinanza onoraria che venisse conferita ad una persona assolutamente indegna perché condannata per gravi crimini)” dovendo riconoscersi in simili casi la garanzia della giustiziabilità e dell'intervento del giudice comune.
5. La lettera di garanzia della Commissione adozioni internazionali e la sua natura, politica per il Consiglio di Stato -Cds.n.7250/2021 - soggetta al sindacato giurisdizionale secondo le S.U. civili - Cass. S.U., 26 settembre 2023, n.27177 -.
Quanto il fenomeno giuridico si presti a letture destinate a formarsi attraverso le risposte fornite dalla giurisdizione trova, di recente, assai plastica dimostrazione nella vicenda esaminata dalle Sezioni Unite civili in sede di ricorso per motivi di giurisdizione proposto da un’associazione che funge da intermediario fra i privati e lo Stato bielorusso, nell’espletamento dell’iter finalizzato all’adozione internazionale, ai sensi dell’art. 3 del Protocollo di collaborazione tra la Commissione per le Adozioni Internazionali presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri della Repubblica Italiana – presieduta dal Ministro per le pari opportunità - e il Ministero dell’Istruzione della Repubblica di Belarus in materia di adozioni dei cittadini minorenni della Repubblica di Belarus da parte dei cittadini della Repubblica Italiana.
Tale associazione aveva impugnato il silenzio-inadempimento della Commissione adozioni internazionali al rilascio della lettera di garanzia sul benessere dei minori adottandi prevista dall’art.9 del detto Protocollo[20].
Il giudice amministrativo, sia in primo che in secondo grado, aveva escluso la giustiziabilità del ricorso per difetto assoluto di giurisdizione, ritenendo la natura politica dell’atto ai sensi dell’art. 7, comma 1, c.p.a.). E ciò sia sotto il profilo - espresso dal TAR Lazio - connesso alle ragioni che avevano indotto il mancato invio della lettera di garanzia, connesse alla risoluzione del Parlamento europeo del 17 settembre 2020, con cui l’Unione europea dichiarava di non riconoscere Alexander Lukashenko quale Presidente della Bielorussia a causa delle violazioni del diritto internazionale commesse in occasione delle elezioni presidenziali. Sia anche, come specificato dal Consiglio di Stato nella sentenza n.7250/2021, cit., per il fatto che la stessa lettera di garanzia, inserendosi nell’ambito del Protocollo di collaborazione fra Stati, costituiva attuazione di un trattato internazionale, regolato dal diritto internazionale e concluso fra gli Stati-organizzazione (o Stati-governo), come tale non destinato a spiegare effetti tra le singole persone fisiche o giuridiche che fanno parte dello Stato-comunità[21].
Le Sezioni Unite della Corte di cassazione, con la sentenza n.27177/2023 hanno cassato la decisione del Consiglio di Stato sotto il profilo del difetto assoluto di giurisdizione, ritenendo per ciò irrilevante ai fini della decisione del ricorso la circostanza che medio tempore la Commissione adozione avesse dato corso alla lettere di garanzia ed hanno escluso che nel mancato rilascio della lettera di garanzia sul benessere dei minori ricorressero i tratti tipologici dell'atto politico.
Muovendo dal presupposto che la nozione di atto politico è di stretta interpretazione e ha carattere eccezionale, perché altrimenti si svuoterebbe di contenuto la garanzia della tutela giurisdizionale, che la Costituzione assicura come indefettibile e con i caratteri della effettività e della accessibilità, si sottolinea che “Il principio di giustiziabilità degli atti del pubblico potere, di soggezione del potere alla legge ogni qualvolta esso entra in rapporto con i cittadini, costituisce un profilo basilare della Costituzione italiana.” Ragion per cui “l'impugnabilità dell'atto è la regola: una regola orientata ad offrire al cittadino una concreta protezione della propria sfera soggettiva individuale contro le molteplici espressioni di potere in cui si concreta l'azione della pubblica amministrazione.”
Per le S.U. “La chiave di volta ai fini del giudizio di insindacabilità di un atto del potere pubblico è costituita, in generale, dalla mancanza di specifici parametri giuridici protesi a riconoscere posizioni di vantaggio meritevoli di protezione. Viene in rilievo, infatti, l'art. 101, secondo comma, Cost., il quale, nel fissare il principio della soggezione dei giudici soltanto alla legge, individua nella legge il fondamento e la misura del sindacato ad opera del giudice. Ciò significa che, in assenza di un parametro giuridico alla politica, il sindacato deve arrestarsi: per statuto costituzionale, il giudice non può essere chiamato a fare politica in luogo degli organi di rappresentanza. Lo preclude il principio ordinamentale della separazione tra i poteri. La "zona franca" è il riflesso della presenza di una politicità dell'atto che non si presta ad una rilettura giuridica. L'insindacabilità è il predicato di un atto non sottoposto dall'ordinamento a vincoli di natura giuridica. Il diritto vivente conferma la recessività della nozione di atto politico, che coincide con gli atti che attengono alla direzione suprema generale dello Stato considerato nella sua unità e nelle sue istituzioni fondamentali.
La situazione muta radicalmente nei casi nei quali, invece, si rinvengano rispetto all’atto vincoli volti a circoscriverne gli spazi di discrezionalità posti da norme che disciplinano il potere, che ne stabiliscono limiti o regole di esercizio e che, dunque, rendono necessitato l’intervento del giudice. In queste ipotesi il giudice, proseguono le Sezioni Unite, “…quale che sia il plesso di appartenenza, è non solo rispettoso degli ambiti di attribuzione dei poteri, ma anche, sempre per statuto costituzionale, garante della legalità.”
Fatte queste premesse, le S.U. hanno escluso che il Protocollo di collaborazione tra la Commissione per le adozioni internazionali presso la Presidenza del Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana e il Ministero dell’istruzione della Repubblica di Belarus in materia di adozione dei cittadini minorenni della Repubblica di Belarus da parte dei cittadini italiani abbia natura di trattato internazionale, invece contenendo mere disposizioni procedurali finalizzate a rendere fluida la comunicazione tra le autorità centrali dei due Paesi cooperanti in particolare circa il possesso da parte dei genitori adottandi di tutti i requisiti prescritti per l’adozione internazionale dalle norme vigenti e l’idoneità degli stessi a garantire il superiore interesse del minore in termini affettivi e di sostentamento.
Per tali ragioni le S.U. sono giunte alla conclusione che la lettera di garanzia non è atto politico, poiché non attiene alla direzione suprema generale dello Stato considerato nella sua unità e nelle sue istituzioni fondamentali, né è “un atto libero nel fine, come tale riconducibile a scelte supreme dettate da criteri politici concernenti la costituzione, la salvaguardia o il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione.”
Le Sezioni Unite hanno poi escluso che la lettera anzidetta potesse esaurire i suoi effetti sul piano internazionale “senza dare vita nell’ordinamento nazionale a diritti soggettivi o interessi legittimi coercibili mediante la proposizione di questa o quella azione giurisdizionale da parte dei singoli.” Il Protocollo, là dove contempla la lettera di garanzia sul benessere dei minori adottanti, costituisce attuazione della disciplina nazionale in tema di cooperazione fra le autorità centrali in materia di adozioni - art. 39, comma 1, lettera a), della legge n. 184 del 1983, come modificata dalla legge n. 476 del 1998, di ratifica della Convenzione dell’Aja, e l’art. 6, comma 1, lettera a), del d.P.R. n. 108 del 2007 - ed è inserito in un reticolo di disposizioni di rango internazionale e nazionali che tendono a garantire il riconoscimento di una famiglia attraverso l’istituto dell’adozione internazionale ai minori che ne sono privi nello Stato di origine, purché ciò avvenga nel rispetto del superiore interesse dei minori.
In questa prospettiva, dunque, non solo il Protocollo non ha bisogno di essere trasformato nel suo contenuto normativo attraverso corrispondenti norme interne per far sorgere posizioni soggettive nel caso si riscontrino inadempimenti o inerzie lesive di interessi qualificati, ma coinvolge direttamente posizioni giuridiche soggettive tutelate al più alto rango della legislazione che non possono essere dunque lasciate prive di tutela giurisdizionale.
6. Il segreto di Stato, la sua natura intrinsecamente politica ed i suoi limiti (intrinseci)
La tendenza a ridurre l’ambito dell’insindacabilità delle scelte politiche si coglie forte - anche se questa volta più sul piano della giustizia sovranazionale; meno su quello interno - in tema di “sparizioni straordinarie”, nelle quali è stato coinvolto lo Stato italiano nella vicenda del sequestro di Abu Omar eseguito in territorio italiano da agenti della CIA[22].
La sentenza della Corte EDU resa il 23 febbraio 2016 (ric. n. 44883/09) nel caso Nasr e Ghali c. Italia, dopo avere ribadito – evocando espressamente la sentenza Cestaro c. Italia (Corte edu, 7 aprile 2015, ric. n. 6884/11), – che, «in materia di tortura o di maltrattamenti inflitti da parte di agenti dello Stato, l’azione penale non dovrebbe estinguersi per effetto della prescrizione, così come l’amnistia e la grazia non dovrebbero essere tollerate in questo ambito», lo stesso discorso valendo «per la sospensione condizionale dell’esecuzione della pena e nel caso di un indulto», non mancò di stigmatizzare i provvedimenti clemenziali adottati testualmente affermando che «malgrado il lavoro degli inquirenti e dei magistrati italiani, che ha permesso di identificare i responsabili e di pronunciare delle condanne nei loro confronti, le condanne in questione sono rimaste prive di effetto, a causa dell’atteggiamento dell’esecutivo, che ha esercitato il suo potere di opporre il segreto di Stato, e del Presidente della Repubblica (...). Nel caso di specie, il principio legittimo del “segreto di Stato”, evidentemente, è stato applicato allo scopo di impedire che i responsabili dovessero rispondere delle loro azioni. Di conseguenza l’inchiesta, seppur effettiva e approfondita, e il processo, che ha portato all’identificazione dei colpevoli e alla condanna di alcuni di loro, non hanno avuto l’esito naturale che, nella fattispecie, avrebbe dovuto essere “la punizione dei responsabili” (paragrafo 262, supra). Alla fine vi è stata dunque impunità» (corsivo aggiunto).
Dunque, l’impunità non poteva, agli occhi della Corte, prevalere sul segreto di Stato. Il bilanciamento che opera la Corte EDU è decisamente a favore dell’esigenza di verità[23] e giustizia. Ed è un bilanciamento operato rispetto a un crimine che ha violato il bene incomprimibile della dignità umana, in contrasto con l’art. 3 Cedu[24].
In definitiva, va crescendo sempre di più nella Corte edu il peso della verità nelle investigazioni quando sono in gioco i diritti fondamentali[25]. Prospettiva che aiuta a comprendere la posizione espressa dalla Corte costituzionale sul tema[26].
Si coglie, così in maniera evidente la tensione che pure anima la posizione della Corte costituzionale, fra gli interessi supremi dello Stato che sono incarnati dall’atto con il quale si appone il segreto di Stato e la non meno cogente necessità di far salvi i fondamenti stessi dell’ordine costituzionale. In questa prospettiva si spiega la parte finale del passo riportato della sentenza n.86, cit.[27] Ed è ancora una volta il confronto fra il diritto vivente nazionale e la giurisprudenza della Corte edu a costituire un ineludibile spunto di riflessione per il giurista.
7. L’atto politico e la questione migratoria
Il tema della politicità degli atti è tornato all’attenzione degli operatori giudiziari ed in particolare della giurisdizione del giudice ordinario, al quale spetta da tempo la verifica delle posizioni giuridiche soggettive qualificate come di diritto soggettivo in tema di espulsioni, rifugiati ed asilo -cfr.Cass.n. 1082/1999, Cass.S.U. n.907/1999, Cass.S.U. n.4674/1997 Cass.S.U. n.29459/2019[28] - in relazione alle vicende legate al tema delle migrazioni, ai provvedimenti adottati dal Governo sui c.d. porti chiusi[29] e alle condotte assunte da ONG per porre in salvo migranti accolti dopo il salvataggio in mare. Tema che riguarda in primo luogo la giurisdizione del giudice ordinario – civile e penale- e che si è intrecciato con le decisioni governative assunte in materia di chiusura dei porti, riguardando altresì la rilevanza delle condotte di esponenti delle ONG inosservanti dei divieti di attraccare, intimati dalle vedette della Guardia di Finanza[30].
Proprio nel contesto appena ricordato, nel quale si sono fronteggiate posizioni divaricate sulla liceità delle condotte inosservanti degli ordini impartiti dall’autorità governativa e/o militare[31], in dottrina non si è mancato di rilevare che «[l]'atto è politico se e perché non ha effetti lesivi per le persone: per cui gli effetti lesivi della decisione di Salvini nel caso Diciotti sono la dimostrazione che non si può trattare di un atto politico»[32]. Lo stesso Bin non ha mancato di sottolineare, sempre a proposito della vicenda della nave Diciotti[33], che se per raggiungere un obiettivo politico un ministro ordinasse un omicidio, si finirebbe per ripetere l’idea sostenuta da Mussolini rispetto all'omicidio Matteotti.[34] V’è tuttavia da rilevare che sul caso Diciotti il Senato della Repubblica, dopo la richiesta del Tribunale dei ministri di procedere nei confronti dell’allora Ministro degli Interni, non ha concesso l’autorizzazione a procedere, ritenendo che l’azione del Ministro fosse diretta alla salvaguardia dei superiori interessi dello Stato, giudicando l’operato del Ministro avente rilievo politico, così sottratto alla giurisdizione del giudice ordinario (penale nella specie)[35].
Ancora una volta non può disconoscersi l’estrema complessità e delicatezza del tema che coinvolge il limite dell’atto politico[36] e con esso quello del bilanciamento fra contrapposti diritti ed interessi di rilievo nazionale.
In questa prospettiva, merita di essere ricordata la conclusione raggiunta dal GIP presso il Tribunale di Catania nella sentenza n.422/2021 laddove è stato escluso che le condotte contestate all’imputato nella vicenda della nave Gregoretti potessero sussumersi nell’alveo degli atti politici poiché occorreva distinguere la politica governativa in materia di immigrazione dai singoli atti posti in essere dai Ministri in attuazione della stessa, soggetti al sindacato giurisdizionale - del g.a. e/o del g.o. - gli stessi incidendo su singole posizioni giuridiche in relazione alle diverse peculiarità dei casi nell’ambito dei quali venivano assunti -cfr. pag. 88 sent. cit.-
Per questo, secondo il GIP catanese “tutto ciò che sta a valle dell’indirizzo politico generale, vale a dire i singoli comportamenti omissivi o commissivi compiuti dagli esponenti politici del Governo, costituiscono una libera estrinsecazione del potere del singolo Dicastero … che vanno ad interessare i diritti e gli interessi legittimi dei singoli individui cui sono diretti. Per tale ragione non possono essere sottratti alla giurisdizione del giudice penale, in quanto debbono essere assoggettati ad un adeguato controllo, verificando se gli stessi siano aderenti alla legislazione vigente ed alla normativa primaria e secondaria scaturente dall’indirizzo politico assunto dal Governo” – cfr. pag.88 sent. ult. cit.-
In linea di continuità con questo indirizzo sembra porsi la decisione del Tribunale dei Ministri di Palermo, intervenuto nella vicenda della nave Open Arms - per la quale il processo penale è in corso - laddove ha ritenuto, per escludere la natura politica delle condotte ascritte agli imputati con riguardo alla mancata concessione dell’approdo in porto sicuro (POS) che “Alla luce di tali norme, considerate, come detto, jus cogens, il legittimo diritto dello Stato di proteggere i propri confini e di porre in atto tutte le misure necessarie per salvaguardare la sicurezza e la sanità sul territorio nazionale non può giammai attuarsi mediante un illegittimo respingimento collettivo, né può mai essere attuato mediante una violazione del generale obbligo giuridico di salvaguardare, sopra ogni cosa, l’incolumità della vita umana. Come, infatti, ha affermato la Corte Europea dei diritti dell’Uomo, “le difficoltà nella gestione dei flussi migratori non possono giustificare il ricorso da parte degli Stati, a pratiche che sarebbero incompatibili con i loro obblighi derivanti da convenzioni. La Corte riafferma a questo proposito che l’interpretazione delle norme di convenzioni deve essere fatta con riguardo al principio della buona fede e all’oggetto e allo scopo del trattato, nonché alla regola dell’effetto utile” (v. sentenze Mamatkulov e Askarov; Hirsi c/ Italia). L’evidente contraddittorietà del provvedimento e la sua conseguente illegittimità non consentono, dunque, di ritenerlo idoneo a svincolare lo Stato italiano dalle responsabilità per lo stesso scaturenti dalle norme internazionali più volte richiamate; responsabilità, comunque, non più declinabili a seguito della sospensione degli effetti del provvedimento in parola. Conclusivamente deve affermarsi che la condotta omissiva ascritta agli indagati, consistita nella mancata indicazione di un POS alla motonave Open Arms, è illegittima per la violazione delle convenzioni internazionali e dei principi che regolano il soccorso in mare, e, più in generale, la tutela della vita umana, universalmente riconosciuti come ius cogens.” -cfr. Trib. Palermo, collegio per i reati ministeriali, 30 maggio 2020, pag.55 ss.-.
Sempre in questa prospettiva, merita di essere ricordata, questa volta sul versante delle questioni di giurisdizione, Cass., S.U., n.4873/2022. Le Sezioni Unite, nell’individuare la giurisdizione del giudice ordinario sulle controversie in cui vengano in gioco diritti fondamentali, nel caso di specie il diritto al distanziamento sociale nei confronti dei richiedenti asilo collocati nei centri di accoglienza straordinaria, quale corollario del diritto alla salute costituzionalmente tutelato ai sensi dell’art. 32 Cost., hanno ritenuto che “Non può condurre a diversi risultati, in punto di giurisdizione, la circostanza che l'attuazione del diritto al distanziamento sociale si inserisca nel sistema pubblicistico disegnato dal D.Lgs. n. 142 del 2015, poi integrato parzialmente dal D.L. n. 113 del 2018, all'interno di un compendio di misure volte a disciplinare, fra i centri di prima e di seconda accoglienza, appunto i Centri di accoglienza straordinaria riservati ai richiedenti asilo che, secondo la difesa erariale, involgerebbe "profili di elevata discrezionalità tecnica e amministrativa, caratteristici proprio della potestà organizzativa di qualsivoglia servizio pubblico”, in tal modo restringendo le maglie dell’asserita politicità di misure che, proprio nella misura in cui sono frutto del combinato disposto della normativa sanitaria emergenziale pandemica e di quella legata alla gestione dei centri di accoglienza, in sé emergenziale, presuppongono la loro sindacabilità da parte del giudice (in questo caso ordinario) per saggiarne la compatibilità proprio con detta normativa.
Sempre in materia di politica migratoria la questione della politicità o meno di atti del Governo assuma tratti peculiari, coinvolgendo temi divisivi nel dibattito politico, al pari di quanto accade in altri Paesi europei coinvolti da processi migratori.
Non è dunque un caso che in questa materia sono stati di recente oggetto di particolare attenzione, anche massmediatica, alcuni provvedimenti adottati dalle Sezioni specializzate in materia di protezione internazionale nelle quali l’autorità giudiziaria -Trib.Catania, 29 settembre 2023[37] - non ha convalidato in via definitiva, ovvero ha sospeso in via cautelare- Trib.Firenze, 4 ottobre 2023[38] - i provvedimenti di rimpatrio adottati dall’autorità amministrativa.
In questa prospettiva il decreto adottato dal Tribunale di Firenze che, appunto, ha ritenuto di non essere vincolato dalla nozione di paese sicuro ai sensi dell’art.2 bis del d.lgs.n.25/2008 fissata dal Ministero al fine di consentire provvedimenti di rimpatrio accelerato nel paese di origine- nella specie Tunisia-. Il giudice toscano ha ritenuto che gli elementi utilizzati dal Ministero degli affari esteri e delle cooperazione internazionale – di concerto con i Ministri dell’Interno e della Giustizia- per includere la Tunisia fra i paesi sicuri non avevano preso in considerazione ulteriori fatti attestanti l’involuzione autoritaria del paese e la crisi politici in atto, accertati da fonti internazionali rendendo il provvedimento impugnato carente sotto il profilo della motivazione.
8. Qualche considerazione conclusiva a cavallo fra atti politici e sentenze politiche. A) Il ruolo dell’ordine giudiziario a salvaguardia dei diritti e degli interessi delle persone rispetto all’atto politico (ed al potere).
Detto questo, dall’esame composito della giurisprudenza del giudice ordinario di merito e di quella delle Sezioni Unite della Corte di cassazione in sede di esame delle censure relative a questioni di giurisdizione sembra emergere un quadro tutto orientato a circoscrivere il concetto e gli effetti derivanti dall’insindacabilità dell’atto politico, correndo su un duplice versante.
Da un lato si è infatti a più riprese sottolineata l’assoluta incompatibilità fra insindacabilità e natura politica di un atto pur proveniente da organi di vertice dello Stato, quando esso sia comunque privo di quel carattere discrezionale correlato alla gestione degli interessi supremi dello Stato proprio perché attiene a vicende ed interessi che trovano, per converso, una disciplina normativa che elide l’assoluta insindacabilità dell’atto stesso, rendendo palese l'insussistenza di "alcuna libertà nell'individuazione degli interessi e dei fini pubblici che caratterizza gli atti politici"- Cass. S.U., n.10319/2016-.
Per altro verso, appare evidente la necessità di distinguere l’atto di matrice politica da come esso viene attuato dall’apparato istituzionale dello Stato, appunto sottolineandosi la diversità fra ciò che è “a monte” e ciò che sta “a valle” della scelta politica. Il che può forse sintetizzarsi con l’affermazione che un atto politico non può produrre conseguenze destinate a travolgere diritti fondamentali che dovessero risultare coinvolti purché correlati ad un quadro normativo dal quale anche gli organi supremi dello Stato non possono prescindere, anche quando adottano decisioni politiche.
In questa direzione, appaiono adamantine risultano le riflessioni di Zagrebelsky sopra richiamate nell’opinione dissenziente a proposito del caso Marković, destinate a valere ben al di fuori della vicenda che si è qui ricordata, esse potendo considerarsi una autentica pietra miliare per il dispiegarsi di un corretto rapporto fra fonti interne e CEDU.
Le stesse sembrano seguire un filo che può essere recuperato come se fosse, appunto, il filo di Arianna che il giudice nazionale deve cercare quando si confronta con il tema della politicità degli atti che impediscono la tutela anche sul piano risarcitorio dei diritti fondamentali garantiti ed incisi da quella manifestazione volitiva dello Stato[39].
In conclusione, la rassegna di casi giurisprudenziali qui proposta sembra dimostrare, per l’un verso, un andamento zigzagante che affonda le sue radici in diversi fattori.
Appare evidente come il sindacato sull’atto politico si sia evoluto proprio in ragione della nuova sensibilità verso la tutela dei diritti della persona che nasce non solo dal contesto e dall’evoluzione sociale, ma a monte da una sempre più consapevole considerazione del ruolo della Costituzione e delle Carte dei diritti, nell’interpretazione che i diritti viventi ne danno.
In questo senso, le decisioni delle Sezioni Unite del 2023 qui ricordate sembrano tracciare una linea di non ritorno da posizioni volte ad allargare i margini della politicità.
Ed in questa prospettiva la pronunzia delle S.U. nella vicenda della lettera di garanzia della Commissione adozioni contiene degli spunti di estremo interesse, soprattutto perché si pone in aperto contrasto con il giudice amministrativo che, nel caso di specie, aveva speso diverse energie nel sostenere la politicità dell’atto.
Vi è poi da registrare una particolare attenzione da parte dei giudici del merito, si è visto soprattutto con riguardo ai fenomeni migratori, nel circoscrivere l’insindacabilità di atti adottati a monte nelle politiche migratorie, salvo poi a valutare in concreto l’atto, sia sul piano civile che su quello penale, con esiti che prescindono dalla natura dell’atto ma appunto riportano il giudizio sul piano tecnico.
In questo contesto, come si è visto nelle decisioni sopra richiamate le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono spesso chiamate, nel regolare la giurisdizione tra giudice ordinario e amministrativo, nonché nell’escluderla radicalmente in relazione all’assenza di tutelabilità della posizione giuridica fatta valere, ad affrontare questioni che solo apparentemente attengono alla giurisdizione, ma che più propriamente ineriscono alla configurazione della consistenza di posizioni giuridiche soggettive (diritti soggettivi e/o interessi legittimi) e si innestano su scelte politiche più o meno tecnicamente intese[40]. Un ruolo che sembra essere ben più pregnante di quello di mero regolatore dei plessi giurisdizionali, andando ad incidere sul tessuto connettivo del sistema di giustiziabilità delle posizioni giuridiche soggettive.
8.1 Segue: B) Le sentenze “politiche”
Al di là delle valutazioni complessive che possono dunque esprimersi con riguardo al tema della politicità degli atti sul versante giurisprudenziale sembrano evidenti i rischi che la giurisdizione nel suo complesso corre all’atto stesso dell’esercizio delle funzioni allo stesso costituzionalmente attribuite che possono, come si è visto, condurla ad intercettare, nei percorsi di verifica di una condotta ai fini della sua rilevanza penale o del suo rilievo ai fini civilistici o amministrativi, scelte di natura politica adottate a livello interno e, quindi, ad adottare decisioni giurisdizionali che possono essere strumentalmente etichettate come di natura “politica” sol perché si confrontano con il tema della politicità degli atti prospettata al fine di paralizzarne, appunto, il sindacato.
Ciò che conduce a volte a fare ipotizzare che le sentenze che si occupano di tali ambiti, qualunque sia la soluzione adottata, sarebbero essere stesse “politiche” e dunque in grado di incrinare il ruolo di terzietà[41] ed indipendenza dell’ordine giudiziario.
Si tratta, a parere di chi scrive, di un nuovo fronte dei rapporti fra politica e magistratura nel quale, in termini generali, il confronto tocca direttamente il modo di operare del giudiziario, il suo giudicare, il suo modo di confrontarsi con le fonti, il modo con il quale esso intende il proprio rapporto con la Costituzione, le Carte dei diritti fondamentali, le giurisprudenze delle Corti sovra statuali.
Anche in tempi recenti si tende infatti a caldeggiare l’idea che le scelte del legislatore - soprattutto, si è visto, in materia migratoria - abbiano sempre una valenza politica sulla quale solo gli elettori e la politica potranno giudicare. Il che dovrebbe condurre alla conclusione che le sentenze in tali casi abbiano superato il “limite” entro il quale la giurisdizione ha la competenza per svolgere in modo corretto la propria funzione, proprio in ragione dell’insindacabilità dell’atto politico[42].
Analoghe considerazioni andrebbero fatte rispetto alla questione del segreto di stato, di guisa che reclamare la verità su fatti che hanno cagionato la lesione di diritti fondamentali delle persone finirebbe con realizzare una torsione del sistema democratico che, invece, si fonda anche sulla natura politica degli atti dei poteri sovrani, chiamati a rispondere del loro operato secondo le regole democratiche ma non davanti ad un giudice.
Come, dunque, il giudice comune può resistere all’accusa[43] di politicità del suo agire?
Soccorre, ancora una volta, la Costituzione che appunto attribuisce all’ordine giudiziario la “possibilità di resistenza” o, forse meglio, il “dovere di resistenza” rispetto ad atti che vadano ad incidere, danneggiandoli, su diritti della persona dotati di valenza costituzionale e sovranazionale che, ove esistenti e protetti, le scelte dell’esecutivo e dei Parlamenti non possono mai disattendere.
Ora, si è anche sostenuto in dottrina che questo controllo sui diritti fondamentali che permane anche rispetto alle decisioni di (apparente) natura politica sposti l’ago della bilancia fra legislatore e giudiziario in favore di quest’ultimo[44], permanendo pur sempre l’imperativo costituzionale di rispetto delle reciproche attribuzioni, in un clima di reciproca fiducia dei e tra i poteri.
Resta in ogni caso il dato inconfutabile che sta alla base non solo della divisione-separazione dei poteri ma, soprattutto, della centralità dei diritti fondamentali nell’impianto costituzionale e dunque della indispensabilità del controllo di garanzia, al quale ha opportunamente fatto riferimento Cass. S.U., n.27177/2023, cit.
Il giudice sta dunque lì a svolgere la sua funzione di guardiano indipendente, trovando nel diritto vivente delle Corti superiori nazionali e sovranazionali la linfa sulla quale orientare il proprio operato nell’interpretazione della legge[45].
E non occorre certo scomodare la dottrina dell’uso alternativo del diritto per giustificare tale agire del giudice, per vero gravido di incrostazioni di natura ideologica che hanno condotto sì in molti casi il giudice a far politica.
La stella polare del giudice dovrebbe piuttosto esprimersi con la formula dell’uso cooperativo del diritto.
Un uso che parte della Costituzione e fa dei giudici -di merito e di legittimità insieme a quelli sovranazionali in maniera assolutamente equiordinata - i garanti dell’applicazione della legge coerente con le Carte dei diritti fondamentali attraverso l’attività di interpretazione, costituzionalmente, convenzionalmente ed eurounitariamente orientata.
Proprio la materia migratoria costituisce un esempio lampante di quanto nella cassetta degli attrezzi del giudice trovino posto e rilievo sempre più marcato fonti di matrice UE, convenzionale ed internazionale che quel giudice “deve” sapere maneggiare con competenza ed accortezza. Attività che obbliga il giudice a scavare nel testo della norma, a ricercarne il senso, ad inserirla nel “contesto” nel quale è chiamata ad operare, sempre più complesso, proprio perchè “la norma giuridica … è regola di comportamento … collegata a tutte le altre che costituiscono, insieme e nel loro complesso, un sistema normativo dal quale essa ripete la sua forza od efficacia”.[46]
Attività di scavo[47] che può giungere alla disapplicazione in caso di contrasto con norme UE di immediata efficacia o di diritti fondamentali scolpiti nella Carte dei diritti fondamentali dell’UE, eventualmente preventivamente dialogando, in via obbligatoria o facoltativa, con la Corte di giustizia UE e/o con la Corte costituzionale, secondo le rime fissate dalla Corte costituzionale con i “seguiti” della sentenza n.269/2017[48]. Attività che nemmeno può rimanere impermeabile alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo[49] e che, anzi, reclama un pronto intervento legislativo volto alla ratifica del Protocollo n.16 annesso alla CEDU[50]. Tema che, ancora una volta rende evidente la necessità di una reciproca fiducia fra politica e magistratura, come si avrà modo di dire in seguito.
Un giudice chiamato, nello stato costituzionale, a “vegliare sulle possibili violazioni di quei principi”, adoperandosi in un’attività di restauro anche in via interpretativa della coerenza tra legislazione e costituzione[51]. Un giudice che caso per caso estrae, così, il senso e significato linguistico della norma attraverso l’evoluzione sociale[52] e giuridica che i diritti fondamentali in gioco seguono.
Insomma, un’attività ermeneutica complessa e attenta al dato normativo testuale inserito nel panorama complessivo delle fonti applicabili al caso, di qualunque rango siano soprattutto se attuative di diritti fondamentali[53] che non ha nulla di creativo, ma evoca l’idea della invenzione, nel significato che Paolo Grossi ha più di una volta esposto nei suoi scritti[54].
Certo, occorre intendersi.
Il confine su ciò che nell’ambito interpretativo va fatto e ciò che non va fatto è labile, difficile da individuare in vitro, occorre piuttosto un’analisi in vivo dei casi. In questa direzione di estremo rilievo appaiono i principi espressi da Cass. S.U., n.24413/2021 nei paragrafi 24,25,26,27 e 28, volti, per un verso, ad individuare il limite dell’attività interpretativa riconducibile al dato testuale in ciò risultando pienamente coerente con i principi più volte espressi dalla Corte costituzionale[55], senza tuttavia negare, ma anzi imponendo un’ermeneutica su base sistematica e storica della disposizione che non può prescindere, dunque, dal contesto normativo nel quale la disposizione è inserita prima di divenire norma.
Quanto appena detto può essere forse esemplificato con una vicenda che ha visto coinvolta la Corte di cassazione (Cass.-ord.- 230/2023), alle prese con una adozione legittimante disposta dal giudice di merito nei confronti di due bambini, vittime di un femminicidio da parte del loro stesso padre, dunque dichiarato decaduto dalla potestà genitoriale[56], autorizzate ad incontrare i nonni della famiglia di origine.
Orbene, la Corte costituzionale, con la sentenza n.183/2023 ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata ritenendo che era ben possibile offrire un’interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente orientata di quel “testo”, rilevando che “l’evoluzione sociale e il dato dell’esperienza maturata con l’applicazione della disciplina, unitamente alle sollecitazioni provenienti dalla Corte EDU, oltre che da questa Corte e dal diritto vivente, hanno indotto il legislatore a rivedere, negli anni, l’assunto in base al quale l’adozione, in quanto auspicata rinascita del minore, debba immancabilmente implicare una radicale cancellazione del passato” (corsivo aggiunto).
Sicché, prosegue la Consulta, “l’intera trama normativa, nella quale si colloca il citato art. 27, terzo comma, offre già attualmente, per come si è evoluta nel tempo, indici ermeneutici che, orientati dai principi costituzionali, consentono di individuare situazioni nelle quali emerge un preminente interesse del minore a veder preservate relazioni socioaffettive con componenti della famiglia d’origine”.
Ecco, dunque, disvelato il compito ed il ruolo del giudice comune, sempre più rivolto a ribaltare gli automatismi legislativi che non consentono una soddisfacente valutazione della singola fattispecie concreta[57]. Sempre più coinvolto nel dialogo con le fonti sovranazionali ed il diritto vivente delle Corti chiamate “per legge” e “per Costituzione” a dare corpo e misura alle Carte dei diritti,
Si arriva, così, ancora una volta al nocciolo rappresentato dal significato che la legge ha nella sua applicazione pratica. Risultato al quale solo il giudice, nel processo ed in ciò coadiuvato dagli avvocati, può giungere per il tramite dell’interpretazione che alla legge occorre dare per trasformare la disposizione normativa astratta in norma applicabile al caso concreto.
Occorre dunque promuovere ed al tempo stesso salvaguardare un modello di un giudice che viva con consapevolezza, e con il senso - invero alto, molto alto - di responsabilità che gli è dovuto, direi quasi imposto, questo suo essere motore dei diritti e protettore dei diritti che ha consentito alla società del nostro tempo di raggiungere traguardi inimmaginabili che sono storia e patrimonio di diritti e di tutele e non storia di indebite supplenze. Questo in una prospettiva che non vede giudici alti e bassi, ma semplicemente giudici che cooperano con il legislatore nella tutela dei diritti.
E questo, va detto in modo chiaro e fermo, non per strizzare l’occhiolino alla forza politica di turno compiacente rispetto alla singola vicenda in gioco. Ma anzi, al contrario, per marcare la distanza netta ed invalicabile da qualunque politica rispetto al senso e ruolo della giurisdizione che per questo deve necessariamente apparire impermeabile a qualsiasi pre-orientamento di natura ideologica.
Serve dunque essere sempre e comunque giudici contromaggioritari per il tramite della Costituzione[58] nella tutela delle minoranze, degli ultimi, dei più vulnerabili come si addice ad una giurisdizione matura, consapevole di essere per Costituzione “garante e custode dei diritti” che si agitano in giudizio – su un piano per questo concorrente con la Corte costituzionale[59] - e che per questo è tenuta per Costituzione a rimuovere le “zone franche” del diritto, a comprimere o meglio ad escludere la ricorrenza della politicità degli atti di governo ed a farne applicazione recessiva quando in gioco si prospettano diritti fondamentali protetti da leggi e trattati internazionali-cfr. Cass. S.U., n.15601/2023, Cass. S.U., n.27177/2023-.
Un giudice che non fa, per questo, politica, ma semplicemente e solo il proprio “mestiere” che è anche quello di fare “respirare” la Costituzione, ripetendo la bella espressione utilizzata da Giovanni Amoroso[60], quando essa entra in gioco nelle contese fra le parti e.
I provvedimenti giurisdizionali, proprio perché non liberi nei fini e, quindi non politici, sono sottoposti ad una verifica di conformità alla legge piena che si compendia nel sistema interno di impugnazioni teso ad eliminare l’errore giudiziario, affidato ad autorità statali giurisdizionali diverse ma anch’esse poste in posizione di neutralità ed indipendenza.
Ogni provvedimento giurisdizionale, per altro verso, è oggetto di studio e critica “esterna” da parte della comunità sociale, di quella scientifica e di tutte le forze politiche. Diritto di critica pieno, di matrice anch’esso costituzionale, che appare però fuori bersaglio quando la critica scende sul piano politico, a meno che si prospetti un vero e proprio conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato. Il che è peraltro accaduto nella dolorosa vicenda giudiziaria di Eluana Englaro, con gli esiti a tutti noti[61]. Il che val quanto dire che la politica non può indicare alla giurisdizione le linee interpretative che essa deve utilizzare per svolgere il proprio ruolo nell’interpretazione delle leggi e nell’attuazione/applicazione della Costituzione e dei diritti fondamentali, essa piuttosto potendo e dovendo dialogare fuori dalle singole vicende giudiziarie con la giurisdizione in quanto essa stessa elemento centrale ed indispensabile del sistema democratico e, per questo, parte attiva e pulsante di quel sistema che, appunto, vede al centro della Costituzione la persona ed i diritti che ad essa fanno capo.
9. Indipendenza e fiducia come pilastri del rapporto politica-magistratura
Sembrano essere, in conclusione, due i binari che possono aiutare l’operatore a districarsi nel complicato mondo dell’atto politico e della “politicità” delle sentenze.
Per un verso, vi è il concetto di indipendenza attorno al quale l’ordine giudiziario deve continuare a ruotare[62], forte del giusto rilievo che anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE è ripetutamente tornata a sottolineare. Si è dunque ricordato che la garanzia di indipendenza dei giudici nazionali è essenziale per il buon funzionamento del sistema di cooperazione giudiziaria costituito dal meccanismo del rinvio pregiudiziale di cui all’articolo 267 TFUE, presupponendo che l’organo eserciti le sue funzioni giurisdizionali in piena autonomia, senza vincoli gerarchici o di subordinazione nei confronti di alcuno e senza ricevere ordini o istruzioni da alcuna fonte, e che esso sia quindi tutelato da interventi o pressioni dall’esterno idonei a compromettere l’indipendenza di giudizio dei suoi membri e ad influenzare le loro decisioni[63].
Con l’indipendenza dei giudici la Corte UE guarda in realtà al controllo giurisdizionale, autentica “garanzia prima” dello Stato di Diritto e dell’effettività della tutela dei diritti fondamentali, disegnando una triangolazione che trova il suo quadro giuridico di riferimento negli art.2 TUE, art.19 TUF e 47 della Carta UE-. Preminenza del diritto, rispetto dei diritti fondamentali ed indipendenza delle Corti costituiscono un’endiadi e non possono che andare di pari passo.
Il requisito dell’indipendenza dei giudici attiene dunque al contenuto essenziale del diritto fondamentale a un equo processo, che riveste importanza capitale, quale garanzia della tutela dell’insieme dei diritti derivanti al singolo dal diritto dell’Unione e della salvaguardia dei valori comuni agli Stati membri enunciati all’articolo 2 TUE, segnatamente, del valore dello Stato di diritto. L’Unione è, infatti, un’Unione di diritto in cui i singoli hanno il diritto di contestare in sede giurisdizionale la legittimità di ogni decisione o di qualsiasi altro provvedimento nazionale relativo all’applicazione di un atto dell’Unione nei loro confronti.
Il piano dell’indipendenza è per altro verso consustanziale alla continua opera di costruzione di un sistema normativo ispirato alla protezione dei diritti della persona che i giudici hanno il dovere - di matrice costituzionale - di garantire senza condizionamenti di sorta proprio per l’obbligo di fedeltà ai valori costituzionali ai quali essi stessi sono tenuti (art.54 Cost.), in una prospettiva volta a perseguire il “metaprincipio” della massimizzazione delle tutele[64].
Quando i diritti fondamentali della persona garantiti dall’ordinamento sono incisi da un atto – apparentemente - politico che li vulnera, l’intervento giudiziario rappresenta la garanzia stessa della democrazia.
Principi questi ultimi che sono stati pienamente recepiti, proprio grazie al dialogo fra le Corti, dalla giurisprudenza della Corte edu in vicende che hanno riguardato magistrati polacchi[65], confermando l’idea di un circolo ermeneutico – di gadameriana memoria - che, ormai, lega in modo indissolubile le Corti nazionali e sovranazionali.
L’altro caveat che si pone rispetto all’atto politico è rappresentato dallo stesso concetto di stato di diritto al quale si è già accennato, inteso come “il ponte più solido verso l’eterno processo di ricerca della verità”[66]. Oggi “l’idea di giustizia […] esige una proiezione del rule of law a livello transnazionale ed internazionale, a vantaggio soprattutto del ruolo dei giuristi e dei giudici. Il diritto non è fatto solo di regole, ma anche di dottrina, di giurisprudenza e di princìpi pratici”[67].
Peraltro, la circostanza che, a volte, la giurisprudenza nazionale, anche a Sezioni Unite e quella della Corte edu sopra ricordate abbiano a volte assecondato una prospettiva esattamente contraria a quella improntata alla salvaguardia dei diritti fondamentali, costituisce un forte monito rivolto a tutti gli operatori giudiziari, affinché essi siano a tal punto indipendenti da sapere improntare il proprio operato, anche alla luce dei più recenti sviluppi giurisprudenziali maturati all’interno delle S.U., all’ombra del faro dei diritti fondamentali. Prospettiva, quest’ultima, imprescindibile tanto ieri come oggi, essa costituendo la base stessa delle democrazie moderne.
Per questo piace qui concludere queste riflessioni con quanto ricordato da Cass., S.U. 15601/2023 a proposito della funzione di garante della giustiziabilità dei diritti che deve essere comunque salvaguardata in favore del giudice comune “…non per esercitare un sindacato su un atto di per sé normalmente improduttivo di effetti nella sfera giudica di soggetti terzi, ma per sanzionare le conseguenze di un fatto illecito, perché offensivo di quel comune sentimento di giustizia rappresentato dal tessuto di principi attraverso i quali si esprimono, secondo la Costituzione, le condizioni della convivenza, in relazione ai valori della persona e delle libertà democratiche.”
La strada che si pone davanti è sicuramente complessa e complicata e potrà dunque trovare solidi punti di riferimenti solo se si pratica nei fatti un’idea condivisa di fiducia reciproca[68] e di cooperazione fra poteri dello Stato sul quale altra volta ci è capitato di riflettere. Prospettiva che sembra a volte utopica ma che, proprio per questo deve essere coltivata, alimentata e praticata da chi esercita in modo responsabile le funzioni dello Stato, siano essere politiche che giurisdizionali[69].
*Intervento svolto all’interno del panel dedicato a Atto politico e diritti fondamentali, svolto al congresso nazionale di ICON-S Italia svoltosi a Milano presso l’Università Bocconi il giorno 14 ottobre 2023, coordinato dal Prof. Antonio Ruggeri al quale hanno preso parte i Professori Camela Panella, Oreste Pollicino, Stefano Agosta e Anna Mastromarino.
[1] G. Tropea, Biopolitica e diritto amministrativo del tempo pandemico, Napoli, 2023, 351 ss.; G. Montedoro, L’atto politico e l’atto di alta amministrazione, Costituzione e ruolo del GA, in Giustiziainsieme, 11 ottobre 2023.
[2] Piano teorico sul quale si può rinviare, anche per i principali riferimenti bibliografici, agli Autori già ricordati alla nota 1.
[3] Cfr. B. G. Mattarella, L’attività, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di S. Cassese, Milano, 2000, t.I, 675.
[4] L'atto politico si collega al concetto d'indirizzo politico e di attività di governo, e si caratterizza a seconda della nozione che si accolga per definire l'indirizzo politico; così correttamente Grottanelli De' Santi, in Atto politico e atto di governo, in Enc. giur., IV, 1988. In merito all'evoluzione dottrinale sull'atto politico v. G. Di Gaspare, in Considerazioni sugli atti di governo e sull'atto politico, Milano, 1984.
[5] Così A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1984, 14; sul punto cfr., anche, E. Cheli, Atto politico e funzione d'indirizzo politico, Milano 1961.
[6] V.G. B. Garrone, Atto politico (disciplina amministrativa), in Digest. disc. Pubb., I, Torino, 1987, 548; B. G. Mattarella, op.cit., 676, che nelle note al testo enumera i precedenti della giurisprudenza amministrativa che hanno escluso il carattere politico di atti sottoponendoli quindi al sindacato giurisdizionale. Diversamente, Cons. Stato sez.III, 28 marzo 1986 n.1167, in Foro amm.,1986,2854 ha ritenuto che gli atti del CIPI e del Ministro per le partecipazioni statali che dettano direttive in ordine all’acquisizione o allo smobilizzo di imprese relativamente al comparto pubblico dell’economia, attenendo alla sfera del pubblico interesse, insito della definizione delle linee di politica economica nell’esercizio della suprema funzione di governo, non sono in grado di fondare posizioni giuridicamente tutelabili di terzi.
[7] Cfr., fra le altre, Cass.n.16328/2018, ove si afferma che “Sulla nozione di atto politico si deve fare riferimento alla giurisprudenza del Consiglio di Stato secondo la quale "alla nozione legislativa di atto politico concorrono due requisiti, l'uno soggettivo e l'altro oggettivo: occorre da un lato che si tratti di atto-provvedimento emanato dal governo, e cioè dall'autorità amministrativa cui compete la funzione di indirizzo politico e di direzione al massimo livello della cosa pubblica; dall'altro, che si tratti di atto provvedimento emanato nell'esercizio del potere politico, anziché nell'esercizio di attività meramente amministrativa (Consiglio di Stato, sezione quarta, 4 maggio 2012, numero 2588), ovverosia debba riguardare la costituzione, la salvaguardia e il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione" (v. Consiglio di Stato, sezione qua, 18 novembre 2011 numero 6083; Consiglio di Stato, sezione quarta, 12 marzo 2001 numero 1397; Consiglio di Stato, 8 luglio 2013 numero 3609).
[8] V. Cass., S.U., 8 gennaio 1993 n°124, in Giust. civ. 1993, I, 1525; v. anche Cass. 11 ottobre 1995 n.10617, in Foro it. 1996, I, 503, anche in Danno e resp. 1996, 78, ove si afferma che di fronte all’esercizio del potere politico non sono configurabili situazioni soggettive protette dei singoli.
[9] Secondo la Corte costituzionale (sentenza n. 81 del 2012) "…gli spazi della discrezionalità politica trovano i loro confini nei principi di natura giuridica posti dall'ordinamento, tanto a livello costituzionale quanto a livello legislativo; e quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi, in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto".
[10] Sulla pronunzia indicata nel testo v., fra gli altri, A. Ruggeri, Confessioni religiose e intese tra iurisdictio e gubernaculum, ovverosia l’abnorme dilatazione dell’area delle decisioni politiche non giustiziabili (una prima lettura di Corte cost. n. 52 del 2016, in Federalismi, n. 7/2016, 30 marzo 2016.
[11] Cass., S.U., n. 16305 del 2013 ritenne di escludere la natura politica della deliberazione del Consiglio dei Ministri che, ai sensi dell'art. 2, co. 3, lett. l), della L. n. 400 del 1988, rifiuti l'apertura della trattativa a cagione della non qualificabilità confessionale e religiosa dell'associazione richiedente (nella specie, Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti) In tema di intese tra lo Stato e le confessioni religiose diverse dalla cattolica, di cui all'art. 8, terzo comma, Cost., ritenendo che l'interesse fatto valere dall'istante trovasse fondamento nei precetti costituzionali che fondano i diritti di libertà religiosa- v., però, successivamente, Corte cost.n.52/2016 che ha accolto il conflitto di attribuzioni proposto dal Governo nella medesima materia. Ma sulla portata della sentenza della Corte costituzionale occorre rinviare all’approfondimento di Stefano Agosta dedicato a “Le ragioni della politici ed i limiti della Costituzione: il singolare destino dell’atto politico nella più recente giurisprudenza costituzionale” all’interno del medesimo panel svolto presso l’Università Bocconi per Icons -; v. ancora, Cass., S.U.; n. 21581 del 2011; Cass., n. 10416 del 2014; Cass. n. 10319 del 2016; Cass. n. 3146/2018.
[12] Sulla base di tali premesse è stato ritenuto che la deliberazione del Consiglio dei Ministri, emessa in esito allo specifico procedimento indicato dalla L. n. 241 del 1990, art. 14-quater non abbia i requisiti per esser considerata atto politico, essendo, al contrario, la stessa espressamente qualificata come un atto di alta amministrazione in seno al comma 3, di detta norma, come modificato dal D.L. n. 133 del 2014, art. 25 convertito con modificazioni dalla L. n. 164 del 2014, rimanendo la delibera anzidetta - che costituisce espressione del potere amministrativo espressione del Consiglio dei Ministri in sede di conferenza di servizi - soggetta al sindacato giurisdizionale.
[13] Sempre le Sezioni Unite della Cassazione avevano affermato che l'attività militare in senso stretto svolta in Italia dagli organi della N.A.T.O. attuata ai fini della tutela della sovranità degli Stati aderenti al Patto attiene alla sfera del diritto pubblico, si qualifica come jure imperii e determina il difetto della giurisdizione del giudice italiano rispetto ai giudizi che la investano in modo diretto ed immediato -Cass. S.U., 2 marzo 1964 n. 467; Cass. S.U. 13 maggio 1963 n. 1178; Cass., S.U. 17 ottobre 1955 n. 3223-.
[14] Le amministrazioni dello Stato convenute eccepirono il difetto assoluto di giurisdizione e, nel successivo regolamento preventivo di giurisdizione, sostennero che l’azione non era proponibile innanzi al giudice italiano, essendo lo Stato italiano chiamato in causa nella sua unitaria e specifica soggettività di diritto internazionale. Aggiungevano che nemmeno la giurisdizione poteva radicarsi alla stregua della Convenzione di Londra del giugno 1951, poiché l’art. VIII riguardava soltanto i danni causati dallo Stato di soggiorno. Il Procuratore Generale della Cassazione concluse nel senso che col regolamento di giurisdizione si era inteso impropriamente contestare l’esistenza nell’ordinamento giuridico italiano di norme e principi che astrattamente contemplassero la posizione di diritto soggettivo fatta valere in giudizio, ivi prospettando dunque inammissibilmente questioni di merito e non di giurisdizione.
[15] Giova ricordare che un’azione per molti aspetti sovrapponibile a quella ora ricordata venne intentata dagli eredi e aventi causa delle vittime di un bombardamento NATO che aveva colpito, il 30 maggio 1999, la cittadina serba di Varvarin, situata a 180 Km a sud di Belgrado, distruggendo un ponte sul fiume Mortava e causando la morte ed il ferimento di diversi civili. Anche in quell’occasione le istanze giudiziarie promosse dagli eredi delle vittime innanzi alla giustizia tedesca prospettando la violazione del diritto internazionale umanitario non ottennero alcun risultato favorevole, nemmeno innanzi alla Corte costituzionale federale -.V. Focarelli, Lezioni di diritto internazionale, vol. II - Prassi, Padova, 2008, 91 ss.-. In tale occasione la Corte costituzionale federale, con sentenza del 2 novembre 2006, riconobbe in astratto il diritto delle persone di far valere posizioni giuridiche soggettive riconosciute allo stesso dal diritto internazionale proprio in ragione della prestatualità della dignità umana e della sua protezione, ma escluse che dall’art.3 della Convezione dell’Aja sulle leggi e usi della guerra terrestre del 18 ottobre 1907 e dall’art.92 del I Protocollo dell’8 giugno 1977 sulla protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali addizionale alle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949, discendesse un diritto self-executing al risarcimento per la violazione del diritto internazionale umanitario azionabile dai singoli dinanzi ai giudici statali. Analoga soluzione venne adottata in anni successivi in altra pronunzia del 13 agosto 2013 della medesima Corte costituzionale federale tedesca -https://www.bundesverfassungsgericht.de/SharedDocs/Entscheidungen/DE/2013/08/rk20130813_2bvr266006.html. Per l’abstract in lingua inglese v. https://www.bundesverfassungsgericht.de/SharedDocs/Entscheidungen/EN/2013/08/rk20130813_2bvr266006en.html.Ringrazio il Prof. Marongiu Bonaiuti per avermi fornito gli estremi delle pubblicazioni dei provvedimenti resi dalla giurisprudenza tedesca.
[16] Sulla sentenza delle S.U. indicata nel testo v., tra i tanti, i commenti di P. De Sena, Immunità degli Stati della giurisdizione e violazioni di diritti dell'uomo: la sentenza della Cassazione italiana nel caso Ferrini, in Giur.it., 2005, 250; R. Baratta, L'esercizio della giurisdizione civile sullo Stato straniero autore di un crimine di guerra, in Giust. civ., 2005, I, 1191. La sentenza indicata nel testo assume peculiare rilievo nell’ambito delle riflessioni che ruotano attorno ai limiti della giurisdizione nazionale rispetto alle immunità degli Stati per crimini contro l’umanità e si lega ai seguiti rappresentati da Cost. n.238/2014 e, recentemente, n.153/2023 che non possono in questa sede esaminarsi.
[17] La Corte edu non mancò peraltro di sottolineare l’erroneità dei passaggi motivazionali con i quali Cass. S.U. n.8157/2002 aveva sostenuto la natura programmatica della CEDU, osservando che “in virtù dell’art.1… l’applicazione e la consacrazione dei diritti e delle libertà garantiti dalla Convenzione spettano in primo luogo alle autorità nazionali. Il meccanismo di ricorso davanti alla Corte riveste dunque un carattere sussidiario in rapporto ai sistemi di salvaguardia dei diritti dell’uomo”.
[18] Dopo avere precisato che al centro dell’istituzione della Corte edu vi era stata, come ricordato nel suo discorso all’Assemblea parlamentare il 19 agosto 1949, da P. H. Teigten, l’esigenza di ridurre la prima minaccia alla libertà rappresentata dalla “eterna ragione di Stato” che aleggia sempre là come perenne tentazione, Zagrebelsky non manca di stigmatizzare la decisione della Corte di Cassazione allorché aveva affermato che “alle funzioni di tipo politico non si contrappongono situazioni soggettive protette”. Secondo Zagrebelsky “le funzioni politiche e i diritti individuali non possono, pertanto, coesistere, dato che non si possono esercitare dei diritti in relazione ad atti politici.” La conclusione alla quale era giunto il giudice di legittimità risultava pertanto incompatibile con la Convenzione “…e almeno equivoca in base al diritto nazionale, come riflesso nelle relative disposizioni della Costituzione (vedi paragrafo 20 della sentenza), per il fatto che il campo di applicazione dell’articolo 31 del Decreto n. 1024 è limitato alla sola giurisdizione amministrativa con poteri di riesame (Consiglio di Stato), in assenza di esempio tra le sentenze della Corte di Cassazione citate dal Governo, di una situazione comparabile a quella ottenuta nel caso di specie (vedi paragrafo 100 della sentenza). La decisione della Corte edu era quindi criticabile poiché anche se i ricorrenti hanno avuto accesso ai tribunali italiani, ciò era accaduto solo “per farsi dire che né i tribunali civili né un altro tribunale italiano avevano giurisdizione per udire il loro ricorso.” Ed aggiunge ancora che “La Corte di Cassazione ha pertanto ristretto per tutti i fini pratici la portata del diritto generale al risarcimento contenuto nell’articolo 2043 del Codice civile. Inoltre, a differenza dei tribunali interni del ricorso Z e Altri, essa non ha ponderato i concorrenti interessi in gioco e non ha tentato di spiegare perché nelle specifiche circostanze del ricorso dei ricorrenti il fatto che l’atto contestato fosse di natura politica avesse annullato la loro azione civile. È facile vedere come la natura discrezionale – a volte completamente discrezionale – degli atti politici o di governo può condurre all’esclusione di qualsiasi diritto di contestarli. Il punto è, dunque, che per essere compatibile con il principio dello stato di diritto e il diritto di accesso ai tribunali insito in esso, la portata dell’esclusione non può chiaramente estendersi oltre i limiti stabiliti nelle norme giuridiche che disciplinano e circoscrivono l’esercizio delle relative attribuzioni governative (atto di governo). Il predetto fine legittimo non può oltrepassare il campo della discrezione che l’autorità governativa ha il diritto di esercitare entro i limiti imposti dalla legge. Nel ricorso di specie, i ricorrenti hanno sostenuto nei tribunali nazionali che le azioni delle autorità italiane avevano violato le norme del diritto interno e del diritto consuetudinario internazionale in materia di conflitti armati. Così facendo, essi hanno sollevato la questione dei limiti da porre alla nozione di una “ragione di stato” libera da qualsiasi controllo giudiziario. Se, dunque, era preoccupante che né la Corte di Cassazione né la Corte EDU avessero fornito una definizione di che cosa potesse qualificarsi come “atto di governo” o “atto politico” da ciò sarebbe conseguito che “…qualsiasi atto di un’autorità pubblica sarà, direttamente o indirettamente, il risultato di una decisione politica, che essa sia generale o specifica nel contenuto. In definitiva, la Corte di Cassazione è pervenuta a questa conclusione senza tenere conto della natura della richiesta proposta dai ricorrenti: essa non riguardava direttamente la partecipazione dell’Italia al conflitto armato della NATO e il loro fine non era l’annullamento di un atto di governo. Esso era semplicemente ottenere il risarcimento per le remote conseguenze dell’atto politico in questione, conseguenze che erano puramente potenziali e non collegate alla finalità degli atti. Nonostante la natura generale del diritto esposto nell’articolo 2043 del Codice civile italiano, la Corte di Cassazione ha infine rifiutato di accettare che nel diritto interno un giudice italiano avesse giurisdizione per udire le pretese dei ricorrenti, solamente perché la decisione di partecipare alle suddette operazioni militari era di natura politica. La Corte di Cassazione è andata perciò oltre ogni legittimo fine che può essere riconosciuto alla dottrina dell’atto politico e ben oltre ogni proporzionalità.” Concludeva pertanto il giudice dissenziente, esprimendo il proprio rammarico a che “la maggioranza della Corte abbia accettato una soluzione che colpisce le fondamenta stesse della Convenzione”.
[19] In definitiva, l’atto impugnato con l’azione popolare non è stato ritenuto idoneo a incardinare un'effettiva vicenda giuridica soggettiva, risultando la concessione della cittadinanza onoraria disposta dal consiglio comunale sulla base del regolamento interno ma in assenza di una norma primaria che ne delimitasse il contenuto e, dunque, nell'ambito di un'attività libera ed autonoma in quanto non regolata da alcuna norma di legge e conferente nient’altro che un titolo onorifico avente natura puramente simbolica, come tale inidonea ad accrescere o ledere la sfera del destinatario. Per tali ragioni, l’atto impugnato dai ricorrenti senza che nemmeno fosse stata prospettata una loro differenziata posizione giuridica soggettiva non giustificava alcuna tutela giurisdizionale da parte del cittadino elettore “che, sulla base delle proprie convinzioni ideali o della appartenenza politica, dissenta dalla deliberazione del consiglio comunale attributiva della civica benemerenza ad una personalità che egli ritenga non meritevole dell'onorificenza, ha, a propria disposizione, gli strumenti delle libertà costituzionali, dei diritti fondamentali, della democrazia e del pluralismo, in un contesto che assegna alla loro garanzia, promozione e tutela una dimensione anche internazionale e sovranazionale. Egli ha il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione, in un sistema che assicura la libertà di stampa e il pluralismo delle fonti di informazione e delle notizie; può sollecitare, con petizioni o campagne di sensibilizzazione, la revoca del beneficio; ha il diritto di riunirsi ed associarsi con altri per collaborare in vista di uno scopo comune; ha il diritto di partecipare attivamente alla vita di un partito o all'azione politica, per concorrere a determinare la politica nazionale o del Comune in cui vive; ha il diritto di esercitare il diritto di voto, che è anche un dovere civico.”
[20] L’Associazione lamentava che la Commissione aveva omesso di trasmettere tempestivamente alla controparte bielorussa l’elenco aggiornato dei cittadini italiani che aspiravano ad adottare i minori bielorussi, corredato della lettera di garanzia sul benessere dei minori adottandi diretta al Presidente della Repubblica di Belarus, firmata dai vertici della Repubblica Italiana.
[21] Sicché, secondo tale prospettiva, gli atti e le condotte del detto Protocollo riguardavano “obblighi” sul piano internazionale, inidonei a configurare nell’ordinamento nazionale diritti soggettivi o interessi legittimi – di natura anche solo pretensiva - coercibili e/o suscettibili di tutela giurisdizionale e destinati ad esaurire i loro effetti diretti sul versante dei rapporti fra Stati sul piano del solo ordinamento (di diritto) internazionale. Il piano delle relazioni internazionali sul quale andava ad incidere l’atto non emanato costituiva un ambito non giuridicamente predeterminato e libero nei fini, in ogni caso riservato ad un organo collocato al livello apicale della Repubblica.
[22] Per il leading case in materia di extraordinary renditions nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo (Corte Edu [GC], El-Masri c. ex-Repubblica yugoslava di Macedonia, 13 dicembre 2012), si veda, di recente, D. Bacis, Il diritto alla verità nel dialogo tra Corti. Roma accoglie le suggestioni di San José de Costarica, in Dir. pubbl. comp. eur. (online), n. 2/2018, p. 596.
[23] Quest’esigenza di verità viene sottolineata a più riprese da Armando Spataro, che del processo contro gli autori del sequestro di Abu Omar è stato uno dei principali artefici, nel suo libro Ne valeva la pena. Storie di terrorismi e mafie. Di segreti di Stato e di giustizia offesa, Laterza, Roma-Bari, 2010, pp. 205 ss.
[24] V. di recente, in dottrina, l’interessante approfondimento sul tema di D. Bacis, Il diritto alla verità, op. cit., pp. 593 ss. L’Autore affronta in modo approfondito alcuni casi esaminati dalle due Corti dei diritti umani, operando un’analisi assai interessante.
[25] Testimonianza nitida di quanto affermato si rinviene nelle sentenze della Corte Edu, Abu Zubaydah c. Lituania, 31 maggio 2018, par. 610, e Al Nashiri c. Romania, 31 maggio 2018, par. 641, ove si è specificamente ritenuto che «where allegations of serious human rights violations are involved in the investigation, the right to the truth regarding the relevant circumstances of the case does not belong solely to the victim of the crime and his or her family but also to other victims of similar violations and the general public, who have the right to know what has happened. An adequate response by the authorities in investigating allegations of serious human rights violations may generally be regarded as essential in maintaining public confidence in their adherence to the rule of law and in preventing any appearance of impunity, collusion in or tolerance of unlawful acts. For the same reasons, there must be a sufficient element of public scrutiny of the investigation or its results to secure accountability in practice as well as in theory (see El-Masri, cited above, §§191-192; Al Nashiri v. Poland, cited above, § 495; and Husayn (Abu Zubaydah) v. Poland, cited above, § 489, with further references to the Court’s case-law)».
[26] Giova infatti rammentare che nella sentenza n.86/1977 della Corte costituzionale viene definito il segreto di Stato come “il supremo interesse della sicurezza dello Stato nella sua personalità internazionale, cioè l'interesse dello Stato-comunità alla propria integrità territoriale, alla propria indipendenza e, al limite, alla stessa sua sopravvivenza. Tale interesse - si è aggiunto - è presente e preminente su ogni altro in tutti gli ordinamenti statali, quale ne sia il regime politico, e trova espressione, nel nostro testo costituzionale, nella formula solenne dell'art. 52, che afferma essere sacro dovere del cittadino la difesa della Patria … si può, allora, parlare della sicurezza esterna ed interna dello Stato, della necessità di protezione da ogni azione violenta o comunque non conforme allo spirito democratico che ispira il nostro assetto costituzionale dei supremi interessi che valgono per qualsiasi collettività organizzata a Stato e che, come si è detto, possono coinvolgere la esistenza stessa dello Stato. In tal modo si caratterizza sicuramente la natura di questi interessi istituzionali, i quali devono attenere allo Stato-comunità e, di conseguenza, rimangono nettamente distinti da quelli del Governo e dei partiti che lo sorreggono. È solo nei casi nei quali si tratta di agire per la salvaguardia di questi supremi, imprescindibili interessi dello Stato che può trovare legittimazione il segreto in quanto mezzo o strumento necessario per raggiungere il fine della sicurezza. Mai il segreto potrebbe essere allegato per impedire l'accertamento di fatti eversivi dell'ordine costituzionale” (enfasi aggiunta n.d.r.).
[27] G. Ruta, Il segreto di Stato nella giurisprudenza costituzionale e di legittimità (Scuola della Magistratura - Firenze 21.4.2022), in https://www.scuolamagistratura.it/documents/20126/71a01c4f-b675-7154-e2a1-a5d6aad79965.
[28] V., diffusamente, sul tema, G. Tropea, Biopolitica e diritto amministrativo del tempo pandemico, cit., 285 ss. anche in chiave critica sul riparto di giurisdizione in materia in atto delineato dalle S.U. della Cassazione.
[29] L. Brunetti, Ancora sulla insindacabilità degli atti politici ministeriali. Può davvero una legge costituzionale permettere la violazione dei diritti fondamentali?, cit.; A. Morelli, Cosa rischia Salvini? Cosa rischia il Paese?, in www.lacostituzione.info, 25 agosto 2018. A. Spataro, L’immigrazione tra sicurezza e diritti, spec.par.6, di imminente pubblicazione su in I diritti dell’uomo. Cronache e battaglie.
[30] Cfr. Il ricorso della Procura di Agrigento. È possibile ritenere scriminata l’azione della Capitana Rakete? in https://www.giustiziainsieme.it/it/attualita-2/713-e-possibile-ritenere-scriminata-l-azione-della-capitana-rakete.
[31] L. Masera, Il caso della capitana Rackete e l’illegittimità della politica governativa dei porti chiusi per le ONG, in https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-processo-penale/703-il-caso-della-capitana-rackete-e-l-illegittimita-della-politica-governativa-dei-porti-chiusi-per-le-ong-2; G. Spangher, SEA WATCH 3: Rimangono forti dubbi, in https://www.giustiziainsieme.it/it/attualita-2/712-sea-watch-3-rimangono-forti-dubbi-di-giorgio-spangher..
[32] R. Bin, Ancora sul caso Diciotti: ma qualcuno ha lettociò che ha scritto il Tribunale dei ministri? ivi, 13 febbraio 2019, p. 2. V. sul punto anche L. Brunetti, Ancora sulla insindacabilità degli atti politici ministeriali. Può davvero una legge costituzionale permettere la violazione dei diritti fondamentali? in http://www.astrid-online.it/static/upload/brun/brunetti.pdf.; id., L'atto politico ministeriale come atto potenzialmente «esente da giurisdizione» (quand'anche astrattamente reato), in Forum di Quaderni costituzionali, 30 gennaio 2019. Del resto, ricorda puntualmente L. Carlassarre, L'atto politico fra “qualificazione” e “scelta”: i parametri costituzionali, in Giur. Cost., 2016,2, 554, “…Se gli atti politici fossero realmente «sempre e tutti insindacabili, si porrebbero come degli autentici limiti all'esercizio delle situazioni soggettive attive anche se garantite dalla Costituzione» diceva Paolo Barile (P. Barile, Atto di governo (e atto politico), in Enc. dir., vol. IV, Milano 1959, 220 ss.”
[33] V., sulla vicenda “amministrativa” originata dal diniego di ingresso nei porti italiani e sull’intervento del g.a., ancora G. Tropea, Biopolitica e diritto amministrativo del tempo pandemico, cit., 367.
[34] R. Bin, Postilla, in Processare Salvini equivale a processare il Governo? In www.lacostituzione.info, 30 gennaio 2019.
[35] Tanto si legge a pag.72 della sentenza del Gip del Tribunale di Catania n.422/2021, depositata il 9 agosto 2021, resa nel procedimento a carico dell’ex Ministro Salvini per l’ipotizzato sequestro di persona relativo alla nave Gregoretti.
[36]La letteratura sul punto è notevole. V., fra gli altri, utilmente, F.F. Pagano, Gli atti emanati dal governo nell’esercizio del potere politico nella più recente giurisprudenza tra separazione dei poteri e bilanciamenti costituzionali, in Dir. pubbl., 2013, 885.
[37] I tre provvedimenti sono pubblicati su questa Rivista, Difetto di motivazione: questa la ragione della non convalida dei provvedimenti di trattenimento del Questore di Ragusa, 3 ottobre 2023.
[38] In Questionegiustizia, Ancora un provvedimento sulla situazione di un migrante tunisino, 5 ottobre 2023.
[39] Al tirar delle somme, la riconduzione operata dalle S.U. nella vicenda del bombardamento alla RTV serba delle modalità operative del conflitto iniziato per ragioni umanitarie nei confronti della ex Jugoslavia alla funzione politica appare difficilmente controvertibile, attenendo alla gestione di un conflitto che lo Stato italiano – e quegli altri che vi hanno preso parte – condussero nell’interesse dell’intera comunità internazionale proprio per tutelare gli obblighi erga omnes di cui si è detto. Se può dunque convenirsi sul fatto che l'attività militare svolta in Italia dagli organi della NATO era stata attuata ai fini della tutela della sovranità degli Stati aderenti al Patto, attenendo alla sfera del diritto pubblico e, pertanto doveva qualificarsi come attività jure imperii- v. Cass. S.U., 2 marzo 1964 n. 467, in Giust.civ.,1964, I,971; Cass. S.U. 13 maggio 1963 n. 1178, in Giust.civ.,1963, I, 1533; Cass. S.U., 17 ottobre 1955 n. 3223, in Foro it.,1955, 1296- occorre sottolineare che nella decisione delle Sezioni Unite non venne probabilmente rettamente focalizzata la differenza fra natura politica dell’atto “a monte” – ed in questo senso la partecipazione dell’Italia alla campagna militare contro la Repubblica Federale Jugoslava non sembra essere soggetta ad alcun tipo di sindacabilità da parte della giurisdizione – e le singole operazioni militari eseguite “a valle” nell’ambito della partecipazione al conflitto, soprattutto quando si assumeva che queste avessero leso diritti inviolabili dell’uomo tutelati dal diritto umanitario. Un conto è affermare che la funzione politica è attribuita agli organi costituzionali, altro è sostenere che la Costituzione imponga l’insindacabilità assoluta di come viene attuato l’atto politico. Se dunque si pensa che lo standard umanitario minimo nelle operazioni di guerra è sancito dall’art.3 comune alle Convenzioni di Ginevra del 1949, volto a garantire il rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo in ogni situazione di conflitto armato[39] e quelli derivanti dalle norme internazionali a tutela dei diritti umani, si ha la sensazione di quanto insoddisfacente sia stata la risposta della giustizia italiana, assecondata da quella della Corte die diritti umani senza particolarmente approfondire il limite intrinseco alla politicità di un atto, appunto rappresentato dall’esistenza di “vincoli” che lo sottopongono, comunque, a verifica circa il rispetto di standard fissati dalla legge, sia essa interna o di matrice internazionale.
[40] Sul ruolo delle Sezioni Unite in tema di giurisdizione v., volendo, R. Conti, Il mutamento del ruolo della Corte di cassazione fra unità della giurisdizione e unità delle interpretazioni, in Consultaonline, 2015, f.III, 807 ss.; E. Scoditti, Questione di giurisdizione e diritti fondamentali, 11 ottobre 2023.
[41] M. Serio, Appunti comparatistici sulla (apparenza della) imparzialità giudiziaria, in Questionegiustizia,12 ottobre 2023; V. Zagrebelsky, La politica non può intimidire le toghe, in La stampa, 16 ottobre 2023.
[42] G. Pitruzzella, Fiducia e legittimazione dei poteri, in Enciclopedia del diritto, I tematici, V – Potere e Costituzione, diretto da M. Cartabia e M. Ruotolo, Milano, 2023, 124: “L'assolutizzazione della volontà del demos come unica fonte di legittimità spazza via sia i diritti fondamentali e il pluralismo dell’informazione sia il sistema di checks and balances, rappresentato innanzi tutto da un giudiziario imparziale e indipendente.”
[43] Cfr. A. Ruggeri, Atti politici e diritti fondamentali: un rapporto complesso e non poco sofferto, sez. I, par.3 del paper presentato al Congresso ICON-S Italia, in Milano, 14 ottobre 2023 all’interno del panel dedicato e Atto politico e diritti umani, messomi in anteprima a disposizione dall’Autore: “Certo, c’è il rischio che prese di posizione adottate dai giudici in modo risoluto e nettamente pendenti a favore dei diritti, possano essere considerate come espressive di una deriva politica della giurisdizione, sovrapponendosi dunque alla politicità dell’atto di governo la non diversa natura dell’atto che lo giudica. Ciò che, poi, acuirebbe ancora di più una endemica conflittualità tra potere politico e giurisdizione, di cui si hanno diffuse ed inquietanti testimonianze a plurimi piani di esperienza. È singolare, ad ogni buon conto, la circostanza per cui la critica della politicità del giudizio provenga da ambienti politici, in buona sostanza, nei soli casi in cui si assiste ad operazioni di devitalizzazione degli atti espressivi del potere stesso, non già laddove se ne abbia l’avallo (e, dunque, il concorso all’ulteriore radicamento degli effetti). L’obiezione suddetta è, comunque, seria e va, perciò, tenuta nel dovuto conto, per quanto possibile fuori di ogni preconcetto orientamento.
[44] C. Pinelli, Decisione politica e dislocazione del potere, in Enciclopedia del diritto, I tematici, V – Potere e Costituzione, diretto da M. Cartabia e M. Ruotolo, Milano, 2023, 37.
[45] V. R. G. Conti, Il giudice disobbediente nel terzo millennio, Conclusioni, in Le Interviste di Giustizia Insieme a D. Galliani, V. Militello e G. Silvestri, a cura di R.G. Conti; C. Pinelli, Decisione politica e dislocazione del potere, in Enciclopedia del diritto, I tematici, V – Potere e Costituzione, diretto da M. Cartabia e M. Ruotolo, cit., 39.
[46] F. Modugno, Norma, (teoria generale). in Enc. dir., XXYIII, Milano. 1978, p. 338.
[47] M. Naro, La verità nel suo rovescio, L’altra parola: Riscritture bibliche e questioni radicali, Roma, 2022, 224.
[48] V., volendo, sul tema, le riflessioni già esposte in R. Conti, Giudice comune e diritti protetti dalla Carta UE: questo matrimonio s’ha da fare o no?, in Giustiziainsieme, 4 marzo 2019.
[49] Proprio qui si coglie la rilevanza della ricerca posta a base del panel sull’argomento oggetto delle presenti riflessioni e della necessità di mettere insieme i punti di vista delle Corti. V, sul punto, C. Panella, Atti politici e Corte europea dei diritti dell’uomo. esiste l’atto politico per la corte europea dei diritti dell’uomo? nel paper messo a disposizione di chi scrive, a proposito della sentenza della Grande Camera della Corte edu del 21 novembre 2019, Ilias e Ahmed c. Ungheria, intervenuta sul tema dei trattenimento e successiva espulsione di extracomunitari dall’Ungheria verso la Serbia, considerato paese terzo sicuro dallo Stato richiesto.
[50] R. G. Conti, Chi ha paura del Protocollo 16 – e perché?, in Sistemapenale, 27 dicembre 2019.
[51] V., volendo, Intervista di R.Conti a B. Pastore e G.Pino, in Giustiziainsieme,10 luglio 2019.
[52] C. M. Bianca, Ex Facto oritur jus, in Riv.dir.civ. n.6/1995, 796.
[53] A. Ruggeri, Maggiore o minore tutela nel prossimo futuro per i diritti fondamentali?, in Giur.cost., 2015, 34 ss; M. Naro, La verità nel suo rovescio, in L’altra parola. Riscritture bibliche e questioni radicali, Roma, 2022 203. V., volendo, R. G. Conti, Il mestiere del giudice e il diritto incordato di verità, in Accademia, n.1/2023.
[54] P. Grossi, Prefazione a Il mestiere del giudice, a cura di R. G. Conti, Padova, 2020, XVI: “Il vecchio giudice, condannato ad essere ‘bocca della legge’ dai riduzionismi strategici degli illuministi (dapprima) e dei giacobini (successivamente), non può che togliersi volentieri di dosso la veste opprimente dell’esegeta, ormai del tutto inadatta, e indossare quella dell’interprete, dell’inventore, intendendo la sua operazione intellettuale irriducibile in deduzioni di semplice natura logica (come in una celebre pagina di Beccaria) e concretizzabile piuttosto in una ricerca, in un reperimento, con le conseguenti decifrazione e registrazione. Quello che mi sentirei, invece, di rifiutare, decisamente perché fonte di più che probabili malintesi, è il sintagma ‘creazione giurisprudenziale’, che usa Pastore (pp. 240 e 241) nel suo – peraltro, meditatissimo e condivisibile – intervento. Infatti, è proprio di ‘creazione ‘ e di ‘creazionismo’ che parlano gli adepti del legalismo statalistico stracciandosi le vesti di fronte a un ruolo, innaturale perché para-legislativo, conferito (almeno secondo loro) ai giudici dalla riflessione ermeneutica. Insisterei, come ho fatto anche di recente, su un ruolo inventivo, marcando bene che si fa esclusivo riferimento alla inventio dei latini consistente appunto in un ‘cercare per trovare’.”
[55]Cfr., ex plurimis, Corte cost.nn.347 e 348 del 2007. V., in dottrina, utilmente, C. Caruso, Controllo di convenzionalità e interpretazione conforme: il ruolo del giudice nazionale, in Questionegiustizia, in Gli speciali di Questionegiustizia, La Corte di Strasburgo, Aprile 2019.
[56] I giudici di merito avevano disposto l’adozione, garantendo però la relazione nonna-nipote e così andando apparentemente contro il divieto posto dal testo dell’art.27, comma 3 della legge sull’adozione n.184/1983 del seguente tenore. Con l’adozione cessano i rapporti dell’adottato verso la famiglia d’origine, salvi i divieti matrimoniali. La causa approdava in Cassazione su ricorso della Procura generale della Corte di appello di Roma che riteneva errata la decisione, invocando appunto il dato testuale dell’art.27 l. adozione. Cass.n.230/2023, su conforme parere della Procura generale sollevava questione di legittimità costituzionale, ipotizzando il contrasto dell’art.27 cit. con diversi parametri costituzionali e sovranazionali. La Corte di cassazione escludeva espressamente che il testo della legge autorizzasse la possibilità di salvaguardare la relazione familiare di origine attraverso un’interpretazione costituzionalmente orientata, in quanto «la previsione della recisione dei legami con la famiglia di origine ha carattere assoluto. La salvezza dei divieti matrimoniali conferma la scelta del legislatore in ordine all’intangibilità in via interpretativa del divieto (di conservare, nel caso sia corrispondente all’interesse del minore, i legami con la famiglia di origine)».
[57] V. Zagrebelsky, Adozioni, I giudici devono valutare l’interesse del minore, in La stampa, 30 settembre 2023.
[58] V. R. Bin, nell’intervista di R.G. Conti a A.Ruggeri e R. Bin, Giudice o giudici nell’Italia post-moderna?, in Il mestiere del giudice, a cura di R.G.Conti, Padova, 2020,19.
[59] Concorrenza della quale a più riprese ha parlato P. Grossi, in particolare in Oltre la legalità Roma, 2019. Non si è inteso qui affrontare le parallela tematica del ruolo “politico” della Corte costituzionale che si affianca a quello “giudiziario” della Consulta, sul quale v.R. Romboli, Giudice e legislatore nella tutela dei diritti, in Scritti dedicati a M. Converso, Romapress, 2016, nonché A. Ruggeri, Un rebus irrisolto (e irrisolvibile?): le flessibilizzazioni dei testi di legge per il tramite della giurisprudenza costituzionale che appaiono essere, a un tempo, necessarie e… impossibili (appunti per uno studio alla luce delle più recenti esperienze), in dirittifondamentali.it, 27 ottobre 2023. Questione che, in ogni caso, si intreccia con quella del ruolo del giudice comune, essendo questi portiere della Corte costituzionale quando alla stessa si rivolge con l’incidente di costituzionalità ed egli stesso interprete della Costituzione quando opera sul versante dell’interpretazione costituzionalmente orientata, sulla quale si dirà appresso nel testo.
[60] G. Amoroso, Introduzione, in La Costituzione vivente, Milano, 2023, a cura di L. Delli Priscoli, XVI.
[61] V., volendo, R. Conti, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il ruolo del giudice, Roma, 2011, 286 ss.
[62] Ne è consapevole anche L. Violante, Magistrati, Torino, 2009,181.
[63] Corte giust., 27 febbraio 2018, C-64/16, Associação Sindical dos Juízes Portugueses, Corte di Giustizia UE, Grande Sezione, 24 giugno 2019, n. C-619/18 ,Commissione europea c. Repubblica di Polonia, Corte giust.(GC), 5 novembre 0219, C-192/18, Commissione c. Repubblica di Polonia; Corte giust., 5 giugno 2023, Commissione c.Polonia, C-204/21.
[64] Sul punto, a più riprese, A. Ruggeri, anche nella intervista con R. Bin su Giudice o giudici nell’Italia postmoderna, a cura di R.G. Conti, in www.giustiziainsieme.it, 10 aprile 2019.
[65] Corte edu, 7 maggio 2021, Xero Flor w Polsce sp. z o.o. c. Polonia; Corte edu, 22 luglio 2021, Reczkowicz c. Polonia; Corte edu, 8 novembre 2021, Dolińska-Ficek e Ozimek c. Polonia; Corte edu, 3 febbraio 2022, Advance Pharma Sp. z o.o. c. Polonia. Sentenze sulle quali si sofferma molto opportunamente R. Sabato, Introduzione, a Il diritto europeo e il giudice nazionale, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il ruolo del giudice, Milano, vol.II.I, 2023,XIII ss.
[66] P. Häberle, Diritto e verità, Torino, 2000, 99.
[67] F. Viola, Il Rule of Law come idea di società, in Materiali per una cultura della legalità, a cura di G. Acocella, Giappichelli, Torino 2020, 39.
[68] Restano insuperabili le riflessioni sul tema della fiducia nel diritto di T. Greco, La legge della fiducia. Alle radici del diritto, Milano, 2022. Sul concetto di fiducia, all’intero di un ragionamento complesso attorno alla natura “politica” della decisione giudiziaria e con specifico riguardo alla fiducia del destinatario della pronunzia giudiziale inserita in un circuito di controlli interni, si sofferma di recente anche A.Corbino nei tre articoli dedicati al tema giustizia e politica, pubblicati su La Sicilia, rispettivamente in data 18 ottobre 2023 "Politica e giustizia, il nervo scoperto della separazione dei poteri dal '700 a oggi", 25 ottobre 2023 "Da funzionario a cittadino partecipe l'evoluzione della figura del giudice" e 1 novembre 2023, "Giustizia e Politica, due modelli per l'equilibrio fra poteri statali".
[69] Più volte, sulla scia dei plurimi contributi sul punto offerti da Antonio Ruggeri, abbiamo provato ad intrattenerci sulla centralità dei principi di cooperazione e fiducia nelle relazioni tra poteri dello Stato. Sia consentito rinviare, sul punto, agli scritti inseriti nei volumi realizzati dalla Scuola Superiore della magistratura, dedicati a Il diritto europeo e il giudice nazionale. Cfr. in particolare, nel vol. II.I, La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo Principi e orientamenti - R. G. Conti, Gli obblighi positivi di natura convenzionale e il ruolo del giudice, di Strasburgo e nazionale, 17 ss. e L’esecuzione delle sentenze della Corte edu in ambito civile e la nuova ipotesi di revocazione “europea”, art. 391- quater c.p.c., 285 ss. nonché nel vol.II.I, La Convenzione europea dei diritti dell’uomo e il ruolo del giudice nazionale. L’interpretazione e l’applicazione della CEDU nella giurisprudenza della Corte di cassazione L’incidenza della Cedu sull’interpretazione della legge nella giurisprudenza della Corte di cassazione- 7 ss. - e Diritti e libertà fondamentali -159-.
di Costantino De Robbio
1. L’articolo 112 della Costituzione e il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. 2. Obbligatorietà dell’azione penale e processo accusatorio. Il Codice del 1989 e la riforma dell’articolo 111 della Costituzione. 3. L’ingestibilità dei carichi della giustizia penale e la crisi del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. 4. La separazione delle carriere: riflesso pavloviano o panacea di tutti i mali? 5. Vie d’uscita dall’impasse: scorciatoie e soluzioni di sistema.
1.L’articolo 112 della Costituzione e il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale.
L’articolo 112 è uno dei più brevi di tutta la Costituzione. Per questo risalta, pur in un testo normativo che enuncia i principi fondamentali del nostro Stato con doverosa ed inequivoca chiarezza, per la sua assertività. Poche e sentite parole: “Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”. Senza se e senza ma. L’organo che nel processo penale rappresenta l’accusa ed è titolare delle indagini non può dunque scegliere di quali reati occuparsi o chi tra gli indagati merita la sua attenzione e il suo tempo: gli è impedito fare distinzioni tra gli affari a lui assegnati per via del suo ufficio. Se al termine delle indagini egli avrà raccolto elementi a suo giudizio sufficienti per il processo, non potrà far altro che esercitare l’azione penale, essendogli inibita ogni scelta alternativa (quali ad esempio “graziare” o “perdonare” l’indagato o chiedere al G.I.P. di archiviare il fascicolo per qualsivoglia motivo). I costituenti, come emerge chiaramente dall’esame dei lavori preparatori al testo, hanno voluto in questo modo rendere concreti in tema di giustizia due principi: a) l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e b) l’indipendenza del pubblico ministero dal potere esecutivo.
Sotto il primo profilo, è agevole rilevare infatti che il principio che afferma che “tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge” (articolo 3, 1° comma), baluardo del nostro sistema democratico, resterebbe mero postulato teorico se lo Stato non trattasse allo stesso modo tutti quelli che la legge la violano; ne discende che chiunque, senza eccezioni, violi un precetto deve essere assoggettato alla sanzione prevista (ovviamente, se riconosciuto colpevole al termine del processo). Conferire al pubblico ministero - così come a ogni altro potere dello Stato - la facoltà di scegliere se perseguire o no chi commette un reato vuol dire dunque, né più e né meno, vanificare il principio di uguaglianza perché rende alcuni cittadini “più” soggetti alla legge di altri. Al contempo, l’affermazione dell’obbligatorietà dell’azione penale pone il pubblico ministero al riparo da ingerenze esterne, perché impedisce che il potere esecutivo possa imporre di perseguire (o non perseguire) alcune categorie di persone o di tralasciare l’azione penale, magari in relazione a determinati periodi, per alcuni reati. Naturalmente, spetta al Parlamento legiferare su cosa sia reato e cosa no; ma una cosa è che la violazione di un precetto sia punita con sanzione penale a seguito di partecipazione al voto di tutte le forze parlamentari, altra cosa è che il discrimine della facoltà punitiva sia attribuito al Governo, espressione delle sole forze di maggioranza. Era chiara nella mente dei costituenti la necessità di evitare che, come era successo nell’Italia pre-repubblicana, il Governo modellasse l’azione penale in conseguenza dei propri desiderata, dando al processo penale l’improprio compito di realizzare per via giudiziaria l’ideologia in quel momento al potere [1]. Obbligare il pubblico ministero ad esercitare, sempre e comunque, l’azione penale (quando ne ricorrano i presupposti) vuol dire liberare la magistratura inquirente da vincoli e direttive esterne e farne uno strumento obiettivo di realizzazione di giustizia.
È fuor di dubbio che l’assetto costituzionale così delineato ha retto ottimamente alla prova dei fatti, contribuendo a modellare una giustizia diffusa e priva di quei caratteri di gerarchia e obbedienza al potere che ne caratterizzavano gli anni precedenti l’instaurazione della repubblica. Accanto al potere diffuso dei giudici, soggetti soltanto alla legge (articolo 101 Cost.) la nostra Repubblica ha potuto beneficiare di una magistratura requirente pienamente indipendente dagli altri poteri e in cui tutti i magistrati – siano essi giudici o pubblici ministeri – si distinguono solo per diversità di funzioni (art. 107, 3° comma Cost.). Nei quasi ottanta anni di vita della nostra Costituzione, tuttavia, si sono verificati alcuni avvenimenti che hanno mutato il contesto operativo in cui l’articolo 112 è chiamato ad operare, sicché non appare inopportuna una verifica dell’attualità del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale.
2. Obbligatorietà dell’azione penale e processo accusatorio. Il Codice del 1989 e la riforma dell’articolo 111 della Costituzione.
Il primo grande scossone al sistema penale è stato dato dall’adozione nel 1989 del Codice di procedura penale, che ha ridisegnato le regole del rito sulla base di un'idea fortemente innovativa: l'innesto su una tradizione marcatamente inquisitoria, quale quella italiana, di alcune caratteristiche del processo accusatorio tipico dei sistemi anglosassoni. In conseguenza di questa nuova impostazione, il fine del processo penale nel nostro ordinamento non è di tendere alla ricerca della verità storica (verificare se il fatto di cui il reo è accusato è effettivamente avvenuto ed è a lui ascrivibile) ma di raggiungere la verità processuale: la decisione del giudice deve basarsi su ciò che è stato provato durante il confronto tra le parti avvenuto in dibattimento. Sono dunque mutati sostanzialmente ed irreversibilmente rispetto al passato i ruoli degli attori del processo: il giudice diviene mero arbitro di una contesa che si svolge al suo cospetto tra accusa e difesa, mentre le parti - in posizione di parità - presentano ciascuna gli elementi raccolti a sostegno della propria tesi e le sottopongono alla prova di resistenza del confronto con l’opponente. L'essenza del dibattimento, un tempo coincidente con il suo fine - l'accertamento della verità - è dunque oggi data dal mezzo attraverso cui le parti interagiscono: il contraddittorio.
Questo nuovo assetto del processo rende forse inattuale o obsoleto il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale? A chi scrive sembra evidente che la norma costituzionale agisce su un piano nettamente distinto e indipendente rispetto alla scelta del sistema processuale: anche in un sistema accusatorio non perdono di importanza né il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge né quello dell’indipendenza del pubblico ministero dal potere esecutivo che si è visto essere i due valori tutelati dall’articolo 112 della Costituzione [2]. È vero che nell’attuale sistema processuale il Pubblico Ministero ha un ruolo del tutto peculiare, essendo sì una parte processuale, ma che al contempo rappresenta lo Stato, che è imparziale per definizione. Egli è libero nel fine, potendo determinarsi all’esito delle indagini per la richiesta di archiviazione e persino chiedere l’assoluzione dell’imputato di cui egli stesso aveva chiesto il rinvio a giudizio. Nella fase delle indagini preliminari, peraltro, non gli è dato il compito di cercare unilateralmente elementi di accusa a carico dell’indagato, essendo egli come noto obbligato anche a “svolgere altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini” (art. 358 c.p.p.). In altri termini, la parità tra pubblico ministero e difesa nell’agone del contraddittorio comporta che ai due sono dati i medesimi strumenti processuali per convincere il giudice; non che tra le due parti debba esservi simmetria, perché l’una (la difesa) agisce secondo un preciso mandato e non potrebbe discostarsene, l’altra (il pubblico ministero) è invece libero di autodeterminarsi perché agisce non “contro” l’imputato - come invece il difensore deve agire “a suo favore” - ma nell’interesse della collettività.
Tanto premesso, è evidente che questa libertà del fine non vuol dire discrezionalità dell’azione penale: il magistrato inquirente rimane infatti vincolato nella sua scelta a dei precisi parametri dettati dal legislatore e oggi rinvenibili, dopo le ultime modifiche al Codice di procedura penale operate dalla cosiddetta “riforma Cartabia”, nell’articolo 533 del Codice di procedura penale. Modellando sia il parametro necessario per la richiesta di rinvio a giudizio che quello (previsto dall’articolo 425 del Codice di procedura penale) cui deve attenersi il G.U.P. per non emettere sentenza di non luogo a procedere sulla “ragionevole previsione di condanna”, il Codice obbliga oggi anche il pubblico ministero a determinare le proprie scelte in ordine all’esercizio dell’azione penale agli stessi criteri cui è tenuto il giudice [3]. Questo allineamento degli standards indiziari e cautelari a quelli probatori non è un portato dell’ultima riforma; al contrario, corrisponde ad un vero e proprio trend che accomuna i numerosi interventi del legislatore che si sono succeduti negli ultimi quindici anni sul processo penale. A mero titolo di esempio, le modifiche dei parametri per l’adozione di una misura cautelare personale e i ripetuti aggiustamenti di quelli (sanciti nel menzionato articolo 425 c.p.p.) per discriminare i fascicoli da mandare a giudizio da quelli destinati alla sentenza di non luogo a procedere indicano una tendenza ad assimilare il lavoro dei giudici delle indagini preliminari ad una sorta di anticipazione - con valore prognostico - dell’esito del futuro ed eventuale dibattimento.
Oggi questa responsabilizzazione investe esplicitamente anche le determinazioni del pubblico ministero, più che mai chiamato all’esercizio del proprio ruolo con un’ottica di unicità della giurisdizione: «l’orizzonte del pubblico ministero non è più quello di una dignitosa partecipazione al giudizio, ma quello di una piena assunzione di responsabilità per il suo esito» [4]. Su questi parametri deve adagiarsi anche la scelta dei casi in cui esercitare l’azione penale, che rimane in ogni caso obbligatoria nel senso previsto dall’articolo 112 della Costituzione, nel senso che – al determinarsi dei presupposti indicati dalla legge – non ci si potrà esimere dal richiedere il rinvio a giudizio. Va da sé che in nessun modo l’adozione del sistema accusatorio impedisce al pubblico ministero di svolgere indagini o è incompatibile con l’obbligo di indagare senza selezionare né il tipo di reati né le persone secondo criteri estranei a quelli descritti. Pertanto, può concludersi che non esiste alcuna incompatibilità tra il principio costituzionale sancito dall’articolo 112 della Costituzione e l’attuale assetto del processo penale (anche alla luce del rimodellato articolo 111 della Carta fondamentale).
3. L’ingestibilità dei carichi della giustizia penale e la crisi del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale.
La piena compatibilità del principio costituzionale in esame con l’attuale sistema del processo penale non conforta, tuttavia, a fronte di un dato di fatto ineludibile: da lungo tempo i carichi delle Procure e dei Tribunali sono talmente elevati da rendere impossibile in quasi tutti i distretti l’evasione della domanda di giustizia. Il fenomeno ha cause molteplici e risalenti, che non è possibile affrontare in questa sede, anche se la cronica mancanza di risorse, umane ed informatiche, gioca senza dubbio un ruolo di rilievo: basti pensare che per venti anni non è stato bandito alcun concorso per cancellieri, ciò ha portato all’invecchiamento ed al progressivo depauperamento quantitativo dei ruoli cardine del processo penale dal punto di vista amministrativo ed all’attuale situazione di drastica carenza di organico. Conseguenza indiretta del disastrato stato della giustizia penale del nostro Paese è che una parte delle notizie di reato non può essere lavorata o comunque non in tempi congrui, e una rilevante quota dei procedimenti per i quali il Pubblico Ministero esercita l’azione penale non trova sbocco nella fase processuale. Buona parte dei processi, infine, non viene definita mediante uno degli esiti fisiologici (sentenza di assoluzione o di condanna definitiva) poiché il reato si estingue, prima che si sia stabilito se esso sussistesse o meno, per il decorso del tempo massimo (prescrizione).
Questo stato di fatto comporta indirettamente un abbandono o quantomeno un’attenuazione del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale: i pubblici ministeri non esercitano più l’azione penale ogni volta che ne ricorrano i presupposti ma solo per quella quota parte di affari penali che riescono a lavorare (e che i giudici sono in grado di ricevere: è noto che in passato alcuni Tribunali sono stati costretti a contingentare i decreti di citazione a giudizio ricevuti dalla Procura per impossibilità di fissare le udienze, sicché il magistrato inquirente esercitava l’azione penale solo virtualmente) [5].
Non possono non condividersi le preoccupazioni espresse sul punto dal Ministro della Giustizia Carlo Nordio, che ha affermato che la situazione attuale dei carichi di lavoro si presta ad arbìtri, dando ai pubblici ministeri la possibilità di scegliere quali reati perseguire. Convincono assai meno, date le premesse fin qui svolte, le soluzioni che il Governo pare apprestarsi ad adottare per scongiurare il pericolo paventato.
4. La separazione delle carriere: riflesso pavloviano o panacea di tutti i mali?
In una delle sue ultime dichiarazioni rese alla stampa [6] il Ministro Nordio, nel ribadire l’intenzione del Governo di procedere alla separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri in quanto, a suo dire, «consustanziale al processo accusatorio» [7], ha specificato che tale modifica legislativa, a suo dire, «richiede una revisione costituzionale anche perché deve essere correlata alla discrezionalità dell’azione penale, che in questo momento per Costituzione è obbligatoria». Il collegamento tra l’obbligatorietà dell’azione penale e il tema (un vero e proprio mantra per l’attuale compagine di maggioranza) della separazione delle carriere non appare di intuitiva evidenza. Non solo non vi è alcuna necessità ontologica, anche in un ipotetico ordinamento in cui il pubblico ministero ha la carriera separata da quella del giudice, di affidargli la discrezionalità nell’azione penale, ma - come si è detto - l’abolizione del principio espresso nell’articolo 112 della Costituzione pone a serio rischio il principio di uguaglianza e quello dell’indipendenza del magistrato inquirente rispetto al potere esecutivo. E va da sé che un pubblico ministero separato dal giudice, con conseguente perdita dello statuto che ai magistrati giudicanti garantisce indipendenza, andrebbe ancora più tutelato dal rischio di finire nell’orbita degli altri poteri dello Stato. La contestuale previsione di un pubblico ministero “separato” e non più soggetto al tranquillizzante obbligo di indagare su tutti i reati e gli indagati suscita dunque un allarme che non è possibile sottovalutare. Ne è ben consapevole lo stesso Ministro quando, nella stessa dichiarazione sopra riportata, aggiunge che «la separazione delle carriere non ha assolutamente come conseguenza la riconduzione del pm sotto l’esecutivo. Questa è una conseguenza inventata da quelli che non vogliono la separazione delle carriere per altri motivi». L’autorevolezza della fonte induce a prestare fede a questa dichiarazione di intenti: ma allora perché collegare la paventata riforma del pubblico ministero all’abolizione del più forte presidio alla sua indipendenza?
Non a caso, a commento delle predette dichiarazioni, ha espresso tutta la sua preoccupazione il Presidente dell’ANM Giuseppe Santalucia, dichiarando esplicitamente che "separare le carriere significa creare la premessa per porre il pubblico ministero sotto il controllo politico del ministro. Fare dell’azione penale un’azione discrezionale, significa affidarla alla politica". Una volta che l’azione penale diventerà discrezionale, occorreranno infatti dei criteri per garantire l’uniformità di tale discrezionalità tra un pubblico ministero e l’altro; in mancanza, l’arbitrio che si voleva scongiurare diventerà ben peggiore di quello che si scorge, a torto o a ragione, con l’attuale sistema.
Questi criteri possono essere dettati dall’interno (ovvero dagli stessi uffici di Procura) o dall’esterno. E dal momento che alcuni criteri interni per stabilire le priorità di trattazione delle notizie di reato esistono già, come meglio si dirà nel paragrafo che segue, è evidente che essi non sono considerati sufficienti da chi propone questa riforma e che si auspica che essi provengano dall’esterno, ovvero dal potere esecutivo, ciò che riporterebbe l’architettura del processo penale al sistema pre-costituzionale.
La preoccupazione aumenta leggendo altre dichiarazioni del Ministro, che pare ricollegare la futura discrezionalità dell’azione penale alla necessità di sottoporre il pubblico ministero ad un vero e proprio controllo: l’obbligatorietà dell’azione penale, ha infatti riferito il Ministro Nordio, «si è tradotta in intollerabile arbitrio a causa della massa di fascicoli. Quindi il pm è costretto a una scelta, può indagare nei confronti di tutti senza rispondere a nessuno e questo favorisce le ambizioni di pochi magistrati. Anche perché si agisce in assenza di responsabilità per le proprie azioni, svincolati da controlli che in ogni democrazia limitano l’esercizio di un potere» [8]. Separazione delle carriere, discrezionalità dell’azione penale, sottoposizione del pubblico ministero a controllo: il fil rouge delle dichiarazioni riportate disvela una ratio legis che chi legge il processo penale con le vetuste, ma insostituibili, lenti della Costituzione fa fatica a metabolizzare [9].
5. Vie d’uscita dall’impasse: scorciatoie e soluzioni di sistema.
Occorrerebbe dunque trovare una soluzione che consenta di restituire piena effettività all’articolo 112 della Costituzione senza stravolgere l’assetto del processo penale (operazione, oltre che inutile, pericolosa per quanto detto in precedenza). Due sembrano le strade percorribili, una da adottare nel breve periodo ed una “di sistema”.
La risposta di sistema consiste in una ampia depenalizzazione, che sollevi gli uffici dal carico di migliaia di procedimenti considerati ad oggi di rilievo penale anche se, per fatti, di non rilevante allarme sociale. È infatti intuitivo che, se non è possibile esercitare l’azione penale per tutti i reati per mancanza di forze, tanto vale restringere l’area del penalmente rilevante. Questa soluzione avrebbe altresì il pregio di rafforzare l’impronta garantista del nostro Codice di procedura penale, in linea peraltro con molte altre dichiarazioni degli esponenti dell’attuale Governo.
Al contempo, un profondo e concreto investimento sulla Giustizia che consenta di dotare i Tribunali e le Procure di mezzi e personale e di una convinta transizione informatica servirebbe ad evitare che, passata l’onda positiva dell’eventuale provvedimento di depenalizzazione, si ritorni nel medio periodo alla situazione precedente (come successo in passato per i provvedimenti di amnistia e indulto).
Nel breve periodo (in attesa delle riforme ora descritte) possono senz’altro giovare i criteri di priorità nella trattazione degli affari, introdotti dalla menzionata “riforma Cartabia” (art. 3 disp. Att. C.p.p. e art. 1, lett. B, d.lgs. 106/2006) [10], soluzione che lascia all’interno della magistratura il compito e la responsabilità di individuare criteri per l’uniforme trattazione degli affari penali, scongiurando il pericolo di interventi esterni. Va peraltro rilevato che la legge assegna al Parlamento il compito di stabilire con legge i criteri generali cui gli uffici di Procura dovranno attenersi nello stabilire i criteri di priorità; questa previsione, per quanto limitata, ha già sollevato dubbi di costituzionalità per la compatibilità con l’articolo 112 Cost [11]. Un uso corretto - e depurato da torsioni eccentriche rispetto ai fini di restituzione di effettività ai principi costituzionali sottesi all’obbligatorietà dell’azione penale - potrebbe consentire una razionale gestione degli affari penali, anche mediante allineamento dei criteri di priorità della magistratura requirente a quelli previsti per la trattazione dei processi in Tribunale [12].
[1] Sul punto si veda G.SALVI, Commento all’art. 112 della Costituzione, in La Magistratura, rivista online.
[2] All’indomani dell’adozione del Codice di procedura penale del 1989, la Corte Costituzionale ha avuto modo di chiarire la piena compatibilità tra il sistema accusatorio adottato e l’articolo 112 della Costituzione, precisando che «il principio di legalità (art. 25, 2° comma Cost) che rende doverosa la repressione delle condotte violatrici della legge penale, abbisogna, per la sua concretizzazione, della legalità del procedere; e questa, in un sistema come il nostro, fondato sul principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (in particolare, alla legge penale), non può essere salvaguardata che attraverso l’obbligatorietà dell’azione penale. Realizzare la legalità nell’uguaglianza non è però possibile se l’organo cui l’azione è demandata dipende da altri poteri: sicché di tali principi è imprescindibile requisito l’indipendenza del pubblico ministero» (Corte Cost. n. 88 del 1991). Pochi anni dopo lo stesso concetto è stato ribadito affermandosi che «l'obbligatorietà dell'azione penale, pur costituendo – come punto di convergenza di un complesso di principi del sistema costituzionale – la fonte essenziale della garanzia dell’indipendenza del pubblico ministero» (Corte Cost., n. 420 del 1995).
[3] Così NAPPI, In difesa della riforma Cartabia, Giustizia Insieme 20 giugno 2023: «L'art. 112 Cost. non esige affatto che il pubblico ministero si determini in base a una regola di decisione diversa da quella prevista per il giudice. Al contrario, estende all'azione penale lo schema argomentativo che la tradizione liberale prescrive per la giurisdizione, escludendo così che le determinazioni concernenti l'esercizio dell'azione penale possano essere giustificate in ragione della funzionalità al perseguimento di risultati di controllo sociale. Infatti la giurisdizione è un sistema di giustizia legale, le cui decisioni devono essere giustificate sempre e soltanto in ragione della loro conformità a un sistema di norme e di valori, che si assume precostituito all'intervento del giudice».
[4] Così ancora NAPPI, In difesa, cit.
[5] Sul punto T. EPIDENDIO, “La grande decostruzione del disegno costituzionale della magistratura”, Giustizia Insieme, 24 maggio 2022 ha parlato di crisi dell’obbligatorietà dell’azione penale: «Prima ancora che scientifica o ideologica, la crisi è imposta dalla “forza del fatto”: sopra una certa dimensione demografica e in presenza di una legislazione penale inflazionistica, mancano inevitabilmente le risorse per perseguire tutti e tempestivamente i reati che vengono commessi; inizia a farsi strada l’idea che l’obbligatorietà dell’azione penale sia illusoria (molti reati si prescrivono o vengono archiviati).»
[6] Le dichiarazioni sono rinvenibili su fonti aperte e risalgono al 19 settembre 2023.
[7] Sul punto, a confutazione, si veda quanto detto nei paragrafi 1 e 2 di questo scritto.
[8] Dichiarazioni del 6 dicembre 2022, rinvenibili su fonti aperte.
[9] Sul punto si veda ancora EPIDENDIO, in questa Rivista, cit.: «…si fa sempre più diffusa la convinzione che, in realtà, il principio di obbligatorietà nasconda scelte selettive incontrollate sull’an e sul quando della persecuzione da parte delle diverse Procure della Repubblica. Così, anche su questo versante, quasi senza che ce se ne avveda, spinti dalla forza del fatto e dalla inevitabile limitatezza di risorse ed energie, si minano le fondamenta costituzionali delle garanzie e della legittimità di un pubblico ministero autonomo e indipendente da altri poteri, che trovano la loro radice appunto nell’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, cui è correlato il principio di obbligatorietà dell’azione. Quanti però avvertono che ogni deriva dal principio di obbligatorietà sacrifica il principio di eguaglianza davanti alla legge?».
[10] Sul punto si veda APRATI, “Le nuove indagini preliminari tra obiettivi deflattivi ed esigenze di legalità”, in Giustizia Insieme, 20 dicembre 2022: «Si è infatti andato ad incidere sul principio di obbligatorietà dell’azione penale, baluardo sì del principio di legalità/uguaglianza in sede processuale, ma in via di fatto in perenne crisi a causa della sua concreta inesigibilità. L’azione rimane obbligatoria, così come immutato è l’obbligo di indagare, ma l’effettivo esercizio dei due connessi doveri viene modulato: le notizie di reato che presentano certe caratteristiche – individuate dai criteri di priorità - devono essere prese in carico, tanto per l’avvio dell’indagine quanto per la scelta sull’azione, con precedenza sulle altre.»
[11] Sul punto infatti si veda la Relazione n. 2 del 2023 del Massimario della Cassazione ove si legge che «L’individuazione di siffatti criteri potrebbe porre il dubbio pregiudiziale della loro compatibilità con il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost., posto che non vengono disciplinati solo i criteri in ordine alla gestione delle indagini, ma vengono individuati anche i criteri di priorità nell’esercizio dell’azione. Siffatta astratta previsione può, però, giustificarsi ove si considerino, sul piano pratico, la scarsità delle risorse, il numero ingente di indagini astrattamente esperibili, la differente gravità, il diverso impatto sociale dei singoli reati e la necessità di assicurare uguaglianza, imparzialità, efficienza e velocità nell’amministrazione della giustizia, in ossequio ai principi di buon andamento e imparzialità dell'azione giudiziaria desumibili dall'art. 97, comma 1, Cost.»
[12] Si vedano in merito le riflessioni di N.ROSSI, “I criteri di priorità tra legge cornice e indipendenza delle procure”, in Questione Giustizia, 2021, 4, nonché quelle di E.ALBAMONTE, “I criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale”, in Il Penalista.
di Maria Teresa Covatta
In un intervento del 13 ottobre alla CNN Oliver Darcy [1], commentando l’escalation del conflitto scatenato dall’attacco terroristico di Hamas contro Israele denuncia la sfida di dover nuotare in un oceano di informazione inquinata, con affermazioni dubbie, poco chiare, ancor più pericolose quando provengono da fonti autorevoli o supposte tali.
Un numero infinito di immagini e informazioni fuorvianti che diventano virali online lascia al pubblico una percezione distorta di ciò che sta realmente accadendo in Medio Oriente e del perché.
Pur nel comprensibile disordine che accompagna necessariamente l’informazione a fronte di eventi di rottura di equilibri, già precari come in questo caso, tanto più forte a fronte dell’orrore causato dall’evento stesso, e in un panorama mediatico frammentario e guidato da algoritmi in cui le notizie si diffondono 24 ore su 24 e 7 giorni su 7, le informazioni possono viaggiare e penetrare le coscienza dell’opinione pubblica con una rapidità sorprendente e talora incontrollata, creando un fertile terreno per le mistificazioni, talora involontarie e talora volute.
La critica non riguarda solo la stampa, ma anche il mondo della politica e dell’informazione che ne proviene, in tutti quei casi in cui l’informazione non arriva da soggetti realmente accreditati a darla ed è più che altro finalizzata ad acquisire punti sul fonte della propria influenza e dunque della propria rilevanza, partendo da un punto di vista ristretto e personale, allontanando la dimensione umana e l’impatto reale e obiettivo dei fatti che si raccontano.
Queste considerazioni, che l’autore dell’intervento riferisce esclusivamente agli eventi in corso in Medio Oriente, ma che valgono su larga scala e ben potrebbero attagliarsi anche a fatti di casa nostra, pongono degli interrogativi sulla chiarezza delle informazioni, specialmente a fronte di questa che si annuncia come una inevitabile e devastante guerra protratta che ha già falciato un enorme numero di vite tra israeliani e palestinesi e in cui gli unici esiti prevedibili – nell’assoluta imprevedibilità degli sviluppi a livello geopolitico - sono le altre enormi perdite che verranno, la più che probabile crisi umanitaria e il probabile definitivo tracollo di una prospettiva di pace tra i due popoli: in conclusione, quella che è stata definita la metastasizzazione della questione palestinese.
Lasciando da parte i mistificatori di professione [2] e i criminali che a Berlino hanno disegnato le stelle di Davide sulle porte di casa di famiglie ebree, in quanto costoro sarebbero comunque refrattari a qualunque forma di informazione che non sia basata sui loro preconcetti e sulla loro vergognosa e delirante visione della storia, c’è da chiedersi se non sia opportuno che si chiarisca, a chi vuole ascoltare, che i palestinesi non sono Hamas e che quest’ultima è un’organizzazione criminale che non si identifica con la causa palestinese.
Bisognerebbe chiarire anche che fare critiche all’attuale politica governativa israeliana è cosa lontana anni luce dall’essere antisemiti e che, anzi, avere a cuore la democrazia di quel Paese è l’esatto contrario.
Bisognerebbe raccontare che solo pochi giorni prima dell’attacco di Hamas migliaia di israeliani e di palestinesi hanno percorso, insieme e in marcia pacifica, la “strada della pace”, da Gerusalemme alla Cisgiordania, una lunga marcia che vedeva ancora una volta (già c’era stata nel 2022, l’anno più sanguinoso dopo la seconda intifada) donne palestinesi e israeliane insieme per protestare contro la catena della violenza che colpisce entrambe le parti e per chiedere che cessi l’eccidio quotidiano dei loro figli. E che l’attentato di Hamas ha cancellato, con un sanguinoso colpo di spugna, il precario e del tutto singolare equilibrio che teneva in piedi la collaborazione tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese, soprattutto sul piano della sicurezza
Bisognerebbe raccontare – o raccontare con più forza e più chiarezza - che esistono centinaia di comitati per la pace, cui partecipano, uniti, israeliani e palestinesi, che da tempo manifestano insieme per la pace e la giustizia e che pacificamente hanno manifestato contro la riforma della giustizia in corso in Israele che, a opinione di molti, rappresenta un serio colpo alla democrazia del Paese, tanto che qualcuno lo ha definito un golpe alla luce del sole e senza carri armati.
Bisogna fare tutto questo perché a fronte di una guerra che si annuncia come una probabile catastrofe umanitaria, sia ben chiaro che la lotta per i diritti ci coinvolge tutti e che i diritti sono diritti da qualunque parte stiano.
[1] Oliver Darcy, Explosive claims about the Israel-Hamas war are going viral. But the truth is not always so simple, CNN Business, 13 ottobre 2023. https://edition.cnn.com/2023/10/13/media/israel-hamas-claims-reliable-sources/index.html.
[2] I TG italiani, il 15 ottobre, hanno dato la notizia di un noto terrorista italiano, già condannato per l’omicidio Tobagi, intercettato mentre inneggiava alla strage di Hamas nell’ambito di una manifestazione in favore della causa palestinese. Nello stesso contesto è stata data la notizia delle stelle di David comparse in Germania sulle abitazioni di famiglie ebree.
(Immagine: marcia del movimento Women Wage Peace, Gerusalemme, 4 ottobre 2023; photo credit: Women Wage Peace, via Jerusalem Post https://www.jpost.com/israel-news/article-761604).
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