ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La (negata) tutela dell’affidamento in materia di incentivi alle fonti energetiche rinnovabili
(nota a Corte Giust. UE, Sez. V, 15 aprile 2021, cause riunite C-798/18 e C-799/18)
di Marco Calabrò
Sommario: 1. La vicenda. – 2. Principi e ratio della disciplina in materia di incentivi energetici. – 3. La perimetrazione della tutela dell’affidamento nella giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di Giustizia UE. – 4. L’iter motivazionale della pronuncia: non configurabilità della violazione dell’art. 3, par. 3, lett. a) della direttiva 2009/28/CE. – 4.1. Il parametro della prevedibilità. – 4.2. Il parametro della retroattività della norma. – 4.3. Non configurabilità della violazione del diritto di proprietà e della libertà di impresa di cui agli artt. 16 e 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea. – 5. Legislazione incentivante, recessività della tutela dell’affidamento e incertezza del diritto.
1. La vicenda.
La Corte di Giustizia UE è tornata ad occuparsi della compatibilità con il diritto europeo di una normativa nazionale che preveda una riduzione di incentivi (nel caso di specie in materia di energia) precedentemente riconosciuti agli operatori economici mediante decisioni amministrative e successive convenzioni. Nello specifico, la controversia ha ad oggetto il disposto dell’art. 26, co. 2 e 3 del d.l. n. 91/2014, conv. in l. n. 116/2014 (cd. Spalma-incentivi), ai sensi del quale si è proceduto ad una rimodulazione degli incentivi per gli impianti di potenza superiore a 200 kW precedentemente assegnati con il c.d. Quarto Conto Energia (d.lgs. n. 28/2011), imponendo ai produttori di energia da fonti rinnovabili che avevano aderito al sistema incentivante di optare per una tra tre nuove ipotesi di modello tariffario, tutte comunque incidenti in senso peggiorativo sulla loro posizione. Ciò, si badi, è avvenuto in un momento nel quale la precedente legislazione incentivante non aveva ancora terminato di produrre i suoi effetti, con la conseguenza che l’intervento legislativo ha evidentemente esplicato un effetto novativo su un rapporto di durata intercorrente tra GSE e società produttrici di energia, rapporto fondato non solo su provvedimenti attributivi delle tariffe incentivanti, ma anche su appositi contratti di durata ventennale stipulati tra le parti.
Alcuni operatori economici colpiti dalla citata riforma impugnavano innanzi al T.A.R. Lazio, i decreti ministeriali attuativi dell’art. 26 cit., dolendosi della presunta illegittimità di una modifica unilaterale delle condizioni giuridiche sulla cui base le stesse società produttrici di energia avevano impostato la propria attività economica, legittimamente fidando su un sistema incentivante la cui durata ed entità erano state espressamente indicate dallo stesso GSE. Con ordinanza n. 11124 del 16 novembre 2018, il T.A.R. Lazio riteneva necessario rimettere alla Corte di Giustizia UE questione pregiudiziale circa la possibilità o meno per un legislatore nazionale – a seguito di una diversa valutazione degli interessi in gioco – di intervenire su situazioni giuridiche già consolidate in forza di provvedimenti concedenti incentivi, nonché in forza di convenzioni già stipulate con la parte pubblica.
Il Giudice nazionale prospetta molteplici possibili contrasti tra la normativa italiana e il diritto europeo: in primo luogo, la sopravvenuta rimodulazione, in senso peggiorativo, del sistema tariffario – incidendo prima del termine della loro naturale scadenza su rapporti di durata “cristallizzati” sulla base di provvedimenti concessori e convenzioni di diritto privato – potrebbe ritenersi in contrasto con i principi generali del legittimo affidamento e della certezza del diritto. Per le medesime ragioni, viene prospettato come la suddetta rivalutazione degli interessi pubblici, in assenza di circostanze eccezionali che la giustifichi, si potrebbe ritenere in contrasto con gli artt. 16 e 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (rispettivamente libertà di impresa e diritto di proprietà), in quanto – alterando l’effettività delle misure incentivanti già formalmente accordate – determinerebbe una lesione del diritto dell’operatore economico di programmare e gestire la propria attività imprenditoriale sulla base di posizioni contrattuali predeterminate[1].
La vicenda si inquadra nell’ambito del tema dei limiti della tutela del legittimo affidamento del cittadino non nei confronti delle scelte della p.a.[2], bensì a fronte di modifiche dell’assetto regolatorio, tema che ha a lungo impegnato la dottrina, con specifico riferimento alle leggi retroattive, nonché – come si chiarirà meglio infra – in merito a quelle disposizioni che, pur non avendo carattere retroattivo in senso proprio, esplicano i propri effetti su rapporti di durata[3]. Premessa la facoltà del legislatore di intervenire anche incidendo su posizioni giuridiche sorte sulla base di disposizioni precedenti, l’affidamento del privato rileverebbe laddove il contesto nel quale si colloca la norma anteriore ed il contenuto della stessa siano tali da “indurre i destinatari a confidare nella stabilità nel tempo dell’«assetto regolatorio» a fronte del quale (dati i suoi caratteri, da valutare caso per caso) «l’intervento normativo incidente su di esso deve risultare sproporzionato»”[4].
Richiamate le coordinate di riferimento, deve ora osservarsi come la fattispecie oggetto della pronuncia in esame assuma invero una connotazione specifica, in ragione di almeno due ordini di motivi. Da un lato, la normativa sulla base della quale sono sorti i rapporti di durata tra GSE e operatori economici è inquadrabile nella c.d. legislazione incentivante, ovvero in quella tipologia di intervento normativo volto a conseguire obiettivi di interesse pubblico “indirizzando” le scelte imprenditoriali private, per l’appunto attraverso il riconoscimento di un incentivo tale da rendere economicamente conveniente un’attività che altrimenti risulterebbe in perdita[5]. È bene sin d’ora sottolineare come tale modello di intervento pubblico nell’economia – teso, nel caso di specie, ad incrementare la produzione di energia da fonti rinnovabili in un’ottica di tutela dell’ambiente e sicurezza del mercato energetico attraverso la riduzione della dipendenza degli Stati europei dall’importazione di idrocarburi – proprio perché idoneo a “condizionare” profondamente la libera iniziativa economica privata, renda la posizione dell’operatore economico almeno astrattamente più “forte” in termini di legittimo affidamento.
A ciò deve aggiungersi che, nel caso di specie, le tariffe incentivanti non sono state semplicemente disciplinate ex lege e riconosciute ai soggetti richiedenti mediante provvedimento concessorio (ex se revocabile a fronte di una nuova valutazione degli interessi pubblici in gioco), ma hanno altresì formato oggetto di accordi di diritto privato tra operatori economici e GSE, accordi con i quali i primi si obbligavano a realizzare e far entrare in esercizio l’impianto fotovoltaico ed il secondo, per l’appunto, a garantire per un certo periodo di tempo un determinato sistema tariffario “incentivato”.
Come noto, la vicenda in esame aveva già dato vita ad un ampio contenzioso, confluito da ultimo nella sentenza della Corte costituzionale 24 gennaio 2017, n. 16, con la quale la Consulta respingeva le questioni di legittimità costituzionale sollevate, ritenendo, da un lato, non sussistente una lesione del legittimo affidamento degli operatori economici attesa la “non imprevedibilità” della rimodulazione degli incentivi e, dall’altro lato, nemmeno configurabile una lesione della libertà di iniziativa economica in quanto i limiti apposti al suo esercizio non risultavano arbitrari né incongrui, bensì rispondenti “ad un intervento pubblico in termini di equo bilanciamento degli opposti interessi in gioco, volto a coniugare la politica di supporto alla produzione di energia da fonte rinnovabile con la maggiore sostenibilità dei costi relativi a carico degli utenti finali dell’energia elettrica”[6].
Il T.A.R. del Lazio, ritenendo che la pronuncia della Consulta non avesse risolto tutti i profili sollevati, ha ritenuto comunque necessario rimettere alla Corte di Giustizia UE la questione circa la compatibilità delle disposizioni di cui all’art. 26, co. 2 e 3 del d.l. n. 91/2014 cit. con il diritto europeo, prospettando la possibile violazione della libertà di impresa (art. 16 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) del diritto di proprietà (art. 17 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea) e, primariamente, del principio del legittimo affidamento, che – benché non espressamente codificato nei Trattati – è ormai assurto da tempo a principio generale dell’ordinamento Europeo, proprio grazie ad un’ampia elaborazione giurisprudenziale della Corte di Giustizia[7].
Ebbene, pur richiamando la centralità dei principi della certezza del diritto e del legittimo affidamento nel settore de quo, e pur riconoscendo che l’art. 26 cit. incide sensibilmente in senso peggiorativo sui regimi di sostegno previamente introdotti, con la pronuncia in commento i giudici europei hanno ritenuto che l’intervento del legislatore italiano non configurasse una violazione delle disposizioni di cui alla dir. 2009/28/CE, concretandosi esso in una rimodulazione del sistema incentivante: a) giustificata da idonee ragioni di interesse pubblico, b) prevedibile, c) non retroattiva. E’ sulla verifica della effettiva sussistenza di tali presunti caratteri della normativa contestata che ci si soffermerà nel prosieguo dell’indagine.
2. Principi e ratio della disciplina in materia di incentivi energetici.
Con diverse direttive susseguitesi nel tempo (2001/77/CE; 2009/28/CE; 2018/2001/UE), l’Unione Europea ha individuato la promozione della produzione di energia da fonti rinnovabili come obiettivo altamente prioritario, strumentale ad incrementare la sicurezza dell’approvvigionamento energetico, a stimolare la competitività del sistema produttivo ed a ridurre le emissioni inquinanti in atmosfera[8]. L’Italia ha inteso dare attuazione a tale obiettivo attraverso l’introduzione di eterogenee forme di incentivazione[9], tutte consistenti in strumenti di mercato volti a rendere sostenibili dal punto di vista economico investimenti per impianti FER, atteso il costo di produzione nettamente più elevato rispetto alla produzione di energia elettrica da fonti fossili[10].
Tali interventi rientrano nel più ampio processo di revisione delle politiche pubbliche in materia ambientale, volto ad affiancare all’utilizzo di modelli di command and control strumenti idonei ad utilizzare dinamiche di mercato al fine di rendere conveniente per gli operatori economici orientare spontaneamente i loro comportamenti verso la tutela dell’ambiente[11]. Da tempo sono emersi i limiti connessi alle politiche tradizionali di tutela ambientale, limiti essenzialmente legati alla concentrazione del potere decisionale in capo alla pubblica amministrazione ed alle relative conseguenze in termini di inefficienza derivanti dal carattere accentrato e preventivo della decisione[12]. Accanto all’emersione del fallimento di politiche volte a tutelare l’ambiente solo attraverso rigide determinazioni e programmazioni, spesso sconfessate, si è, nel contempo, sviluppato un differente approccio, essenzialmente fondato sulla convinzione che un utilizzo “orientato” di alcune tecniche di mercato possa rivelarsi utile alla difesa dell’ambiente, in una dimensione di tutela “attraverso il mercato”, ovvero di ricorso a strumenti (quali, per l’appunto, gli incentivi tariffari) “che fanno leva sulle dinamiche di mercato e sulle modalità di funzionamento del medesimo per promuovere la tutela dell’ambiente”[13].
Tra i modelli di incentivazione che hanno svolto un ruolo strategico negli ultimi venti anni per lo sviluppo del mercato energetico italiano, dando impulso alla crescita della produzione da fonti rinnovabili, assume una posizione centrale il c.d. Conto energia[14], oggetto della pronuncia in commento. Esso consiste nell’erogazione di un incentivo aggiuntivo rispetto al prezzo di mercato (sistema feed in premium), il che – comportando il permanere di un margine di rischio in capo al produttore – può condurre tanto ad una situazione di insufficienza della misura incentivante a fronte di un prezzo di mercato molto basso, quanto, al contrario, ad un eccesso di incentivazione. Ed è proprio quest’ultimo il caso che ha connotato l’esperienza italiana, per tale ragione segnata da una “parabola discendente” del sistema incentivante: la progressiva riduzione dei costi necessari per la realizzazione e l’entrata in esercizio degli impianti FER, in uno con il notevole successo registrato dai diversi Conti energia susseguitisi nel tempo, hanno indotto il legislatore italiano a ridurre progressivamente l’entità ed il periodo di operatività delle tariffe incentivanti, operazione che – per le ragioni che si chiariranno infra – ha per l’appunto fatto sorgere il contenzioso di cui ci si occupa in questa sede[15].
Ai nostri fini occorre in ogni caso chiarire che le direttive europee in materia di promozione di energia rinnovabile hanno tutte riconosciuto una ampia discrezionalità agli Stati membri in ordine alla individuazione della tipologia di misure di sostegno ritenute necessarie per il raggiungimento degli obiettivi nazionali di produzione di energia “verde”; in tal senso non sussiste alcun obbligo di introduzione e mantenimento di un regime tariffario incentivante, a patto che gli obiettivi di promozione siano comunque raggiunti[16]. Ciò posto, tuttavia, la stessa Corte di Giustizia UE ha in più occasioni sottolineato che, una volta adottate misure di incentivazione, queste debbano essere gestite nel rispetto dei principi generali del diritto dell’Unione Europea, tra i quali figurano la certezza del diritto e la tutela del legittimo affidamento, essenziali per garantire la fiducia degli operatori economici e, di conseguenza, l’efficacia delle misure stesse[17]. La stessa direttiva 2009/28/CE, della quale la normativa oggetto di contestazione è attuazione, ribadisce in più di una occasione la centralità del rispetto dei principi di certezza del diritto e legittimo affidamento, laddove prevede l’esigenza di “creare la stabilità a lungo termine di cui le imprese hanno bisogno per effettuare investimenti razionali e sostenibili nel settore delle energie rinnovabili” (considerando n. 8), o afferma come “la principale finalità di obiettivi nazionali obbligatori è creare certezza per gli investitori” (considerando n. 14), o, ancora, sottolinea l’importanza di “garantire il corretto funzionamento dei regimi di sostegno nazionali […] al fine di mantenere la fiducia degli investitori” (considerando n. 25)[18].
3. La perimetrazione della tutela dell’affidamento nella giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di Giustizia UE.
Come noto, al principio del legittimo affidamento – benché non espressamente menzionato nella Costituzione italiana – la Consulta ha da tempo riconosciuto un valore autonomo, il cui fondamento viene rinvenuto in alcune pronunce nel solo art. 3 Cost.[19] ed in altre in un parametro composito rappresentato dall’art. 3 e dalla disposizione di rango costituzionale garante del diritto o della libertà di volta in volta incisi negativamente dall’intervento retroattivo del legislatore[20]. In particolare, al cittadino è riconosciuta la tutela del legittimo affidamento sia nelle ipotesi in cui la norma retroattiva incida su posizioni giuridiche soggettive consolidate, sia in quelle fattispecie nelle quali l’effetto negativo della disposizione sopravvenuta ricada su rapporti di durata (c.d. retroattività impropria)[21]. L’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica e, più in generale, nella certezza del diritto[22], rappresenta senza dubbio un elemento fondante lo Stato di diritto; tuttavia, la giurisprudenza della Corte costituzionale chiarisce, da un lato, che affinché si possa configurare un legittimo affidamento tutelabile, la posizione giuridica incisa debba essere collocata in un contesto idoneo a far sorgere in capo al destinatario una ragionevole aspettativa di mantenimento della posizione giuridica favorevole e, dall’altro lato, che interessi pubblici sopravvenuti possono esigere interventi normativi in grado di comprimere posizioni consolidate, a patto che “l’incidenza peggiorativa non sia sproporzionata rispetto all’obiettivo perseguito nell’interesse della collettività; per altro verso, che l’intervento di modifica sia prevedibile, non potendosi tollerare mutamenti retroattivi dell’assetto di interessi relativo a rapporti di durata consolidati nel tempo, del tutto inaspettati”[23].
Nella medesima scia anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE, sebbene quest’ultima sia tendenzialmente volta a riconoscere una portata applicativa più estesa al principio del legittimo affidamento (espressamente qualificato “principio fondamentale della comunità”)[24], laddove ne sostiene l’operatività anche in ipotesi di normativa sopravvenuta non avente efficacia retroattiva, quale clausola che, più in generale, legittimerebbe i cittadini a fare affidamento sulla stabilità di una disciplina “di fronte ad una sua modifica improvvisa che non potevano ragionevolmente aspettarsi o qualora il comportamento dell’istituzione abbia fatto sorgere nell’interessato un’aspettativa ragionevolmente fondata”[25]. Tale prospettiva rende vieppiù non tollerabile un intervento legislativo che – incidendo retroattivamente su rapporti definiti o di durata – privi il singolo di una posizione giuridica consolidata sulla base della precedente normativa.
Tuttavia, anche la Corte di Giustizia – nel riconoscere ampio rilievo al principio del legittimo affidamento – nel contempo ne perimetra l’operatività, chiarendo che il singolo non può avvalersi del suddetto principio qualora un operatore economico “prudente ed accorto” avrebbe potuto/dovuto prevedere l’adozione di un provvedimento successivo atto a ledere i propri interessi[26]. Il giudice europeo, pertanto, individua un preciso limite alla tutela del legittimo affidamento nella prevedibilità del successivo mutamento (in senso peggiorativo) della regolazione, prevedibilità che evidentemente non consente il pieno consolidamento della posizione di cui beneficiava il soggetto: in tal senso, l’operatore economico che non ha tenuto in debita considerazione i caratteri (precari) della normativa nazionale ed europea di riferimento, ovvero non ha attribuito il giusto peso a precedenti comportamenti analoghi del regolatore, non è legittimato ad invocare la tutela del principio de quo[27].
In altri termini, la Corte esclude che il legittimo affidamento attribuisca all’operatore economico un diritto assoluto alla conservazione di una regolazione favorevole, riconoscendo, come è ovvio, alle autorità nazionali il potere discrezionale di intervenire modificando anche in senso peggiorativo un assetto normativo[28]. Tuttavia, tale intervento può incidere solo su posizioni giuridiche non ancora consolidatesi[29] e, nel contempo, oltre a fondarsi su motivi imperativi di interesse generale[30], deve trovare una sua adeguata giustificazione secondo parametri di ragionevolezza e prevedibilità. Con specifico riferimento ai rapporti di durata, poi, il giudice europeo chiarisce che la tutela del legittimo affidamento pretende che lo ius superveniens contempli anche una disciplina transitoria, nonché, se del caso, misure di compensazione, al fine di preservare gli operatori economici dai pregiudizi derivanti dal passaggio al nuovo regime[31].
In sintesi si può affermare come – secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE – la salvaguardia delle posizioni di vantaggio pregresse sia generalmente affidata al criterio della prevedibilità del mutamento della regolazione, nonché al principio della irretroattività delle norme sopravvenute[32]; come si avrà modo di illustrare, tuttavia, non solo il parametro della prevedibilità si rivela di difficile “oggettivizzazione”, ma in fattispecie quali quella in esame – incidenti su rapporti di durata – la stessa efficacia retroattiva o meno di una disposizione può risultare opinabile e oggetto di differenti ricostruzioni.
4. L’iter motivazionale della pronuncia: non configurabilità della violazione dell’art. 3, par. 3, lett. a) della direttiva 2009/28/CE.
4.1. Il parametro della prevedibilità.
I ricorrenti sostengono che l’art. 26 del d.l. n. 91/2014, nel modificare repentinamente in maniera svantaggiosa per i gestori di impianti fotovoltaici gli importi degli incentivi, violerebbe la stessa direttiva che la norma in questione è chiamata ad attuare: come detto, infatti, la dir. 2009/28/CE richiede agli Stati membri, tra l’altro, di definire una regolazione stabile, presupposto indispensabile affinché le imprese possano effettuare investimenti razionali e sostenibili nel settore delle energie rinnovabili. A ciò deve aggiungersi come, nel caso di specie, si stia discutendo di una legge di incentivazione, atta ad orientare l’iniziativa economica privata verso finalità di interesse pubblico, generando così “nei destinatari uno specifico affidamento nell’ottenimento del beneficio x al realizzarsi della condizione y”[33], affidamento al quale è riconosciuta una particolare “forza” proprio in ragione del “nesso eziologico tra l’incentivo e l’agire del privato”[34].
Ebbene, con la pronuncia in commento, la Corte di Giustizia esclude che possa configurarsi una lesione della direttiva citata e, quindi, del legittimo affidamento, ritenendo di poter qualificare chiaro e prevedibile l’operato del legislatore italiano, tale da consentire agli interessati di immaginare senza ambiguità la possibile evoluzione della loro posizione giuridica e di potersi regolare di conseguenza. In particolare, i giudici sottolineano come il d.gs. n. 28/2011, nell’introdurre il Quarto conto energia, indicasse una durata non predeterminata degli incentivi e prevedesse un tetto massimo di potenza elettrica incentivante, il che avrebbe dovuto indurre l’operatore economico accorto a prendere in considerazione la possibile riduzione o addirittura soppressione nel tempo del regime delle tariffe incentivanti. E’ facile obiettare, tuttavia, che quanto osservato vale senz’altro nei confronti dei soggetti che ambivano ad ottenere l’incentivo, non però per gli operatori economici che, come i ricorrenti, si erano già visti riconoscere il beneficio, non solo con provvedimento amministrativo, ma anche con la stipula di una convenzione ad hoc con il GSE. E’ vero che nei suddetti contratti il Gestore dei Servizi Energetici si riservava di modificare unilateralmente le condizioni di erogazione in ragione di eventuali sviluppi normativi, ma è evidente che tale ius modificandi dovesse essere attuato nel rispetto dei principi del legittimo affidamento e di proporzionalità, il che non è stato. La convenzione, infatti, riconosceva nello specifico al GSE la facoltà di “modificare le clausole […] in contrasto con il quadro normativo di riferimento”; al contrario, nei fatti, il legislatore del 2014 non si è limitato a variare il contenuto di alcune clausole, bensì ha completamente stravolto il modello di incentivazione!
La Corte di Giustizia, tra l’altro, “dimentica” di ricordare una circostanza invero dirimente in ordine al parametro della prevedibilità, ovvero che gli operatori economici avevano in più occasioni ricevuto espressa garanzia circa il mantenimento costante delle tariffe incentivanti per l’intero ventennio originariamente previsto: ci si riferisce alla lettera di riconoscimento delle tariffe, inviata dal GSE, seguita poi dalla stipula della convenzione tesa a regolare i rispettivi obblighi e diritti, documenti entrambi contenenti un chiaro riferimento al periodo di tempo ventennale di costante erogazione degli incentivi. Appare, quindi, quantomeno paradossale l’affermazione secondo la quale, a fronte di tali esplicite e ripetute rassicurazioni, un operatore economico prudente ed accorto avrebbe dovuto immaginare una loro rimodulazione in peius.
Nelle sue conclusioni[35], l’Avvocato Generale sostiene che le modifiche in senso peggiorativo avrebbero dovuto essere tanto più prevedibili a fronte della lunga durata della convenzione (20 anni). Eppure, è evidente come la scelta di una durata almeno ventennale dell’efficacia della misura incentivante derivasse quasi obbligatoriamente dalla necessità di rendere remunerativo l’ingente investimento iniziale (per la realizzazione e l’entrata in esercizio dell’impianto), ed è stato proprio il poter fare affidamento su un determinato incentivo per molti anni a venire ad indurre l’operatore economico ad effettuare un investimento senza dubbio “in perdita” per il primo periodo di attività. In altri termini, la natura stessa della legislazione incentivante in questione presuppone l’instaurazione di un rapporto stabile e duraturo, con la conseguenza che la durata ventennale della convenzione non può fungere certo da “indizio” di una possibile “non tenuta nel tempo” dello stesso regime tariffario.
La pronuncia in esame fonda altresì il presupposto della prevedibilità della rimodulazione del modello tariffario sulla circostanza che anche durante la vigenza dei precedenti Conti energia il legislatore italiano era intervenuto con riduzioni tariffarie “in corso d’opera”. Tuttavia, a ben vedere, nelle precedenti occasioni le suddette revisioni in senso peggiorativo del sistema incentivante trovavano applicazione unicamente pro futuro, ovvero nei confronti degli operatori economici titolari di impianti non ancora realizzati o non entrati in esercizio, non incidendo – come invece è accaduto nel caso di specie – su posizioni giuridiche consolidate, in quanto riferite a tariffe già riconosciute relativamente ad impianti operativi. Ne è prova il precedente della Corte di Giustizia 11 luglio 2019, Agrenergy s.r.l. e Fusignano Due s.r.l. c. Ministero dello Sviluppo Economico, cause riunite C-180/18, C-286/18 e C-287/18, laddove – nel decidere sulla compatibilità con il diritto UE della normativa italiana che aveva preventivamente “chiuso” il regime introdotto dal Quarto conto energia – ha condivisibilmente escluso che in quella circostanza si configurasse una lesione del principio del legittimo affidamento in capo a quegli operatori economici che non erano stati ancora ammessi al modello incentivante de quo (per mancato inserimento in apposito registro tenuto dal GSE e per superamento dell’importo complessivo massimo di incentivazione previsto). In quel caso, dunque, i ricorrenti non risultavano affatto assegnatari di incentivo e, pertanto, non avrebbero potuto vantare alcun legittimo affidamento nell’applicazione di quel regime al posto di quello (meno favorevole) successivamente introdotto dal Quinto conto energia.
4.2. Il parametro della retroattività della norma.
Le istituzioni europee appaiono ben consapevoli del rischio per lo sviluppo del mercato energetico derivante dall’introduzione, da parte degli Stati membri, di misure retroattive incidenti in senso peggiorativo sui regimi di sostegno. Una Comunicazione della Commissione del 2013 affermava inequivocabilmente che “le misure di sostegno devono rappresentare un impegno stabile, a lungo termine, trasparente, prevedibile e credibile nei confronti degli investitori”[36].
L’analisi del tema della retroattività della legge, con specifico riferimento alle normative contenenti incentivi tesi a indurre l’intrapresa di attività economiche altrimenti in perdita, ha indotto in passato parte della dottrina a riconoscere alle leggi di incentivazione una particolare “forza passiva”, tale da escludere del tutto la possibilità di una loro successiva modifica in peius determinante una riduzione o addirittura rimozione dei benefici originariamente concessi[37]: secondo tale orientamento, il peculiare patto di fiducia che si instaurerebbe tra operatore economico e regolatore condurrebbe ad una sorta di irretrattabilità[38] di quelle misure. Pur non aderendo a tale orientamento, la Corte costituzionale – nel chiarire che il principio della irretroattività della legge non penale non assurge a principio costituzionale – ha in più occasioni ribadito che ad esso il legislatore è tenuto comunque ad attenersi fin quando possibile, in ragione della primaria esigenza della garanzia della certezza del diritto[39].
Al riguardo, come già ricordato (v. § 3), la stessa Corte di Giustizia ha di frequente riconosciuto la tutela del legittimo affidamento non solo nei confronti di disposizioni propriamente retroattive, ma anche allorquando comportamenti o esplicite comunicazioni delle istituzioni abbiano ingenerato nel privato fondate aspettative circa il mantenimento di una evoluzione coerente della regolazione, ritenendo così meritevoli di tutela anche posizioni non formalmente consolidatesi.
Ebbene, in ordine alla fattispecie oggetto della pronuncia in commento, a ben vedere i giudici europei avrebbero potuto riconoscere la sussistenza di un legittimo affidamento tutelabile anche senza aderire alla suddetta applicazione estensiva del principio: come detto, nel caso di specie, il diverso (e meno favorevole) sistema incentivante imposto dall’art. 26 cit. riguarda soggetti ai quali l’incentivo era già stato formalmente riconosciuto, sia con provvedimento amministrativo che con la successiva stipula di un contratto di diritto privato. Affermare, come fa la Corte, che le convenzioni concluse con il GSE non assegnavano gli incentivi, limitandosi piuttosto a fissarne le modalità di erogazione, non muta la circostanza in base alla quale le tariffe incentivanti non erano state semplicemente “prospettate” agli operatori economici ricorrenti, bensì espressamente loro assegnate mediante una precedente decisione amministrativa: al fine di riconoscere la tutela del loro legittimo affidamento, pertanto, sarebbe stato sufficiente richiamare l’interpretazione maggiormente restrittiva del principio, secondo la quale la legge con effetti retroattivi non può incidere su diritti quesiti, ovvero su “fatti e rapporti che hanno spiegato tutti gli effetti loro e si sono esauriti sotto l’impero della norma antica”[40].
In altri termini, anche applicando la concezione meno “ampia” di irretroattività della norma, ovvero quella che contempla la tutela dell’affidamento di sole posizioni configurabili come aspettative consolidate e non meramente attese, nella fattispecie de qua la Corte di Giustizia avrebbe dovuto ritenere violativo del legittimo affidamento l’operato del legislatore italiano e, conseguentemente, del GSE. Se è vero, infatti, che la rimodulazione in peius non ha inciso sugli incentivi già concretamente erogati – nel senso che non ne ha previsto la restituzione parziale – essa ha comunque prodotto i suoi effetti su incentivi dovuti (nel senso di già riconosciuti, sebbene da erogare negli anni a venire), il che rende evidentemente non condivisibile quanto affermato dai giudici circa la portata non retroattiva dell’art. 26 cit. contestato. Del resto, incentivi attribuiti da un provvedimento, la cui modalità di erogazione è ulteriormente specificata da una convenzione, non possono essere considerati solo astrattamente previsti, se non ritenendo “dovuti” unicamente gli incentivi già effettivamente “erogati”, il che è evidentemente una contraddizione in termini. La dottrina parla, al riguardo, di “retroattività impropria”, intesa quale idoneità della norma – formalmente efficace solo pro futuro – ad incidere su elementi costitutivi di rapporti di durata i cui caratteri erano stati predefiniti da disposizioni precedenti[41].
La pronuncia in esame sembra piuttosto applicare quella risalente concezione del principio della irretroattività della legge che non individuava quale discrimine i diritti quesiti, quanto piuttosto l’idoneità o meno di incidere sul fatto generatore del diritto[42]; ma appare evidente che l’adesione a tale orientamento condurrebbe ad una sostanziale frustrazione del principio del legittimo affidamento in tutte le ipotesi di rapporti di durata, senza tenere in contro, tra l’altro, il fatto che, a differenza del principio della certezza del diritto, il diverso principio del legittimo affidamento rileva primariamente proprio in relazione alle situazioni giuridiche destinate a durare nel tempo[43].
Attesa la palese retroattività della disposizione contestata, non può sottacersi che in passato la Corte di Giustizia ha, invero, ritenuto recessiva la tutela del principio del legittimo affidamento anche a fronte dell’applicazione di misure meno favorevoli sostanzialmente retroattive, laddove, però, giustificate da motivi imperativi di interesse generale, nonché idonee a realizzare gli obiettivi perseguiti senza eccedere quanto necessario per raggiungerli[44]. Nel caso di specie, tuttavia, il legislatore italiano non solo ha giustificato la reformatio in peius del regime tariffario in ragione di interessi pubblici già ampiamente valutati in sede di introduzione del Quarto conto energia (l’accresciuta remuneratività degli incentivi, a fronte della riduzione dei costi di produzione, e la contestuale esigenza di ridurre i costi sopportati dagli utenti finali), ma nemmeno si è minimamente soffermato sugli elementi atti a dimostrare che le misure peggiorative introdotte non risultavano eccedenti rispetto a quelle necessarie per raggiungere i suddetti interessi pubblici.
Al riguardo, è bene ricordare che l’art. 23 del d.lgs. n. 28/2011, con il quale è stato introdotto il Quarto conto energia, prevedeva che qualsiasi intervento nell’ambito della suddetta misura dovesse essere conforme ai principi di gradualità, al fine di garantire la salvaguardia degli investimenti effettuati e di proporzionalità rispetto agli obiettivi. In aperta contraddizione con tale dettato normativo – nonostante, come si è già avuto modo di osservare, la stessa giurisprudenza della Corte di Giustizia affermi con chiarezza la necessità che eventuali riforme in senso peggiorativo di una precedente legge di incentivazione contemplino una normativa transitoria e misure di compensazione – nulla di tutto ciò è stato previsto al fine di mitigare gli effetti negativi sugli interessi degli operatori economici che in buona fede avevano fatto affidamento sul modello incentivante loro formalmente riconosciuto[45].
4.3. Non configurabilità della violazione del diritto di proprietà e della libertà di impresa di cui agli artt. 16 e 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Gli operatori economici ricorrenti eccepiscono, accanto alla violazione del legittimo affidamento, anche la violazione degli artt. 16 e 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, rispettivamente disciplinanti la libertà di impresa e il diritto di proprietà. Partendo da quest’ultimo – premesso che ai sensi della giurisprudenza CEDU i diritti di credito e le aspettative patrimoniali connesse allo svolgimento di un’attività economica rientrano pacificamente nella nozione di “bene” tutelabile ex art. 17 cit.[46] – la questione è verificare se la tutela della proprietà trovi o meno applicazione in relazione ad incentivi formalmente riconosciuti ma non ancora erogati. Ebbene, la Corte di Giustizia ritiene che, nel caso di specie, la mera assegnazione dell’incentivo energetico nell’ambito di un regime di sostegno, per quanto formalizzato con provvedimento amministrativo e successiva convenzione, non faccia sorgere in capo all’operatore economico una “posizione giuridica acquisita” e, pertanto, non possa rientrare nella tutela del diritto di proprietà ai sensi della Carta dei diritti fondamentali UE. Anche per tale profilo, a ben vedere, assume rilievo centrale il tema del riconoscimento o meno in capo ai ricorrenti di un legittimo affidamento, laddove i giudici europei escludono l’applicabilità dell’art. 17 cit. in quanto quest’ultimo coprirebbe unicamente crediti già percepiti o rispetto ai quali vi sarebbero “circostanze specifiche che possono fondare, in capo all’interessato, il legittimo affidamento di conseguirne il valore patrimoniale”[47].
Nelle conclusioni dell’Avvocato Generale Saugmandsgaard, si legge, inoltre, che l’investimento effettuato dagli operatori economici per la realizzazione e messa in esercizio degli impianti, inciso negativamente dalla rimodulazione dell’incentivo, non rientrerebbe nel patrimonio tutelabile ex art. 17 della Carta dei diritti fondamentali UE, in quanto la riduzione dell’importo dell’incentivo disposta dal contestato art. 26 cit. non avrebbe comportato una limitazione o una restrizione del diritto di proprietà dei ricorrenti. In realtà, occorrerebbe distinguere tra quegli investimenti realizzati in vista di una ipotetica attività futura e quelli, invece, realizzati e resi operativi a fronte di una posizione giuridica consolidata e connessa proprio all’entrata in esercizio dell’impianto di energia da fonti rinnovabili. Al riguardo, ad esempio nel passaggio tra il Terzo e il (meno favorevole) Quarto conto energia, la giurisprudenza amministrativa ha correttamente ritenuto non sussistente la lesione del legittimo affidamento in quanto la nuova regolazione (peggiorativa) trovava applicazione unicamente nei confronti di quegli operatori economici che non avevano ancora attuato l’entrata in esercizio dell’impianto, considerato fatto costitutivo del diritto alla percezione degli incentivi[48]; al contrario, nella fattispecie oggetto della pronuncia in commento, quel “momento” ritenuto indice del fatto costitutivo del diritto a beneficiare del modello incentivante (l’entrata in esercizio dell’impianto) era ampiamente trascorso e, pertanto, i soggetti vantavano evidentemente una posizione giuridica consolidata[49].
In merito alla eccepita violazione della libertà di impresa di cui all’art. 16 della Carta dei diritti fondamentali UE, rileva, in particolare, la c.d. libertà contrattuale, ovvero la libertà di disporre delle proprie risorse economiche con consapevolezza e senza restrizioni ingiustificate. Al riguardo, la Corte di Giustizia afferma che in realtà i contratti firmati tra gli operatori economici e il GSE configuravano contratti-tipo, con la conseguenza che la libertà contrattuale non poteva riguardare il loro contenuto (già predeterminato), bensì solo la scelta di sottoscriverli o meno. Tale considerazione, invero, non sembra dirimente, in quanto – come ricorda la stessa Corte – l’art. 16 cit. tutela anche la libertà di condurre la propria attività economica assumendo scelte autonome, responsabili e consapevoli[50]: nel caso di specie appare innegabile che l’art. 26 contestato, rimodulando in modo retroattivo il sistema di incentivazione, ha avuto un notevole impatto sull’organizzazione delle attività economiche del titolare dell’impianto energetico, sia sottraendogli risorse economiche spettantegli (gli incentivi già riconosciuti), sia riducendo il valore degli investimenti infrastrutturali effettuati facendo affidamento sulla durata predeterminata del sistema di incentivazione. La rimodulazione tariffaria effettuata, infatti, modificando ex post “i fattori” sulla base dei quali l’operatore economico ha deciso di investire nelle fonti rinnovabili, incide anche sulle scelte finanziarie dallo stesso effettuate a monte, quali la durata di eventuali finanziamenti, l’efficacia dei contratti stipulati per la disponibilità di aree o per il noleggio di beni, nonché l’entità e la durata dei contratti di assicurazione[51].
5. Legislazione incentivante, recessività della tutela dell’affidamento e incertezza del diritto.
Si è osservato come le leggi di incentivazione vengano oggi inquadrate nell’ambito di quelle politiche di tutela ambientale lontane dal modello tradizionale del command and control e fondate piuttosto su meccanismi tipici delle dinamiche di mercato. Ciò non esclude affatto l’intervento pubblico, semplicemente esso assume un ruolo diverso: non ordina e controlla, bensì disciplina e regolamenta un mercato artificiale, volto a rendere “conveniente” per l’operatore economico assumere scelte rispettose del principio dello sviluppo sostenibile. Tale modello è in grado di funzionare, però, unicamente a fronte di una regolazione stabile, che “confermi” le legittime aspettative di profitto da essa stessa generate nell’operatore economico; in caso contrario i benefici derivanti dall’utilizzo di meccanismi di mercato vengono annullati, contraddicendo la stessa ratio dell’intervento pubblico[52]. E’ evidente che non si intendere mettere in discussione il potere dello Stato di variare l’assetto normativo in ragione di nuove e più attuali valutazioni degli interessi pubblici coinvolti, ma ciò deve avvenire a fronte di motivi imperativi e comunque con effetti non retroattivi, pena il possibile vulnus del principio del legittimo affidamento.
La pronuncia in commento conclude per l’insussistenza di un legittimo affidamento tutelabile in capo all’operatore economico, sostenendo in sintesi che: a) la reformatio in peius in questione non avrebbe carattere retroattivo; b) l’operatore economico “accorto” avrebbe potuto prevedere la successiva modifica del regime incentivante. Come si è cercato di dimostrare supra, invero, le conclusioni cui giunge la Corte di Giustizia non sono condivisibili, né in relazione al profilo della portata retroattiva, né con riguardo alla presunta prevedibilità dell’intervento. La rimodulazione tariffaria operata dal legislatore italiano nel 2014, infatti, ha inciso negativamente non solo pro futuro bensì su posizioni giuridiche consolidate, in quanto espressamente riconosciute con provvedimento amministrativo, nonché disciplinate nel dettaglio mediante successivo contratto di diritto privato, frustrando, senza alcuna forma di compensazione, legittime scelte economico-finanziarie effettuate anche sulla base di ripetute rassicurazioni da parte dello Stato e del GSE circa la stabilità dell’assetto incentivante.
In ordine al profilo della “prevedibilità”, secondo giurisprudenza della stessa Corte, l’operatore economico prudente e accorto non può invocare la tutela dell’affidamento a fronte di prevedibili mutamenti delle regolazione, circostanza che non può dirsi sussistesse nel caso di specie[53]. Le chiare indicazioni normative circa la stabilità del sistema di incentivazione, le espresse comunicazioni in tal senso da parte del Ministero, la sottoscrizione di una convenzione di diritto privato comportante diritti e doveri reciproci, hanno innegabilmente fatto sorgere in capo ai titolari degli impianti un legittimo affidamento, generato da un precedente comportamento univoco tale da far presumere che i successivi interventi sarebbero stati coerenti e compatibili[54]. Del resto, se si volesse seguire con coerenza il ragionamento della Corte, non si comprende come si sarebbe dovuto comportare l’operatore economico “prudente”: dovendosi egli attendere una “possibile” riduzione dell’incentivazione successiva alla formale attribuzione della stessa, avrebbe potuto decidere di non aderire affatto al sistema tariffario agevolato in ragione dell’eccessiva alea ad esso connessa o, al contrario, avrebbe potuto contemplare nel piano finanziario una possibile futura riduzione degli incentivi, senza tuttavia poterne misurare in alcun modo l’entità. Sembra quasi che più che ad un operatore economico prudente, la Corte rinvii ad un operatore economico “veggente”.
Senza poi voler considerare come una parte della dottrina qualifichi addirittura “contraddittoria” una legge incentivante connotata da una prevedibile instabilità[55]. Secondo tale orientamento, il criterio dell’operatore economico prudente non dovrebbe trovare applicazione nelle ipotesi nelle quali sia lo stesso regolatore ad aver indotto l’operatore economico ad effettuare determinati investimenti, ovvero allorquando esista un rapporto di consequenzialità tra il riconoscimento dell’incentivo e l’agire del privato: “si tratterebbe di un affidamento per così dire rafforzato dalla sussistenza del predetto nesso di causalità”[56]. Sarebbe in effetti davvero paradossale legittimare il comportamento di un regolatore che, in un primo momento, interviene per “pilotare” le scelte imprenditoriali in vista del conseguimento di un fine pubblico, e successivamente frustra le legittime aspettative di quegli stessi imprenditori che, con il loro investimento indotto, hanno consentito al medesimo soggetto pubblico di conseguire l’interesse perseguito.
Ebbene, attesa l’esistenza di un legittimo affidamento, ciò che occorre stabilire è se esso sarebbe potuto/dovuto essere sacrificato a fronte di una situazione eccezionale tale da imporre al legislatore un diverso e “anticipato” nuovo bilanciamento degli interessi pubblici in gioco. Insomma, ciò che rileva è il profilo della ragionevolezza e della proporzionalità dell’intervento in peius, misurabile in relazione alla assoluta necessità dello stesso e, nel contempo, all’adeguata considerazione delle posizioni giuridiche preesistenti. Ebbene, come si è illustrato, nella fattispecie de qua non è possibile registrare alcun evento eccezionale o esigenza inderogabile tale da bilanciare l’incontestabile offensività dell’intervento e, quindi, giustificare la lesione del legittimo affidamento degli operatori economici. A ben vedere, il Governo italiano ha originariamente “sbagliato i calcoli”, introducendo un sistema di incentivi particolarmente favorevole che ha indotto numerosi operatori ad usufruirne: in tal modo gli obiettivi di energia pulita si sono rivelati raggiungibili in un periodo di tempo più breve rispetto a quello ipotizzato ed il regolatore ha così ritenuto di porre rimedio ad una propria errata politica di programmazione energetica riducendo gli incentivi anche nei confronti di coloro ai quali gli stessi erano già stati formalmente riconosciuti.
Sul punto viene nuovamente in rilievo la già richiamata Comunicazione della Commissione del 2013, ove si afferma per l’appunto che “la necessità di modificare le condizioni previste dalla regolamentazione per rispondere agli sviluppi del mercato non giustifica l'applicazione retroattiva delle modifiche agli investimenti già effettuati, nei casi in cui le stesse modifiche siano dovute all'incapacità delle autorità pubbliche di prevedere correttamente tali sviluppi o di adattarvisi per tempo. L'applicazione retroattiva delle modifiche in queste circostanze compromette gravemente la fiducia degli investitori e va per quanto possibile evitata”[57]. Insomma, legittime esigenze di razionale utilizzo delle risorse pubbliche consentono senza dubbio al legislatore di rivedere le proprie politiche di incentivazione, eventualmente “sovrastimate”, ma solo per il futuro, non certo nei confronti di posizioni già acquisite. La stessa Corte costituzionale, in passato, nel perimetrare l’ambito di rilevanza del legittimo affidamento, ha sancito l’incostituzionalità di una disposizione che incideva negativamente su un rapporto di durata, giustificata unicamente sulla base dell’esigenza di contenimento della spesa pubblica: nell’occasione, la Consulta ha espressamente stabilito che una generalizzata esigenza di contenimento della finanza pubblica non può “risultare, sempre e comunque, e quasi pregiudizialmente, legittimata a determinate la compromissione di diritti maturati o la lezione di consolidate sfere di interessi, sia individuali, sia anche collettivi”[58].
Ragionando per analogia, a ben vedere, può sostenersi che al fine di verificare il rispetto del principio del legittimo affidamento da parte del legislatore che incide in senso peggiorativo su posizioni giuridiche preesistenti, si dovrebbero applicare i medesimi criteri che sovrintendono l’esercizio del potere di revoca da parte di una p.a.[59]: adeguata ponderazione dell’interesse privato leso; esternazione delle sopravvenute ragioni di interesse pubblico che hanno indotto il regolatore a “deviare” dal percorso atteso; corresponsione di un indennizzo (misura compensativa) nei confronti del soggetto pregiudicato nell’affidamento. Tale approccio si rivela, del resto, coerente con quella giurisprudenza della stessa Corte di Giustizia che impone la previsione di una disciplina transitoria e, nel caso, l’adozione di misure compensative, per mitigare gli impatti sfavorevoli su legittime aspettative a fronte di mutamenti della regolazione[60]. In senso analogo anche alcune pronunce della Corte costituzionale, laddove affermano la legittimità di interventi in peius unicamente in presenza di disposizioni volte a temperare gli effetti negativi sui rapporti di durata[61].
Appare significativo, a questo punto, segnalare come le critiche in questa sede sollevate alla pronuncia della Corte di Giustizia in commento si pongano in linea con quanto disposto – sulla medesima vicenda – dal Tribunale arbitrale internazionale, il quale giunge a conclusioni opposte rispetto a quelle della nostra Corte costituzionale e della Corte di Giustizia. Con decisione del 23 dicembre 2018, il Tribunale arbitrale ha condannato lo Stato italiano a risarcire gli operatori economici per violazione dell’art. 10 della Energy Charter Treaty, laddove impone di “creare stabili, eque, favorevoli e trasparenti condizioni per gli investitori”: nel caso di specie, secondo gli arbitri, “al momento dell'investimento, i ricorrenti erano stati indotti a ritenere, ragionevolmente, che le tariffe incentivanti sarebbero rimaste le stesse, come promesse nel Conto Energia, nelle comunicazioni del GSE e nei contratti con il GSE, per un periodo ventennale”, con la conseguenza che – avendo lo Stato fornito assicurazioni espresse che nessuna modifica si sarebbe verificata – esso è responsabile nel non aver accordato “un trattamento giusto ed equo agli operatori economici” attraverso forme di compensazione[62].
In conclusione, dall’esame della pronuncia in commento sembrerebbe emergere un nuovo orientamento della Corte di Giustizia, ovvero che in alcuni settori particolarmente esposti alle oscillazioni dei mercati e agli avanzamenti dello stato della tecnica (quali quello della produzione di energia), la tutela del legittimo affidamento dell’operatore economico assumerebbe un carattere intrinsecamente debole. In realtà, se si può convenire sull’esigenza che in determinati contesti un modello regolatorio “rigido” risulterebbe fallimentare e che il legislatore debba potersi rapidamente adattare alle nuove esigenze che nel tempo emergono dalle dinamiche proprie della materia oggetto di regolazione, è pur vero che l’incertezza endemica che contraddistingue i sistemi giuridico-economici contemporanei[63] non giustifica una negazione quasi assoluta del principio del legittimo affidamento, anzi, al contrario ne pretende un rafforzamento: proprio in ragione delle incertezze “esterne” e non prevedibili, il cittadino e (ancor di più) l’operatore economico deve poter pretendere il più elevato livello di coerenza nelle scelte regolatorie, non potendosi ritenere legittime riforme incidenti in peius su posizioni giuridiche acquisite o su legittime aspettative di diritto, riforme dettate da semplici “ripensamenti” di ordine politico-economico e non da esigenze eccezionali ed imperative[64].
Un’ultima osservazione. Se anche si volesse aderire all’idea che la tutela dell’affidamento non precluda l’intervento retroattivo in peius da parte del regolatore su posizioni consolidate in materia di incentivi, in ogni caso nella vicenda in esame il legislatore italiano ha senza dubbio violato la direttiva 2009/28, che la stessa normativa interna contestata era chiamata ad attuare. Se è vero, infatti, che la citata direttiva non esclude espressamente una rimodulazione degli incentivi, è altrettanto vero che l’intero sistema da essa introdotto si fonda sui principi di stabilità e certezza della regolazione; e questo non solo e non tanto in ragione della tutela dell’affidamento degli operatori economici, quanto piuttosto al fine di consentire il conseguimento degli obiettivi di politica energetica individuati nella medesima normativa europea. Al riguardo, appare significativa la circostanza che nella pronuncia in commento la Corte non si soffermi affatto sul profilo, pur eccepito dai ricorrenti, della violazione del principio dell’effetto utile, ai sensi del quale, come noto, gli Stati membri non sono semplicemente tenuti ad attuare le direttive, ma devono anche astenersi dal porre in essere qualsiasi misura idonea a frustrare il raggiungimento dei risultati dalle stesse individuati[65]: è innegabile che il rischio che il modello di legislazione incentivante “altalenante” offerto dal legislatore italiano possa scoraggiare i futuri investimenti privati nello sviluppo della produzione di energia rinnovabile sia particolarmente elevato. Tale pericoloso indirizzo, tra l’altro, assume oggi vieppiù rilevanza a fronte delle sfide lanciate dall’Unione Europea, con il Green Deal (2019) e il più recente pacchetto di proposte legislative su energia e clima Fit for 55 (2021): la riduzione del 55% delle emissioni di gas serra ed il contestuale 27% di quota di energia consumata da fonti rinnovabili entro il 2030, sono obiettivi ambiziosi che, per essere raggiunti, necessitano di interventi su più fronti (meno burocrazia, autorizzazioni uniche, regole chiare) e che i singoli Stati potranno conseguire unicamente in stretta collaborazione con i privati (cittadini e operatori economici), il che presuppone evidentemente l’instaurazione di un clima di fiducia tra le parti, un impianto regolatorio semplice e certo, tale da far insorgere (e, nel caso, tutelare) una posizione di legittimo affidamento in coloro che saranno chiamati a contribuire, con il loro investimenti, nella prospettata rivoluzione verde.
[1] Il T.A.R. del Lazio ha proposto nello stesso periodo alla Corte di Giustizia UE altre tre domande pregiudiziali identiche, tutte sospese fino alla emanazione della pronuncia che si commenta in questa sede (si tratta delle cause C-306/19, Milis Energy c. M.S.E.; C-512/19, Go Sun e Malby Energy c. M.S.E.; C-595/19 Fototre c. M.S.E.).
[2] La letteratura in tema di tutela del legittimo affidamento del cittadino nei confronti della p.a. è vastissima. Da ultimo, per una completa ricostruzione del tema v. E. Zampetti, Il principio di tutela del legittimo affidamento, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, 173 ss.
[3] In tema di attività normativa e tutela del legittimo affidamento v., ex multis, P. Carnevale, G. Pistorio, Il principio di tutela del legittimo affidamento del cittadino dinanzi alla legge, fra garanzia costituzionale e salvaguardia convenzionale, in Costituzionalismo.it, 2014; D.U. Galetta, Legittimo affidamento e leggi finanziarie, alla luce dell'esperienza comparata e comunitaria: riflessioni e proposte per un nuovo approccio in materia di tutela del legittimo affidamento nei confronti dell'attività del legislatore, in Foro amm., 6/2008, 1899 ss.
[4] V. Cerulli Irelli, Sul principio del legittimo affidamento, in Rivista italiana delle scienze giuridiche, 2014, 255.
[5] M. Luciani, Gli aiuti di Stato nella Costituzione Italiana e nell’ordinamento europeo, in Eurojus, 3/2019, 70.
[6] Corte cost., 24 gennaio 2017, n. 16, in www.cortecostituzionale.it. Per un commento della pronuncia v. E. Mariani, Stabilità degli incentivi alle fonti rinnovabili e potere rimodulativo del Legislatore: il punto di vista della Corte costituzionale, in Federalismi.it, 2017. Alla sentenza n. 16/2017 è seguita, poi, l’ordinanza 12 giugno 2017, n. 138, con la quale la Corte costituzionale ha affrontato i profili che residuavano, da un lato, escludendo la natura sanzionatoria della introduzione del nuovo regime incentivante e, dall’altro lato, evidenziando la carenza di una adeguata motivazione da parte del giudice remittente in ordine alla presunta violazione dell’art. 97 Cost.
[7] M. Gigante, Mutamenti nella regolazione dei rapporti giuridici e legittimo affidamento. Tra diritto comunitario e diritto interno, Milano, 2008, 24.
[8] Cfr. anche il Libro Verde UE: Una Strategia Europea per Energia Sostenibile, Competitiva e Sicura, COM (2006) 105 dell’8 marzo 2006 e la Comunicazione della Commissione 2010/639 del 10.11.2010 (Energia 2020: strategia per un’energia competitiva, sostenibile e sicura).
[9] Ci si riferisce, in particolare, ai Certificati verdi, ai Certificati bianchi, alla Tariffa omnicomprensiva ed al c.d. Conto energia. Per un’analisi dei diversi regimi di sostegno alla produzione di energia da fonti rinnovabili si rinvia a M. Cocconi, Gli incentivi alle fonti rinnovabili e i principi di proporzionalità e di tutela del legittimo affidamento del cittadino, in Amministrazione in cammino, 2014, 1 ss.
[10] L. Ammannati, La transizione energetica nell’Unione Europea. Il nuovo modello di governance, in G. De Maio (a cura di), Introduzione allo studio del diritto dell’energia. Questioni e prospettive, Napoli, 2019, 11.
[11] M. Cafagno, Principi e strumenti di tutela dell’ambiente come sistema complesso, adattativo, comune, Torino, 2007.
[12] “Ogni decisione collettiva, che pecchi in eccesso o in difetto, genera livelli di inquinamento troppo alti o, alternativamente, sprechi ed ingiustificate perdite di benessere”, M. Cafagno, Mercato e ambiente, in Studi sul Codice dell’Ambiente, a cura di M.P. Chiti e R. Ursi), Torino, 2009, 67.
[13] F. Fracchia, La tutela dell’ambiente attraverso il mercato, in AA.VV., Analisi economica e diritto amministrativo, Milano, 2007, 105 ss.
[14] Per un esame dell’evoluzione della disciplina del modello Conto energia sia consentito rinviare a M. Calabrò, Energia, ambiente e semplificazione amministrativa, in www.giustiziainsieme.it, 2021.
[15] G. Landi, C. Scarpa, Il livello ottimale degli incentivi verso la grid parity, in G. Napolitano, A. Zoppini (a cura di), Annuario di diritto dell’energia. Regole e mercato delle energie rinnovabili, Bologna, 2013, 80 ss.
[16] Corte Giust. UE, 11 luglio 2019, Agrenenergy e Fusignano Due, C-180/18; C-286/18; C-287/18.
[17] Corte Giust. UE, 1 luglio 2014, Alands Vindkraft, C-573-12; Corte Giust. UE, 11 settembre 2014, Essent Belgium NV, C-204/12 e C-208/12. In senso analogo v. anche la Comunicazione della Commissione Europea del giugno 2012 Renewable Energy: a major player in the European Energy market.
[18] In senso analogo anche la direttiva 2018/2001/UE, che ha sostituito la 2009/28/CE, laddove dispone che “le politiche di sostegno all’energia rinnovabile dovrebbero essere prevedibili e stabili […] Gli Stati membri dovrebbero fare in modo che un’eventuale revisione del sostegno concesso ai progetti di energia rinnovabile non incida negativamente sulla loro sostenibilità economica”.
[19] Cfr. Corte cost., 20 maggio 2016, n. 108.
[20] Cfr. Corte cost., 3 8 2005, n. 31. Ma, sul punto, v. F. Merusi, Buona fede e affidamento nel diritto pubblico. Dagli anni “trenta” all’“alternanza”, Milano, 2001, laddove afferma che “Il principio di ragionevolezza che si vuole ricavare dall’art. 3 non riguarda il fondamento della tutela del legittimo affidamento, bensì l’applicazione del principio di buona fede per tutelare il legittimo affidamento del cittadino determinato dal legislatore”, 6.
[21] F.F. Pagano, Il principio di affidamento nella giurisprudenza nazionale e sovranazionale, in www.gruppodipisa.it, 2014, 4.
[22] In realtà, la dottrina ha da tempo chiarito come certezza del diritto e legittimo affidamento – benché accomunati dalla comune matrice rappresentata dall’esigenza di garantire la sicurezza dei rapporti giuridici – configurino due principi nettamente distinti: mentre la certezza del diritto – intesa come conoscibilità e prevedibilità delle norme – assurge a valore fondante dell’ordinamento, il legittimo affidamento postula l’esigenza di un bilanciamento di interessi, quello alla stabilità della normativa e quello all’evoluzione della regolazione, anche, se del caso, con effetti pregiudizievoli nei confronti di posizioni pregresse. Sul tema v. A. Travi, Considerazioni critiche sulla tutela dell’affidamento nella giurisprudenza amministrativa (con particolare riferimento alla incentivazione ad attività economiche), in Rivista della regolazione dei mercati, 2016, 6 ss.
[23] Corte cost., 26 aprile 2018, n. 89; Corte cost., 21 luglio 2013, n. 203.
[24] Corte Giust. UE, 5 maggio 1981, in Dir. e giur. agr., 1983, 54; Corte Giust. UE, 10 dicembre 2015, Valsts ienemumu dienests, C-427/14.
[25] V. Pampanin, Legittimo affidamento e irretroattività della legge nella giurisprudenza costituzionale e amministrativa, in Giustamm.it, 2015, 9, il quale cita Corte Giust. UE, 14 luglio 2004, Di Leonardo Adriano Srl e Dilexport Srl, C-37/02 e C-38/02; Corte Giust. UE, 4 ottobre 2017, Commissione c. Italia, C-217/06; Corte Giust. UE, 14 giugno 2011, Pfleiderer AG, C-360/09.
[26] Cfr. Corte Giust. UE, 10 settembre 2009, Plantanol GmbH & Co. KG c. Hauptzollamt Darmstadt, C-201/08; Corte Giust. UE, 19 dicembre 2013, BDV Hungary Trading Kft c. Nemzeti Adò, C-536/12; Corte Giust. UE, 11 luglio 2019, Agrenergy e Fusignano Due, C-18018, C-286/18, C-287/18.
[27] Corte Giust. UE, 10 dicembre 2015, Valsts ienemumu dienests, C-427/14; Corte Giust. UE, 11 marzo 1987, Van den Bergh en Jurgius, C-265/85.
[28] Corte Giust. UE, 7 settembre 2006, Spagna c. Consiglio, C-310/04; Corte Giust. Ue, 15 luglio 2004, Di Lenardo e Dlexport, C-37/02, C-38/02.
[29] Corte Giust. UE, 3 maggio 1978, August Topfer & Co. c. Commissione, C-112/77.
[30] Corte Giust. UE, 20 dicembre 2017, Global Starnet Ltd c. Ministero dell’Economia e delle Finanze, C- 322/2016.
[31] Corte Giust. UE, 11 giugno 2015, Berlington Hungary, C-98/14; Corte Giust. UE, 6 marzo 2003, Nienmann, C-4/01; Corte Giust. UE, 16 maggio 1979, Tomadini, C-84/78. Su tale profilo v. S. Bastianon, La tutela del legittimo affidamento nel diritto dell'Unione europea, Milano, 2012, 104.
[32] A.M. Sandulli, Il principio di irretroattività delle leggi e la costituzione, in Foro amm., 1947, 73 ss.; V. Caianiello, Il problema della retroattività delle leggi e i principi della certezza e dell’affidamento, in Notariato, 2001, 345 ss.
[33] M. Luciani, Gli aiuti di Stato nella Costituzione Italiana e nell’ordinamento europeo, cit., 72.
[34] F.F. Pagano, Disposizioni di natura incentivante e meritevolezza dell’affidamento ingenerato dal legislatore, in www.rivistaaic.it, 2017, 10. In senso analogo anche A. Travi, Considerazioni critiche sulla tutela dell’affidamento nella giurisprudenza amministrativa (con particolare riferimento alla incentivazione ad attività economiche), cit.
[35] https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:62018CC0798&from=EN.
[36] Comunicazione della Commissione Europea, COM[2013]7243, Realizzare il mercato interno dell'energia elettrica e sfruttare al meglio l'intervento pubblico, 13.
[37] G. Guarino, Sul regime costituzionale delle leggi di incentivazione e di indirizzo, in Scritti di diritto pubblico dell’economia e di diritto dell’energia, Milano, 1962, 174 ss.; A. Loiodice, Revoca di incentivi economici ed eccesso di potere legislativo, in Scritti degli allievi offerti ad Alfonso Tesauro, II, Milano, 1968, 796 ss.
[38] M. Luciani, Gli aiuti di Stato nella Costituzione Italiana e nell’ordinamento europeo, cit., 73.
[39] Cfr. Corte cost., 4 aprile 1990, n. 155; Corte cost., 27 luglio 1982, n. 143; Corte cost., 27 luglio 1976, n. 194.
[40] G. Furgiuele, Diritti acquisiti (voce), in Dig. Disc. Priv., sez. civ., V, Torino, 1980, 370, la cui citazione è presente in V. Pampanin, Legittimo affidamento e irretroattività della legge nella giurisprudenza costituzionale e amministrativa, cit., 3.
[41] V. Onida, Poteri pubblici e tutela dell’affidamento, in AA.VV., Il difficile mercato, Milano, 2017, 22.
[42] D. Donati, Il contenuto del principio della irretroattività della legge, Roma, 1915.
[43] Sui rischi derivanti dalla tendenza di una certa giurisprudenza ad escludere dall’applicazione del principio del legittimo affidamento “tutte le ipotesi in cui la situazione giuridica soggettiva non consista in un diritto perfetto ormai definitivamente acquisito al patrimonio giuridico dell’interessato” v. V. Pampanin, Legittimo affidamento e irretroattività della legge nella giurisprudenza costituzionale e amministrativa, cit., 20.
[44] Cfr. Corte Giust. UE, 20 dicembre 2017, Global Starnet Ltd c. Ministero dell’economia e delle finanze, C-322/2016, con la quale i giudici europei hanno ritenuto compatibile con il diritto UE l’introduzione di nuovi requisiti ed obblighi a carico di soggetti già concessionari nel settore della gestione telematica del gioco lecito.
[45] Per la giurisprudenza della Corte di Giustizia si rinvia alla precedente nota 31. Sul rapporto tra legittimo affidamento e portata garantistica delle disposizioni transitorie, quali misure volte a regolare il passaggio fra assetti normativi, v. G. Matucci, Tutela dell’affidamento e disposizioni transitorie, Padova, 2009.
[46] Cfr. Corte EDU, 9 giugno 2009, n. 16861/02; Corte EDU, 8 febbraio 2011, n. 16021/02.
[47] Sulla ridotta incidenza della giurisprudenza della CEDU in tema di tutela del legittimo affidamento nelle decisioni (maggiormente restrittive) della Corte Costituzionale si rinvia a P. Carnevale, G. Pistorio, Il principio di tutela del legittimo affidamento del cittadino dinanzi alla legge fra garanzia costituzionale e salvaguardia convenzionale, in Costituzionalismo.it, 1/2014.
[48] T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III-ter, 2 aprile 2013, n. 3274.
[49] Nelle sue conclusioni, l’Avvocato Generale sostiene, altresì, che il diritto all’incentivo non potrebbe dirsi “acquisito” per il solo fatto di essere stato riconosciuto da un atto amministrativo e da un successivo contratto di diritto privato. A riprova di ciò richiama la decisione (Corte Giust. UE, 26 maggio 2016, Ezernieki, C-273/15) con la quale si afferma che non è “acquisito” un aiuto di Stato laddove sia prevista a monte la sua rimborsabilità nell’ipotesi in cui emerga che il soggetto non era in possesso dei requisiti richiesti. Il parallelismo, tuttavia, non pare calzante: nell’ipotesi degli aiuti di Stato, infatti, era già prevista in partenza una sorta di “fragilità intrinseca” della sovvenzione; al contrario, nel caso degli incentivi energetici l’attribuzione della tariffa agevolata non era assoggettata ad alcuna condizione o verifica successiva: una revisione delle condizioni, non preventivata, non può certo rendere ex post un diritto acquisito un diritto non definitivo!
[50] Corte Giust. UE, 30 giugno 2016, Lidl, C-134/15; Corte Giust. UE, 20 dicembre 2017, Polkomtel, C-277/16.
[51] T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 16 novembre 2018, n. 11124. “Operare, come ha fatto il legislatore del 2014, una riduzione degli incentivi già concessi vuol dire alterare l’equilibrio economico-finanziario sulla base del quale il privato ha programmato l’investimento, in quanto i costi dello stesso sono già stati sostenuti – e su di essi non incide la progressiva riduzione indotta dal miglioramento della tecnologia – mentre vengono ridotte le entrate” (F. Scalia, Incentivi alle fonti rinnovabili e tutela dell’affidamento, in Il diritto dell’economia, 1/2019, 257).
[52] M. Cocconi, Gli incentivi alle fonti rinnovabili e i principi di proporzionalità e di tutela del legittimo affidamento del cittadino, cit., 4.
[53] Non è un caso che nelle conclusioni dell’Avvocato Generale si legga che una modifica degli importi degli incentivi svantaggiosa per gli operatori economici “non potesse essere considerata imprevedibile” il che, evidentemente, è molto diverso dal sostenerne la prevedibilità.
[54] Sulla relazione tra coerenza comportamentale e legittimo affidamento v. E. Zampetti, Il principio di tutela del legittimo affidamento, cit., 176.
[55] F. Scalia, Incentivi alle fonti rinnovabili e tutela dell’affidamento, cit., 256.
[56] F.F. Pagano, Il principio di affidamento nella giurisprudenza nazionale e sovranazionale, cit., 21.
[57] Comunicazione della Commissione Europea, COM[2013]7243, Realizzare il mercato interno dell'energia elettrica e sfruttare al meglio l'intervento pubblico, 13.
[58] Corte cost., 22 maggio 2013, n. 92.
[59] M. Immordino, Revoca degli atti amministrativi e tutela dell’affidamento, Torino, 1999.
[60] Cfr. la precedente nota 31.
[61] Cfr. Corte cost., 7 luglio 2005, n. 264; Corte cost., 17 dicembre 2013, n. 310.
[62] Tribunale arbitrale internazionale, Greentech Energy Systems A/S, et al v. Italian Republic, SCC Case No. V 2015/095, reperibile in https://www.italaw.com/sites/default/files/case-documents/italaw10291.pdf.
[63] Sulle conseguenze derivanti dall’incertezza e la precarietà che caratterizzano le società postmoderne è doveroso il rinvio a Z. Bauman, La società dell’incertezza, Bologna, 1999.
[64] “Non si può invero non rappresentare che uno dei più seri fattori di rischio per l’economia di un Paese sia costituito dall’incertezza delle regole che presiedono al corretto esercizio dei poteri pubblici (amministrativi e giurisdizionali) con i quali gli operatori e gli investitori sono costretti a rapportarsi”, M.A. Sandulli, Principio di ragionevolezza delle decisioni giurisdizionali e diritto alla sicurezza giuridica, in Federalismi.it, 2018, 3-4.
[65] Corte Giust. UE, 11 settembre 2012, Nomarchiaki Afrodiokisi Aitoloakarnanias, C-43-10; Corte Giust. UE, 28 aprile 2011, Hassen El Dridi, C-61/11.
Art. 344 bis c.p.p.: questioni di incostituzionalità e criticità applicative
di Giorgio Spangher
Il dibattito, finalmente sviluppatosi, intorno all’operatività dell’art. 344 bis c.p.p., superando le contrapposte posizioni ideologico-politiche in materia, fa emergere le criticità della norma e i suoi contrasti interpretativi.
Emerge, comunque con chiarezza, come sia mancata nella concitata fase di chiusura dell’accordo politico, una certa lucidità nel percepire le implicazioni di ciò che si stava introducendo in un sistema complesso come quello della giustizia penale, così fortemente strutturato in termini sistematici e normativi.
Ci sono, come sempre, in un sistema governato dalla gerarchia delle fonti, aspetti costituzionali e sovranazionali di cui l’interprete deve tener conto, anche prima di affrontare gli aspetti più strettamente processuali.
Sotto questo aspetto, la norma prospetta una serie non secondaria di questioni che ci si limiterà ad indicare e sulle quali potrà prospettarsi quel confronto di idee che è il sale della dialettica che non voglia fideisticamente schierarsi.
Si prospetta, invero, la stessa legittimità della norma che, togliendo al giudice il potere di decidere, le questioni che le parti hanno prospettato, potrebbe confliggere, se non con l’art. 112 Cost., quanto meno con l’art. 101 Cost., cioè con la stessa funzione giurisdizionale, senza contare i riflessi delle norme sovranazionali. Più che le parti, sicuramente lese nel diritto all’effettività delle decisioni, è lo stesso ruolo del giudice che la norma sembra pregiudicare.
Si prospettano poi questioni di maggior dettaglio: il potere ufficioso del giudice di prorogare il termine di definizione del giudizio d’impugnazione; la razionalità-proporzionalità dei tempi del giudizio in relazione alla diversità dei reati; la lesione della durata ragionevole in caso di proroghe che non sono quantificate essendo suscettibili di un numero indefinito.
Sempre in relazione alle proroghe si prospettano questioni in ordine alla impugnabilità della relativa decisione, nonché in materia di tassatività delle condizioni che legittimano le proroghe (pluralità dei reati, di imputati, complessità).
Non manca la “classica” questione sulla retroattività o meno della disciplina appena introdotta, condizionata dalle diverse possibili opinioni in ordine alla sua natura (processuale, penale, mista).
Ancora maggiori incertezze prospettano le questioni processuali che possono essere qui elencate in rapida successione.
In primo luogo, si manifestano incertezze sul regime transitorio di cui ai commi 3, 4 e 5 dell’art. 2 della l. n. 134 del 2021, apparendo incerta una ricostruzione contrastante con la formulazione letterale delle previsioni.
Criticità si evidenziano, con pregiudizio per il prosciolto e per l’innocente, non superabili, con la rinuncia, in ordine all’operatività dell’art. 129 cpv. c.p.p.
Fortemente controversa si prospetta la questione del rapporto tra l’inammissibilità e l’improcedibilità per decorso dei termini della fase di gravame.
Non sono definiti tempi di celebrazione dei mezzi di impugnazione straordinari, né tempi massimi in caso di plurimi annullamenti e rinvii.
Incertezze si prospettano in ordine al valore del materiale probatorio raccolto nel procedimento definito con l’improcedibilità.
Non sono delineati i tempi in caso di plurime rinnovazioni probatorie differite in più udienze; manca una individuazione dei termini in caso di annullamento di una declaratoria di inammissibilità.
Questioni complesse si prospettano in caso di rinvio con annullamento parziale.
Non è convincente l’idea che la previsione non operi in caso di impugnazione della parte civile per i soli interessi civili.
Si sono già prospettati contrasti interpretativi in materia di effetti della decisione sulla responsabilità degli enti.
Alcune questioni (interessi civili e confisca) attendono l’attuazione della direttiva dell’art. 1 della l. n. 134 del 2021 contenute in ampia delega in materia.
Può prospettarsi una questione in tema di ne bis in idem?
Una particolare patologia si evidenzia in caso di erronea dichiarazione di prescrizione in seguito all’operatività dell’art. 604, c. 6, c.p.p. ed impossibilità di dichiarare la prescrizione.
Una certa criticità evidenzia la disciplina di cui all’art. 161 bis c.p., in punto di momento di ripresa del tempo della prescrizione in caso di annullamento della decisione e rinvio, individuato nella definitività della decisione.
Naturalmente si tratta di questioni problematiche alle quali non è escluso che possano essere proposte adeguate soluzioni interpretative, atte a superare comunque non tutte le criticità segnalate.
Forse meno improvvisazione sarebbe stata opportuna.
Ergastolo ostativo: rispettare la Convenzione, la Costituzione e le sentenze delle Corti
di Ignazio Juan Patrone
del Comitato scientifico dell’Associazione Antigone Onlus [1]
Sommario: 1. Ergastolo, ostativo e non: di cosa parliamo? - 2. Prima venne la Corte Europea… - 3. …poi arrivò la sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale sul permesso premio… - 4. …è quindi arrivata l’ordinanza n. 97 del 2021 della Corte costituzionale sulla liberazione condizionale - 5. …e la parola è passata ora al legislatore.
1. Ergastolo, ostativo e non: di cosa parliamo?
A partire dalla fine del 2015, una volta finiti gli effetti della sentenza Torregiani della CEDU e dei provvedimenti assunti per tamponare il fenomeno del sovraffollamento carcerario, in Italia la popolazione detenuta è cresciuta costantemente, ciò in assenza di una parallela crescita della criminalità, anche grave, che al contrario, secondo i dati del Ministero dell’interno è in costante diminuzione così come il dato degli stessi nuovi ingressi in carcere .
Se guardiamo ad un arco di tempo più ampio, vediamo che al 31 dicembre 2005 le persone detenute cui era stata inflitta una pena superiore ai 10 anni di carcere erano il 23,3% dei detenuti con una condanna definitiva. Alla fine del 2019 tale percentuale è salita al 26,9% e, secondo i dati del Garante nazionale, esse erano 8.929 al 24 giugno 2021.
Un aumento ancora maggiore si è avuto nelle condanne alla pena dell’ergastolo. La percentuale dei “fine pena: mai”, rispetto al totale dei detenuti condannati, è salita dal 3,3% al 4,3%. In numero assoluto, nel 2003 gli ergastolani avevano superato di poco il migliaio di unità, arrivando a 1.068, nel 2004 erano 1.161, nel 2009 erano 1.224, aumentati nel 2014 a 1.604 per arrivare nel giugno 2021 addirittura a 1.780 condannati alla pena perpetua , un numero presumibilmente destinato a salire per la recente riforma del rito abbreviato introdotta dall'art. 1, comma 1, lett. a), della legge 12 aprile 2019, n. 33, che ha escluso per i reati commessi dalla data della sua entrata in vigore (20 aprile 2019) l'applicabilità della riduzione di pena prevista da tale rito ai delitti puniti con l’ergastolo (art. 438 co. 1 bis c.p.p.).
Va al contrario rilevato che è costante, nello stesso arco di tempo, la linea tendenziale del calo della grave criminalità in Italia che indica – secondo le statistiche dell'Istat e del Ministero dell’interno, una progressiva riduzione nel numero dei reati, a partire dal delitto di omicidio volontario, il reato per il quale più frequentemente viene irrogata la pena perpetua: gli omicidi dolosi sono stati 1.773 nel 1990, 746 nel 2000 e 318 nel 2019, una diminuzione assoluta e percentuale impressionante: quindi, mentre il tasso di omicidi è diminuito le condanne alla pena perpetua sono aumentate in modo assai rilevante.
Gli ergastolani in regime ostativo sono oggi circa il 70% del totale dei condannati alla pena perpetua: parliamo infatti, secondo i dati dell’ultimo Rapporto annuale al Parlamento del Garante nazionale che sono riferiti al 28 aprile 2020, di 1.259 detenuti che stanno scontando una pena che – salve le ipotesi di cui all’art. 58-ter OP - non presenta possibilità di reintegrazione sociale, a fronte di un numero totale alla stessa data di 1.779 ergastolani: è un numero che dovrebbe far riflettere in quanto dimostrativo del fatto che l’ergastolo, e in particolare quello scontato in regime ex art. 4-bis OP, non è sicuramente una pena in disuso né di marginale applicazione, anzi se ne va allargando il campo di applicazione. Una conseguenza di ciò è l’aumento del numero dei decessi di ergastolani in carcere (11 nel 2020) e dell’età media dei detenuti, tra i quali le persone con 70 anni e più erano 350 nel 2005 e 851 nel 2020 secondo i dati elaborati dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.
2. Prima venne la Corte Europea…
La Corte Europea, nella causa Marcello Viola Italia (n. 2) (ricorso n. 77633/16), sentenza del 13 giugno 2019, non avrebbe potuto essere più chiara: l’ergastolo ostativo ex art. 4-bis OP, nella parte in cui stabilisce una presunzione assoluta di permanente pericolosità per l’ergastolano non collaborante, non è compatibile con la Convenzione Europea per la violazione dell’art. 3: la violazione assume in Italia carattere strutturale: il legislatore deve intervenire se vuole evitare condanne in serie [2].
Non sembra che nel dibattito sviluppatosi dopo la sentenza Viola - e dopo l’ordinanza della Corte costituzionale n. 97 del 2021 - lo specifico aspetto della violazione “strutturale” della Convenzione, con tutte le sue potenziali conseguenze, sia stato tenuto nel debito conto.
Come purtroppo è noto, il nostro Paese ha già dovuto risolvere problemi nascenti da sentenze della Corte di Strasburgo e da questa qualificati come strutturali: mi limito a ricordare Bottazzi c. Italia, (ricorso n. 34884/97) del 28 luglio 1999, Grande Chambre, che diede l’avvio alla nota giurisprudenza seriale in tema di irragionevole durata dei nostri processi e ci costrinse alla introduzione del rimedio rappresentato dalla legge Pinto; ed ancora, in tema di sovraffollamento carcerario e di modalità inumane di esecuzione delle pene, la sentenza Torreggiani c. Italia dell'8 gennaio 2013, che ci costrinse ad approntare in tutta fretta misure atte a diminuire il numero delle persone ristrette in carcere. In tutti questi casi l’accertamento da parte della Corte di un problema seriale o strutturale ha comportato oneri economici, discussioni infinite, interventi tardivi ed accumulo di casi davanti alla Corte europea ed alle giurisdizioni nazionali. Ciò senza voler considerare un effetto, a volte latente, dato dalla perdita di prestigio del sistema di giustizia che tali violazioni seriali comportano agli occhi dei nostri Partners, con conseguenze, specie in materia di cooperazione penale, che riguardano l’affidabilità dei provvedimenti nazionali, le eccezioni delle difese in materia di mandato di arresto europeo, il grado di preventiva fiducia da parte delle autorità nazionali. Sarebbe meglio perciò evitare il ripetersi di simili situazioni.
La sentenza Viola non è stata un fulmine a ciel sereno: essa si è inserita perfettamente in una lunga serie di pronunce di contenuto analogo, riguardanti diversi Stati membri del Consiglio d’Europa, tutte ampiamente citate nella motivazione . Si tratta dunque di una giurisprudenza consolidata, come tale meritevole di considerazione nel diritto interno anche ai sensi dell’art. 117 Cost. Ci dobbiamo perciò domandare se una legge che, pur accogliendo l'invito del Giudice di Strasburgo, limitasse in concreto l'accesso effettivo ai benefici, ad esempio aumentando la durata della pena da scontare prima di poter presentare l'istanza, ovvero ponendo a carico del condannato oneri probatori estremamente difficili se non impossibili da adempiere, non ci esporrebbe ad una nuova serie di ricorsi e probabilmente di condanne, con tutto ciò che ne deriverebbe in termini di disfunzioni e di perdita di credibilità del nostro sistema penale.
3. …poi arrivò la sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale sul permesso premio…
La sentenza n. 253 del 2019 della Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354, nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all’art. 416-bis del codice penale possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti; ed ha dichiarato in via consequenziale l’illegittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti ivi contemplati, diversi da quelli di cui all’art. 416-bis cod. pen. possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter del medesimo OP.
La decisione è una delle più commentate (ed importanti) nei tempi recenti (sul sito giurcost.org si contano, alla data di pubblicazione di questa nota, ben tredici commenti di autorevoli costituzionalisti e penalisti) e chi scrive non ha né le capacità né l’intenzione di aggiungere qualcosa di nuovo e di utile in proposito. Ai modesti fini del presente scritto importa però rilevare che nella sentenza è chiaramente detto che la presunzione assoluta di perdurante pericolosità del condannato in mancanza di collaborazione viola gli arti. 3 e 27 della Costituzione, in quanto contraria ai principi di ragionevolezza, di proporzionalità della pena e della sua tendenziale funzione rieducativa, dovendo le esigenze sottese alla prevenzione dei delitti di criminalità organizzata e di terrorismo essere soddisfatte attraverso “l’acquisizione di stringenti informazioni in merito all’eventuale attualità di collegamenti con la criminalità organizzata (a partire da quelli di natura economico-patrimoniale)”. L'incostituzionalità del vigente regime ostativo era già stata dichiarata nel 2019 e, dopo quella del permesso premio, era inevitabile che sarebbe arrivata presto o tardi la questione della liberazione condizionale.
4. …è quindi arrivata l’ordinanza n. 97 del 2021 della Corte costituzionale sulla liberazione condizionale
Anche questo provvedimento ha dato luogo ad una lunga serie di commenti, sia sotto il profilo dell’aderenza dello stesso ai compiti assegnati dalla Costituzione alla Corte, sia nel merito del decisum della Corte. Ci asterremo perciò anche qui dall’aggiungere un nostro parere, salvo precisare, ai fini che interessano, che a nostro avviso:
- L’incostituzionalità della vigente disciplina dell’ergastolo ex art. 4-bis O.P., ostativa alla concessione dei benefici salvo collaborazione, è già stata dichiarata sia dalla citata sentenza n. 253 del 2019 che dall'ordinanza n. 97 del 2021 e sul punto non si potrà tornare:
- Il legislatore, che già era in mora a seguito della sentenza Viola c. Italia, ora ha un termine perentorio per adempiere, il 10 maggio 2022:
- la futura disciplina dovrà necessariamente avere un contenuto vincolato all’adempimento di quanto è stato deciso dalla Corte Europea e dalla Corte costituzionale:
Mentre un mancato intervento normativo avrà la conseguenza di condurre inevitabilmente alla dichiarazione di incostituzionalità della disciplina vigente, con conseguente effetto anche sui ricorsi pendenti a Strasburgo, non è del tutto chiaro cosa accadrebbe qualora le due Corti dovessero riscontare, ciascuna nell’ambito delle propria competenza, che le disposizioni che verranno introdotte non adempiono (o non adempiono pienamente) a quanto deciso: ma mentre la Corte Europea, presumibilmente, in applicazione dei principi sottesi alla sua giurisprudenza per le violazioni strutturali, non farebbe altro che condannare l’Italia (quasi) automaticamente nel caso di ricorsi di persone che scontano l’ergastolo e che non sono collaboranti, la Corte costituzionale sembra essersi assegnata un compito ulteriore, quello di “verificare ex post la conformità a Costituzione delle decisioni effettivamente assunte (ordinanze n. 132 del 2020 e n. 207 del 2018)” (n. 11 del Considerato in diritto): un inciso questo che, salvo errore, non era contenuto nelle due ordinanze di incostituzionalità differita citate. Si profila perciò un possibile scrutinio di legittimità costituzionale sollevato dalla Corte davanti a se stessa, ciò che in questi termini forse sarebbe un inedito.
5. …e la parola è passata ora al legislatore
Afferma la Corte costituzionale nell'ordinanza n. 97 che “anche nel presente caso, ed anzi in questo a maggior ragione, la presunzione di pericolosità sociale del condannato all’ergastolo che non collabora, per quanto non più assoluta, può risultare superabile non certo in virtù della sola regolare condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso rieducativo, e nemmeno in ragione di una soltanto dichiarata dissociazione. A fortiori, per l’accesso alla liberazione condizionale di un ergastolano (non collaborante) per delitti collegati alla criminalità organizzata, e per la connessa valutazione del suo sicuro ravvedimento, sarà quindi necessaria l’acquisizione di altri, congrui e specifici elementi, tali da escludere, sia l’attualità di suoi collegamenti con la criminalità organizzata, sia il rischio del loro futuro ripristino“.
La Corte costituzionale ha poi affermato a chiare lettere anche che “spetta in primo luogo al legislatore ricercare il punto di equilibrio tra i diversi argomenti in campo, anche alla luce delle ragioni di incompatibilità con la Costituzione attualmente esibite dalla normativa censurata”: equilibrio tra argomenti in campo che, senza poter essere qui troppo analitici, discendono sia dalle disarmonie createsi tra le diverse misure premiali dopo la sentenza della Corte n. 253 del 2019, che ha dichiarato incostituzionale il divieto di concedere per i delitti di cui all'art. 4-bis i permessi premio, sia soprattutto dal fatto che l'art. 4-bis è diventato ormai un contenitore di delitti dal legislatore ritenuti tutti tanto gravi da meritare un regime penitenziario differenziato, ma che risulta privo di qualsiasi coerenza sotto entrambi i profili di politica criminale e di politica penitenziaria, visto che comprende reati di criminalità organizzata e terrorismo insieme a reati contro la pubblica amministrazione, reati contro la libertà sessuale ed altri ancora.
La disciplina che verrà introdotta dovrà essere perciò rispettosa delle pronunce delle due Corti, nel senso che dovrà regolare l’acquisizione dei “congrui e specifici elementi” che escludano i collegamenti, senza rendere però eccessivamente difficile l'esercizio del diritto sino a renderlo illusorio. Il passaggio certamente più delicato concerne dunque le modalità con le quali, in concreto, potrà essere regolato il superamento della presunzione di pericolosità, che da assoluta dovrà diventare relativa. Un aggravio probatorio che venga posto a carico del richiedente che giunga sino a chiedergli di provare il fatto negativo della mancanza di collegamenti con la criminalità organizzata, renderebbe solo nominale la modifica della presunzione di pericolosità, senza contare che la prova negativa di un fatto non può mai essere richiesta, incombendo semmai all'autorità provare la mancanza dei requisiti richiesti per accedere ad un beneficio. Una soluzione che non tenesse conto di queste basilari regole di diritto esporrebbe la nuova disciplina ad un nuovo giudizio di costituzionalità ed aprirebbe la strada ad ulteriori ricorsi alla CtEDU, il che sarebbe assolutamente da evitare.
Sono in discussione alla Commissione giustizia della Camera tre proposte di legge, ora unificate in un testo base, che, esaminate nel loro complesso, sembrano più orientate a salvaguardare le ragioni che hanno fondato il regime speciale originario di cui all'art. 4-bis dell'OP piuttosto che alla considerazione delle chiare e vincolanti indicazioni provenienti dalle due Corti.
Il testo base contiene in qualche passaggio una riscrittura addirittura peggiorativa della disciplina vigente ovvero poco comprensibile, mentre altri punti appaiono meritevoli di positiva considerazione.
Anzitutto nel testo del comma 1-bis si vorrebbe far scomparire la disciplina delle situazioni di collaborazione impossibile e inesigibile che verrebbero dunque assimilate alla collaborazione possibile ma non prestata. Qui occorre ricordare che la disciplina vigente – che è il frutto di due interventi della Corte costituzionale – si attaglia a situazioni che continuerebbero ad esistere e che paiono meritevoli di specifica considerazione perché le differenze tra chi non può collaborare e chi non vuole collaborare sono sotto ogni riguardo significative. Il risultato è un non necessario ed ingiustificato aggravamento delle condizioni del condannato che non possa collaborare in modo.
Viene escluso ogni riferimento all'obbligo di indicare le ragioni della mancata collaborazione, soluzione che si condivide nella misura in cui tale indicazione rappresentava una condizione necessaria per l’accesso ai benefici, anziché un possibile elemento valutativo come indicato dalla stessa Corte costituzionale: far dipendere la concessione del beneficio dalla esternazione delle ragioni del silenzio significherebbe far rientrare dalla finestra la collaborazione necessaria, in quanto è chiaro che tutte le ragioni che si fondano sul timore di ritorsioni a carico proprio o dei familiari, ovvero sulla volontà di non autoincriminarsi per ulteriori delitti, non possono essere esplicitate a meno che non si chieda di dire proprio ciò che il detenuto ha scelto di non rivelare per non mettere in pericolo sé stesso o il suo nucleo familiare.
Per come è scritto, l’onere a carico del condannato quanto alla “specifica” allegazione di “congrui, specifici elementi concreti”, che consentano di escludere con certezza l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata assomiglia molto ad un inammissibile onere di prova negativa: poco chiari sono i riferimenti al “contesto nel quale il reato è stato commesso”, alle “circostanze personali e ambientali”, espressioni che sembrano voler indicare una sorta di sospetto a vita, anche dopo molti anni trascorsi in carcere, a carico del condannato, creando quasi un inammissibile “tipo d'autore”; espressioni troppo vaghe e poco tecniche lascerebbero il campo ad interpretazioni le più varie da parte degli uffici di sorveglianza, ciò che invece nella delicata materia andrebbe in ogni modo evitato.
Va visto con favore l'abbandono, nel testo base oggi in discussione, della proposta sulla competenza unica nazionale in capo al Tribunale di sorveglianza di Roma, che diventerebbe così il giudice unico della pena per i reati più gravi di mafia essendo già competente per i provvedimenti di sottoposizione al regime di cui all'art. 41-bis e per i benefici per i collaboratori di giustizia. L'originaria proposta si giustificava con l'esigenza di avere interpretazioni il più possibile conformi da parte degli uffici di sorveglianza: essa però potrà essere garantita da un sistema di raccolta delle informazioni che sia massimamente razionale ed uniforme, ciò che nel testo non è: intanto non sembra del tutto logico che vengano acquisite informazioni per il tramite del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica non del luogo di detenzione, come è oggi, ma di quello del luogo ove ha sede il giudice che ha emesso la sentenza di primo grado, ciò perché la sentenza di primo grado ben potrebbe essere stata di assoluzione, la condotta criminale essersi manifestata in più luoghi collocati in diversi distretti: se si intende far riferimento al luogo (o ai luoghi) di commissione dei fatti oggetto di condanna sarebbe meglio scriverlo chiaramente.
Vi è una certa confusione nel ruolo degli uffici del PM chiamati ad esprimere pareri che, al tempo stesso, sembrerebbero autorizzati anche a formulare istanze istruttorie, atti questi che presuppongono la qualità di parte del procedimento e non quella di organo consultivo.
Del tutto ingiustificati ( ed anche poco razionali) appaiono i nuovi termini di espiazione della pena che si vorrebbero introdurre agli artt. 58-quater OP e 176 e 177 codice penale.
Le proposte modifiche sembrano infatti non tenere in alcun conto i più recenti orientamenti della Corte costituzionale, in particolare la sentenza n. 32 del 2020 la quale: a) ha dichiarato illegittime le disposizioni della legge cd spazzacorrotti nella parte le modificazioni introdotte all’art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 si applichino anche ai condannati che abbiano commesso il fatto anteriormente all’entrata in vigore della legge n. 3 del 2019, in riferimento alla disciplina delle misure alternative alla detenzione previste dal Titolo I, Capo VI, della legge n. 354 del 1975, della liberazione condizionale prevista dagli artt. 176 e 177 del codice penale e del divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione previsto dall’art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale; b) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6, lettera b), della legge n. 3 del 2019, nella parte in cui non prevede che il beneficio del permesso premio possa essere concesso ai condannati che, prima dell’entrata in vigore della medesima legge, abbiano già raggiunto, in concreto, un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio stesso. Cisò in quanto, come ha scritto la Corte, “allorché la normativa sopravvenuta non comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato, bensì una trasformazione della natura della pena, e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato… In tal caso, infatti, la successione normativa determina, a ogni effetto pratico, l’applicazione di una pena che è sostanzialmente un aliud rispetto a quella stabilita al momento del fatto: con conseguente piena operatività delle rationes… che stanno alla base del divieto di applicazione retroattiva delle leggi che aggravano il trattamento sanzionatorio previsto per il reato”.
Ora, in base ai principi affermati dalla Corte, le modifiche che si vogliono introdurre quanto alla misura delle pene da scontare prima di accedere ai benefici, o vengono applicate ai reati commessi dopo l'entrata in vigore della nuova legge, o ricadrebbero in una inevitabile incostituzionalità. Come ricorda la Corte costituzionale in motivazione, disposizioni come quelle che si vorrebbero introdurre rischiano anche di venire censurate anche dalla CtEDU la quale “ha ribadito che, in linea di principio, le modifiche alle norme sull’esecuzione della pena non sono soggette al divieto di applicazione retroattiva di cui all’art. 7 CEDU, eccezion fatta – però – per quelle che determinino una «ridefinizione o modificazione della portata applicativa della “pena” imposta dal giudice». Altrimenti, ha osservato la Corte, «gli Stati resterebbero liberi – ad esempio modificando la legge o reinterpretando i regolamenti esistenti – di adottare misure che retroattivamente ridefiniscano la portata della pena imposta, in senso sfavorevole per l’interessato. Ove il divieto di retroattività non operasse in tali ipotesi – conclude la Corte – l’art. 7 CEDU verrebbe privato di ogni effetto utile per i condannati, nei cui confronti la portata delle pene inflitte potrebbe essere liberamente inasprita successivamente alla commissione del fatto (Corte EDU, Grande Camera, sentenza 21 ottobre 2013, Del Rio Prada contro Spagna, paragrafo 89).
[1] La presente nota riproduce, in parte, il contenuto delle Osservazioni depositate da Antigone Onlus quale amicus curiae nel giudizio davanti alla Corte costituzionale che ha portato alla pronuncia dell'ordinanza n. 97 del 2021, e di una memoria inviata ai deputati componenti la Commissione giustizia della Camera in occasione della discussione dei progetti di legge oggi unificati nel testo base di cui si dirà in prosieguo. Ovviamente la responsabilità di questo testo è solo di chi scrive.
[2] La motivazione della Corte è di limpida chiarezza: “141. La presente causa mette in luce un problema strutturale che fa sì che un certo numero di ricorsi sono attualmente pendenti dinanzi alla Corte. In prospettiva, essa potrebbe dare luogo alla presentazione di molti altri ricorsi relativi alla stessa problematica. 142. La Corte ribadisce che la presunzione inconfutabile di pericolosità, prevista in materia di ergastolo per i reati di cui all’articolo 4 bis della legge sull’ordinamento penitenziario, derivante dall’assenza di collaborazione con la giustizia, rischia di privare i condannati per tali reati di qualsiasi prospettiva di liberazione e della possibilità di ottenere un riesame della pena. 143. La natura della violazione riscontrata dal punto di vista dell’articolo 3 della Convenzione indica che lo Stato deve mettere a punto, preferibilmente su iniziativa legislativa, una riforma del regime della reclusione a vita che garantisca la possibilità di un riesame della pena, il che permetterebbe alle autorità di determinare se, durante l’esecuzione di quest’ultima, il detenuto si sia talmente evoluto e abbia fatto progressi tali verso la propria correzione che nessun motivo legittimo in ordine alla pena giustifichi più il suo mantenimento in detenzione, e al condannato di beneficiare così del diritto di sapere ciò che deve fare perché la sua liberazione sia presa in considerazione e quali siano le condizioni applicabili. La Corte considera, pur ammettendo che lo Stato possa pretendere la dimostrazione della «dissociazione» dall’ambiente mafioso, che tale rottura possa esprimersi anche in modo diverso dalla collaborazione con la giustizia e l’automatismo legislativo attualmente vigente. 144. …la possibilità di riesame della reclusione perpetua implica la possibilità per il condannato di chiedere una liberazione, ma non di ottenere necessariamente la scarcerazione se continua a costituire un pericolo per la società.”
Brevi riflessioni critiche sulle modifiche all’articolo 4 bis della legge 26 luglio 1975 numero 354, proposte nel testo unificato derivante dalle proposte di legge C. 1951, 3106 e 3184 in discussione presso la Camera dei Deputati
di Giovanni Di Leo
1. Il nuovo testo della norma in corso di discussione alla camera dei deputati, è frutto della fusione di tre diversi disegni di legge presentati dai vari schieramenti, e presenta una serie di interventi sul testo del vigente articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario.
Scopo della riforma è, secondo i promotori, rispettivamente:
- (Proposta Bruno Bossio) …..la revisione della preclusione assoluta all’accesso ai benefìci penitenziari da parte dei soggetti autori di reati di cui all’articolo 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354, recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, per il solo fatto della loro mancata « collaborazione » con la giustizia ai sensi dell’articolo 58-ter della medesima legge. In particolare, la presente proposta di legge, con le modifiche apportate, permetterà il superamento del regime costituito dal cosiddetto « ergastolo ostativo », una figura di creazione dottrinale, e a trasformare l’attuale presunzione di non rieducatività in assenza di collaborazione da assoluta in relativa, riducendo così la pena dell’ergastolo prevista dall’articolo 22 del codice penale, che già di per sé pone seri problemi di costituzionalità sotto due profili: il principio rieducativo e il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, entrambi sanciti dal terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione, quest’ultimo ribadito anche dall’articolo 3 della Convenzione europea per la salva-guardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva dalla legge n. 848 del 1955, norma avente rango sub-costituzionale per effetto dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione.
- (Proposta Ferraresi ed altri) la necessità di un intervento correttivo mediante cui il legislatore introduca adeguati criteri e princìpi per concedere o negare i permessi premio e ogni altro tipo di beneficio ai condannati per reati legati alla criminalità organizzata cui si applicava il regime « ostativo », disciplinando la discrezionalità dei giudici di sorveglianza per quanto riguarda il percorso rieducativo, il risarcimento del danno e i collegamenti con la criminalità organizzata… L’obiettivo della presente proposta di legge è, inoltre, quello di garantire l’uniformità delle decisioni a livello nazionale per quanto concerne i giudizi riguardanti i detenuti o gli internati sottoposti al regime previsto dall’articolo 41-bis, comma 2, della legge n. 354 del 1975, per i delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza, nonché per i delitti di cui all’articolo 416-bis del codice penale o commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di age-volare l’attività delle associazioni in esso previste, assicurando, nel contempo, una maggiore tutela ai soggetti che dovranno prendere queste delicate decisioni. La presente proposta di legge, inoltre, è volta a introdurre modifiche alla legislazione vigente che impediscano ai responsabili di reati molto gravi – in conseguenza dei quali sono stati condannati a pene tanto rigide – di ottenere permessi e altri benefìci senza meritarli e con gravi pericoli per la collettività. Per i motivi esposti e tenuto conto della citata ordinanza della Corte costituzionale, che ha rinviato a maggio 2022 la tratta-zione sul tema, dando al legislatore il tempo necessario per intervenire, si auspicano una forte convergenza da parte delle forze politiche parlamentari e un celere esame della presente proposta di legge, che si compone di cinque articoli…..
- (Proposta DELMASTRO ed altri) L’ordinanza della Corte costituzionale n. 97 dell’11 maggio 2021 ha segnato un « punto di non ritorno » in merito alla compatibilità della disciplina relativa all’ergastolo cosiddetto « ostativo » con gli articoli 3, 27, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione……Tale pronuncia si pone al culmine di un processo di lenta, ma inarrestabile erosione della normativa speciale per contrastare la criminalità organizzata fondato sulla giurisprudenza costituzionale sviluppatasi sulla disciplina ostativa, per oltre venticinque anni, a partire dalla sentenza della Corte costituzionale n. 306 dell’8 luglio 1993 fino alla sentenza della stessa Corte n. 253 del 4 dicembre 2019. ………è urgente e improcrastinabile un intervento del legislatore, peraltro sollecitato dalla stessa Corte costituzionale, al fine di intervenire sulla normativa introdotta nel periodo più difficile della lotta allo sciagurato fenomeno mafioso. La presente proposta di legge si pone l’obiettivo di salvaguardare, pur nel rispetto delle indicazioni della Corte, le esigenze social-preventive nei confronti della criminalità organizzata e di difesa sociale e di scongiurare che il percorso di frontale contrasto della criminalità organizzata venga disarticolato a causa di mal interpretati e mal metabolizzati princìpi relativi alla funzione rieducativa della pena. Attualmente, per le condanne inflitte a seguito dei delitti elencati al citato comma 1 dell’articolo 4-bis della legge n. 354 del 1975, i benefìci della liberazione condizionale e della retrocessione dell’ergastolo sono ammessi solo nei casi di collaborazione con la giustizia o di accertata impossibilità o inesigibilità della collaborazione mede-sima. Con la citata ordinanza del 2021, la Corte costituzionale, a seguito di una sua precedente pronuncia sul punto della compatibilità dell’ergastolo ostativo con la finalità rieducativa della pena, ha sollecitato il legislatore a intervenire per rimuovere i profili di criticità evidenziati e che si porrebbero in contrasto con la funzione rieducativa della pena, contemperando il regime generale applicabile ai condannati per delitti connessi alla criminalità organizzata con la possibilità per il tribunale di sorveglianza di adottare decisioni personalizzate alla presenza di determinate condizioni. La Corte costituzionale, evitando un intervento meramente demolitorio che non solo avrebbe avuto chiari effetti disarmonici sul complessivo equilibrio della speciale disciplina, ma che avrebbe anche compromesso le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva, ha sollecitato il Parlamento a modificare la disciplina dell’ergastolo ostativo. È necessario, dunque, intervenire tempestivamente perché la funzione rieducativa della pena venga mantenuta in equilibrio costituzionale con altre funzioni della pena che, nel caso del contrasto della criminalità organizzata, hanno un valore certamente fondamentale e soprattutto che si circoscriva con precisione il perimetro all’interno del quale si possa ritenere maturato un serio, genuino, sincero, metabolizzato e convinto percorso di reinserimento nella società, previo abbandono della mentalità, degli agiti e delle frequentazioni criminali e associative. La Corte costituzionale ha censurato la presunzione assoluta di perdurante pericolosità a carico del soggetto condannato all’ergastolo non collaborante. La vischiosità dei fenomeni criminali associativi induce a ritenere che la meritevolezza di qualsiasi beneficio debba essere decisamente soppesata, soprattutto in assenza di collaborazione, e, in ogni caso, che l’onere probatorio debba essere posto in capo al detenuto. La finalità rieducativa della pena deve essere contemperata con le esigenze di sicurezza della collettività e con le esigenze social-preventive: solo una fondata e argomentata prognosi in ordine alla non reiterazione del reato e alla rescissione di ogni collegamento con ambienti criminosi, con onere probatorio a carico del detenuto, può consentire una positiva valutazione relativa alla non attualità della pericolosità sociale che giustifica l’ammissione ai benefìci. La presente proposta di legge si com-pone di due articoli e intende contemperare i contrapposti valori di preminente rilievo costituzionale dell’esigenza di difesa sociale e della finalità rieducativa della pena.
Si è scelto di riportare i termini iniziali delle relative relazioni illustrative dei singoli disegni di legge per dare conto della diversità in alcuni casi profonda delle “sensibilità” politiche sul tema. Complessivamente, tuttavia, le diverse proposte partono dalla presa d’atto della crisi “costituzionale” dell’attuale assetto normativo vigente in tema di misure alternative alla detenzione, benefici penitenziari e permessi premio, ponendo, ciascuna, l’accento maggiormente su l’una o l’altra delle esigenze che rendono necessaria la riforma. Sia essa la riconduzione a compatibilità costituzionale della pena dell’ergastolo per i detenuti per reati “di prima fascia” (per la definizione si veda la estesa giurisprudenza costituzionale sull’art. 4 bis O.P.), o la piena estrinsecazione della finalità rieducativa della pena, o le perduranti esigenze di sicurezza connesse alla richiesta “meritevolezza” di tali benefici, tutte le riforme finiscono con il richiedere l’abbandono dell’automatismo impeditivo sorto, come rilevato nella proposta di legge a firma dell’on.le Ferraresi, anche a tutela della magistratura di sorveglianza, per i condannati che non collaborano con la giustizia ai sensi dell’art. 58 ter O.P., e con il ricercare elementi alternativi che consentano al decisore di rilevare eventuali elementi di attuale collegamento con le organizzazioni criminali di provenienza e di porre nel nulla un giudizio di non perdurante pericolosità sociale del detenuto. In sintesi, è necessario l’abbandono di ogni presunzione legale, così come richiesto già dalla sentenza n. 253 del 2019 della Corte Costituzionale in tema di permessi premio, disciplinati dall’art. 30 ter O.P., l’elaborazione di criteri concreti da porre in sede di verifica dei presupposti nelle mani di giudici pienamente liberi di esercitare il loro discrezionale giudizio nel caso concreto.
Il testo in ultimo concordato tra le forze politiche, e le ulteriori necessarie modifiche ad alcune norme dell’ordinamento penitenziario, nello sforzo di adeguarsi al decisum della Corte Costituzionale n. 97/21 che, nella sostanza, preannuncia una declaratoria d’illegittimità costituzionale del regime in atto vigente, in caso di mancata modifica dell’attuale assetto normativo, non sembra, tuttavia, raggiungere lo scopo.
2. Com’è noto, il divieto di concessione dei benefici previsti dagli articoli 47 e seguenti dell’ordinamento penitenziario, nonché ai sensi dell’art. 2 del D.L. 152/91 della liberazione condizionale prevista dal codice penale, ai detenuti per taluni reati di particolare gravità ed efferatezza, previsti dal comma 1 dell’art. 4 bis O.P., di cui si presumeva ex lege la pericolosità “perdurante” anche in regime di detenzione speciale, era fondato, da un lato, su un’analisi delle caratteristiche criminologiche intrinseche dei detenuti per tali delitti, legati ad organizzazioni criminali immanenti e radicate nel territorio, come nella sub-cultura criminale di appartenenza, e dall’altro dalla necessità di opporre uno scudo alle pressioni che venivano di fatto esercitate sull’ultimo settore dell’ordinamento penale, quello della esecuzione in concreto delle pene, e cioè sulla Magistratura di sorveglianza e sugli operatori carcerari.
Vale la pena riportare la attenta ricostruzione del sorgere della disciplina in questione operata nella sentenza n. 253/2019 della Corte delle leggi: “Sono fin troppo note le ragioni di politica criminale che indussero il legislatore dapprima ad introdurre e poi a modificare, secondo una linea di progressivo inasprimento, l’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354» (sentenza n. 68 del 1995), riversando così tali ragioni all’interno dell’ordinamento penitenziario e dell’esecuzione della pena.
Nella prima versione – introdotta dall’art. 1 del d.l. n. 152 del 1991, come convertito – l’art. 4-bis ordin. penit. prevedeva due distinte “fasce” di condannati, a seconda della riconducibilità, più o meno diretta, dei titoli di reato a fatti di criminalità organizzata o eversiva.
Per i reati “di prima fascia” – comprendenti l’associazione di tipo mafioso, i relativi “delitti-satellite”, il sequestro di persona a scopo di estorsione e l’associazione finalizzata al narcotraffico – l’accesso a taluni benefici previsti dall’ordinamento penitenziario era possibile, alla stregua di un parametro probatorio particolarmente elevato, solo se fossero stati acquisiti «elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva».
Per i reati “di seconda fascia” (omicidio, rapina ed estorsione aggravate, nonché produzione e traffico di ingenti quantità di stupefacenti: «delitti, questi, per i quali le connessioni con la criminalità organizzata erano, nella valutazione del legislatore, meramente eventuali», come affermato nella sentenza n. 149 del 2018) si richiedeva – in termini inversi, dal punto di vista probatorio – l’insussistenza di elementi tali da far ritenere attuali detti collegamenti.
Accanto a questa distinzione di fondo, singole previsioni stabilivano, quale ulteriore requisito per l’ammissione a specifici benefici (tra i quali il permesso premio), che i condannati avessero espiato un periodo minimo di pena più elevato dell’ordinario, a meno che non si trattasse di persone che avevano collaborato con la giustizia, secondo la nuova previsione dell’art. 58-ter ordin. penit., che lo stesso d.l. n. 152 del 1991, come convertito, aveva introdotto nella legge penitenziaria del 1975.
In questa prima fase, dunque, il trattamento di maggior rigore per i condannati per reati di criminalità organizzata veniva realizzato su due piani, fra loro complementari. Come spiega la sentenza n. 68 del 1995: da un lato «si stabiliva, quale presupposto generale per l’applicabilità di alcuni istituti di favore, la necessità di accertare (alla stregua di una graduazione probatoria differenziata a seconda delle “fasce” di condannati) l’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva; dall’altro, si postulava, attraverso l’introduzione o l’innalzamento dei livelli minimi di pena già espiata, un requisito specifico per l’ammissione ai singoli benefici, fondato sulla necessità di verificare per un tempo più adeguato l’effettivo percorso di risocializzazione di quanti si fossero macchiati di delitti iscrivibili nell’area della criminalità organizzata o eversiva. Requisito, a sua volta, dal quale il legislatore riteneva di poter prescindere in tutti i casi in cui fosse lo stesso condannato ad offrire prova dell’intervenuto distacco dal circuito criminale attraverso la propria condotta collaborativa».
Subito dopo la strage di Capaci del 23 maggio 1992, si produce un evidente mutamento di prospettiva, nettamente ispirato «a finalità di prevenzione generale e di tutela della sicurezza collettiva» (sentenza n. 306 del 1993).
L’art. 15 del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356, apporta decisive modifiche all’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975. Per quel che più direttamente ora interessa, nei confronti dei condannati per i reati appartenenti alla prima “fascia”, si stabilisce che l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione, ad eccezione della liberazione anticipata, possono essere concessi solo nei casi di collaborazione con la giustizia (fatte salve alcune ipotesi per le quali i benefici sono applicabili anche se la collaborazione offerta risulti oggettivamente impossibile o irrilevante e sempre che sussistano, in questi casi, elementi tali da escludere in maniera certa l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata).
Restano sullo sfondo i diversi parametri probatori, alla cui stregua condurre l’accertamento circa la permanenza, nel condannato che aspira ai benefici penitenziari, di legami con la criminalità organizzata; e acquisisce invece risalto esclusivo una condotta, quella della collaborazione con la giustizia, assunta come la sola idonea a dimostrare, per facta concludentia, l’intervenuta rescissione di quei collegamenti. Ancora la sentenza n. 68 del 1995: si passa «da un sistema fondato su di un regime di prova rafforzata per accertare l’inesistenza di una condizione negativa (assenza dei collegamenti con la criminalità organizzata), ad un modello che introduce una preclusione per certi condannati, rimuovibile soltanto attraverso una condotta qualificata (la collaborazione)».
Come mette in luce la sentenza n. 239 del 2014, la nuova disciplina poggia insomma sulla presunzione legislativa che la commissione di determinati delitti dimostri l’appartenenza dell’autore alla criminalità organizzata, o il suo collegamento con la stessa, e costituisca, quindi, un indice di pericolosità sociale incompatibile con l’ammissione del condannato ai benefici penitenziari extramurari. La scelta di collaborare con la giustizia viene correlativamente assunta come la sola idonea a rimuovere l’ostacolo alla concessione dei benefici indicati, in ragione della sua valenza “rescissoria” del legame con il sodalizio criminale.”
È appena il caso di sottolineare che il censurato “automatismo ostativo” non fu introdotto nella originaria formulazione del testo normativo, ma nell’inasprimento dovuto alla strage del 23 maggio 1992. In precedenza come sopra evidenziato si era voluto ricercare una prova rafforzata della meritevolezza del beneficio carcerario, diversamente automatico nella sostanza, lasciando e ponendo nelle mani della magistratura di sorveglianza il potere discrezionale, che il giudice ucciso a Capaci, da Direttore Generale degli affari penali del Ministero allora della Grazia e Giustizia, non si era mai sognato di menomare.
La concessione della maggior parte di tali benefici, infatti, era ed è di competenza del Tribunale di Sorveglianza, composto anche da esperti non togati, che valutano detenuto e trattamento penitenziario, ma pretendere, allora come oggi, da parte di magistrati ed esperti che compongono tali organi, una forza d’animo ed uno spirito di servizio ancora maggiore dei loro colleghi inquirenti e giudicanti, che arrivavano in ufficio su macchine blindate e scortati sembrava, ed onestamente sembra ancora, impossibile ed ingiusto.
Donde l’alternativa dettata alla fine, dopo la strage di Capaci, dalle risorse in concreto disponibili: dotare tutti i giudici di sorveglianza dei ventisei distretti di misure di protezione analoghe a quelle assicurate, e non con esiti positivi come si era visto nel 1992 ed ancora prima, ai loro colleghi inquirenti e giudicanti di merito, o creare una sorta di scudo legale, l’impossibilità giuridica di concedere benefici penitenziari a tale tipologia specifica e limitata di detenuti, sulla base della presa d’atto della assoluta e straordinarietà pericolosità sociale del fenomeno criminale in sé e di coloro che vi prendono parte attiva commettendo delitti di tale efferatezza. Sappiamo per cosa si è optato.
La condizione ostativa alla concessione di tali benefici - spicca tra tali divieti ad esempio, ed è l’oggetto del caso concreto portato all’attenzione della Corte Costituzionale con la decisione n.253 del 2019, sulla scia della sentenza Viola contro Italia della Corte Europea per i Diritti dell’uomo, il divieto di concedere permessi premio, nonché, è il caso concreto oggi all’esame della Corte Costituzionale, la liberazione condizionale ai condannati all’ergastolo per reati di criminalità organizzata in mancanza di collaborazione con la giustizia - ha finora funzionato, di fatto precludendo ad un lungo elenco di soggetti detenuti per gravissimi delitti di criminalità organizzata, di riguadagnare la libertà non soltanto in caso di mancata collaborazione con la giustizia, ma in assenza di qualsivoglia segno concreto di resipiscenza, sulla base della mera formale partecipazione al trattamento rieducativo, ed al buon comportamento in carcere, che come è noto ai più, per il detenuto non è una facoltà, ma un dovere.
3. Il regime “ ostativo” è stato esteso a certe condizioni dalla cosiddetta legge “spazzacorrotti” n. 3 del 2019, anche ai condannati alcuni gravi reati contro la pubblica amministrazione, con la precisazione, derivante dalla decisione della Corte Costituzionale n. 32 del 2020, che la previsione non è applicabile a coloro che hanno commesso il fatto per cui è condanna anteriormente all’entrata in vigore della legge stessa.
Di particolare importanza sul punto è quanto affermato dalla pronuncia indicata a proposito di modifiche sostanziali del trattamento penale esecutivo, sin dal momento del comunicato stampa sulla pronuncia citata: “….secondo la costante interpretazione giurisprudenziale, le modifiche peggiorative della disciplina sulle misure alternative alla detenzione vengono applicate retroattivamente, e che questo principio è stato sinora seguito dalla giurisprudenza anche con riferimento alla legge n. 3 del 2019.
La Corte ha dichiarato che questa interpretazione è costituzionalmente illegittima con riferimento alle misure alternative alla detenzione, alla liberazione condizionale e al divieto di sospensione dell’ordine di carcerazione successivo alla sentenza di condanna.
Secondo la Corte, infatti, l’applicazione retroattiva di una disciplina che comporta una radicale trasformazione della natura della pena e della sua incidenza sulla libertà personale, rispetto a quella prevista al momento del reato, è incompatibile con il principio di legalità delle pene, sancito dall’articolo 25, secondo comma, della Costituzione".
Si ritiene, senza ipocrisie, che proprio questa normativa sia stata in sostanza la pietra dello scandalo che ha provocato nuove, ulteriori riflessioni sulla disciplina normativa scaturita in epoca emergenziale con lo scopo precipuo e dichiarato di tenere la magistratura di sorveglianza, categoria direttamente interessata dalla responsabilità delle decisioni in materia e conseguentemente esposta alla pressione “mafiosa”, al riparo da tali pressioni. Pressioni che tuttavia non sono ipotizzabili nel contesto dei nuovi reati via via sempre più accostati nell’art. 4 bis O.P. a quelli di “prima fascia”.
La successiva evoluzione normativa ha portato, infatti, nel tempo ad una progressiva estensione del divieto di concessione dei benefici indicati nel comma 1 dell’articolo 4 bis O.P. ad altre categorie di detenuti: per effetto dell’articolo 3 comma 1 lettera a) del Dl 23 febbraio 2009 n. 11 convertito con modificazioni nella legge 23 aprile 2009 n. 38, vennero sostituiti integralmente i commi da 1 a 1 quater dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario introducendo nella previsione della norma i condannati, a titolo esemplificativo per reati di omicidio, riduzione in schiavitù, spaccio di stupefacenti aggravato, associazione per delinquere allo scopo di commettere reati in materia di marchi contraffatti o i delitti previsti dal libro II titolo XII capo III sezione I del codice penale ( per una più agevole lettura si va dalla pedopornografia, alla riduzione in schiavitù terminando nel “caporalato”), così determinando un’estensione del trattamento “ duro” in tema di concessione di benefici ad una platea sempre più ampia di destinatari. Estensione non sempre giustificata dalla pericolosità dei detenuti per tali reati.
L’intervento del legislatore sul testo dell’articolo 4 bis è poi proseguito con la legge 1 ottobre 2012 n. 172 che, con l’articolo 7 comma 2, ha introdotto condizioni specifiche per la concessione dei benefici ai detenuti per una serie di delitti in materia di prostituzione e pornografia minorile, violenza sessuale ecc…., subordinandone la concessione alla positiva partecipazione a un programma di riabilitazione specifica, previsto dall’introdotto articolo 13 bis dell’ordinamento penitenziario. La norma si inquadra nella maggior attenzione del legislatore verso il problema derivante dalla commissione di reati in danno di minori.
Era, e purtroppo rimane, del tutto prevedibile, anche con il nuovo testo, che la progressiva estensione di un regime penitenziario speciale per i detenuti per delitti di particolare gravità ed efferatezza, ad altre categorie di detenuti per reati di matrice totalmente diversa, non meno importanti sotto il profilo mediatico sull’immaginario collettivo, ma certamente di non eguale pericolosità per l’ordine pubblico, profilo che aveva caratterizzato l’introduzione della norma speciale per i mafiosi, finisse e finisca con il determinare una incoerenza complessiva del sistema stesso, ponendo le basi delle questioni affrontate dall’ordinanza della Corte Costituzionale. Un regime speciale che diventa nella sostanza ordinario non può più definirsi speciale, e la sua “giustificabilità” costituzionale in relazione a forme di criminalità di particolare pericolosità per l’ordine pubblico, efferate e sanguinarie, è stata diluita con l’aumentare dei “beni giuridici” alla cui tutela viene esteso il regime speciale attraverso una ingiustificabile equiparazione dei “rei”.
Da questo fatto deriva l’incoerenza del sistema che ha dato luogo alle proposte di modifica che si passa brevemente ad esaminare.
4. Una prima notazione critica al disegno di modifica dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario può essere rivolta, per le ragioni in precedenza evidenziate, alla stessa tecnica normativa. Non si procede infatti, malgrado le premesse già insite nella precedente pronuncia del 2019 sulla compatibilità tra divieti e permesso premio a “riscrivere” l’intero testo dell’art. 4 bis O.P..
Seguendo, infatti, la stessa Corte Costituzionale, ben consapevole della estrema pericolosità e della possibile concreta ripresa delle attività criminali delle organizzazioni storiche, attualmente contenute attraverso la detenzione in regime di carcere duro dei principali esponenti, il legislatore non ha toccato, in teoria, il divieto generalmente previsto dal comma 1 dell’articolo 4 bis di concedere la misura dell’assegnazione al lavoro esterno, permessi premio delle misure alternative alla detenzione previste dal capo sesto, esclusa la liberazione anticipata, ai detenuti che non collaborano con la giustizia.
Si tratta, ad avviso di chi scrive, di un elemento significativo nel senso di un approccio parziale del legislatore al problema segnalato dalla Corte Costituzionale, nella cui decisione non mancano affermazioni, seppure non del tutto convinte, sulla necessità di non pregiudicare uno strumento fondamentale nell’azione di contrasto alla criminalità organizzata, quale la collaborazione con la giustizia.
Il legislatore, infatti, omette, con riferimento allo specifico problema della previsione dell’ergastolo nel nostro ordinamento di affrontare il problema, sebbene la censura che viene mossa in tema di non concedibilità della liberazione condizionale della pena, nella stessa decisione del giudice delle leggi, vi sia strettamente collegata. Anzi, sia proprio con riferimento a tale previsione che l’attuale sistema stride maggiormente.
Se, infatti, il nocciolo della questione affrontata dalla Corte Costituzionale era l’incompatibilità della pena dell’ergastolo effettivo, meglio così definito rispetto ad ostativo, con il principio costituzionale, della finalità rieducativa della pena, la soluzione prospettata a proposito della liberazione condizionale – previsione che, con l’efficacia di una foglia di fico, ha tenuto in piedi e nei parametri di costituzionalità l’istituto dell’ergastolo come “pena” prevista nel nostro ordinamento - non è stato e non è risolto dalla modifica di seguito proposta:
«1-bis. I benefìci di cui al comma 1 del presente articolo, al di fuori dei casi già espressamente esclusi dalla legge, possono essere concessi ai detenuti condannati alla pena dell’ergastolo per i delitti ivi previsti, anche in assenza di collaborazione con la giustizia ai sensi dell’articolo 58-ter o dell’art. 323 bis del codice penale purché oltre alla regolare condotta carceraria e alla partecipazione al percorso rieducativo, dimostrino l’integrale adempimento delle obbligazioni civili e delle riparazioni pecuniarie derivanti dal reato o l’assoluta impossibilità di tale adempimento nonchè, a seguito di specifica allegazione da parte del condannato, si accertino congrui e specifici elementi concreti, diversi e ulteriori rispetto alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza, che consentano di escludere con certezza l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, tenuto conto delle circostanze personali e ambientali.
Queste disposizioni si applicano anche ai detenuti o agli internati per taluno dei delitti indicati nel comma 1 del presente articolo ai fini della concessione dei permessi premio di cui all’articolo 30-ter, anche se non condannati alla pena dell’ergastolo».
Nel testo su riportato, infatti, sono state introdotte alcune clausole ed espressioni di difficile se non impossibile interpretazione e di concreta applicazione.
Anzitutto il nuovo articolo sembra riguardare soltanto i detenuti condannati all’ergastolo, che non abbiano collaborato con la giustizia “ai sensi dell’articolo 58 ter o dell’articolo 323 bis del codice penale”, ma quest’ultimo articolo prevede una circostanza attenuante ad effetto speciale per una serie di reati che non comportano l’ergastolo.
Ne deriva comunque che la possibilità di concessione dei benefici riguarda anche i detenuti condannati per reati contro la pubblica amministrazione? E tutti gli altri?
La norma così disegnata presenta già un primo problema interpretativo di compatibilità col principio di uguaglianza dei detenuti davanti alla legge.
Di difficile comprensione appare poi l’inciso “al di fuori dei casi già espressamente esclusi dalla legge”. Il comma 1 infatti, prevede l’esclusione della possibilità di concessione dei benefici per tutti i detenuti per reati compresi nel catalogo indicato dal comma in questione, senza la collaborazione con la giustizia. Si fa, al contrario, riferimento al dato oggettivo dell’esistenza di collegamenti con la criminalità organizzata o di stampo terroristico o eversivo? La previsione sarebbe allora pleonastica.
E allora?
Il comma 1 bis riformato prevede, quindi, una serie di possibili deroghe al divieto di cui al comma 1, ancorate a una serie di condizioni:
a) la dimostrazione dell’integrale adempimento delle obbligazioni civili e delle riparazioni pecuniarie dipendente dal reato, o, si badi bene, l’assoluta impossibilità di tale adempimento.
È del tutto evidente che, se il problema della modifica è posto da una ordinanza della Corte che preannuncia una incompatibilità della disciplina prevista in atto per gli ergastolani per reati di mafia con l’articolo 27 Cost, in relazione alla previsione dell’art. 2 del D.L. 152/91 che estende alla liberazione condizionale il divieto previsto dall’articolo 4 bis c.p., ed a parte i condannati per reati contro la p.a. per i quali non è previsto l’ergastolo, si tratta in genere di detenuti ristretti da più di 25 anni (il caso all’esame della corte riguarda la liberazione condizionale, il progettato intervento normativo si estende alla norma nella sua quasi totalità).
Alla maggior parte di tali detenuti, già formalmente nullatenenti all’epoca della condanna, è stato, verosimilmente, già sequestrato il patrimonio che è stato allora rinvenuto con conseguente confisca; da qui il buon gioco di tali detenuti ad allegare l’assoluta impossibilità di tale adempimento. Si tratta con ogni evidenza di una condizione “inutilmente” apposta alla concessione del beneficio, che non può portare ad alcuna concreta valutazione discrezionale del Tribunale di Sorveglianza, che non potrà ancorare un diniego ad un “sospetto” di capienza patrimoniale.
Un ulteriore e congiunta condizione apposta dal testo in discussione - il “nonché” adoperato nel testo non lascia margini di dubbio sulla necessaria ricorrenza di entrambe le condizioni - è quello che occorra:
b) la specifica allegazione da parte del condannato,….(di) elementi concreti, ulteriori e diversi, rispetto alla “mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza” che consentono di escludere con certezza l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica od eversiva, con il contesto nel quale reato è stato commesso, nonché - ulteriore condizione apposta legislatore e che deve ricorrere congiuntamente alle altre - il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, tenuto conto delle circostanze personali e ambientali.
Ebbene, malgrado la norma proposta parli di un onere di allegazione, conformemente alla giurisprudenza prevalente in materia di onere del condannato che insta per accedere ai benefici previsti dall’ordinamento, l’avere aggiunto l’avverbio “specificamente” e l’impersonale “si accertino”, ovviamente ad opera della magistratura di sorveglianza, riferito agli elementi concreti, ulteriori e diversi, si finisce con il porre a carico del medesimo detenuto un onere di indicazione di circostanze negative, la cui smentita finisce con l’essere affidata ad una mera valutazione discrezionale del giudice di merito, o per converso con il gravare il decisore di un compito non esattamente suo proprio.
Ciò che conta e che ne è riprova è la richiesta esclusione “con certezza” dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o terroristica od eversiva.
Chi mai potrà prendersi la responsabilità di un’affermazione di tal genere ed in questi termini, quando la stessa realtà di tali fattispecie criminali si fonda nella stragrande maggioranza dei casi, su elementi largamente indiziari apprezzabili in modo diverso dal singolo osservatore.
Quale “certezza” si potrà mai avere in siffatta materia, che non abbia la stessa attendibilità della “preveggenza” di Tiresia.
In fattispecie criminali quali quelle di cui ci si occupa con la previsione normativa in esame, la realtà di contesto, alla quale pure si fa riferimento, è tale, comunque la si pensi, da dare adito al sospetto e quasi mai alla certezza, intese come categorie gnoseologiche. Ed il sospetto è categoria del tutto incompatibile con il dovere decisorio proprio di chi è chiamato ad occuparsi di un bene come la libertà personale di un individuo, tenuto conto che, anche laddove vi fosse certezza dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, gli stessi elementi ben difficilmente potrebbero essere portati a conoscenza del Tribunale di Sorveglianza dai soggetti chiamati ad esplicitare un parere, senza per ciò stesso svelare le fonti di tale conoscenza, e quindi verosimilmente elementi di indagine non ancora noti.
Vero è che la libertà condizionale è sempre revocabile, come gli altri benefici di cui si discute, in caso di violazione delle prescrizioni apposte all’atto della concessione, ma quanto ciò sia compatibile con la necessaria tutela preventiva dell’ordine e della sicurezza pubblica appare di difficile conciliabilità con un “diritto alla liberazione condizionale” in assenza di dimostrate cause ostative.
Ne deriverà, inevitabilmente, un peso insopportabile in capo al decisore, che dovrà andare alla ricerca di elementi concreti e positivi, per smentire anche in termini di mera possibilità le allegazioni del soggetto istante, venendo in tal modo esposto ad una pressione, anche esterna, collegata alle stesse modalità di accertamento di tali elementi. E ciò anche quando la stessa istanza del condannato sia, sotto il profilo della mera allegazione delle circostanze, del tutto inammissibile (si veda per un caso recente Sent. Sez. 1 N. 33743 Anno 2021).
Sotto tale profilo, due ulteriori brevi considerazioni: per quanto il rito della sorveglianza attribuisca al collegio i medesimi poteri del giudice dell’esecuzione è indubitabile che lo stesso esercizio di tali poteri, a fronte delle allegazioni del detenuto, costituirà un fattore di rischio e di esposizione dei magistrati; la mancata considerazione da parte del legislatore di tale profilo va in senso diametralmente opposto alla ratio legis che portò, agli albori degli anni “90, alla introduzione dell’incondizionato divieto di concessione di benefici a ben delimitate categorie di detenuti.
Non sembra che tanto a livello della Corte Costituzionale, quanto a livello parlamentare, tale profilo sia stato oggetto di adeguata riflessione, anche se ne è cenno nella relazione della Proposta Ferraresi, cenno rimasto però non sviluppato.
5. Una ulteriore breve nota va rivolta alla previsione dell’aumento (art. 2 del testo unificato) della metà dei termini previsti nell’art. 58 quater dell’ordinamento penitenziario, per accedere ai benefici ed al richiamo dei termini indicati dalle norme sul lavoro all’esterno, ed alla semilibertà.
Una ulteriore previsione di aumento della pena in concreto espiata per accedere al beneficio della liberazione condizionale della pena è contenuta nell’art. 3 in relazione all’art. 176 comma 3 c.p..
Anche queste appaiono previsioni, in astratto praticabili, che tuttavia non tengono conto, come accennato sopra, della sentenza n. 32 del 2020 della Corte Costituzionale.
In esito ad una completa disamina dei precedenti di legittimità e costituzionali, e proprio partendo dalla considerazione che la stessa norma che nel 1991 introdusse limitazioni alla concessione dei benefici ai mafiosi, esplicitamente prevedeva che le stesse non fossero applicabili retroattivamente, e cioè a chi era già detenuto per fatti pregressi, la Corte ha infatti, stabilito in relazione alla concreta possibilità di concessione di misure alternative alla detenzione che “…Si tratta di «misure di natura sostanziale che incidono sulla qualità e quantità della pena […] e che per ciò stesso modificano il grado di privazione della libertà personale imposto al detenuto» (sentenza n. 349 del 1993), finendo anzi per costituire delle vere e proprie “pene” alternative alla detenzione (ordinanza n. 327 del 1989) disposte dal tribunale di sorveglianza, e caratterizzate non solo da una portata limitativa della libertà personale del condannato assai più contenuta, ma anche da un’accentuata vocazione rieducativa, che si esplica in forme del tutto diverse rispetto a quella che pure connota la pena detentiva.
Ciò è stato anche di recente ribadito da questa Corte con riferimento sia all’affidamento in prova al servizio sociale per i condannati adulti, definito quale «strumento di espiazione della pena, alternativo rispetto alla detenzione: uno strumento, certo, meno afflittivo rispetto al carcere, ma egualmente connotato in senso sanzionatorio rispetto al reato commesso, tanto che l’esito positivo dell’affidamento in prova estingue la pena detentiva e ogni altro effetto penale (art. 47, comma 12, ordin. penit.)» (sentenza n. 68 del 2019); sia alla detenzione domiciliare, che costituisce anch’essa «“non una misura alternativa alla pena”, ma una pena “alternativa alla detenzione”», caratterizzata da prescrizioni meramente «limitative della libertà, sotto la vigilanza del magistrato di sorveglianza e con l’intervento del servizio sociale» (sentenza n. 99 del 2019, con richiamo alla già citata ordinanza n. 327 del 1989).
Tali considerazioni valgono anche rispetto alla semilibertà, ove l’obbligo di trascorrere una parte della giornata – e quanto meno le ore notturne – all’interno dell’istituto penitenziario (ma, di regola, in sezioni autonome: art. 48, comma 2, ordin. penit.) si accompagna al godimento di spazi di libertà assai significativi, al di fuori della fitta rete di prescrizioni che normalmente corredano la concessione di meri benefici extramurari.
La medesima conclusione si impone – in forza del rinvio “mobile” (sentenza n. 39 del 1994) di cui all’art. 2 del d.l. n. 152 del 1991 – per ciò che concerne la liberazione condizionale: istituto disciplinato dagli artt. 176 e 177 cod. pen., ma funzionalmente analogo alle misure alternative alla detenzione, essendo anch’esso finalizzato a consentire il graduale reinserimento del condannato nella società, attraverso la concessione di uno sconto di pena a chi abbia, durante il percorso penitenziario, «tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento».
La subordinazione anche della liberazione condizionale alla collaborazione processuale o alle condizioni equiparate comporta per il condannato per delitti contro la pubblica amministrazione l’evidente rischio di un significativo prolungamento del periodo da trascorrere in carcere, rispetto alle prospettive che gli si presentavano sulla base della legge vigente al momento del fatto; con conseguente incompatibilità con l’art. 25, secondo comma, Cost. dell’applicazione retroattiva della preclusione di cui all’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. anche rispetto alla liberazione condizionale.”
Il complessivo effetto di maggior rigore che appare animare tale punto della proposta riforma, pertanto, non sarà applicabile ai detenuti per fatti commessi antecedentemente all’entrata in vigore di tali norme, anche laddove venisse prevista una norma transitoria in senso contrario, che si infilerebbe sotto la scure dell’incostituzionalità, già in realtà pronunciata.
6.In conclusione, il testo unificato della riforma dell’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, pur nel commendevole scopo di impedire un “liberi tutti”, con il preannunciato venire meno del divieto di concessione dei benefici, e presentando alcuni apprezzabili spunti nelle previste condizionalità, non si sottrae ad una valutazione di critica insufficienza rispetto allo scopo.
Meglio sarebbe stato, a questo punto, riscrivere totalmente una norma divenuta ormai illeggibile per effetto delle continue interpolazioni, di difficilissimo coordinamento con gli altri istituti previsti dall’ordinamento, scardinando un divieto ormai insostenibile dal punto di vista costituzionale.
Sarebbe infatti possibile, così come in parte proposto dal testo della ipotizzata riforma in discussione, ancorare la concedibilità dei benefici penitenziari a comportamenti concreti del detenuto, in particolare per quelli detenuti per i reati di cosiddetta “prima fascia” (vedi la ricostruzione della normativa operata nelle citate sentenze n. 253 del 2019 e n. 32 del 2020 della Corte Costituzionale ed in quelle ivi citate), dai quali far dipendere la effettiva valutabilità del venir meno della pericolosità sociale e dei rischi di perduranti collegamenti con i contesti di provenienza.
Nel variegato panorama di possibili fatti concreti, da valutare ai fini della possibile concessione dei benefici, la scelta spetta soltanto ed esclusivamente al legislatore, ma va operata con saggezza. L’esperienza ci insegna che il comportamento in carcere e la partecipazione ai trattamenti rieducativi operati in ambito carcerario non costituiscono, nei confronti dei detenuti appartenenti alla criminalità organizzata, elementi dirimenti ai fini del giudizio sul concreto grado di reinserimento sociale.
Il contesto nel quale maturano tali personalità criminali è tale che la ricerca di elementi va condotta all’esterno dell’ambito penitenziario e della vita che ivi si svolge.
Non appare, altresì, sufficiente la mera tardiva, labiale dissociazione dal proprio passato criminale quando si proviene da un ambiente dove il disvalore criminale è elevato a mito, a condizione dell’esistenza, a titolo di merito per una progressione nella carriera “criminale” all’interno delle organizzazioni. L’aver sopportato in silenzio anni di detenzione al carcere duro fa dei possibili beneficiari della liberazione condizionale tanti generali di corpo d’armata.
Sono, al contrario necessari fatti concreti, che devono provenire personalmente dal detenuto che fa l’istanza; che possono già essere intervenuti nel passato giudiziario, o che possono intervenire anche ai fini della concessione del chiesto beneficio, ma che devono essere indicativi di un qualche segno di ravvedimento tangibilmente apprezzabile.
Poiché è di condannati all’ergastolo che si discute va considerato il diritto dei parenti delle vittime quantomeno ad una ricostruzione postuma della verità storica degli accadimenti che hanno portato alla loro perdita, ad una ammissione, ad una presa di coscienza da parte del condannato del dolore arrecato, ad una degna sepoltura di resti mai trovati.
Un operato risarcimento morale, quando quello materiale sia impossibile, può avere efficacia addirittura maggiore ai fini di un giudizio necessariamente prognostico sul rischio di una ripresa dei collegamenti criminali, impossibile da valutare per la magistratura di sorveglianza, e può essere adeguatamente valorizzato in una motivazione. Una personale richiesta di perdono, anche se non lo si ottiene, rivolta ai familiari può essere indicativa di un abbandono di certe logiche comportamentali di tipo mafioso. Si tratta di comportamenti e fatti che se improntati a sincerità – donde la serietà e difficoltà del loro apprezzamento, che va rimesso a giudici collegiali esperti e dedicati – possono testimoniare quella concreta recisione dei legami “culturali” con l’ambiente ed il contesto di provenienza, in grado di superare i timori – giustificatissimi - per la sicurezza e l’ordine pubblico. Da valutare in tale senso, ad esempio, anche ciò che in fase di cognizione non ha sortito effetto pratico, come la confessione dei fatti, non seguita da collaborazione, finalizzata soltanto alla concessione delle circostanze attenuanti generiche; l’offerta reale o non accolta di somme a titolo di risarcimento del danno; l’essersi costituito spontaneamente in carcere.
Potrà e dovrà essere oggetto di valutazione ogni fatto e dato positivo, purché inerente al comportamento dell’istante quando non era ancora detenuto, o al comportamento del medesimo verso il mondo che lo circonda. E ciò senza che possa escludersi che, malgrado il suo positivo comportamento in carcere, il contesto familiare e sociale in cui il detenuto vada a reinserirsi sia tale da costituire esso stesso fonte di pericolo per il permanente rischio di collegamento con la criminalità organizzata di provenienza. Situazione nella quale il diritto alla liberazione condizionale non dovrebbe essere oggettivamente configurabile per le stesse considerazioni di tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico prese in considerazione dalla stessa corte nella sentenza del 2019 sulla concedibilità dei permessi premio ai detenuti per reati ostativi.
Ben venga, infine, qualsiasi prescrizione comportamentale per tali detenuti, nell’esecuzione della misura concessa e della libertà vigilata connessa in particolare alla liberazione condizionale, purché si sia consapevoli che la sempre possibile violazione di tali regole non sarà soltanto causa di immediata revoca del beneficio o della liberazione condizionale, ma sarà soprattutto sintomo di una sconfitta.
Autorizzazione all’immissione in commercio condizionata e vaccinazione Covid-19 (nota a Cons. St., sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7045) di Alice Cauduro
Sommario: 1. La vaccinazione Covid-19 tra obbligo e raccomandazione - 2. Le autorizzazioni all’immissione in commercio condizionate - 3. Sul rapporto rischio-beneficio individuale e collettivo.
1. La vaccinazione Covid-19 tra obbligo e raccomandazione
La pronuncia del Consiglio di Stato, sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7045 affronta il tema dell’obbligo vaccinale per gli operatori sanitari previsto dall’art. 4, d. l. n. 44 del 2021, conv. con mod. in l. n. 76 del 2021. Le argomentazioni del giudice d’appello si inseriscono nel solco tracciato dalla giurisprudenza costituzionale che, di recente, in occasione del giudizio di legittimità costituzionale del c.d. decreto Lorenzin[1], ha ripercorso l’evoluzione della disciplina in tema di vaccinazioni, evidenziando come nel tempo la scelta del legislatore di obbligare piuttosto che raccomandare una certa vaccinazione sia dipesa (ragionevolmente) dalla maggiore o minore adesione spontanea alla pratica vaccinale in quel dato momento storico[2]. La legge impositiva di un trattamento sanitario non contrasta con l’art. 32 Cost. [3] se il trattamento ha come obiettivo non solo la salute del soggetto obbligato, ma anche degli altri individui; se è prevedibile che il trattamento non sia negativo per la salute individuale oltre la normale tollerabilità; se è prevista la corresponsione dell’indennizzo[4]. Il giudizio di legittimità costituzionale della legge sull’indennizzo da vaccinazioni ha evidenziato che l’obiettivo di profilassi delle malattie infettive a cui tendono sia gli obblighi sia le raccomandazioni è quello di garantire «la tutela della salute (anche) collettiva, attraverso il raggiungimento della massima copertura vaccinale»[5]. Nella pronuncia qui commentata il Consiglio di Stato si riferisce al dovere solidaristico (art. 2 Cost.) affermando che la legge sulle vaccinazioni, quali strumenti di profilassi collettiva, è «tutela dei più vulnerabili» e realizza la tutela della salute intesa non solo come diritto fondamentale dell’individuo ma anche come interesse della collettività (art. 32 Cost.).
2. Le autorizzazioni all’immissione in commercio condizionate
Secondo i ricorrenti la rapidità con cui sarebbero stati resi disponibili i vaccini per il contrasto del Covid-19 non avrebbe consentito di raggiungere quelle condizioni di sicurezza e di efficacia che sono necessarie per prevedere come obbligatoria una vaccinazione (art. 32 c. 2 cost.); i vaccini in uso sarebbero ancora in fase di sperimentazione, quindi non sarebbero sicuri, e prova ne sarebbe il fatto che la loro autorizzazione è stata rilasciata in forma condizionata. Sulla questione si è già espresso un Tribunale amministrativo regionale affermando che l’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata «si colloca a valle delle usuali fasi di sperimentazione clinica che precedono l’immissione in commercio di un qualsiasi farmaco, senza alcun impatto negativo sulla completezza e sulla qualità dell’iter di studio e ricerca»; si tratta di «uno strumento collaudato e utilizzato già diverse volte prima dell’emergenza pandemica»[6]. Il Consiglio di Stato, in linea con questo orientamento, dedica diversi passaggi argomentativi alla questione della procedura di autorizzazione per l’immissione in commercio condizionata dei vaccini Covid-19 affermando che non è una procedura utilizzata per la prima volta per l’attuale emergenza sanitaria; non condividendo perciò né l’idea che i vaccini autorizzati con questa procedura siano ancora in fase di sperimentazione, né che mancherebbero dati sulla loro efficacia e sicurezza. Infatti, «l’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata non è una scorciatoia incerta e pericolosa escogitata ad hoc per fronteggiare irrazionalmente una emergenza sanitaria come quella attuale, ma una procedura di carattere generale, idonea ad essere applicata - e concretamente applicata negli anni passati, anche recenti, soprattutto in campo oncologico - anche al di fuori della situazione pandemica, a fronte di necessità contingenti (non a caso la lotta contro i tumori ne è il terreno elettivo)»; respinge perciò l’affermazione secondo cui i vaccini sarebbero “sperimentali”, come anche ogni dubbio sulla loro efficacia e/o sicurezza.
L’affermazione secondo cui la sicurezza non è incisa dal carattere condizionato dell’autorizzazione trova riscontro nella disciplina sulla circolazione dei farmaci e in specie in quella sulle autorizzazioni all’immissione in commercio[7]. Nella cornice normativa europea di regolazione della circolazione dei farmaci delineata dal codice comunitario relativo ai medicinali ad uso umano[8], la disciplina dell’autorizzazione all’immissione in commercio trova riferimento nel regolamento che istituisce procedure comunitarie per l’autorizzazione e la sorveglianza dei medicinali per uso umano e veterinario, e che istituisce l’agenzia europea dei medicinali,[9] nonché in quello relativo all’autorizzazione all’immissione in commercio condizionata dei medicinali per uso umano[10].
La disciplina delle autorizzazioni all’immissione in commercio dei medicinali nell’Unione europea prevede una valutazione continua del rischio-beneficio dei medicinali e, a tal fine, l’Agenzia europea dei medicinali può richiedere al titolare dell’autorizzazione - in ogni momento - di presentare dati a dimostrazione della persistenza del favorevole rapporto[11]; nell’attività di sorveglianza sulla sicurezza dei farmaci possono sempre rilevarsi nuovi dati in grado di modificare le decisioni precedentemente assunte. La disciplina delle procedure autorizzatorie prevede, inoltre, che «in casi debitamente giustificati, per rispondere a esigenze mediche insoddisfatte dei pazienti, può essere rilasciata un’autorizzazione all’immissione in commercio, prima della presentazione di dati clinici dettagliati, per medicinali volti a trattare, prevenire o diagnosticare malattie gravemente invalidanti o potenzialmente letali, a condizione che i benefici derivanti dalla disponibilità immediata sul mercato del medicinale in questione superino il rischio dovuto al fatto che sono tuttora necessari dati supplementari. In situazioni di emergenza l’autorizzazione all’immissione in commercio di tali dati può essere rilasciata anche in assenza di dati preclinici o farmaceutici completi» (art. 14 bis, Regolamento CE 726/2004). L’autorizzazione condizionata può essere rilasciata quando «malgrado non siano forniti dati clinici completi in merito alla sicurezza e all’efficacia del medicinale siano rispettate tutte le condizioni richieste» (art. 4 par. 1, Regolamento CE 507/2006). Il Consiglio di Stato, dopo aver osservato che «il vaccino, come tutti i farmaci, non può essere considerato esente da rischi», chiarisce che la mancanza di completezza dei dati relativi a sicurezza ed efficacia non deriva dall’assenza o incompleta sperimentazione, ma dal fatto che determinati dati possono essere acquisiti solo successivamente. Si tratta di valutare quindi che i possibili effetti negativi, eventi avversi, derivanti dall’assunzione del farmaco non siano negativi oltre la normale tollerabilità che, specie nel caso dei vaccini, non va considerata solo in termini individuali, ma anche collettivi.
3. Sul rapporto rischio-beneficio individuale e collettivo
L’Agenzia europea dei medicinali può rilasciare autorizzazioni condizionate se: a) il rapporto rischio-beneficio del medicinale è positivo; b) è probabile che il richiedente possa in seguito fornire dati clinici completi; c) il medicinale risponde ad esigenze mediche insoddisfatte; d) i benefici per la salute pubblica derivanti dalla disponibilità immediata sul mercato del medicinale in questione superano il rischio inerente al fatto che occorrono ancora dati supplementari (art. 4 par. 1, Regolamento CE 507/2006). Un’autorizzazione condizionata presuppone perciò che non esista già un trattamento soddisfacente e che i benefici, non solo individuali, ma anche per la salute pubblica, superino i rischi correlati alla necessità di acquisire dati supplementari. La questione dell’assunzione del rischio individuale e collettivo viene trattata dal Consiglio di Stato nel valutare l’idea che «in assenza di una certezza assoluta offerta dalla scienza circa la sicurezza dei vaccini anche nel lungo periodo, il legislatore dovrebbe lasciare sempre e comunque l’individuo libero di scegliere o meno il trattamento sanitario […]»; questo assunto porterebbe ad «attendere irragionevolmente un tempo lunghissimo», con la «conseguenza paradossale che, nel rivendicare la sicurezza ad ogni costo, e con ogni mezzo, della cura imposta dal legislatore a beneficio di tutti, ne negherebbe però in radice ogni possibilità, paralizzando l’intervento benefico»; ciò sarebbe in contraddizione con la necessità di un intervento pubblico in via precauzionale[12].
Le argomentazioni richiamate sono certamente di estremo interesse, anche al di là del caso di specie, e suggeriscono di considerare due ordini di questioni di portata generale: la prima relativa alla dimensione della valutazione del rapporto rischio-beneficio, la seconda con riguardo alla rilevanza della corretta informazione medico-scientifica ai fini di una diffusa adesione consapevole alla vaccinazione.
Riguardo alla dimensione della valutazione del rapporto rischio-beneficio va evidenziato che la prima condizione prescritta per il rilascio di un’autorizzazione condizionata (art. 4 par. 1, lett. a, Regolamento CE 507/2006) fa riferimento al rapporto rischio-beneficio che, per l’autorizzazione di ogni medicinale, attiene alla valutazione degli effetti terapeutici positivi del medicinale rispetto ai rischi - sia per la salute del paziente sia per la salute pubblica - connessi alla sua utilizzazione (art 1, par. 28 bis, Direttiva 83/2001/CE). Se il rapporto rischio-beneficio è sempre valutato in sede di autorizzazione all’immissione in commercio in una dimensione non solo individuale, ma anche collettiva, nelle autorizzazioni condizionate si aggiunge un’ulteriore specifica valutazione benefici-rischi per la salute pubblica (art. 4 par. 1, lett. d, Regolamento CE 507/2006). Nei casi in cui le autorizzazioni condizionate riguardano i vaccini, l’intreccio di questi piani di valutazione forse appare più intricato perché la decisione richiede uno sforzo maggiore nel mantenere in equilibrio la duplice dimensione, individuale e collettiva, della tutela della salute. In effetti, un conto è valutare il rapporto rischio-beneficio per autorizzare in via condizionata un medicinale per la cura di malattie incurabili (ad es. un medicinale oncologico), altro è autorizzare in via condizionata un vaccino (come quello per il contrasto del virus Covid-19) seppure anch’esso incurabile. La differenza sta non solo nella diversa valutazione, ma anche nella percezione del rapporto rischio-beneficio. Per l’assunzione di un farmaco, infatti, si tratta di valutare gli effetti avversi a fronte dell’effetto benefico su una patologia di cui la persona-paziente è affetta; la difficoltà nel valutare il rischio-beneficio delle vaccinazioni “innovative”, come in tutte le vaccinazioni, sta invece nel considerare il rischio per una persona sana di assumere un farmaco per la cura di una malattia di cui non è affetto in quel momento, ma che potenzialmente può contrarre o trasmettere.
Questa differenza tra assunzione di un farmaco e di un vaccino introduce la questione ulteriore, che il Consiglio di Stato non approfondisce, della rilevanza della corretta informazione medico-scientifica ai fini di una diffusa adesione consapevole alla vaccinazione. Se, infatti, ritornando all’esempio del farmaco innovativo oncologico, la corretta informazione è certo presupposto di un consenso informato prestato dal paziente, il quale tuttavia può trovarsi di fronte alla prospettiva di (non poter) scegliere di non curarsi o accettare gli eventi avversi del farmaco innovativo ignoti alla medicina, nelle vaccinazioni “innovative” la corretta informazione è non solo presupposto del consenso informato individuale, ma anche uno strumento di coinvolgimento nella tutela della salute come interesse della collettività. In questo caso, infatti, la corretta informazione non solo è in grado di superare la resistenza individuale alla vaccinazione, ma costituisce possibilità di comprensione della dimensione sovraindividuale in cui si colloca l’azione solidaristica dell’individuo che si sottopone alla vaccinazione.
[1] D. L. 7 giugno 2017, n. 73, conv. con mod. in legge 31 luglio 2017, n. 119.
[2] Cost., 18 gennaio 2018, n. 5.
[3] Per la letteratura sterminata sul diritto alla salute, qui per tutti, C. Mortati, La tutela della salute nella Costituzione italiana, in Riv. Infort. Mal. Prof., 1961, I, 1 ss.; P. Vincenti Amato, Art. 32, in Commentario alla Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna, 1975; L. Carlassare, L’art. 32 della Costituzione e il suo significato, in L’amministrazione sanitaria, a cura di R. Alessi, Milano, 1967; M. Luciani, voce Salute, in Enc. giur. trecc., XXXII, 1998, Torino, 1 ss.; R. Ferrara, L’ordinamento della sanità, in Sistema del diritto amministrativo italiano, diretto da F. G. Scoca, F. A. Roversi Monaco, G. Morbidelli, Torino, ed. II, 2020, 39 ss. Si è detto di recente che «la primaria rilevanza del bene giuridico protetto, cioè la salute collettiva, giustifichi la temporanea compressione del diritto al lavoro del singolo che non voglia sottostare all’obbligo vaccinale: ogni libertà individuale trova infatti un limite nell’adempimento dei doveri solidaristici imposti a ciascuno per il bene della comunità cui appartiene», Tar, Friuli Venezia-Giulia, sez. I, 10 settembre 2021, n. 261.
[4] Cfr. ex plurimis, Corte Cost., n. 258/1994; n. 307/1990.
[5] «[…] In questa prospettiva, incentrata sulla salute quale interesse (anche) obiettivo della collettività, non vi è differenza qualitativa tra obbligo e raccomandazione», Corte Cost., 23 giugno 2020, n. 118, nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, c.1, legge 25 febbraio 1992, n. 210 recante disposizioni in materia di indennizzo per danni da vaccinazioni.
[6] «I quattro prodotti ad oggi utilizzati nella campagna vaccinale sono stati invece regolarmente autorizzati dalla Commissione, previa raccomandazione dell’EMA, attraverso la procedura di autorizzazione condizionata […] strumento collaudato e utilizzato già diverse volte prima dell’emergenza pandemica […] La “sperimentazione” dei vaccini si è dunque conclusa con la loro autorizzazione all’immissione in commercio, all’esito di un rigoroso processo di valutazione scientifica e non è corretto affermare che la sperimentazione sia ancora in corso solo perché l’autorizzazione è stata concessa in forma condizionata. L’equiparazione dei vaccini a “farmaci sperimentali”, dunque, è frutto di un’interpretazione forzata e ideologicamente condizionata della normativa europea, che deve recisamente respingersi», Tar, Friuli Venezia-Giulia, sez. I, 10 settembre 2021, n. 261.
[7] Sulle autorizzazioni all’immissione in commercio dei farmaci, specie in tema di procedura di mutuo riconoscimento, si rinvia a M. P. Genesin, La disciplina dei farmaci, in Salute e sanità, a cura di R. Ferrara, in Trattato di biodiritto, diretto da S. Rodotà, P. Zatti, Milano, 635 ss.; per l’autorizzazione all’immissione in commercio nell’ambito del tema dell’accesso al farmaco sia consentito rinviare a A. Cauduro, L’accesso al farmaco, Milano, 2017, 125 ss.
[8] Direttiva 2001/83/CE recepita con D. Lgs. 24 aprile 2006, n. 219.
[9] Regolamento (CE) n. 726/2004.
[10] Regolamento (CE) n. 507/2006.
[11] Art. 16 par. 2, Regolamento (CE) n. 726/2004.
[12] Il Cons. St., sez. III, 20 ottobre 2021, n. 7045 parla della c.c. amministrazione precauzionale al punto 30.1. in diritto. Su rischio, incertezza e principio precauzionale in sanità si rinvia a R. Ferrara, L’ordinamento in sanità, cit., 13 ss.
su questa rivista nota a Consiglio di Stato 20 ottobre 2021 n. 7045 di Giuliano Scarselli
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