ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Premessa - 2. possono divenire soci tutti coloro che condividano gli scopi del Movimento per la giustizia - 3. La sfida.
1. Premessa.
Giustizia Insieme è una rivista fondata e promossa dal Movimento per la Giustizia-Art. 3, un’associazione di magistrati costituita nel 1988. Riteniamo dunque che interessi alle lettrici e ai lettori conoscere le significative modifiche statutarie intervenute di recente, alle quali è seguita, il 20 gennaio 2024, l’iscrizione al Registro unico nazionale del terzo settore.
All’assemblea del 6 maggio 2023 la maggioranza dei soci del Movimento ha aggiunto agli scopi originari i seguenti:
- “l’educazione, istruzione e formazione professionale”;
- “l’organizzazione e gestione di attività culturali, artistiche o ricreative di interesse sociale, incluse attività, anche editoriali, di promozione e diffusione della cultura e della pratica del volontariato”;
- “la formazione universitaria e post-universitaria;
- “la ricerca scientifica di particolare interesse sociale”.
Ha eliminato, tra i compiti dell’assemblea, quello avente ad oggetto la designazione di candidati alle elezioni di componenti di organismi istituzionali della magistratura e di organismi dell’Associazione nazionale magistrati.
Il Movimento per la giustizia è nato da un gruppo di magistrati con una volontà di rinnovamento, e bisogna dare atto che ciò senz’altro è stato fatto, negli anni, forgiando tanti giudici ragazzini, entrati in magistratura nei primi anni ’90, e che ora si avviano a lasciare la loro eredità di pensiero ai magistrati del terzo millennio.
La sfida, raccolta all’assemblea del 6 maggio scorso, e realizzata oggi con l’iscrizione al Registro unico nazionale del terzo settore, è quella di trasformare il Movimento per la giustizia in un’associazione aperta al contributo dell’accademia e dell’avvocatura ovvero al contributo di tutti coloro che vorranno condividere gli scopi dell’associazione.
Ecco, dunque, l’obiettivo primario del Movimento per la giustizia e.t.s.: formare i giovani, attraverso il confronto delle idee, scevro da pregiudizi e ideologie, in un più ampio ambito, unionale e internazionale, in intellettuali capaci di offrire, ciascuno nel proprio campo, un contributo concreto non solo al miglioramento del servizio giustizia ma anche alla società tutta in termini di libertà, rispetto delle diversità, condivisione e solidarietà.
2. Possono divenire soci tutti coloro che condividano gli scopi del Movimento per la giustizia
Il proposito di costituire un’associazione non composta da soli magistrati apparteneva già, nel 1988, ai visionari fondatori del Movimento per la Giustizia.
L’art. 4 dello Statuto, rimasto immutato, recita: “possono divenire soci tutti coloro che condividano gli scopi del Movimento per la giustizia”.
Tra il 2013 e il 2015, il Movimento per la Giustizia ha costituito, con la corrente Magistratura Democratica, il gruppo Area Democratica per la Giustizia ivi facendo confluire le energie finalizzate a orientare le scelte politico-giudiziali in materia ordinamentale, di governo autonomo della magistratura e di associazione magistrati.
I soci e i simpatizzanti del Movimento per la Giustizia dal 2015 sono ora anche soci e simpatizzanti di Area DG e, per il tramite di essa, contribuiscono alla politica associativa, all’individuazione dei candidati per le competizioni elettorali negli organi del governo autonomo, centrale e decentrato, nonché negli organismi in cui si articola l’Associazione nazionale magistrati.
Questa è la ragione dell’eliminazione del compito di cui alla lett. e) dell’art. 4 dello Statuto in tema di scelta dei candidati per le competizioni elettorali.
Il Movimento per la Giustizia è stato fondato il 17 aprile 1988, la data è quella dell’atto di costituzione - atto vergato in un volantino verde, da cui lo storico appellativo “verdi” dato ai movimentisti -. Nel foglio verde furono ratificate le ragioni della costituzione, gli scopi e il metodo da adottare per il raggiungimento degli stessi. Ragioni, scopi e metodo che, dopo trent’anni, sono ancora attuali.
Sono centrali, ancora oggi:
- il dialogo tra i magistrati, aperto al confronto e al contributo delle componenti della società che, anche in forme ed aggregazioni nuove, avvertono la necessità di un giudice libero da condizionamenti e del tutto coerente con il modello costituzionale;
- la questione morale;
- l’organizzazione di iniziative che rafforzino e accrescano la professionalità del giudice (intesa come capacità, terzietà, indipendenza), che evidenzino l’importanza di momenti di responsabilizzazione e contribuiscano ad una migliore organizzazione degli uffici;
- il recupero di efficienza e di credibilità del servizio giudiziario.
Continua ad avere la sua ragione di esistere, dopo trentacinque anni dalla sua costituzione, “un movimento che si legittimi sulla forza e sulla coesione delle idee, anziché sul tipo delle etichette e sulla struttura dell’apparato; movimento non rigidamente strutturato, ma ben definito nelle sue linee di fondo, dialetticamente rivolto alla partecipazione di tutti i magistrati, singoli o associati, ed aperto ai contributi di tutte le forze sociali e culturali”.
Continua a essere attuale l’idea, alla quale diedero corpo il 17 aprile 1988 i soci fondatori, che tramite la mobilitazione e il coinvolgimento di tutti i magistrati, si facesse maturare l’idea che “Soltanto una magistratura più credibile e pienamente consapevole può, con l’indispensabile sostegno degli organi di informazione, far crescere nel cittadino la coscienza che i valori dell’indipendenza e dell’autonomia sono valori che gli appartengono”. Chi volesse saperne di più del Movimento per la Giustizia, può leggere gli articoli pubblicati sotto la voce “la nostra storia”.
Oggi l’obiettivo è quello di diffondere forme di cultura libere da condizionamenti ideologici, di coltivare, nel sociale, forme sistematiche e organizzate di educazione alla legalità, attraverso il metodo del leale confronto delle idee e del dialogo, con il coinvolgimento di giuristi, educatori, scrittori, giornalisti ovvero di persone che hanno a cuore i temi dell’educazione e della cultura orientati al miglioramento della società.
La scelta di ampliare l’orizzonte è in linea con quanto deliberato dall’assemblea dei soci dell’aprile 2022, conclusa con la mozione approvata all’unanimità contenente il proposito di porre le basi “per un dialogo costruttivo con l’avvocatura anche per delineare modalità di cooperazione efficaci, se rispettose dei reciproci ruoli, prospettive di riforma convergenti da sottoporre alla classe politica e con l’accademia nel comune intento di porre la basi per una classe di giuristi portatori di un pensiero autonomo e autorevole capace di influenzare la giurisprudenza”. Rilevate le criticità in cui, oltre alla magistratura, anche l’avvocatura e l’accademia versano si è evidenziato che “un Movimento per la Giustizia aperto a una varietà di qualificati componenti esterni alla magistratura togata può costituire una sede privilegiata per articolare ponderate proposte di miglioramenti del sistema giudiziario e per l’evoluzione della cultura giuridica nella linea di una imparziale regolazione degli interessi e non della precaria governance dei problemi che sta caratterizzando l’azione politica”.
3. La sfida: invertire la tendenza attraverso la realizzazione di percorsi educativi e formativi.
La “ricostruzione” del giurista intellettuale è un obiettivo ardito, ma prendere consapevolezza dello stato di emarginazione del pensiero che caratterizza la società in cui viviamo costituisce un buon primo passo.
I politici, i giuristi (magistrati avvocati e accademici), i giornalisti e gli scrittori sono stati attinti dal medesimo processo di plebeizzazione che ha travolto la società italiana, processo tipico delle società occidentali ove l'apparire ha sopravanzato l'essere.
Il potere e la sua esibizione hanno preso il sopravvento rispetto al dovere di verità e di rispetto della società e delle istituzioni.
Sono sottovalutate le responsabilità connesse alla manifestazione delle opinioni e alla coerenza del pensiero. Gli slogan hanno sostituito le conclusioni assunte all’esito di compiute riflessioni e pacati confronti. Il conflitto anticipa e impedisce lo sviluppo del pensiero. La cultura é mistificata da motori di ricerca e ragionamento è sfidato dall'algoritmo che assume spazio e potenza crescenti.
Pasolini sin dagli anni Settanta preconizzava l’isolamento dell’intellettuale in conseguenza dell’accesso a una cultura di massa inidonea a fornire gli strumenti culturali per la corretta comprensione dei fenomeni politici, sociali e tecnico giuridici e così la partecipazione alla vita pubblica. In realtà sembra che sia andato anche peggio del previsto, gli intellettuali sono stati scalzati dall’intellettuale collettivo: la televisione (Asor Rosa, "Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali", a cura di Simonetta Fiori Roma-Bari, Laterza 2009) ovvero dalla “società dello spettacolo”, come preconizzato da Guy Debord (Guy Debord, La Société du spectacle, Paris, Éditions Buchet-Chastel, 1967).
La sfida è dunque quella di invertire la tendenza, tramite percorsi educativi e formativi nonché attraverso momenti di riflessione e confronto, senza condizionamenti ideologici, su questioni che interessano la società.
Il Movimento per la Giustizia, nella forma di ente del terzo settore, si propone di contribuire al miglioramento della società organizzando di attività culturali e artistiche anche attraverso la pratica del volontariato.
Giustizia Insieme è uno spazio per tutto questo, in linea con gli obiettivi che la rivista si propone. Sarà indispensabile anche il vostro contributo per la diffusione delle iniziative e la condivisione del nuovo percorso.
È iniziato in Parlamento l’esame del disegno di legge che modifica l’istituto della prescrizione. I giuristi e gli operatori del diritto dovranno dunque, quasi sicuramente, fare i conti con l’ennesima riforma di un istituto tra i più delicati del nostro sistema penale, quello che decreta la “morte” dei processi penali non ancora conclusi dopo che è passato troppo tempo perché la punizione abbia un senso.
Le modifiche legislative ai codici fanno parte della fisiologia del sistema giudiziario, e guai se il Parlamento non fosse attento ad adeguare le leggi al mutare dei tempi o alle esigenze che via via si affacciano alla sua attenzione.
Quello che non è fisiologico è che si intervenga quattro, cinque volte in pochi anni sullo stesso argomento, perché questo implica nella migliore delle ipotesi la mancanza di una visione chiara e condivisa tra le forze politiche su un argomento importante per la vita dei cittadini, nella peggiore la volontà di strumentalizzare per fini politici delicati istituti processuali.
Intendiamoci, il problema da cui prendono spunto gli interventi legislativi esiste ed è innegabile: i processi penali nel nostro Paese sono spesso intollerabilmente lenti. Non si può e non si deve attendere anni per sapere se una persona ha commesso un reato o no; non è giusto né per chi del reato è accusato, né per chi lo ha subito, né per la collettività.
Su questo non si può non essere d’accordo. È sui rimedi al problema che cominciano… i problemi.
Chiunque frequenta, per lavoro o più sfortunatamente perché coinvolto a qualsiasi titolo in un procedimento penale, non può non sapere che i Tribunali vivono da sempre una cronica mancanza di risorse materiali, umane ed informatiche e che ogni udienza, ogni certificato richiesto, ogni provvedimento deve fare i conti con una macchina obsoleta e del tutto inadeguata a fronteggiare numeri e qualità della domanda di giustizia odierna.
Basti pensare che per venti anni (un tempo infinito) non sono stati banditi concorsi per la nevralgica funzione di cancelliere per comprendere come stanno le cose, o che il processo penale telematico è a tutt’oggi una specie di chimera. Per tacere delle condizioni in cui giudici, avvocati e utenza sono costretti a lavorare, tra fili scoperti, infiltrazioni di umidità e sedie rotte (per non parlare dei tragici e noti episodi di Tribunali interi costretti a spostarsi in tendopoli improvvisate causa inagibilità).
Il rimedio a questo stato di difficoltà ormai cronicizzato dovrebbe essere intuitivo: investire risorse, adeguare le strutture, implementare le dotazioni informatiche, aumentare organici di magistrati e personale amministrativo.
Per motivi difficilmente spiegabili, questo non avviene e si reagisce alla lentezza dei processi, inevitabile conseguenza - in buona parte - delle condizioni sopra descritte agendo sull’istituto della prescrizione.
È come se i treni arrivassero in ritardo a causa dell’obsolescenza dei binari, delle macchine, della mancanza di personale…. E si reagisse decretando per legge che se un treno non arriva da Roma a Milano in tre ore deve fermarsi su un binario morto. E tanti saluti ai viaggiatori.
Negli ultimi anni abbiamo avuto sulla prescrizione una riforma Orlando, una riforma Bonafede, una riforma Cartabia e ora avremo una riforma Nordio.
Con la prima, per restare alla metafora del treno, era stato stabilito che dopo la sentenza di primo grado, se di condanna, la clessidra della prescrizione si fermasse: sostanzialmente, si era detto, se si accerta almeno provvisoriamente che un soggetto è responsabile di un reato (salvi ribaltamenti in appello o in cassazione) non si può più dire che la risposta giudiziaria sia arrivata tardi e sia inutile.
Il condannato avrebbe potuto fare appello, ma questo suo legittimo diritto non poteva più porre nel nulla quanto fatto fino a quel momento: il treno, ormai, sarebbe arrivato a destinazione.
Per evitare che il treno corresse fino alla sentenza di primo grado e poi rallentasse fino all’infinito nei gradi successivi, era stato però previsto che per i successivi due gradi non si impiegasse più di un anno e mezzo.
Peccato che si trattasse di tempi incompatibili con l’attuale stato di carico delle Corti di Appello, oberate di fascicoli oltre l’umana esigibilità.
Sicché l’effetto era che i processi rischiavano di prescriversi tutti in appello: è inutile dire che se il treno Roma-Milano arriva almeno a Firenze non ci vogliono più le due ore prescritte e poi aggiungere che il tratto finale Firenze-Milano deve essere percorso in mezz’ora altrimenti ci si ferma lo stesso.
Caduto il Governo di cui era espressione Orlando, era intervenuta la riforma Bonafede, che aveva disposto che la clessidra si fermasse definitivamente dopo la sentenza di primo grado, fosse essa di condanna o di assoluzione.
Ma questo rimedio aveva provocato le critiche di chi ha osservato che in questo modo i guidatori del “treno-processo” avrebbero spinto al massimo i motori fino al primo grado per poi fermarsi o quasi nei gradi successivi, condannando l’imputato a rimanere in attesa di giudizio definitivo per sempre.
Ancora più complessa la soluzione offerta dalla riforma Cartabia, che nel confermare lo stop alla prescrizione dopo il giudizio di primo grado, ha introdotto per i successivi gradi l’inedito istituto della “improcedibilità”, prevedendo che i giudizi di impugnazione dovessero terminare entro un certo lasso di tempo. In caso contrario? Anche in questo caso, stop al processo e ai suoi “viaggiatori”.
Ma a quanto pare neanche questo rimedio riuscirà a resistere al cambio di Governo, ed ecco pronta la quarta (o quinta) riforma della prescrizione in meno di dieci anni: il Governo Meloni si appresta a discutere una nuova modifica che prevede la sospensione della prescrizione per 24 mesi dopo la sentenza di condanna in primo grado e per 12 mesi dopo la conferma della condanna in Appello.
Torna la selezione dello stop alla prescrizione a seconda dell’esito del giudizio (viene dato più tempo al processo per fare il suo tragitto se l’esito è sfavorevole al reo), mentre se in primo grado si è avuta una sentenza di assoluzione la clessidra non si ferma, ciò che potrebbe implicare che ci si concentrerà sui processi in cui l’appello lo ha fatto l’avvocato contro una sentenza di condanna, perché sono processi che meno probabilmente si prescriveranno mentre per quelli in cui l’appello lo ha presentato il Pubblico Ministero avverso una sentenza di assoluzione non varrà la pena di perdere tempo e fatica essendo quasi certo il verificarsi della prescrizione.
In più, come è stato osservato dai primi commentatori, ancora una volta si costringeranno i giudici a fermarsi per rideterminare, secondo l’ennesimo criterio, il termine di prescrizione per migliaia di processi, operazione che già di per sé rallenterà ancora una volta le udienze. C’è già chi ha scritto che il solo fatto di rimettere mano ancora una volta alle regole della prescrizione, con i conseguenti rallentamenti nel breve periodo di cui sopra, comporterà il fallimento degli obiettivi del PNRR.
Ma ciò che più preme ad un gruppo di magistrati, ovvero di operatori del diritto quale è AreaDG, è sottolineare lo strano fenomeno per cui si continua ad escogitare soluzioni eccentriche e di tampone anziché agire per eliminare il problema alla radice.
Probabilmente la soluzione va cercata proprio dove non la si vuole cercare perché è più faticoso: agire sulle cause della lentezza dei processi e non sulla clessidra.
Rendere i processi veloci e la macchina efficiente e non dichiarare per legge che i treni si devono fermare. L’obiettivo deve essere quello che l’istituto della prescrizione diventi solo un’eventualità remota nelle aule, sì che le relative regole - quali che siano - inutili.
Come si fa? Trovare le sacche di inefficienza, dove ci sono, combattendo lungaggini dovute a negligenza e a comportamenti scorretti di chiunque operi nel processo.
E costruire treni veloci e moderni, senza lesinare né nel personale né in dotazioni tecnologiche e … tradizionali.
Oggi la maggior parte dei giudici e dei Pubblici Ministeri si compra a proprie spese persino i Codici: immaginate se ai chirurghi fosse imposto di pagare di tasca propria bisturi e garze, e in più di finire ogni intervento chirurgico entro due ore?
(Contributo già pubblicato su "Il Domani", 6 novembre 2023)
Vorrei iniziare il mio intervento riferendo alcuni aneddoti relativi alla mia esperienza nella consiliatura 2018-2023 e verificatisi al momento dell’insediamento.
Il primo riguarda l’assegnazione delle stanze ai consiglieri. Appena insediato, infatti, chiesi di poter ricevere in assegnazione una stanza collocata al secondo piano, quella ad angolo di sinistra per chi guarda il Palazzo dei Marescialli da Piazza Indipendenza.
Questa richiesta aveva una ragione di carattere politico e una di carattere personale.
La ragione politica era di natura simbolica. Quella stanza era stata storicamente sempre occupata da un rappresentante di Magistratura Democratica. Nella consiliatura immediatamente precedente, però, il gruppo di AREADG (che all’epoca ancora includeva Magistratura Democratica), era risultato il più rappresentato, con ben 7 consiglieri, e aveva scelto di collocarsi nelle stanze al primo piano, che, sul piano simbolico, era il piano del “potere”, dove si trovavano il Vicepresidente, il Comitato di Presidenza, il Segretariato Generale. Anche le stanze poste a quel piano erano quindi, a loro volta, stanze simbolo “del potere”, storicamente occupate dai rappresentanti di Magistratura Indipendente, prima e da quelli di Unità per la Costituzione, poi.
Ritornare al secondo piano, nella storica stanza di Magistratura Democratica, per me, che ero stato eletto come rappresentante anche di Magistratura Democratica (la scelta di Magistratura Democratica di rompere con AREADG maturerà negli anni successivi), significava simbolicamente ri-allontanarsi dal “potere”, recuperare la vocazione originaria del nostro gruppo associativo di estraneità alle logiche di potere e alle prassi corporative, consociative e clientelari, che negli ultimi anni, ed in particolare nell’ultima consiliatura, si era un po’ persa.
Sul piano personale mi sarebbe piaciuto occupare la stanza che era stata, nella consiliatura 1982/1986, di Salvatore Senese, che, come alcuni sanno, è stato mio amico e maestro, e al quale rivolgo con piacere un commosso ricordo (Salvatore è mancato nel giugno del 2019) in questa sede, nella sua città, nell’Università che lo ha visto protagonista di tanti momenti di riflessione e di confronto, e in una giornata dedicata alla memoria di Alessandro Pizzorusso, al quale Salvatore è stato legato da lunga e profonda amicizia.
Mi sembravano queste delle ottime ragioni. Ma ricevetti, comunque, un categorico no: le stanze, mi fu detto, venivano assegnate ai gruppi nel rigoroso rispetto dell’ordine di risultato elettorale. Peraltro, ma non è rilevante in questa sede, era sbagliato anche il metodo di calcolo del risultato elettorale, in quanto veniva determinato sommando esclusivamente i voti conseguiti nei diversi collegi dai soli candidati risultati eletti. Provai a protestare, rappresentando che il sistema elettorale vigente (quello dei tre collegi plurinominali) non contemplava in alcun modo i “gruppi”. Ma ricevetti una risposta definitiva e senza appello: “si è sempre fatto così”. Una risposta che negli anni successivi mi è capitato più volte di ricevere.
In quei primi giorni chiesi altre due cose:
a) di consentire un dibattito sulla elezione del Vicepresidente, sulla base di una illustrazione, da parte dei componenti laici che avessero voluto offrire la disponibilità ad assumere l’incarico, della loro idea del ruolo del Consiglio e del ruolo del Vicepresidente: un tema non nuovo, che si è riproposto ciclicamente in molte consiliature, come ci ha ricordato Tommaso Giovannetti rievocando, appunto, il discorso mai pronunciato di Alessandro Pizzorusso;
b) di consentire, a chi lo volesse, di sedersi in Plenum accanto ai componenti del proprio gruppo: Ernesto Lupo, nella sua relazione scritta, ci ha ricordato quando e come nacque la scelta di far sedere in Plenum i consiglieri secondo ordine di anzianità, ma io ho sempre pensato che fosse una scelta sbagliata. In primo luogo perché ai componenti di un organo costituzionale, eletti da magistrati, si dovrebbe riconoscere una libertà di autodeterminazione maggiore di quella riconosciuta agli alunni di una classe elementare. In secondo luogo perché penso che nascondere una realtà che non piace non solo non aiuti a modificarla, ma anzi la peggiore, in quanto vi aggiunge, come elementi negativi, opacità e clandestinità.
Anche su queste due richieste la risposta fu negativa: “si è sempre fatto così”. Appunto!
Ho scelto di raccontare questi aneddoti perché, secondo me, rappresentano in maniera molto chiara, anche sul piano simbolico, i fraintendimenti, le ambiguità e, direi anche le ipocrisie, che sovente accompagnano il dibattito, e le prassi, sul rapporto tra correnti e auto-governo.
Nel dibattito pubblico in molti tendono, più o meno in buona fede, a confondere, e a sovrapporre, le correnti, cioè le libere associazioni di magistrati fondate sulla comunanza di idee e di valori, con il correntismo, cioè con l’esercizio del potere fondato su logiche corporative e clientelari, e pensano che l’unico modo per eliminare il correntismo sia eliminare le correnti: un intento di recente ribadito da un esponente del governo con una citazione piuttosto infelice. Un po’ come quelli che hanno pensato, e pensano, che si potessero eliminare la corruzione e il malgoverno eliminando i partiti e gli altri corpi intermedi.
Ma nella pratica concreta, molti di costoro pensano, in realtà, che questo obiettivo, quello della eliminazione delle correnti, e del correntismo, sia impossibile. E che allora sia meglio provare a conviverci, stando attenti però a non farsi vedere, a nascondersi il più possibile, nella convinzione, tutta italiana, che l’ipocrisia in fondo non sia così male, essendo pur sempre un omaggio alla virtù. Sono quelli, e sono tanti, che hanno conservato ben in vista sul tavolo il manuale Cencelli, solo che lo hanno rivestito con la copertina della “Critica della ragion pura”: tu lo apri, pensando di trovarci la legge morale e invece trovi i criteri per la attribuzione delle stanze oppure, per fare un esempio molto più concreto e meno simbolico, per la attribuzione delle presidenze delle commissioni.
“Mi troverò bene”, pensai tra me in quei primi giorni, rievocando una delle più felici battute, anche se non la più famosa, del film “Bianca” di Nanni Moretti.
Nonostante questo, insieme ai colleghi del gruppo di AreaDG, abbiamo provato sin dall’inizio a procedere in direzione “ostinata e contraria”, cercando di dimostrare, nei comportamenti concreti, che era possibile un modello diverso, nel quale la orgogliosa e trasparente rivendicazione della propria appartenenza ideale si accompagnasse alla rigorosa rinuncia alle pratiche clientelari, corporative e consociative.
Sono pienamente d’accordo, al riguardo, con quanto detto da Ernesto Lupo nel suo intervento: il corporativismo e il clientelismo sono mali seri della magistratura e del suo governo autonomo. Dirò di più: io sono convinto che queste pratiche stiano corrodendo dall’interno il governo autonomo della magistratura e finiranno, se non eliminate, per distruggerlo.
Per questo sin dall’inizio della consiliatura formulammo un pressante invito a tutti i gruppi a fare un passo indietro rispetto a queste logiche.
Nei nostri primi documenti arrivammo a parlare esplicitamente di “disarmo unilaterale”. In una chiara e trasparente assunzione di responsabilità, in chiave autocritica, per i comportamenti assunti in passato anche dal nostro gruppo, dichiarammo che ogni nostra scelta sarebbe stata sempre fondata esclusivamente sul merito e del tutto slegata da logiche di appartenenza. E chiedemmo agli altri gruppi di fare lo stesso, nella convinzione che questo fosse l’unico modo per salvare, tutti insieme, il governo autonomo della magistratura.
Quel primo anno al Consiglio fu un anno durissimo. Noi non conoscevamo quello che accadeva fuori dal Consiglio e che poi avremmo letto nelle intercettazioni, ma toccavamo con mano la enorme difficoltà di aprire una breccia, un canale di dialogo e di confronto.
Mi ha molto colpito al riguardo il ricordo del Prof. Silvestri dello stupore provato dal Prof. Pizzorusso all’esito di un dibattito nel quale tutti avevano mostrato di apprezzare e condividere il suo intervento, salvo poi votare in maniera opposta. Mi ha ricordato le parole che mi rivolse uno dei componenti togati del Consiglio dopo un mio accalorato intervento in Plenum: parla, parla, tanto poi votiamo, frase che poi riferì, orgogliosamente, ai partecipanti della famosa serata dell’hotel Champagne.
Ancora oggi io sono convinto che quella fosse la strada giusta, che alla lunga avrebbe prodotto i suoi frutti. E che sia questa l’unica strada da percorrere, in quanto non esistono soluzioni semplici a problemi complessi.
In questo contesto i fatti dell’Hotel Champagne sono stati certamente un fulmine, che ha scosso alle fondamenta il Palazzo dei Marescialli, ma certo non un fulmine a ciel sereno, in quanto il cielo era visibilmente scuro per chi avesse solo voluto guardarlo.
Certo è che quella vicenda ha avuto un impatto molto forte sul Consiglio e ha segnato l’intera consiliatura. Con conseguenze che, valutate complessivamente oggi e a mente fredda, non possono considerarsi del tutto positive.
Certamente la evidenza dei fatti ha costretto tutti a prenderne in qualche modo atto, ha smosso reazioni diffuse e indignate tra i magistrati e nell’opinione pubblica e ha, quindi, favorito un percorso di comune assunzione di responsabilità.
Ma la gestione concreta delle ricadute di quei fatti è stata particolarmente difficile.
Il Consiglio non poteva sottrarsi, a mio avviso, al dovere di accertare le responsabilità dei singoli e di trarne le dovute conseguenze con riferimento alle decisioni di propria competenza (valutazioni di professionalità, conferme per incarichi direttivi e semidirettivi, trasferimenti di ufficio per incompatibilità territoriale o funzionale, disciplinare). Su questo si sono registrate molte difficoltà e resistenze. Sotto molti punti di vista, in termini di esercizio dell’azione disciplinare, di avvio delle pratiche di incompatibilità ambientale, di tempi di trattazione delle valutazioni e delle conferme (alcune delle quali, per queste “difficoltà”, hanno finito per arrivare alla nuova consiliatura).
Ciò ha restituito una immagine poco chiara e disorganica della reazione del Consiglio e di sostanziale ingiustizia degli esiti derivante dalla disparità di trattamento tra situazioni analoghe.
Ingiustizia aggravata dalla comune consapevolezza che il “faro” attivato dall’iniziativa della Procura di Perugia (di sequestro del cellulare del dott. Palamara e di invio della copia integrale del suo contenuto al Consiglio e alla Procura Generale della Cassazione) aveva giocoforza illuminato solo una parte della realtà, quella che, appunto, era in qualche modo collegata con il titolare del telefono, lasciando nell’ombra i comportamenti di altri.
Noi abbiamo sempre detto che rispetto alle pratiche clientelari che emergevano da quelle comunicazioni fosse necessaria una forte autocritica collettiva e una comune assunzione di responsabilità da parte di tutti, nella consapevolezza che certe prassi distorte erano ampiamente diffuse e condivise.
Però, poi, quando si passava all’esame delle singole pratiche, che riguardavano persone in carne ed ossa, tutto diventava più difficile.
La difficoltà di gestione concreta delle ricadute di quei fatti è stata, inoltre, aggravata da una falsa narrazione della vicenda e delle sue conseguenze, alimentata da alcuni protagonisti di quei fatti, cui ha dato ampio spazio una parte della stampa, che hanno preteso di reinterpretare le vicende consiliari degli anni successivi con quello che è probabilmente l’unico metro di giudizio in loro possesso, quello degli accordi di potere e delle scelte fondate su logiche di appartenenza. Di qui la rappresentazione di un “ribaltone” attraverso il quale la sinistra giudiziaria (cioè io e i miei colleghi di AreaDG) avrebbe ripreso, con la complicità di Davigo, il “potere”, accaparrandosi le nomine più importanti. Nulla di più lontano dal vero.
Io feci fare una rilevazione statistica, con la quale dimostrai inconfutabilmente la falsità di questa narrazione, indicando tutte le nomine nelle quali il gruppo di AreaDG e quello di Autonomia e Indipendenza avevano votato insieme (in contrapposizione agli altri gruppi), dimostrando che erano molte meno di quelle in cui il gruppo di Davigo aveva votato insieme agli altri gruppi in contrapposizione ad AreaDG.
Ma come in altre occasioni ho dovuto constatare come a volte non conta che una narrazione sia vera o falsa, conta che “serva”, che sia funzionale all’obiettivo di chi se ne serve.
Tutto ciò ha reso più difficile avviare quel necessario percorso condiviso di costruzione di un diverso modello di governo autonomo, con lo scopo di restituire trasparenza e credibilità all’azione del Consiglio, che noi consiglieri per primi eravamo chiamati ad avviare e gestire: dal Presidente della Repubblica, dai tanti magistrati perbene, dall’opinione pubblica
Un percorso certamente complesso che richiedeva perciò una analisi approfondita delle cause della crisi dell’istituzione e la individuazione dei rimedi di “sistema” sul piano della normativa primaria e secondaria.
Ed è proprio il percorso che già indicava Alessandro Pizzorusso nel suo discorso mai pronunciato e richiamato da Tommaso Giovannetti con parole così chiare e nette, che meritano di essere ribadite: Senza la chiara consapevolezza dei propri obiettivi, che sono prima di tutto obiettivi di ordine culturale, il Consiglio non potrà certamente affermare la propria autonomia nei confronti degli altri soggetti istituzionali con la forza della ragione, che è l'unica di cui dispone, e finirà per subire le influenze della maggior forza politica di cui essi possono avvalersi. Certamente, il Consiglio deve offrire la sua collaborazione più sincera e professionalmente qualificata al capo dello Stato, al ministro della giustizia, alle commissioni giustizia delle camere del parlamento, ed a tutti gli altri operatori politico-costituzionali, e deve altresì saper fare in modo che la sua collaborazione sia accettata e valorizzata. Ma ciò non deve avvenire con uno spirito di rassegnata subordinazione, bensì nella piena consapevolezza di essere portatore di un progetto culturale più ricco e più forte di quelli cui mostrano di ispirarsi i suoi recenti denigratori.
A mio avviso le cause profonde di questa crisi, per molti versi collegate alla riforma dell’ordinamento giudiziario introdotta nel 2006, erano da individuarsi in una serie di fattori, interdipendenti e connessi tra loro:
a) il carrierismo, cioè un mutato rapporto dei magistrati con la carriera, con gli incarichi, con le promozioni;
b) il verticismo e la gerarchizzazione, figli di una malintesa idea secondo la quale la soluzione della crisi della giustizia doveva essere affidata alla guida illuminata, al comando, di un “capo”;
c) la burocratizzazione e il produttivismo, diretta conseguenza di quella visione verticistica, che ha portato i “capi”, in realtà nella stragrande maggioranza dei casi privi di effettive doti organizzative e manageriali, a chiedere ai “sottoposti” di produrre di più, di fare numeri. E ha indotto i magistrati a ripiegarsi sul particolare, a disinteressarsi della organizzazione dell’ufficio e dei risultati della propria attività, per occuparsi solo di tenere in ordine le carte;
d) il clientelismo e il corporativismo, inteso come gestione del potere di governo della magistratura (a tutti i livelli: la dirigenza degli uffici; il governo autonomo locale e centrale) secondo logiche di protezione e di promozione legate esclusivamente alla appartenenza (di corrente, di amicizia, di territorio).
Una serie di fattori che richiedevano interventi strutturali, di sistema, sul piano della normativa primaria e di quella secondaria, che provo ad indicare solo per punti.
Sul piano delle riforme legislative:
a) introdurre una vera temporaneità degli incarichi direttivi e semidirettivi, in modo da trasformare l’incarico direttivo in una parentesi della vita professionale di un magistrato, la cui occupazione principale deve restare l’esercizio della giurisdizione, così evitando che la carriera direttiva diventi un vero e proprio percorso alternativo;
b) ridurre il numero di incarichi semidirettivi, prevedendo l’attribuzione di competenze organizzative all’interno dell’ufficio ai magistrati con maggior esperienza nel settore;
c) modificare la legge elettorale del CSM, introducendo nuovamente il sistema proporzionale su base nazionale, l’unico sistema compatibile con il ruolo di garanzia del Consiglio e con il pluralismo ad esso connaturato; unico sistema, inoltre, che attribuisce un reale potere di scelta agli elettori, i quali attraverso il voto di preferenza possono davvero determinare gli eletti all’interno della lista; unico sistema, infine, che garantisce, in presenza della regola costituzionale della ineleggibilità dei componenti uscenti, una responsabilità politica degli eletti, atteso che le scelte compiute dagli eletti ricadono sul risultato elettorale della lista nella tornata successiva.
Nessuno di questi interventi è stato realizzato. Dopo discussioni infinite sul sorteggio e i suoi derivati, la politica ci ha consegnato un sistema elettorale quasi identico a quello che c’era prima. Il risultato elettorale, ampiamente previsto, è lì a dimostrarlo.
Sul piano della normazione secondaria, invece, alcune cose importanti sono state fatte nella consiliatura.
In particolare ricordo:
a) la circolare sulle tabelle, che ha introdotto, tra le altre cose, limiti stringenti ai poteri dei dirigenti sulla attribuzione di incarichi di collaborazione, in modo da ridurre i rischi di gerarchizzazione degli uffici giudicanti legati anche al “potere” di distribuire a discrezione titoli spesso funzionali a percorsi dirigenziali;
b) la circolare sulla organizzazione delle procure, che, anche per questi uffici, ha introdotto limiti al potere dei dirigenti nella attribuzione degli incarichi (di collaborazione ma anche di coordinamento di gruppi), ma ha anche rafforzato l’autonomia interna dei magistrati dell’ufficio intervenendo nella regolamentazione della assegnazione e gestione degli affari;
c) la circolare sull’accesso agli uffici di legittimità, che ha introdotto limiti alla discrezionalità valutativa del Consiglio e attribuito un peso preponderante alla esperienza professionale maturata negli uffici giudiziari e al giudizio della Commissione Tecnica;
d) la modifica delle disposizioni del TU sulla dirigenza in tema di conferma negli incarichi direttivi e semidirettivi, finalizzata ad assicurare una verifica effettiva e rigorosa sull’esercizio di tali funzioni e ad evitare il crearsi di un percorso separato di carriera per i dirigenti.
Non si è riusciti, invece, a completare l’intervento di riforma su due ulteriori, fondamentali aspetti:
a) la riforma del TU sulla dirigenza relativamente ai criteri di nomina dei dirigenti. La V Commissione aveva approvato all’unanimità un testo di riforma le cui direttrici principali erano la valorizzazione della esperienza professionale, la riduzione della discrezionalità valutativa e la eliminazione del peso delle cd. medagliette. Un testo che aveva ricevuto l’intesa del Ministro della Giustizia pro tempore e che il Plenum non riuscì a discutere e votare. Mi auguro che possa essere una buona base di lavoro per l’attuale Consiglio.
b) la riforma della circolare sulle valutazioni di professionalità che pure fu approvata in Commissione, ma non fu votata dal Plenum, e le cui direttrici erano:
la semplificazione del procedimento;
la riduzione degli spazi di valutazione e di giudizio da parte del dirigente;
l’obbligo per il dirigente di segnalare i fatti rilevanti ai fini della valutazione;
In uno slogan: più fatti e meno aggettivi.
Ma per restituire al Consiglio Superiore della Magistratura un ruolo di protagonista nel dibattito politico e culturale sui temi della giustizia è necessaria anche una riflessione sui meccanismi di funzionamento dell’organo e sulle sue criticità.
I ricorrenti tentativi di ridimensionare il ruolo del Consiglio e di ridurlo ad organo di amministrazione del personale di magistratura, ai quali molti degli interventi hanno fatto riferimento, passano, infatti, anche attraverso una crisi di funzionalità e di efficacia dell’azione del Consiglio.
Vi è in primo luogo un problema di elefantiasi dell’attività del Consiglio: il numero di pratiche da trattare è enorme e questo crea spesso ritardi e incertezze. A questo proposito è opportuno ricordare che la auspicata riduzione del numero di incarichi semidirettivi avrebbe l’ulteriore vantaggio di alleggerire il carico del Consiglio.
Allo stesso modo una semplificazione delle procedure di valutazione di professionalità potrebbe consentire di decentrare ai Consigli Giudiziari la decisione sulle pratiche che non presentano profili di problematicità e concentrare l’attenzione del Consiglio sulle situazioni più critiche. Un forte decentramento si potrebbe realizzare anche nella materia tabellare, per riservare al Consiglio le pratiche più sensibili sul piano della finalità intrinseca dell’organizzazione tabellare e quelle controverse.
In ogni caso andrebbero rafforzate le strutture di supporto alle attività dei consiglieri, aumentando in maniera significativa il numero dei Magistrati Segretari e di quelli addetti all’Ufficio Studi.
Torna, però, anche qui un problema di fondo che richiama nuovamente la irrinunciabilità del ruolo dei gruppi associativi nel sistema di governo autonomo.
Come è noto il Consiglio Superiore si rinnova completamente ogni quattro anni e, per espressa previsione costituzionale, i suoi componenti non sono immediatamente rieleggibili. Questa previsione è più che condivisibile, ma è del tutto evidente che un organo che si rinnova integralmente ogni quattro anni, deve scontare ogni volta le difficoltà della fase di avvio, e le necessarie lentezze ad essa connesse. Nel passato ciò che ha dato continuità all’azione del Consiglio sono state proprio le “correnti” e la loro elaborazione culturale, che creavano un ponte tra gli uscenti e i nuovi eletti, tale da eliminare o ridurre le soluzioni di continuità. E un ruolo rilevante in questo senso era dato anche dai magistrati addetti alla struttura, i quali fin quando sono stati selezionati anche in considerazione delle diverse aree associative e culturali di riferimento, hanno garantito continuità e consapevolezza all’azione dell’Istituzione.
In questo caso risulta evidente come l’azione diretta ad indebolire le “correnti” per il malinteso intento di combattere così il correntismo, si traduca in un indebolimento dell’organo e della sua funzione politico-culturale.
Se, infatti, i componenti del Consiglio - sia quelli di nomina elettiva che gli addetti alla struttura - sono scelti prevalentemente sulla base delle loro qualità tecnico-professionali e non sulla base delle idee sulla magistratura e sul governo autonomo di cui sono portatori, ne deriva giocoforza un ridimensionamento del ruolo del Consiglio.
Se chi si candida al Consiglio rivendica esplicitamente di voler svolgere il suo mandato nello stesso modo in cui svolge la funzione di magistrato, cioè limitandosi ad applicare la legge e se, in palese contrasto con la lettera e lo spirito della Costituzione, addirittura si ipotizza la possibilità di sorteggiare i componenti del Consiglio, è evidente che con queste opzioni si finisce per spingere il Consiglio nella ridotta dell’attività amministrativa di gestione, non essendo con esse compatibili le attività di promozione politico-culturale del Consiglio, quali i pareri sulle riforme, le proposte di intervento legislativo, la relazione annuale sullo stato della giustizia, le pratiche a tutela della autonomia dei magistrati, gli interventi sulla deontologia dei magistrati.
E senza con questo incidere in alcun modo sui mali seri del corporativismo e del clientelismo, in quanto l’esperienza concreta dei sedicenti indipendenti eletti in Consiglio ha dimostrato, e dimostra anche nell’attualità, che questi sono difetti propri dei magistrati e non solo delle correnti.
Non condivido, invece, l’idea avanzata nel dibattito da Ernesto Lupo di un rafforzamento del ruolo del Comitato di Presidenza, quale longa manus del Presidente della Repubblica e, in quanto tale, possibile argine alle derive clientelari e corporative.
Nel disegno del costituente, infatti, questa funzione dovrebbe essere svolta dai membri laici del Consiglio, in quanto portatori di un punto di vista esterno alla corporazione.
Sono ben consapevole del fatto che nell’esperienza pratica ciò non è avvenuto e che purtroppo in alcuni casi i componenti laici hanno dato, su questo terreno, prova peggiore di quella offerta dai togati. Ma a questo si può provare ad ovviare rivedendo i meccanismi di selezione dei componenti laici, in modo da ricondurli al modello pensato dal costituente. In questa direzione sembrava muoversi la riforma Cartabia, che però, in sede di prima applicazione, è stata di fatto disapplicata dal Parlamento.
Mentre mi lascia piuttosto scettico l’idea di affidare un improprio ruolo di “tramite” tra il Presidente della Repubblica e l’Assemblea Plenaria al Vicepresidente e ai due membri di diritto. Non sono certo tra quelli che pensano che il Presidente possa prendere parte alla vita del Consiglio solo partecipando alle sedute ed esprimendo il suo voto. Anzi, penso abbia pienamente ragione il prof. Silvestri quando ha ricordato quali insidie vi fossero nella scelta del Presidente dell’epoca di partecipare alle sedute e di esprimere il voto anche su nomine controverse. Ma credo che vi siano molti altri modi diversi, anche più diretti ed efficaci, per consentire al Presidente di esercitare a pieno il suo ruolo di equilibrio e di garanzia nella vita del Consiglio, senza necessità di un ulteriore irrigidimento dei protocolli, già fin troppo ingessati.
Sono tempi molto difficili i nostri, nei quali lo scontro e la divisione sembrano prevalere su ogni possibilità di ragionamento e di confronto (e non parlo ahimè solo delle nostre pur sempre piccole questioni).
La mia personale convinzione, invece, lo dico da sempre, è che tutti gli attori istituzionali abbiano il dovere di dismettere ogni approccio bellicista e di confrontarsi laicamente, e senza pregiudiziali ideologiche, sul merito dei singoli problemi, il che consentirebbe a mio avviso di trovare soluzioni condivise sulla gran parte dei problemi a cui ho fatto cenno.
Questo credo sarebbe il miglior omaggio che potremmo fare alla memoria del Professor Pizzorusso, il quale nella sua vita di studioso e di giurista ha sempre utilizzato come uniche armi la Ragione, il dialogo e il confronto.
*Intervento di Giuseppe Cascini nel seminario La partecipazione di Alessandro Pizzorusso al CSM (1990-1994) e le successive " stagioni", Università di Pisa, 15 dicembre 2023.
(Immagine: A classroom with children sitting at long tables and a teacher standing with a book in her hand, litografia di J.B. Sonde, Wellcome Collection, Londra)
«La condotta tenuta nel corso di una pubblica manifestazione consistente nella risposta alla “chiamata del presente” e nel c.d. “saluto romano”, rituali entrambi evocativi della gestualità propria del disciolto partito fascista, integra il delitto previsto dall’art. 5 della legge 20 giugno 1952, n. 645, ove, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso, sia idonea ad integrare il concreto pericolo di riorganizzazione del disciolto partito fascista, vietata dalla XII disposizione transitoria e finale della Costituzione. A determinate condizioni può configurarsi anche il delitto previsto dall’art. 2 del decreto-legge 26 aprile 1983, convertito, con modificazioni, nella legge 25 giugno 1993, n. 205 che vieta il compimento di manifestazioni esteriori proprie o usuali di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Tra i due delitti non sussiste rapporto di specialità e possono concorrere sia materialmente che formalmente in presenza dei presupposti di legge»
Questa la decisione delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione emessa il 18 gennaio 2024, come da informazione provvisoria che si allega.
È interessante la lettura delle note di udienza dell’Avvocato generale dott. Piero Gaeta.
(Immagine: Fotografia scattata nel 1936 in occasione del varo di una nave al porto di Amburgo, alla presenza di Adolf Hitler. L’uomo che si distingue nella folla, l'unico a braccia conserte, si chiama August Landmesser.)
Era tempo che attendevo il nuovo film di questo regista che tanto mi ha fatto innamorare in passato. E l’attesa (resa amara dal timore che realmente non ci sarebbero stati altri suoi film, come paventato) non è stata vana.
“Sappiamo o non sappiamo, amici miei, cos’è il silenzio?” chiede Rilke nei suoi Sonetti a Orfeo. La stessa domanda sembra porcela il regista finlandese, nella solitudine proletaria di Helsinki, che, in questo film, giunto sei anni dopo L’altro volto della speranza, appare sollevata dallo spazio e dal tempo.
È l’atmosfera adatta per i suoi protagonisti, due anime laterali, mal conciliate alla vita e estremamente tenere, sulle cui solitudini personali ci affacciamo come sbirciando dentro una Wunderkammer.
Difficile collocare le loro vicende in un’epoca precisa, tra colori pastello, abiti informi e démodé, tecnologia vetusta e sparuta, locandine di Godard e Bresson nelle vetrine del cinema rétro (la settima arte come via di fuga dal reale), arredamento d’altri tempi. Unici indizi temporali: la guerra in Ucraina (la “dannata guerra”, come la chiamerà Ansa), della quale giungono notizie attraverso un radio giornale e un calendario affisso nella laida e spoglia cucina di un pub (del 2024, però), scenario dell’ennesimo sfruttamento, dell’ennesima sconfitta.
Il silenzio in Kaurismäki spesso è più denso della parola, lo sappiamo bene. Sembra guardarci sorridente mentre ci lambicchiamo per trovare i vocaboli giusti, consapevole che il suono più adatto talvolta è quello sospeso, adagiato tra una parola e l’altra dei suoi dialoghi ironici e surreali, perfetti, definitivi.
“L’amore consiste in questo, che due solitudini si proteggono a vicenda, si toccano, si salutano”, è ancora Rilke a ricordare. E questa è la storia di Ansa e Holappa (il cui nome di battesimo non si conosce per la durata del film). Ansa, una giovane donna sola e sfiorita che lavora in un supermercato fino al momento in cui viene scoperta a sottrarre prodotti scaduti, uno trovato nella borsetta e altri lasciati a un senzatetto anziché destinarli al macero, come previsto dal protocollo. E Holappa, un operaio metalmeccanico, altrettanto solo, mite e col vizio del bere, che gli farà perdere il lavoro.
Entrambi sottopagati, umiliati, privi di tutela, sconfitti, ai margini di un mondo che sembra non accorgersi delle loro esistenze. Entrambi tagliati fuori dalle regole del gioco («Tu non sei un duro, Holappa», gli dice l’amico Raunio con cui condivide il container dormitorio nel cantiere in cui lavorano, «Però potrei esserlo», replica il ragazzo). Esistenze oblique: si incontrano a un karaoke, dove non sono loro a cantare; si guardano a lungo, ma non si parlano; fuori dal cinema (dove hanno appena visto il grottesco I morti non muoiono di Jim Jarmusch) affidano a un biglietto un numero di telefono, che volerà via, al vento, come le parole che non riescono a dirsi; la ricerca continua l’uno dell’altro, fino al ritrovamento, quasi tragico.
Tra neorealismo e nouvelle vague, nessuna provocazione, solo la fragilità tenace e la precarietà di due figure in bilico, dai sentimenti elementari, lenti attraverso le quali giungiamo all’essenza universale, il nucleo di questo film che la bellezza delicata ha nel nome, portando nel titolo Les Feuilles Mortes di Jacques Prévert, brano reso celebre da Yves Montand. La stessa delicatezza che sarà in grado di preservare quelle due anime fragili e incerte nella brutalità devastante del mondo in cui sono loro malgrado immerse.
Proprio lì si insinua la poetica kaurismäkiana, capace di vette esilaranti, condite da una colonna sonora pienamente all’altezza, che ci regala scene colorate da un umorismo agrodolce, impassibile e malinconico, fatto di trasparenze e di scene sublimi incastonate nella pellicola (la cena per la quale Ansa deve comprare un altro piatto - che avrà vita breve - perché ne possiede soltanto uno, l’insalata di asparagi e quello che tutti chiamano “aperitivo”, è soltanto una di queste).
Un film dallo splendore poetico, minimalista e pungente, in cui nulla è di troppo, perfetto per sottrazione.
Emblematico anche il duo delle sorelle finlandesi che canta nel pub, le Maustetytöt, in inglese, letteralmente, Spice Girls, definite dal New York Times “impossibly cool Finnish duo”, che ci regalano una scena di nichilismo imperturbabile, ma al contempo caldo, timido e spavaldo, estremamente nordico.
Ansa e Holappa sono proletari resistenti in un mondo insensibile e brutale, dove l’addetto alla vigilanza del supermercato di periferia risponde come i gerarchi nazisti al processo di Norimberga.
Un mondo brutale, ma non a tal punto da uccidere la speranza.
Mettendo insieme i rimasugli di una non sopita voglia di vivere, un passo claudicante può tramutarsi nella vigilia di una nuova solitudine, da condividere, col retrogusto di una relativa felicità.
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