ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Giuseppe Chiovenda (e i problemi attuali del nostro processo civile)
di Giuliano Scarselli
Sommario: 1. Ricordo di Giuseppe Chiovenda - 2. I Capisaldi del suo sistema processuale - 3. Segue: L’azione nel sistema dei diritti - 4. Segue: Il rapporto giuridico processuale - 5. Giuseppe Chiovenda e i problemi attuali del nostro processo civile - 6. Giuseppe Chiovenda persona.
1. Ricordo di Giuseppe Chiovenda
Giuseppe Chiovenda nasceva a Premosello (oggi Premosello Chiovenda), un piccolo paese della provincia di Novara, nella Val d’Ossola, il 2 febbraio 1872, da una antica famiglia patrizia[1].
Terminati brillantemente gli studi liceali presso il collegio Rosmini di Domodossola, avrebbe voluto iscriversi alla facoltà di lettere, avendo mostrato fin dall’adolescenza attitudine e interessi per la poesia, ma la famiglia lo convinceva a indirizzarsi su giurisprudenza.
Si iscriveva allora alla Sapienza di Roma, su suggerimento del padre, che faceva l’avvocato, e si laureava in quella università con lode il 5 luglio 1893, discutendo con Vittorio Scialoja una tesi sulle spese nel processo civile romano.
Subito dopo la laurea otteneva l’abilitazione alla professione forense, apriva un proprio studio legale, e veniva nominato vice pretore onorario a Roma.
Sollecitato anche dal suo maestro Vittorio Scialoja, grande romanista e potente docente universitario, Giuseppe Chiovenda, tra il 1894 e il 1899 pubblicava ben quattro saggi di diritto romano, tutti sulle spese processuali.
Con essi, Giuseppe Chiovenda si rendeva difensore della tradizione romanista e degli studi storici, soprattutto attraverso l’uso e l’analisi della dottrina tedesca[2]; nel 1900, poi, trasformava quei saggi in una monografia e con essa chiedeva ed otteneva la docenza per titoli.
Nell’anno accademico 1900-1901 teneva il suo primo corso da libero docente a Roma, con una prolusione dal titolo Le forme nella difesa giudiziale del diritto, prolusione con la quale si faceva difensore del processo civile austriaco elaborato da Franz Klein, ovvero la Zivilprozessordnung del 1895.
Nel 1901 pubblicava in versione definitiva la sua monografia sulle spese giudiziali civili, e il 3 maggio dello stesso anno vinceva il concorso per la cattedra di Parma.
A Parma, il 5 dicembre 1901, teneva una nuova prolusione dal titolo Romanesimo e germanesimo nel processo civile.
Si trattava di un lavoro volto a valorizzare, sempre secondo gli insegnamenti di Vittorio Scialoja, l’influenza del diritto romano e della dottrina tedesca nel nostro processo civile, tanto che in quello studio Giuseppe Chiovenda arrivava a scrivere, fra le varie riflessioni, che: “la legislazione e la scienza ci hanno ricondotto al diritto romano puro”.
Sempre a Parma Giuseppe Chiovenda pubblicava poi un volume ad uso degli studenti dal titolo Lezioni di diritto processuale civile, e l’anno successivo, ovvero nel 1902, a seguito della morte di Giuseppe Manfredini, veniva chiamato ad insegnare Procedura civile e ordinamento giudiziario a Bologna, alla giovane età di 31 anni.
A Bologna teneva una nuova prolusione il 3 febbraio 1903 dal titolo L’azione nel sistema dei diritti, una prolusione diventata poi celebre, e considerata una svolta epocale nello studio del processo civile, anzi indicata come il passaggio dalla Procedura civile al Diritto processuale civile[3].
Nel 1905 Giuseppe Chiovenda veniva chiamato alla cattedra di Napoli e, subito dopo, infine, nel 1907, a quella di Roma, ove rimaneva fino alla morte.
Iniziava a pubblicare i Principi di diritto processuale civile, che, dopo una prima edizione del 1906, ne faceva seguire altre nei successivi anni, 1908, 1912, 1923, 1928.
Ai Principi seguivano poi le Istituzioni, che lo stesso Giuseppe Chiovenda, nella prefazione, considerava “derivazione dell’opera mia precedente, Principi di diritto processuale civile”.
1.1. Giuseppe Chiovenda si occupava, altresì, di alcuni progetti di riforma del processo civile in discussione in quell’epoca.
Nel 1918, subito dopo la grande guerra, veniva nominata una commissione ministeriale per la riforma del codice di procedura civile e Giuseppe Chiovenda, chiamato a presiederla, scriveva un articolato di 204 punti, raggruppati in cinque titoli, e una dotta relazione, del 1919, che oggi si trova nei Saggi[4].
Il modello ispiratore, di nuovo, era il processo civile austriaco, ma il progetto riformatore non andava in porto.
A seguito dell’avvento del fascismo, il nuovo Ministro della Giustizia Aldo Oviglio istituiva anch’egli una nuova commissione per la riforma dei codici, e la terza sottocommissione, che si occupava del codice di procedura civile, veniva posta sotto la presidenza di Ludovico Mortara; a Giuseppe Chiovenda veniva assegnato solo il ruolo di vicepresidente.
Ludovico Mortara dava incarico di redigere la bozza di un nuovo codice a Francesco Carnelutti e Giuseppe Chiovenda, mortificato dall’andamento delle cose, pochi mesi dopo, e sempre nell’anno 1924, dava le dimissioni.
Dopo il 1924 non avrà più alcun incarico, anche perché inviso al fascismo e al nuovo Ministro della Giustizia Alfredo Rocco, suo antico avversario accademico.
In quell’anno, tuttavia, insieme a Francesco Carnelutti, fondava a Padova la nuova Rivista di diritto processuale civile.
1.2. Giuseppe Chiovenda esercitava con successo l’avvocatura nel corso di tutta la sua vita, ed ebbe numerosi e valorosi allievi, che ne esaltarono l’opera e la personalità, anche dopo la sua morte, avvenuta il 7 novembre 1937.
Tra questi allievi ricordo Enrico Tullio Liebman, Antonio Segni e Virgilio Andrioli[5].
2. I Capisaldi del suo sistema processuale
Credo si possa affermare, senza timore di essere smentiti, che il Sistema di diritto processuale civile di Giuseppe Chiovenda, si basa, principalmente, da una parte sulla teoria dell’azione, e dall’altra su quello del rapporto giuridico processuale[6].
È lo stesso Chiovenda che ha la premura di sottolineare ciò.
Nella prefazione dei Principi di diritto processuale civile, Giuseppe Chiovenda avvertiva: ”Il concetto di azione, inteso come autonomo potere giuridico di realizzare per mezzo degli organi giurisdizionali l’attuazione della legge in proprio favore, e il concetto del rapporto giuridico processuale, o sia di quel rapporto giuridico che nasce fra le parti e gli organi giurisdizionali dalla domanda giudiziale, indipendentemente dall’essere fondata o no, sono i due capisaldi del mio sistema”.
Dunque, teoria dell’azione e rapporto giuridico processuale, sono, per lo stesso Chiovenda, i capisaldi del suo sistema; dal che è su questi due capisaldi, che peraltro mi sembrano colmi di spunti di riflessione con riferimento alla situazione attuale della nostra giustizia civile, che desidero aggiungere qualche piccola cosa[7].
3. Segue: L’azione nel sistema dei diritti
Il tema dell’azione interessava Giuseppe Chiovenda fin dalla più giovane età.
Egli infatti scriveva un primo contributo sull’argomento dal titolo Azione, sul Dizionario pratico del diritto privato diretto da Vittorio Scialoja[8], saggio che deve collocarsi agli inizi del ‘900, quando Giuseppe Chiovenda aveva appena 28 anni. Tornava poi sull’argomento nella stesura delle Lezioni di diritto processuale civile, scritte per l’anno accademico parmense del 1901/2[9], ove forniva una nozione dell’azione richiamando la posizione di Adolf Wach[10], e infine completava lo studio dell’argomento con la celeberrima prolusione bolognese del 3 febbraio 1903[11].
Giuseppe Chiovenda aveva all’epoca 31 anni, era quindi ancora giovanissimo, e la prolusione ha infatti le caratteristiche di un’opera giovanile.
Si pensi che il saggio è composto da un testo di 23 pagine, cui poi seguono ben 74 pagine di note, e le note sono scritte in forma assai più piccola rispetto al testo.
Il saggio trattava le “Varie significazioni di azioni nel diritto positivo”, e ripercorreva le discussioni dottrinali di Windscheid-Muther, di Hasse, di Bulow, di Degenkolb, di Wach, di Hellwig, per arrivare ad affermare che “L’azione è dunque a mio parere un diritto potestativo”, ed è “il diritto di porre in essere la condizione per l’attuazione della legge”[12].
Tale diritto, per Giuseppe Chiovenda, è autonomo rispetto al diritto sostanziale che viene fatto valere nel processo, ed è un diritto che l’attore ha nei confronti della controparte, e non dello Stato, come invece sostenevano Muther e Wach.
Infine, il saggio concludeva con frasi che avevano però poco, a mio sommesso parere, di conclusivo, o comunque dalle quali difficilmente poteva attribuirsi alla prolusione quel carattere rivoluzionario cui poi si è invece attribuito.
Queste le conclusioni: “Abbiamo anzi veduto come il processo sia lo svolgimento d’un rapporto di diritto pubblico, almeno tra il giudice e lo Stato. Ogni atto del processo ci presenta l’uno e il trino…attribuire il processo più all’uno che all’altro è rimpiccolirlo. Tutte le leggi giuridiche, da quelle che governano l’interesse del singolo a quelle che regolano il potere sovrano dello Stato, e le loro ragioni storiche e logiche, s’agitano e vivono nel processo civile: esso appare veramente nel mondo giuridico come il punto al qual si traggon d’ogni parte i pesi”[13].
3.1. Al suo esordio, L’azione nel sistema dei diritti trovò infatti scettici i processualisti del tempo[14], ma questo non impedì a Giuseppe Chiovenda di tornare alla teoria dell’azione in più occasioni successivamente; e, direi, egli perfezionava e chiariva la sua posizione nei Principi e poi nelle Istituzioni[15].
Dunque, se vogliamo farci una idea più precisa dell’azione chiovendiana, possiamo leggere i passi che egli vi dedicava proprio nei Principi, poi riportati anche nelle Istituzioni.
Scriveva Giuseppe Chiovenda: “Dominava allora una concezione tutta privata del processo, che veniva considerato come un semplice strumento a servizio del diritto soggettivo, come un istituto meramente pedissequo al diritto sostanziale, come un rapporto esso stesso di diritto privato. La prima conseguenza di questo modo generale d’intendere il processo si manifestava nella dottrina dell’azione. Si considerava l’azione come un elemento del diritto stesso dedotto in giudizio, come il potere, inerente al diritto stesso, di reagire contro la violazione. Si confondevano cioè due entità, due diritti assolutamente distinti fra loro. Al contrario, l’azione è un potere di realizzazione della volontà concreta della legge”[16].
Date, dunque, le ragioni per le quali era necessario voltare la pagina[17], ovvero quelle di superare la logica privatistica del processo civile tipica dell’800, Giuseppe Chiovenda le individuava nel passaggio tra l’azione quale diritto astratto di agire, all’azione quale diritto potestativo idoneo a provocare l’attuazione della volontà di legge.
Si riporta ancora quanto Giuseppe Chiovenda scriveva sul punto: “Devono invece considerarsi come una esagerazione non accettabile dell’idea dell’autonomia dell’azione quelle teorie che, in un modo o nell’altro, si ricollegano al concetto del c.d. diritto astratto di agire, inteso come semplice possibilità giuridica d’agire in giudizio, indipendentemente dall’esito favorevole. Non v’è dubbio che ognuno abbia la possibilità materiale e anche giuridica di agire in giudizio ma questa mera possibilità non è ciò che sentiamo come azione. Quanto a me, definii l’azione come un diritto potestativo….. e si dice che questo singolo ha azione intendendosi dire con ciò che egli ha il potere giuridico di provocare colla sua domanda l’attuazione della volontà di legge. L’azione è pertanto il potere giuridico di porre in essere la condizione per l’attuazione della volontà della legge. La quale definizione, a ben guardare, coincide con quella delle fonti nihil aliud est actio quam ius persequendi iudicio quod sibi debetur”[18].
3.2. Quindi, è vero che Giuseppe Chiovenda aveva una visione pubblica della funzione giurisdizionale, perché ciò è quanto emerge in modo chiaro dalle sue stesse parole; tuttavia questa visione non costituiva una svolta autoritaria in grado di limitare i diritti processuali delle parti e spostare il fulcro della tutela dei diritti dalla lite dei privati all’autorità dello Stato.
Seppur queste mie siano semplici, piccole riflessioni, prive di pretese, poiché è evidente che, altrimenti, l’argomento necessiterebbe di ben altri approfondimenti[19], ritengo tuttavia sia da escludere che il nome di Giuseppe Chiovenda possa esser utilizzato per giustificare concezioni pubblicistiche della funzione giurisdizionale civile oltre una certa misura.
In sostanza, se vogliamo sintetizzare il problema, Chiovenda spostava solo la funzione del processo dal c.d. diritto astratto di agire alla attuazione della volontà di legge.
È evidente che bisogna allora intendersi sul significato da attribuire al concetto di attuazione della volontà di legge:
a) se con questa espressione si intende solo rimarcare la natura pubblica del processo, che tuttavia mantiene la sua funzione ultima di attuazione dei diritti soggettivi delle parti in tutte le ipotesi di mancata cooperazione spontanea dell’obbligato (in quanto, appunto, dinanzi ad ogni lite, la volontà della legge è proprio quella di attribuire o negare i diritti soggettivi dei litiganti), allora la novità, si comprende, non ha particolare carattere rivoluzionario;
b) se al contrario alla frase si vuole attribuire un significato ulteriore, quasi a concepire il giudice in diretto contatto con la legge a prescindere dai diritti e dalle domande delle parti, sovrano di riconoscere o negare le loro pretese anche al di là del diritto privato e sulla base di ragioni pubbliche che, di volta in volta, il giudice possa determinare, questa impostazione è fuori dal sistema di Chiovenda, che direi certamente non ha mai ritenuto, nemmeno lontanamente, di immaginare una simile deriva.
Direi che deduzioni del genere, se a qualcuno ancora oggi venissero in mente, sono escluse dall’analisi dello stesso sistema di Giuseppe Chiovenda, per come ci ricorda anche Andrea Proto Pisani:
aa) in primo luogo è lo stesso Chiovenda che ci indica cosa si deve intendere con l’attuazione della volontà di legge, ed infatti egli sul punto precisa che: “Deve rilevarsi che ponendo lo scopo del processo nell’attuazione della volontà della legge, si esclude ch’esso possa porsi nella difesa del diritto soggettivo. Questa difesa sarà lo scopo, tutto individuale e soggettivo, che si propone l’attore; il processo invece ha lo scopo generale e obiettivo di attuare la legge, e lo scopo dell’attore e del processo coincideranno solo nel caso in cui la domanda sia fondata. Ma la sentenza è sempre attuazione della legge, sia fondata o infondata la domanda; tanto accogliendo quanto respingendo la domanda, la sentenza afferma una volontà positiva o negativa della legge. Così il processo non serve all’una o all’altra parte; serve alla parte che, secondo il giudice, ha ragione”[20]
Dunque, è vero che egli afferma che la volontà di legge si contrappone alla difesa del diritto soggettivo, ma è anche vero che questa contrapposizione, per Chiovenda, si ha solo nelle ipotesi di domande infondate, il che è del tutto evidente; ma se la domanda è fondata, una contrapposizione tra diritto soggettivo e concreta volontà di legge non può porsi, e dunque il processo, seppur funzione pubblica dello Stato, serve alla parte che ha ragione.
bb) In secondo luogo, e direi soprattutto, è noto il principio chiovendiano secondo il quale “Il processo deve dare, per quanto è possibile, praticamente a chi ha un diritto, tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire”[21].
È chiaro, così, che per Giuseppe Chiovenda, scopo fondamentale del processo è proprio quello di attribuire alle parti l’attuazione dei diritti che questi vi facciano valere; dal che non è prospettabile che l’immagine pubblicistica dell’attuazione della volontà di legge scalfisca questo dato, in quanto il processo, attuando la legge, deve pur sempre e inevitabilmente avere per scopo quello di attribuire, ancora una volta, a chi ha un diritto, tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire.
cc) Infine, è valore del sistema chiovendiano quello dello strumentalità del processo al diritto sostanziale.
Lo ricorda di nuovo Proto Pisani, il quale riferendosi al sistema chiovendiano, osserva: “in quanto tutto centrato sulla massima strumentalità del processo e sull’esigenza oggi costituzionalmente doverosa della effettività della tutela giurisdizionale”[22].
E allora, se il processo è strumentale al diritto sostanziale, la volontà di legge non comprime i diritti delle parti, anche perché tale concreta volontà di legge, si ha, per Giuseppe Chiovenda, sempre “relativamente a un bene che l’attore pretende da questa volontà garantito”[23].
Ed ancora Giuseppe Chiovenda: “L’azione ha natura privata o pubblica secondo che la volontà di legge di cui produce l’attuazione ha natura privata o pubblica. Per lo più l’azione nasce per il fatto che colui che doveva conformarsi ad una volontà concreta di legge, che ci garantiva un bene della vita, ha trasgredito questa volontà, così che noi ne cerchiamo l’attuazione indipendentemente dalla volontà dell’obbligato”[24].
Quindi, l’attuazione della volontà di legge non pregiudica i diritti soggettivi delle parti, e lo scopo del processo resta quello di riconoscere o negare a chi agisce in giudizio un bene della vita.
4. Segue: Il rapporto giuridico processuale
L’altro caposaldo del sistema processuale, come abbiamo detto, è quello del rapporto processuale.
Giuseppe Chiovenda ci ricorda subito che da Hegel a Behtmann – Hollweg fino a Bulow “il processo civile contiene un rapporto giuridico”, e l’idea, scrive Chiovenda, era già propria del iudicium romano, nonché della definizione che ne davano i nostri processualisti medioevali “Iudicium est actus trium personaru, actoris, rei iudicis”.
Si tratta di un rapporto giuridico di diritto pubblico: “E’ un rapporto autonomo e complesso appartenente al diritto pubblico”[25], e: “durante il processo entrambe le parti hanno diritto al provvedimento, e il giudice è tenuto verso entrambe a questa prestazione”.
Aggiunge poi Giuseppe Chiovenda che se il provvedimento favorevole è per le parti solo una aspirazione: “è invece una vera e propria aspettazione giuridica, cioè un diritto, quella che ciascuna delle parti ha durante il processo relativamente al provvedimento del giudice” [26].
Fissata poi la distinzione tra azione e rapporto giuridico processuale[27], Giuseppe Chiovenda tiene a precisare quali siano i doveri dello Stato, nella persona del giudice, all’interno del rapporto giuridico processuale: “Il dovere fondamentale che forma come l’ossatura d’ogni rapporto processuale, è, come si è visto, il dovere del giudice di provvedere sulle domande delle parti. A questo corrisponde il dovere di fare tutto ciò che è necessario nel caso concreto per provvedere. Questo dovere fa parte dell’ufficio del giudice, spetta cioè certamente al giudice verso lo Stato. E’ poi praticamente ozioso discutere se il giudice è obbligato anche verso le parti, e se il giudice è obbligato di fronte alle parti come persona o come organo dello Stato. Certo le parti hanno di fronte al giudice, come persona, il potere giuridico di porlo con le loro domande nella giuridica necessità di provvedere”[28].
Dunque, per Giuseppe Chiovenda il giudice non ha solo il dovere di provvedere, ma ha altresì, come persona… il dovere di fare tutto ciò che è necessario nel caso concreto per provvedere.
5. Giuseppe Chiovenda e i problemi attuali del nostro processo civile
Il Parlamento ha approvato in questi giorni una legge delega di riforma del processo civile.
Questa riforma ha come scopo principale quella della riduzione del tempi del processo e come strumenti per raggiungere un simile obiettivo quelli dell’incentivazione delle procedure ADR, e soprattutto della mediazione, e quella del potenziamento dell’ufficio del processo, ovvero di un ufficio composto da giudici onorari e da giovani laureati assunti a tempo determinato, chi aiutino il giudice studiando i fascicoli, facendo ricerche di giurisprudenza, individuando i punti di mediabilità (è questa la parola usata dalla legge!) della lite, stendendo i verbali, aiutandolo nell’assunzione dei mezzi istruttori, e, infine, predisponendo bozze dei provvedimenti.
Precisamente:
- è stata estesa e rafforzata la mediazione, anche nella sua condizione di procedibilità della domanda, e anche nelle ipotesi in cui la stessa sia demandata al giudice; ad essa sono poi stati riconosciuti incentivi ed agevolazioni fiscali; inoltre si è di previsto che il giudice possa, oltreché mandare sempre in mediazione le parti, anche formulare proposte di conciliazione fino al momento in cui trattiene la causa in decisione.
- Si è prevista la necessità di dare nuove sanzioni contro chi “abusi” del diritto di azione e di difesa.
- Si sono ulteriormente ridotti i casi nei quali il Tribunale pronuncia in composizione collegiale, e si è potenziato e interamente ri-disciplinato, appunto, il c.d. Ufficio del processo.
Sostanzialmente, sembra che il processo civile non abbia più il compito di attuare i diritti soggettivi dei privati ma piuttosto quello di gestire e valutare le posizioni dei litiganti in un’ottica più generale.
La parte, precisamente - sembra e si ha la sensazione- non deve insistere oltre una certa misura nella tutela dei suoi diritti, ne’ avere sicuro e libero accesso alla decisione giurisdizionale, perché ciò costituisce atteggiamento in contrasto con lo spirito che oggi deve invece darsi tra litiganti.
La parte, infatti, e tutto al contrario, deve preferibilmente mediare, ovvero trovare un accordo che soddisfi l’esigenza del contenimento delle liti, e ciò anche a costo di qualche sacrifico.
Se poi, al contrario, la parte sceglie di volere in tutti modi il riconoscimento giudiziale del suo diritto, va da sé che questo non gli può essere impedito, tuttavia in questi casi la funzione giurisdizionale non potrà essere nella sua interezza resa da magistrati ordinari e togati, e vi provvederà, in gran parte, per ragioni di economia, l’ufficio del processo, ovvero un gruppo di giovani usciti dall’università, senza alcuna esperienza professionale, assunti a tempo determinato con compensi economici simbolici.
Quanto tutto questo sia in contrasto con il sistema processuale di Giuseppe Chiovenda, e quindi in contrasto con la nostra stessa storia, non v’è bisogno che io lo dimostri, e balza, credo, agli occhi, anche solo in base a quanto sopra ho cercato di riassumere:
a) in primo luogo, se il rapporto tra mediazione e tutela giurisdizionale è rovesciato, e ciò nel senso che la regola della tutela dei diritti è oggi la mediazione e l’eccezione la giurisdizione, allora la tutela dei diritti non è più normalmente in grado di porsi quale strumento dei diritti soggettivi sostanziali, e viene meno quella funzione del processo che Giuseppe Chiovenda aveva individuato con l’Azione nel sistema dei diritti.
Se infatti il “centro” è la mediazione e non il processo, allora la Attuazione della volontà di legge si perde, poiché la mediazione, per sua stessa natura, consistendo in reciproche rinunce tra le parti, non è mai in grado di attribuire a chi ha un diritto, praticamente tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire.
Se poi si pensa che v’è addirittura chi attribuisce un valore morale a questo atteggiamento rinunciatario, allora è del tutto evidente che la teorica dell’azione chiovendiana è saltata.
b) Ma se la centralizzazione della mediazione contrasta con L’azione nel sistema dei diritti, la nuova disciplina dell’ufficio del processo contrasta con i principi del Rapporto giuridico processuale.
Per Giuseppe Chiovenda, come abbiamo visto, l’azione instaura un rapporto processuale tra parti e giudice, e da questo rapporto processuale discendono “diritti e doveri tra loro”[29].
In particolare è chiaro che per Giuseppe Chiovenda il rapporto processuale attribuisce dei doveri al giudice, cosicché, appunto, il processo crea “il dovere del giudice di provvedere sulle domande delle parti”, e a questo “corrisponde il dovere di fare tutto ciò che è necessario nel caso concreto per provvedere”.
E che questo sia un dovere personale del giudice, Giuseppe Chiovenda lo dice in modo chiaro: è un dovere che il giudice ha come persona.
Del resto, la conclusione è del tutto evidente se solo si pensa che, in forza della nostra Costituzione, la giustizia è amministrata in nome del popolo, cosicché va da sé che la stessa non possa essere delegata; e relegare invece il giudice a sole funzioni di controllo di attività compiute da altri, così distanziandolo dalla lite e dai litiganti, è certamente un degrado della giurisdizione, ed è una rottura di quei diritti/doveri che discendono dal rapporto giuridico processuale per come Giuseppe Chiovenda, e poi tutta la dottrina processualistica, lo aveva posto.
6. Giuseppe Chiovenda persona
Non posso chiudere questo mio breve scritto senza ricordare Giuseppe Chiovenda persona.
La figlia Beatrice Canestro Chiovenda, in una lettera inviata ad Andrea Proto Pisani per la ristampa dei Saggi, ringraziava per la nuova edizione, ed aggiungeva: “emergerà così il lato umano, forse poco conosciuto dagli studiosi del diritto, della personalità di mio Padre, poeta, umanista e letterato, orgoglioso dei successi della scienza italiana, e testardo montanaro, come amava definirsi, ossolano sempre sollecito degli interessi della gente della sua Valle, che aiutò con opere e consigli”.
E Arturo Carlo Jemolo, per commemorare la scomparsa di Giuseppe Chiovenda presso l’Accademia dei Lincei nel 1938, usava queste parole: “La passione per l’arte -che, quasi bambino, gli aveva fatto scrivere una tragedia in versi, Corradino di Svevia, recitata al collegio rosminiano di Domodossola- lo accompagnò per tutto il cammino della sua vita”[30].
Dunque, Giuseppe Chiovenda non fu solo uno studioso del processo civile, non trascorse l’intera sua vita sui libri, ne’ impiegò tutta la sua gioventù, come qualcuno ha creduto, dietro il diritto romano e la dottrina tedesca; proprio Franco Cipriani ricordava che Giuseppe Chiovenda, dopo la laurea, a Roma, frequentava il cenacolo di Ugo Fleres, collaborava alla rivista Ariel. ed era un assiduo frequentatore del teatro Costanzi[31].
Se si pensa che Giuseppe Chiovenda ebbe la sfortuna di perdere presto i genitori, la madre addirittura nel corso dell’infanzia, e il padre, nel 1891, quando aveva solo 19 anni, ciò fa di questi aspetti qualcosa di ancora più prezioso e significativo.
6.1. Nell’anno della morte del padre, Giuseppe Chiovenda pubblicava una scelta di poesie, e poi, tre anni dopo, ovvero nel 1894, una ulteriore raccolta di versi, Agave.
La figlia raccontava del padre che, oltre il diritto e la poesia, amava la musica, l’equitazione e la scherma, tanto che, da studente universitario, fece una volta Premosello - Roma quasi interamente a cavallo, e che, ancor dopo i cinquant’anni, si teneva in forma tirando di scherma in una palestra romana.
Egli, inoltre, nel 1901, fu insignito della medaglia d’argento al valor civile per l’opera generosamente prestata in occasione dell’alluvione che colpì Premosello, e nel 1927, con una cospicua somma inaspettatamente ottenuta con la vincita di una causa, fondò l’ospedale di Premosello.
Si dice anche che Giuseppe Chiovenda amava fare escursioni sul monte Rosa, amava la pesca, la caccia, le fotografie (che sviluppava da sé), le bocce, il pianoforte, il violino, il teatro, le automobili: uno dei primissimi, infatti, ad ottenere la patente, e l’unico professore della facoltà giuridica di Roma a guidare la macchina, una rarità in quegli anni.
6.2. Nel 1992, ovvero a centoventi anni dalla nascita di Giuseppe Chiovenda, gli studiosi di storia patria della Val d’Ossola pubblicavano un volume, Scritti ossolani.
Quel volume contiene due scritti di Giuseppe Chiovenda.
a) Uno è del 1913 e s’intitola: La pesca nel Toce e i diritti degli ossolani.
Con quello scritto, un vero e proprio saggio giuridico, Giuseppe Chiovenda prendeva la difesa dei diritti degli ossolani di pescare nel Toce, come avevano sempre fatto, contro la Casa Borromeo, antica feudataria della Val d’Ossola, che al contrario pretendeva che i pescatori ottenessero da lei il permesso, secondo regole risalenti ai diritti feudali.
Per quel saggio, che negava l’esistenza delle pretese della Casa Borromeo, Giuseppe Chiovenda non si aspettava ne’ un onorario, ne’ un ringraziamento; tuttavia si racconta che un giorno sentì bussare alla sua porta e, apertala, vi trovò un folto gruppo di ossolani, che erano andati in delegazione a ringraziare il professore, donandogli un servizio di piatti commissionato espressamente per lui.
Giuseppe Chiovenda tenne quel servizio tra le cose più care, da usare solo per le grandi occasioni; quel servizio si trova ancor oggi conservato nella casa di Premosello – Chiovenda.
b) L’altro scritto è del 1917, Il diritto del Comune di Mergozzo sopra il lago omonimo.
Questo scritto fu occasionato da una contestazione del Genio civile di Novara, del 1912, il quale riteneva di dover considerare demaniale il lago, che viceversa, fino a quel momento, era sempre stato da tutti considerato di proprietà comunale.
Giuseppe Chiovenda decideva allora di occuparsi della questione, rispolverava due giudicati, avutisi nel ‘600: il primo del 19 dicembre 1615, che dichiarava il lago di proprietà del Comune di Mergozzo; il secondo, dell’8 gennaio 1691, il quale ribadiva solennemente il diritto del comune “di godersi del suo lago”.
Dimostrato, poi, che la legislazione italiana riconosceva la species dei laghi di proprietà privata, Giuseppe Chiovenda dimostrava che il lago in questione possedeva tutti i requisiti richiesti dalla legge affinché potesse considerarsi lago privato del Comune di Mergozzo.
Scrive Franco Cipriani in occasione della presentazione del volume Studi Ossolani: “Mi è chiaro infatti che essi (gli scritti) non si spiegano soltanto con la scienza di Giuseppe Chiovenda, ma anche e soprattutto con il suo amore per la sua Terra, per il suo fiume, il suo lago, le sue montagne e i suoi conterranei: in una parola, per la sua Ossola”[32]
6.3. Infine, l’altro aspetto che merita di essere ricordato è quello che Giuseppe Chiovenda si tenne, dal 1922 fino alla sua morte del 1937, lontano dal fascismo[33], ed anzi fu l’unico processualista che sottoscrisse il “Manifesto Croce”, su Il Mondo del 1 maggio 1925, ovvero il documento con il quale gli intellettuali antifascisti denunciavano solennemente al paese e alla comunità internazionale le gravi responsabilità del fascismo e l’abisso verso il quale stavano conducendo l’Italia[34].
Quel documento usciva all’indomani dell’assassinio di Giacomo Matteotti e del discorso tenuto da Benito Mussolini alla Camera dei Deputati il 3 gennaio 1925, ed era da considerare una risposta al precedente documento degli intellettuali fascista coordinati da Giovanni Gentile.
Si leggeva in tal documento che “non è nemmeno quello degl’intellettuali fascisti un atto che risplenda di amor di Patria. è un imparaticcio scolaresco, nel quale in ogni punto si notano confusioni dottrinali e dove, con facile riscaldamento retorico, si celebra la doverosa sottomissione degli individui al tutto”.
Si deve, al contrario: “ravvivare e far intendere in modo più profondo e più concreto al nostro popolo il pregio degli ordinamenti e dei metodi liberali e a farli amare con più consapevole affetto. E forse un giorno, guardando serenamente al passato, si giudicherà che la prova che ora sosteniamo, aspra e dolorosa, era uno stadio che l’Italia doveva percorrere per rinvigorire la sua vita nazionale, per compiere la sua educazione politica, per sentire in modo più severo i suoi doveri di popolo civile”.
Tra i firmatari, oltre Giuseppe Chiovenda, Giovanni Amendola, Carlo Cassola, Luigi Enauidi, Carlo Fadda, Guglielmo Ferrero, Matilde Serao.
Le conseguenze pregiudizievoli che quella firma arrecò a Giuseppe Chiovenda non sono note, tuttavia sempre Franco Cipriani ricorda una vicenda, che mi sembra importante richiamare, a chiusura di questo mio omaggio al maestro.
Nel 1928 Giuseppe Chiovenda veniva invitato a tenere un breve corso di lezioni nella facoltà giuridica di Barcellona.
Ricevuto l’invio il 9 marzo 1928, Giuseppe Chiovenda si rivolgeva al Rettore della propria università per chiedere, suo tramite, alla competenti autorità governative il permesso per potersi recare là.
Il 13 marzo 1928, la richiesta di autorizzazione veniva girata dal Rettore dell’Università al Ministro della Pubblica istruzione, ma questi, invece di autorizzare il trasferimento, contro il quale niente aveva eccepito il Rettore, lo trasmetteva, il 22 marzo 1928, ossia dopo averci pensato (evidentemente) una decina di giorni, addirittura alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, è cioè a Benito Mussolini, osservando che: “Il predetto professore è uno dei firmatari del c.d. manifesto degli intellettuali, tuttavia, a quel che mi consta, ha sempre tenuto una condotta molto riservata e non ha partecipato a contrasti di carattere politico. Dato ciò, io ritengo che, in considerazione dell’alto valore scientifico del prof. Chiovenda, lo si potrebbe autorizzare ad accogliere l’invito rivoltogli dall’Università di Barcellona, tanto più che la sua serietà di studioso dà affidamento che egli si asterrebbe dal fare qualsiasi cenno a questioni di natura politica durante la permanenza in Spagna”.
Benito Mussolini, probabilmente occupatissimo in altre faccende in quel periodo, non rispondeva.
Si arrivava ad aprile, ed ancora nessuna risposta.
Il 12 aprile 1928 il Ministro dell’Istruzione, Pietro Fedele, inviava una ulteriore lettera di sollecito, avvicinandosi i giorni nei quali Giuseppe Chiovenda doveva tenere le sue lezioni a Barcellona.
La risposta arrivava con un telegramma del Ministero degli interni del 27 aprile 1928, ovvero dopo ancora due settimane, ormai, diremmo, a tempo scaduto per potersi recare a Barcellona secondo il calendario didattico che quella università si era data.
Questo lo scarno testo del telegramma: “Questa Presidenza ritiene che non sia opportuno consentire al prof. Giuseppe Chiovenda di recarsi a Barcellona per tenervi corso lezioni”.
Il Ministro dell’Istruzione, quindi, in data 3 maggio 1928, rispondeva finalmente al Rettore dell’Università di Roma, avvertendolo che “non si ravvisa l’opportunità che il prof. Giuseppe Chiovenda si rechi a Barcellona”.
6.4. “Questo fu, in un oscuro periodo di servitù politica e di depressione morale, Giuseppe Chiovenda: grande mente di studioso e insieme altissima coscienza morale; e, per questa fusione di dottrina e di carattere, maestro esemplare di scienza e umanità.
Apparteneva a quella categoria di italiani austeri e pensosi, nemici dell’improvvisazioni dilettantesche, attaccati all’essere più che al parere, per i quali la vita ha un senso di intima serietà e di non ostentata dedizione al dovere”[35]
6.5. “Nel 1937, quando la sua salma si avviò verso il camposanto seguita dagli amici e dai discepoli piangenti, il rettore fascista dell’Università di Roma non partecipò al funerale, ne’ permise che il feretro sostasse nell’atrio dell’Università, per ricevere i tradizionali onori funebri”[36].
[1] Per ogni informazione sulla vita di Giuseppe Chiovenda può vedersi CIPRIANI, Storie di processualisti e di oligarchi, Milano, 1991, 70 e ss.; TARUFFO, Giuseppe Chiovenda, in Dizionario biografico dei giuristi italiani, Roma, 2013, I, 526; TARELLO, Giuseppe Chiovenda, in Dizionario biografico degli italiani, Treccani, Roma, 1981, vol. 25; MECCARELLI, Giuseppe Chiovenda, Il contributo italiano alla storia del pensiero – Diritto, Treccani, Roma, 2012.
[2] Chi scrive, allievo di allievi di Giuseppe Chiovenda (Virgilio Andrioli e Andrea Proto Pisani), conosce bene questa tradizione, e il valore che la processualistica italiana attribuisce agli studi storici e alla dottrina tedesca.
Io stesso, da giovane, fui mandato per queste ragioni a studiare in Germania, e la mia prima monografia La condanna con riserva, oltre infatti ad essermi stata assegnata perché già oggetto di attenzione da parte di Giuseppe Chiovenda (v. infatti CHIOVENDA, Azioni sommarie. La sentenza di condanna con riserva, ora in Saggi di diritto processuale civile, riedizione a cura di Andrea Proto Pisani, Milano, 1993, I, 121), era dedicata, per oltre la metà, proprio alla ricerca storica (v., infatti, su essa, il parere di Virgilio Andrioli, in L’affetto, l’umanità e l’intransigenza morale di un maestro: Virgilio Andrioli, a cura di Proto Pisani, Napoli, 2019, 150).
[3] GROSSI, Scienza giuridica italiana, Milano, 2000, 61; SATTA, Dalla procedura civile al diritto processuale civile, in Soliloqui e colloqui di un giurista, Padova, 1968.
[4] CHIOVENDA, Saggi di diritto processuale civile, riedizione a cura di Andrea Proto Pisani, Milano, 1993, II, 1 e ss.
[5] ANDRIOLI, Giuseppe Chiovenda tra Principi e Istituzioni, Scritti giuridici, Milano, 2007, III, 2011.
[6] PROTO PISANI, La tutela giurisdizionale dei diritti nel sistema di Giuseppe Chiovenda, Foro it., 2002, V, 125.
[7] Su questi due capisaldi di Giuseppe Chiovenda v. anche, in questa rivista, SPAZIANI, Chiovenda e il computer. Il processo da remoto e la teoria dell’azione.
[8] Chiovenda, Azione, ora in Saggi, cit., III, 1.
[9] Le Lezioni, sono richiamate da CIPRIANI, Scritti in onore dei Patres, Milano, 2006, 244.
[10] CHIOVENDA, “E’ la forma di attuazione autoritativa del diritto obiettivo, relativamente ad un rapporto ad esso soggetto, e allo scopo della tutela di interessi: di diritto privato” (pag. 42), per poi aderire alla posizione di Gierke, per il quale l’azione spetta solo a chi ha ragione “ogni altro uso è abuso” (pag. 70, in nota) (le citazioni sono richiamate da CIPRIANI, Scritti in onore dei Patres, cit., 244).
[11] CHIOVENDA, L’azione nel sistema dei diritti, ora in Saggi, cit., I, 3.
[12] CHIOVENDA, L’azione nel sistema dei diritti, ora in Saggi, cit., I, 14 e 23.
[13] CHIOVENDA, L’azione nel sistema dei diritti, ora in Saggi, cit., I, 26.
[14] Piero Calamandrei ricordava che il suo maestro Carlo Lessona, a lezione, diceva agli studenti di non aver capito la teoria di Giuseppe Chiovenda sull’azione; e critiche a detta prolusione vennero da numerosi studiosi del periodo: da Vincenzo Simoncelli ad Alfredo Rocco, da Tommaso Siciliani a Vincenzo Galante (v. CIPRIANI, Scritti in onore dei Patres, cit., 256).
Per la posizione sul punto del processualista fiorentino può vedersi comunque CALAMANDREI, La relatività del concetto di azione, Studi sul processo civile, Padova, 1947, V, 1.
[15] Egli stesso, nella prefazione delle Istituzioni, riportando quanto già premesso nei Principi, scriveva: “Personale soprattutto è il mio concetto di azione, o, se così vuol dirsi, la formulazione da me data a quel concetto dell’autonomia dell’azione, che la dottrina germanica ha posto in luce con tanta efficacia. Questa formulazione esposta nella mia prolusione bolognese del 3 febbraio 1903, si ritrovò poi a concordare con quella del Weismann” (CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1933, pag. IX).
[16] CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1933, 17.
[17] Precisava infatti CHIOVENDA: “Più fattori concorsero alla formazione delle moderne teorie. Da un lato il rinnovamento degli studio di diritto pubblico e che avviò gli studiosi a considerare il processo come campo d’una funzione d ‘una attività statale, in cui prevale e domina la persona degli organi giurisdizionali e la finalità dell’attuazione, non tanto dei diritti dei singoli, quanto della volontà della legge. Dall’altro il rinnovamento degli studi di diritto romano: questi studi condussero a differenziare nettamente il diritto alla prestazione nella sua direzione personale determinata (Anspruch, ragione o pretesa), dal diritto di azione, come diritto autonomo tendente alla realizzazione della legge per via del processo. Il riconoscimento di questa autonomia fu completato con Adolf Wach, il quale dimostrò che l’azione è un diritto che sta a sé, e va chiaramente distinto dal diritto dell’attore che tende alla prestazione del convenuto obbligato” (v. ancora, Istituzioni, cit., 18).
[18] CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1933, pagg. 20, 21
[19] Per ogni approfondimento di questi aspetti v. TARELLO, L’opera di Giuseppe Chiovenda nel crepuscolo dello Stato liberale, in Dottrine del processo civile, preso in esame da TARUFFO, Sistema e funzione del processo civile nel pensiero di Giuseppe Chiovenda, Riv. trim. dir. proc. civ., 1986; 215; e LIEBMAN, Storiografia giuridica manipolata, Riv. dir. proc., 1988, 100.
[20] CHIOVENDA, Istituzioni, cit., pag. 40.
[21] CHIOVENDA, Istituzioni, cit., pag. 42.
[22] PROTO PISANI, La tutela giurisdizionale dei diritti nel sistema di Giuseppe Chiovenda, cit., 125
[23] CHIOVENDA, Istituzioni, cit., pag. 35.
[24] CHIOVENDA, Istituzioni, cit., pag. 21.
[25] CHIOVENDA, Istituzioni, cit., pagg. 50, 51.
[26] CHIOVENDA, Istituzioni, cit., 52.
[27] “Altro è dunque l’azione, altro il rapporto processuale; quello spetta alla parte che ha ragione, questo è fonte di diritti per tutte le parti. Altro è poi il rapporto giuridico processuale altro è il rapporto giuridico sostanziale dedotto in giudizio. Questo è oggetto di quello” (CHIOVENDA, Istituzioni, cit., 52).
[28] CHIOVENDA, Istituzioni, cit., 52.
[29] CHIOVENDA, Istituzioni, cit., 53.
[30] JEMOLO, Commemorazione di Giuseppe Chiovenda, Rendiconti dell’Accademia dei Lincei, XIV, Roma, 1938, 638.
[31] CIPRIANI, Scritti in onore dei Patres, cit., 226.
[32] CIPRIANI, Scritti in onore dei Patres, cit., 296.
[33] V. infatti TARUFFO, Giuseppe Chiovenda, in Dizionario biografico dei giuristi italiani, cit., 528.
[34] Scriveva CALAMANDREI, Giuseppe Chiovenda, Riv. dir. proc. 1947, 189: “Da allora, anche Giuseppe Chiovenda si trovò ad essere, a poco a poco, un sorvegliato e un isolato: mentre la sua fama era celebrata all’estero, egli, che era indubbiamente in Italia il maestro più insigne di diritto processuale, si trovava messo al bando, come tutti i professori che non avevano voluto iscriversi al partito fascista.
[35] CALAMANDREI, Giuseppe Chiovenda, cit., 293.
[36] CALAMANDREI, Giuseppe Chiovenda, cit., 285.
Spedizioni internazionali rifiuti pericolosi: poteri sovrani dello Stato di importazione e discrezionalità politica dello Stato di esportazione (nota a Cons. Stato, Sez. IV, 26 07 2021 n. 554).
di Simone Francario
Sommario: 1. Osservazioni preliminari sulla disciplina sovranazionale in materia di movimentazioni transfrontaliere di rifiuti pericolosi; 1.1 La convenzione di Basilea del 22 marzo 1989: principi fondamentali e ambito di applicazione; 1.2 La procedura delle movimentazioni transfrontaliere; 1.3 In particolare: il traffico illecito di rifiuti pericolosi e i rimedi previsti dal trattato; 2. La vicenda decisa dal giudice amministrativo; 3 La questione della giurisdizione sugli atti dell’amministrazione tunisina: i poteri sovrani dello Stato di importazione; 4 La questione dell’attivazione dell’arbitrato internazionale: la discrezionalità politica dello Stato di esportazione; 5. Osservazioni conclusive.
1. Osservazioni preliminari sulla disciplina sovranazionale in materia di movimentazioni transfrontaliere di rifiuti pericolosi.
1.1 La Convenzione di Basilea del 22 marzo 1989: principi fondamentali e ambito di applicazione
Il commento della sentenza 554/2021, resa dalla Sezione IV del Consiglio di Stato il 26 luglio 2021 in materia di reimpatrio di rifiuti pericolosi, rende opportuna la preliminare ricostruzione del quadro normativo della disciplina che, a livello sovranazionale disciplina i movimenti oltre frontiera di rifiuti pericolosi e la loro eliminazione, disciplina che ha nella Convenzione di Basilea del 22 marzo 1989 la sua principale fonte [1].
La comunità internazionale ha ritenuto necessario intervenire per regolamentare la materia in quanto, per gran parte del XX secolo, le spedizioni internazionali di rifiuti furono utilizzate come un “escamotage” di alcuni privati e/o Stati per liberarsi di ingenti quantità di rifiuti in danno per lo più di Paesi in via di sviluppo e spesso dietro la corresponsione di compensi irrisori, con grave danno per la salute umana e per l’ambiente[2].
Quando tali eventi furono portati alla luce dalla cronaca, la comunità internazionale ha deciso di porre immediatamente un freno al problema e furono così raggiunti vari compromessi[3].
In primo luogo furono emanate le “Linee direttive e principi del Cairo concernenti la gestione ecologicamente razionale dei rifiuti pericolosi” del 17 giugno 1987, che costituivano uno dei primi accordi internazionali in materia, ma che erano, tuttavia, sprovviste di efficacia vincolante considerato che il loro scopo, come si legge sin dalle prime righe del preambolo, era quello di “[to be] addressed to Governments with a view to assisting them in the process of developing policies for the environmentally sound management of hazardous wastes.”[4]
Successivamente, fu emanata la Convenzione di Basilea del 22 marzo 1989, che rappresenta un primo compromesso/punto d’incontro tra quegli Stati che volevano comunque regolamentare il campo delle spedizioni internazionali di rifiuti pericolosi, ma senza aggiungere troppi freni, e quelli che, d’altro lato, spingevano per una disciplina molto più stringente.
La linea “dura”, se così si può dire, ha poi prevalso nella Convenzione di Bamako stipulata nel 1991 su iniziativa dell’OUA (Organizzazione per l’unità africana), con cui la maggioranza degli Stati africani, rimasti insoddisfatti del compromesso politico raggiunto con la precedente Convenzione di Basilea, ha imposto norme più severe per quanto riguarda l’importazione in Africa di rifiuti pericolosi: ai sensi dell’art. 4 della Convenzione di Bamako, infatti, le Parti devono proibire l’ingresso in Africa di rifiuti pericolosi provenienti da Stati che non sono firmatari di tale trattato[5].
Il quadro normativo si è poi arricchito nel corso del tempo anche con l’emergere di altre normative sovranazionali “regionali”, tra cui, ad esempio, si può citare il Regolamento n. 1013/2006 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 14 giugno 2006, che abroga la precedente normativa contenuta nel Regolamento 259/93/CEE e nella decisione 94/774/CE, e che si applica alle spedizioni internazionali di rifiuti, pericolosi e non, qualora, tra le altre cose, un Paese appartenente all’Unione Europea sia coinvolto nella movimentazione a qualsiasi titolo (e quindi, sia come Paese di spedizione, che come Paese di transito e/o destinazione) [6].
Sebbene prima facie il sistema normativo di riferimento possa apparire molto frammentario, è bene ricordare che le varie normative internazionali sono in gran parte molto simili tra di loro in quanto, seppure con le dovute differenze, si basano sul modello e sui principi già stabiliti proprio con la Convenzione di Basilea, la quale occupa, pertanto, una posizione di fondamentale importanza.
Il preambolo della Convenzione di Basilea attualmente in vigore consente di individuare i principi generali alla base delle procedure ivi previste[7].
Nella parte introduttiva del Trattato internazionale innanzitutto si afferma, con una certa enfasi, che il movimento oltre frontiera di rifiuti pericolosi o di altri rifiuti, la loro gestione ed eliminazione deve avvenire nel rispetto della salute umana e dell’ambiente[8]; si evidenzia il “diritto sovrano [di ogni Stato] di vietare l’entrata o l’eliminazione, sul suo territorio, di rifiuti pericolosi e di altri rifiuti provenienti dall’estero”;[9] si ribadisce il principio di riduzione al minimo della produzione, pericolosità e movimentazione dei rifiuti[10]; si afferma il principio del previo consenso informato per cui i movimenti oltre frontiera di rifiuti pericolosi possono essere autorizzati soltanto se, oltre a svolgersi nel rispetto della salute umana e dell’ambiente, “sono effettuati […] in modo conforme alle disposizioni della presente Convenzione”[11]; si riconosce altresì la crescente tendenza a “voler vietare i movimenti oltre frontiera di rifiuti pericolosi e la loro eliminazione in altri Stati, in particolare nei Paesi in via di sviluppo” i quali “dispongono di una capacità limitata di gestione dei rifiuti pericolosi e di altri rifiuti” e che pertanto “è necessario promuovere il trasferimento, soprattutto verso i Paesi in via di sviluppo, di tecniche destinate ad assicurare una gestione razionale dei rifiuti pericolosi e di altri rifiuti prodotti localmente”[12]; e si evidenzia, infine, anche che la gestione ed eliminazione dei rifiuti deve essere ispirata al principio di prossimità, in base al quale “i rifiuti pericolosi e gli altri rifiuti, nella misura in cui ciò è compatibile con una gestione ecologicamente razionale ed efficace, dovrebbero venir eliminati nello Stato in cui sono prodotti”[13].
Successivamente, la Convenzione, utilizzando un criterio formalistico, si occupa di definire il suo ambito di applicazione e a tal fine l’art. 1, letto in combinato disposto con l’art. 3, prevede che essa si applichi nei confronti dei rifiuti qualificati come pericolosi dagli allegati alla Convenzione stessa o dalle legislazioni delle Parti[14].
1.2 La procedura delle movimentazioni transfrontaliere
Per quanto riguarda la disciplina vera e propria dei movimenti oltre frontiera di rifiuti pericolosi la Convenzione di Basilea, dunque, non ne impedisce tout court le movimentazioni[15] , ma, al contrario, pare più corretto affermare che le esportazioni di tali beni siano consentite solo nel rispetto della procedura e delle garanzie ivi previste[16].
Ad esempio, in applicazione del principio di prossimità, l’art. 4, comma 9, prevede che le movimentazione oltre frontiera di rifiuti pericolosi e di altri rifiuti possono essere autorizzate solamente “se lo Stato di esportazione non dispone dei mezzi tecnici e degli impianti necessari o dei siti di eliminazione richiesti per eliminare i rifiuti in questione secondo metodi ecologicamente razionali ed efficaci, oppure se i rifiuti in questione sono necessari come materia prima per l’industria del riciclaggio o del recupero nello Stato di importazione.” [17]
Ad ogni modo, la garanzia più importante prevista dalla Convenzione di Basilea, come anticipato nell’analisi dei principi fondamentali contenuti nel preambolo, consiste nel fatto che le movimentazioni transfrontaliere dei rifiuti pericolosi devono svolgersi sulla base di una procedura che si basa, essenzialmente, sul principio del previo consenso informato[18]: i Paesi coinvolti nella spedizione devono autorizzare in via preventiva tale movimentazione, e nel fare ciò devono seguire le modalità elencate nella Convenzione di Basilea, pena l’illegalità della spedizione.
Innanzitutto, ciascuna parte deve designare, ai sensi dell’art. 5, una o più “autorità competenti” [19] le quali hanno il compito di ricevere e rispondere a tutte le notificazioni relative alle movimentazioni di rifiuti pericolosi, così come sono deputate a ricevere ogni informazione relativa a tali spedizioni.
L’art. 5, inoltre, prevede che le parti designino anche una “autorità corrispondente”, la quale ha essenzialmente il compito di ricevere e inoltrare alle altre parti altro tipo di informazioni[20].
Il successivo art. 6 disciplina l’intera procedura autorizzatoria di previo consenso informato: lo Stato di esportazione deve notificare, tramite la propria autorità competente, all’autorità competente dello Stato di importazione e degli Stati di transito ogni movimento di rifiuti pericolosi, oppure può esigere che tale compito sia svolto dal produttore o dall’esportatore.
Tale notifica deve essere accompagnata da un documento contenente le dichiarazioni e informazioni specificate nell’allegato V-A come, ad esempio, il motivo dell’esportazione dei rifiuti, l’esportatore dei rifiuti, il produttore o i produttori dei rifiuti e il luogo di produzione, l’eliminatore dei rifiuti e il luogo effettivo dell’eliminazione, denominazione e descrizione fisica dei rifiuti, dichiarazione del produttore e dell’esportatore attestante l’esattezza delle informazioni e informazioni concernenti il contratto concluso tra l’esportatore e l’eliminatore.
In questo modo allo Stato di importazione vengono fornite tutte le informazioni necessarie per decidere se dare “conferma per iscritto a chi ha inviato la notifica di averla ricevuto e nel contempo consente al movimento, con o senza riserva, oppure nega l’autorizzazione a procedere al movimento, oppure chiede un complemento d’informazione” (art. 6, par. 2)[21].
Le autorizzazioni rilasciate dai Paesi di importazione e di transito costituiscono nel meccanismo delineato dal trattato il presupposto necessario e fondamentale affinché il Paese di esportazione possa autorizzare l’esportatore a spedire i rifiuti pericolosi oltre frontiera.
Infatti lo Stato di esportazione autorizzerà l’esportatore ad iniziare il movimento oltre frontiera “soltanto dopo aver ricevuto la conferma scritta che l’autore della notifica ha ricevuto il consenso scritto dello Stato di importazione”.[22]
Allo stesso modo anche l’autorizzazione del Paese di transito costituisce un presupposto necessario dell’autorizzazione all’esportazione del Paese di spedizione: quest’ultimo, infatti, “autorizza l’inizio del movimento oltre frontiera soltanto dopo aver ricevuto la conferma scritta dello Stato di transito.”[23]
Ciononostante, è al Paese di importazione che spetta l’ultima parola in merito allo svolgimento della spedizione: se manca la sua autorizzazione, allora, “le parti vietano o non permettono l’esportazione di rifiuti pericolosi o di altri rifiuti.”[24]
1.3 In particolare: il traffico illecito di rifiuti pericolosi e i rimedi previsti dal trattato
Tra le ragioni principali che hanno portato alla stipulazione della Convenzione di Basilea, si è visto, vi è la ferma intenzione delle parti firmatarie di contrastare il fenomeno delle movimentazioni illegali ed incontrollate di rifiuti pericolosi tra più Stati, in quanto estremamente dannoso per la salute umana e per l’ambiente.
Si da atto, infatti, già nel preambolo che la comunità internazionale è seriamente preoccupata dal problema del traffico illecito oltre frontiera di rifiuti pericolosi e di altri rifiuti[25], e a tal fine la Convenzione si occupa anche di fornire alcuni strumenti giuridici per prevenire e risolvere tale eventualità.
Innanzitutto viene fornita la definizione della fattispecie di traffico illecito di rifiuti pericolosi o di altri rifiuti, per tale intendendosi, ai sensi dell’art. 9, una qualsiasi movimentazione oltre frontiera effettuata in assenza della notifica; senza il consenso degli Stati interessati; senza il reale consenso degli Stati interessati in quanto ottenuto mediante falsificazioni o frode; oppure quando non è materialmente conforme ai documenti; o, infine, quando comporta una eliminazione deliberata dei rifiuti pericolosi o di altri rifiuti in violazione delle disposizioni del trattato e dei principi generali del diritto internazionale.
Ciò posto, la Convenzione di Basilea offre una soluzione diversa a seconda di chi sia l’autore del traffico illecito di rifiuti pericolosi.
Se il movimento oltre frontiera di rifiuti pericolosi è considerato traffico illecito a causa del comportamento dell’esportatore allora lo Stato di esportazione, in primo luogo, provvede affinché i rifiuti in questioni siano rimpatriati e, in secondo luogo, solo se il rimpatrio dei rifiuti non è di fatto possibile, si adopera affinché i rifiuti siano eliminati in altro modo e in maniera conforme alle disposizioni del trattato[26].
In questi casi, la Convenzione di Basilea precisa, “le parti interessate non si oppongono al ritorno di tali rifiuti nello Stato di esportazione, né lo ritardano o lo impediscono.”[27]
Se, invece, l’illegalità della spedizione è causata dal comportamento dell’importatore o eliminatore, spetta invece allo Stato di importazione provvedere affinché i rifiuti in questione vengano eliminati in modo ecologicamente razionale dall’importatore o dall’eliminatore o, in caso, anche dallo stesso Paese di destinazione.[28]
Infine, qualora la responsabilità del traffico illecito di rifiuti pericolosi non possa essere addossata all’esportatore, al produttore, all’importatore o all’eliminatore, le Parti interessate cooperano per eliminare tali rifiuti il più presto possibile e secondo metodi ecologicamente razionali all’interno dello Stato di esportazione, o di importazione o altrove.[29]
In aggiunta a tali rimedi, che sono riservati al caso in cui si verifichi una spedizione illecita di rifiuti pericolosi, la Convenzione di Basilea contiene anche ulteriori modi di risoluzione delle controversie che hanno valenza generale.
Innanzitutto, il primo comma dell’art. 20 pone la regola generale per cui se dovesse sorgere una questione circa l’interpretazione, applicazione o osservanza della Convenzione o di uno dei suoi protocolli le Parti “si sforzeranno di dirimere la controversia mediante trattive o qualsiasi altra via pacifica di loro scelta.”
In subordine, ai sensi del secondo comma, se le Parti non riescono a raggiungere un accordo tramite le modalità del primo comma, queste possono ricorrere a due strade diverse (che pare siano alternative): possono adire la Corte Internazionale di Giustizia, oppure possono avviare una procedura arbitrale alle condizioni definite nell’allegato VI alla Convenzione di Basilea; sempre al secondo comma, come norma di chiusura, poi, si stabilisce che “se le Parti non pervengono ad un accordo per sottoporre il caso alla Corte Internazionale di Giustizia o a una procedura arbitrale, ciò non le esime dalla responsabilità di continuare a tentare di risolvere la controversia con i mezzi indicati nel paragrafo 1.”
2. La vicenda decisa dal giudice amministrativo.
Nel contesto normativo sopra ricostruito s’inquadra la vicenda adesso decisa in appello dal giudice amministrativo, che riguarda appunto una peculiare ipotesi di spedizione internazionale di rifiuti pericolosi che non si conclude felicemente in quanto, una volta giunti a destinazione, il Paese di importazione ne ordina l’immediato rimpatrio per violazione delle garanzie e delle procedure previste per le loro movimentazioni stabilite dalla Convenzione di Basilea.
Una società operante nel settore aveva chiesto alla Regione Campania l’autorizzazione per spedire in Tunisia, in più movimentazioni, circa 12.000 tonnellate di rifiuti non pericolosi (classificati come rifiuti non urbani ma speciali) dove sarebbero stati sottoposti a trattamenti di recupero.
Allo stesso tempo, al fine di ottenere l’autorizzazione anche da parte del Paese di importazione, la documentazione relativa a tale spedizione era stata trasmessa anche alle autorità tunisine, in particolare all’ANGED (Agence nationale de Gestion des Déchets), la quale aveva autorizzato l’importazione dei suindicati rifiuti.
Dopo aver ricevuto il consenso dell’ANGED, e dopo aver ricevuto conferma da parte del Consolato di Tunisia a Napoli che l’ANGED fosse l’autorità competente ad esprimersi in merito, la Regione Campania aveva autorizzato l’esportazione dei rifiuti e una prima parte delle movimentazioni si svolge con esito positivo.
Le restanti movimentazioni, tuttavia, venivano bloccate presso il porto tunisino di arrivo in quanto le autorità locali asserivano di aver accertato, tramite un’istruttoria interna non comunicata neanche all’esportatore, che i rifiuti in oggetto erano in realtà rifiuti pericolosi. Secondo l’amministrazione tunisina, questi rientravano nella categoria “rifiuti urbani Y46” di cui alla Convenzione di Basilea, la quale ne vietava le movimentazioni se non nel rispetto di determinate particolari garanzie. Inoltre, sempre secondo l’Autorità tunisina, la direzione regionale dell’ANGED non era l’autorità competente a rilasciare l’autorizzazione per l’importazione di tali rifiuti ai sensi della Convenzione di Basilea.
Sulla base di tali ragioni, il Responsabile del Ministero degli Affari locali e dell’ambiente della Tunisia comunicava all’impresa esportatrice che la spedizione da essa svolta era da ritenersi illegale, e ordinava pertanto il rimpatrio dei rifiuti in Italia.
Conseguentemente all’ordine di rimpatrio emesso dalle autorità straniere, anche la Regione Campania, con un proprio provvedimento, ordinava all’esportatore di ritrasportare i rifiuti in Italia.
L’impresa esportatrice ricorreva a questo punto innanzi al TAR Napoli chiedendo, inter alia, l’annullamento del provvedimento di rimpatrio adottato dalla Regione Campania, l’accertamento della corretta classificazione dei rifiuti e “la condanna delle amministrazioni resistenti all’adozione di misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio anche mediante la tempestiva attivazione procedura risolutiva ex art. 20 della Convenzione di Basilea ai fini della risoluzione sul piano internazionale della controversia”.
Con sentenza il giudice amministrativo di primo grado Rigettato il ricorso di primo grado dichiarando il difetto assoluto di giurisdizione sulle domande proposte dalla ricorrente, la quale, successivamente, proponeva appello al Consiglio di Stato che, con la sentenza che si annota, confermava la pronuncia resa dal TAR.
Dichiarato inammissibile il ricorso per difetto di giurisdizione con sentenza del Tar Napoli, 9 febbraio 2021 n. 834, l’impresa ricorreva in appello al Consiglio di Stato.
Secondo il giudice amministrativo, la complessa e articolata domanda dell’impresa ricorrente si riassumerebbe sostanzialmente in due questioni: se, in considerazione del fatto che il gravato ordine di rimpatrio dalla Regione Campania si basa su atti emanati da una amministrazione straniera, sui provvedimenti adottati dalle autorità tunisine possa ritenersi sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo; se la pretesa della società esportatrice a che lo Stato italiano promuova una procedura di arbitrato internazionale nei confronti della Tunisia ex art 20 della Convenzione di Basilea costituisca una situazione giuridica soggettiva tutelabile in giudizio o meno.
3 La questione della giurisdizione sui provvedimenti emanati dall’amministrazione tunisina: i poteri sovrani dello Stato di importazione .
Secondo il giudice amministrativo, la decisione sull’annullamento dell’ordine di rimpatrio della Regione Campania non può prescindere dall’esame degli atti precedentemente adottati dall’amministrazione tunisina, in quanto, in virtù del meccanismo delineato dalla Convenzione di Basilea, tra i due “è ravvisabile un rapporto di presupposizione necessaria, in ragione del quale l’atto straniero a monte si atteggi[a] come presupposto unico ed imprescindibile dei successivi atti nazionali che, in quanto tali, sono rispetto a quello, meramente consequenziali, ponendosi nell’ambito della medesima sequenza procedimentale quale inevitabile conseguenza dell’atto anteriore, senza necessità di ulteriori valutazioni di interesse, stante il carattere immediato, diretto e necessario del rapporto che s’instaura tra gli atti considerati.”
Tale considerazione ha portato il giudice a declinare la giurisdizione sulla domanda di annullamento, superando sbrigativamente anche il tentativo dell’appellante di escludere la qualificazione degli atti dell’amministrazione straniera come atti compiuti jure imperii.
In applicazione del noto principio consuetudinario di diritto internazionale “par in parem non habet iudicium”, gli atti compiuti iure imperii dalle autorità straniere godono infatti dell’immunità giurisdizionale da parte degli altri Stati, e ciò rende pacifico che sui provvedimenti emanati dall’amministrazione tunisina non possa sussistere la giurisdizione (amministrativa) del giudice italiano.
Sotto questo profilo, la stessa Convenzione di Basilea non sembra consentire l’esclusione della suddetta qualificazione nel momento in cui si basa sul principio fondamentale per cui è “riconosciuto pienamente ad ogni Stato il diritto sovrano di vietare l’entrata o l’eliminazione, sul suo territorio, di rifiuti pericolosi e di altri rifiuti provenienti dall’estero.”[30]
Ciò costituisce uno dei pilastri su cui è costruita l’intera Convenzione di Basilea e, infatti, esso trova applicazione in gran parte delle disposizioni ivi contenute, tra cui, in particolare, in quelle relative alla procedura autorizzatoria di previo consenso informato ed in quelle relative al rimpatrio dei rifiuti a seguito dell’accertamento dello svolgimento di un traffico illecito ad opera del comportamento dell’esportatore (che in questo caso non aveva rispettato le disposizioni del trattato avendo richiesto l’autorizzazione alla movimentazione ad una autorità straniera incompetente)[31].
Pertanto, quando al verificarsi di una spedizione internazionale illegale lo Stato di importazione ordina il rimpatrio dei rifiuti esso non sta agendo di certo jure privatorum anche se si muove nel contesto internazionale, ma sta esercitando il proprio “diritto sovrano di vietare l’entrata o l’eliminazione sul proprio territorio” di rifiuti pericolosi esteri.
Tanto è vero che quando viene ordinato allo Stato di esportazione di riprendersi i rifiuti spediti, come evidenziato in sentenza, la Convenzione di Basilea “non pone alcuna condizione, prescrizione o limitazione a tale ultimo proposito, ma prevede, anzi, espressamente, che lo Stato di esportazione né si opporrà né ritarderà né impedirà il ritorno dei rifiuti il cui traffico è stato dichiarato illecito.”
Da tanto esposto, secondo il Consiglio di Stato, discende che “a dispetto di quanto censurato dall’appellante, le note provenienti dalla Repubblica di Tunisia si configurano come atti autoritativi e decisori, esercizio di funzioni sovrane, da parte di un altro Stato” sui quali, pertanto, non può sussistere la giurisdizione del giudice amministrativo italiano.
L’assunto, riferito ad atti amministrativi di un’autorità straniera, è sicuramente corretto, ma rimane il fatto che di per sé non spiega l’asserito difetto di giurisdizione sui provvedimenti amministrativi dell’autorità amministrativa nazionale italiana, come si sottolinea meglio di seguito.
4 La questione dell’attivazione dell’arbitrato internazionale. La discrezionalità politica dello Stato di esportazione
La società esportatrice aveva altresì chiesto l’accertamento e la condanna delle Amministrazioni resistenti ad attivare tempestivamente la procedura arbitrale prevista ai sensi dell’art. 20, secondo comma, della Convenzione di Basilea nei confronti della Tunisia.
In relazione a tale domanda il giudice amministrativo, richiamando gli insegnamenti della Corte Costituzionale, ha ritenuto che non è ravvisabile un obbligo del Governo italiano di avvalersi del procedimento arbitrale e di attivare la cooperazione internazionale in quanto tale attività rientra all’interno di “prerogative governative – di natura eminentemente politica – in materia di esecuzione di trattati internazionali.”
Dunque, trattandosi di un atto che il Governo emana nell’esercizio del potere politico, è altresì pacifico che, ai sensi dell’art. 7, co. 1, c.p.a., questo non può essere impugnato davanti al giudice amministrativo.
Sulla base di queste motivazioni, in primo grado, la domanda di attivazione della procedura di arbitrato internazionale veniva dichiarata inammissibile per difetto assoluto di giurisdizione.
Riproposta la questione in appello, il Consiglio di Stato ha ritenuto meritevole di conferma la pronuncia di primo grado ribadendo che “La possibilità di esperire un arbitrato internazionale, previsto dall’art. 20 della Convenzione, si profila come una soluzione rimessa alla scelta politica di ciascuno Stato, rispetto alla quale l’interessato non vanta alcun interesse giuridicamente qualificato. Si tratta infatti di attività chiaramente di natura politica, che involge delicati profili correlati ai rapporti internazionali fra gli Stati, di per sé espressione di una funzione sovrana apicale, libera nel fine e perciò sottratta al sindacato giurisdizionale.”
Sotto questo profilo, il Consiglio di Stato ritiene doveroso chiarire che la declinatoria della giurisdizione del giudice amministrativo anche in relazione alla domanda di arbitrato non lede in alcun modo il diritto di difesa, costituzionalmente garantito, della società esportatrice, in quanto il ricorso al giudice amministrativo nazionale e/o all’arbitrato internazionale non sono le due uniche opzioni esistenti per far valere i diritti dell’esportatore.
La possibile sede per tutelare le proprie pretese, a maggior ragione quando in una fattispecie del genere gli Stati coinvolti hanno deciso di non attivare la procedura arbitrale prevista dalla Convenzione di Basilea, è infatti rappresentata dal foro del Paese di importazione, ossia della Tunisia.
Il Consiglio di Stato si preoccupa al riguardo di precisare che “non va inoltre sottaciuto che il principio affermato dalla pronuncia del T.a.r. non priva di tutela la società odierna appellante, la quale -pienamente consapevole di aver intrapreso un’attività che la pone in contatto con le istituzioni, le procedure e l’ordinamento giuridico di un altro Paese – ben può, conseguentemente, adire gli organi giurisdizionali della Repubblica di Tunisia, per ivi proporre le sue censure e ivi far valere i suoi interessi o i suoi diritti.”
In conclusione, quindi, considerato il ventaglio di opzioni a disposizione dell’esportatore per tutelare le proprie ragioni, e considerato altresì che non è stata data prova di aver esperito le necessarie azioni processuali innanzi agli organi giurisdizionali della Tunisia o che presso queste autorità l’esportatore abbia ricevuto un diniego di giustizia o una decisione non conforme ai principi basilari dell’ordinamento italiano, anche questo motivo di gravame viene respinto e l’appello viene definitivamente rigettato con conferma della sentenza di prime cure.
5. Considerazioni conclusive
Non pare si possa seriamente dissentire dalla soluzione data dal giudice amministrativo alle questioni così come dallo stesso poste.
Ciò che tuttavia non convince nella decisione del giudice amministrativo è, come si è accennato, il fatto che sia praticamente scomparsa la questione della giurisdizione del giudice amministrativo sugli atti dell’amministrazione italiana.
Se infatti è corretto ritenere che il giudice amministrativo italiano sia privo di giurisdizione e non possa quindi sindacare gli atti se questi provengono dall’autorità tunisina, è anche vero che la ricorrente aveva comunque impugnato dinanzi al TAR un provvedimento dell’amministrazione italiana, non tunisina. E che per quanto l’ordine di reimpatrio della Regione Campania potesse e dovesse ritenersi vincolato nel contenuto dalla decisione delle autorità tunisine, esso rimaneva comunque un provvedimento almeno in astratto impugnabile innanzi al giudice amministrativo italiano ai sensi dell’art 113 Cost., il quale come è noto, statuisce che “contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale” e che “tale tutela non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi d’impugnazione o per determinate categorie di atti”.
Già in sede commento della pronuncia di primo grado, si era sotto questo profilo sottolineato che sarebbe stato più corretto dichiarato infondato il ricorso, perché l’atto impugnato non poteva mai avere un diverso contenuto in ragione dell’insindacabile vincolo derivante dalla decisione dell’autorità straniera, piuttosto che declinare la giurisdizione su un provvedimento amministrativo[32].
Se la qualificazione della spedizione come traffico illecito di rifiuti pericolosi e il conseguente ordine di rimpatrio sono atti che lo Stato di importazione compie nell’esercizio di poteri sovrani e di governo e non sono pertanto sindacabili dal giudice amministrativo nazionale del paese di esportazione, non pare che dal riconoscimento dell’immunità giurisdizionale a favore di detti provvedimenti stranieri possa automaticamente discendere il difetto assoluto di giurisdizione anche sulla domanda di annullamento del provvedimento emanato dalla regione Campania.
Infatti, ai sensi del 113 Cost., il provvedimento della Regione Campania dovrebbe essere pur sempre impugnabile.
Secondo il meccanismo delineato dall’art. 9 della Convenzione di Basilea esso appare senz’altro come un provvedimento vincolato nel concreto contenuto, perché l’amministrazione italiana, a fronte dell’ordine di rimpatrio emanato dalla Tunisia, non può “opporsi, ritardare o impedire il rientro” di tali rifiuti, ma, anzi, è tenuta ad adoperarsi affinché i rifiuti tornino in Italia. Ma, se il provvedimento amministrativo non può avere un diverso contenuto, ciò dovrebbe a rigore portare alla pronuncia d’infondatezza del ricorso o semmai alla pronuncia d’inammissibilità per carenza d’interesse ai sensi dell’art 21 octies della l. 241/1990 e s.m.i., non ad una pronuncia di difetto di giurisdizione.
Nulla da eccepire invece con riferimento alla pronuncia declinatoria della giurisdizione con riferimento alla mancata proposizione dell’arbitrato internazionale, poiché appare in realtà pacifico che la ricorrente non possa vantare alcuna situazione giuridica tutelabile in giudizio, in quanto la decisione del Governo di iniziare (o non iniziare) la procedura arbitrale internazionale ex art. 20 della Convenzione di Basilea, costituisce un chiaro atto politico che, come è noto, ai sensi dell’art. 7, co. 1, cpa, non può essere impugnato davanti al giudice amministrativo.
[1] Per un’analisi più generale delle normative sovranazionali in tema di spedizioni di rifiuti pericolosi si rinvia a S. FRANCARIO, Movimenti transfrontalieri di rifiuti pericolosi e giurisdizione amministrativa, in www.federalismi.it, n. 16, del 30 giugno 2021.
[2] Tra i tanti, si possono ricordare il caso dei fratelli Colbert i quali compravano da industrie americane rifiuti chimici pericolosi e, invece di eliminarli come rifiuti pericolosi all’interno degli Stati Uniti, li riciclavano, li annacquavano e li vendevano come prodotti chimici vergini a vari Stati Africani (per un’analisi più approfondita si veda S.M. MÜLLER, Hidden Externalities: The globalization of hazardous waste, in Business History Review, Cambridge University Press, Cambridge, 93, 2019, pp. 51 e ss); o ancora la c.d. nave dei veleni Khian Sea, la quale, con un carico di circa 15 mila tonnellate di rifiuti nella stiva e al fine di risolvere una situazione di emergenza rifiuti, partì dal porto di Philadelphia nel 1986 e scaricò detti rifiuti in più di 11 Paesi diversi oltre che in mare aperto e, nonostante ciò, gli stessi rifiuti scaricati in mare, dopo non molto tempo, furono ritrasportati dalle correnti sulle coste della città di Philadelphia da dove erano partiti; gli eventi legati alla città nigeriana di Koko, la quale passò alla cronaca verso la fine degli anni ’80 quando fu scoperto che alcune imprese italiane spedivano container carichi di rifiuti pericolosi nella città nigeriana di Koko, dietro il pagamento di circa 100 dollari, al mese.
[3] Cfr. P. M. DUPUY, J. E. VINUALES, International Environmental Law, Cambridge University Press, Cambridge, 2018, p. 273, dove gli A. a proposito delle origini della Convenzione di Basilea affermano che: “The Basel Convention is also rooted in the environmental justice movement, and its predecessor was also a non-binding instrument. At the origin of this treaty lies a controversial factual configuration characterized by the generation of large amounts of waste in developed countries (or their richest regions) and the transfer of that waste to developing countries (or poor regions) for elimination or simply discharge. This phenomenon, largely induced by the high costs of waste disposal in the countries that generate such waste, came under much criticism, especially because of the impact on the environment and health of the people in receiving States and regions.”
Nello stesso senso cfr. anche S.A. KHAN, Clearly hazardous, obscurely regulated: lessons from the Basel Convention on waste trade, in American Journal of International Law Unbound, Symposium on global plastic pollution, Cambridge University Press, Cambridge, 2020, p. 201, dove si sottolinea proprio che “The Basel Convention was adopted in 1989 based on broad international consensus that the widespread business practice of exporting hazardous waste from industrialized to developing countries required stricter regulation. Accounts of the negotiation process show that beneath the general consensus that disposing toxic wastes in poor countries was unethical […].”
In generale sul tema si vedano anche K. KUMMER, International management of hazardous wastes: the Basel convention and related legal rules, Oxford University Press, Oxford, 1995; J. CLAPP, Toxic Exports: The transfer of hazardous wastes from rich to poor countries, Cornell University Press, London, 2001.
[4] Cfr. considerando n. 1 delle Linee direttive e principi del Cairo concernenti la gestione ecologicamente razionale dei rifiuti pericolosi.
La loro funzione di “guidelines”, ossia di suggerimento ai legislatori nazionali per modificare la propria normativa in materia, è confermata anche dai successivi punti del preambolo. Si prenda in considerazione, ad esempio, il considerando n. 3: “These guidelines are without prejudice to the provisions of particular systems arising from international agreements in the field of hazardous waste management. They have been developed with a view to assisting States in the process of developing appropriate bilateral, regional and multilateral agreements and national legislation for the environmentally sound management of hazardous wastes.”
[5] M. M. MBENGUE, Principle 14, in The Rio Declaration on Environment and Development: A Commentary, Oxford University Press, Oxford, 2015, pp. 384 e ss. dove l’A. sottolinea che: “Due to several publicized incidents in the mid 1980s involving hazardous wastes produced in industrialized countries and dumped in developing countries, international law has focused primarily on the permissibility of international movements and trade in waste and other hazardous substances. In this focus, a particular tension has emerged: the desire of many developing countries, particularly African states, to ban international trade in waste, and the opposition by many industrialized countries, desiring to keep their waste disposal options open. There are significant economic incentives that influences state policies regarding trade in hazardous substances and activities, and the industries and agricultural sectors that produce the substances in question are often of significant economic and therefore political importance regionally. Due to the high costs of disposal of such activities and substances in developed countries with stronger environmental regulation and enforcement, these industries seek to dispose of these substances in the developing world where costs are significantly lower.”
[6] Per una ricostruzione delle regole generali e dei principi fondamentali della normativa comunitaria in materia di rifiuti si veda M. MEDUGNO, T. RONCHETTI, Economia circolare e trasporto transfrontaliero dei rifiuti, in Ambiente & Sviluppo, 10, 2018, pp. 646 e ss.; A. STORTI, Spedizione transfrontaliera di rifiuti: sistematica delle fonti e profili problematici, in www.lexambiente.it, 2017; C. FELIZIANI, La gestione dei rifiuti in Europa, in www.federalismi.it, 2017; C. BOVINO, La normativa ambientale, in Manuale Ambiente, Wolters Kluwer, Milano, 2015, pp. 415 e ss; P. DELL’ANNO, Disciplina della gestione dei rifiuti, in Trattato di diritto dell’ambiente (diretto da P. DELL’ANNO, E. PICOZZA), Cedam, Padova, 2012, II, pp. 162 e ss.;
Più in generale sull’evoluzione dei principi generali in materia di ambiente e di rifiuti a livello comunitario cfr. R. ROTA, Profili di diritto comunitario dell’ambiente, in Trattato di diritto dell’ambiente, op. cit., I, pp. 151 e ss.; M. MONTINI, Unione Europea e Ambiente, in Codice dell’ambiente (a cura di S. NESPOR, A. L. DE CESARIS), Giuffrè Editore, Milano, 2009, pp. 47 e ss.; A. JAZZETTI, Manuale sui rifiuti, Il Sole 24 ore, Milano, 2001, pp. 1 e ss.
[7] Sui principi generali alla base della Convenzione di Basilea cfr. P. M. DUPUY, J. E. VINUALES, International Environmental Law, op. cit., pp. 273 e ss.: “The general approach of the Basel Convention is summarized by K Kummer, former Executive Secretary of the Convention, as follows: (i) the reduction of hazardous waste generation to a minimum (‘principle of waste minimisation’, Article 4(2)(a)); (ii) the disposal in an environmentally sound manner by facilities located as near to the source of generation as possible (‘principle of proximity disposal’, Article 4(2)(b)-(c)); (iii) absolute prohibition of exports of hazardous waste in some cases (to States which are not parties to the Convention, to Antarctica, to States which have prohibited imports or do not have the capacity to manage them in an environmentally sound manner, or from an OECD State to a non-OECD State); (iv) in all other cases, the exports of hazardous waste must comply with the system established by the Convention, namely the disposal must be carried out in an environmentally sound manner in the country of import and the transboundary movement must meet certain conditions, mainly a specific PIC procedure (Article 6); (v) hazardous waste which is exported illegally or which is not disposed of in an environmentally sound manner must be re-imported into the State of origin.”
[8] Il principio che impone che le spedizioni transfrontaliere di rifiuti devono innanzitutto svolgersi in una maniera tale da rispettare la salute umana e l’ambiente si evince da molteplici disposizioni del preambolo dove, in particolare, si legge che: “Le parti alla presente Convenzione, coscienti dei danni che i rifiuti pericolosi e altri rifiuti nonché i movimenti oltre frontiera di tali rifiuti rischiano di causare alla salute umana e all’ambiente; consce della minaccia crescente che rappresentano per la salute umana e l’ambiente la sempre maggiore complessità e lo sviluppo della produzione dei rifiuti pericolosi e di altri rifiuti nonché i loro movimenti oltre frontiera; consce ugualmente del fatto che il modo più efficace per proteggere la salute umana e l’ambiente dai pericoli che rappresentano tali rifiuti consiste nel ridurre al minimo la loro produzione dal punto di vista della quantità e/o del pericolo potenziale; convinte che gli Stati dovrebbero prendere le misure necessarie per fare in modo che la gestione dei rifiuti pericolosi e di altri rifiuti, compresi i loro movimenti oltre frontiera e la loro eliminazione, sia compatibile con la protezione della salute umana e dell’ambiente, qualunque sia il luogo nel quale tali rifiuti vengono eliminati; fatto notare che gli Stati dovrebbero provvedere affinché il produttore adempia gli obblighi relativi al trasporto e all’eliminazione dei rifiuti pericolosi e di altri rifiuti in un modo che sia compatibile con la protezione dell’ambiente, qualunque sia il luogo nel quale tali rifiuti vengono eliminati.”
[9] Cfr. Considerando n. 6.
[10] Cfr. Considerando nn. 3, 10, 17 e 18.
[11] Cfr. Considerando n. 9.
[12] Cfr. Considerando nn. 7, 20, 21.
[13] Per una recente applicazione del principio di prossimità in materia di spedizioni internazionali di rifiuti si veda Corte di Giustizia dell’Unione Europea, Sez. VIII, sentenza 11 novembre 2021, Causa C-315/20. Una società italiana aveva richiesto alla Regione Veneto l’autorizzazione preventiva per la spedizione in Slovenia di rifiuti urbani non differenziati prodotti in Italia. La Regione si era opposta alla spedizione osservando in particolare che: sebbene i rifiuti in esame erano stati sottoposti a un trattamento meccanico al fine del loro utilizzo in combustione, tale operazione non aveva sostanzialmente alterato la loro natura e rimanevano, pertanto, rifiuti urbani non differenziati e non potevano essere qualificati diversamente al fine di agevolare la lor movimentazione transfrontaliera; e che, in applicazione del principio di autosufficienza e prossimità, ispiranti anche la normativa comunitaria in materia di spedizioni internazionali tra Stati membri di rifiuti, sarebbe stato necessario smaltire tali rifiuti in Italia in quanto la stessa Regione Veneto si era dichiarata disponibile ad accogliere gli stessi disponendo nel proprio territorio di impianti in grado di soddisfare le esigenze dello spedizioniere. Lo spedizioniere aveva impugnato il provvedimento regionale dinanzi al TAR ottenendone l’annullamento; proposto l’appello dalla Regione, il Consiglio di Stato sottoponeva la questione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea chiedendo, in via di estrema sintesi se i rifiuti urbani indifferenziati, trattati meccanicamente da un impianto al fine del recupero energetico (operazione R1/R12 ai sensi del d. lgs. 152/2006), possono rimanere classificati come rifiuti urbani non differenziati; e se, inoltre, tale operazione possa influire sul diniego opposto dall’amministrazione italiana motivato sulla base del principio di prossimità.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea conferma che la natura dei rifiuti rimane inalterata: essi devono essere inquadrati come rifiuti urbani indifferenziati anche se sono stati sottoposti ad un trattamento meccanico di cui alle operazioni R1/R12.
Successivamente il giudice comunitario chiarisce anche che il diritto europeo, in particolare, in virtù dell’art. 11, paragrafo 1, lettera i) del regolamento 1013/2006, consente alle competenti autorità di spedizione di opporsi alla spedizione transfrontaliera di rifiuti urbani indifferenziati e che tale norma costituisce diretta applicazione del principio di prossimità, il quale costituisce uno dei cardini anche del quadro normativo approntato dal diritto europeo in materia.
Infatti, si legge in sentenza ai punti 25-26: “La Corte ha tuttavia sottolineato che, in tale ambito, per quanto concerne in particolare le misure atte ad incoraggiare la razionalizzazione della raccolta, della cernita e del trattamento dei rifiuti, una delle più importanti misure che devono essere adottate dagli Stati membri, in particolare tramite gli enti locali dotati di competenza a tale riguardo, consiste nel cercare di trattare detti rifiuti nell’impianto più vicino possibile al luogo in cui vengono prodotti, segnatamente per i rifiuti urbani non differenziati, per limitarne al massimo il trasporto.
Ne consegue che, conformemente all’art. 3, par. 5, e all’art. 11, par. 1, lett. i) del regolamento n. 1013/2006, e al fine di garantire il rispetto dei principi di autosufficienza e di prossimità sanciti all’articolo 16 della direttiva 2008/98 e attuati dalle disposizioni succitate del regolamento n. 1013/2006, principi invocati, nel procedimento principale, dall’autorità competente di spedizione, quest’ultima può opporsi a una spedizione di rifiuti urbani non differenziati provenienti dalla raccolta domestica destinati al recupero o allo smaltimento.”
[14] P. BIRNIE, A. BOYLE, C. REDGWELL, International law and the environment, Oxford University Press, Oxford, 2009, p. 477, dove gli A. affermano che “Wastes are ‘hazardous’ only when listed in the Convention’s annexes, or if defined as such by national law and notified to the Convention’s Secretariat.”
Tuttavia proprio il ricorso a tale criterio formalistico sembra destare qualche perplessità in dottrina la quale evidenzia che in tal modo la definizione di rifiuto pericoloso sarebbe rimessa alla valutazione, svolta caso per caso, dagli Stati coinvolti. Così argomentando, un rifiuto qualificator come pericoloso, ad esempio, dallo Stato di esportazione, potrebbe essere considerate non pericoloso dallo Stato di importazione e ciò escluderebbe di conseguenza l’applicazione delle regole previste dalla Convenzione di Basilea, la cui applicazione, così ragionando, sarebbe rimessa alla interpretazione sovrana e discrezionale compiuta dalle Parti. Sul punto O. BARSALOU e M.H. PICARD, International Environmental Law in an Era of Globalized Waste, in Chinese Journal of International Law, Oxford University Press, Oxford, 17, 2018, pp. 887 e ss dove si legge che: “Furthermore, the Basel regime does not precisely define ‘hazardous waste’, leaving the legal qualification of waste within the sovereign discretionary interpretation of States authorities. […] This means that sovereign States are able to circumvent their international legal obligations and claim that the waste they manage, export and import is outside the purview of the Basel Convention. […] By allowing States to subjectively interpret the concept of ‘hazardous waste’, international environmental law facilities global waste displacement.”
[15] Anche se, comunque, la Convenzione di Basilea prevede una serie di casi in cui le movimentazioni transfrontaliere di rifiuti pericolosi sono vietate e non possono essere autorizzate.
Ci si riferisce in primo luogo all’art. 4, comma 1, lett. a), dove è previsto il diritto per gli Stati firmatari di vietare ad ogni modo l’importazione di determinate categorie di rifiuti pericolosi; questo divieto, ai sensi dell’art. 4, comma 1, lett. b), dovrà essere comunicato alle altre parti secondo le modalità indicate dalla Convenzione stessa e, una volta adempiuta tale comunicazione, “le parti vietano o non permettono l’esportazione di rifiuti pericolosi o di altri rifiuti nelle parti che hanno vietato l’importazione di tali rifiuti, se questo divieto è stato notificato conformemente alle disposizioni del capoverso a) di cui sopra.”
Inoltre l’art. 4, comma 5, in base al quale le spedizioni internazionali di rifiuti pericolosi possono avvenire solamente tra gli Stati firmatari della Convenzione e dove si legge che “Le Parti non autorizzano né le esportazioni di rifiuti pericolosi o di altri rifiuti verso uno Stato non Parte, né l’importazione di tali rifiuti provenienti da uno Stato non Parte.”
L’art. 4, comma 6, invece, vieta l’esportazione di rifiuti pericolosi o di altri rifiuti in vista della loro eliminazione in Antartide.
Mentre l’art. 4, comma 2, lett. e), vieta le esportazioni di rifiuti pericolosi o di altri rifiuti “verso gli Stati o i gruppi di Stati appartenenti ad organizzazioni di integrazione politica o economica che sono Parti, in particolare i Paesi in via di sviluppo, che hanno vietato, nella loro legislazione, ogni importazione di tali rifiuti, oppure [ogni Parte vieta tali esportazioni] se ha motivo di credere che i rifiuti in questione non vi saranno gestiti secondo metodi ecologicamente razionali come quelli stabiliti dai criteri che le Parti definiranno in occasione della loro prima riunione.”
[16] Cfr. J. CRAWFORD, Brownlie’s Principles of Public International Law, Oxford University Press, Oxford, 2019, p. 347, dove si legge che: “The Basel Convention of 1989 was negotiated in response to concerns that the transport of hazardous waste between countries could pose an environmental hazard to both transit and recipient countries. It does not ban the transport of hazardous waste, but places limits on its movement: it is permissible to export waste if the exporting country does not have sufficient disposal capacity or disposal sites capable of disposal in an environmentally sound manner, and if the waste is required as a raw material for recycling or recovery industries in the importing country.”
[17] Sul punto P. BIRNIE, A. BOYLE, C. REDGWELL, International law and the environment, op. cit. pp. 476, dopo aver ribadito che la Convenzione di Basilea è frutto di un compromesso tra gli Stati che volevano lasciare aperto lo spostamento di rifiuti pericolosi oltre frontiera e gli Stati che invece, all’opposto, lo volevano vietare in toto, affermano che da tale Trattato è possibile ricavare alcune importanti norme consuetudinarie: ad esempio, la regola che il “transboundary movement is permitted only in circumstances where the state of export does not have the capacity of facilities to dispose of the wastes in an environmentally sound manner itself, unless intended for recycling […]” rappresenta un principio che “probably already represent customary law, since they are supported in part by state practice, by the sovereign right of states to control activities in their own territories, and by the responsibility of exporting states for activities within their jurisdiction which harm other states or the global environment.”
[18] Cfr. J. CRAWFORD, Brownlie’s Principles of Public International Law, op. cit., p. 347, il quale afferma che: “In addition, the exporting state must obtain the consent of the importing state and transit states before allowing a shipment of hazardous waste.”
Nello stesso senso anche O. BARSALOU e M.H. PICARD, International Environmental Law in an Era of Globalized Waste, op. cit., p. 899, dove gli autori affermano che “The Basel Convention does not determine a legally binding cap on waste transfer across jurisdictions. Provided the host State consents and is notified by the exporting State, hazardous waste is legally traded on the international market. Technically speaking, the Basel Convention implements the Environmentally Sound Management (ESM) of hazardous waste through a Prior Informed Consent (PIC) Procedure. In short, there is no ban of waste transfer, rather a regulatory platform for exchange.”
Della stessa opinione sono anche P. BIRNIE, A. BOYLE, C. REDGWELL, International law and the environment, op. cit., p. 478, secondo cui: “Only rarely does international law require the prior consent of other states before environmentally harmful activities may be undertaken. […] Unusually, the essence of the control system established by the Basel Convention is the need for prior, informed, written consent from transit states and the state of import. Only in the case of transit states which are parties to the Convention can this requirement be waived in favour of tacit acquiescence. Information must be supplied which is sufficient to enable the nature and effects on health and the environment of the proposed movement to be assessed.” Inoltre, sempre secondo gli A. (p. 476), anche questa regola positivizzata nella Convenzione di Basilea rappresenterebbe una norma di diritto internazionale consuetudinario: “Lastly, the Basel and regional conventions demonstrate widespread agreement that trade which does take place requires prior informed consent of transit and import states” e ciò rappresenta una “customary law.”
[19] Sul sito istituzionale della Convenzione di Basilea (www.basel.int) per autorità competente si intende “the governmental authority designated to be responsible, within such geographical areas as the Party may think fit, for receiving notifications of transboundary movements and any related information and for responding to such notifications.”
[20] Il sito istituzionale della Convenzione di Basilea (www.basel.int) definisce “l’autorità corrispondente” come “the entity of a Party responsible for receiving and submitting information to other parties as provided for in articles 13 and 16 of the Convention.”
[21] M. M. MBENGUE, Principle 14, op. cit., pp. 386 e ss., dove si legge che: “The Basel Convention sets out detailed conditions for the international regulation of transboundary movements of hazardous and other wastes between parties, based on a system of ‘prior informed consent’. Under the regime, the exporting state must notify the states concerned of any transboundary movement and the importing state responds by giving its consent with or without conditions, denying permission, or requiring additional information. No transboundary movement can occur until the exporting state has received the written consent of the importing state and confirmation from that state of the existence of a contract between the exporter and the disposer that specifies the environmentally sound management of the wastes.”
[22] Cfr. art. 6, co. 3, lett. a).
Inoltre, ai sensi dell’art. 6, co. 3, lett. b), in applicazione del principio della gestione ecologicamente razionale dei rifiuti, il trattato prevede anche che il rilascio dell’autorizzazione da parte dello Stato di esportazione sia subordinato al fatto che “l’autore della notifica ha ricevuto dallo Stato di importazione la conferma dell’esistenza di un contratto, stipulato fra l’esportatore e l’eliminatore, sulla gestione ecologicamente razionale dei rifiuti in questione.”
[23] Cfr. art. 6, co. 4.
[24] Cfr. art. 4, co. 1, lett. c).
[25] Cfr. considerando n. 19.
[26] Cfr. art. 9, co. 2, lett. a), b).
[27] Cfr. art. 9, co. 2, lett. b), ultimo periodo.
[28] Cfr. art. 9, co. 3.
[29] Cfr. art. 9, co. 4.
[30] Cfr. considerando n. 6.
[31] Cfr. P. BIRNIE, A. BOYLE, C. REDGWELL, International law and the environment, op. cit., p. 476.
[32] Cfr. S. FRANCARIO, Movimenti transfrontalieri di rifiuti pericolosi e giurisdizione amministrativa, cit.
Primissime considerazioni sulla “nuova” disciplina delle concessioni balneari nella lettura dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato
di Francesco Paolo Bello
Sommario: 1. Premessa. 2. L’attendismo del legislatore e l’interventismo del Consiglio di Stato. Tra interpretazione e creazionismo. 3. L’applicabilità delle regole pro-concorrenziali alle concessioni balneari. 3.1. La sussistenza dell’interesse transfrontaliero. 3.2. La direttiva Bolkestein quale misura di liberalizzazione e la non incidenza sulle prerogative nazionali in materia di turismo. 3.3. Il lido del mare quale “asset aziendale”. 3.4. La natura auto-esecutiva della direttiva Bolkestein e obbligo di disapplicazione della disciplina nazionale da parte della p.A. 4. Le “linee guida” del Consiglio di Stato. 4.1. Disapplicazione della legge anti-comunitaria e insussistenza della responsabilità penale. 4.2. Disapplicazione della legge anti-comunitaria e tutela dell’affidamento del concessionario. 4.3. Insussistenza di un legittimo affidamento dei concessionari. 5. Rimozione degli effetti dell’atto di proroga e autotutela. 5.1. Proroga della concessione e assenza di potere autoritativo. 5.2. Attività vincolata, potere autoritativo e giurisdizione 5.3. Atto di “rimozione degli effetti della proroga”, principio di legalità e (a)tipicità degli atti amministrativi. 6. Disapplicazione della norma anti-comunitaria e giudicato. 7. Sulla modulazione degli effetti temporali della sentenza. 7.1. Il termine del 31 dicembre 2023 e le prerogative del legislatore.
1. Premessa.
Con la sentenza n. 17 dello scorso 9 novembre 2021 (e con la “gemella” n. 18, rese rispettivamente nell’ambito di giudizi di appello alle sentenze pronunciate da Tar Sicilia – Catania, n. 504/2021 e da Tar Puglia – Lecce, n. 73/2021) l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato è intervenuta sulla notissima questione del regime giuridico delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative (c.d. “concessioni balneari”).
Si tratta di una decisione ricca di spunti e che si offre come oggetto di studio per i numerosi profili di carattere processuale e sostanziale che vengono in rilievo.
Il presente scritto si propone di accompagnare il lettore in una prima analisi ragionata dei passaggi più rilevanti della sentenza, rinunciando ad approfondimenti di carattere teorico e giurisprudenziale che richiederebbero tempi più distesi e che saranno certamente oggetto di prossime riflessioni della dottrina.
2. L’attendismo del legislatore e l’interventismo del Consiglio di Stato. Tra interpretazione e creazionismo.
È il presidente del Consiglio di Stato che, esercitando il potere officioso previsto dall’art. 99, comma 2, c.p.a., ha deferito l’affare alla plenaria in ragione della “particolare rilevanza economico-sociale” della questione ed al fine di “assicurare certezza e uniformità di applicazione del diritto da parte delle amministrazioni interessate nonché uniformità di orientamenti giurisprudenziali”.
La decisione dell’Adunanza plenaria, dunque, è dichiaratamente rivolta non solo al Giudice amministrativo – chiamato evidentemente a tenerne conto onde garantire pro futuro un’uniformità di orientamenti giurisprudenziali – ma anche a tutte le pubbliche amministrazioni (diverse, ovviamente, dall’appellata) interessate da procedimenti relativi a concessioni balneari.
Sin dal procedimento che ha dato luogo alla pronuncia, caratterizzato da un inusuale atto d’impulso del Presidente del Consiglio di Stato, emerge la volontà del supremo organo di giustizia amministrativa di intervenire in maniera risolutiva in una materia sulla quale il legislatore – nonostante le sollecitazioni derivanti dal diritto dell’Unione, dalla Corte di Giustizia e dalla Commissione europea ‒ ha troppo a lungo serbato una condotta attendista, volta a non modificare nella sostanza il regime giuridico previsto tradizionalmente dall’ordinamento interno.
Il diritto europeo, tuttavia, specie quando si occupa di mercato e di tutela della concorrenza (molto meno, per vero, quando si occupa di diritti fondamentali) possiede una straordinaria capacità di penetrazione negli ordinamenti nazionali e riesce a vincere le resistenze opposte, volta a volta, dai legislatori, dalla giurisprudenza, dalle amministrazioni degli Stati membri.
Nella vicenda che ci occupa i principi pro-concorrenziali propri del diritto europeo ‒ che in maniera quasi carsica hanno tracciato lentamente il proprio percorso nella “materia dura” delle concessioni demaniali ‒ riaffiorano attraverso l’iniziativa del Presidente del Consiglio di Stato e la voce dell’Adunanza plenaria.
Come meglio diremo nel prosieguo, siamo innanzi ad una pronunzia nella quale il Giudice esercita una funzione di supplenza rispetto ad un legislatore neghittoso e crea una regula juris che dovrebbe condizionare l’operato futuro delle Amministrazioni e, addirittura, del legislatore.
Si tratta di un ruolo di supplenza non certo nuovo per la giurisprudenza (ed in particolare per il Consiglio di Stato), ma che dovrebbe comunque rivestire il carattere dell’eccezionalità. Nel caso di specie, i Giudici di Palazzo Spada hanno affrontato in maniera innovativa delicati profili problematici di carattere sostanziale e processuale ‒ attinenti, ad esempio, alla natura self executing delle direttive, al rapporto tra sentenze della Corte di Giustizia e giudicato nazionale, alla natura degli atti di proroga delle concessioni ‒ sconfinando talvolta nel creazionismo e spingendosi sino ai confini del potere giurisdizionale.
Tali confini, tracciati dalla Costituzione per garantire un ovvio equilibrio tra i poteri dello Stato, paiono, anzi, esser stati superati nella parte in cui l’Adunanza plenaria: a) ha individuato, secondo il proprio apprezzamento degli interessi in gioco, un termine futuro (31.12.2023) a partire dal quale le concessioni cesseranno di produrre effetto (§ 48); b) ha preannunciato i criteri che dovranno essere seguiti nelle gare pubbliche per l’attribuzione delle concessioni (§ 49); c) ha addirittura anticipato un giudizio di “non applicabilità” di eventuali leggi di proroga che il legislatore, nell’esercizio della propria funzione, dovesse ritenere di introdurre.
3. L’applicabilità delle regole pro-concorrenziali alle concessioni balneari.
La questione di fondo attiene alla sussistenza di eventuali profili di contrasto tra la normativa europea e la disciplina nazionale che dispone la proroga automatica e generalizzata fino al 31 dicembre 2033 delle concessioni demaniali in essere (art. 1, commi 682 e 683, legge n. 145 del 2018, nonché art. 182, comma 2, d.l. 19 n. 34/2020).
Il Consiglio di Stato (§ 12) ricorda che la questione è stata già affrontata dalla Corte di Giustizia con la sentenza 14 luglio 2016, in cause riunite C-458/14 e C-67/15 (Promoimpresa).
Nell’occasione la Corte ha affermato che: a) l’articolo 12, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2006/123/CE (c.d. direttiva Bolkestein) osta a una misura nazionale che preveda la proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime e lacuali in essere per attività turistico‑ricreative, in assenza di qualsiasi procedura di selezione tra i potenziali candidati; b) l’articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale che consenta una proroga automatica delle concessioni demaniali pubbliche in essere per attività turistico‑ricreative, nei limiti in cui tali concessioni presentino un interesse transfrontaliero certo.
I principi dettati dalla Corte in Promoimpresa sono stati recepiti dalla giurisprudenza nazionale ma, non di meno, sono stati messi in discussione dalla dottrina sotto il profilo della insussistenza dell’ “interesse transfrontaliero certo”, nonché in relazione alla asserita non riconducibilità delle concessioni demaniali alla nozione di “autorizzazione di servizi” e quindi all’ambito di applicazione dell’art. 12 della direttiva.
3.1. La sussistenza dell’interesse transfrontaliero.
In riferimento alla sussistenza dell’ “interesse transfrontaliero certo” la plenaria svolge un’analisi sul “mercato delle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreative” (§ 16), ritenendo che i beni demaniali debbano, nella materia in questione, essere “valutati unitariamente e complessivamente” senza potersi ammettere un “artificioso frazionamento” del patrimonio costiero nazionale.
Da tale premessa discende che la procedura per l’affidamento di una singola concessione demaniale non possa esser considerata in maniera isolata e, pertanto, non sfugge alle regole pro-concorrenziali di derivazione europea.
In altri termini, è proprio la considerazione unitaria dei beni demaniali in questione, che consente al Giudice di ritenere sussistente l ’“interesse transfrontaliero”.
Ma anche sul punto sembra quasi che il Consiglio di Stato si sia sentito investito del “dovere” di intervenire in un settore nel quale il sistema-paese ‒ per effetto della combinazione di norme primarie e decisioni delle singole amministrazioni ‒ si è reso responsabile di una gestione gravemente inefficiente di una rilevante risorsa pubblica.
Osserva il Collegio che “il giro d’affari stimato del settore si aggira intorno ai quindici miliardi di euro all’anno, a fronte dei quali l’ammontare dei canoni di concessione supera di poco i cento milioni di euro, il che rende evidente il potenziale maggior introito per le casse pubbliche a seguito di una gestione maggiormente efficiente delle medesime”; e soggiunge: “pensare che questo settore, così nevralgico per l’economia del Paese, possa essere tenuto al riparo dalle regole della concorrenza e dell’evidenza pubblica, sottraendo al mercato e alla libera competizione economica risorse naturali in grado di occasionare profitti ragguardevoli in capo ai singoli operatori economici, rappresenta una posizione insostenibile, non solo sul piano costituzionale nazionale (…), ma, soprattutto e ancor prima, per quello che più ci interessa ai fini del presente giudizio, rispetto ai principi europei a tutela della concorrenza e della libera circolazione” (§ 16).
L’inefficienza del sistema assume rilievo per l’Ad. plenaria non sotto il profilo dei minori introiti per l’erario, quanto piuttosto per il pregiudizio per la libertà di stabilimento e per la libera circolazione dei servizi.
3.2. La direttiva Bolkestein quale misura di liberalizzazione e la non incidenza sulle prerogative nazionali in materia di turismo.
Ponendosi in dichiarata continuità con quanto affermato dalla Corte di Giustizia in Promoimpresa, il Consiglio di Stato analizza gli argomenti dell’appellante, volti a superare le conclusioni cui era pervenuto il Giudice europeo.
Si afferma così che “la direttiva 2006/123 deve essere considerata una direttiva di liberalizzazione, nel senso che è tesa ad eliminare gli ostacoli alla libertà di stabilimento e di servizio” (§ 21) escludendo, dunque, la necessità di una preventiva armonizzazione delle normative nazionali applicabili al settore delle concessioni demaniali.
Inoltre, l’applicazione della direttiva 2006/123 anche alle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreativa è ritenuta non in contrasto con l’art. 195 TFUE, in forza del quale, in materia di turismo, l’Unione europea si limita soltanto ad una politica di accompagnamento, con esclusione di “qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri”. Sotto tale profilo, l’introduzione di regole pro-concorrenziali anche per le concessioni demaniali con finalità turistico-ricreative, non inciderebbe sulle prerogative nazionali in materia di turismo: “il rilascio della concessione rappresenta, infatti, solo una precondizione per l’esercizio dell’impresa turistica (nella specie lo stabilimento balneare), la cui attività, successivamente al rilascio, non è certo governata dalla normativa contenuta nella direttiva” (§ 23).
3.3. Il lido del mare quale “asset aziendale”.
L’Adunanza plenaria, poi, ritiene non condivisibile la tesi secondo la quale le concessioni balneari non potrebbero essere qualificate in termini di autorizzazione di servizi ai sensi dell’art. 12 della direttiva. Muovendo dall’ “ottica funzionale e pragmatica che caratterizza il diritto dell’Unione” (§ 24), il Giudice nazionale affronta la distinzione, propria del nostro diritto interno, tra concessione (del bene) ed autorizzazione (dell’attività che detto bene include nel processo produttivo).
Osserva, così, che nella prospettiva europea, alla quale la plenaria dichiaratamente aderisce, il provvedimento di concessione “nella misura in cui si traduce nell’attribuzione del diritto di sfruttare in via esclusiva una risorsa naturale contingentata al fine di svolgere un’attività economica, diventa una fattispecie che, a prescindere dalla qualificazione giuridica che riceve nell’ambito dell’ordinamento nazionale, procura al titolare vantaggi economicamente rilevanti in grado di incidere sensibilmente sull’assetto concorrenziale del mercato e sulla libera circolazione dei servizi”.
Logica conseguenza di siffatta impostazione è che “il provvedimento che riserva in via esclusiva un’area demaniale (marittima, lacuale o fluviale) ad un operatore economico, consentendo a quest’ultimo di utilizzarlo come asset aziendale e di svolgere, grazie ad esso, un’attività d’impresa erogando servizi turistico-ricreativi va considerato, nell’ottica della direttiva 2006/123, un’autorizzazione di servizi contingentata e, come tale, da sottoporre alla procedura di gara”.
Si tratta di una prospettiva che certamente mette in crisi la costruzione teorica dello stesso istituto della concessione di beni pubblici: il bene assume rilievo solo in quanto inserito nel processo produttivo aziendale non in quanto oggetto funzionalmente destinato, in una prospettiva di doverosità, ad assolvere un interesse pubblico legato all’utilitas ritraibile dal bene da parte della generalità dei consociati.
Tuttavia, il Consiglio di Stato si mostra attento alle dinamiche proprie di una società in costante evoluzione ed alla realtà degli assetti di rapporti e di interessi inevitabilmente condizionati dalle regole economiche. È innegabile, infatti, che nel reale e concreto atteggiarsi delle concessioni che interessano il lido del mare, le finalità di interesse pubblico sembrano rimanere sullo sfondo o, tuttalpiù, sono richiamate come doveroso ossequio alla natura ed alla funzione che la concessione assolve nell’ordinamento.
Solo così si spiegano le situazioni diffuse di interi tratti di spiaggia di fatto “privatizzati” e sottratti (in concreto) alla pubblica e gratuita fruizione; la frequente assenza, nelle convenzioni accessorie al provvedimento ampliativo, di obblighi particolarmente stringenti di tutela del bene pur a fronte dei gravi fenomeni di erosione che affliggono sempre più il litorale; gli importi irrisori dei canoni concessori, con grave pregiudizio per l’interesse pubblico riguardato sotto il profilo economico. Se, in altri termini, le concessioni balneari non assolvono più (e da tempo) a quell’interesse pubblico che costituisce il fondamento teorico dell’istituto concessorio, sembra corretto, anche in una logica sostanzialista, assoggettare lo sfruttamento economico del bene alle regole della concorrenza (e, dunque, alla liberalizzazione dei servizi), eliminando situazioni di vantaggio o addirittura di privilegio per taluni operatori economici, che si sono cristallizzate nel tempo ma che non hanno ragione di persistere.
3.4. La natura auto-esecutiva della direttiva Bolkestein e obbligo di disapplicazione della disciplina nazionale da parte della p.A..
La sentenza afferma la natura auto-esecutiva dell’art. 12 della direttiva Bolkestein e da tale presupposto fa discendere l’illegittimità della disciplina nazionale (che prevede la proroga ex legefino al 2033) e l’obbligo di disapplicazione della stessa.
La natura self executing della disposizione è data quasi per scontata e non è oggetto di approfondimento nell’argomentare del Consiglio di Stato (§ 26-27) che, al contrario, si sofferma sull’obbligo di disapplicazione della norma da parte dell’autorità amministrativa.
Il principio di primazia del diritto dell’Unione, come è noto, è stato esplicitato per la prima volta dalla Corte di giustizia nella sentenza Costa (15 luglio 1964, in causa 6/64, Costa c. Enel), per poi essere declinato nell’obbligo di disapplicazione delle norme interne in contrasto con il diritto Ue (13 luglio 1972, in causa 48/71, Commissione c. Italia), quindi espressamente riferito all’autorità giudiziaria (9 marzo 1978, in causa 106/77, Simmenthal) ed agli organi dell’Amministrazione (22 giugno 1989, in causa C-103/88, Fratelli Costanzo). Evidentemente non è in discussione l’astratta applicabilità di siffatto principio, sulla quale esistono “orientamenti giurisprudenziali (elaborati dai giudici europei e nazionali) (…) consolidati e granitici”. La questione che presenta profili più problematici attiene all’obbligo di disapplicazione da parte della p.A. delle disposizioni nazionali in contrasto non già con i regolamenti Ue, ma con le direttive self executing.
Il Tar Puglia – Lecce, con sentenza n. 1341/2020 (richiamata nella sentenza resa dal Tar Sicilia – Catania, n. 504/2021 ed impugnata innanzi al Consiglio di Stato nel giudizio che ha occasionato la pronuncia in commento), attraverso un ragionamento articolato e non privo di suggestioni, aveva negato la sussistenza di un obbligo di disapplicazione da parte della p.A. della legge italiana in contrasto con la direttiva.
In particolare, il Tribunale leccese ha evidenziato che la disapplicazione della legge presuppone un’attività di esegesi della norma, da svolgersi secondo le note regole dell’interpretazione. Si tratta di regole, osserva il Giudice, che possono condurre anche ad un’interpretazione abrogativa che, tuttavia, presenta profili di particolare criticità in quanto “può condurre ad una violazione delle regole, dei ruoli e delle competenze attribuiti dall’ordinamento rispettivamente al Giudice e al Legislatore”.
Ma “proprio in ragione della delicatezza e complessità della interpretazione abrogativa” ‒ nel nostro caso finalizzata alla disapplicazione della norma ‒ l’ordinamento nazionale, laddove il contrasto ricorra con riferimento ad una norma della Costituzione, attribuisce al Giudice la facoltà di sospendere il giudizio e rimettere gli atti alla Corte Costituzionale; simmetricamente, osserva il Tar Lecce, “l’ordinamento euro-unionale, proprio in vista dell’eventuale disapplicazione da parte del giudice della norma nazionale in conflitto con la norma comunitaria, attribuisce allo stesso il potere di sospensione del giudizio e di rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte di Giustizia”.
Dall’assenza di qualsivoglia potere per l’Amministrazione pubblica di rimettere alla Corte costituzionale (o alla Corte di Giustizia) la questione di legittimità (costituzionale o “comunitaria”) di una norma di legge, il Tar Lecce desume l’obbligo per la p.A. di applicare la legge nazionale e di adottare provvedimenti coerenti con la stessa. Di contro, ammettendo il potere/dovere delle p.A. di disapplicare la norma interna anti-comunitaria si determinerebbe “una situazione caotica ed eterogenea, nonché caratterizzata in ipotesi da disparità di trattamento tra gli operatori a seconda del comune di riferimento”.
La tesi pone in evidenza come l’obbligo di disapplicazione in capo alla p.A. della norma nazionale in (presunto) contrasto con una norma Ue anche non direttamente ed immediatamente applicabile finisca per costituire un rilevante fattore di incertezza. In nome dell’esigenza di garantire l’uniforme applicazione del diritto europeo da parte di tutti gli organi degli Stati membri si rimette una complessa attività di esegesi a soggetti che, per la stessa funzione che assolvono nell’ordinamento, potrebbero non avere le competenze necessarie a garantire una lettura uniforme e giuridicamente corretta delle disposizioni.
L’Adunanza plenaria, in proposito, ritiene che la tesi della non disapplicabilità da parte della p.A. della legge in contrasto con una direttiva self-executing cada in una contraddizione logica (§ 34.3): se pure si ammettesse “che la legge in contrasto con la direttiva self-executing non sia disapplicabile dalla p.A. ma solo dal giudice, rimarrebbe fermo che l’atto amministrativo emanato in base ad una legge poi riconosciuta anti-comunitaria in sede giurisdizionale sarebbe comunque illegittimo e, come tale, andrebbe annullato (…) immaginare un’Amministrazione ‘costretta’ ad adottare atti comunitariamente illegittimi e a farlo in nome di una esigenza di certezza del diritto (legata all’asserita difficoltà di individuare le direttive self-executing) appare una contraddizione in termini”.
La tesi non pare del tutto persuasiva.
Ed in vero è il legislatore che, in prima battuta, deve evitare situazioni di possibile contrasto tra norma interna anti-comunitaria e direttiva self executing, recependo tempestivamente e puntualmente la direttiva attraverso una norma interna. Qualora per effetto dell’inerzia del legislatore, si verifichi una situazione di (ipotetico) contrasto tra il diritto nazionale e la disposizione di una direttiva auto-esecutiva, pare ragionevole che la soluzione sia rimessa alla Giurisdizione nel suo complesso (“che - attraverso il ricorso ai mezzi di impugnazione ordinaria e straordinaria - garantisce uniformità di applicazione della norma sul territorio nazionale”, Tar Lecce, n. 1341/2020) e non già alle singole amministrazioni.
L’inerzia e l’inottemperanza del legislatore agli obblighi di recepimento rischierebbero di divenire “croniche” ‒ specie in materie, come quella in esame, che involgono interessi economici rilevanti e quindi scelte politiche potenzialmente impopolari ‒ se si delegasse alle Amministrazioni (prima ancora che al giudice) il compito di risolvere le aporie determinate dalla neghittosità del Parlamento.
Ritenere sussistente in capo alla p.A. l’obbligo di disapplicazione della norma interna in contrasto con la direttiva auto-esecutiva, significa indirettamente chiamare le Amministrazioni a svolgere un compito (di uniformare il diritto interno a quello dell’Unione) che è proprio del legislatore e che questi dovrebbe esercitare difendendo le proprie prerogative.
La crisi del sistema rischia così di scaricarsi sul potere esecutivo non meno che su quello giurisdizionale (chiamato da tempo ad un ruolo di supplenza) e di minare alcuni pilastri dell’assetto ordinamentale.
D’altra parte, non è privo di significato che il Consiglio di Stato, pur affermando la diretta disapplicabilità da parte della p.A. delle norme nazionali in contrasto con la direttiva Bolkestein, abbia sentito comunque il bisogno di fornire, con la sentenza in commento, delle “linee guida” per le Amministrazioni, onde scongiurare il rischio derivante da un’atomizzata applicazione del diritto europeo rimessa all’apprezzamento ed all’autonomia dei singoli enti.
4. Le “linee guida” del Consiglio di Stato.
Chiarito che “la legge nazionale in contrasto con una norma europea dotata di efficacia diretta, ancorché contenuta in una direttiva self-executing, non può essere applicata né dal giudice né dalla pubblica amministrazione” (§ 36) ‒ e che, quindi, la normativa italiana sulla proroga delle concessioni balneari deve essere disapplicata siccome in contrasto con l’art. 12 della direttiva ‒ il Consiglio di Stato si fa carico di attenuare l’impatto della propria decisione sugli operatori economici e sulle Amministrazioni attraverso una serie di considerazioni che esulano dal thema decidendum.
Alcuni passaggi della sentenza, infatti, non rispondono in alcun modo ai quesiti posti dal decreto di deferimento all’Adunanza plenaria e riflettono un evidente intento didascalico del Collegio.
4.1. Disapplicazione della legge anti-comunitaria e insussistenza della responsabilità penale.
A tal proposito, sembra che il Consiglio di Stato abbia quasi voluto rassicurare gli operatori economici titolari di concessioni prorogate ‒ i cui interessi sono pesantemente incisi dai principi enunciati nella sentenza in commento ‒ allorquando ha affermato che la disapplicazione della legge, sebbene faccia venir meno il titolo che legittima l’occupazione del suolo demaniale, “non può in alcun modo avere conseguenze in punto di responsabilità penale, per la semplice ragione che il diritto dell’Unione non può mai produrre effetti penali diretti in malam partem” (§ 37).
4.2. Disapplicazione della legge anti-comunitaria e tutela dell’affidamento del concessionario.
Secondo l’Adunanza plenaria, alla disapplicazione della legge nazionale da parte della p.A. non osta neanche l’esigenza di tutelare l’affidamento del concessionario.
Sotto il profilo teorico la questione attiene alla possibilità di contemperamento tra il principio di “legalità comunitaria” e le esigenze di stabilità degli effetti del provvedimento, in particolare in relazione alla necessità di garantire l’affidamento generato in capo all’operatore economico.
Il Collegio chiarisce, anzitutto, che l’eventuale affidamento (ove legittimamente sorto in capo al concessionario) non potrebbe mai determinare il perdurare degli effetti della proroga automatica anti-comunitaria, ma, tutt’al più potrebbe trovare tutela attraverso la previsione di regole adeguate nell’ambito della gara da indire dopo la declaratoria di inefficacia della concessione prorogata.
Infatti, ai sensi dell’art. 12, comma 3, della direttiva, nello stabilire le regole della procedura di selezione, gli Stati membri possono tener conto di “motivi imperativi d’interesse generale conformi al diritto comunitario”, tra i quali rientra, secondo la Corte di Giustizia, anche la tutela del legittimo affidamento. In Promoimpresa, infatti, la Corte aveva sottolineato che “una giustificazione fondata sul principio della tutela del legittimo affidamento richiede una valutazione caso per caso che consenta di dimostrare che il titolare dell’autorizzazione poteva legittimamente aspettarsi il rinnovo della propria autorizzazione e ha effettuato i relativi investimenti. Una siffatta giustificazione non può pertanto essere invocata validamente a sostegno di una proroga automatica istituita dal legislatore nazionale e applicata indiscriminatamente a tutte le autorizzazioni in questione” (§ 56).
E così l’Adunanza plenaria, dopo aver circoscritto la rilevanza (in astratto) dell’affidamento al solo ambito delle regole di una gara che andrà comunque indetta, lascia intravvedere, ancorché in filigrana, come nella vicenda della proroga ex lege delle concessioni balneari, in realtà, gli operatori economici difficilmente potranno invocare un affidamento meritevole di tutela.
Osserva infatti il Collegio che “qualora un operatore economico prudente e accorto sia in grado di prevedere l’adozione di un provvedimento idoneo a ledere i suoi interessi, egli non può invocare il beneficio della tutela del legittimo affidamento nel caso in cui detto provvedimento venga adottato” (Corte di giustizia, 14 ottobre 2010, C-67/09)” (§ 38).
4.3. Insussistenza di un legittimo affidamento dei concessionari.
Secondo il Consiglio di Stato l’affidamento “legittimo” - e dunque idoneo a paralizzare l’effetto della direttiva Bolkestein o almeno suscettibile di esser ponderato nell’esercizio dell’autotutela – non sussisterebbe “nella materia in esame” (non “nel caso specifico” portato alla cognizione del Collegio, ma nell’intera “materia”!) e tanto per molteplici ragioni (§ 38.1, 38.2):
1) già prima della direttiva parte della giurisprudenza aveva rilevato criticamente l’assenza di una procedura competitiva per l’assegnazione di tali concessioni;
2) a partire dal 2008 era stata avviata una prima procedura di infrazione, su segnalazione dell’AGCM;
3) con numerose pronunce rese a partire dal 2010 la Consulta aveva dichiarato costituzionalmente illegittime (per violazione dei principi nazionali ed europei attinenti alla concorrenzialità del mercato ed alla libertà di stabilimento) le leggi regionali che ammettevano la proroga delle concessioni.
In altri termini le plurime procedure di infrazione, l’adozione della direttiva Bolkestein, la giurisprudenza della Corte di Giustizia, della Corte costituzionale, del Giudice amministrativo, non potevano consentire all’operatore economico di confidare sulla stabilità degli assetti determinati dal provvedimento ampliativo e dall’atto di proroga.
D’altro canto, anche la Corte costituzionale ci ricorda che “il valore del legittimo affidamento riposto nella sicurezza giuridica trova sì copertura costituzionale nell’art. 3 Cost., ma non già in termini assoluti e inderogabili (…) La posizione giuridica che dà luogo a un ragionevole affidamento nella permanenza nel tempo di un determinato assetto regolatorio deve risultare adeguatamente consolidata, sia per essersi protratta per un periodo sufficientemente lungo, sia per essere sorta in un contesto giuridico sostanziale atto a far sorgere nel destinatario una ragionevole fiducia nel suo mantenimento” (31 marzo 2015, n. 56, punto 4.1. in diritto).
Nel caso del rinnovo delle concessioni balneari il quadro ordinamentale era tale per cui un operatore economico diligente avrebbe probabilmente potuto prevedere l’introduzione di un assetto regolatorio che rendesse inefficace le concessioni adottate (e le relative proroghe) in assenza di procedure comparative.
Ma se, come pare, il Consiglio di Stato non ritiene sussistente un affidamento “legittimo” in capo ai concessionari uscenti, l’affermazione secondo la quale “l’indizione di procedure competitive per l’assegnazione delle concessioni dovrà (…) essere supportata dal riconoscimento di un indennizzo” (§ 49) sembra inserita più per mitigare lo scontento dei concessionari che per dettare una regola in concreto applicabile; una “promessa” dell’indennizzo aleggia senza essere destinata a concretizzarsi.
È lo stesso Giudice, infatti, a ribadire che l’indennizzo dovrà essere riconosciuto “ove ne ricorrano i presupposti”, presupposti che, tuttavia nella tormentata e risalente vicenda delle proroghe delle concessioni balneari non possono in concreto ritenersi sussistenti proprio perché era chiaro da tempo che le “soluzioni tampone” perseguite dal legislatore italiano erano fortemente sospettate di essere illegittime.
Non è un caso che il Collegio ricordi come proprio in virtù del principio di certezza del diritto (cui la tutela dell’affidamento si correla) la Corte di Giustizia abbia sì ammesso un “periodo transitorio” nella risoluzione di una concessione, ma in relazione ad una concessione attribuita nel 1984, “quando non era ancora stato dichiarato che i contratti aventi un interesse transfrontaliero certo avrebbero potuto essere soggetti a obblighi di trasparenza”.
5. Rimozione degli effetti dell’atto di proroga e autotutela.
Con il decreto presidenziale di deferimento, l’Adunanza plenaria era stata chiamata anche a chiarire se, in adempimento dell’obbligo di disapplicazione, “l’amministrazione dello Stato membro sia tenuta all’annullamento d’ufficio del provvedimento emanato in contrasto con la normativa dell’Unione europea o, comunque, al suo riesame ai sensi e per gli effetti dell’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990, nonché se, e in quali casi, la circostanza che sul provvedimento sia intervenuto un giudicato favorevole costituisca ostacolo all’annullamento d’ufficio”.
5.1. Proroga della concessione e assenza di potere autoritativo.
Per rispondere al quesito, il Collegio muove dalla natura giuridica dell’atto di proroga adottato e sul quale l’Amministrazione sarebbe chiamata a pronunciarsi per effetto della sentenza oggi in commento.
Sul punto l’Adunanza plenaria ritiene che l’atto di proroga “sia un atto meramente ricognitivo di un effetto prodotto automaticamente dalla legge e quindi alla stessa direttamente riconducibile”: sarebbe la legge e non l’atto amministrativo ad aver determinato l’effetto di posticipare la cessazione degli effetti della concessione al 31 dicembre 2033.
L’eventuale atto amministrativo di proroga, pertanto, non costituirebbe la fonte della modificazione della sfera giuridica del destinatario, ma si limiterebbe a dichiarare un effetto voluto e prodotto ex se dalla legge.
L’atto ricognitivo, peraltro, non sarebbe espressione “del potere autoritativo riconosciuto alla soggettività pubblica, pur essendo comunque riconducibile alla posizione dell’Amministrazione all’interno dell’ordinamento giuridico generale” (§ 43). L’atto di proroga, nell’accennata prospettazione, sarebbe funzionale “a rappresentare il verificarsi di un fatto (la proroga) con un grado di certezza che consente alla collettività di fare affidamento su di esso”.
Le ragioni di speditezza dei traffici ‒ che sottendono all’esercizio di una funzione volta ad immettere certezza nell’ordinamento attraverso l’atto (non provvedimentale) di proroga ‒ fonderebbero la doverosità di un atto con il quale si attesti che la concessione è soggetta ad un diverso termine di scadenza quale effetto della disapplicazione della legge che tale proroga aveva disposto.
In altri termini l’atto emanato in seconda battuta non sarebbe espressione di un potere di autotutela: “il potere di autotutela quale potere di regolamentare una seconda (rectius “ulteriore”) volta, in aderenza al principio di buon andamento e continuità dell’azione amministrativa, il rapporto di diritto pubblico (e l’interesse pubblico ad esso sotteso) presuppone detto potere di regolamentazione che, come sopra evidenziato, è stato invece avocato a sé dal legislatore. In altre parole, il provvedimento di secondo grado in cui si esprime l’autotutela non può avere ad oggetto una disciplina contenuta nella legge” (§ 43).
5.2. Attività vincolata, potere autoritativo e giurisdizione.
Le argomentazioni del Consiglio di Stato si muovono sul terreno (per vero alquanto impervio) del rapporto tra potere autoritativo e attività vincolata.
Il terreno appare impervio perché secondo una parte della giurisprudenza, la natura vincolata dell’atto e l’assenza di discrezionalità (sia tecnica che amministrativa), comporterebbero l’assenza di un potere autoritativo in capo all’Amministrazione e, dunque, la sussistenza della giurisdizione del Giudice ordinario. Di recente, ad esempio, si è affermato (in relazione ad un’attività di certificazione di un credito) che se “all’amministrazione non compete alcuna discrezionalità né amministrativa, né tecnica, bensì soltanto il compito di verificare la sussistenza dei requisiti prescritti per la certificazione”, l’attività posta in essere dall’amministrazione non è di tipo autoritativo ma meramente ricognitiva e certificativa (non costitutiva), sicché rispetto all’atto di “annullamento d’ufficio” del relativo certificato, non sussisterebbe la giurisdizione del g.a. (Tar Sicilia – Palermo, sez. I, n. 1763/2021).
Nel giudizio d’appello, il C.G.A.R.S. ha ritenuto, al contrario, sussistente la giurisdizione amministrativa: “la circostanza che il potere amministrativo sia vincolato - e cioè che il suo esercizio sia predeterminato dalla legge nell’an e nel quomodo - non trasforma il potere medesimo in una categoria civilistica, assimilabile ad un diritto potestativo, ove l’Amministrazione eserciti una funzione di verifica, controllo, accertamento tecnico dei presupposti previsti dalla legge, quale soggetto incaricato della cura di interessi pubblici generali, esulanti dalla propria sfera patrimoniale: il potere vincolato, dunque, resta comunque espressione di ‘supremazia’ o di ‘funzione’, con il corollario che dalla sua natura vincolata derivano conseguenze non sul piano della giurisdizione, ma su quello delle tecniche di tutela” (13 settembre 2021, n. 802).
La dottrina si sta già interrogando sull’impatto della decisione dell’Adunanza plenaria sul dibattuto tema dei limiti della giurisdizione del g.a. in relazione all’atto vincolato (sul quale, cfr., tra le tante, Ad. plen. n. 8/2007) adombrando la possibilità che la sentenza in commento sia affetta da “eccesso di potere giurisdizionale”.
Ma tale approdo teorico non è privo di conseguenze pratiche: la sentenza in commento potrebbe, sotto tale profilo, essere suscettibile di sindacato innanzi alla Corte di Cassazione, aprendo così un possibile varco nel muro eretto dal Consiglio di Stato intorno alla propria decisione.
5.3. Atto di “rimozione degli effetti della proroga”, principio di legalità e (a)tipicità degli atti amministrativi.
Una possibile spiegazione dell’impostazione seguita dalla Plenaria può rinvenirsi nella volontà di sottrarre l’azione amministrativa, nella materia che ci occupa, al potere di autotutela decisoria con i suoi limiti legali di recente introduzione. Ed infatti, negando che l’atto di proroga abbia natura provvedimentale (negando, dunque, che alla base della proroga vi sia un potere autoritativo suscettibile di una riedizione per effetto della disapplicazione della legge anti-comunitaria) si arriva ad escludere che lo stesso possa essere oggetto di annullamento d’ufficio o di revoca.
Qualora alla proroga si riconoscesse natura provvedimentale, infatti, due sarebbero le strade astrattamente configurabili per pervenire alla eliminazione degli effetti durevoli della stessa: 1) i provvedimenti di proroga adottati prima di Promoimpresa potrebbero essere oggetto di una revoca fondata sulla sopravvenienza normativa (rappresentata dalla sentenza della Corte) e sull’interesse pubblico all’uniforme applicazione del diritto europeo sopravvenuto; 2) i provvedimenti successivi a Promoimpresa potrebbero esser annullati d’ufficio per violazione del diritto europeo siccome interpretato dalla Corte.
In entrambi i casi il potere di autotutela decisoria dell’Amministrazione incontrerebbe i limiti stringenti dettati dall’ordinamento.
In caso di revoca l’Amministrazione dovrebbe anzitutto fornire adeguata motivazione (in ordine alla prevalenza dell’interesse pubblico all’eliminazione degli effetti del provvedimento sull’interesse del concessionario alla conservazione degli stessi) ma, soprattutto, dovrebbe indennizzare il pregiudizio patito dai concessionari.
Per altra via, il provvedimento di annullamento d’ufficio non solo dovrebbe dar conto dell’interesse pubblico in concreto (differente rispetto all’interesse al mero ripristino della legalità euro-unitaria violata), ma dovrebbe essere adottato nel termine di 12 mesi, schiudendo comunque la strada al risarcimento del danno ingiusto patito dal concessionario.
Quale che sia la ragione, dobbiamo registrare come a fronte di un quesito puntuale formulato (nel decreto di deferimento) in ordine all’applicabilità dell’art. 21 octies l. n. 241/1990 all’atto di “riesame”, l’Adunanza plenaria sia rimasta sfuggente allorché ha affermato che “non vengono al riguardo in rilievo i poteri di autotutela decisoria della p.A. in quanto l’effetto di cui si discute è direttamente disposto dalla legge, che ha nella sostanza legificato i provvedimenti di concessione prorogandone i termini di durata”, tradendo il suo intento allorquando precisa che “l’Amministrazione non esercita alcun potere di autotutela (con i vincoli che la caratterizzano)”.
Per altra via resta oscura la natura giuridica dell’atto “successivo” che l’Amministrazione dovrebbe adottare per “rendere pubblica l’inconsistenza oggettiva dell’atto ricognitivo eventualmente già adottato e di comunicarla al soggetto cui è stato rilasciato detto atto” (§ 43). Ma questa “oscurità” non è priva di conseguenze sul piano giuridico se si pone mente al principio di tipicità degli atti amministrativi.
Appare, infatti, in contrasto con il principio di tipicità e nominatività la previsione giurisprudenziale di un atto che “attesta” il mutamento del diritto applicabile e “dichiara” che un atto precedente ha cessato ex lege di produrre effetti ad una certa data.
6. Disapplicazione della norma anti-comunitaria e giudicato.
In ordine agli effetti della disapplicazione della legge nazionale sulle sentenze aventi ad oggetto la proroga delle concessioni, il ragionamento del Consiglio di Stato si apre con un richiamo ai “principi di certezza e stabilità del diritto e dei rapporti giuridici di cui è espressione la res iudicata”. Ricorda, infatti, il Collegio che “il diritto europeo non impone a un giudice nazionale di non applicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto dell’Unione da parte di tale decisione”.
Tuttavia nella notissima sentenza Kühne&Heitz (13 gennaio 2004, in causa C-453/00) la Corte ha individuato precise condizioni in presenza delle quali il principio di leale collaborazione di cui all’art. 10 TCE (oggi art. 4 del Trattato sull’Unione) impone all’autorità amministrativa, investita di un’istanza, di riesaminare il provvedimento definitivo, alla luce dell’interpretazione del diritto europeo accolta dalla Corte di giustizia dopo l’acquisizione del carattere della definitività della statuizione amministrativa a seguito della formazione del giudicato.
In quella giurisprudenza europea il declamato principio di “certezza del diritto” ‒ che fonda il principio dell’intangibilità del giudicato ‒ cede il passo all’addotta esigenza di uniforme applicazione del diritto europeo (siccome riveniente dall’interpretazione della Corte di giustizia).
La “certezza del diritto” sembra cadere, in tal modo, sotto i colpi del principio della “leale collaborazione”, piegata ‒ come può forse apparire scontato, in considerazione dell’origine storica e della ancor attuale inclinazione della politica generale dell’Unione ‒ agli interessi tipici del mercato.
Nella sentenza in commento il Consiglio di Stato sancisce la prevalenza del diritto europeo non solo nella vicenda portata alla cognizione del g.a. nel caso specifico, ma anche in tutti i casi in cui sia già intervenuto un giudicato favorevole al concessionario demaniale.
Secondo il Collegio “in seguito al rinnovo della concessione demaniale nasce (o prosegue) un rapporto di durata” sicché vi sarebbe una parte di tale rapporto (quella successiva all’adozione della sentenza favorevole per il concessionario), che non sarebbe coperta dal giudicato e rispetto alla quale dovrebbe trovare applicazione la sopravvenienza normativa “cui è equiparabile, appunto, la sentenza interpretativa della Corte di giustizia”.
Ma anche volendo equiparare tout court (ai fini dell’incidenza dello jus superveniens su un rapporto di durata) la sentenza della Corte all’atto normativo, appaiono non adeguatamente esplorate le ricadute di tale opzione ermeneutica.
L’assetto delineato dal provvedimento (recte “atto ricognitivo”) di proroga, infatti, appare rafforzato dal giudicato formatosi in ordine alla legittimità dello stesso.
Resta da chiedersi quale atto dovrebbe adottare l’Amministrazione competente qualora volesse privare di effetti il provvedimento di durata così formatosi (e confermato dalla statuizione del Giudice intervenuta prima di Promoimpresa). Il che ci riporta alle considerazioni svolte in punto di autotutela nel paragrafo che precede.
Ma la tesi del Consiglio di Stato appare ancor meno convincente in relazione alle sorti dei rapporti di durata sui quali si sia formato un giudicato non già prima della “sopravvenienza normativa”, ma dopo la sentenza della Corte di Giustizia (Promoimpresa del 14 luglio 2016).
In altri termini se il Giudice amministrativo ha deciso una controversia dopo il 14 luglio 2016 in senso difforme dagli insegnamenti di Promoimpresa, non può certo sostenersi che i principi enunciati dalla Corte costituiscono jus superveniens idoneo a travolgere il giudicato.
Almeno in questi casi, dunque, il giudicato favorevole alle proroghe concesse non dovrebbe essere travolto dal diritto europeo (pre-esistente, ma evidentemente non applicato dal giudicante).
Ma l’Adunanza plenaria ritiene sic et simpliciter che anche in questo caso si produrranno gli effetti della non applicazione della normativa in esame.
La soluzione delineata è giustificata attraverso il richiamo al “ruolo che svolge la presente pronuncia in punto di certezza del diritto relativo alle concessioni balneari sul territorio italiano, ruolo reso evidente, da un lato, dal deferimento d’ufficio della questione da parte del Presidente del Consiglio di Stato di cui al decreto n. 160 del 2021, dato il notevole impatto sistemico della questione e la rilevanza del rapporto tra il diritto nazionale e il diritto dell’Unione, e considerata la particolare rilevanza economico-sociale che rende opportuna una pronuncia della Adunanza plenaria “onde assicurare certezza e uniformità di applicazione del diritto da parte delle amministrazioni interessate nonché uniformità di orientamenti giurisprudenziali”; e, dall’altro lato, dalla graduazione temporale degli effetti della presente pronuncia” (§ 50).
Il Giudice in questo caso non ricerca la regola nella disposizione, ma “crea” una regola che pone in tensione principi angolari dell’ordinamento, quali l’intangibilità del giudicato e la soggezione del giudice, nell’esercizio della propria funzione, “soltanto” alla legge.
7. Sulla modulazione degli effetti temporali della sentenza.
Il Consiglio di Stato si è, evidentemente, sentito investito del compito di disciplinare la materia a fronte di un “riordino” sempre preannunciato dal legislatore ma mai attuato.
Consapevole degli effetti dirompenti che la propria decisione è destinata a produrre nel settore, la Ad. plenaria decide di modularli nel tempo. E così, muovendosi lungo il crinale che corre tra “situazione di sicura incertezza, che sarebbe ulteriormente alimentata dall’improvvisa cessazione di tutti i rapporti concessori in atto” in “un quadro di incertezza normativa” e “principio di certezza del diritto”, si dispone che gli effetti della sentenza si producano dopo il 31 dicembre 2023.
Volendo fornire certezza si deroga al principio in forza del quale gli effetti della sentenza di annullamento si producono ex tunc.
Si ribadisce, così, la vigenza di un ulteriore elemento di incertezza rappresentato dalla modulabilità da parte del giudice degli effetti temporali della sentenza, ammessa dalla giurisprudenza allorquando vi sia “il rischio di ripercussioni economiche o sociali gravi, dovute, in particolare, all’elevato numero di rapporti giuridici costituiti in buona fede sulla base di una diversa interpretazione normativa sempre che risulti che i destinatari del precetto erano stati indotti ad un comportamento non conforme alla normativa in ragione di una obiettiva e rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni” (Ad. plen. n. 13/2017, che richiama Corte di Giustizia, 15 marzo 2005, in C-209/03).
La prospective overruling costituisce una risposta giurisprudenziale ad esigenze di tutela anche dell’affidamento ingeneratosi per effetto di un quadro di incertezza giuridica.
Nel caso che ci occupa, tuttavia, il Consiglio di Stato ha ritenuto non sussistente un affidamento meritevole e idoneo a paralizzare gli effetti dell’applicazione della direttiva (§ 38), ma, in modo contraddittorio, dispone l’applicabilità solo pro futuro del principio di diritto, fondandola proprio sull’esigenza di mitigare gli effetti della decisione su rapporti pregressi “costituiti in buona fede”.
7.1. Il termine del 31 dicembre 2023 e le prerogative del legislatore.
A proposito dello slancio creazionista che sembra emergere in alcuni passaggi della sentenza in commento, occorre sottolineare che l’individuazione del termine del 31 dicembre 2023 è frutto di una valutazione degli interessi in gioco del tutto disancorata dal dato normativo.
È il Consiglio di Stato a ritenere che il lasso temporale di circa due anni sia: a) “congruo rispetto all’esigenza funzionale di espletare le gare e di evitare il significativo impatto economico e sociale che altrimenti deriverebbe dall’improvvisa decadenza dei rapporti concessori in essere”; b) non “elusivo dell’obbligo di adeguamento della realtà nazionale all’ordinamento comunitario”; c) adeguato rispetto al fine di “consentire a Governo e Parlamento di approvare doverosamente una normativa che possa finalmente riordinare la materia e disciplinare in conformità con l’ordinamento comunitario il sistema di rilascio delle concessioni demaniali” (§ 47).
Il Giudice seleziona gli interessi rilevanti e li pondera approdando ad una soluzione che, tuttavia, dovrebbe esser propria del decisore politico chiamato ad assumersi la responsabilità – in sede politico elettorale – delle proprie scelte.
Ed invece un Parlamento inerte ed incapace di andare oltre l’annuncio di un riordino della materia, apre la strada alla decisione del giudice-legislatore che proietta un’ombra finanche sull’esercizio futuro della funzione legislativa.
Non può che destare preoccupazione, infatti, l’affermazione ‒ senza dubbio mossa dal condivisibile intento di allineare l’ordinamento nazionale ai principi europei ‒ secondo la quale “eventuali proroghe legislative del termine così individuato (…) dovranno naturalmente considerarsi in contrasto con il diritto dell’Unione e, pertanto, immediatamente non applicabili ad opera non solo del giudice, ma di qualsiasi organo amministrativo”.
Considerazioni analoghe possono esser svolte in relazione all’esortazione rivolta al legislatore di “farsi carico di una disciplina che, nel rispetto dei principi dell’ordinamento dell’Unione e degli opposti interessi, sia in grado di contemperare le ormai ineludibili istanze di tutela della concorrenza e del mercato con l’altrettanto importante esigenza di tutela dei concessionari uscenti” (§ 47), accompagnata dall’invito ad apprezzare e valorizzare “in sede di gara profili di politica sociale e del lavoro e di tutela ambientale” nonché “il legittimo affidamento dei titolari di tali autorizzazioni, funzionale ad ammortizzare gli investimenti da loro effettuati” (§ 49). La discrezionalità del legislatore e delle stazioni appaltanti sembra in qualche modo limitata ex ante dall’Adunanza plenaria allorquando “suggerisce” di “evitate ipotesi di preferenza ‘automatica’ per i gestori uscenti, in quanto idonei a tradursi in un’asimmetria a favore dei soggetti che già operano sul mercato” e di prediligere “criteri che, nel rispetto della par condicio, consentano anche di valorizzare l’esperienza professionale e il know-how acquisito da chi ha già svolto attività di gestione di beni analoghi (e, quindi, anche del concessionario uscente, ma a parità di condizioni con gli altri), anche tenendo conto della capacità di interazione del progetto con il complessivo sistema turistico-ricettivo del territorio locale” (§ 49). Il legislatore è esortato ad individuare un limite alla durata delle concessioni che possa poi, in concreto, essere determinata dall’amministrazione aggiudicatrice tenendo conto del valore della concessione, della sua complessità organizzativa, del tempo necessario a garantire il recupero degli investimenti e la remunerazione del capitale investito.
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La sensazione è che nel dichiarato tentativo di garantire “certezza del diritto” e di colmare un vuoto lasciato da un decisore politico troppo debole, il Consiglio di Stato abbia fornito soluzioni interpretative (talvolta “creative”) che introducono rilevanti fattori di incertezza sistemica i cui effetti rischiano di riverberarsi ben al di là del settore delle concessioni balneari andando a toccare gli stessi equilibri costituzionali dell’ordinamento.
L’auspicio è che sui profili problematici lambiti in questo scritto ‒ così come su altri di sicuro interesse che rivengono dalla sentenza ‒ la dottrina avvii un’approfondita riflessione ed un dialogo proficuo e critico con la giurisprudenza, esercitando, così, il ruolo che le è proprio nell’ordinamento.
Al fisco servono spiegazioni, non deleghe
di Raffaello Lupi
Sommario: 1. Le deleghe fiscali come diversivo davanti alla confusione - 2. Diversa determinabilità dei presupposti d’imposta e progressività - 3. L'inspiegabile favore per i redditi di fonte patrimoniale e altre idee estemporanee.
1. Le deleghe fiscali come diversivo davanti alla confusione
Sul fisco sembra riaffacciarsi un déjà vu già andato in onda con la delega del 2015, avviata sotto il governo Letta, e rispondente a un cliché abituale davanti al malessere diffuso verso quale settore della socialità, nel nostro caso le imposte. Nelle società articolate e fortunatamente pluraliste, come la nostra, il malessere dell’opinione pubblica sul fisco innesca nella politica il dovere di rispondere in qualche modo, anche se neppure lei sa come, in quanto mancano nella società spiegazioni soddisfacenti del fenomeno da regolare. Tuttavia l’odierna sopravvalutazione della politica e della legislazione, latenti nei nostri meccanismi culturali, le spingono a fare comunque qualcosa. Il loro intervento, con tutta la buona volontà, è però destinato all’insuccesso se nella pubblica opinione, generale e di settore, mancano spiegazioni sociali di quanto si vuole riformare, com’è evidente sul fisco. E’ quanto accaduto puntualmente coi decreti delegati emanati nel 2015 a seguito della delega del 2013, intervenuti su una serie di questioni spicciole, tecnico-casistiche, di irrilevante respiro generale, come il raddoppio dei termini di accertamento in presenza di reati, i dividendi di artigiani e piccoli commercianti a sé stessi, l'esecutorietà della sentenza di rimborso, la lite temeraria, la sanzionabilità l’abuso del diritto, il ravvedimento operoso. Insomma, un tripudio di questioncine estranee ai problemi di fondo della determinazione giuridica dei presupposti economici d’imposta, cui sono riconducibili i problemi dell’evasione, il malessere dell’adempimento e le sperequazioni tributarie che turbano l’opinione pubblica italiana. A questo vero convitato di pietra del nostro fisco semplicemente non si sa cosa rispondere, in assenza delle spiegazioni sociali suddette e si blatera confusamente di grandi evasori, aliquote troppo alte, cashback [1]e lotterie degli scontrini. Nessuno capisce, né pare abbia voglia di capire, la necessità di coordinare la determinazione documentale-ragionieristica di redditi e consumi, attraverso le organizzazioni amministrative, con quella valutativa, dove queste organizzazioni non arrivano. Si tratta di far avvertire la presenza valutativa degli uffici tributari sul territorio, anche rispetto ai milioni di piccoli operatori al dettaglio dove mancano le condizioni per la determinazione documentale delle imposte. Rispetto a questo tema di fondo, cui è riconducibile il malessere sul fisco, con le sue polemiche, complicazioni, sperequazioni e via enumerando, la delega del 2013 era del tutto carente, come quella appena presentata. Speriamo non si ripeta l’esperienza della delega come grande diversivo-palliativo, che ha tenuto buona l’opinione pubblica per un biennio dicendo "ci sarà la delega", prendendo poi tempo per "studiare la delega"; l’epilogo è capire che la delega del 2015 è stata una perdita di tempo, quando ormai i politici che l’avevano sponsorizzata saranno impegnati su altri fronti, l’opinione pubblica, con la memoria di un pesce rosso, ormai presa da altri problemi. A questo punto la giostra quindi può ripartire con una nuova delega fiscale, senza spiegazioni del fenomeno da regolare. I malesseri tributari che avevamo davanti nel 2013 sono ancora lì, e il circuito mediatico farà giustamente il suo mestiere; si riproporranno cioè i titoli di dieci anni fa riempiendo il posto nel dibattito pubblico lasciato vuoto dall’accademia. Si autoproduce così una specie di oggettivo "oppio del popolo" di cui la politica non ha colpe, ma è lei stessa vittima. Sono i riflessi di un ambiente culturale, soprattutto accademico giuridico, che non riesce a coordinare le spiegazioni divisive, e spesso politicamente strumentali, intrecciate nella pubblica opinione sulla funzione impositiva. Questo coordinamento non passa per la legislazione, la politica che la redige e le commissioni parlamentari che ne sono espressione. Questo sia perché la politica non ha compiti di formazione sociale, sia perché è normale che ogni forza politica cavalchi la confusione sociale sul fisco nel modo più orecchiabile per l’elettorato di riferimento e il consenso in generale.
2. Diversa determinabilità dei presupposti d’imposta e progressività
L’assenza propositiva dell’accademia del diritto tributario, incapace di spiegare socialmente la funzione impositiva, lascia uno spazio vuoto, che a livello di discussione pubblica è occupato, come detto al punto precedente, dai mass media. A livello di decisioni legislative, invece, si inseriscono in tale vuoto personaggi variegati, economisti d’area e fiduciari di tendenze politiche, che cercano di realizzare al meglio alcune istanze diffuse nella pubblica opinione. Tra esse rientrano gli interventi per correggere l’attuale progressività elevata (38%) a soli 27 mila euro, su cui peraltro non si giustifica una legge delega, ma che presuppongono, come vedremo subito, le spiegazioni sociali di cui al punto precedente. Quest’elevata progressività a livelli modesti di reddito è figlia di una riserva mentale collegata all’adempimento e all’evasione, cioè al sospetto che per molti contribuenti Irpef il reddito dichiarato sia solo una parte di quello effettivo. E’ una riflessione collegata alla tendenza dei piccoli operatori al dettaglio in sede fissa ad evadere i ricavi eccedenti rispetto a quelli coerenti rispetto alle caratteristiche esteriori della propria attività; lo confermano le frequenti proposte, inverse alla progressività, di diminuire le aliquote oltre certi livelli di imponibile, detassando il c.d. reddito incrementale. Qui c’è una risposta, chiara e forte, che si percepisce all’interno della delega, e fortunatamente anche negli ambienti politici e mediatici. Sembra infatti si stia prendendo atto dell’assurdità logica di alterare il regime del reddito dichiarato per la sospetta esistenza, in parallelo, di un reddito non dichiarato. Eppure il razzismo sociale verso il lavoro autonomo e il favor rispetto a quello dipendente continua a pervadere il sistema fiscale, attribuendo ad esempio ai soli lavoratori dipendenti la detrazione d’imposta per i redditi bassi, introdotta nel 2014 e denominata bonus Renzi. Invece la strada per risolvere il problema dell’aliquota del 38 percento è proprio quella di estendere la detrazione a tutti i redditi da lavoro, prendendo atto che esso è sempre lavoro, dipendente, autonomo o artigianale, ad esempio facendo l’elettricista o guidando un taxi. Il problema del reddito evaso va gestito insomma per conto proprio, e non può essere intrecciato col regime del reddito dichiarato. Questo anche perché la suddetta evasione del reddito incrementale riguarda anche molti lavoratori dipendenti, coi fuori busta di quelli addetti a piccole organizzazioni, e la detassazione degli straordinari o dei premi di risultato, che sostanzialmente lo legittima. L’estensione agli autonomi delle detrazioni per i redditi da lavoro potrebbe essere l’occasione per rivedere il regime forfettario, cioè l’imposta sostitutiva applicabile per imprese e professionisti entro 65 mila euro di ricavi. Presentata politicamente come un’introduzione anticipata della c.d. flat tax, essa rappresenta infatti un incentivo all’evasione, in quanto nei limiti suddetti riescono ad inserirsi anche operatori con ricavi molto più alti. L’istituto incentiva anche la frammentazione delle attività economiche, anziché la loro aggregazione e la concorrenza sleale in punto di non applicazione dell’IVA. Come si vede anche questo è un regime fortemente collegato al problema centrale della funzione impositiva, di cui dicevamo al punto 1, cioè la diversa determinabilità dei presupposti economici d’imposta. Sarebbe questo il tema da discutere invece di esorcizzarlo o peggio ancora utilizzarlo in modo politicamente strumentale, quindi divisivo. Purtroppo manca una categoria di studiosi sociali in grado di coordinare le varie riflessioni sul tema, e questa mancanza di risorse intellettuali consiglia ulteriormente che, sulla delega, sarebbe meglio lasciar stare, evitando di perdere tempo.
3. L’inspiegabile favore per i redditi di fonte patrimoniale e altre idee estemporanee
La conclusione di “lasciar stare”, di cui al termine del paragrafo precedente, è confermata da alcune indicazioni presenti nella delega, che ripropongono interventi privi di senso della realtà, sia sociale sia di presentabilità politico mediatica. Uno riguarda la limitazione della progressività ai redditi da lavoro, a vantaggio di quelli da patrimonio, con la proposta di tassazione duale. E’ una discriminazione alla rovescia di cui non si riesce a capire la logica e che è frutto di una confusione, da parte del circuito di economisti di cui al punto precedente, tra difficile determinabilità del reddito delle imprese e degli imprenditori. La globalizzazione innesca in effetti una corsa al ribasso delle aliquote sui redditi societari, che oggi si cerca di frenare con la proposta di tassazione minima mondiale. La globalizzazione riguarda però le aziende, non gli imprenditori quando percepiscono dividendi, o gli investitori quando percepiscono frutti di reddito di capitale. Dividendi e redditi di capitale sono infatti determinabili attraverso gli intermediari e ben pochi sono i relativi titolari che si espongono alle sanzioni per omessa presentazione del quadro RW della dichiarazione dei redditi per gli investimenti effettuati all’estero, allo scopo di evaderne i redditi. Lo stesso per le locazioni immobiliari, dove c’è interesse alla formalizzazione del rapporto locatizio, ed è quindi del tutto ingiustificata l’imposizione sostitutiva, per di più agevolata a poco più del 10 percento, dei canoni di locazione. Se si vogliono incentivare le locazioni abitative, anche sul piano impositivo, sono ben altri gli interventi da porre in essere, sul piano della deduzione di oneri e spese (oltre che di certezza della proprietà dell’immobile, ma questo è un discorso non tributario). All’assurdità di questa flat tax delle rendite si accompagna quella della tassazione di piccoli commercianti e artigiani come fossero società, con la cosiddetta IRI; essa dimostra l'incapacità culturale di distinguere tra organizzazioni pluripersonali, cui si addice la determinazione documentale dei presupposti d’imposta, e attività coincidenti col lavoro del titolare. Si riproporrebbero per parrucchieri, tassisti e pasticcieri tematiche come quelle dell'accantonamento per imposte, delle riserve di bilancio e della distribuzione dei dividendi. Anche queste follie confermano l’opportunità di sostituire all’enfasi sulla delega, che poi partorisce il topolino come nel 2015, con una discussione permanente sulla determinazione amministrativa dei presupposti economici d’imposta, aggiustando le cose man mano che le mettiamo a fuoco nella comprensione sociale. Altrimenti si passerà da una delega all’altra, peggiorando ogni volta un po', nell’illusione di poter codificare quello che ancora dobbiamo capire.
[1] Sulla cui inutilità vedi retro il mio articolo del luglio 2021, Immagine politica e sostanza concettuale nella tassazione minima dei gruppi multinazionali
Magistratura onoraria e Ufficio per il Processo: (ulteriori) spunti per un sistema
di Carlo Sabatini*
Con questo breve scritto si intendono proseguire le riflessioni già pubblicate su questa rivista (Magistratura onoraria e Ufficio per il processo: spunti per un sistema - Giustizia Insieme) tenendo conto delle linee di intervento preannunciate dal legislatore e del vivace dibattito che ne è seguito: proponendo possibili soluzioni concrete, che valorizzino il preannunciato concorso di strumenti, normativi e finanziari, dedicati al settore giustizia.
Deve allora subito nuovamente sottolinearsi come il dichiarato intento del legislatore, di realizzare un salto di qualità nell’esercizio della giurisdizione, non può non passare dall’assicurare una dignitosa soluzione alla questione del ruolo cui è chiamata la magistratura onoraria e, in particolare, alla regolazione dello status degli onorari attualmente in servizio: le cui condizioni di riconosciuta (e non più protraibile) precarietà sono state più volte denunciate – oltre che con forza dalle associazioni di categoria, che hanno adìto anche gli organismi dell’UE (pronuncia del 16/7/20 della CGUE[1], con la quale è stata riconosciuta la qualifica di lavoratore a tempo determinato ai magistrati onorari; il 15/7/21 è stato poi preannunciato l’avvio di procedura di infrazione dalla Commissione Europea) - da ultimo anche dall’ANM, in un comunicato del 20/11.[2]
Si ritiene però che la normativa primaria e secondaria, ancora in larga parte in fieri, debba considerare attentamente alcuni caratteri, per evitare che questi fattori di potenziale innovazione vengano vanificati.
Il primo e centrale argomento è dato indubbiamente dalla peculiare condizione di chi si è trovato per anni ad assicurare, in un quadro normativo confuso e contraddittorio, un apporto essenziale alla giurisdizione: che è stata dai magistrati onorari reso in prima persona, svolgendo cioè essi direttamente alcune funzioni giudiziarie (giudicanti e requirenti) con la piena autonomia che ad ogni magistrato deve essere riconosciuta.
Non può allora non rilevarsi che qualunque forma di interruzione di tale apporto si risolverebbe in un grave danno soprattutto al servizio giustizia che – in un momento in cui viceversa si mira a ridurre arretrati e tempi di definizione - si troverebbe privato di tali suoi attori; e che eventuali ‘demansionamenti’ potrebbero trovare censure (oltre che nella giustizia dell’UE) anche nelle corti lavoristiche nazionali.
Dunque, impregiudicato ogni ruolo (anche diverso e vicario) che certamente potrebbe essere disegnato per la futura magistratura onoraria, si ritiene debba essere garantito a chi attualmente svolge tale servizio la possibilità di proseguirlo con le stesse caratteristiche.
A tale forma di essenziale apporto si ritiene rispondano bene alcune delle proposte (in parte già rese note) che la ‘Commissione Castelli’ ha offerto alla Ministra Cartabia.
La previsione per cui ‘A ciascun magistrato onorario non può essere richiesto di svolgere attività in favore dell’ufficio giudiziario per un tempo superiore rispettivamente alle tredici, nove o cinque giornate mensili’ sembra cioè individuare un minimum di apporto (cinque giornate mensili) che potrebbe corrispondere appunto allo svolgimento dell’attività giudiziaria in senso proprio, in continuità con quanto svolto sinora, allineando su tale modalità ‘di base’ le eventuali prassi diverse vigenti nei diversi Uffici. Verrebbe così garantita ai magistrati onorari già in servizio la possibilità di proseguire l’attività giudiziaria ‘tout court’, da svolgere con le medesime garanzie di indipendenza ed autonomia ora riconosciute: garanzie che – va debitamente sottolineato, a fronte di alcune opinioni espresse anche su questa Rivista[3] - non possono ritenersi incise dall’attribuzione di poteri di direzione e coordinamento da parte dei giudici professionali, che sono già noti nel sistema, contenuti ad esempio negli artt. 8 e 10 del D.Lgs 116/17, quali espressioni delle più generali e sovraordinate esigenze di efficienza e funzionalità dell'ufficio richiamate dall’art. 2 della stessa norma [4]. Con la ulteriore precisazione che tale opzione di base – che dunque escluderebbe la possibilità di assegnazione all’UPP – dovrebbe essere consentita appunto a tutte le categorie di magistrati onorari in servizio, non essendo ragionevole nella prospettiva di unificazione delle figure in quella unica del giudice onorario di pace la distinzione tra GOT e GDP operata dall’art. 30 co. 1 lett. a) del D.Lvo 116/17.
Proprio la previsione di un (facoltativo) impiego più ampio, di nove o tredici giornate, potrebbe invece essere correlato all’impiego nell’UPP: nel senso che alla dichiarata disponibilità a tale maggiore coinvolgimento, dunque su base volontaria, potrebbero corrispondere – secondo le necessità dei singoli Tribunali, disegnate per ogni triennio nei DOG - modalità di impiego diverse dall’esercizio della giurisdizione, anche con forme di vicariato e ausilio che sarebbero liberamente scelte dai magistrati onorari: variabilità di impegno sulla quale potrebbe essere modulata anche la disciplina delle incompatibilità con altre attività lavorative.
Proprio perché è necessario assicurare ragionevole certezza sulla formazione degli organici, non appare viceversa rispondente a tali esigenze la previsione – che sembrerebbe contenuta nell’art. 196 della legge di bilancio – di ingresso in ruolo degli onorari già in servizio attraverso concorsi: sistema che penalizzerebbe irragionevolmente operatori di giustizia che da tempo svolgono le loro funzioni, per i quali dunque sembrerebbe più congruo prevedere il meccanismo della conferma. Tra l’altro, la prevista protrazione di tali procedure concorsuali fino al 2024, ove accompagnata da incompatibilità assolute con altre forme di impiego e da livelli retributivi non congrui all’impegno richiesto, rischierebbe per un verso di sottrarre i magistrati onorari dallo svolgimento della loro funzione, dovendosi dedicare alla preparazione di tale concorso; per altro di allontanarli definitivamente da tali ruoli, trattandosi di persone che anche per ragioni anagrafiche potrebbero non trovare conveniente attendere che venga consolidato tale assetto. In parallelo al previsto percorso concorsuale (che assorbirebbe peraltro di per se stesso non poche risorse) potrebbe in definitiva assistersi a un progressivo impoverimento e svuotamento dei ruoli onorari, abbandono che rischierebbe di essere accompagnato comunque da azioni giudiziarie volte a riconoscere la pregressa attività svolta: meccanismo dunque che non risolverebbe i citati contenziosi.
La forma flessibile e variabile di impiego dei magistrati onorari già in servizio, proposta dalla Commissione Castelli, sembra a chi scrive invece molto più in linea con gli scenari futuri: a cominciare dalla previsione, per il quadriennio 2022-2025, dell’ingresso delle figure previste (a tempo determinato) dalla legge 113/21. Esclusa per tali neo assunti ogni forma di esercizio diretto della giurisdizione agli stessi potrebbero essere assegnati compiti che appaiono pienamente compatibili, e anzi complementari, con tutti quelli che potrebbero svolgere i magistrati onorari.
Provando a concretizzare quella che, per troppo tempo, è stata una mera formula, per l’UPP si potrebbe infatti immaginare[5] un catalogo di funzioni (di complessità crescente in relazione alla graduale acquisizione di competenze specifiche che potrebbero non esserci in partenza) che siano di ausilio all’intero ufficio - dunque ai magistrati onorari e togati ma anche di ‘trait d’union’ con le strutture amministrative che forse sono l’anello più debole della catena - passando progressivamente da attività materiali ad attività più propriamente concettuali e di elaborazione: dunque (pensando soprattutto al penale, che ancora vede una gestione prevalentemente cartacea di atti: e anzi, sfruttando tale momento proprio per avviarne a sua volta la dematerializzazione, il PPT più volte annunciato ma in larga misura inattuato) si potrebbe partire da una collaborazione nella materiale tenuta del fascicolo (con creazione ad esempio per i fascicoli più complessi di cartelle tematiche: notifiche, documenti allegati dalle parti ecc.), con una sua sempre maggiore informatizzazione; nella formazione dei ruoli di udienza (verificando per ciascun fascicolo quali adempimenti erano stati previsti e segnalando al giudice eventuali criticità); nella verifica delle attività prevista in udienza.
Si potrebbe poi passare ad un maggiore apporto alla fase di preparazione della decisione, ad esempio la redazione di schede che sintetizzino lo svolgimento dei processi e le relative risultanze istruttorie, affiancando tale attività anche ad attività di ricerca, inclusa la creazione di massimari tematici che consentano il consolidarsi di orientamenti dell’ufficio: con istituzione, ad esempio, di cartelle condivise tra i vari operatori. Potrebbero inoltre essere affidati la redazione della intestazione e il controllo del fascicolo per l’invio in appello, fase di transizione che spesso impegna le cancellerie giudicanti.
Soprattutto con la presenza a tempo pieno nell’UPP di magistrati onorari (che recupererebbero così la vocazione ‘conciliativa’ che era uno dei tratti iniziali di tale ruolo) se ne potrebbero poi potenziare le attività deflattive: dunque lo svolgimento di attività di verifica preventiva di definizioni anche stragiudiziali (nel penale remissioni di querele¸ condotte riparative, riti premiali, MAP; nel civile le conciliazioni ante causa).
Il meccanismo sopra descritto a parere di chi scrive è pienamente compatibile non solo con le funzioni giudicanti, civili (che già vedono, proprio in ragione della maggiore informatizzazione, una migliore interazione tra i vari attori del processo) e penali: ma può trovare piena applicazione anche nelle funzioni requirenti. Anche per gli attuali VPO l’adesione alla ‘formula base’ potrebbe corrispondere alla mera partecipazione in udienza, mentre le opzioni di maggiore impiego consentirebbero di rendere oggettive e ‘numerabili’ tutte quelle ulteriori forme di collaborazione – la predisposizione di provvedimenti seriali o degli strumenti deflattivi più propriamente demandati ai P.M., come i decreti penali; il controllo preventivo del fascicolo, prima della trasmissione al dibattimento - che finora stentavano a trovare una esatta collocazione.
L’esperienza così maturata potrebbe infine essere proiettata sui nuovi ruoli della magistratura onoraria: il meccanismo dell’affiancamento tra magistrati togati e magistrati onorari di maggiore esperienza, con figure che approdano all’esercizio diretto della giurisdizione solo dopo un congruo periodo di collaborazione nel sistema giustizia, appare infatti del tutto in linea con il sistema disegnato dall’art. 9 co. 4 del D.Lgs 116[6], in definitiva con l’acquisita consapevolezza del legislatore per cui lo sforzo individuale non è ormai più in grado di migliorare in maniera apprezzabile la risposta rispetto a carichi di lavoro che – oltre ad una auspicabile migliore delimitazione di ciò che deve trovare risposta giurisdizionale - una volta inseriti nel sistema giustizia devono essere gestiti in maniera collettiva, come recita la menzionata circolare del CSM, con uno staff dotato anche di competenze non strettamente giuridiche, che sia al servizio del magistrato e dell’ufficio.
E, ci si permette di aggiungere, del cittadino.
*Tribunale di Rieti
[1] Corte di Giustizia, caso UX iC-658/18, in CURIA - Documenti (europa.eu)
[2] “…Le preoccupazioni dei magistrati onorari vanno tenute in seria considerazione, sia perché le loro istanze, come lo stesso Ministero ha più volte affermato, hanno solido fondamento, sia perché inevitabilmente si ripercuotono in termini negativi sulle già difficili condizioni organizzative degli uffici giudiziari, che saranno aggravate da una settimana di astensione dalle udienze dei magistrati onorari.
Il forte auspicio è che il Ministero della giustizia apra ad un confronto anche con l’Associazione nazionale magistrati sulle soluzioni allo studio, ivi comprese quelle prospettate dalla commissione ministeriale incaricata di elaborare proposte di interventi in materia di magistratura onoraria, e che sappia assicurare le giuste tutele ai magistrati onorari in servizio da molti e molti anni, senza trascurare lo statuto costituzionale di onorarietà del loro prezioso impegno….”
[3] Sandra Leo, Ufficio per il Processo. Criticità costituzionali - Giustizia Insieme
[4] D.LVo 116/17 art. 1 co. 4 “Il magistrato onorario esercita le funzioni giudiziarie secondo principi di autoorganizzazione dell'attività, nel rispetto dei termini e delle modalità imposti dalla legge e dalle esigenze di efficienza e funzionalità dell'ufficio”.
[5] Le indicazioni che seguono tengono conto anche di quanto previsto nella circolare del CSM n. 19094 del 20/10/21
[6] “Nel corso dei primi due anni dal conferimento dell'incarico i giudici onorari di pace devono essere assegnati all'ufficio per il processo e possono svolgere esclusivamente i compiti e le attività allo stesso inerenti”.
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