ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
AUDIZIONE I COMMISSIONE (AFFARI COSTITUZIONALI, DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO E INTERNI) - CAMERA DEI DEPUTATI
Memoria scritta del dr. Armando Spataro[1]
(già Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino e già componente del CSM)
in ordine alla
Audizione informale del 25 gennaio 2024, nell’ambito dell’esame delle proposte di legge C. 23 cost. Enrico Costa, C. 434 cost. Giachetti, C. 806 cost. Calderone e C. 824 cost. Morrone, recanti modifiche all’articolo 87 e al titolo IV della parte II della Costituzione in materia di separazione delle carriere giudicante e requirente.
Sommario: 1. Premessa - 2. Il succedersi delle regole vigenti e le diverse questioni in campo - 3. Le ragioni contro l’unicità di carriera: pag. 9 - 3.a La contiguità tra giudici e p.m., derivante dall’appartenenza alla medesima carriera, condizionerebbe i primi, determinandone l’ “appiattimento” sulle tesi dei p.m. o la predisposizione a prestare maggior attenzione alle richieste dell’accusa pubblica - 3.b Occorre comunque evitare che il giudice, per effetto della unicità della carriera, sia portatore della cultura della “lotta alla criminalità”, propria della funzione del P.M. - 3.c La separazione delle carriere andrebbe perseguita perché favorisce la maggiore specializzazione del Pubblico Ministero, richiesta dal Codice di Procedura Penale - 3.d La separazione delle carriere è ormai imposta dalla nuova formulazione dell’art.111 Costituzione che prevede la parità delle parti davanti ad un giudice terzo ed imparziale - 3.e La separazione delle carriere si impone anche in Italia poiché si tratta dell’assetto ordinamentale esistente o nettamente prevalente negli ordinamenti degli altri Stati a democrazia avanzata, senza che ciò comporti dipendenza del PM dal potere esecutivo - 3.f La particolarità del Portogallo - 4. Le ragioni a favore dell’unicità della carriera - 4.a La prospettiva del Parlamento Europeo e del Consiglio d’Europa - 4.b La cultura giurisdizionale deve appartenere anche al PM - 4.c I dati statistici - 4.d Unica formazione e unico CSM - 4.e Condizionamento del giudice: conseguenza certa della separazione delle carriere - 4.f La tendenza internazionale alla creazione di organismi inquirenti e giudicanti sovranazionali richiede la forte difesa degli assetti ordinamentali oggi esistenti in Italia - 5. Tensioni tra potere politico e magistratura: il P.M. non è l’“avvocato della polizia”, né “dell’accusa" - 6.La proposta di legge costituzionale elaborata dall'Unione delle Camere Penali (con cenni alla obbligatorietà dell’azione penale ed al tema delle priorità) e le altre cinque proposte di legge pendenti in Parlamento - 7. Per concludere…l’iniziativa di 600 magistrati a riposo e dell’ANM.
1. Premessa
Le osservazioni che seguono (la cui lunghezza è dovuta alla notevole delicatezza della questione) sono frutto della mia esperienza professionale (tutta spesa nell’esercizio delle funzioni di pubblico ministero, sia come Sostituto Procuratore della Repubblica e Procuratore della Repubblica Aggiunto a Milano, sia – negli ultimi anni, fino al dicembre 2018 – come Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino), nonché di quelle di componente del CSM (nel quadriennio 1998/2002) e più recentemente (dall’inizio del 2019) di docente a contratto presso l’Università Statale di Milano nella materia di “Politiche di sicurezza e dell’Intelligence”. Utilizzerò anche miei precedenti interventi sui temi oggetto dell’audizione.
Saranno inevitabili alcuni cenni al contesto storico e normativo, che non devono affatto essere interpretati come frutto di intenzioni diverse da quella di contribuire, con corretta dialettica, alla riflessione sulla dichiarata finalità delle proposte di legge in esame di introdurre nel nostro ordinamento la separazione delle carriere dei magistrati, una riforma che a mio avviso – lo affermo preliminarmente – non è condivisibile, in quanto inutile, anacronistica ed in contrasto con i principi fondamentali del nostro ordinamento.[2]
In tema di separazione delle carriere è davvero difficile dire qualche cosa di originale, specie se ci si rivolge ad una platea composta da addetti ai lavori: ma egualmente l’attualità impone uno sforzo, così come spinge ad una sintesi degli argomenti e delle rispettive obiezioni. Il tentativo è quello di riuscire a farlo con freddezza, nonostante talune affermazioni e strumentalizzazioni, non certo commendevoli, abbiano acceso il dibattito nel mondo dei giuristi.
In questa prospettiva, sento comunque il dovere di anticipare con chiarezza la mia ferma contrarietà (per le ragioni che appresso esporrò) a qualsiasi ulteriore cambiamento delle norme vigenti in materia (pur se alcune di esse appaiono criticabili) e, dunque, manifesto subito il mio dissenso (che illustrerò nel penultimo paragrafo) rispetto alla proposta di legge costituzionale elaborata dall’Unione delle Camere Penali (ma di iniziativa popolare), presentata il 31 ottobre 2017, nonché rispetto alle seguenti altre 5 proposte di legge costituzionale pendenti in Parlamento, le prime 4 presso la Camera dei Deputati e la quinta presso il Senato (che qui si preferisce citare, pur se non oggetto della audizione), tutte con la medesima intitolazione («Modifiche all’art. 87 e al titolo IV della parte II della Costituzione in materia di separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura») :
· Proposta A.C. n. 23, d’iniziativa del deputato Enrico Costa (Azione), presentata in data 13 ottobre 2022;
· Proposta A.C. n. 434, d’iniziativa del deputato Roberto Giachetti (Italia Viva), presentata in data 24 ottobre 2022;
· Proposta A.C. n. 806, d’iniziativa dei deputati Calderone, Cattaneo, Pittalis e Patriarca (Forza Italia), presentata in data 24 gennaio 2023;
· Proposta A.C. n. 824, d’iniziativa dei deputati Morrone, Bellomo, Bisa, Matone e Sudano (Lega), presentata in data 26 gennaio 2023;
· DDL S. n. 504, d’iniziativa della senatrice Erika Stefani e di altri 21 senatori cofirmatari (Lega), presentato in data 26 gennaio 2023.
Il Governo, come è noto, non ha ancora presentato alcuna proposta di legge in materia, poiché, illustrando il “cronoprogramma” delle proposte più urgenti di riforma in cantiere, il Ministro Nordio ha dichiarato che “ci sono poi altre riforme di carattere costituzionale come le carriere dei magistrati che esigono tempi più dilatati”[3], aggiungendo in seguito che “...sarà una rivoluzione copernicana. È una riforma non negoziabile per una ragion pura e una ragion pratica: è nel programma di Governo e quindi va attuata per rispetto verso i cittadini che ci hanno votato; è consustanziale al processo accusatorio”[4].
A dimostrazione del fatto che la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri non è un obiettivo condiviso da tutto il mondo dell’avvocatura, pur se è ormai una sorta di “ossessione” delle Camere Penali, intendo, però, iniziare questo intervento citando affermazioni importanti di prestigiosi avvocati penalisti (e molti altri potrebbero essere qui citati)[5]:
Ma altre simili valutazioni provengono da esponenti altrettanto prestigiosi del mondo accademico tra cui, riservandomi altre citazioni più avanti:
Quel ruolo richiede infatti che ogni magistrato, nei diversi ruoli, persegua un unico ed unitario interesse generale: accertare la verità dei fatti nei modi processuali stabiliti, e decidere di conseguenza, secondo la legge.
Il cittadino si aspetta che, come ora avviene (e comunque come ora deve avvenire), il pubblico ministero cerchi, con pari impegno, prove a carico e a discarico dell’indagato, e, se del caso, chieda l’archiviazione o l’assoluzione. Il pm deve rimanere «parte imparziale» del processo: a differenza del difensore che fa l’interesse privato e personale dell’imputato.
Al giudice, poi, spetterà di valutare le prove e gli argomenti presentati dall’uno e dall’altro”.
2. Il succedersi delle regole vigenti e le diverse questioni in campo.
Come è noto, le norme dell’ordinamento giudiziario vigenti in tema di passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti (e viceversa), nonché in tema di assegnazione dei magistrati all’una o all’altra funzione al termine del tirocinio, erano – fino alla legge n. 71 del 17 giugno 2022 - quelle previste dal d.lgs n. 160 del 5 aprile 2006, emesso in attuazione della legge delega n. 150 del 20 luglio 2005, successivamente modificate dalla legge n. 111 del 30 luglio 2007, con conseguente notevole cambiamento del sistema preesistente[10].
A seguito della citata riforma ordinamentale[11], infatti, le funzioni requirenti di primo grado potevano essere conferite solo a magistrati che avessero conseguito la prima valutazione di professionalità, vale a dire dopo quattro anni dalla nomina.
La riforma, peraltro, aveva limitato il passaggio da funzioni giudicanti a requirenti, e viceversa, sotto un profilo oggettivo, vietandolo nei seguenti casi:
a) all’interno dello stesso distretto;
b) all’interno di altri distretti della stessa regione;
c) all’interno del distretto di corte d’appello determinato per legge (ex art. 11 c.p.p.) come competente ad accertare la responsabilità penale dei magistrati del distretto nel quale il magistrato interessato prestava servizio all’atto del mutamento di funzioni.
Sotto il profilo soggettivo, veniva stabilito il limite massimo di quattro passaggi nel corso della complessiva carriera del magistrato, unitamente alla previsione di un periodo di permanenza minima nelle funzioni esercitate pari a cinque anni.
Ai fini del passaggio si richiedeva inoltre:
a) la partecipazione ad un corso di qualificazione professionale;
b) la formulazione da parte del Consiglio superiore della magistratura, previo parere del consiglio giudiziario, di un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni.
Il cambio di funzioni, purché avvenisse in un diverso circondario ed in una diversa provincia rispetto a quelli di provenienza, era possibile anche nel medesimo distretto, ma solo in presenza di specifiche situazioni e stringenti requisiti[12].
Va pure ricordato, in particolare, che la legge n. 111/2007, oltre ad avere modificato varie altre previsioni del D. lgs. n. 160/2006, aveva eliminato la netta ed irreversibile separazione delle funzioni originariamente introdotta dalla “legge Castelli” (secondo cui, dopo cinque anni dall’ingresso in magistratura occorreva scegliere definitivamente tra funzioni requirenti o giudicanti): la legge n. 111/2007 aveva dunque impedito l’entrata in vigore di una normativa che di fatto realizzava una separazione delle carriere, aggirando le previsioni costituzionali[13].
In relazione allo specifico tema della separazione delle carriere, è però doveroso ricordare che la Corte Costituzionale, nell’ammettere la domanda referendaria relativa all’abrogazione dell’art. 190 co. 2 sul passaggio dei magistrati dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa, e di altre previsioni dell’ordinamento giudiziario, ha affermato (sentenza 3-7 febbraio 2000, n. 37/2000) quanto segue:
La Corte Costituzionale, nella stessa occasione, aveva pure precisato che:
Di questa pronuncia si deve prendere atto, anche in relazione al dibattito sulla necessità o meno di modificare la Costituzione per introdurre nel nostro ordinamento la separazione delle carriere. Diverso, invece, è il discorso su altre proposte, differenti rispetto a quelle oggetto del referendum abrogativo del 2000[14], che periodicamente sono argomento di dibattito politico, come quelle oggetto dell’audizione che prevedono la necessità di concorsi separati per accesso separato alle funzioni giudicante e requirente o quella di istituire separati Consigli Superiori della Magistratura. In questo caso[15], si tratterebbe di proposte di modifiche ordinamentali che, se fossero attuate con legge ordinaria, difficilmente potrebbero sfuggire alla declaratoria di illegittimità costituzionale.
Ma il sistema sin qui illustrato per necessità di ricostruzione storica è stato a sua volta significativamente modificato da quello introdotto con la la Legge n. 17 giugno 2022, n. 71, contenente, tra l’altro, disposizioni in materia di riforma ordinamentale”.
In proposito, ha efficacemente scritto Nello Rossi[16] :
“Se per “separazione delle carriere” dei giudici e dei pubblici ministeri si intende una netta divaricazione dei percorsi professionali e la diversità dei contesti organizzativi nei quali vengono svolti i rispettivi ruoli professionali, allora bisogna prendere atto che, a seguito degli interventi legislativi degli ultimi venti anni, la separazione si è già di fatto realizzata.
In particolare la legge n. 71 del 2022 ha determinato un’accentuazione estrema del processo di interna divisione del corpo della magistratura, procedendo oltre i già rigidi steccati eretti dalla riforma Castelli del 2006 e realizzando il massimo di separazione possibile tra giudici e pubblici ministeri a Costituzione invariata. L’art. 12 della legge 71/2022 ha infatti modificato l’art. 13 del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, stabilendo la regola generale che il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa può essere effettuato una volta nel corso della carriera, entro il termine di 9 anni dalla prima assegnazione delle funzioni.[17]
Trascorso tale periodo è ancora consentito, per una sola volta:
a) il passaggio dalle funzioni giudicanti alle funzioni requirenti, a condizione che l’interessato non abbia mai svolto funzioni giudicanti penali;
b) il passaggio dalle funzioni requirenti alle funzioni giudicanti civili o del lavoro, in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, purché il magistrato non si trovi, neanche in qualità di sostituto, a svolgere funzioni giudicanti penali o miste.
La regola generale dell’unico passaggio intende evitare che la scelta delle funzioni sia troppo fortemente condizionata dalla posizione del magistrato nella graduatoria del concorso di accesso e da considerazioni compiute nella fase iniziale della sua vita professionale, lasciando aperta una (sola) porta per una opzione fondata su di una più matura vocazione.
Si è voluto, cioè, almeno evitare di avere un pubblico ministero ingabbiato, precocemente e irrimediabilmente, nel ruolo di giudice o viceversa.
Ora è evidente che tanto la regola generale quanto i due ulteriori spiragli lasciati aperti per il mutamento di funzioni in precedenza ricordati costituiscono solo modesti e parziali temperamenti di una separazione divenuta pressoché totale.”
Questa è dunque la disciplina attualmente vigente che si intende ulteriormente modificare con le già citate proposte di legge che, come si dirà appresso, andrebbero ad incidere anche su altri principi costituzionali: va posto in evidenza, infatti, che la Costituzione (artt. 104 I c. e 107 ult. c.), in linea con la nostra cultura e tradizione giuridica, prevede la figura del Pubblico Ministero come totalmente autonoma ed indipendente rispetto al potere esecutivo, assistita dalle stesse garanzie del giudice e, affermata l’obbligatorietà dell’azione penale (art.112), le attribuisce la disponibilità della polizia giudiziaria (art. 109). Appare netta, nel disegno costituzionale, la antitesi del modello previsto rispetto a qualsiasi ipotesi di centralizzazione e gerarchizzazione su scala nazionale del Pubblico Ministero, figura cui spetta il compito, come si evince dallo stesso nome dell’organo, di rappresentare gli interessi della Repubblica, vale a dire di assicurare il rispetto della legge, non solo in materia penale, ma anche in materia civile in particolare, “in tutti quei casi in cui l'ordinamento ravvisi la sussistenza di un interesse pubblico o di un interesse collettivo che si affianca a quello strettamente personale delle parti. In particolare, la legge prevede specifiche ipotesi in cui il p.m. può addirittura esercitare l'azione civile (dando quindi avvio ad una causa) ed altre in cui il suo intervento è comunque richiesto nelle cause instaurate da altri soggetti, a tutela di interessi che, come detto, trascendono quelli delle parti già coinvolte nel processo”[18].
Anche da queste brevi considerazioni dovrebbe risultare evidente la necessità che giudici e pubblici ministeri abbiano le stesse competenze, la stessa formazione e la stessa appartenenza a un unico ordine, indipendente da ogni altro potere, come stabilisce la nostra Costituzione.
Questa annotazione, per quanto elementare, non appare superflua poiché sono proprio i principi appena enunciati che rischiano di essere compromessi dalle prospettive di riforma ordinamentale in esame o che periodicamente si addensano all’orizzonte.
Fatte queste ovvie premesse, è opportuno affrontare e confutare separatamente ciascuno degli argomenti che di solito si usano per criticare il sistema vigente e per sostenere la necessità di introdurre la separazione delle carriere in forma assolutamente rigida. Con una avvertenza: nella Costituzione (Titolo IV – La Magistratura) si fa riferimento solo alle funzioni dei magistrati e “le carriere” non vengono mai nominate, ma nel lessico politico-giudiziario, talvolta impreciso e tecnicamente insoddisfacente, si usano spesso, come alternative, due formule, quella della separazione delle funzioni e quella della separazione delle carriere, nient’affatto sovrapponibili. Nel primo caso, ove si alluda ad una novità da introdurre nell’ordinamento, la definizione dovrebbe essere respinta dagli addetti ai lavori, posto che la separazione delle funzioni è già prevista dal nostro ordinamento, come può ampiamente dedursi dalla normativa citata (art. 10 D.Lgs. 5 aprile 2006, poi sostituito dall’art. 2 L. 30 luglio 2007[19] e dall’art. 12 L. n. 71 del 2022). Il riferimento alla separazione delle carriere, invece, evoca un sistema in cui l’accesso alle due funzioni avvenga attraverso concorsi separati, le carriere di giudicanti e requirenti siano amministrate da distinti CSM ed in cui il passaggio dall’una all’altra funzione sia impossibile.
3. Le ragioni contro l’unicità di carriera[20]
3.a - La contiguità tra giudici e p.m., derivante dall’appartenenza alla medesima carriera, condizionerebbe i primi, determinandone l’ “appiattimento” sulle tesi dei p.m. o la predisposizione a prestare maggior attenzione alle richieste dell’accusa.
Il fondamento del sospetto di contiguità tra giudici e p.m., secondo alcuni, sarebbe deducibile anche dalla proporzione tra numero delle misure cautelari richieste dal PM., numero di quelle emesse dal Gip e numero di quelle confermate od annullate dal Tribunale del riesame.
Sembra evidente che, in questo caso, ci si trova di fronte non ad una obiezione di carattere strettamente tecnico, ma ad un indimostrato sospetto, che sfiora il limite dell’offensività nei confronti dell’onestà intellettuale del giudice. La tesi trovò spazio nella scheda che accompagnava il referendum abrogativo respinto il 21 maggio del 2000, in cui si affermava : “è assolutamente impensabile che da un giorno all’altro chi ha combattuto il crimine da una parte della barricata si trasformi improvvisamente nel garante imparziale di chi criminale potrebbe non essere” e si qualificava compromettente “lo spirito di appartenenza e di colleganza tra soggetti che vivono la stessa vicenda professionale..”, affermazioni che si ripetono all’infinito almeno sin dall’epoca dei processi cd. di “Mani Pulite”
È notorio che la magistratura, salvo rare eccezioni, respinge compatta questo sospetto artificioso di “gratuita proclività” del giudice a simpatizzare per le tesi dell’accusatore: Francesco Saverio Borrelli, autorevolmente, già venti anni fa, parlò di “diffidenze plebee che scorgono ovunque collusioni”, auspicando che “si verifichi sul campo, com’è doveroso nel campo delle scienze mondane, con un’indagine più o meno estesa, se, in quale misura e con quale frequenza le richieste dei pubblici ministeri, diverse da quelle di proscioglimento o di archiviazione vengano accolte dai giudici, e per quale percentuale degli accoglimenti affiori allo stato degli atti un dubbio di ragionevolezza. Soltanto all’esito di un’accurata indagine di questo tipo, che ponga in luce un tasso di scostamenti dalla ragionevolezza dotato di significatività, avrà un senso affrontare il tema della separazione delle carriere e dell’abbandono di una tradizione più che secolare di unità che ha prodotto indiscutibili frutti quali la condivisione della cultura della giurisdizione e la possibilità, transitando da una funzione all’altra, di utilizzare esperienze eterogenee”[21].
Indagine statistica indispensabile, dunque, ponendone al centro la ricerca del tasso di scostamenti dalla ragionevolezza delle decisioni del giudice favorevoli alla tesi del P.M. anche ad evitare un uso stravagante dell’indagine stessa e dello stesso dato statistico, facilmente strumentalizzabile in qualsiasi direzione: perché escludere, ad esempio, che l’alto numero di richieste cautelari accolte dai giudici costituisca spia del fatto che i pubblici ministeri fanno un uso moderato ed accorto del potere di richiesta delle misure restrittive della libertà personale e che essi condividono effettivamente, con i giudici, la cultura della giurisdizione ?
Ma soprattutto le tesi dell’appiattimento dei giudici sulle tesi dei PM sono smentite sul piano “quantitativo” da un dato opposto, quello dalle alte statistiche sulle assoluzioni e, sul piano “qualitativo”, dal rigetto di ipotesi accusatorie in importanti processi nei quali alcuni uffici di procura avevano investito molto in termini di impegno e di immagine.
Ne danno notizie le frequenti ed anche recenti cronache giornalistiche[22] che, però, citano anche i numerosi casi di decisioni dei giudici che “scavalcano” le richieste dei PM, condannando pur in presenza di richieste di assoluzioni, comminando pene più elevate di quelle richieste dai PM e disponendo il rinvio a giudizio pur in presenza di richieste di archiviazione. Insomma sembra nato, dopo quello dei PM, “il partito dei giudici”, al punto che spesso si auspicano indagini disciplinari nei loro confronti, si indaga sulle loro vite private e sui loro orientamenti ideali, fino a qualificarli oppositori politici nei confronti della maggioranza di turno.
L’affermazione della contiguità condizionante fra giudici e p.m., però, è diventata comunque “una convinzione diffusa, una verità che non ammette prove e ragioni contrarie”[23].
3.b – Occorre comunque evitare che il giudice, per effetto della unicità della carriera, sia portatore della cultura della “lotta alla criminalità”, propria della funzione del P.M.
È questa una posizione che emerge spesso negli interventi di molti autorevoli avvocati penalisti, alcuni dei quali rivestono compiti di rappresentanza dell’intera categoria: abbandonato il sospetto gratuito della contiguità tra giudici e p.m., si afferma – cioè – che, per garantire i cittadini, non sia tanto importante il ruolo imparziale del P.M. (o, meglio, il suo operare all’interno della cultura giurisdizionale) quanto evitare che il giudice, anche inconsapevolmente, per effetto della unicità delle carriere, condivida l’orientamento culturale del P.M. e le ragioni della sua azione istituzionale di contrasto dei fenomeni criminali[24]. Ciò, infatti, condurrebbe il giudice al progressivo abbandono della sua necessaria terzietà rispetto alle tesi contrapposte di p.m. ed avvocati.
Orbene, dando per scontata l’esistenza, sia pur marginale, del vizio insopportabile di taluni magistrati (soprattutto P.M.) di erigersi al rango di moralizzatori della società, sorprende che da parte dell’avvocatura italiana (o di parte di essa) e da alcuni settori del mondo politico si trascuri il significato, in termini di cultura e di rafforzamento delle garanzie, dell’attuale posizione ordinamentale del P.M., cui compete anche, e non a caso, svolgere “accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini” (art. 358 cpp).
Ma meraviglia ancor di più che si possa immaginare che il giudice possa esercitare la sua funzione in modo parziale, non distaccato né sereno, comunque compromettendo la parità tra le parti nel processo penale, per effetto di una opzione culturale - quella della contrapposizione morale ai poteri criminali di ogni tipo - non appartenente certo in esclusiva ai p.m., ma auspicabilmente condivisa dall’intera società (avvocati e politici compresi).
Basterebbe richiamare quanto affermato in precedenza circa la necessità di dimostrare scientificamente tale assunto, ma è chiaro che esso è smentito quotidianamente dall’esperienza di chi pratica le aule giudiziarie, ove i giudici, anche nei processi di consistenti dimensioni ed a carico di un numero elevato di imputati appartenenti alla più agguerrite cosche mafiose, dimostrano di non lasciarsi guidare dalla ragion di Stato, ma dal più rigoroso rispetto delle regole del processo e, in particolare, di quelle attinenti la valutazione delle prove. E ciò vale anche per i giudici di legittimità.
Stupisce, pertanto, quanto si legge in un articolo del prof. Giorgio Spangher[25]: “Il governo…dovrebbe avere il coraggio di contrapporsi ad essa (NdR: alla “magistratura antimafia”) ed alla magistratura in generale. Come? Rivendicando e non paradossalmente affossando la separazione delle carriere, il cui rinvio è ora giustificato dalla riforma del premierato: la separazione era stata peraltro ripetutamente ed ancora di recente promessa, senza dimenticare quanto la si fosse sbandierata in campagna elettorale. Di rinvio in rinvio non se ne farà nulla. Urge…attendere! E però se la si portasse a casa, si limiterebbero certi poteri che ora sono troppo concentrati nella Procura Nazionale Antimafia così come in quella europea”.
Dunque separazione delle carriere come farmaco in grado di curare i presunti eccessi di potere della PNAA (non si spiega quali sarebbero, però), il cui magistrato dirigente, invece, si distingue per sobrietà e rispetto delle competenze istituzionali, oltre che per la sua professionalità!
3.c – La separazione delle carriere andrebbe perseguita perché favorisce la maggiore specializzazione del Pubblico Ministero, richiesta dal Codice di Procedura Penale.
Questa tesi sembra rivestire apparentemente maggior dignità delle altre, fondata com’è su argomentazioni “tecniche” e su condivisibili esigenze di specializzazione: si sostiene, dunque, che nel contesto venutosi a formare con l’entrata in vigore nell’89 del “nuovo” codice di procedura penale, sarebbe necessaria una forte caratterizzazione professionale del pubblico ministero, più facilmente perseguibile in un regime di separazione delle carriere. In proposito, pur rammentando che la necessità del parere attitudinale favorevole al passaggio di funzioni è ancora prevista nell’ordinamento giudiziario vigente, va detto che l’esigenza di professionalità specifica può essere efficacemente assicurata anche stabilendo un congruo periodo di permanenza del magistrato in quelle funzioni senza che sia necessario vincolarlo a vita a quella esercitata, vietargli di svolgere successivamente l’altra o frapporvi sbarramenti concorsuali: infatti, appartiene ad una visione non poliziesca del ruolo la necessità di assicurare che la formazione culturale del P.M. determini la sua consapevolezza dell’esigenza di raccolta delle prove in funzione del giudizio, prove che abbiano il peso, cioè, di quelle che il giudice ritiene sufficienti per la condanna. Questa cultura accresce la specializzazione e si consegue innanzitutto attraverso l’osmosi delle esperienze professionali tra giudici e pubblici ministeri, come del resto è dimostrato da numerosi casi di eccellenti dirigenti di Procure della Repubblica che vantano pregresse esperienze nel ramo giudicante.
Sono in proposito ricche di passione ed efficaci le parole di Alessandra Galli[26], già giudice e figlia di Guido Galli, ucciso dai terroristi di Prima Linea il 19 marzo del 1980 a Milano: “Non è affatto detto che dalla separazione di giudici e pm nascano magistrati più equilibrati. La contaminazione non intacca l’autonomia. Al contrario, si impara a valutare le cose da una prospettiva diversa. Lo dico per esperienza personale e familiare. Io sono stata nella mia carriera pubblico ministero e giudice, penale e civile, un percorso che mi ha arricchito. Soprattutto, ho avuto l’esempio mio papà: era stato pm e poi giudice, e prima di essere assassinato stava rientrando in procura” (NdR: il CSM aveva già deliberato tale trasferimento).
Insomma, il percorso professionale più ricco e formativo è quello che moltiplica le esperienze, tanto più in un sistema processuale penale come il nostro che non è di tipo accusatorio puro(come il modello americano, caratterizzato anche da alcune caratteristiche essenziali ed estranee al nostro, quali il verdetto immotivato, la immediata esecutività della sentenza di primo grado ed il carattere facoltativo dell’azione penale), ma è piuttosto un modello misto ispirato ad istituti e principi mutuati dall’uno e dall’altro dei diversi modelli di sistema accusatorio o inquisitorio. E nel nostro ordinamento, come si è già rilevato, il P.M., anche dopo l’entrata in vigore del nuovo codice di rito, ha conservato un ruolo di organo di giustizia deputato all’applicazione imparziale della legge, conformemente alle previsioni della Costituzione vigente e dell’ordinamento giudiziario (l’art.73 R.D. 30.1.1941 n.12 prevede, al co. 1, che il P.M. “veglia all’osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia, alla tutela dei diritti dello Stato, delle persone giuridiche e degli incapaci, richiedendo, nei casi di urgenza, i provvedimenti cautelari che ritiene necessari”): un ruolo che ha consentito l’effettiva tutela dei diritti dei cittadini e della collettività e che non coincide, dunque, con quello di semplice parte, interessata solo alle ragioni dell’accusa. In definitiva appare evidente, e dovrebbe esserlo anche per chi teorizza una più accentuata specializzazione dei magistrati nelle funzioni rivestite e nei tanti “mestieri” che le caratterizzano, che la separazione delle carriere più o meno accentuate determinerebbe una perversione della specializzazione, frutto di una cultura postmoderna che compromette una visione olistica della giurisdizione: questa, infatti, va costantemente considerata come totalità organizzata e non come somma di parti.
Quest’argomento offre lo spunto per contestare un’obiezione che spesso si muove a chi respinge la “separazione delle carriere”: “ma Giovanni Falcone”, si dice, “era per la separazione delle carriere!”.
Anche questa affermazione priva di fondamento è entrata nell’immaginario collettivo come una verità sgradevole per i magistrati, quale conseguenza di un’informazione addomesticata o, nel migliore dei casi, di una visione storica propria di commentatori disattenti. Falcone teorizzava, in realtà, in modo assolutamente condivisibile, la necessità di una più accentuata specializzazione del P.M. nella direzione della P.G., rispetto a quanto era richiesto nel regime vigente prima del codice di rito approvato nel 1988, ed in innumerevoli occasioni, peraltro, aveva spiegato di non condividere la necessità di separare conseguentemente le carriere all’interno della magistratura.
Le affermazioni di Falcone, peraltro risalenti ad epoca anteriore alle ben note aggressioni subite in anni seguenti dalla magistratura, non possono dunque essere strumentalizzate da alcuno, specie da chi non conosce le precisazioni che più volte egli aveva diffuso per evitare equivoci sul suo pensiero.
3.d – La separazione delle carriere è ormai imposta dalla nuova formulazione dell’art.111 Costituzione che prevede la parità delle parti davanti ad un giudice terzo ed imparziale
Sotto vesti apparentemente più nobili, si ripropone, per questa via, la tesi del sospetto sulla parzialità del giudice derivante dall’unicità della carriera con il P.M. ed, a tal fine, si prende spunto dal secondo comma dell’art. 111 (Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata)[27] quasi che esso avesse, per questa parte, introdotto nell’ordinamento un principio nuovo, mai conosciuto in precedenza, anziché costituire una norma-manifesto, enunciativa di un principio già presente e praticato nel processo penale, come in quello civile.
In realtà, evocare il contenuto dell’art. 111 Cost. ed affermare che esso impone la separazione delle carriere è una delle più gravi suggestioni in circolazione.
Tralasciando ogni possibile slogan, infatti, occorre intendersi sul principio della parità tra accusa e difesa: esso è senz’altro condivisibile e persino ovvio se si riferisce al momento processuale del giudizio in genere e del dibattimento in particolare, dove accusa e difesa si devono confrontare su un piano di assoluta parità disponendo di poteri probatori perfettamente equivalenti (art.190 c.p.p.). E sul punto si dovrebbe anche ricordare che per effetto di varie riforme si è realizzato nel tempo un notevole potenziamento del ruolo della difesa nel nostro processo, persino con conseguentemente allungamento dei suoi tempi di complessivo svolgimento.
In ogni caso, appare chiaro che non ha senso scaricare sulla comunanza di carriera fra PM e giudici i “risentimenti” originati da un presunto assetto non equilibrato del processo: significa eludere i nodi reali del problema. Sono i meccanismi di concreto funzionamento del processo, dunque, che semmai incidono sulla parità tra accusa e difesa, non certo l’unicità della carriera tra giudici e P.M., i cui ruoli e figure professionali restano diversi: un controllore delle attività delle parti resta tale, e un giudice resta giudice, anche se è entrato in magistratura attraverso lo stesso concorso sostenuto dal P.M.
Ragionando diversamente – del resto - si dovrebbe imboccare, per coerenza, una strada senza uscita, nel senso di rescindere anche i rapporti fra giudici di primo grado, giudici d’appello e di cassazione, tutti diventati magistrati attraverso identico meccanismo concorsuale: non si vede, infatti, come i sospetti derivanti dalla “colleganza” fra PM e giudici non debbano estendersi anche ai giudici dei diversi gradi del processo, pur se tutti “controllori” del merito delle indagini[28].
Ed a costo di apparire provocatorio, perché non arrivare a prevedere una distinzione di carriere tra avvocati che assistono imputati e quelli che assistono parti civili, anch’essi di solito “appiattiti” sulle tesi dei p.m.? In realtà, non sembra che interessi molto la difesa della unicità della cultura giurisdizionale che pure dovrebbe coinvolgere allo stesso grado magistrati ed avvocati!
Ma sulla parità tra P.M. e difensore bisogna dire altro ed avere l’onestà di riconoscere che essa non sussiste se riferita al piano istituzionale che vede i due ruoli completamente disomogenei: il difensore è un privato professionista vincolato dal solo mandato a difendere, che lo obbliga a ricercare l’assoluzione o comunque l’esito più conveniente per il proprio assistito (che lo retribuisce per questo) a prescindere dal dato sostanziale della sua colpevolezza o innocenza; il difensore che nello svolgimento delle indagini difensive ignori volutamente l’esistenza di prove a carico e si adoperi per ottenere l’assoluzione di un assistito la cui colpevolezza gli sia nota, non viola alcuna regola deontologica ed anzi assolve il proprio mandato nella piena legalità e con eventuale e personale successo professionale: senza quel ruolo non sarebbe possibile giustizia e la bilancia che la rappresenta non potrebbe essere equilibrata. Sono affermazioni che non hanno alcuna valenza offensiva, sia pur marginale, come ha invece ritenuto l’Unione delle Camere Penali in un documento del 10 settembre 2023 ove si legge quanto segue:
“La funzione difensiva viene considerata, sempre da ANM, come “rappresentazione di interessi privati”, che in quanto tale non ha titolo a pretendere parità rispetto alla parte pubblica, cioè al pubblico ministero. Uno sproposito giuridico e culturale di dimensioni epocali. La funzione difensiva, rappresentando la indispensabile condizione senza la quale non è tecnicamente possibile che si formi la prova nel processo e che il Giudice formi il proprio convincimento ed esprima il proprio giudizio, svolge una cruciale funzione di rilievo pubblico perfettamente equiparabile a quella svolta dall’Accusa. Identificare l’interesse specifico dell’imputato con la funzione pubblica svolta dal suo difensore rappresenta uno sproposito di dimensioni epocali, che ci fornisce la esatta misura della deriva populista e demagogica di ANM”.
Niente di tutto questo ha un minimo di fondamento: il ruolo pubblico del difensore è fuori discussione, ma ciò non significa affatto che sia identico rispetto a quello del P.M. e caratterizzato dalle stesse finalità ! Il P.M., invece, condivide con il giudice l’obbligo di ricerca della verità storica dei fatti e le sue indagini devono obbedire al criterio della completezza ed oggettività, con previsione di rigorosi requisiti di forma stabiliti a pena di invalidità; il pubblico ministero che redige un atto è un pubblico ufficiale che risponde disciplinarmente e penalmente della veridicità ideologica degli atti da lui documentati; il pubblico ministero non è votato – “comunque e sempre” - alla formulazione di richieste di condanna, ma si determina a richieste assolutorie ogni qualvolta reputi che il quadro probatorio sia carente; formula le proprie requisitorie in piena libertà di scienza e coscienza, e in sede di udienza (in tutte le udienze e non solo in quella dibattimentale) riceve tutela anche rispetto a possibili interferenze da parte del capo dell’Ufficio (art.70 comma 4 ordinamento giudiziario e art. 53 c.p.p.).
Il 6 settembre 2023, in sede istituzionale e durante l’audizione del presidente dell’ANM dr. Santalucia dinanzi alla Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati, l’on.le avvocato Tommaso Calderone, firmatario di una delle cinque proposte di legge citate in premessa, ha dichiarato di non avere mai conosciuto alcun pubblico ministero che abbia svolto attività investigative in favore degli imputati: si tratta di un’affermazione che genera stupore, alla luce di ciò che spesso si verifica in ogni Tribunale, anche in processi importantissimi, sia durante la fase delle indagini che durante i dibattimenti, come riconosciuto da molti avvocati.
Tornando al senso delle descritte differenze ontologiche (che – si ripete - non intaccano in alcun modo l’etica del ruolo defensionale, di alta ed irrinunciabile valenza democratica), ciascuno può agevolmente comprendere che non scomparirebbero con un’eventuale separazione delle carriere e che la loro permanenza è anzi fatto positivo per i cittadini e per la collettività.
L’art.111 della Costituzione, dunque, nulla ha a che fare con la separazione delle carriere: la parità tra le parti, cui il secondo comma si riferisce, è quella endoprocessuale, garantita dalle regole del processo e, semmai, da una pari preparazione professionale, generale (e qui è pertinente l’ennesimo auspicio, condiviso da chi scrive, della formazione comune dell’intero ceto dei giuristi) e particolare (concernente, questa, la conoscenza del singolo processo). “Non risulta affatto che nel processo le parti abbiano poteri asimmetrici” pure se “il pubblico ministero è portatore di un interesse pubblico, che non è simmetrico a nessun interesse delle parti private”[29] . E comunque la parità processuale “…non postula affatto una impossibile omogeneità istituzionale tra pubblico ministero e difesa”[30].
Anche il membro laico del CSM Ernesto Carbone si è pronunciato in tal senso[31]: “Nessuna separazione delle carriere ma ‘commistione’ delle carriere”. E ancora: “La separazione fra pm e giudici è un finto problema. La separazione ci deve essere tra magistrati bravi e magistrati meno bravi”. Ha poi teorizzato che, piuttosto, il buon magistrato per cinque anni dovrebbe fare il giudice, e solo dopo potrebbe cambiare casacca.
E Stefano Cavanna, altro membro laico del CSM, ha aggiunto: “Penso di essere stato il primo ad affermare l’importanza che i magistrati durante il loro percorso professionale ogni tot anni passino dal ruolo giudicante a quello requirente e viceversa”[32].
3.e – La separazione delle carriere si impone anche in Italia poiché si tratta dell’assetto ordinamentale esistente o nettamente prevalente negli ordinamenti degli altri Stati a democrazia avanzata, senza che ciò comporti dipendenza del PM dal potere esecutivo[33].
È questa un’affermazione gratuita che, in modo stupefacente, viene utilizzata anche da autorevoli commentatori e da giuristi favorevoli alla separazione, i quali – tuttavia – non possono non conoscerne la natura di mero slogan, né ignorare quanto essa sia priva totalmente di fondamento.
Ma purtroppo, si tratta di una delle tante affermazioni sistematicamente utilizzate “contro” la magistratura che hanno determinato, grazie a martellanti campagne di opinione, convinzioni tanto radicate quanto errate.
È opportuno, dunque, dare uno sguardo a ciò che avviene nel resto del mondo per dimostrare la assoluta inattendibilità dell’opinione secondo cui l’Italia dovrebbe conformarsi ad un modello, ormai diffuso in Europa e negli Stati Uniti che, pur prevedendo la separazione delle carriere, non determinerebbe affatto, come conseguenza necessaria, la sottomissione del pubblico ministero all’esecutivo e il condizionamento delle indagini.
Sarebbe sufficiente un’analisi anche superficiale della situazione internazionale o degli ordinamenti degli Stati più evoluti per verificare che la realtà è abbastanza diversa da quella che spesso sentiamo raccontare in Italia. È chiaro, peraltro, che un confronto di questo tipo non è sempre utile solo che si consideri che spesso esiste una radicale differenza tra gli ordinamenti presi in considerazione, frutto di tradizioni giuridiche ed evoluzioni storiche peculiari di ciascun paese: basti pensare al fatto che in Gran Bretagna manca del tutto un pubblico ministero come noi lo intendiamo. Tra l’altro, il prof. Alessandro Pizzorusso, a proposito di indipendenza del pubblico ministero, affermava l’irrilevanza del dato numerico relativo ai paesi che seguono l’una o l’altra impostazione: “se così non fosse, quando l’Inghilterra era l’unico paese in cui esisteva la democrazia parlamentare, si sarebbe potuto invocare l’argomento comparatistico per dimostrare l’opportunità di instaurare la monarchia assoluta, che era la forma allora assolutamente prevalente”. Però possono egualmente trarsi, dalla comparazione ordinamentale, degli spunti generali per la questione che qui interessa, utili a verificare che, nel panorama internazionale, gli ordinamenti che conoscono la separazione delle carriere non costituiscono affatto la maggioranza. Inoltre – ed il dato è molto significativo ai fini che qui interessano - accade spesso che chi abbia maturato esperienze professionali di pubblico ministero acquisisce una sorta di titolo preferenziale per accedere alla carriera giudicante: dunque, quell’esperienza viene considerata molto positivamente. Ma, soprattutto, non può non considerarsi che, ove esiste la separazione delle carriere, questa porta con sè la dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo, una conseguenza assolutamente preoccupante, pur se non sgradita ad alcuni accademici[34] e persino all’avv. Gian Domenico Caiazza, già presidente della Unione Camere Penali, che nel corso di un recente confronto con lo scrivente[35] ha manifestato la propria indifferenza a tale ipotesi.
Ecco, schematicamente, con inevitabile sommarietà, la realtà di alcuni Stati europei (all’Italia geograficamente più vicini) e degli Stati Uniti, cioè di Stati i cui livelli di democrazia, pur nella diversità ordinamentale, sono sicuramente omogenei rispetto ai nostri:
Nel novembre 2013, ad esempio, è stato reso noto il rapporto della Commissione Ministeriale presieduta dal Procuratore Generale Onorario presso la Corte di Cassazione, Jean-Luis Nadal e composta anche da giudici, presidenti di Corte d’Appello e di Tribunale. Orbene, il rapporto, premessa la necessità di garantire l’indipendenza del Pubblico Ministero, ha sottolineato, innanzitutto, proprio la necessaria priorità della unificazione effettiva delle carriere dei giudici e dei P.M. (“Proposta n. 1: Iscrivere nella Costituzione il principio dell’unità della magistratura”), eliminando ogni ambiguità ed affidandone la completa gestione al Consiglio Superiore della Magistratura, senza interferenze dell’esecutivo. Ciò al fine di “garantire ai cittadini una giustizia indipendente, uguale per tutti e liberata da ogni sospetto”.
Dal luglio 2013, comunque, a seguito di una legge voluta dal Ministro della Giustizia pro tempore Christiane Taubira (poi dimessasi perché contraria alla “costituzionalizzazione dell’emergenza” antiterroristica), è vietato al Ministro della Giustizia di indirizzare ai pubblici ministeri linee guida in relazione a specifici casi concreti (ora, può solo formulare linee generali).
È stato intanto presentato un progetto di riforma che prevede di rafforzare i poteri del CSM nella nomina dei procuratori (che allo stato è totalmente nelle mani dell’esecutivo), ma esso langue nel Parlamento francese;
Dunque, una riflessione può trarsi dall’analisi, pur sommaria, del panorama internazionale: ovunque la carriera del PM sia separata da quella del giudice, non solo il PM stesso dipende dall’esecutivo (con l’unica eccezione del Portogallo, la cui realtà, come appresso si dirà, non può certo ritenersi così qualificante da ispirare le tendenze del nostro ordinamento), ma esiste, comunque, un giudice istruttore indipendente. Così, ad es., è in Francia e Spagna ove il ruolo del pubblico ministero italiano è esercitato (non senza qualche occasione di polemica con i pubblici ministeri) dal giudice istruttore, figura da tempo soppressa nel nostro sistema: evidentemente, dunque, anche in quegli ordinamenti vi è necessità di un organo investigativo che sia totalmente indipendente dall’esecutivo.
Non è il caso, pertanto, di guardare ad altri ordinamenti per trarne indicazioni incoraggianti circa la possibilità di preservare l’indipendenza del P.M. dall’esecutivo in caso di separazione delle carriere.
3.f – La particolarità del Portogallo
La schematica analisi che precede dovrebbe, da sé, convincere dell’impossibilità di importare un sistema ordinamentale di separazione delle carriere senza determinare, conseguentemente, la sottoposizione del P.M. all’esecutivo. Ma, per esorcizzare questa ipotesi, impresentabile persino per la pubblica opinione più disattenta, qualcuno si affanna a spiegare che, in realtà, nessuno pensa, in Italia, ad un pubblico ministero sottoposto all’esecutivo: non sarebbe comprensibile, dunque, la reattività della magistratura rispetto al tema della separazione delle carriere. Si vedrà appresso che, per la verità, si sta già autorevolmente “lavorando” all’ipotesi di un controllo dell’esecutivo sull’esercizio dell’azione penale. Ma qui si vuol dimostrare altro: che dalla separazione delle carriere, cioè, scaturirebbe comunque un’involuzione della cultura giurisdizionale del P.M., pericolosa – per l’effettiva attuazione dei principi di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e per la tutela delle loro garanzie – almeno quanto quella derivante dalla sottoposizione del P.M. all’esecutivo.
Importanti elementi di riflessione possono trarsi dall’esperienza ordinamentale del Portogallo ove, , sin dalla rivoluzione dei garofani (1974), vige un sistema di separazione delle carriere tra giudicanti e requirenti, senza sottoposizione di questi ultimi al potere esecutivo. Orbene, questo sistema ha determinato esattamente, nel corso della sua pluridecennale applicazione, quel progressivoaffievolimento della cultura giurisdizionale dei p.m., che è l’oggetto delle preoccupazioni della magistratura italiana. Ne ha parlato spesso, anche in Italia, un esperto magistrato portoghese[38], il quale, ricordata la molteplicità delle funzioni attribuite al P.M., anche in quel Paese, a difesa della legalità ed a tutela del principio di eguaglianza, ha spiegato che attorno alla fine degli anni ’80 – inizio anni ’90, proprio quando l’ufficio del P.M. ha iniziato a sviluppare un’attività giudiziaria indipendente e capace di mettere in crisi la tradizionale impunità del potere economico e politico, si sono levate “autorevoli” voci a mettere in dubbio la legittimità democratica dell’ufficio del fiscal (il nostro P.M.), la diversa natura di quest’organo rispetto al potere giudiziario, la possibilità dei titolari di dare direttive alla polizia criminale e la stessa possibilità di iniziativa autonoma nel promovimento dell’azione penale. Il dibattito in questione –ha dichiarato il magistrato portoghese - aveva determinato il rischio di dar vita ad un modello di privatizzazione dell’indagine, del processo penale e della giustizia penale, auspicato dalla parte più conservatrice dell’opinione pubblica e da una parte dell’avvocatura. Ma la separazione delle carriere, pur in un regime di indipendenza dall’esecutivo del P.M., ha prodotto in Portogallo una divisione nella cultura professionale dei giudici e dei magistrati del fiscal. I pubblici ministeri[39] hanno sviluppato una tendenza pratica a valorizzare eccessivamente gli obiettivi della sicurezza a detrimento dei valori della giustizia, mentre i giudici hanno sviluppato un’attitudine formalista che li conduce spesso ad assumere una posizione di semplici arbitri, anche quando i casi loro sottoposti esigerebbero un loro diretto intervento ed impegno per il raggiungimento degli obiettivi di giustizia. È stata vanificata, dunque, l’originaria intenzione del legislatore di rafforzare le garanzie dei cittadini di fronte alla legge e si è compromessa l’efficacia del processo penale. Parallelamente, infine, si è sviluppata e si è progressivamente acuita una tendenza al pregiudizio corporativo che ha innescato pericolose tensioni tra giudici, magistrati del fiscal e avvocati.
Ecco dimostrate, dunque, la perversione della specializzazione, la frammentazione dei mestieri, la perdita della visione globale e coordinata della giurisdizione.
4. Le ragioni a favore dell’unicità della carriera
Nell’esporre le ragioni “contro”, si sono già in buona parte illustrate, attraverso la loro confutazione, quelle che suggeriscono di mantenere fermo l’attuale assetto ordinamentale delle carriere dei magistrati. Ma altre ne esistono.
4.a – La prospettiva del Parlamento Europeo e del Consiglio d’Europa
Per completare la carrellata sul panorama internazionale, ad es., è molto importante ricordare come il modello ordinamentale italiano è quello verso cui tende la comunità europea. Vanno a tal fine citate almeno due importanti documenti ricchi di inequivocabili affermazioni, l’uno risalente al 2000 e l’altro più recente del dicembre 2014
Il primo è costituito dalla Raccomandazione REC (2000)19 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa sul “Ruolo del Pubblico Ministero nell’ordinamento penale”, adottata il 6 ottobre 2000, ove si prevede (al punto 18) che:
“…se l’ordinamento giuridico lo consente, gli Stati devono prendere provvedimenti concreti al fine di consentire ad una stessa persona di svolgere successivamente le funzioni di pubblico ministero e quelle di giudice, o viceversa. Tali cambiamenti di funzione possono intervenire solo su richiesta formale della persona interessata e nel rispetto delle garanzie”.
Si afferma, inoltre, sempre nella Raccomandazione (parte “esposizione dei motivi”), che:
“La possibilità di <<passerelle>> tra le funzioni di giudice e quelle di Pubblico Ministero si basa sulla constatazione della complementarità dei mandati degli uni e degli altri, ma anche sulla similitudine delle garanzie che devono essere offerte in termini di qualifica, di competenza, di statuto. Ciò costituisce una garanzia anche per i membri dell’ufficio del pubblico ministero”.
Il secondo è il nuovo parere 9 (2014) del Consiglio Consultivo dei Procuratori Europei destinato al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, approvato a Roma il 17 dicembre 2014, avente ad oggetto “Norme e principi europei concernenti il Pubblico Ministero”, contenente la cosiddetta “Carta di Roma” ed una nota esplicativa dettagliata dei principi contenuti nella Carta stessa.
Orbene, in questo importante documento, pur non essendo mai formalmente citate la necessità di unicità delle carriere di pubblici ministeri e giudici e la possibilità del conseguente interscambio di funzioni (implicitamente auspicate), sono con forza ribaditi tutti i principi che in tal senso depongono e che vengono qui illustrati.
Ma va anche ricordata, in ordine al tema di cui qui si discute, la creazione della Procura Europea (EPPO) che, con sede in Lussemburgo, è entrata in funzione dal 1°giugno 2021, almeno per il momento è competente esclusivamente ad indagare e perseguire gli autori di reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione dinanzi alle ordinarie giurisdizioni nazionali degli Stati partecipanti e secondo le regole processuali di questi ultimi.
Si tratta di un’importante istituzione sovranazionale, utile per far meglio funzionare la collaborazione internazionale tra gli stati europei, ma anche con Eurojust ed Europol.
Orbene, è significativo che, anche per rendere omogenee le legislazioni europee in tema di giustizia, la normativa che riguarda l’EPPO impegna gli Stati Europei a bandire specifici interpelli ai rispettivi magistrati per diventarne componenti, prevedendo che questi ultimi possono esercitare – negli stati di provenienza – funzioni sia giudicanti che inquirenti: nell’ultimo interpello bandito in Italia, infatti, alla luce anche della normativa interna, vi sono stati vari giudici che hanno chiesto di diventare pubblici ministeri nell’Eppo.
“Nello spazio comune europeo, la garanzia di tutela dei diritti e dello Stato di diritto comporta una riduzione degli spazi di manovra autonomi per interventi strutturali che possano compromettere la capacità dei sistemi giudiziari nazionali di operare nella loro funzione di effettiva garanzia. La prospettiva europea è dunque la cartina di tornasole per valutare l’impatto e le ricadute di tutte le modifiche che incidono sulla qualità ed efficacia della giurisdizione.
Ciò che oggi l’Europa ci chiede è valutare ogni riforma istituzionale alla luce dei principi dello Stato di diritto, come insieme dei valori non negoziabili che sono a fondamento dell’Unione: fra questi, l’indipendenza dei sistemi giudiziari e degli attori della giurisdizione, che deve garantire l’effettiva tutela dei diritti e dei singoli contro ogni arbitrio del potere”[40].
Ecco perché è possibile affermare che la comunità internazionale viaggia proprio verso quel modello ordinamentale che, invece, in Italia viene ciclicamente messo in discussione. Quasi mai per buone ragioni[41].
4.b – La cultura giurisdizionale deve appartenere anche al PM
Si è fin qui più volte parlato di cultura giurisdizionale, ma vale la pena di approfondire il tema anche perché – è inutile negarlo – a molti cittadini, e talvolta anche agli addetti ai lavori, l’espressione appare spesso incomprensibile, quasi si trattasse di innalzare ad arte una cortina fumogena per celare supposti privilegi corporativi. O quasi si trattasse di uno slogan pubblicitario.
È quasi d’obbligo, innanzitutto, ripetere alcuni rilievi nient’affatto originali: l’Associazione Nazionale Magistrati, ad esempio, “ritiene che l’osmosi tra le diverse funzioni di giudice e di Pm, con la possibilità di passaggio dei magistrati dall’una all’altra, nell’ambito di un’unica carriera, mantenendo il P.M. nella cultura della giurisdizione, assicuri la finalizzazione esclusiva dell’attività degli uffici del pubblico ministero alla ricerca della verità”[42]. In altre parole, la possibilità di interscambio di ruolo significa innanzitutto l’acquisizione di una cultura che conduce il pubblico ministero - o dovrebbe condurlo - a valutare la fondatezza, la portata ed il valore degli elementi probatori che raccoglie non in funzione dell’immediato risultato o della cd. “brillante operazione” cui tengono evidentemente molto di più le forze di polizia, ma in funzione della loro valenza rispetto alla fase del giudizio. I canoni della valutazione della prova, cioè, devono unire pubblici ministeri e giudici, dando vita ad un sistema più garantito per i cittadini.
Del resto, nell’ambito del procedimento penale, il pubblico ministero svolge un ruolo di controllo sulla legalità dell’operato della polizia giudiziaria che ne rende palese la natura di organo di giustizia vicino piuttosto alla figura del giudice che a quella di parte deputata a sostenere in sede processuale le tesi della polizia, come avviene negli ordinamenti veramente ispirati al modello accusatorio: basti pensare agli interventi del P.M. in tema di liberazione immediata della persona arrestata o fermata fuori dai casi previsti dalla legge (art.389 c.p.p.), oppure alla attività di convalida o non convalida delle perquisizioni o dei sequestri operati dalla polizia giudiziaria, alla preliminare selezione dei casi in cui è opportuno trasmettere al Gip le richieste di intercettazioni telefoniche sollecitate dalla polizia. Si tratta all’evidenza di interventi nei quali il P.M. non svolge un ruolo repressivo ma al contrario un ruolo istituzionale di garanzia e di tutela dei diritti di libertà e dei diritti patrimoniali del cittadino nei confronti di provvedimenti limitativi adottati dagli organi di polizia di cui, diversamente, verrebbero incentivate prassi criticabili, talvolta ancora oggi emergenti. Un ruolo che il PM non potrebbe esercitare efficacemente senza essere inserito, appunto, nella cultura della giurisdizione, che non coincide certo con l’ovvia “cultura della legalità”, un inserimento tanto più saldo quanto più vi sia possibilità per chi sia stato giudice di diventare PM e viceversa. Il PM, insomma, deve saper esercitare un ruolo efficace e corretto di direzione della polizia giudiziaria, senza appiattirsi, da un lato, sulle esigenze della investigazione pura e senza rinunciare, dall’altro, a quella cultura che costituisce la barriera più solida contro i ricorrenti progetti di separazione delle carriere (e persino – come qualcuno incredibilmente auspica - di separazione del ruolo del PM da quello della Polizia Giudiziaria).
Se questo legame si attenuasse o venisse reciso, si aprirebbe la strada alla deriva del PM verso culture, deontologie e prassi ben diverse da quelle del giudice: “un corpo separato di pubblici ministeri è destinato inevitabilmente a perdere la propria indipendenza dall’esecutivo. Per la decisiva ragione che non è democraticamente ammissibile l’irresponsabilità politica di un apparato di funzionari pubblici numericamente ridotto (poco più di 1900 unità[43]), altamente specializzato, con ampie garanzie di status, preposto in via esclusiva all’esercizio dell’azione penale: questo potere o è compensato dalla polverizzazione dei suoi titolari, dalla loro ampia rotazione nel tempo e dal loro ancoraggio alla giurisdizione (pur nelle peculiarità che li caratterizzano) oppure deve essere riportato alla sfera della responsabilità politica”[44]. Anni fa, lo ha affermato efficacemente e lucidamente anche Alessandro Pizzorusso: “Nel dibattito invelenito che è attualmente in corso gli argomenti sembrano avere perso ogni capacità di persuasione e la rivendicazione della separazione delle carriere viene agitata come una clava, senza tener conto nemmeno del fatto che un pubblico ministero assolutamente indipendente e rigorosamente gerarchizzato (con la polizia ai suoi ordini) costituirebbe il potere dello Stato più forte che si sia mai avuto in alcun ordinamento costituzionale dell’epoca contemporanea (e infatti non lo si è mai avuto in alcun paese)”.
L’unica alternativa possibile, per un PM divenuto altro dalla giurisdizione, sarebbe, dunque, di finire alle dipendenze (che significa agli ordini) del Governo: e ciò per ragionamento logico ed istituzionale, non certo in base ad arbitrari processi alle intenzioni di questa o quella maggioranza politica contingente (i cui eventuali diversi “colori” sono del tutto indifferenti rispetto agli argomenti qui in esame)[45].
La cd. “cultura giurisdizionale” e l’orgoglio della propria indipendenza, costituzionalmente garantita, sono dunque valori che vivono profondamente nella coscienza dei magistrati italiani e che, con l’aiuto dell’Avvocatura, andrebbero rafforzati, piuttosto che mortificati.
Efficaci, a tal proposito le parole di Marcello Maddalena[46]: “La Costituzione ha previsto che giudici e pubblici ministeri facciano parte di un unico ordine giudiziario con un unico Consiglio superiore comune ad entrambi e non ha posto alcun divieto al passaggio da una funzione all’altra… Quello che accomuna le due funzioni, di pm e giudice, e le rende, entrambe, incompatibili con quella della difesa (di qualsiasi parte, imputato, indagato, parte civile, persona offesa) è il principio di verità. Il pubblico ministero ha come scopo la scoperta della verità (che può essere anche l’innocenza dell’imputato...) ed il giudice deve accertare la verità. La difesa delle parti private non è tenuta a ricercare e sostenere la verità[47]”, aggiungendo poi di ritenere che la separazione delle carriere “...sia un portato della concezione agonistica del processo”.
4.c – I dati statistici
È opportuno ragionare anche attorno ad aggiornati dati statistici: si parla molto spesso, infatti, del rischio di inquinamento della funzione giudicante che sarebbe determinato dal continuo passaggio dei magistrati da una carriera all’altra; in realtà, anche a prescindere dalla superficiale prospettazione di questo timore (si rimanda a quanto sin qui specificato), quasi mai si considerano i dati statistici di cui pure si dispone e che il CSM – nel 2000 - inviò anche al Comitato promotore del citato referendum abrogativo. Tra il ’93 ed il ’99, infatti, la percentuale di giudici trasferitisi a domanda agli uffici del P.M. risultava sostanzialmente costante, oscillando tra un minimo del 6% ed un massimo dell’8,50%; anche nel caso di trasferimenti in direzione opposta, le percentuali nello stesso periodo erano costanti, oscillando tra il 10% e il 17%. Tali dati sono vistosamente “crollati” a seguito delle limitazioni introdotte d.lgs n. 160/2006, successivamente modificate dalla legge n. 111/2007 (provvedimenti citati nel par 2).
Infatti, esaminando numeri e tipologia dei trasferimenti con contestuale cambio di funzioni (da requirenti a giudicanti e viceversa), forniti dal Consiglio Superiore della Magistratura, relativi a due periodi in sequenza (1° gennaio 2011–30 giugno 2016 e 30 giugno 2016-30 giugno 2019), dunque recentissimi e successivi al D. Lgs. 111/2007, nonché relativi agli anni 2019, 2020 e 2021, si ricavano i seguenti dati:
Periodo 1 gennaio 2011–30 giugno 2016
· trasferimenti da funzioni requirenti a funzioni giudicanti: 101 (con media annua di 18,36 unità);
· trasferimenti da funzioni giudicanti a funzioni requirenti: 78 (con media annua di 14,18 unità).
Pertanto, le percentuali annue dei magistrati trasferiti da una delle due funzioni all’altra, considerando il numero dei magistrati effettivamente in servizio al 30 giugno 2016 (requirenti: 2192; giudicanti : 6453), risultano le seguenti:
- REQUIRENTI: 0,83
- GIUDICANTI: 0,21.
Periodo 30 giugno 2016–30 giugno 2019
· trasferimenti da funzioni requirenti a funzioni giudicanti: 80 (con media annua di 26,66 unità);
· trasferimenti da funzioni giudicanti a funzioni requirenti: 41 (con media annua di 13,66 unità).
Pertanto, le percentuali annue dei magistrati trasferiti da una delle due funzioni all’altra, considerando il numero dei magistrati effettivamente in servizio al 30 giugno 2019 (requirenti: 2270; giudicanti: 6754), risultano le seguenti:
- REQUIRENTI: 1,17
- GIUDICANTI: 0,20
E tali percentuali, in relazione ad entrambi i due periodi considerati (per un totale di otto anni e mezzo), sarebbero ancora più irrilevanti se le si rapportassero al numero più alto dei magistrati previsti in organico, anziché a quello dei magistrati effettivamente in servizio.
Questi, infine, sono i dati più recenti:
· 2019 (anno intero): sono stati 5 i magistrati giudicanti trasferitisi al ruolo di inquirenti, mentre 19 pubblici ministeri sono diventati giudici.
· 2020: sono stati 10 i magistrati giudicanti trasferitisi al ruolo di inquirenti, mentre 15 pubblici ministeri sono diventati giudici.
· 2021: sono stati 15 i magistrati giudicanti trasferitisi al ruolo di inquirenti, mentre 16 pubblici ministeri sono diventati giudici.
Quali riflessioni trarre da questi dati? Da un lato, evidentemente, che quella “trasmigrazione”, secondo alcuni “inquinante” culturalmente e professionalmente, non è poi così massiccia come si crede, anzi è quantitativamente marginalissima; dall’altro, che la ragione di questa contenuta tendenza alla preservazione della funzione esercitata sta forse nel fatto che si va affermando quell’esigenza di specializzazione che molti indicano tra i possibili e più efficaci strumenti di risoluzione di conflitti e tensioni.
I dati in questione sono stati spesso utilizzati per criticare i magistrati che si oppongono alla separazione delle carriere. Si dice, cioè, che se la separazione già esiste di fatto, non si comprende perché la magistratura si opponga alla sua previsione normativa.
Una polemica volutamente suggestiva che ignora tutte le riflessioni possibili oggetto di questo documento, tra cui quelle sulla difesa della comune cultura giurisdizionale tra giudici e pm a garanzia dei cittadini, sulla necessità di difendere anche la piena indipendenza dei magistrati - e dei pm in particolare - rispetto ad ogni possibile controllo politico, sul rispetto dei principi costituzionali in tema di giustizia e altro ancora.
4.d - Unica formazione e unico CSM
La magistratura, anche grazie ai principi contenuti nelle circolari del CSM, è in grado – da sé – di amministrare con razionale equilibrio i frutti derivanti, da un lato, dalla pluralità delle esperienze professionali e, dall’altro, dalla specializzazione nell’esercizio di determinate funzioni. Ma, come s’è detto in precedenza, la specializzazione ha senso all’interno di una visione globale della giurisdizione: l’appartenenza ad un’unica carriera, dunque, pur nella diversità delle funzioni esercitate, giustifica un percorso professionale unico di formazione e di aggiornamento professionale e giustifica l’esistenza di un unico Consiglio Superiore della Magistratura, di un’unica Scuola per l’aggiornamento da aprire il più possibile all’Avvocatura per favorire l’intensificarsi di una formazione comune, pur nella diversità delle professioni: verrebbe da chiedersi, anzi, perché non è stata mai formulata o seriamente presa in considerazione l’ipotesi di un’unica Scuola di formazione per magistrati ed avvocati.
Ma è comunque evidente che formazione comune ed un unico CSM rischierebbero di costituire, nel tempo, una contraddizione, in presenza di carriere dei magistrati definitivamente separate e non avrebbero – cioè - ragione di essere.
4.e - Condizionamento del giudice: conseguenza certa della separazione delle carriere
Va da sé che la dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e/o l’involuzione culturale che lo colpirebbe in caso di separazione delle carriere finirebbero con il condizionare il giudice, in quanto al suo esame sarebbero sottoposti unicamente gli affari trattati da un pubblico ministero che, inevitabilmente e come avviene in altri ordinamenti, dovrebbe attenersi alle direttive ministeriali (o parlamentari) o che potrebbe essere condizionato, a secondo dei momenti storici, da orientamenti culturali e giuridici di natura prevalentemente securitaria (si pensi al settore del contrasto dell’immigrazione irregolare) o, come qualcuno vorrebbe nel presente contesto storico, ispirati alla necessità di privilegiare le esigenze dell’economia e del mondo imprenditoriale etc. Si comprende, dunque, come anche la funzione giurisdizionale in senso stretto ne risulterebbe gravemente vulnerata.
4.f – La tendenza internazionale alla creazione di organismi inquirenti e giudicanti sovranazionali richiede la forte difesa degli assetti ordinamentali oggi esistenti in Italia
È noto che negli ultimi anni sono stati compiuti in Europa passi concreti verso la realizzazione di un’effettiva rete di cooperazione giudiziaria nel campo criminale. Come già si è ricordato nel par. 4.a, sono stati costituiti organismi di polizia, amministrativi e giudiziari di indubbia importanza (Europol, Rete giudiziaria europea e relativi “punti di contatto” tra le autorità giudiziarie degli Stati membri dell’Unione, magistrati di collegamento, Olaf nel settore antifrode, Eurojust, Corte Penale internazionale permanente, Procura Europea – EPPO, sia pur competente solo per alcuni tipi di reati) ed è noto che si discute della creazione di un vero e proprio Corpus Juris che dovrebbe dar vita ad un diritto penale sostanziale minimo, comune a tutti gli Stati membri.
In questa prospettiva, e mentre i lavori sono ancora in corso, si pone in tutta la sua evidenza, non solo per l’Italia, il problema della garanzia di indipendenza che dovrà essere riconosciuta ai magistrati che, a vario livello, esercitano ed eserciteranno la funzione di P.M. in tutti gli organismi giudiziari sovranazionali ed internazionali che sono stati rapidamente (ed un po’ tumultuosamente) creati nel corso del decennio scorso[48] o di cui – in altri casi – ancora si discute.
Orbene, valutando il “senso di marcia” della evoluzione in atto, i poteri di ingerenza nelle funzioni giudiziarie di indagine che inevitabilmente saranno attribuiti agli organismi internazionali, i loro compiti di coordinamento, di impulso ed iniziativa rispetto agli organi inquirenti nazionali ed in settori criminali di indubbio ed oggettivo rilievo, appare evidente che la preservazione dell’attuale assetto ordinamentale potrà garantire la presenza in quegli organismi di magistrati italiani indipendenti dall’esecutivo ed animati da quella cultura giurisdizionale di cui si è fin qui più volte parlato.
Una cultura che l’Italia dovrebbe preoccuparsi di diffondere nel resto di Europa, invece di disperdere.
5. – Tensioni tra potere politico e magistratura: il PM non è l’ “avvocato della polizia”, né “dell’accusa”.
In ogni parte del mondo, come si sa, si registrano tensioni tra giustizia e politica, anche se in Italia esse spesso raggiungono livelli elevati e determinano rischio di violazione del principio della separazione dei poteri che è alla base di ogni ordinamento democratico. E ciò - è bene chiarirlo - indipendentemente dal colore dei governi che si sono succeduti e si succedono nella guida politica del Paese.
In questa sede ci si vuol limitare a ricordare una riforma che si voleva attuare rapidamente in nome dell’efficienza e delle garanzie per i cittadini, pur non avendo a che fare né con l’una, né con le altre. Si trattava di un pacchetto di riforme che, duramente criticate dall’allora Vicepresidente del CSM, il compianto on.le prof. Virginio Rognoni, sembravano caratterizzate da un solo fine: il depotenziamento del ruolo del P.M. e la sua sottoposizione al potere esecutivo.
L’1.2.03, l’on.le G. Pecorella, Presidente della Commissione Giustizia della Camera, lanciava la proposta di far eleggere i dirigenti delle Procure da organismi politici (Parlamento e Consigli Regionali) ed il Ministro della Giustizia rilanciava, due giorni dopo, ipotizzando concorsi separati per l’accesso alle due carriere e concorsi ulteriori per il passaggio dall’una all’altra. E già da tempo, inoltre, si discuteva dell’attribuzione al Parlamento, su proposta del Ministro della Giustizia, delle scelte delle priorità investigative (il che sarebbe stato sufficiente di per sé a vanificare il principio di obbligatorietà dell’azione penale ed a depotenziare il ruolo del P.M., senza neppure necessità di sottoporlo al controllo dell’esecutivo), nonché dello sganciamento dell'attività della P.G. dalla direzione e dal controllo del P.M., oggetto, più avanti, di un ulteriore progetto di riforma del procedimento penale, contenuto nel DDL n. 1440, approvato dal Consiglio dei Ministri il 6 febbraio 2009 e sostenuto dal Ministro Alfano, il cui cuore era costituito proprio dal ridimensionamento del ruolo del PM, che – secondo note enunciazioni – avrebbe dovuto assumere la veste di “avvocato dell’accusa” o “avvocato della polizia”, in un contesto che ne avrebbe determinato burocratizzazione e -va detto ancora una volta- sottoposizione di fatto all’esecutivo. Nella relazione di accompagnamento allo schema di tale disegno di legge di riforma del processo penale era scritto, addirittura, che sarebbero stati «distinti più nettamente i compiti della polizia giudiziaria e del pubblico ministero per creare i presupposti di una maggiore concorrenza e controllo reciproco»: la logica del libero mercato rischiava di entrare nella giustizia attraverso lo slogan della “concorrenza” tra pubblici investigatori, ipotesi peggiore anche dell’auspicato controllo della p.g. sull’attività dei p.m. !
Questa prospettiva non è certo menzionata nei disegni di legge in discussione, ma non la si può ignorare perché si tratta di un altro rischio connesso all’allontanamento ordinamentale e culturale del P.M. dal giudice: esso finirebbe anche con il sottrarre ai Pubblici Ministeri la direzione ed il coordinamento della Polizia Giudiziaria, non solo facendo rivivere il regime antecedente a quello introdotto dal Codice di rito dell’88, ma depotenziando l’organo dell’accusa ridotto al rango di funzionario amministrativo, compromettendo inevitabilmente il livello delle garanzie riconosciute ai cittadini[49].
Il timore di questa prospettiva trae origine anche dalle parole del Ministro della Giustizia il quale, in un intervento pronunciato in una sede non ufficiale[50], ha affermato di voler realizzare una radicale metamorfosi del magistrato del pubblico ministero, trasformandolo in avvocato dell’accusa, privo di poteri di coordinamento dell’attività degli investigatori nella fase delle indagini preliminari e chiamato a sostenere in giudizio le tesi accusatorie delle forze polizia sulla base delle risultanze delle loro autonome indagini. Al di là del citato e discutibile precedente del DDL Alfano, non si comprende come il Ministro della giustizia possa oggi affermare che sarà “indipendente” un pubblico ministero trasformato in avvocato della polizia, il cui ruolo sarà ridotto a sostenere in giudizio tesi accusatorie maturate negli uffici delle polizie, nei cui confronti assumerebbe inevitabilmente una posizione sussidiaria, servente e subalterna[51].
6. La proposta di legge costituzionale elaborata dall'Unione delle Camere Penali, (con cenni all’obbligatorietà dell’azione penale ed al tema delle priorità) e le altre cinque proposte di legge pendenti in Parlamento.
Nell’ovvio rispetto per le elaborazioni e le proposte formulate dall’Avvocatura, in particolare per quella del 2017 di modifica costituzionale elaborata dall’Unione delle Camere Penali, e dai Parlamentari, appaiono chiare – alla luce di quanto sin qui precisato - le ragioni della diffusa contrarietà al contenuto delle proposte di modifica dei seguenti articoli della Costituzione e dei principi in essi affermati:
- Art. 104, con suddivisione formale della magistratura in giudicante e requirente, nonché istituzione del Consiglio Superiore della Magistratura giudicante.
In ordine all’art. 104, tra l’altro, la proposte dell’U.C.P., nonché la prima, la seconda e la quinta tra quelle Parlamentari appresso elencate, contengono una identica nuova formulazione del primo comma (“L’ordine giudiziario è costituito dalla magistratura giudicante e dalla magistratura requirente ed è autonomo da ogni potere”), la cui particolarità – al di là dello sdoppiamento della magistratura – consiste nell’abolizione dell’aggettivo “altro” rispetto all’attuale testo della norma (“La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”). Si rischia allora di ritornare a quanto nel 2011 sostenuto da due ministri della Giustizia (uno non più in carica)[52]: la magistratura non può essere considerata uno dei tre poteri distinti su cui si fonda ogni democrazia poiché “è la Costituzione che la definisce un ordine!”. Meglio però, far sparire l’aggettivo “altro” dal co. 1 dell’art. 104 Cost. poiché, usando l’argomento puramente testuale e lo stesso metodo interpretativo, non si potrebbe non considerare che se la magistratura è definita “indipendente da ogni altro potere”, non può che costituire anch’essa un potere;[53]
- Art. 105, con precisazioni delle competenze, anche disciplinari, del Consiglio Superiore della Magistratura giudicante;
- Art. 105 bis e 105 ter (da inserire nella Carta), con istituzione del Consiglio Superiore della Magistratura requirente e precisazioni delle sue competenze, anche disciplinari;
- Art. 105 quater (da inserire nella Carta), con istituzione di una Corte di giustizia disciplinare, separata dal CSM e con competenze nei confronti sia dei giudici che dei pubblici ministeri ordinari;
- Art. 106, con previsione di distinti concorsi per magistrati giudicanti e requirenti, nonché di possibilità di nomina (da disciplinarsi per legge) di avvocati e professori ordinari di materie giuridiche a tutti i livelli della giurisdizione;
- Art. 107, con previsione di distinte competenze dei due istituendi Consigli Superiori rispetto a trasferimenti ed altro di magistrati giudicanti e requirenti; e con soppressione del co. 3 (“I magistrati si distinguono tra loro soltanto per diversità di funzioni”);
- Art. 110, con inserimento della citazione dei due istituendi distinti Consigli Superiori della Magistratura nella norma che prevede la competenza del Ministro della Giustizia in ordine a “organizzazione e funzionamento dei servizi relativi alla giustizia”.
Un sistema così articolato, però, finirebbe con il favorire “...l’autoreferenzialità delle due categorie di magistrati, avviando una scissione …tra l’attitudine prevalente a giudicare in posizione di terzietà e l’attitudine prevalente a formulare accuse da una posizione di parte”[54].
Nell’incipit di questo documento sono state già elencate le altre 5 proposte di legge costituzionale pendenti in Parlamento, le prime 4 presso la Camera dei Deputati e la quinta presso il Senato, tutte con la medesima intitolazione («Modifiche all’art. 87 e al titolo IV della parte II della Costituzione in materia di separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura»), cioè:
· Proposta A.C. n. 23, d’iniziativa del deputato Enrico Costa (Azione), presentata in data 13 ottobre 2022;
· Proposta A.C. n. 432, d’iniziativa del deputato Roberto Giachetti (Italia Viva), presentata in data 24 ottobre 2022;
· Proposta A.C. n. 806, d’iniziativa dei deputati Calderone, Cattaneo, Pittalis e Patriarca (Forza Italia), presentata in data 24 gennaio 2023;
· Proposta A.C. n. 824, d’iniziativa dei deputati Morrone, Bellomo, Bisa, Matone e Sudano (Lega), presentata in data 26 gennaio 2023;
· DDL S. n. 504, d’iniziativa della senatrice Erika Stefani e di altri 21 senatori cofirmatari (Lega), presentato in data 26 gennaio 2023.
I rilievi che seguono saranno pertanto relativi sia alla proposta della Unione delle Camere Penali, sia a quelle presentate dai predetti Parlamentari : esiste infatti un file rouge che le lega, ed è quello - ben più ampio della mera separazione delle carriere - di un “vasto disegno di riorganizzazione del potere giudiziario e dell’intera giurisdizione”[55], che impone riflessioni anche sui “profili che riguardano il nuovo statuto del giudiziario e le relazioni con gli altri poteri dello Stato”[56].
A sostegno di quest’affermazione si potrebbe citare la quasi identità dei testi delle proposte di legge Parlamentari, sia quanto alla formulazione delle norme che si intendono far approvare che delle relazioni di accompagnamento.
Si intendano introdurre le seguenti modifiche a norme costituzionali, in relazione a buona parte delle quali si ribadisce comunque, al di là di quanto appresso sarà detto, il rinvio agli argomenti contrari sin qui già esposti:
· separati concorsi di accesso alla magistratura per funzioni requirenti e giudicanti, previa modifica dell’art. 106 Cost., che inevitabilmente determinerebbe diversità di preparazione e scuole di formazione, di eventuale praticantato in vista del concorso e di approccio culturale.
Si tratta di una proposta che, come ha rilevato il prof. Gaetano Azzariti[57], non è affatto una conseguenza logica della separazione delle carriere, che “dovrebbe invece consigliare di preservare e garantire almeno l’unicità del concorso al fine di assicurare una comune cultura della giurisdizione per entrambe le figure", mentre invece sembra aspirare anche a «dividere la conoscenza del diritto, la comprensione delle regole processuali, la comune idea di giustizia che deve essere fatta propria da tutti gli attori del processo, avvocati compresi». Lo stesso autore ha ricordato l’esperienza della Germania «ove è netta la separazione fra giudici e pubblici ministeri, ma è unico il percorso formativo per tutte le professioni legali»;
· possibilità di nomina (da disciplinarsi per legge) di avvocati e professori ordinari di materie giuridiche a tutti i livelli della giurisdizione, (previa modifica del terzo comma dell’art. 106 Cost.): è una sorprendente previsione, peraltro contrastante con il I^ co. dello stesso art. 106 (“Le nomine dei magistrati giudicanti e requirenti hanno luogo per concorsi separati”), che darebbe luogo a “una modalità alternativa di reclutamento non sorretta, com’è ora, dai requisiti di straordinarietà ed autorevolezza (l’art. 106 prevede, infatti che possano essere chiamati all’ufficio di consiglieri di Cassazione professori universitari ed avvocati con almeno quindici anni di servizio, per meriti insigni). Basterebbe ora, invece, superare l’esame di avvocato o qualunque concorso a cattedra per poter accedere a tutti i livelli della magistratura giudicante. Con quali garanzie di eccellenza?[58]”
· distinti Consigli superiori per la magistratura, l’uno per la funzione giudicante e l’altro per quella requirente (modifica dell’art. 87 Cost.), il che tra l’altro determinerebbe ricadute nelle 26 Corti d’Appello italiane in ragione della conseguente necessità di duplicare anche i Consigli Giudiziari esistenti presso ciascuna di esse;
· un nuovo rapporto tra il potere politico e il potere giudiziario, in particolare nella riscrittura degli equilibri interni al governo autonomo della magistratura: i membri laici dovrebbero aumentare fino al 50% del numero totale dei membri dei due CSM (modifica dell’art. 104 Cost. ed introduzione dell’art. 105 bis Cost.), depotenziando per entrambi la funzione di indirizzo collegata al complesso delle loro attività di alta amministrazione[59](rivelatesi spesso molto utili per colmare lacune legislative ed orientare l’attività consiliare verso obiettivi di efficienza e trasparenza), limitandone le competenze a assunzioni, assegnazioni, trasferimenti, promozioni e provvedimenti disciplinari, salvo attribuzione di altre competenze con legge costituzionale (sostituzione dell’attuale art. 105 Cost. ed introduzione dell’art. 105 ter Cost.).
“Secondo le proposte Costa, Giachetti e Morrone ed altri – che sul punto ricalcano più da vicino l’attuale assetto costituzionale – dovrebbe spettare al Parlamento in seduta comune la nomina dell’intera componente laica mentre dovrebbe essere ancora il Presidente della Repubblica a presiedere i due Consigli.
Diversa su questi aspetti la proposta Calderone ed altri, che attribuisce la presidenza dei due Consigli rispettivamente al primo presidente della Corte di cassazione ed al procuratore generale presso la Corte, mentre riserva la nomina della metà dei membri “laici” dei Consigli per un quarto al presidente della Repubblica e per un quarto al Parlamento in seduta comune.
Al di là delle loro non irrilevanti diversità il tratto comune delle diverse iniziative legislative è però la volontà di coniugare la separazione delle carriere con l’accresciuta influenza della politica nel governo della magistratura”[60] .
È proprio questa la ragione per cui i due CSM verrebbero ridotti ad organi burocratici, cancellando la loro importante funzione di esprimere pareri su leggi riguardanti l’ordinamento giudiziario e l’amministrazione della giustizia, previsti per legge. È doveroso ricordare che fu Carlo Azeglio Ciampi, da poco eletto presidente della Repubblica, ad incoraggiare il CSM a proseguire su quella strada, ribadendo in uno storico plenum, il 26 maggio del 1999, su esplicita richiesta del vicepresidente Verde, che il Csm aveva non solo il diritto, ma anche il dovere, di esprimersi d’ufficio su disegni e progetti di legge riguardanti la giustizia. Anche il Presidente Napolitano lo confermò nell’agosto del 2009. Il Csm, fortunatamente, lo fa ancora oggi, nonostante i governi succedutisi negli ultimi anni continuino spesso a non interpellarlo sulle materie di sua competenza;
· cancellazione di un’altra norma chiave dell’assetto costituzionale della magistratura: l’art. 107, terzo comma, della Costituzione secondo cui “I magistrati si distinguono tra di loro soltanto per diversità di funzione”.
L’abrogazione proposta sembra destinata ad incidere all’interno delle carriere separate, sancendo la fine del principio di eguaglianza degli appartenenti alle carriere giudicante e requirente, aprendo la via a “distinzioni” diverse da quelle relative alle funzioni e ponendosi come potenziale preludio della rinascita di gerarchie e di trattamenti economici differenziati all’interno del corpo delle due magistrature giudicanti e requirenti;
· un nuovo regime dell’azione penale, proponendosi la modifica dell’art. 112 Cost. aggiungendo alla frase “Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale”, le parole “nei casi e nei modi previsti dalla legge ordinaria”, cioè della maggioranza di turno che con legge ordinaria deciderebbe l’an, il quando ed il quomodo delle iniziative giudiziarie del P.M., con buona pace dell’obbligatorietà dell’azione penale a favore della piena discrezionalità del legislatore.
Quest’ultima proposta di modifica costituzionale dell’art. 112 (presente nelle proposte Costa, Giachetti e Morrone), che priverebbe il principio della obbligatorietà dell’azione penale della sua valenza costituzionale, si allinea dunque a quella dell’U.C.P.I., secondo cui, dopo le parole “Il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale” dovrebbero essere aggiunte le seguenti: “secondo le forme previste dalla legge”.
A proposito dell’obbligatorietà dell’azione penale e della selezione delle priorità, però, occorre qualche specifica ulteriore riflessione, trattandosi di un tema di assoluto rilievo, sin qui non approfondito.
È giusto ricordare, innanzitutto, che la riforma Cartabia, con la legge delega 27 settembre 2021 n. 134, aveva assegnato al legislatore delegato il compito di «prevedere che gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili; allineare la procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle procure della Repubblica a quella delle tabelle degli uffici giudicanti».
Si tratta, a parere di chi scrive, di una scelta criticabile, la cui efficacia dipenderà dalla capacità del Governo di predisporre il testo delegatogli che – si augura chi scrive - potrebbe limitarsi a trasferire sul piano legislativo, se non le si ritenesse già vincolanti, alcune delle previsioni già contenute nelle delibere del CSM in tema di priorità, approvate nel 2008, 2009, 2014, 2016, 2017, 2018, 2020 e 2021, comprendenti in ogni caso:
· il dovere di interlocuzione interna con i magistrati dell’Ufficio;
· quello di interlocuzione con i Presidenti di Tribunale, onde inserirle in omogenei assetti organizzativi;
· il coordinamento possibile in sede distrettuale, a fini di omogeneità dei progetti organizzativi da adottare nei Circondari, da affidare ai procuratori generali presso le Corti d’Appello.
Molto importante sarebbe anche la previsione di doverose interlocuzioni dei Procuratori con i rappresentanti dei rispettivi organismi forensi e con i responsabili dei presidi di polizia giudiziaria operanti nel Circondario, già di fatto attuate in molte Procure.
Tutto ciò senza alcuno sconfinamento da parte del Parlamento nelle competenze proprie degli Uffici Giudiziari e dei Procuratori della Repubblica (dunque evitando la strada alla sottoposizione del pm all’Esecutivo) e senza cedimento alcuno rispetto alla doverosa difesa e “cura” dell’obbligatorietà dell’azione penale, che non può esistere in forma politicamente orientata: per questo la selezione delle priorità di intervento dei p.m., anche solo nell’ambito di linee guida generali e non di un cogente catalogo di reati, non può essere materia sottratta alla competenza dell’Autorità Giudiziaria. Ed è questo che costituisce la linea di confine tra il sistema ordinamentale-giudiziario italiano e quello di altri Paesi europei per i quali – come già detto - costituisce un modello.
Fino a questo momento, comunque, “questa complessa procedura è rimasta lettera morta perché il Ministro della Giustizia non si è dato carico di presentare la legge sui “criteri generali” voluta dalla riforma Cartabia che, assegnando al Parlamento una mera funzione di orientamento e di inquadramento (i “criteri generali”) dell’esercizio dell’azione penale, rimesso alle successive scelte di priorità di quanti operano sul campo, resta preferibile e costituisce una valida alternativa rispetto alla revisione costituzionale che oggi si propone con la proposta dell’on.le Costa e di altri Parlamentari. La riforma Cartabia, dunque, potrà garantire una interpretazione ed una attuazione dell’obbligatorietà dell’azione penale che grazie alla pluralità dei soggetti che concorrono alla identificazione delle priorità – il Parlamento, gli uffici di Procura, il CSM – esclude il monopolio ed il controllo dell’azione da parte di un solo attore”[61], in particolare del ceto politico.
Sono comunque noti a tutti problemi e difficoltà che si frappongono all’effettiva applicazione dell’obbligatorietà dell’azione penale, ma si tratta di un principio da difendere con convinzioneperché garantisce l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge: per questo è semmai il malato da aiutare a guarire, non la malattia da cancellare, come in molti vorrebbero!
È chiara anche la ragione per cui quel principio garantisce l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge: essi sanno che, essendo il PM obbligato a perseguirli, tutti gli accertati responsabili di qualsiasi reato saranno condotti dinanzi ad un Tribunale (monocratico o collegiale) o ad una Corte d’Assise per essere giudicati, senza distinzione di razza, religione, censo e senza possibilità di influenza sull’esito delle indagini del loro potere politico, economico o sociale.
Ci si deve domandare, allora, come mai esistano accaniti “detrattori” del principio affermato nell'art. 112 Cost., pronti a sostenere che si potrebbe rendere discrezionale l'azione penale senza necessità di trasformare il PM in un organo dipendente dall’esecutivo e senza compromettere il principio inviolabile dell'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
Le ragioni addotte a sostegno di questa posizione sono di duplice natura: tecniche, quelle di alcuni osservatori e giuristi che possono essere definiti “pragmatici”; politiche, quelle di chi – magari obliquamente – intende condizionare il ruolo del pubblico ministero, apparentemente preservandone l’indipendenza dall’esecutivo, in realtà mirando ad impedirgli di avviare indagini ed esercitare l’azione penale per certi reati e nei confronti di certi imputati.
Entrambe le posizioni si fondano su un identico rilievo di partenza, quello concernente le note difficoltà che si oppongono all’effettiva realizzazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale previsto dall’art. 112 Cost., sicchè soltanto una parte dei reati commessi viene effettivamente perseguita: le notizie di reato pervenute al PM e le procedure d’indagine che si avviano, infatti, sarebbero troppo numerose ed ingestibili, costringendo il PM stesso ad operare una selezione. L’obbligatorietà dell’azione penale, dunque, non troverebbe effettiva applicazione nella realtà ed il PM, pur obbligato per legge a non scegliere, finirebbe per agire discrezionalmente selezionando gli affari da trattare e quelli da trascurare. Tale discrezionalità, peraltro, sarebbe esercitata senza criteri predeterminati o secondo criteri diversi tra Procura e Procura e, all’interno del singolo ufficio, tra i magistrati che lo compongono. In certi casi, poi, il PM sarebbe indifferente all’esito dei procedimenti di cui è oberato, mentre in altri la scelta di procedere o meno per un reato finirebbe con l’essere politicamente orientata, al punto da indurre il PM a perseguire i reati in cui sono coinvolti personaggi di orientamento politico a lui non gradito e contemporaneamente a tralasciarne altri che pure destano grave allarme sociale e pericolo per la sicurezza dei cittadini. In ogni caso, il destino finale per molti reati sarebbe costituito dalla prescrizione o dall’archiviazione per la mancata acquisizione degli elementi utili ad esercitare l’azione penale.
A questo punto, le proposte “costruttive” per la modifica del sistema esistente si differenziano in ordine all’individuazione dell’istituzione o autorità cui attribuire competenza e responsabilità di dettare periodicamente i criteri-guida uniformi per l’esercizio discrezionale dell’azione penale da parte dei pubblici ministeri.
Quale potrebbe essere tale istituzione o autorità? Il Governo, tramite indicazioni del Ministro della Giustizia o il Ministro stesso, afferma taluno, con ciò aprendo la strada alla sottoposizione del PM all’esecutivo. Il Parlamento, previa discussione generale e trasparente, rispondono altri, così accettando la possibilità che l’azione penale sia condizionata dalle scelte della maggioranza politica di turno e che il dibattito parlamentare finisca inevitabilmente con l’investire il modo di operare di questo o quell’ufficio giudiziario. Ma c’è pure chi individua l’istituzione competente a regolare la presunta discrezionalità dei PM nel Consiglio Superiore della Magistratura (che mai, invece, si è ritenuto competente ad orientare il merito delle scelte giurisdizionali), chi pensa al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione o a quello presso le Corti d’Appello, chi ai Consigli Giudiziari operanti su base distrettuale e così in grado di valorizzare esigenze territoriali, chi ai singoli Procuratori della Repubblica (cui, anche per questo, dovrebbero essere riconosciuti poteri di tipo gerarchico). E c’è pure chi pensa ad una interlocuzione complessa tra tutte – o quasi tutte - queste Istituzioni, ritenendole a vario titolo competenti.
Vi è poi un altro argomento spesso utilizzato a sostegno delle ragioni sia dei giuristi “tecnici” che di quelli “politici”. Nasce da uno sforzo di usare il diritto comparato a proprio uso e consumo e consiste nell’affermare che il sistema italiano costituirebbe l’eccezione in un panorama internazionale asseritamente caratterizzato dal principio di discrezionalità dell’azione penale e da quello inevitabilmente connesso della dipendenza del PM dal potere esecutivo, che ne detta le linee d’azione. L’affermazione è sicuramente errata (come può dedursi anche da quanto specificato nel par. 3.e) : esistono in Europa, infatti, sistemi in cui l’azione penale è obbligatoria, altri in cui è discrezionale, altri ancora in cui esistono temperamenti all’uno o all’altro principio (per cui l’obbligatorietà è talvolta condizionata all’effettiva gravità del reato e, dunque, all’ “economicità” in senso lato del processo, mentre la discrezionalità è orientata dal prevalere dell’interesse delle vittime dei reati). Negli Stati Uniti, poi, le direttive per l’esercizio dell’azione penale sono periodicamente dettate dall’Attorney General (figura che racchiude in sé le funzioni tanto del nostro Ministro della Giustizia che del Procuratore Generale presso la Cassazione), ma lì – e questa è la principale differenza con l’Italia - nemmeno il Presidente protesta se il Prosecutor lo incrimina. Nei sistemi europei in cui le direttive dell’esecutivo regolano il principio della discrezionalità dell’azione penale, esiste comunque la figura del Giudice Istruttore indipendente (da noi abolita ormai più di trent’anni fa), che può rimediare alle inerzie del PM.
Insomma, il significato del dato comparatistico non può essere enfatizzato, né assunto come parametro di valutazione del nostro sistema. E le differenze ordinamentali esistenti tra uno Stato e l’altro spesso derivano da secolari ulteriori differenze: quelle di cultura giuridica e politica.
L’elencazione delle ragioni della crisi del principio di obbligatorietà dell’azione penale e dei possibili rimedi (inclusi riferimenti al controverso tema delle priorità) richiederebbe comunque almeno il doppio dello spazio, già troppo ampio, che ha occupato nella presente relazione con la quale si spera di avere sufficientemente motivato la contrarietà dello scrivente alla modifica dell’art. 112 Costituzione[62].
È realistico, in ogni caso, prevedere che alle prime difficoltà, ai primi attriti, al primo casus belli (ed il sistema giudiziario conosce inevitabilmente tali momenti) i magistrati che comporrebbero il corpo separato dei pubblici ministeri potrebbero essere presentati come un’entità da ricondurre sotto la responsabilità del potere politico al pari di quanto avviene negli Stati nei quali le carriere sono distinte[63].
7. Per concludere: l’iniziativa di oltre 600 magistrati “a riposo” e il documento dell’ANM
Nello Rossi ha efficacemente scritto[64] che “In ogni caso, nel dibattito pubblico che accompagnerà l’iter della progettata revisione costituzionale, occorrerà chiarire all’opinione pubblica quali sono le implicazioni di modifiche costituzionali che vanno ben oltre l’assetto e gli equilibri propri del processo penale per investire il rapporto tra il potere politico e il giudiziario.
Nel corso dell’annosa partita sulla separazione delle carriere è infatti cambiata la posta in gioco e gli obiettivi che si vogliono realizzare.
Obiettivi che, come si è cercato di rappresentare, sopravanzano di molto il dato delle carriere dei magistrati, investendo la ridefinizione, a vantaggio del potere politico, dei complessivi equilibri di governo della magistratura, la cancellazione della valenza costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale e l’abrogazione del principio per cui i magistrati si distinguono solo in base alle funzioni svolte”.
Sono assolutamente d’accordo con queste valutazioni che, tra l’altro, spiegano le ragioni per cui oltre 600 magistrati (giudici e pubblici ministeri, civilisti e penalisti) in pensione – dunque ormai al di fuori dell’istituzione giudiziaria e delle dinamiche processuali - hanno sottoscritto, nell’agosto del 2023, un documento ([65]), mirante solo a fornire all’opinione pubblica ed ai decisori politici un contributo di esperienza e di conoscenza sul tema della separazione delle carriere, da tempo in discussione nel Paese ed oggetto di esame in Parlamento, ponendo ancora una volta in evidenza la necessità di garantire:
· l'autonomia del pubblico ministero ed insieme la terzietà del giudice ex art. 111 Costituzione assicurata anche dall’attuale ordinamento e dal contraddittorio delle parti, in condizione di parità, nell’ambito del processo che deve mirare all’accertamento della verità;
· l’unicità del concorso di accesso in magistratura per giudici e pubblici ministeri;
· l’unicità del Consiglio Superiore della Magistratura con maggioranza di eletti tra i membri togati e mantenimento delle sue competenze;
· l’obbligatorietà dell’azione penale e la titolarità di questa in capo al P.M.;
· l’importanza della stessa formazione e della stessa cultura della giurisdizione di giudici e pm, così come della stessa indipendenza;
· l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, preservando l’attuale ordinamento costituzionale, invidiato all’estero poiché consente di portare davanti al giudice qualsiasi persona che abbia commesso un reato.
Nello stesso documento vengono anche denunciati:
· il rischio di sottoposizione del PM al controllo svolto dal potere esecutivo, con la conseguenza che l’azione penale non potrebbe essere più obbligatoria;
· gli effetti deleteri, anche sotto l’aspetto organizzativo, sugli attuali assetti, nei quali operano giudice e pubblico ministero con conseguente periodo di transizione lungo e complesso.
In definitiva, si conclude nel documento, “non si comprende la ragione per la quale la maggioranza politica insista tanto nel voler raggiungere l’obiettivo della separazione delle carriere, visto che già sono stati praticamente eliminati i passaggi da una carriera all’altra dalle riforme Castelli e Cartabia…omissis…”.
Inutile ricordare che il documento – benché elaborato e sottoscritto da “giuristi senza potere” quali sono i magistrati in quiescenza - ha suscitato, in ambienti politici supportati da alcuni organi di informazione, accuse di illecita “interferenza” che accompagnano ormai tutte le iniziative pubbliche sui temi della giustizia di giudici e pubblici ministeri, i quali ultimi costituirebbero un corpo dal potere incontrollato. E si sono moltiplicate, anche in questo caso, le citate inesattezze sulla “peculiarità italiana” (già smentite nel par. 3.e), secondo cui “nel mondo occidentale e democratico solo da noi non c’è la separazione”.
Bastano in realtà poche sobrie parole per rispondere a queste e ad atre affermazioni critiche sulla iniziativa dei magistrati in pensione: Elena Riva Crugnola, una dei firmatari del documento, ha definito la separazione delle carriere una "battaglia di retroguardia" ed ha ben spiegato[66] che non si trattava di un’iniziativa "per interferire con il Parlamento", ma di un tentativo di "mettere a disposizione della pubblica opinione e degli interlocutori istituzionali convincimenti maturati grazie alla nostra esperienza e sottolineare come la possibilità di aver svolto funzioni diverse, durante la carriera, sia stata un grande arricchimento professionale”.
A sua volta, in documento approvato il 9 settembre 2023 dal Comitato Direttivo Centrale(intitolato “Un cavallo di Troia”[67]), l’ANM ha condiviso gli stessi rilievi ed ha espresso “grande preoccupazione per i contenuti dei disegni di legge in discussione dinanzi alla Commissione affari costituzionali della Camera di deputati che, nel riprodurre fedelmente la proposta di iniziativa popolare presentata dalle Camere Penali nella XVII legislatura, rivelano, al di là dei propositi annunciati nelle relazioni illustrative, l’intento di assoggettare tutti i magistrati, giudici e pubblici ministeri, al potere politico”.
Per concludere, non è giusto tacere sul fatto che le persistenti e periodiche discussioni attorno alla ipotesi di separazione delle carriere e alla crisi del principio di obbligatorietà dell’azione penale sono talvolta conseguenti anche ad innegabili criticità che possono essere rilevate in Italia nelle prassi investigative e nei criteri di promovimento dell’azione penale.
Ma, in proposito, è utile invitare tutti ad un’analisi seria e mirata di tali problematiche, evitando di invocare soluzioni radicali ed incompatibili con la nostra cultura e tradizione giuridica.
Sono ancora una volta condivisibili, a tal fine, le parole del prof. Gaetano Silvestri, pronunciate nel già citato intervento in occasione di un Congresso dell’ANM di vari anni fa[68]: “Non possiamo negare che oggi si assista in varie parti d’Italia ad una ipertrofia dell’azione penale, derivante da una concezione pan-penalistica dei rapporti sociali, politici e istituzionali coltivata da taluni magistrati. In contrasto con la cultura del diritto penale minimo, che dovrebbe essere l’approdo di una più aggiornata visione della legalità, si sviluppa talvolta un iperattivismo inquisitorio ed accusatorio non certo in linea con un equilibrato esercizio della giurisdizione. Dobbiamo tuttavia notare che complessivamente la terzietà del giudice nel nostro sistema funziona abbastanza bene e che la maggior parte dei processi iniziati in modo avventato – in assenza di un quadro probatorio sufficiente o in base a forzature pan-penalistiche della legge – si concludono con decisioni di proscioglimento. Il processo penale italiano contiene in sé una grande quantità di garanzie per la difesa. Sono convinto che di fronte alla scelta di barattarlo con altri sistemi, molti suoi detrattori farebbero un passo indietro”.
“Purtroppo – aggiungeva il prof. Silvestri – i mass-media amplificano anche a senso unico le lamentele. Se un imputato viene assolto, si inveisce contro il PM che ha esercitato l’azione penale, dimenticando di sottolineare che c’è stato un giudice che non si è adagiato sulla prospettazione dell’accusa; se viene invece condannato, allora i medesimi giudici vengono presentati come succubi dei PM, perché colleghi ed amici”.
Si tratta di parole di grande efficacia, utili per invitare tutti a difendere con orgoglio i principi fondanti del nostro sistema ordinamentale, tra cui vi è sicuramente quello della unicità della carriera dei magistrati giudicanti e requirenti, che non merita affatto di essere smantellato.
Proprio per questa ragione, è auspicabile che Parlamento e Governo, Avvocatura e Magistratura, con il contributo determinante del mondo accademico, uniscano le loro forze, fino a determinare una sinergia virtuosa che, lungi dal porre al centro di ogni confronto la proposta della separazione delle carriere (francamente anacronistica e che comunque non può essere interpretata come occasione di scontro), peraltro attraverso passaggi di dubbia costituzionalità, si concentri sulle cause vere delle disfunzioni del processo, a partire dalla drammatica carenza di personale giudiziario ed amministrativo .
[1] Le osservazioni che seguono (la cui lunghezza è dovuta alla notevole delicatezza dei temi oggetto dell’audizione) sono frutto della esperienza professionale dell’autore (tutta spesa nell’esercizio delle funzioni di pubblico ministero, sia come Sostituto Procuratore della Repubblica e Procuratore della Repubblica Aggiunto a Milano, sia – negli ultimi anni, fino al dicembre 2018 – come Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino), nonché di quelle di componente del CSM (nel quadriennio 1998/2002) e più recentemente (dall’inizio del 2019) di docente a contratto presso l’Università Statale di Milano nella materia di “Politiche di sicurezza e dell’Intelligence”. Saranno utilizzati anche suoi precedenti interventi sulla questione della separazione delle carriere.
[2] Il presente intervento contiene riferimenti a riflessioni formulate nel corso del confronto dell’11 settembre 2023 tra lo scrivente e l’avv. Gian Domenico Caiazza (all’epoca Presidente dell’Unione Camere Penali) organizzato dall’ANM – Sezione Autonoma Magistrati a riposo, nonché presenti in alcuni importanti articoli sul tema della separazione delle carriere, qui citati con il consenso degli autori: 1) Oltre la separazione delle carriere di giudici e pm. L’obiettivo è il governo della magistratura e dell’azione penale (Nello Rossi - Questione Giustizia, 04/09/2023); 2) Separare le carriere di giudici e pubblici ministeri o riscrivere i rapporti tra poteri? (Nello Rossi – Sistema Penale, 16/11/2023); 3) Un pubblico ministero “finalmente separato”? Una scelta per poco o per nulla consapevole della posta in gioco. E l’Europa ce lo dimostra (Maria Rosaria Guglielmi, Questione Giustizia, 27/07/2023); 4) Separazione delle carriere a Costituzione invariata. Problemi applicativi dell’art. 12 della Legge n. 71 del 2022 (Pasquale Serrao D’Aquino, Giustizia Insieme, 28 giugno 2022). Nelle note a piè di pagina successive i riferimenti a tali articoli conterranno solo i nomi degli autori e gli acronimi delle riviste che li hanno pubblicati.
[3] Il Giornale (4 settembre 2023).
[4] “L’avv. Coppi affonda la riforma Nordio. Separare le carriere non servirà a nulla” (Francesco Grignetti, La Stampa, 20 settembre 2023).
[5] Per correttezza va doverosamente ricordato che il dovere di contrastare la separazione delle carriere non è condiviso da tutti i magistrati. Ci si vuol qui riferire, però, ad una minoranza assolutamente irrisoria della magistratura in cui si colloca anche un attuale componente togato del CSM, il dr. Andrea Mirenda (si veda la sua intervista a Il Foglio, 23 agosto 2023: “I pm sono degli influencer. Serve un doppio CSM”).
[6] La Sicilia Catania, 29 agosto 2023.
[7] Il Fattoquotidiano.it (“Abolire l’imputazione coatta? Un’idea antisistema: se c’è un reato, il GIP non può far finta di nulla. L’avvocato Coppi smonta il piano di Nordio”).
[8] “Diritto Processuale Civile” (Cedam-Padova, 1967).
[9] Lettera al Corriere della Sera del 12 settembre 2023 “(«Il pm rimanga parte imparziale»).
[10] Prima dell’entrata in vigore delle disposizioni di cui al capo V del d.lgs n. 160/06 non vi erano ostacoli al passaggio (a semplice domanda) dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti (e viceversa), per consentire il quale era sufficiente, ai sensi dell’art. 190 R.D. 12/1941, un parere attitudinale formulato dal Consiglio giudiziario del distretto di appartenenza del magistrato interessato. Nel 2003 una circolare del Consiglio Superiore della Magistratura (Circolare n. P-5157/2003 del 14 marzo 2003 - Deliberazione 13 marzo 2003) aveva regolamentato le modalità di formulazione del parere e previsto incompatibilità al passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti penali nell’ambito dello stesso circondario. In relazione alla domanda di passaggio da una funzione all’altra, non erano previsti limiti temporali speciali di previa permanenza nella funzione da cui si proveniva, salvo quelli ordinari e generali – contemplati dalla legge – di legittimazione a proporre domanda di trasferimento ad altra sede o di tramutamento da una funzione all’altra. Al momento dell’accesso in magistratura, inoltre, potevano essere indifferentemente conferite al magistrato di prima nomina le funzioni giudicanti o quelle requirenti.
[11] Le precisazioni che seguono sono tratte dal sito web del CSM, accessibile al pubblico.
[12] Queste, in proposito, le testuali e “complicate” previsioni dei co, 3, 4, 5 e 6 dell’art. 13 D. Lgs. N. 160 del 2006:
3.Il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, non è consentito all'interno dello stesso distretto, né all'interno di altri distretti della stessa regione, né con riferimento al capoluogo del distretto di corte di appello determinato ai sensi dell'articolo 11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all'atto del mutamento di funzioni. Il passaggio di cui al presente comma può essere richiesto dall'interessato, per non più di quattro volte nell'arco dell'intera carriera, dopo aver svolto almeno cinque anni di servizio continuativo nella funzione esercitata ed è disposto a seguito di procedura concorsuale, previa partecipazione ad un corso di qualificazione professionale, e subordinatamente ad un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni, espresso dal Consiglio superiore della magistratura previo parere del consiglio giudiziario. Per tale giudizio di idoneità il consiglio giudiziario deve acquisire le osservazioni del presidente della corte di appello o del procuratore generale presso la medesima corte a seconda che il magistrato eserciti funzioni giudicanti o requirenti. Il presidente della corte di appello o il procuratore generale presso la stessa corte, oltre agli elementi forniti dal capo dell'ufficio, possono acquisire anche le osservazioni del presidente del consiglio dell'ordine degli avvocati e devono indicare gli elementi di fatto sulla base dei quali hanno espresso la valutazione di idoneità. Per il passaggio dalle funzioni giudicanti di legittimità alle funzioni requirenti di legittimità, e viceversa, le disposizioni del secondo e terzo periodo si applicano sostituendo al consiglio giudiziario il Consiglio direttivo della Corte di cassazione, nonché sostituendo al presidente della corte d'appello e al procuratore generale presso la medesima, rispettivamente, il primo presidente della Corte di cassazione e il procuratore generale presso la medesima. 4. Ferme restando tutte le procedure previste dal comma 3, il solo divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, all'interno dello stesso distretto, all'interno di altri distretti della stessa regione e con riferimento al capoluogo del distretto di corte d'appello determinato ai sensi dell'articolo 11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all'atto del mutamento di funzioni, non si applica nel caso in cui il magistrato che chiede il passaggio a funzioni requirenti abbia svolto negli ultimi cinque anni funzioni esclusivamente civili o del lavoro ovvero nel caso in cui il magistrato chieda il passaggio da funzioni requirenti a funzioni giudicanti civili o del lavoro in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, ove vi siano posti vacanti, in una sezione che tratti esclusivamente affari civili o del lavoro. Nel primo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura civile o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. Nel secondo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura penale o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. In tutti i predetti casi il tramutamento di funzioni può realizzarsi soltanto in un diverso circondario ed in una diversa provincia rispetto a quelli di provenienza. Il tramutamento di secondo grado può avvenire soltanto in un diverso distretto rispetto a quello di provenienza. La destinazione alle funzioni giudicanti civili o del lavoro del magistrato che abbia esercitato funzioni requirenti deve essere espressamente indicata nella vacanza pubblicata dal Consiglio superiore della magistratura e nel relativo provvedimento di trasferimento.
5. Per il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, l'anzianità di servizio è valutata unitamente alle attitudini specifiche desunte dalle valutazioni di professionalità periodiche. ..(omissis…).
6. Le limitazioni di cui al comma 3 non operano per il conferimento delle funzioni di legittimità di cui all'articolo 10, commi 15 e 16, nonché, limitatamente a quelle relative alla sede di destinazione, anche per le funzioni di legittimità di cui ai commi 6 e 14 dello stesso articolo 10, che comportino il mutamento da giudicante a requirente e viceversa.
[13] Questa precisazione è stata tratta dal sito web di Magistratura Democratica.
[14] Il referendum non sortì alcun effetto abrogativo visto che il 21 maggio 2000 non fu raggiunto il quorum elettorale necessario.
[15] Si rimanda al paragrafo 6, in cui verranno sinteticamente commentate le proposte di modifica costituzionale dell’Unione Camere Penali e quelle già citate di iniziativa di vari parlamentari.
[16] (QG).
[17] Per precisione, va detto che l’art. 12 in questione prevede la possibilità per l’interessato di richiedere il passaggio di funzioni, per non più di una volta, entro il termine di sei anni dal maturare dei tre anni (e dunque per un totale di nove) per la legittimazione al tramutamento previsto dall’art. 194 dell’ordinamento giudiziario per i magistrati che esercitano le funzioni presso la sede di prima assegnazione.
[18] Così in: “Il pubblico ministero nelle cause civili” (www.studiocataldi.it).
[19] Prima del D.Lgs. 5 aprile 2006, come si è detto, la separazione delle funzioni era prevista dall’abrogato art. 190 dell’ordinamento giudiziario e dalla previsione ivi contenuta di pareri per il passaggio dall’una all’altra funzione.
[20] Nei titoli dei sub-paragrafi da 3.a a 3.e saranno esaminate le affermazioni spesso formulate a sostegno della necessità della separazione delle carriere.
[21] MicroMega n. 1/2003.
[22] Va in proposito precisato, comunque, che le elevatissime percentuali di assoluzioni ripetutamente fornite da alcuni organi di stampa a riprova degli straripamenti di potere da parte dei P.M., sono “da considerare errate perché computano come assoluzioni forme diverse di estinzione dei processi tra cui i casi di prescrizione, remissione di querela, oblazione, messa alla prova, ipotesi che non escludono la responsabilità e in alcuni casi la presuppongono. Al riguardo va precisato che, negli anni 2019, 2020 e nel primo semestre del 2022, l’effettiva percentuale di assoluzioni supera di poco il 21% del totale delle sentenze; risultato medio che non muta nelle ipotesi di citazione diretta. Un dato certamente significativo oggetto di puntuali ed approfondite considerazioni svolte e delle statistiche riportate nell’Intervento scritto del Procuratore generale presso la Corte di cassazione, Giovanni Salvi nell’Assemblea generale per l’inaugurazione dell’anno giudiziario svoltasi il 2022 (pp. 17 e ss.), che si legge nel sito della Corte di cassazione” (Nello Rossi, SP).
[23] Così Maria Rosa Guglielmi (articolo citato).
[24] Sinteticamente, anche all’inizio del decennio scorso, venne affermato da autorevoli rappresentanti delle Camere Penali, che “il giudice non deve ispirarsi alla cultura dell’azione”. Ma, ancora una volta, all’affermazione – in sé condivisibile - non fece seguito alcuna dimostrazione scientifica di tale ipotizzato atteggiamento culturale dei giudici italiani.
[25] “La politica è genuflessa ai dogmi intoccabili dei magistrati antimafia. C’è l’ossequio ai dogmi della DNA dietro lo stop sulle carriere separate”(Il Dubbio, 16 novembre 2013).
[26] “Carriere separate? Nordio ed i politici vogliono mani libere” (Intervista a Il Fatto Quotidiano – Marco Grasso, 20 agosto 2023).
[27] Comma inserito nell’art.111 Cost. dalla L. cost. 23.11.99 n.2. Si vedano, inoltre, il D.L. 7.1.2000 n.2 (recante disposizioni urgenti per l'attuazione dell'articolo 2 della legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, in materia di giusto processo), conv. con modificazioni, nella L. 25.2.2000 n.35, e gli artt. 2 ss. della L. 24.3.2001 n.89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell'articolo 375 del codice di procedura civile).
[28] In tal senso, più volte, numerosi giuristi e commentatori.
[29] Valentina Maisto (Q.G. “La separazione delle carriere tra argomenti tradizionali ed evoluzione del processo: un tema ancora attuale?”).
[30] Livio Pepino, Giudici e Pubblici Ministeri, in La Magistratura, nn.1/2 2002.
[31] Il Riformista, 15 agosto 2023.
[32] Il Riformista, 17 agosto 2023.
[33] I riferimenti che seguono agli ordinamenti di altri Stati non sono tutti aggiornati e, dunque, potrebbero contenere inesattezze. In tal caso l’autore se ne scusa con i lettori.
[34] In tale senso, ad esempio, sembra essere orientato il prof. Giuseppe Di Federico, come appare da una sua intervista pubblicata il 3 luglio 2016 su Il Giornale di Sicilia, in linea con un suo successivo intervento in un convegno svoltosi a Capo d’Orlando sulla separazione delle carriere (di cui egli è fautore), promosso dalla Unione delle Camere Penali Italiane.
[35] Roma, 11 settembre 2023 – Confronto organizzato dall’ ANM- Sezione Autonoma dei Magistrati a riposo.
[36] Non è dunque corretto quanto affermato dall’avv. Francesco Petrelli (Il Dubbio, 30 agosto 2023), secondo cui in Gran Bretagna il PM sarebbe separato dal Giudice.
[37] Maria Rosaria Guglielmi (art. cit. in cui sono citate le osservazioni della Commissione di Venezia, le decisioni della Corte Edu e i rapporti della Commissione Europea sulle condizioni di dipendenza dal potere politico dei pubblici ministeri in Bulgaria e Romania, in un contesto di enorme pressione sui giudici).
[38] Antonio Cluny, dirigente di Medel: intervento nel corso del congresso di Magistratura Democratica (Roma, 23/26.1.2003).
[39] Vengono qui ancora riportate le valutazioni critiche del dr. Cluny.
[40] Maria Rosaria Guglielmi (art. cit.).
[41] Sia qui permesso di citare anche il consenso alla struttura ordinamentale della carriera e della indipendente funzione del P.M. in Italia, manifestato da organismi rappresentativi dell’avvocatura tedesca nel corso di un importante convegno internazionale sia pur svoltosi in anni lontani (nel 2007) a Berlino, in cui il sottoscritto fungeva da relatore. Rispondendo alle domande degli avvocati tedeschi, ebbi modo di illustrare il nostro sistema ordinamentale, in particolare la normativa che consente, a certe condizioni, il mutamento di funzioni giudicanti e requirenti dei magistrati italiani, in un quadro di assoluta ed uguale indipendenza dal potere politico di giudici e pm. Seguirono gli applausi di centinaia di avvocati presenti, tutti rivolti al sistema della giustizia italiana.
[42] Così in Proposte di riforma dell’ANM in tema di ordinamento giudiziario”, in La Magistratura, nn.1/2 2002 Tale posizione è stata ribadita dall’ANM in numerose successive ulteriori prese di posizione, mai abbandonate neppure nel periodo attuale.
[43] Questo dato numerico, risalente al 2002, epoca dell’articolo, è ovviamente mutato. Oggi, come si ricava dal sito web del CSM, i dati numerici riguardanti i pubblici ministeri, aggiornati al 22 settembre 2023, sono i seguenti: 2649 posti in organico, di cui 438 (il 16,53% del totale) vacanti.
[44] Livio Pepino: “Carriere Separate, Governo in Toga”, L’Unità, 20.11.02
[45] Non a caso, alla vigilia del fallito referendum abrogativo del 2000, si registrò una impennata di domande di trasferimenti di pubblici ministeri ad uffici giudicanti. Ad avviso di chi scrive, ciò si spiega con la preoccupazione - che evidentemente i p.m. all’epoca nutrivano - di vedersi precluso l’eventuale accesso alla carriera giudicante e di poter essere in breve sottoposti alle direttive dell’esecutivo:
[46] Il Fatto Quotidiano, 21 agosto 2023.
[47] In tal senso anche la giornalista Giulia Merlo: “Ragionando per principi, il pm risponde a quello di verità processuale, l’avvocato alla difesa di una parte” (“La separazione delle carriere è boomerang per Nordio”, Domani, 27 agosto 2023).
[48] Così Ignazio Juan Patrone, all’epoca presidente di Medel.
[49] In proposito, il prof. Giuseppe Di Federico, nella intervista citata in precedente nota a pie’ di pagina, rivendica di avere per primo utilizzato la espressione di “pm-poliziotto” perché “se una persona dirige la polizia non la si può definire diversamente”, aggiungendo, però, che il Pm “a differenza del poliziotto, non risponde a nessuno: una cosa incompatibile con il sistema democratico”.
[50] Intervento al Forum della Fondazione Iniziativa Europa 2023, tenutosi a Stresa (NO), l’11 novembre 2023.
[51] N. Rossi (S.P.).
[52] “Il nostro diritto prevede due poteri e un ordine, che è quello della magistratura”: lo affermava l’on.le Angelino Alfano, intervistato da Lucia Annunziata durante la trasmissione “In ½ ora”, in onda sui Rai Tre il 13 marzo 2011. Alfano era, a quella data, Ministro della Giustizia, impegnato nel tentativo di spiegare ai cittadini italiani perché la “riforma” della parte della Costituzione dedicata alla Magistratura (Titolo quarto della Parte seconda, articoli da 101 a 113) sarebbe stata “epocale” ed avrebbe consentito di risolvere tutti i problemi che affliggono la giustizia italiana. Lo stesso concetto (la Magistratura non è un potere costituzionale, ma un ordine) veniva ribadito poco più di un mese dopo, il 18 aprile, dall’ ex Ministro della Giustizia, il sen. Roberto Castelli, nel frattempo diventato Viceministro delle Attività produttive, anch’egli intervistato da Lucia Annunziata nel corso della trasmissione di Rai Tre, “Il Potere”.
[53] Le osservazioni relative al co. 2 dell’art. 104 della Cost. riproducono quelle dello scrivente già formulate in “I Leoni e il Trono”, testo incluso nel libro “Il Potere in Italia” di Lucia Annunziata (Marsilio, 2011).
[54] Così il prof. Gaetano Silvestri in “La riforma dell’ordinamento giudiziario in Italia” (Congresso ANM – Venezia 5-8 febbraio 2004), commentando il disegno di legge n. 1296, approvato dal Senato il 21 gennaio 2014, contenente – al Capo I – “Delega al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario”, con progetto di separazione delle carriere.
[55] Così Nello Rossi (QG).
[56] N. Rossi (SP).
[57] Gaetano Azzariti (La separazione delle carriere dei magistrati”, in Osservatorio Costituzionale, fasc. 2/2023 del 4 aprile 2023.
[58] G. Azzariti, idem.
[59] Nello Rossi (QG).
[60] Nello Rossi (SP).
[61] Così Nello Rossi (QG).
[62] Sia permesso, comunque, il riferimento ai seguenti interventi di chi scrive, ai quali si rimandano gli eventuali
interessati:
1)“Obbligatorietà dell’azione penale”, in “Giustizia, la parola ai magistrati”, a cura di Livio Pepino (Laterza, 2010); 2)“Criteri di organizzazione della Procura della Repubblica di Torino dell’8 ottobre 2018”, in particolare, paragrafo n. 12 (pag. 168)[62], che in buona parte riprendono ed arricchiscono i precedenti criteri del 23 giugno 2015; 3) “Le priorità non sono più urgenti e comunque la scelta spetta ai giudici”, in Cassazione Penale, LV, ottobre 2015, n. 10.
[63] Condivisibili affermazioni di N. Rossi (SP).
[64] (QG).
[65] Il documento e la lista dei sottoscrittori sono leggibili nel sito web dell’Associazione Nazionale Magistrati (https://www.associazionemagistrati.it/doc/4013/magistrati-in-pensione-contro-la-separazione-delle-carriere.htm).
[66] ADN Kronos, 25 agosto 2023.
[67]Anche questo documento è leggibile nel sito web dell’Associazione Nazionale Magistrati (https://www.associazionemagistrati.it/doc/4017/il-cdc-su.htm )
[68] “La riforma dell’ordinamento giudiziario in Italia” (Congresso ANM – Venezia 5-8 febbraio 2004), relazione a commento del disegno di legge n. 1296, approvato dal Senato il 21 gennaio 2014, contenente – al Capo I – “Delega al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario”, con progetto di separazione delle carriere.
Sommario: 1. Premessa - 2. Il ricorso - 3. La giurisdizione della Corte - 4. I diritti violati - 5. Le misure adottate - 6. Le implicazioni.
1. Premessa
Dopo le risoluzioni dell’Assemblea Generale e del Consiglio di Sicurezza[1], anche la Corte internazionale di Giustizia dell’Aia si è pronunciata lo scorso 24 gennaio sulle operazioni militari israeliane nella striscia di Gaza conseguenti all’attacco terroristico del 7 ottobre 2023, su ricorso presentato dal Sud Africa per presunte violazioni della Convenzione del 1948 per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio. La decisione, assunta in sede cautelare, ha riconosciuto il rischio di violazioni dei diritti protetti dalla Convenzione. Sono state altresì disposte misure cautelari nelle more dell’istruttoria sebbene, come spesso sottolineato nei giorni scorsi sulla stampa non specialistica, la Corte non abbia incluso tra queste un ordine di cessate il fuoco. La stessa Corte in più punti della motivazione ha sottolineato quale sia il quadro procedurale e sostanziale in cui la decisione si inscrive, e conseguentemente la portata della stessa, sia dal punto di vista delle misure adottate – non necessariamente coincidenti con quelle richieste in ricorso, ma comunque vincolate ai presupposti cautelari della pertinenza ai diritti invocati e dell’urgenza – sia dal punto di vista dell’ambito applicativo della Convenzione, esclusivamente relativo alla materia del genocidio e non direttamente a quella del diritto umanitario.
2. Il ricorso
La causa è stata incardinata il 29 dicembre 2023 su ricorso del Sud Africa, che ha denunciato presunte violazioni della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio da parte di Israele nell’ambito del conflitto a Gaza. La tesi è che Israele abbia infranto, e continui ad infrangere, le proprie obbligazioni derivanti dagli articoli da I a VI della Convenzione.
Le norme richiamate dichiarano che il genocidio, commesso sia in tempo di pace che in tempo di guerra, costituisce un crimine di diritto internazionale, e definiscono lo stesso come ogni atto consistente nell’uccisione di membri di un determinato gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, nel ledere gravemente l’integrità fisica o mentale di membri del gruppo, nel sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale, in misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo o il trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro. I crimini che possono essere commessi in tal senso consistono non soltanto nel compiere direttamente i suddetti atti genocidiari, ma anche nell’intesa mirante a commettere genocidio, nell’incitamento diretto e pubblico a commettere genocidio, nel tentativo di genocidio o nella complicità nel genocidio. Gli stati firmatari si impegnano a punire i soggetti colpevoli di genocidio, prevedendo normativamente sanzioni efficaci ed assicurando la persecuzione delle infrazioni, davanti alle giurisdizioni nazionali o internazionali.
Sulla base di tali presupposti, il Sud Africa ha adito la Corte chiedendo che sia accertato il compimento da parte di Israele di atti di genocidio nei confronti del popolo palestinese a Gaza, invocando l’applicazione di misure cautelari volte a far desistere qualsiasi forza militare, paramilitare o gruppo su cui Israele possa avere influenza dal compimento di atti genocidiari quali uccisioni, gravi lesioni dell’integrità fisica e morale, espulsioni, privazione di accesso alle risorse essenziali come acqua o medicinali.
3. La giurisdizione della Corte
La Corte è stata invocata con riferimento alla presunta violazione della Convenzione sul genocidio in ragione del fatto che sia Israele che il Sud Africa ne sono firmatari, rispettivamente dal 1950 e dal 1998. La sua giurisdizione è quindi limitata al contenuto di detta Convenzione, sicché la stessa Corte rinvia alle decisioni assunte da altre agenzie dell’ONU con riguardo a vari aspetti del conflitto[2].
Gli ulteriori presupposti fondanti la giurisdizione della Corte sono l’esistenza di una controversia tra le parti e che l’oggetto della controversia ricada nell’ambito di applicazione della Convenzione.
a) Esiste una controversia
La Corte ha ritenuto sussistente una controversia sostanziale tra il Sud Africa e Israele circa la riconducibilità o meno all’ambito applicativo della Convenzione di determinate azioni compiute in occasione del conflitto a Gaza, a fronte delle dichiarazioni pubblicamente rese da entrambi gli Stati.
In particolare, l’accusa di genocidio è stata mossa per la prima volta dal Sud Africa nel novembre 2023 in un incontro diplomatico, e reiterata in occasione della Decima sessione speciale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 12 dicembre 2023, nella quale Israele era rappresentato (e che si è conclusa con la richiesta di un immediato cessate il fuoco, rimasto tristemente inascoltato), ed ancora in una successiva ulteriore nota indirizzata all’Ambasciata israeliana.
A tali dichiarazioni si oppongono quelle di Israele, il cui Ministro degli esteri, in un documento del 6-8 dicembre 2023, ha preso posizione sull’accusa di genocidio ritenendola non soltanto infondata ma “moralmente ripugnante”[3], dichiarazione analoga a quella pubblicata il 15 dicembre 2023 sul sito della Difesa, in cui l’accusa viene inoltre definita “oltraggiosa” [4].
b) L’oggetto della controversia ricade nell’ambito di applicazione della Convenzione
A fronte delle accuse mosse dal Sud Africa, Israele ha sostenuto dinanzi alla Corte che le azioni a Gaza non ricadrebbero nell’ambito di applicazione della Convenzione, in base al vaglio preliminare proprio della fase cautelare, difettando la prova di una intenzione specifica di distruggere in tutto o in parte il popolo palestinese, trattandosi di azioni difensive e volte al salvataggio degli ostaggi. Ha inoltre rappresentato di aver intrapreso azioni per assicurare gli aiuti umanitari a Gaza e prevenire i danni per la popolazione civile.
La Corte ha ribadito che in questa fase non si tratta di accertare se vi siano state o meno violazioni della Convenzione, ma soltanto di verificare se ciò appaia plausibile alla stregua di una valutazione preliminare. La Corte ha peraltro ricordato che tra le accuse c’è anche quella relativa al fallimento di Israele nel prevenire e punire atti genocidiari (inclusi quelli consistenti nell’intesa mirante a commettere genocidio, nell’incitamento diretto e pubblico a commettere genocidio, nel tentativo di genocidio o nella complicità nel genocidio), per concludere che almeno alcune delle violazioni denunciate dal Sud Africa appaiono idonee a ricadere nell’ambito di applicazione della Convenzione.
4. I diritti violati
Presupposti per l’adozione di misure cautelari nell’ambito della giurisdizione della Corte sono la connessione tra i diritti protetti e le misure richieste e l’urgenza della decisione a fronte del rischio di pregiudizio irreparabile di tali diritti nelle more dell’istruttoria.
a) La connessione tra i diritti protetti e le misure invocate
I diritti considerati dalla Corte – sempre alla stregua della valutazione preliminare e non ai fini di un loro definitivo accertamento – sono quelli del popolo palestinese presente nella striscia di Gaza, inteso come singoli individui e come gruppo, nonché quelli dello stesso Sud Africa, la cui legittimazione ad adire la Corte consegue al carattere erga omnes degli obblighi sanciti dalla Convenzione, da cui discende l’interesse di ciascuno stato firmatario ad invocarne l’applicazione e la cessazione delle infrazioni rilevate.
L’intento genocidiario è ritenuto sussistente dal Sud Africa in ragione delle modalità con cui l’azione militare israeliana è condotta, nonché in relazione alla comunicazione ufficiale di Israele rispetto alle operazioni militari ed al fallimento (ritenuto intenzionale) nel prevenire e punire l’incitamento al genocidio[5].
Israele ha invece insistito nel riportare la questione sul terreno del diritto umanitario, sottolineando che i danni per la popolazione civile sono conseguenze di attacchi legittimi ad obiettivi militari[6] e prendendo le distanze da dichiarazioni militari sul campo[7], affermando la consapevolezza del carattere criminale di dichiarazioni incitanti alla violenza contro i civili ed annunciando azioni repressive di simili condotte. Ha infine posto il tema del proprio diritto di difesa come elemento determinante nel bilanciamento di diritti tra Israele e Sud Africa rilevanti nella presente sede cautelare[8].
La Corte ha ricordato che il genocidio implica ontologicamente un elemento intenzionale, ossia la finalizzazione alla distruzione di un gruppo o di una parte sostanziale di esso in modo da impattare sul gruppo nella sua interezza. Ha riconosciuto che i palestinesi sono un gruppo etnico ai sensi della Convenzione e, ritenuto che a Gaza ci sono circa 2 milioni di palestinesi, che essi possono ritenersi parte sostanziale di questo gruppo.
In uno dei passaggi più significativi della pronuncia, la Corte ha richiamato le fonti ufficiali ONU ed i report stilati dagli osservatori a Gaza, per delineare attraverso le loro parole un quadro drammaticamente vivo della situazione, dando conto di un enorme numero di morti e feriti, della distruzione massiva delle case e del danneggiamento estensivo delle infrastrutture civili, del trasferimento forzoso di gran parte della popolazione. La Corte ha riportato i dati disponibili, pur nella consapevolezza dell’impossibilità allo stato attuale di una loro verifica indipendente: tra i palestinesi risulterebbero al momento della decisione 25.700 morti, oltre 63.000 feriti, oltre 360.000 unità abitative distrutte o danneggiate e circa 1,7 milioni di persone trasferite internamente alla striscia di Gaza[9]. Ha quindi descritto lo scenario di assoluta devastazione cui si assiste a Gaza, dove la popolazione è costretta a vivere in condizioni traumatizzanti, privata delle risorse più essenziali, a rischio infezioni e fame, trasferita forzosamente verso zone a loro volta soggette a bombardamento o comunque ugualmente insicure[10], a fronte della catastrofica condizione cui sono ridotte le proprie case ed i propri averi[11], in quello che è stato definito il più vasto trasferimento forzoso di palestinesi dal 1948, destinato ad avere conseguenze a lungo termine soprattutto su quella che viene definita come un’intera generazione traumatizzata: i bambini, che più di tutti risentono delle condizioni “disumane” in cui si trovano a vivere[12].
Sotto altro profilo, la Corte ha analizzato alcune dichiarazioni pubbliche rese da ufficiali israeliani. Tra queste, quelle del Ministro della difesa con cui è stato ordinato alle forze armate di porre in essere un assedio totale di Gaza City, affermando che non vi sarebbe stata elettricità, cibo, carburante, e tutto sarebbe stato chiuso[13], a fronte di una guerra da combattersi contro “animali umani”, mediante la distruzione totale[14]. O quelle del Presidente Herzog, che ha ritenuto sussistente la responsabilità del popolo palestinese di Gaza, accusando direttamente i civili di essere coinvolti, colpevoli di non essersi opposti ad Hamas, invocando il proprio diritto di difesa e di combattere per esso, fino a “rompergli l’osso del collo”[15]. O ancora quelle del ministro dell’Energia e delle infrastrutture, che ha dichiarato che tutta la popolazione civile di Gaza avrebbe dovuto spostarsi immediatamente, che non avrebbe ricevuto una goccia d’acqua o una singola batteria finche non avesse lasciato “il mondo”[16].
La Corte ha riportato le parole pronunciate dal gruppo di Reporter speciali, esperti indipendenti dei gruppi di lavoro dell’UNHCR in una conferenza stampa del 16 novembre 2023, con cui era stata denunciata una riconoscibile retorica genocidiaria e disumanizzante proveniente da ufficiali di governo israeliani, nonché nelle parole del Comitato dell’ONU sull’eliminazione delle discriminazioni razziali, preoccupato per l’impennata di toni connotati da odio razziale e contenuti disumanizzanti diretti nei confronti dei palestinesi successivamente al 7 ottobre.
La Corte ha concluso quindi affermando che almeno alcuni dei diritti invocati dal Sud Africa appaiono fondati alla stregua della Convenzione, in riferimento al diritto dei palestinesi a Gaza ad essere protetti da atti di genocidio ed atti ad esso connessi, nonché in riferimento al diritto del Sud Africa all’ottemperanza da parte di Israele delle proprie obbligazioni derivanti dalla Convenzione[17].
b) Il rischio di danno irreparabile e l’urgenza
La Corte ha infine ritenuto sussistente il requisito del rischio di danno irreparabile e dell’urgenza.
Il carattere irreparabile dei possibili pregiudizi è stato accertato sulla base della natura stessa dei diritti in gioco. In tal senso, la Corte ha sottolineato i rischi di una degenerazione con conseguenze irreversibili, innanzitutto dal punto di vista umanitario, ma anche in termini di stabilità dell’area, rischi che sono stati già evidenziati nelle sedi ufficiali.
La Corte ha nuovamente richiamato lo scenario di devastazione osservabile ad inizio dicembre[18], rispetto al quale alcun miglioramento era registrato a gennaio[19], come del resto confermato dal Primo Ministro israeliano che ha affermato, il 18 gennaio 2024, che la guerra durerà ancora mesi, in contrato con le stesse dichiarazioni rese da Israele dinanzi alla Corte in base alle quali l’intensità del conflitto starebbe scemando.
La Corte, pur dando atto ed incoraggiando le iniziative intraprese da Israele a tutela della popolazione palestinese (in termini di facilitazione degli aiuti, sostegno infrastrutturale e persecuzione di atti di violenza), ha concluso ritenendo che la situazione umanitaria catastrofica di Gaza è suscettibile di peggiorare ulteriormente nelle more del giudizio.
5. Le misure adottate
Sussistendone quindi tutte le condizioni, la Corte ha ritenuto di adottare alcune misure, premettendo il proprio potere di indicarne di diverse rispetto a quelle richieste dal ricorrente, in applicazione delle proprie regole procedurali (ed in particolare dell’art. 75 par. 2).
La Corte ha quindi statuito:
6. Le implicazioni
La Corte si è espressa nei limiti della propria giurisdizione cautelare, esclusivamente volta a delibare la verosimiglianza delle infrazioni lamentate – passibili di verificarsi anche in un quadro di guerra come quello attualmente in corso a Gaza – e all’adozione di misure cautelari strettamente correlate coi diritti di cui sia ritenuta plausibile la violazione. In alcun modo in questa sede avrebbe potuto essere disposto un cessate il fuoco.
Nonostante detti limiti, i frequenti rinvii al diritto umanitario, alle altre sedi ufficiali che hanno preso in carico la questione, l’ampio impiego dei virgolettati, attraverso i quali la Corte ha temporaneamente dismesso i propri toni istituzionali per aderire ad una ben diversa enfasi, sottolineano la stretta interconnessione con le altre, molteplici questioni relative al conflitto israelo-palestinese.
E del resto non può sfuggire la profondità delle implicazioni di questa decisione se solo si considera il contesto storico in cui la Convenzione sul genocidio è stata adottata.
La Corte ha significativamente richiamato la risoluzione dell’Assemblea Generale n. 96 dell’11 dicembre 1946, laddove si dichiara che il genocidio, inteso come negazione del diritto di esistere di interi gruppi, “sciocca la coscienza dell’umanità”, ed è contrario allo spirito ed agli scopi delle nazioni Unite. La Corte ha ancora attinto ai testi ufficiali dell’epoca, facendo proprio l’intento dichiarato della Convenzione, puramente umanitario e “civilizzatore”, volto non solo a proteggere l’esistenza di determinati gruppi, ma a sostenere i “più elementari principi della morale”[20].
Il tema è allora quello, amplissimo, delle basi della cultura giuridica e morale sottesa all’intero sistema delle Nazioni Unite, che poggia proprio sulla reazione all’Olocausto, e nel cui quadro la Convenzione sul genocidio assume quindi valore fondante.
Il ricorso proposto dal Sud Africa, già connotato di valore simbolico per evidenti ragioni inerenti la storia di quel Paese, al di là del sostegno da lungo tempo portato alla causa palestinese si carica di contenuto universalistico, inverando la reazione di sdegno morale di fronte a qualsiasi atto di genocidio ufficializzata nella Convenzione.
La reazione di Israele a fronte delle accuse mossegli, l’oltraggio dichiarato dinanzi all’opinione pubblica, il diritto alla difesa invocato dinanzi alla Corte riportano invece il discorso alla concretezza e alla specificità della situazione israeliana, ugualmente ben comprensibili storicamente. Tali reazioni, infatti, non possono che essere lette tenendo a mente le vicende del periodo che va dal 1933 al 1945, indelebili nella memoria collettiva. E, tuttavia, non possono che essere lette anche in relazione alle vicende successive al 1947, forse meno universalmente conosciute ed interiorizzate, assumendone una luce ben diversa. In questa prospettiva, la decisione della Corte costituisce quantomeno un pungolo all’ambiguità che sulla questione israelo-palestinese da sempre inquina il dibattito istituzionale internazionale.
[1] In particolare, sul conflitto si è già pronunciata l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, con la risoluzione A/RES/ES-10/21 del 27 ottobre 2023 e la risoluzione A/RES/ES-10/22 del 12 dicembre 2023 ; nonché il Consiglio di Sicurezza, con la risoluzione S/RES/2712 (2023) del 15 novembre 2023 e la risoluzione S/RES/2720 (2023) del 22 dicembre 2023.
[2] Il riferimento è alle decisioni già citate nella nota precedente.
[3] “Hamas-Israel Conflict 2023: Frequently Asked Questions”, in cui si legge che “[t]he accusation of genocide against Israel is not only wholly unfounded as a matter of fact and law, it is morally repugnant”.
[4] “The War Against Hamas: Answering Your Most Pressing Questions”, in cui si legge “[t]he accusation of genocide against Israel is not only wholly unfounded as a matter of fact and law, it is morally repugnant” e che “[t]he accusation of genocide . . . is not just legally and factually incoherent, it is obscene” and that there was “no . . . valid basis, in fact or law, for the outrageous charge of genocide”.
[5] “Intentional failure of the Government of Israel to condemn, prevent and punish such genocidal incitement constitutes in itself a grave violation of the Genocide Convention”.
[6] “In situations of urban warfare, civilian casualties may be an unintended consequence of lawful use of force against military objects, and do not constitute genocidal acts”.
[7] Le dichiarazioni degli ufficiali israeliani riportate dal Sud Africa sarebbero “misleading at best” e “not in conformity with government policy”.
[8] "In any event, Israel contends, since the purpose of provisional measures is to preserve the rights of both parties, the Court must, in the present case, consider and “balance” the respective rights of South Africa and Israel. The Respondent emphasizes that it bears the responsibility to protect its citizens, including those captured and held hostage as a result of the attack that took place on 7 October 2023. As a consequence, it claims that its right to self-defence is critical to any evaluation of the present situation.”
[9] United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (OCHA), Hostilities in the Gaza Strip and Israel reported impact, Day 109 (24 Jan. 2024)
[10] “Gaza has become a place of death and despair. . . . Families are sleeping in the open as temperatures plummet. Areas where civilians were told to relocate for their safety have come under bombardment. Medical facilities are under relentless attack. The few hospitals that are partially functional are overwhelmed with trauma cases, critically short of all supplies, and inundated by desperate people seeking safety. A public health disaster is unfolding. Infectious diseases are spreading in overcrowded shelters as sewers spill over. Some 180 Palestinian women are giving birth daily amidst this chaos. People are facing the highest levels of food insecurity ever recorded. Famine is around the corner. For children in particular, the past 12 weeks have been traumatic: No food. No water. No school. Nothing but the terrifying sounds of war, day in and day out. Gaza has simply become uninhabitable. Its people are witnessing daily threats to their very existence — while the world watches on.” (OCHA, “UN relief chief: The war in Gaza must end”, Statement by Martin Griffiths, Under-Secretary-General for Humanitarian Affairs and Emergency Relief Coordinator, 5 Jan. 2024.)
[11] WHO, “Lethal combination of hunger and disease to lead to more deaths in Gaza”, 21 Dec. 2023; si veda anche World Food Programme, “Gaza on the brink as one in four people face extreme hunger”, 20 Dec. 2023.
[12] "In the past 100 days, sustained bombardment across the Gaza Strip caused the mass displacement of a population that is in a state of flux constantly uprooted and forced to leave overnight, only to move to places which are just as unsafe. This has been the largest displacement of the Palestinian people since 1948. This war affected more than 2 million people, the entire population of Gaza. Many will carry lifelong scars, both physical and psychological. The vast majority, including children, are deeply traumatized. Overcrowded and unsanitary UNRWA shelters have now become ‘home’ to more than 1.4 million people. They lack everything, from food to hygiene to privacy. People live in inhumane conditions, where diseases are spreading, including among children. They live through the unlivable, with the clock ticking fast towards famine. The plight of children in Gaza is especially heartbreaking. An entire generation of children is traumatized and will take years to heal. Thousands have been killed, maimed, and orphaned. Hundreds of thousands are deprived of education. Their future is in jeopardy, with far-reaching and long-lasting consequences.” (UNRWA, “The Gaza Strip: 100 days of death, destruction and displacement”, Statement by Philippe Lazzarini, Commissioner-General of UNRWA, 13 Jan. 2024).
[13] La Corte cita l’annuncio del 9 ottobre 2023 di Yoav Gallant, Ministro della Difesa israeliano.
[14] La Corte cita il discorso tenuto dal Ministro il giorno successivo, parlando alle truppe israeliane sul confine di Gaza: “I have released all restraints . . . You saw what we are fighting against. We are fighting human animals. This is the ISIS of Gaza. This is what we are fighting against . . . Gaza won’t return to what it was before. There will be no Hamas. We will eliminate everything. If it doesn’t take one day, it will take a week, it will take weeks or even months, we will reach all places.”
[15] La Corte cita il discorso del 12 ottobre 2023 di Isaac Herzog, presidente di Israele, in cui egli riferendosi a Gaza ha dichiarato: “We are working, operating militarily according to rules of international law. Unequivocally. It is an entire nation out there that is responsible. It is not true this rhetoric about civilians not aware, not involved. It is absolutely not true. They could have risen up. They could have fought against that evil regime which took over Gaza in a coup d’état. But we are at war. We are at war. We are at war. We are defending our homes. We are protecting our homes. That’s the truth. And when a nation protects its home, it fights. And we will fight until we’ll break their backbone.”
[16] La Corte riporta un tweet del 13 ottobre 2023 del seguente tenore: “We will fight the terrorist organization Hamas and destroy it. All the civilian population in [G]aza is ordered to leave immediately. We will win. They will not receive a drop of water or a single battery until they leave the world.”
[17] “In the Court’s view, the facts and circumstances mentioned above are sufficient to conclude that at least some of the rights claimed by South Africa and for which it is seeking protection are plausible. This is the case with respect to the right of the Palestinians in Gaza to be protected from acts of genocide and related prohibited acts identified in Article III, and the right of South Africa to seek Israel’s compliance with the latter’s obligations under the Convention”.
[18] La corte fa riferimento alla lettera del 6 dicembre 2023 del Segretario Generale delle Nazioni Unite al Consiglio di Sicurezza (United Nations Security Council, doc. S/2023/962, 6 Dec. 2023).
[19] La corte fa riferimento alla successiva lettera del 5 gennaio 2024: “[s]adly, devastating levels of death and destruction continue” (Letter dated 5 January 2024 from the Secretary-General addressed to the President of the Security Council, United Nations Security Council, doc. S/2024/26, 8 Jan. 2024). E ancora: “Every time I visit Gaza, I witness how people have sunk further into despair, with the struggle for survival consuming every hour.” (UNRWA, “The Gaza Strip: a struggle for daily survival amid death, exhaustion and despair”, Statement by Philippe Lazzarini, Commissioner-General of UNRWA, 17 Jan. 2024.)
[20] La Convenzione sul Genocidio “was manifestly adopted for a purely humanitarian and civilizing purpose”, since “its object on the one hand is to safeguard the very existence of certain human groups and on the other to confirm and endorse the most elementary principles of morality” (Reservations to the Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide, Advisory Opinion, I.C.J. Reports 1951, p. 23).
(Immagine: UN Photo/Shareef Sarhan, A Palestinian searches through rubble of his destroyed home hit by Israeli strikes in Towers Al-andaa - the northern Gaza Strip, 7 agosto 2014)
Presupposti dell’azione nei ricorsi avverso i codici di comportamento dei dipendenti pubblici: le diverse modalità di tutela degli interessi diffusi (nota a T.A.R. Lazio, Roma, sez. IV-ter, 27 ottobre 2023, n. 15978)
di Giacomo Biasutti
Sommario: 1. L’oggetto del contendere e le doglianze formulate nel ricorso; 2. La decisione del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio; 3. Sulla natura del Codice (o meglio, dei codici) di comportamento dei pubblici dipendenti; 4. Regolamenti, volizioni preliminari, interesse ad agire; 5. Alcuni spunti ricostruttivi sull’interesse all’impugnazione dei regolamenti ad opera delle associazioni di categoria; 6. Conclusioni
1. L’oggetto del contendere e le doglianze formulate nel ricorso
La Federazione Lavoratori della Conoscenza - CGIL impugnava avanti al T.A.R. per il Lazio[i] il decreto del Presidente della Repubblica n. 81 del 13 giugno 2023 recante modifiche al Codice di comportamento dei dipendenti pubblici[ii]. Nello specifico, l’oggetto del gravame erano gli art. 11-bis e 11-ter introdotti con il rimaneggiamento, afferenti, il primo, all’utilizzo delle tecnologie informatiche, il secondo, alla fruizione dei c.d. social media da parte dei pubblici dipendenti[iii].
I motivi di ricorso risultavano piuttosto variegati: si contestava l’omessa considerazione delle osservazioni rassegnate dal Consiglio di Stato in sede di parere obbligatorio preliminare sugli atti regolamentari[iv], l’omessa tipizzazione delle condotte individuate dal regolamento ai fini dell’ascrizione della responsabilità disciplinare e, infine, il contrasto delle norme regolamentari con i principi costituzionali generali afferenti alla libera espressione del pensiero[v]. In altri termini, sotto il profilo sostanziale, ad essere contestata era la possibilità che il regolamento generale garantisse margini di discrezionalità -in tesi eccessivamente ampi- in favore delle pubbliche amministrazioni nella definizione concreta delle ipotesi di illecito disciplinare, quasi a formare una sorta di norma -potenzialmente- afflittiva c.d. in bianco[vi].
2. La decisione del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
Nel prendere le mosse alla soluzione della questione giuridica ora sinteticamente individuata, il T.A.R. per il Lazio premette l’inquadramento normativo dell’atto sottoposto alla propria attenzione. Si tratta, infatti, di un c.d. regolamento attuativo delegato[vii] che ha l’obbiettivo di individuare in concreto gli obblighi minimi di diligenza, lealtà e, più in generale, buona condotta che debbono essere tenuti dai pubblici dipendenti[viii]. Nondimeno, il Tribunale precisa immediatamente che questa “specificazione” delle condotte non esaurisce la definizione dei comportamenti rilevanti dal punto di vista disciplinare. Infatti, proprio l’art. 54, d.lgs. n. 165/2001 e lo stesso d.P.R. n. 62/2013, art. 1, comma 2, prevedono un vero e proprio obbligo per le singole amministrazioni di dotarsi di un ulteriore codice di comportamento interno che integri quello nazionale alla luce delle specificità di ogni singolo apparato burocratico. In altri termini, il codice nazionale di comportamento costituisce la base minima e indefettibile rispetto all’individuazione dei doveri di lealtà dei dipendenti[ix] laddove le singole P.A. possono dettagliarne e “adeguarne” il contenuto in base alle rispettive esigenze. Con riguardo poi alle nuove tecnologie, l’inserimento di un articolato specifico è stato ritenuto dovuto, alla luce delle modifiche apportate dal d.l. n. 36/2022 all’art. 54 del T.U. pubblico impiego, ove si è inserito un comma 1-bis, a prevedere che i codici di comportamento contengano disposizioni precipue relative all’utilizzo degli strumenti informatici e dei mezzi di informazione[x].
Definita in questi termini l’architettura normativa, il T.A.R. trae le proprie conclusioni rispetto alla res litigiosa.
Anzitutto il d.P.R. viene definito solo un “punto di partenza” per le singole amministrazioni nella redazione dei propri codici di comportamento. La relativa integrazione ad opera delle P.A. non solo è consentita ma, anzi, è ritenuta obbligatoria siccome prescritta dal legislatore[xi]. Anzi, seppur tale eventualità non fosse prefigurata nel 2013, le nuove forme di lavoro agile che si sono sviluppate successivamente alla pandemia Covid-19[xii], renderebbero a dire del giudice ancor più necessario “conformare” le disposizioni generali alle modalità concrete di erogazione della prestazione lavorativa da parte dei pubblici dipendenti che utilizzano oggi le tecnologie informatiche per adempiere ai propri obblighi contrattuali.
Le prescrizioni di cui agli art. 11-bis e 11-ter, pertanto, forniscono un quadro generale che consenti di applicare anche ai nuovi mezzi utilizzati dai funzionari i generali principi di lealtà dei pubblici dipendenti all’ordinamento costituzionale. Proprio per tale ragione, le norme impugnate del novellato regolamento nazionale sono apparse al Tribunale di tale astrattezza e generalità da non poter essere considerate lesive in via diretta e immediata a danno della federazione sindacale ricorrente. Si tratterebbe, infatti, di una “volizione preliminare”, ovverosia di un atto di carattere programmatico generale privo come tale di valenza precettiva diretta[xiii].
Proprio riferimento specifico agli artt. 11-bis e 11-ter, infatti, si è ritenuto applicabile proprio quel meccanismo di integrazione necessaria operante allorquando il regolamento individui dei referenti minimi che debbono essere tradotti per mano delle singole amministrazioni sulla base della relativa struttura organizzativa. La stessa modalità di redazione delle norme, infatti, invita la singola P.A. a individuare previsioni di dettaglio (ad esempio laddove si rinvia alle modalità di firma dei messaggi di posta elettronica stabiliti dall’amministrazione di appartenenza del dipendente o laddove si impone a quest’ultima l’adozione di una social media policy).
Di converso, allora, non trova accoglimento la prospettazione della ricorrente, la quale affermava che proprio la genericità della formulazione normativa finisse con l’essere veicolo di abusi da parte delle singole amministrazioni, le quali sarebbero a loro volta rimaste libere di determinare il contenuto dei propri regolamenti in materia[xiv] senza referenti precisi. Afferma, infatti, il T.A.R. che nemmeno in tale prospettazione il regolamento avrebbe potuto essere fonte di danno per i lavoratori – singoli o raccolti in categoria – bensì solo ed eventualmente il regolamento attuativo illegittimo[xv], se non addirittura i singoli provvedimenti disciplinari. Ulteriormente, seppur in via implicita, il T.A.R. ha pure riscontrato l’assenza di alcuna disposizione che imponesse un maggiore dettaglio delle norme impugnate ad opera del regolamento nazionale[xvi].
Per tali ragioni quindi, il Tribunale Amministrativo Regionale, non ravvisando un interesse al ricorso della federazione dei lavoratori, ha dichiarato il ricorso inammissibile.
3. Sulla natura del Codice (o meglio, dei codici) di comportamento dei pubblici dipendenti
Il primo profilo di interesse nell’esaminare la pronuncia in rito è costituito dalla qualifica data al Codice di comportamento nazionale dei pubblici dipendenti. Si è infatti visto che lo stesso viene adottato con decreto del Presidente della Repubblica, sulla base dell’art. 17, l. n. 400/1988. In quanto tale esso è definito essere di natura regolamentare[xvii]. Si è trattato di una novità di non poco momento laddove, seppur inizialmente vi fossero norme di comportamento del pari adottate con d.P.R. (ci si riferisce al decreto 10 gennaio 1957, n. 3, c.d. Testo unico degli impiegati civili dello Stato[xviii]), successivamente il c.d. codice Cassese[xix] e il c.d. codice Bassanini[xx] erano stati invece adottati con semplice decreto ministeriale (o decreto della Presidenza del Consiglio dei ministrai), il che ne rendeva incerta la natura[xxi].
Tuttavia, stante l’attuale formulazione dell’art. 54, d.lgs. n. 165/2001[xxii], la giurisprudenza ha alfine chiarito che i codici adottati con d.P.R. trovano la propria “fonte e legittimazione in atti di normazione primaria”, risultando avere essi stessi natura normativa sub specie di regolamenti dell’esecutivo[xxiii]. Come tali essi presentano quei requisiti di generalità e astrattezza, in uno con l’assenza di motivazione[xxiv], tali da renderli non direttamente operanti ma da applicarsi invece attraverso atti attuativi – nella specie, provvedimenti disciplinari ove si tratti di violazione dei principi etici dei codici di comportamento ovvero ulteriori codici attuativi. Seguendo inoltre i referenti di cui all’Adunanza Plenaria 4 maggio 2012, n. 9, è invero agevole constatare che, nel caso di specie, le disposizioni regolamentari contengono la predefinizione astratta della disciplina di un numero di casi indefinito e non determinato nel tempo di procedimenti ed ipotesi disciplinari. Si tratta, dunque, anche dal punto di vista strutturale e sostanziale di prescrizioni generali e astratte, destinate a trovare applicazione indefinite volte, e per di più i relativi destinatari non sono individuabili né a priori né a posteriori.
Ciò implica un duplice livello di conseguenze in punto di tutela giurisdizionale. Da un lato, il regolamento di cui al d.P.R. n. 62/2013 non è atto di per sé autonomamente lesivo, donde impugnabile dal dipendente uti singuli. Dall’altro, esso è sindacabile nei modi con i quali si contesta la legittimità dei provvedimenti amministrativi con l’ulteriore conseguenza che lo stesso è sottratto al sindacato di costituzionalità in ragione della natura sua propria[xxv]. Esso, infatti, pur avendo funzione normativa, è atto formalmente e sostanzialmente amministrativo. Semmai, con riferimento a tale secondo profilo, è possibile un sindacato indiretto del regolamento, nella misura in cui questo presenti dei vizi che gli sono derivati dalla legge autorizzativa alla sua emanazione – ma questo è sindacato ben debole in molti casi, poiché le ipotesi di illegittimità si concentrano invece nelle modalità attuative minute che esulano (o meglio, specificano) delle disposizioni di legge giocoforza “imprecise”[xxvi].
Dal combinato disposto di tali elementi si deduce che questa tipologia di provvedimenti amministrativi risulterà impugnabile avanti al giudice amministrativo e, salvo casi particolari, solo quale atto presupposto di un provvedimento concretamente lesivo[xxvii]. Deriva, pertanto, già da tale preliminare inquadramento, la regola generale di non impugnabilità del codice di comportamento nazionale che troverebbe eccezione solamente ove quest’ultimo fosse direttamente lesivo – ad esempio nel caso in cui ammettesse sanzione disciplinare su di un ambito della vita del lavoratore che invece dovrebbe essere sottratta al potere di controllo datoriale. Si tratta tuttavia di ipotesi, se non di scuola, quantomeno piuttosto rare[xxviii]. Ciò si converte, in definitiva, non già in un vuoto di tutela, ma nel fatto che il singolo dipendente pubblico risulti sollevato dall’onere di impugnazione immediata del regolamento, siccome non lesivo[xxix].
Diversa questione, invece, attiene alla qualificazione dei codici di comportamento delle singole amministrazioni che, come visto, sono a dire del T.A.R. Lazio espressamente tenute ad integrare i contenuti del d.P.R. n. 62/2013 pur non essendo ammantate di un potere regolatorio generale come quello del Governo.
Ebbene, anche il codice etico interno della singola amministrazione presenta indubbi caratteri di astrattezza, pur mancando quelli di generalità in senso lato[xxx] – essendo il provvedimento destinato alla collettività individuata costituita dai dipendenti della singola P.A. Dunque, in buona sostanza, i principi affermati dalla sentenza in commento troveranno applicazione anche in questi casi, ritenendosi regola generale quella dell’assenza di onere di immediata impugnazione dei provvedimenti generali ad opera dei singoli salvo il caso di diretta lesione ad opera degli stessi di interessi meritevoli di tutela[xxxi].
Nondimeno, vi è un ulteriore aspetto dei codici adottati “a valle” che merita essere posto in luce, ossia il delicato rapporto che vi è per questi ultimi tra componente effettivamente disciplinare (in quanto normativa rispetto a comportamenti dei dipendenti) e le disposizioni che invece attengono più propriamente all’organizzazione degli uffici. Come sottolineato dalla giurisprudenza[xxxii], infatti, ove le previsioni trascendano le norme comportamentali, esse non hanno più a referente il d.P.R. n. 62/2013 e le disposizioni allo stesso presupposte[xxxiii], bensì si rapportano direttamente con le norme dell’ordinamento nel rispetto del principio di legalità sostanziale[xxxiv]. Pertanto, sulla base di questa distinzione, a valle, la singola previsione del codice etico adottato da ogni amministrazione potrà trovare censura, alternativamente, per violazione di legge ove attenente all’organizzazione, ovvero per eccesso di potere qualora si ritenga invece vi sia stato cattivo uso della discrezionalità residua in capo alla P.A. in attuazione del regolamento nazionale. Tanto, però, evidentemente a patto di ammettere che detti codici per così dire “derivati” possano effettivamente disciplinare anche aspetti organizzativi: diversamente, il solo fatto che vi siano norme di tal foggia contenute negli stessi li renderebbe ipso facto illegittimi[xxxv]. Invero, pur non recando una disposizione precisa in tal senso, l’art. 54, d.lgs. n. 165/2001, pare preludere alla possibilità che le norme del regolamento di comportamento incidano in via indiretta sull’organizzazione del lavoro dei dipendenti pubblici[xxxvi]: basti pensare, in tal senso e proprio in relazione all’oggetto specifico della pronuncia in commento, alla circostanza per cui il relativo comma 1-bis, stabilisce che il regolamento debba prescrivere le modalità di utilizzo delle risorse tecnologiche ed informatiche[xxxvii]. Diversamente opinando, peraltro, si finirebbe con il depotenziare eccessivamente la portata conformativa dei comportamenti dei dipendenti pubblici propria dei codici di condotta, che sta alla base di quell’obbiettivo di lotta alla corruzione che ha portato alla relativa adozione[xxxviii].
Insomma, se da un lato le regole circa l’interesse al ricorso sembrano chiare con riguardo ai codici di condotta, occorre tuttavia prestare particolare attenzione alle tipologie di norme negli stessi inserite poiché queste ultime non solo determinano il momento dell’insorgere dell’onere di impugnazione, ma individuano pure il referente di legittimità con il quale la disposizione censurata si rapporta.
4. Regolamenti, volizioni preliminari, interesse ad agire
Ulteriore interesse muove il termine utilizzato dal T.A.R. per il Lazio nel definire il codice nazionale di comportamento: volizione preliminare. Si tratta di una locuzione che ha radici risalenti[xxxix] ed è usata a livello di diritto amministrativo per gli atti privi di contenuto precettivo. La teoria distingue, infatti, tra volizioni preliminari, ossia atti di carattere programmatorio e astratto, dalle volizioni-azione, ovverosia provvedimenti di carattere puntuale direttamente incidenti su situazioni giuridiche soggettive individualmente determinate o determinabili. A valle, poi, questa distinzione trova contrappunto anche con riguardo ai regolamenti, nell’ambito dei quali, a loro volta, si distinguono regolamenti-volizioni preliminari e regolamenti-volizione-azione, dal contenuto specifico[xl].
Collaterale a questa distinzione, che, come visto, ha riverberi diretti in termini di interesse al ricorso, è la parallela questione in ordine alla possibile disapplicazione del regolamento ad opera del giudice amministrativo[xli]. In linea generale, infatti, la giurisprudenza esclude la possibilità di disapplicare i provvedimenti direttamente lesivi della sfera giuridica soggettiva del cittadino, poiché questi ultimi sono soggetti a obbligo di impugnazione[xlii]. Nondimeno, vista la distinzione nei termini ora precisati potrebbe farsi questione della possibilità di disapplicazione di un regolamento-volizione preliminare, in quanto atto non direttamente lesivo e non impugnabile. Questo, come sottolineato da autorevole dottrina[xliii], a maggior ragione ove il provvedimento in questione venga ad incidere su diritti soggettivi nei casi di giurisdizione esclusiva affidati al giudice amministrativo[xliv] poiché applicato da atti esecutivi. Tradizionalmente, infatti, l’ipotesi della disapplicazione in seno alla giurisdizione amministrativa viene rifiutata dalla giurisprudenza con l’unica eccezione del caso in cui si faccia questione della illegittimità di un atto amministrativo avente contenuto astratto e generale[xlv]. E questo perché utilizzare come referente di legittimità un atto illegittimo consentirebbe di propagare nell’ordinamento gli effetti distorsivi della relativa illegittimità[xlvi].
Ebbene questo potrebbe proprio essere un meccanismo di tutela applicabile alle vertenze inerenti ai codici di comportamento laddove, prevedendo ipotesi illegittime -quantomeno in tesi- di controllo o ingerenza sull’attività dei dipendenti pubblici, questi ultimi potrebbero potenzialmente incidere su posizioni di diritto soggettivo, ancorché in via derivata, con specifico riferimento ai procedimenti disciplinari[xlvii]. Altro campo elettivo nel quale può venire in rilievo la distinzione può essere pure quello interno al plesso amministrativo dei ricorsi gerarchici, ove tipicamente si spende potere discrezionale di merito e trovano applicazione regolamenti di carattere generale[xlviii]. Anche in questo caso, la possibilità di disapplicare il regolamento illegittimo potrebbe venire in rilievo. Qui però si dovrebbe ulteriormente superare lo scoglio costituito dalla natura non giurisdizionale dei ricorsi[xlix]: alle P.A. è preclusa la disapplicazione dei provvedimenti illegittimi[l]. Tuttavia, la questione si riproporrebbe tale e quale nel momento in cui si contestasse avanti al T.A.R. la decisione sul ricorso gerarchico operata in applicazione del regolamento illegittimo[li].
In questi termini, allora, il percorso ermeneutico che si è sopra proposto consente di ampliare ulteriormente il ventaglio di tutele del dipendente pubblico, sollevandolo dalla necessità di impugnazione diretta del regolamento laddove questo sia applicato in danno di diritti soggettivi, o comunque e più in generale, ogniqualvolta ci si trovi nell’alveo delle ipotesi ascritte alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo[lii] e consentendo l’ulteriore possibilità di disapplicazione successiva.
5. Alcuni spunti ricostruttivi sull’interesse all’impugnazione dei regolamenti ad opera delle associazioni di categoria
Pur non essendo un tema direttamente affrontato dalla pronuncia in commento, la sentenza del T.A.R. capitolino suggerisce ulteriori riflessioni circa l’interesse ad agire nei confronti dei regolamenti, in particolare declinando l’esame del presupposto dell’azione distinguendo tra posizione degli enti esponenziali e posizione dei singoli individui appartenenti alla categoria di dipendenti pubblici interessata dal provvedimento generale[liii].
Con riferimento, anzitutto, alla posizione del singolo, la giurisprudenza in buona sostanza ritiene che questo non abbia nella generalità dei casi una posizione realmente differenziata, come già visto supra. Il relativo interesse, allora, permane in senso proprio adespota, essendo uno degli innumeri potenziali destinatari dell’atto[liv] e necessita di concretarsi puntualmente onde trovare rilevanza giurisdizionale.
Queste considerazioni, tuttavia, non si riproducono sic et simpliciter allorquando ad impugnare il regolamento sia un soggetto esponenziale di interessi diffusi[lv]. Questa tipologia di soggetti giuridici, infatti, agglutinano l’interesse adespota elevandolo a interesse di categoria[lvi]: proprio per questo essi potenzialmente possono vantare legittimazione e interesse ad agire in via anticipata per il fatto di rappresentare una intera collettività che diviene destinataria del provvedimento[lvii]. Dunque, nel caso specifico delle associazioni di categoria, non vi è quella preclusione all’impugnazione[lviii] delle norme regolamentari -generali ed astratte- che invece opera ex ante per i singoli appartenenti alla categoria rappresentata[lix]. E questo perché, proprio sulla base dei recenti referenti della Corte di Cassazione[lx], limitare la tutela di categoria al solo momento della applicazione concreta -eventuale- del regolamento, si convertirebbe in buona sostanza nel rischio di vedere negata in via generalizzata la tutela della relativa posizione giuridica soggettiva[lxi].
Con queste premesse, quindi, lo spettro di indagine circa l’impugnabilità dei regolamenti e più in generale degli atti amministrativi non a contenuto puntuale, da parte degli enti esponenziali, si sposta piuttosto sulla reale omogeneità di interessi tutelati con l’azione. Ricordando infatti che la figura dell’ente esponenziale nasce nella giurisprudenza[lxii]quale veicolo di tutela delle posizioni adespote, si deve infatti concludere per l’assenza di interesse all’impugnazione laddove il regolamento crei una situazione di conflitto di interesse all’interno della categoria[lxiii] e non già soltanto in ragione del fatto che le relative disposizioni siano astratte e generali.
Ciò che si può concludere, pertanto, è che l’analisi preliminare su legittimazione e interesse a ricorrere avverso un atto amministrativo a contenuto generale -sub specie di un Codice di comportamento nel caso in esame- ha un diverso oggetto a seconda del soggetto che propone l’impugnazione. In caso di ricorso presentato ad opera di una associazione di categoria, infatti, l’indagine atterrà l’insussistenza di conflitto di interesse interno piuttosto che in linea diretta la sussistenza di una lesione giuridica ad un bene della vita determinato attraverso disposizioni puntuali contenuto nel regolamento[lxiv].
6. Conclusioni
La pronuncia in commento, ponendosi nel solco della giurisprudenza oramai consolidata nel campo dell’impugnazione degli atti amministrativi a contenuto normativo, sollecita diverse riflessioni in ordine a questioni processuali di carattere generale. Da un lato, infatti, vi è la valutazione dell’interesse a ricorrere rispetto al Codice di comportamento nazionale, ove in buona sostanza si conclude per la relativa non impugnabilità diretta da parte dell’associazione di categoria[lxv] - ma con riflessioni la cui portata esclude in effetti in apicibus la possibilità di impugnazione anche dei singoli dipendenti. Dall’altro, vi è la distinzione, che nella sentenza invero passa sotto traccia, da operarsi in ordine ai presupposti dell’azione con riferimento alla natura singola o collettiva del soggetto ricorrente.
Con riferimento al primo dei profili in parola, l’impossibilità di impugnare – o meglio, l’assenza di onere di impugnazione immediata – da parte dei singoli o dell’ente esponenziale è in realtà una soluzione che avvantaggia il cittadino, posto che gli consente sempre di contestare il provvedimento generale solo allorquando questo divenga per lo stesso realmente lesivo. Con riguardo, invece, alla impugnazione a opera delle associazioni di categoria, tuttavia, questo meccanismo non si riproduce in maniera lineare, poiché gli interessi tutelati non sono i medesimi del singolo dipendente. Infatti, la sigla sindacale tutela una categoria che può essere lesa nel suo complesso già da una volizione preliminare. La questione è risolta dalla pronuncia ritenendo “troppo astratte” le disposizioni contenuto nel codice persino per ledere interessi di classe, nondimeno il passaggio non è stato appieno sviscerato. E, comunque, la soluzione adottata dal T.A.R. per il Lazio può dirsi applicare una eccezione alla regola: la norma dovrebbe dirsi essere l’impugnabilità diretta degli atti normativi da parte delle associazioni.
Ciò onde non restringere eccessivamente la possibilità di tutela nelle azioni i classe.
Invero, v’è di contro da domandarsi se l’omessa impugnazione iniziale di disposizioni direttamente lesive per la classe abbia effetti preclusivi. Ossia se, una volta non impugnato inizialmente il regolamento lesivo, l’associazione di categoria si veda preclusa la possibilità di contestare successivamente il provvedimento, ovvero di intervenire ad adiuvandum[lxvi]nei contenziosi instaurati da singoli appartenenti alla classe tutelata dei dipendenti pubblici. Parrebbe infatti maggiormente coerente con la ricostruzione teorica operata dalla giurisprudenza in tema di lesività immediata degli interessi di categoria ritenere che questo effetto maturi. E, cionondimeno, allora, dovrebbe dirsi impedito anche l’intervento in giudizio del singolo appartenente alla categoria laddove quest’ultimo contesti proprio le norme che avrebbe avuto l’onere di impugnare[lxvii]. Tale meccanismo, tuttavia, rimetterebbe forse eccessivamente all’interpretazione del caso concreto la reale consistenza delle tutele garantite dall’ordinamento, con il rischio di creare disassamenti tra giudicati[lxviii]. Meglio allora dire che, effettivamente, la preclusione operi solo in via diretta per le impugnazioni autonome delle associazioni di categoria, lasciandole libere di aderire al contenzioso instaurato da altri e “giovandosi” della relativa tempestività[lxix]. E questo perché in tali giudizi esse non vantano una posizione autonoma “di categoria” ma si giovano di una situazione legittimante del dipendente che trova scaturigine nell’atto applicativo del regolamento.
Ulteriore tema che merita approfondimento è poi quello della possibile disapplicazione del regolamento disciplinare. Come visto, infatti, la giurisprudenza tende a ritenere disapplicabile il provvedimento normativo illegittimo solo entro il perimetro della giurisdizione esclusiva. Forse alla luce delle mutate linee di tendenza della giurisdizione amministrativa[lxx], sempre più rivolta alla garanzia dell’effettività della tutela, detto perimetro applicativo potrebbe essere oggi ripensato. Invero, la sua radice si riconnette alla circostanza per cui applicare un atto normativo sostanzialmente illegittimo comporta il propagarsi della relativa illegittimità – dacché tale propagazione si estende un numero indeterminato di volte, data la natura generale ed astratta dell’atto. Ecco, quindi, che dedurre l’intangibilità dell’atto per chi non lo abbia tempestivamente impugnato precludendone ulteriormente la disapplicazione[lxxi]porterebbe ad una diminuzione della possibilità di tutela in effetti difficilmente compatibile con quelle stesse ragioni che portano la giurisprudenza a consentire l’impugnazione del regolamento-volizione preliminare solo in uno con l’atto applicativo[lxxii]. E, ulteriormente, vi è poi da domandarsi, ulteriormente, se il sistema di disapplicazione sia sempre precluso alle associazioni di categoria, che, come visto, vantano la possibilità di impugnazione diretta dei regolamenti. Ebbene, anche qui pure alla luce della recente evoluzione giurisprudenziale[lxxiii], non paiono esservi ragioni ostative generalizzate che consentano di ridurre il perimetro di tutela sulla base della soggettività giuridica del ricorrente.
Insomma, l’impugnazione degli atti amministrativi a contenuto normativo -sub specie di codice di comportamento- si rapporta con diverse questioni giuridiche che, ancorché meno “apparenti” ad una prima lettura, chiamano l’interprete a interrogarsi sulla perdurante effettività del consolidato sistema di tutela approntato dalla giustizia amministrativa. La sintesi raggiunta concentrando l’attenzione sulla posizione del dipendente pubblico, con l’affacciarsi nel processo con sempre maggior prepotenza delle zioni di classe, merita forse alcuni interventi manutentivi, onde consentire la piena esplicazione di quel principio di effettività che è oggi l’architrave su cui si regge -e il metro con cui si misura- l’architettura processuale[lxxiv].
[i] Come noto, il Tribunale Amministrativo Regionale capitolino ha competenza quanto al sindacato degli atti amministrativi che producono i propri effetti sull’intero territorio statale ai sensi dell’art. 13 c.p.a. Cfr. C. Guacci, La competenza nel processo amministrativo, Torino, 2018 eM.M. Fracanzani, La competenza per territorio, materia e grado del giudice amministrativo. Il regolamento di competenza, in G.P. Cirillo (a cura di), Il nuovo diritto processuale amministrativo, Milano, 2014, pag. 245 ss. nonché, quanto ai profili strutturali dell’assetto di competenze, Corte costituzionale, 18 giugno 2007, n. 237, con commento di F. De Leonardis, La Corte costituzionale accresce la competenza territoriale del Tar Lazio: verso un nuovo giudice centrale dell’emergenza?, in Diritto processuale amministrativo, II, 2008, pag. 476 e ss.
[ii] Regolamento adottato, giusta d.P.R. 16 aprile 2013, n. 62, a norma dell’art. 54 del d.lgs. n. 165/2001, c.d. Testo unico sul pubblico impiego. Per un inquadramento generale su detto regolamento si veda S. Cimini – C. Bozzi, L’evoluzione del codice di comportamento dei pubblici dipendenti e l’incerta valenza delle sue violazioni, in AmbienteDiritto, IV, 2021, oltre a R. Caridà, Codice di comportamento dei dipendenti pubblici e principi costituzionali, in Federalismi.it, XXV, 2016, B.G. Mattarella, Le nuove regole di comportamento dei pubblici funzionari, Relazione al IX Convegno di studi amministrativi di Varenna, 19-21 settembre 2013, in Astrid online, 2014, F. Merloni, Codici di Comportamento, in AA.VV., Libro dell’anno del Diritto, Roma, 2014, AA.VV., Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, Milano, 2005, C. Gegoratti – R. Nunin, I codici di comportamento, in F. Carinci – L. Zoppoli (a cura di), Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, Torino, 2004 e E. Carloni, Ruolo e natura dei c.d. “codici etici” delle amministrazioni pubbliche, in Diritto Pubblico, I, 2002.
[iii] Come si avrà meglio modo di specificare, l’idea di fondo di entrambe le disposizioni era quella di limitare l’utilizzo delle apparecchiature elettroniche pubbliche nella disponibilità del dipendente per i soli fini istituzionali, da un lato, e impedire che le opinioni espresse nell’“agorà digitale” dal dipendente risultassero riferibili alla – o comunque andassero in danno all’immagine della – pubblica amministrazione di appartenenza. Invero, le tematiche attinenti all’utilizzo degli strumenti digitali ad opera dei pubblici dipendenti sono salite da tempo all’onore delle cronache tanto che in diverse occasioni anche la dottrina, nell’incertezza applicativa delle regole disciplinari, aveva auspicato un intervento chiarificatore da parte del legislatore. Ad esempio, sul punto, si veda R, Panariello, La pubblica amministrazione ai tempi della rete tra codice di comportamento, etica pubblica e “galateo social dei dipendenti”: verso una nuova codificazione. Osservazioni e proposte, in Expact.unipg.it. In linea più generale, in ogni caso, E. Carloni, Il nuovo Codice di comportamento ed il rafforzamento dell’imparzialità dei funzionari pubblici, in Istituzioni del federalismo, II, 2013, aveva già al tempo dell’adozione dell’originario d.P.R. n. 62/2013 riconosciuto come i “Codici di comportamento sin qui adottati ... non hanno giocato un ruolo significativo nella ricostruzione dell’etica del funzionario pubblico o nella riduzione dei fenomeni di corruzione, ma neppure, più semplicemente, nell’interiorizzazione di obblighi e valori inerenti all’esercizio di funzioni pubbliche”, pag. 390, cit.
[iv] Laddove l’art. 17 della legge n. 400/1988 prevede invece specificamente che i regolamenti vengano adottati con d.P.R. sentito il Consiglio di Stato.
[v] Nell’evidenza che detti principi generali dovessero trovare applicazione indistinta anche ai pubblici dipendenti in regime privatizzato – come sono coloro i quali soggiacciono al codice di comportamento oggetto del contendere. Cfr. V. Tenore, La libertà di pensiero tra riconoscimento costituzionale e limiti impliciti ed espliciti: gli argini normativi e giurisprudenziali per giornalisti, dipendenti pubblici (e privati) e magistrati nell’uso dei social media, in Rivista Corte dei conti, I, 2019.
[vi] Tale espressione, utilizzata specialmente nell’ambito delle discipline penalistiche, indica quelle disposizioni che completano il proprio contenuto precettivo facendo riferimento ad altre fonti normative dell’ordinamento. Cfr. ex multis, D. Castronuovo, Clausole generali e prevedibilità delle norme penali, in Questione giustizia, IV, 2018, M. Papa, Dal codice penale “scheumorfico” alle playlist. Considerazioni inattuali sulla principio della riserva di codice, in Diritto penale contemporaneo, V, 2018, pag. 129 e ss., L. Riscato, Gli elementi normativi della fattispecie penale, in Studium iuris, I, 2005, pag. 159 e ss., G. Fiandaca, voce Fatto nel diritto penale, in Digesto delle discipline penalistiche, V, Torino, 1991, pag. 152 e ss., F. Palazzo, Tecnica legislativa e formulazione della fattispecie penale in una recente circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri, in Cassazione penale, I, 1987, pag. 230 e ss., G. Amato, Sufficienza e completezza della legge penale, in Giurisprudenza costituzionale, II, 1964, pag. 494 e ss., nonché in giurisprudenza, parimenti ex multis, Cass. pen., sez. IV, 29 gennaio 2013 e C. cost., 30 gennaio 2009, n. 2.
[vii] Tale essendo la categoria che ricomprende quei regolamenti che possono essere adottati per espressa previsione normativa al fine di dare concreta attuazione alle disposizioni di legge. In questi termini classifica proprio gli atti normativi adottati ai sensi dell’art. 17 sub lett. a), l. n. 400/1988, A. Romano Tassone, Le normazione secondaria. I regolamenti, in L. Mazzarolli – G. Pericu – A. Romano – F.A. Roversi Monaco – F.G. Scoca (a cura di), Diritto amministrativo, Milano, 1993, pag. 202.
[viii] E che sono, più in generale, espressione di quell’obbligo di fedeltà alla Nazione che è previsto in via generale già all’art. 54 della Costituzione, come sottolineato da B.G. Mattarella, I doveri di comportamento dei dipendenti pubblici, in F. Merloni – L. Vandelli (a cura di), La corruzione amministrativa. Cause, prevenzione e rimedi, Passigli, 2010. L’Autore, in particolare, mette in evidenza “Un’ulteriore area di doveri dei funzionari pubblici” che, nello specifico, “attiene alla cura dell’immagine esterna dell’amministrazione. Questi doveri possono esplicarsi in regole inerenti ai rapporti con i cittadini, ai rapporti con la stampa e anche alla vita privata. La loro violazione può non essere sanzionata, ma può anche essere sanzionata pesantemente, come dimostrato dalla giurisprudenza della Corte dei conti in materia di responsabilità per danno all’immagine dell’amministrazione”. È proprio in questa specifica sfera di doveri del pubblico funzionario che si concentrano le modifiche in ultimo operate al codice di comportamento dei pubblici dipendenti oggetto del contendere. In punto vedasi anche R. Rordorf, L’art. 54 della Costituzione, in La magistratura, 22 aprile 2022.
[ix] In questi termini, peraltro, l’ANAC, con delibera n. 75/2013 di adozione delle Linee guida in materia di codici di comportamento delle pubbliche amministrazioni (art. 54, comma 5, d.lgs. n. 165/2001), ha chiarito il rapporto tra regolamento nazionale di comportamento e codici di comportamento adottati dalle singole amministrazioni.
[x] Dacché, correlativamente, il T.A.R. ha ritenuto che le modifiche apportate al d.P.R. n. 62/2013 dal regolamento impugnato avessero il preciso scopo di dare attuazione a questa previsione di legge. Questa porzione del ragionamento costituisce già di per sé, come si vedrà, la radice della motivazione della sentenza in commento.
[xi] In questi termini, infatti, si ritiene che l’individuazione di doveri “minimi” preluda necessariamente alla necessità di integrare gli stessi ad opera delle singole amministrazioni con ulteriori precisazioni contenutistiche rispetto alle condotte dei propri dipendenti.
[xii] S. Cairoli, Lavoro agile alle dipendenze della pubblica amministrazione entro ed oltre i confini dell’emergenza epidemiologica, in Lavoro, diritti, Europa, I, 2021, sottolinea in particolare la necessità da parte del datore di lavoro pubblico di individuare ed indicare al lavoratore in maniera puntuale quelli che sono i contenuti della prestazione lavorativa resa da remoto. Questo, con il duplice obbiettivo di consentirne la produttività valutandone a valle i risultati e di mantenere una disciplina del rapporto che abbia requisiti di ragionevole certezza e obbiettività anche nell’eventualità di una contestazione di possibili inadempimenti ad opera del lavoratore. Vedasi anche, sul tema, M. Alessi – M. L. Vallauri, Il lavoro agile alla prova del Covid-19, in O. Bonardi – U. Carabelli – M. D’Onghia – L. Zoppoli (a cura di), Covid-19 e diritti dei lavoratori, Roma, 2020, M. Martone (a cura di), Il lavoro da remoto. Per una riforma dello smart working oltre l’emergenza, Piacenza, 2020 e A. Pileggi (a cura di), Il diritto del lavoro dell’emergenza epidemiologica, Roma, 2020.
[xiii] Il riferimento operato dalla pronuncia in commento è alla sentenza Cons. St., sez. III, 10 luglio 2020, n. 4464. Detta ultima decisione, a sua volta, fa riferimento a Cons. Stato, Sez. IV, 14 febbraio 2005, n. 450 nel distinguere “tra due categorie di atti regolamentari: da un lato, gli atti contenenti solo ‘volizioni preliminari’, cioè statuizioni di carattere generale, astratto e programmatorio, come tali non idonee a produrre una immediata incisione nella sfera giuridica dei destinatari; dall’altro, gli atti regolamentari denominati ‘volizione – azione’, i quali contengono, almeno in parte, previsioni destinate ad una immediata applicazione e quindi, come tali, capaci di produrre un immediato effetto lesivo nella sfera giuridica dei destinatari”. Cfr. E. Furno, La disapplicazione dei regolamenti alla luce dei più recenti sviluppi dottrinari e giurisprudenziali, in Federalismi.it, II, 2017 nonché N. Lupo, Dalla legge al regolamento. Lo sviluppo della potestà normativa del governo nella disciplina delle pubbliche amministrazioni, Bologna, 2003, pag.127 e ss.
[xiv] In altri termini, l’associazione sindacale si doleva dell’assenza di referenti minimi per le P.A. circa i contenuti dei propri regolamenti di comportamento. In mancanza di tali limiti positivi e negativi, dunque, si sarebbe ipso facto avallato l’arbitrio delle amministrazioni locali.
[xv] La pronuncia, in questa porzione motiva, segue pertanto lo schema che impone l’impugnazione del regolamento generale in uno con l’atto applicativo, ossia con quel provvedimento che, direttamente lesivo per la sfera giuridica soggettiva del destinatario, ne instilla l’interesse a ricorrere. Così chiarisce in particolare il rapporto tra atti presupposti e provvedimenti attuativi R. Bin - G. Pitruzzella, Le fonti del diritto, Torino, 2012, pag.224. Vedasi anche sul punto, ex multis, G. Morbidelli, La disapplicazione dei regolamenti nella giurisdizione amministrativa, in “Impugnazione” e “disapplicazione” dei regolamenti, in Atti del convegno organizzato dall’ufficio studi e documentazioni del Consiglio di Stato e dall’Associazione studiosi del processo amministrativo(Roma, Palazzo Spada, 16 maggio 1997), in Quaderni del Consiglio di Stato, III, Torino, 1998, pag.28 e ss.
[xvi] Poiché, in caso contrario, evidentemente si sarebbe del pari potuta postulare l’illegittimità del regolamento perché avrebbe omesso la disciplina minima imposta dalla legge.
[xvii] Vedasi C. Benussi, Il codice di comportamento dei dipendenti pubblici ha ora natura regolamentare in Diritto penale contemporaneo, 18 giugno 2013.
[xviii] Nello specifico, ci si riferisce al relativo art. 13.
[xix] D.m. 31 marzo 1994, adottato in specifica applicazione dell’art. 58-bis, d.lgs. n. 29/1993, il quale, a sua volta, all’art. 58-bis consentiva alla Presidenza del Consiglio dei ministri l’adozione di un codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, “anche in relazione alle necessarie misure organizzative da adottare al fine di assicurare la qualità dei servizi che le dette amministrazioni rendono ai cittadini”.
[xx] D.P.C.m. 28 novembre 2000.
[xxi] Con riferimento a questi ultimi, vedasi l’analisi critica operata da E. Carloni, Ruolo e natura dei c.d. "codici etici" delle amministrazioni pubbliche, in Diritto pubblico, I, 2002, pag. 319 e ss., il quale concludeva per la natura cogente quale fonte normativa comportamentale dei codici di comportamento per i dipendenti pubblici. Ancor prima, vedasi pure B.G. Mattarella, I codici di comportamento, in Rivista giuridica del lavoro, I, 1996, pag. 275 e ss.
[xxii] Esitante dalla riscrittura dell’articolo operata dalla c.d. legge anticorruzione, l. n. 190/2012.
[xxiii] Così, in ultimo, Corte di Cassazione civile, sez. IV-lavoro, 9 maggio 2018, n. 11160. La pronuncia risulta inoltre di particolare interesse laddove stabilisce un principio di stretta specialità tra i diversi codici di comportamento adottati con decreto del Presidente della Repubblica – dunque formalmente equiordinati nella gerarchia delle fonti di diritto. In tali casi gli Ermellini hanno affermato sussistere un principio di prevalenza della regola etica speciale a prescindere dalla eventuale precedenza cronologica del codice settoriale rispetto a quello nazionale del 2013.
[xxiv] In applicazione dell’eccezione generalizzata di cui all’art. 3, l. n. 241/1990, come sottolineato da C. Deodato, La motivazione della legge. Brevi considerazioni sui contenuti della motivazione degli atti normativi del Governo e sulla previsione della sua obbligatorietà, in Federalismi.it, XXII, 2014, ove l’Autore afferma peraltro come gli atti normativi si giustificano di per sé nella misura in cui sono espressione della volontà democratica dell’organo rappresentativo -dunque investito della funzione attraverso il mandato popolare- che li emana. Vedasi anche sul tema V. Crisafulli, Sulla motivazione degli atti legislativi, in Rivista di diritto pubblico e della pubblica amministrazione in Italia, I, 1937, pag. 415 e ss., nonché A. Romano Tassone, Sulla c.d. “funzione democratica” della motivazione degli atti dei pubblici poteri, in A. Ruggieri (a cura di), La motivazione delle decisioni della Corte costituzionale, Torino, 1994.
[xxv] In punto corre utile il riferimento a M. Massa, Le zone d’ombra della giustizia costituzionale: i regolamenti dell’esecutivo, in Astrid online, ove in particolare l’Autore richiama il fatto che la decisione di non sottoporre i regolamenti dell’esecutivo al sindacato giurisdizionale fu ben consapevole, ricordando in particolare il pensiero di P. Calamandrei che si volle espressamente distaccare dal modello di giustizia costituzionale austriaca, nel quale, invece, i regolamenti erano espressamente impugnabili avanti alla Corte costituzionale.
[xxvi] È questa, infatti, come si è visto la forma strutturale di redazione delle c.d. norma in bianco.
[xxvii] Come sottolineato, tra gli altri, da E. Carloni, op. cit., infatti, la natura normativa e cogente del regolamento di comportamento fa sì che quest’ultimo non possa essere disapplicato dall’amministrazione, costituendo di contro un atto per la stessa pienamente vincolante. In questi termini, dunque, esso deve considerarsi atto presupposto alla sanzione disciplinare e, dunque, esso dovrebbe essere impugnato a pena di inammissibilità della contestazione della sanzione medesima.
[xxviii] Ad esempio, ci si riferisce alla caso in cui dall’applicazione del regolamento derivino automatismi procedimentali che rendano vincolata l’attività amministrativa a valle, come sottolineato da Cons. St., sez. IV, 13 febbraio 2020, n. 1159. Vedasi anche, con riferimento alla metodica giurisdizionale dell’impugnabilità congiunta del regolamento con i singoli atti che ne facciano applicazione, Cons. St., sez. V, 7 ottobre 2016, n. 4130, 6 maggio 2015, n. 2260, e sez. VI, 29 marzo 1996, n. 512
[xxix] Così si realizza una sintesi tra quel principio di effettività della tutela che è cardine del sistema processuale amministrativo a partire dai principi stabiliti nel d.lgs. n. 104/2010, come sottolineato da G.P. Cirillo, I principi generali del processo amministrativo, in G.P. Cirillo (a cura di), Il nuovo diritto processuale amministrativo, Milano, 2014, pag. 15 e ss., ed un principio di economicità ed efficienza della funzione giurisdizionale che vuole evitare l’inutile esercizio della giurisdizione laddove non vi sia una lesione effettiva della posizione giuridica soggettiva del cittadino. Vedasi in punto anche M. Comoglio, Il principio di economia processuale, Padova, 1982 e, con specifico riferimento alla dottrina amministrativistica, G. Virga, Integrazione della motivazione nel corso del giudizio e tutela dell’interesse alla legittimità̀ sostanziale del provvedimento impugnato, in Diritto processuale amministrativo, IV, 1993, pag. 507 e ss., L. Iannotta, La considerazione del risultato nel giudizio amministrativo: dall’interesse legittimo al buon diritto, in Diritto processuale amministrativo, I, 1998, pag. 299 e ss., A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, Torino, 2000, in specie pag. 225 e R. Giovagnoli, Effettività della tutela e atipicità delle azioni nel processo amministrativo, Relazione al convegno “Giustizia amministrativa e 182 crisi economica”, Roma, 25-26 settembre 2013, in Giustamm.it, IX, 2013.
[xxx] Cfr. S. Neri, Il rilievo giuridico dei codici di comportamento nel settore pubblico in relazione alle varie forme di responsabilità dei pubblici funzionari, in Amministrazione in cammino, 18 ottobre 2016. In particolare, l’Autore sottolinea come la codificazione delle norme comportamentali abbia riportato la valutazione disciplinare dei dipendenti delle P.A. nell’alveo del diritto pubblico. Tale pensiero, peraltro, riprende quanto affermato da B.G. Mattarella, La prevenzione della corruzione in Italia, in Giornale di diritto amministrativo, II, 2013, pag. 123 e ss.
[xxxi] Nondimeno, si può però ulteriormente specificare che i codici delle singole amministrazioni, precisando le previsioni del d.P.R. n. 62/2013, verosimilmente verteranno con più frequenza in ipotesi ove potenzialmente potrebbero generarsi delle lesioni dirette, ad esempio laddove si limitino diritti sindacali o si impongano adempimenti puntuali ai dipendenti imponendo agli stessi aggravi di oneri nell’espletamento della prestazione lavorativa.
[xxxii] Cfr. T.A.R. per il Lazio, sede di Roma, sez. II-quater, 10 agosto 2017, n. 9289.
[xxxiii] Ossia, in altri termini, un eventuale sindacato sul codice non riguarda il rispetto dei limiti della discrezionalità concessa alla singola amministrazione in attuazione delle previsioni generali del regolamento nazionale.
[xxxiv] Nello specifico, la precitata sentenza del T.A.R. Lazio, n. 9289/2017, precisa ad esempio, nell’esaminare una disposizione che riguardava l’affidamento degli incarichi dirigenziali contenuta nel codice etico adottato dall’allora Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, che “Propriamente parlando, la disposizione in questione - per questa parte - non si colloca nell’area delle regole di comportamento, ma nell’ambito della materia dell’organizzazione e della provvista degli uffici, che postula l’applicazione del principio di legalità (art. 97 Cost.)”.
[xxxv] Verosimilmente per violazione di legge derivante direttamente dal d.P.R. n. 62/2013 e indirettamente a monte dall’art. 54 del d.lgs. n. 165/2001.
[xxxvi] Tanto, peraltro, in analogia a quanto in allora previsto dall’art. 58-bis, d.lgs. n. 29/1993, in attuazione del quale è stato adottato il primo codice di comportamento di cui al d.m. 31 marzo 1994. Tale disposizione, infatti, correlava espressamente le previsioni di cui al codice di comportamento con le misure organizzative della P.A.
[xxxvii] Si tratta, per vero, di una disposizione che pare andare ad impingere in maniera piuttosto evidente nelle modalità concrete di svolgimento della prestazione lavorativa.
[xxxviii] Si deve infatti ricordare che il d.P.R. n. 61/2013 è stato introdotto a seguito delle modifiche operate al d.lgs. n. 165/2001 ad opera della c.d. legge anticorruzione, n. 190/2012. Sul punto, funditus, B.G. Mattarella, La prevenzione, op. cit., nonché Il diritto dell'onestà. Etica pubblica e pubblici funzionari, Bologna, 2007, ove l’Autore sottolinea in particolare il possibile ruolo centrale dei codici di comportamento all’interno del novero complessivo degli strumenti approntati dal legislatore per combattere il malcostume e i fenomeni corruttivi.
[xxxix] Per tutti, cfr. A. Romano, Osservazioni sull’impugnativa dei regolamenti della pubblica amministrazione, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, IV, 1956, pag. 870 e ss. .Più recentemente vedasi pure F. Cintioli, Potere regolamentare e sindacato giurisdizionale. Disapplicazione e ragionevolezza nel processo amministrativo sui regolamenti, Torino, 2005.
[xl] Utile in punto ricordare quanto affermato da T.A.R. per la Puglia, sede di Bari, sez. I, 27 luglio 2016, n. 988, e cioè che “Da un lato gli atti contenenti solo “volizioni preliminari”, cioè statuizioni di carattere generale, astratto e programmatorio, come tali non idonei a produrre una immediata incisione nella sfera giuridica dei destinatari; detta tipologia di regolamenti andrà impugnata necessariamente assieme ai relativi atti applicativi (cd. tecnica della doppia impugnazione). Dall’altro, gli atti regolamentari denominati “volizione – azione”, i quali contengono, almeno in parte, previsioni destinate ad una immediata applicazione e quindi, come tali, capaci di produrre un immediato effetto lesivo nella sfera giuridica dei destinatari; gli stessi devono essere gravati immediatamente, a prescindere dalla adozione di atti applicativi. Sul punto, Cons. Stato, Sez. IV, 14 febbraio 2005, n. 450 parimenti distingue i “ … regolamenti c.d. volizioni preliminari, che, caratterizzati da requisiti di generalità e astrattezza, contengono previsioni normative astratte e programmatiche, che non si traducono in una immediata incisione della sfera giuridica del destinatario, a nulla rilevando che ciò possa accadere in futuro, e i regolamenti c.d. volizioni-azioni, che contengono, almeno in parte, previsioni destinate alla immediata applicazione, in quanto capaci di produrre un immediato effetto lesivo della sfera giuridica del destinatario””. In questo tipo di provvedimenti, pertanto, l’amministrazione dispone direttamente la produzione di un preciso effetto giuridico al verificarsi dei presupposti dell’atto generale, come chiarito da G. Carcaterra, Norme giuridiche e valori etici. Saggi di filosofia del diritto, Roma, 1991, in specie pag. 99 e ss.
[xli] È, infatti, noto che il giudice ordinario disapplica gli atti amministrativi illegittimi, non avendo il potere di annullarli. Più dibattuta, invece, è la sussistenza di analogo potere in capo al giudice amministrativo, posto che quest’ultimo può agire direttamente sul provvedimento attraverso il proprio potere annullatorio. Cfr. S. Perongini, La disapplicazione e le invalidità che ne costituiscono il presupposto, in AA. VV., Scritti per Franco Gaetano Scoca, Napoli, 2020, pag. 3999 e ss. e V. Domenichelli, Giurisdizione esclusiva e disapplicazione dell’atto amministrativo invalido, in Jus, I, 1983, pag. 162 e ss.
[xlii] In questi termini Cons. Stato, sez. III, 10 luglio 2020, n. 4464, nonché T.A.R. per l’Abruzzo, sede dell’Aquila, sez. I, 6 dicembre 2021 n. 543. In dottrina vedasi invece R. Dipace, La disapplicazione nel processo amministrativo, Torino, 2011
[xliii] F. Cintioli, Potere regolamentare, op. cit., nonché, del medesimo Autore, vedasi la voce Disapplicazione, in Enciclopedia del diritto, Milano, 2010, pag. 295 e ss.
[xliv] Sulla base di un ragionamento definito “di tipo analogico” da F. Follieri, Disapplicazione dell’atto amministrativo e giudicato, in P.A. – Persona e amministrazione, I, 2022, pag. 103, cit. Tanto perché, come noto, l’ascrizione di una materia alla cognizione esclusiva del giudice amministrativo non potrebbe riconvertirsi in una diminuzione degli strumenti di tutela garantiti al cittadino. Per tale ragione, quindi, al giudice speciale debbono essere, in tali casi, garantiti i medesimi poteri riconosciuti al giudice proprio dei diritti (quello ordinario). Cfr. G.P. Cirillo, op. cit.
[xlv] Sul punto, ancora, F. Follieri, op. cit., pag. 104, cit.
[xlvi] Dunque, sebbene inizialmente solo per rigettare i motivi di ricorso – cfr. Cons. Stato, sez. V, 26 febbraio 1992 n. 194 – la giurisprudenza ha alfine ammesso la possibilità di disapplicazione del regolamento illegittimo onde non doverlo utilizzare per saggiare la legittimità di provvedimenti dello stesso applicativi o rispetto ai quali lo stesso è presupposto.
[xlvii] Questioni analoghe, tuttavia, si avrebbero nel caso in cui il provvedimento fosse suscettibile di incidere sull’organizzazione amministrativa del pari in applicazione di disposizioni non conformi a norma. Anche in questo caso, potenzialmente, si avrebbero provvedimenti amministrativi di organizzazione – che a loro volta non dovrebbero essere motivati a mente dell’art. 3, l. n. 241/1990 – che potrebbero riverberare sulla posizione lavorativa del dipendente pubblico, dunque sulla sua sfera di diritto soggettivo.
[xlviii] Un esempio tipico è costituito dalle c.d. valutazioni caratteristiche dei graduati delle forze armate, che sono le valutazioni applicate in determinati casi al contegno in servizio dei militari. In questi casi, infatti, è generalmente ammessa la possibilità di contestare la valutazione attraverso i ricorsi amministrativi gerarchici propri. Cfr. R. Balduzzi, “Principio di legalità̀ e spirito democratico nell’ordinamento delle Forze Armate”, Milano, 1988, F. Bassetta, Il pubblico impiego militare, in Quaderni della Rassegna dell’Arma dei Carabinieri, III, suppl. VI. 2003 e P. Carrozza, La giurisdizione amministrativa e le procedure di avanzamento, in Rassegna dell’Arma dei Carabinieri, III, 2003.
[xlix] Vedasi E. Tamburrino, I ricorsi amministrativi ordinari, in G.P. Cirillo (a cura di), Il nuovo diritto processuale amministrativo, Milano, 2014, pag. 1487 e ss. e A. De Roberto, La tutela avverso l’atto non definitivo, in Studi in onore di N. Papaldo, Milano, 1975, pag. 327 e ss.
[l] Per tutti, cfr. T.A.R. per la Puglia, sede di Lecce, 27 novembre 2020, n. 1321, ove il giudice chiarisce che il potere di disapplicazione degli atti aventi carattere normativo è onere dell’apparato giurisdizionale e non costituisce invece obbligo ascrivibile alla P.A.
[li] Invero, avanti al plesso giurisdizionale non possono essere elevate contestazioni diverse ed ulteriori rispetto a quelle decise attraverso il ricorso gerarchico, come già anticipato da S. Cassarino, Rapporti tra ricorsi amministrativi e ricorso giurisdizionale, in Foro amministrativo, II, 1975, pag. 83 e ss.
[lii] Cfr. nello specifico F. Sciarretta, Giurisdizione amministrativa 'esclusiva' nella tutela dei diritti soggettivi nei confronti delle pubbliche amministrazioni, in Federalismi.it, III, 2018, il quale sottolinea l’importanza del compito del giudice amministrativo alla luce dell’aumento esponenziale dei casi di giurisdizione esclusiva negli anni, che ha riguardato in maggiormente diritti particolarmente sensibili e “strategici” per l’ordinamento. Vedasi anche R. Rordorf, Pluralità delle giurisdizioni ed unitarietà del diritto vivente: una proposta, in Foro italiano, V, 2017, pag. 123 e ss., ove in particolare l’Autore afferma che il giudice amministrativo è oramai divenuto giudice di tutela piena dei diritti nelle materia a lui affidate alla pari del giudice ordinario.
[liii] Avviene, peraltro, sovente, che all’associazione esponenziale – spesse volte si tratta di una sigla sindacale, come nel caso oggetto della pronuncia in commento – si associno quali ricorrenti uno o più soggetti persone fisiche direttamente interessati dal provvedimento, al fine di garantire non vi siano pronunce in rito per difetto di legittimazione ad agire. Alternativamente, ove il ricorso sia attivato dalla persona fisica, può esservi il caso in cui l’associazione presenti invece un intervento ad adiuvandum nel corso del processo. Nondimeno, in questi casi, si deve porre attenzione a possibili posizioni di conflitto di interessi trattandosi di contenziosi cumulativi dal punto di vista soggettivo, laddove la giurisprudenza ha in particolare avuto modo di sottolineare che “è solo proiettato nella dimensione collettiva che l’interesse diviene suscettibile di tutela, quale sintesi e non sommatoria dell’interesse di tutti gli appartenenti alla collettività o alla categoria, e ... seppur è lecito opinare circa l’esistenza o meno, allo stato dell’attuale evoluzione sociale e ordinamentale, di un interesse legittimo collettivo, deve invece recisamente escludersi che le associazioni, nel richiedere in nome proprio la tutela giurisdizionale, azionino un “diritto” di altri. La situazione giuridica azionata è la propria. Essa è relativa ad interessi diffusi nella comunità o nella categoria, i quali vivono sprovvisti di protezione sino a quando un soggetto collettivo, strutturato e rappresentativo, non li incarni”. (cfr. Cons. St., Adunanza Plenaria, 20 febbraio 2020, n. 6). In ordine, invece, ai limiti dell’intervento ad adiuvandum si rinvia per dovere di sinteticità a A. Police, Il ricorso di primo grado, la costituzione delle altre parti, l’intervento, il ricorso incidentale, in G.P. Cirillo (a cura di), Il nuovo diritto processuale amministrativo, Milano, 2014, pag. 407 e ss., nonché M. D’Orsogna – F. Figorilli, Lo svolgimento del processo di primo grado Sezione prima: La fase introduttiva, in F.G. Scoca (a cura di), Giustizia amministrativa, Torino, 2023, pag. 363 e ss.
[liv] Nello specifico, è stato detto che “La generalità e l’astrattezza che caratterizza l’atto normativo fa sì che la posizione che il singolo può vantare rispetto ad essa si presenti, di regola, come posizione “indifferenziata”. Proprio per questo, “L’interesse del singolo all’eliminazione di una norma generale e astratta è, infatti, perfettamente identico a quello che può vantare qualsiasi altro soggetto che appartenga alla “platea” dei potenziali destinatari della norma regolamentare”. Così Cons. St., sez. I, parere 14 febbraio 2013, n. 677. Come sopra anticipato, peraltro, il Consiglio di Stato non ritiene che questa sistematica di tutela, che onera dell’impugnazione il cittadino solo allorquando il regolamento viene applicato con un provvedimento puntuale, sia lesiva degli interessi del ricorrente.
[lv] Sul punto cfr. G. Manfredi, Interessi diffusi e collettivi (dir. amm.), in Enciclopedia del diritto, Annali, Milano, 2014, ove l’Autore chiarisce che “l’espressione “interessi diffusi” in genere viene impiegata per indicare gli interessi che pertengono a un insieme indefinito di soggetti, e quella “interessi collettivi” per indicare gli interessi che pertengono a gruppi di soggetti definiti e dotati di strutture organizzative”, pag. 513, cit.
[lvi] In ordine all’astratta giustiziabilità degli interessi rappresentati dalle associazioni di categoria, infatti, si è recentemente espressa la Corte di Cassazione rispetto alla annosa questione delle concessioni balneari nella sentenza Cass., Sez. un., 23 novembre 2023, n. 32559, specie al par. 16, ove si afferma che: “Si è trattato di un diniego o rifiuto della tutela giurisdizionale sulla base di valutazioni che, negando in astratto la legittimazione degli enti ricorrenti a intervenire nel processo, conducono a negare anche la giustiziabilità degli interessi collettivi (legittimi) da essi rappresentati, relegandoli in sostanza al rango di interessi di fatto. La sentenza impugnata, di conseguenza, è affetta dal vizio di eccesso di potere denunciato sotto il profilo dell’arretramento della giurisdizione rispetto ad una materia devoluta alla cognizione giurisdizionale del giudice amministrativo”. In dottrina, invece, il riferimento corre a F. Francario – M.A. Sandulli (a cura di), Profili oggettivi e soggettivi della giurisdizione amministrativa, Napoli, 2017, A. Cassatella, L’eccesso di potere giurisdizionale, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, III, 2018, pag. 643 e ss.; A. Lamorgese, Eccesso di potere giurisdizionale e sindacato della Cassazione sulle sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, in Federalismi.it, I, 2018.
[lvii] In questi termini, si veda per tutti, S. Casilli, Legittimazione, accertamento e risarcimento: il punto sulla capacità delle associazioni esponenziali (nota a Consiglio di Stato, Sezione Terza, 28 maggio 2021 n. 4116), in questa Rivista, 6 ottobre 2021, C. Cudia, Gli interessi plurisoggettivi tra diritto e processo amministrativo, Santarcangelo di Romagna, 2012, nonché, con declinazione dello studio rispetto alla legittimazione al ricorso nelle diverse tipologie di azioni esperibili innanzi al giudice amministrativo, del medesimo Autore, Legittimazione a ricorrere e pluralità delle azioni nel processo amministrativo (quando la cruna deve adeguarsi al cammello), in Diritto pubblico, II, 2019, pag. 393 e ss.
[lviii] Con specifico riferimento, in particolare, all’assenza di una posizione legittimante all’azione, come invece potrebbe dedursi del pari per il singolo componente della categoria rappresentata.
[lix] In termini di interesse al ricorso, dunque, il soggetto esponenziale non agisce a tutela di una possibile lesione individuale che si è già prodotta in una o più sfere giuridiche soggettive, ma prelude alla rimozione di atti che possono potenzialmente essere lesivi per la categoria intera sulla base di una valutazione ex ante ed in astratto. Vedasi sul punto, seppur nella diversa materia degli appalti pubblici, D. Capotorto, Le condizioni dell’azione nel contenzioso amministrativo in materia di appalti: “l’interesse meramente potenziale” nuovo paradigma dell’ordinamento processuale?, in Diritto processuale amministrativo, III, 2020, pag. 665 e ss. Questa conclusione, peraltro, opera in analogia a quanto specificato supra in ordine alla disapplicazione degli atti a contenuto generale, poiché l’impugnazione immediata evita la propagazione dell’illegittimità del provvedimento normativo.
[lx] Il riferimento è, ancora, alla sentenza n. 32559/2023 delle Sezioni Unite.
[lxi] In questo caso, dunque, il giudice verosimilmente incorrerebbe in una ipotesi di denegata giustizia, cfr. G. Tropea, Il Golem europeo e i «motivi inerenti alla giurisdizione» (Nota a Cass., Sez. un., ord. 18 settembre 2020, n. 19598), parimenti in questa Rivista, 7 ottobre 2020, B. Nascimbene – P. Piva, Il rinvio della Corte di Cassazione alla Corte di giustizia: violazioni gravi e manifeste del diritto dell’Unione europea?, in questa Rivista, 24 novembre 2020, F. Francario, Il sindacato della Cassazione sul rifiuto di giurisdizione, in Libro dell’Anno del Diritto 2017, Roma, 2017, Diniego di giurisdizione, in Il libro dell’Anno del Diritto 2019, Roma, 2019 Il pasticciaccio parte terza. Prime considerazioni su Corte di Giustizia UE, 21 dicembre 2021 C-497/20, Randstad Italia spa, in, Federalismi.it, IX, 2022, M. Magri, Rifiuto di rinvio pregiudiziale per travisamento dell’istanza di parte: revocazione della sentenza o “semplice” obbligo del giudice amministrativo di risarcire il danno? (Consiglio di stato, ordinanza 3 ottobre 2022, n. 8436, rimessione all’adunanza plen, in questa Rivista, 15 dicembre 2022 e M.A. Sandulli, Rinvio pregiudiziale e giustizia amministrativa: i più recenti sviluppi, in questa Rivista, 20 ottobre 2022.
[lxii] Per un riferimento circa la ricostruzione storica di come le associazioni di categoria hanno progressivamente raggiunto la legittimazione ad agire cfr. C. Casilli, op. cit. oltre a F.G. Scoca, La tutela degli interessi collettivi nel processo amministrativo, in AA.VV., Le azioni a tutela degli interessi collettivi, Atti del convegno di Pavia, Padova, 1976 e Tutela dell'ambiente: la difforme utilizzazione della categoria dell'interesse diffuso da parte dei giudici amministrativo, civile e contabile, in Diritto e società, III, 1988, pag. 649 e ss., F. Saitta, La legittimazione a ricorrere: titolarità o affermazione?, in Diritto pubblico, III, 2019, pag. 544 e ss. nonché C’era una volta l’azione popolare … mai nata, in Rivista giuridica dell’edilizia, I, 2021, pag. 239 e ss., L. Ferrara – F. Orso, Sulla legittimazione ad agire nel processo amministrativo. A proposito di due monografie, in Diritto pubblico, III, 2020, pag. 717 e ss. e P.L. Portaluri, Ascendenze del creazionismo giurisprudenziale e ricadute sul processo amministrativo: il controllabile paradigma dell’accesso al giudice, in Diritto processuale amministrativo, I, 2021, pag. 232 e ss.
[lxiii] Ossia, in altre parole, laddove il regolamento finisca con l’avvantaggiare alcuni a discapito di altri nell’ambito della categoria stessa (ad esempio prevedendo un vantaggio economico limitato solo ad alcuni soggetti e non ad altri). In questi termini si segnala, ex multis, C.G.A.R.S. sez. giur., 27 giugno 2022, n. 769 oltre a Cons. St. sez. III, 2 novembre 2020, n. 6697, di particolare interesse poiché riferita alla impugnabilità di un bando di gara d’appalto da parte di una associazione di categoria.
[lxiv] Peraltro, nello specifico della sentenza in commento, questa questione non si è posta in concreto poiché risolta dalla circostanza per cui il Codice di comportamento nazionale non conteneva in sé disposizioni idonee a ledere in concreto gli interessi di categoria essendo eccessivamente generico per poter essere applicato. In altri termini, il regolamento, anche per gli enti esponenziali, a dire del giudice avrebbe dovuto poter essere concretamente applicato onde instillare l’interesse al ricorso. Sul punto, pertanto, in effetti le posizioni dei soggetti singoli e associativi finisce con il sovrapporsi quanto ai presupposti dell’azione.
[lxv] In luogo, come si accennava, di un onere di impugnazione congiunto con gli atti applicativi conseguenti (ossia in buona sostanza, in uno con le sanzioni disciplinari che vengono comminata sulla base del Codice).
[lxvi] Vedasi in particolare sul punto, nel diritto processuale civile, E. Silvestri, L’“amicus curiae”: uno strumento per la tutela degli interessi non rappresentati, in Rivista di diritto e procedura civile, III, 1997, pag. 698 e ss. Mentre nel diritto amministrativo costituiscono utile riferimento M. Ricciardo Calderaro, Recenti sviluppi in tema di intervento e di opposizione di terzo ordinaria nel processo amministrativo (nota a CGARS, 13 gennaio 2021, n. 27), in questa Rivista, A. Salmaso, Le Associazioni di Avvocati Amministrativisti in Corte di Giustizia contro il rito superaccelerato in materia di appalti pubblici su ammissioni ed esclusioni dei concorrenti, nota di commento a T.A.R. Piemonte, sez. I, ord. 24 gennaio 2019, n. 77, in amministrativistiveneti.it, Cons. Stato, Ad. Plen., 11 gennaio 2007, n. 2, in Foro amministrativo – Consiglio di Stato, II, 2007, pag. 464 e ss., con note di A. Bertoldini, L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, l’intervento in appello ex art. 344, c.p.c. e la legittimazione all’opposizione di terzo e di A.L. Tarasco, Il contraddittorio degli interessi dei consumatori nel giudizio amministrativo: profili problematici dell’impugnazione dei controinteressati sostanziali, M. D’Orsogna, L’intervento nel processo amministrativo: uno strumento cardine per la tutela dei terzi, in Diritto processuale amministrativo, II, 1999, pag. 434 e ss., M. Ramajoli, Riflessioni in tema di interveniente e controinteressato nel giudizio amministrativo, nota a Cons. Stato, Ad. Plen., 8 maggio 1996, n. 2, in Diritto processuale amministrativo, I, 1997, pag. 118 e ss., R. Dickmann – M. Iannaccone, Osservazioni sull’intervento nel processo amministrativo, in Rivista Corte dei conti, VI, 1992, pag. 293 e ss. La giurisprudenza amministrativa, di contro, ha specificato, in relazione all’ammissibilità dell’intervento in corso di causa, che “per la legittimazione attiva di associazioni rappresentative di interessi collettivi si rivela necessario che: a) la questione dibattuta attenga in via immediata al perimetro delle finalità statutarie dell'associazione e, cioè, che la produzione degli effetti del provvedimento controverso si risolva in una lesione diretta del suo scopo istituzionale, e non della mera sommatoria degli interessi imputabili ai singoli associati; b) l'interesse tutelato con l'intervento sia comune a tutti gli associati, che non vengano tutelate le posizioni soggettive solo di una parte degli stessi e che non siano, in definitiva, configurabili conflitti interni all'associazione (anche con gli interessi di uno solo dei consociati), che implicherebbero automaticamente il difetto del carattere generale e rappresentativo della posizione azionata in giudizio; restando, infine, preclusa ogni iniziativa giurisdizionale sorretta dal solo interesse al corretto esercizio dei poteri amministrativi, occorrendo un interesse concreto ed attuale (imputabile alla stessa associazione) alla rimozione degli effetti pregiudizievoli prodotti dal provvedimento controverso (cfr. anche C.d.S., Ad. plen., 2 novembre 2015, n. 9; 27 febbraio 2019, n. 2)”, così Cons. Stato, sez. V, 23 agosto 2023, n. 7925.
[lxvii] Il riferimento corre infatti all’art. 34, comma 2, del d.lgs. n. 104/2010, secondo il quale “il giudice non può conoscere della legittimità degli atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con l'azione di annullamento”.
[lxviii] Peraltro, non è detto che sia lo stesso T.A.R. per il Lazio a valutare gli atti applicativi del codice di comportamento, così non risultando nemmeno una sorta di vincolo di coerenza interna al giudicante a garantire l’omogeneità interpretativa quanto alla qualificazione delle disposizioni regolamentari impugnate.
[lxix] Fermo restando, evidentemente, il requisito della omogeneità di interessi che si è visto essere il faro attraverso il quale leggere i temi dell’interesse al ricorso e della legittimazione ad agire in questa tipologia di azioni giurisdizionali.
[lxx] È noto il dibattito intorno alla progressiva evoluzione storica del processo amministrativo da processo di diritto oggettivo a processo di diritto soggettivo. Non potendone dare conto in maniera estesa per questioni di sinteticità, si rinvia, per tutti e senza pretesa di esaustività, a R. Villata, Ancora “spigolature” sul nuovo processo amministrativo?, in Diritto processuale amministrativo, IV, 2011, pag. 1512 e ss,. V. Cerulli Irelli, Legittimazione “soggettiva” e legittimazione “oggettiva” ad agire nel processo amministrativo, in Diritto processuale amministrativo, II, 2014, pag. 342 e ss., F. Francario – A. M. Sandulli (a cura di), op. cit., N. Paolantonio, La dicotomia tra giurisdizione soggettiva e oggettiva nella sistematica del codice del processo amministrativo, in Diritto processuale amministrativo, II, 2020, pag. 237 e ss., L. Gizzi, La dimensione soggettiva della giurisdizione amministrativa tra Corte costituzionale e Corte di giustizia dell’Unione europea, in Questione giustizia, I, 2021.
[lxxi] In ipotesi poiché non era nella condizione di impugnarlo, non trovandosi ancora nella situazione prevista dalla norma al momento della relativa emanazione.
[lxxii] Fermo restando come la giurisprudenza di legittimità ritiene invero che possa sempre essere garantita una doppia tutela al cittadino ove l’atto generale abbia doppia rilevanza -organizzativa e disciplinare- consentendo sia l’impugnazione avanti al giudice amministrativo che l’azione avanti al giudice ordinario. Cfr. Cass. civ., Sez. Un. ordinanza 7 novembre 2008, n. 26799; Cass. civ., Sez. Un., ordinanza 1° aprile 2003, n. 6220; Cass. civ., sez. lav., 5 marzo 2003, n. 3252.
[lxxiii] Il riferimento corre ulteriormente alla sentenza delle Sezioni Unite n. 32559/2023.
[lxxiv] Per tutti, G.P. Cirillo, op. cit., nonché M.A. Sandulli, Premesse al codice: fonti e principi. I principi costituzionali e comunitari, in M.A. Sandulli (a cura di), Il nuovo processo amministrativo, Milano, 2013, pag. 2 e ss.
Le prime (dis)applicazioni del c.d. Decreto Cutro (Nota a margine dei decreti del Tribunale di Catania,sez. specializzata dell’immigrazione, nn. 10459, 10460 e 10461 del 29 settembre 2023)
di Carolina Cappabianca e Sveva Speranza[1]
Sommario: 1. L’inquadramento della vicenda - 2. Le novità introdotte dal d.l. 10 marzo 2023, n. 20- 3. Le motivazioni del Tribunale di Catania sulla disapplicazione del “decreto Cutro”. - 4. Riflessioni conclusive.
1. L’inquadramento della vicenda
La sezione specializzata dell’immigrazione del Tribunale di Catania con i decreti nn. 10459, 10460 e 10461 del 29 settembre 2023 non ha convalidato i provvedimenti emanati dal Questore della Provincia di Ragusa con cui venivano trattenuti presso i Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR)[2] di Pozzallo tre immigrati provenienti dalla Tunisia, ritenendo le disposizioni del c.d. Decreto Cutro (d.l. 10 marzo 2023, n. 20) non conformi alle quelle di rango sovranazionale che regolano il fenomeno immigratorio.
Nel caso di specie, infatti, il Questore in applicazione del nuovo articolo 6-bis del d.lgs. 142/2015, aveva disposto il trattenimento di tre immigrati richiedenti protezione internazionale, in quanto sprovvisti di documento di riconoscimento e privi di garanzia finanziaria.
La motivazione con cui il Tribunale di Catania ha disposto i provvedimenti in esame si fonda – tendenzialmente – sul contrasto delle norme di cui al c.d. Decreto Cutro con le direttive europee n.n. 32 e 33 del 2013, ritenendo nello specifico che il trattenimento del richiedente asilo in frontiera possa essere adottato solo come extrema ratio e con un provvedimento debitamente motivato sul punto, dovendosi ad esso preferire la previsione di effettive e realistiche misure alternative.
Le recenti pronunce consentono di analizzare le prime applicazioni delle disposizioni del c.d. Decreto Cutro relative, in particolare, al trattenimento del richiedente protezione internazionale soggetto alla procedura accelerata di frontiera, indagandone le implicazioni sul piano della tutela delle libertà fondamentali della persona. Nonché di porre al centro della riflessione il non facile compito del giudice nazionale come garante del diritto europeo e della costituzione italiana in una materia, come quella dei flussi migratori, caratterizzata da una pluralità di fonti interne e sovranazionali.
2. Le novità introdotte dal d.l. 10 marzo 2023, n. 20
La legge n. 50/2023 (di conversione del d.l. 20/2023) ha operato l’ennesima riforma del sistema di accoglienza per i richiedenti asilo e rifugiati[3]. Si tratta, infatti - come da più parti evidenziato - del terzo provvedimento adottato nell’arco di sei anni che interviene sul d.lgs. n. 142/2015 che, a sua volta, ha recepito nel nostro ordinamento la disciplina europea dettata dalle direttive n.n. 32 e 33 del 2013.
In particolare, la legge n. 50/2023 interviene su più aspetti della disciplina dell’accoglienza, anzitutto ripristinando il c.d. sistema binario (previsto con il d.l. 113/2018 e venuto meno con il d.lgs. 130/2020), che si fonda su una distinzione tra i richiedenti asilo e i titolari di protezione internazionale, riservando soltanto a quest’ultimi l’accesso ai servizi prestati dagli enti locali per favorirne l’integrazione (c.d. Sai, ovverosia l’ex Sprar)[4]. Per i primi, invece, continuano ad essere assicurate soltanto le prestazioni concernenti l’assistenza sanitaria, la mediazione linguistico-culturale e l’assistenza sociale.
La riforma, invero, ha coinvolto vari istituti del diritto d’asilo e dell’immigrazione, intervenendo sia su aspetti sostanziali che processuali della disciplina.
Più precisamente, con riguardo al caso di cui ci si occupa viene in rilievo il nuovo articolo 6-bis del d.lgs. 142/2017 - introdotto dal comma 1 dell’art. 7-bis del c.d. Decreto Cutro - che ha previsto una nuova ipotesi di procedura accelerata di esame delle domande di protezione internazionale presentate direttamente alla frontiera, o in zone di transito[5], da un richiedente asilo proveniente da un Paese di origine sicuro[6], insieme alla quale è stata prevista una nuova ipotesi di trattenimento[7], direttamente collegata allo svolgimento della procedura.
La norma stabilisce infatti che il soggetto «(…) può essere trattenuto durante lo svolgimento della procedura in frontiera di cui all'articolo 28-bis, comma 2, lettere b) e b-bis), del decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, (…), al solo scopo di accertare il diritto ad entrare nel territorio dello Stato. (…) qualora il richiedente non abbia consegnato il passaporto o altro documento equipollente in corso di validità, ovvero non presti idonea garanzia finanziaria (…)».
Viene dunque stabilito che il trattenimento può svolgersi direttamente alla frontiera e, trovando applicazione la c.d. procedura accelerata, che la Commissione territoriale, deputata all’esame della domanda, sia tenuta a decidere nel termine di sette giorni dalla sua ricezione, fermo restando che l’intera procedura non può protrarsi oltre quattro settimane.
Quanto alle caratteristiche di tale procedura, tre sono gli aspetti principali da evidenziare in generale: in primo luogo, la previsione di tempi strettissimi della procedura stessa, nonché per la proposizione del ricorso avverso il provvedimento adottato dalla Commissione territoriale (artt. 33 e s.s. del d.lgs. 25/2008)[8]; un onere motivazionale attenuato, considerando che l’amministrazione, nel rigettare la domanda è tenuta semplicemente a dare atto del fatto che il richiedente non ha dimostrato l’esistenza di condizioni soggettive che rendano quel Paese non sicuro per lui (art. 9, comma 2-bis, d.lgs. 25/2008); e, infine, nell’eccezione, rispetto alla regola generale di cui all’art. 35-bis, comma 3, d.lgs. 25/2008, all’effetto sospensivo automatico del provvedimento eventualmente impugnato.
Ciò premesso, per comprendere le ragioni del Tribunale di Catania – meglio specificate nel paragrafo successivo- è necessario sin d’ora precisare che la disciplina generale in materia di trattenimento, dettata dalla direttiva 2013/33/UE e dall’art. 6 del d.lgs. 142/2015, lo vieta nei confronti di un soggetto per il solo fatto di essere un richiedente asilo. Questa regola generale conosce delle deroghe, tra le quali, per quanto di nostro interesse, la possibilità di disporre il trattenimento «per decidere, nel contesto di una procedura, sul diritto del richiedente di entrare nel territorio» (art. 8, par. 3, l. c), direttiva 2013/33/UE), fermo restando l’obbligo per gli Stati membri di assicurare il rispetto di garanzie minime per i trattenuti e di prevedere delle procedure alternative al trattenimento (artt. 8, par. 4, e 9 della medesima direttiva).
3. Le motivazioni del Tribunale di Catania sulla disapplicazione del “decreto Cutro”
Il Tribunale di Catania si è trovato dunque ad affrontare per la prima volta la nuova disciplina del trattenimento dei richiedenti protezione internazionale nell’ambito della procedura accelerata prevista dal d.l. n. 20 del 2023 e, come anticipato, ha finito per accertarne la non conformità alle disposizioni di rango costituzionale e sovranazionale che regolano il fenomeno immigratorio e che, ancor più in generale, tutelano i diritti fondamentali di ogni persona. Ragion per cui la Giudice, più volte investita della questione, non ha convalidato i provvedimenti di trattenimento disposti dal Questore della Provincia di Ragusa di tre migranti tunisini in base alla nuova disciplina della procedura di frontiera[9], già in precedenza illustrata.
Le motivazioni, tendenzialmente identiche in tutti i casi esaminati, che hanno portato a tale conclusione sono molteplici e di vario genere, tanto che per chiarezza è possibile suddividerle in due categorie: nella prima vi rientrano le argomentazioni di carattere generale e sistemico, riguardando l’incompatibilità della nuova normativa interna con il quadro dei principi di matrice euro unitaria e costituzionale; nella seconda, invece, possiamo ricomprendere le conseguenziali criticità individuate e sollevate dal Tribunale sulla legittimità dei provvedimenti del Questore sotto il profilo motivazionale.
Quanto a tale ultimo aspetto, infatti, è sin da ora possibile anticipare che viene evidenziato come il provvedimento di trattenimento del Questore dovrebbe essere corredato da idonea motivazione[10] mentre nel caso di specie «difetta ogni valutazione su base individuale delle esigenze di protezione manifestate, nonché della necessità e proporzionalità della misura in relazione alla possibilità di applicare misure meno coercitive»[11]. Infatti, la circostanza che il trattenimento sia codificato non ne fa venir meno il carattere di eccezione alla regola, di misura alla quale può farsi ricorso soltanto qualora sia necessario[12].
In particolare a tale conclusione si perviene richiamando l’interpretazione della Corte di Giustizia UE, secondo cui gli artt. 8 e 9 della direttiva 2013/33/ UE «devono essere interpretati nel senso che ostano, in primo luogo, a che un richiedente protezione internazionale sia trattenuto per il solo fatto che non può sovvenire alle proprie necessità, in secondo luogo, a che tale trattenimento abbia luogo senza la previa adozione di una decisione motivata che disponga il trattenimento e senza che siano state esaminate la necessità e la proporzionalità di una siffatta misura»[13]. Più precisamente, l’art. 9, paragrafo 2, della direttiva pone un obbligo di motivazione chiarissimo quando afferma che «Il trattenimento dei richiedenti è disposto per iscritto dall’autorità giurisdizionale o amministrativa. Il provvedimento di trattenimento precisa le motivazioni di fatto e di diritto sulle quali si basa». Ed è proprio seguendo tale ragionamento e considerando che il provvedimento questorile - come già anticipato – non appare corredato da idonea motivazione circa la sussistenza di ulteriori ragioni che potessero giustificare il trattenimento del richiedente protezione internazionale, che il Tribunale non ne ha disposto la convalida.
Detto altrimenti, una volta rilevata tale incompatibilità sotto un duplice profilo, vale a dire la disposizione di un provvedimento limitativo della libertà personale in assenza di apposita motivazione – che sia peraltro idonea a sostenere l’inesistenza di alternative altrettanto adeguate – nonché la configurazione di una garanzia finanziaria in termini anch’essi contrastanti con la normativa comunitaria[14], il giudice ha deciso di disapplicare[15] il nuovo articolo 6-bis del d.lgs. 142/2015, applicando in luogo della disciplina nazionale le direttive europee n.n. 32 e 33 del 2013.
Infatti, la circostanza che i richiedenti protezione internazionale, oltre a non aver consegnato il passaporto o altro documento equipollente in corso di validità, non abbiano prestato idonea garanzia finanziaria – configurata a livello comunitario come misura alternativa al trattenimento e non come requisito amministrativo di cui il richiedente protezione internazionale deve essere in possesso affinchè gli vengano riconosciuti i diritti sanciti dalla direttiva 2013/33/UE - non è stata ritenuta sufficiente dal Tribunale per giustificare l’adozione di un provvedimento di trattenimento, in quanto tale fortemente restrittivo della loro libertà personale[16]. Più precisamente, ad essere ritenuto inammissibile non è di per sé il trattenimento di un richiedente protezione internazionale nell’ambito della procedura di frontiera - trattandosi di una misura consentita pacificamente dalla normativa comunitaria in presenza di determinati presupposti, requisiti e garanzie - ma che tale provvedimento, nei fatti all’origine delle pronunce commentate, sia stato adottato in assenza di quest’ultimi.
Oltre al profilo di illegittimità esaminato, peraltro, il Tribunale di Catania ne ha evidenziato altri due, la cui comprensione richiede di procedere gradualmente.
Anzitutto, sotto un primo profilo, nel provvedimento si evidenzia il mancato rispetto della disciplina della procedura di frontiera stabilita dall’art. 43 della direttiva 2013/32/UE, nella parte in cui quest’ultima ammette l’applicazione della procedura in esame – presupposto del trattenimento – in una zona diversa da quella dell’ingresso, ove il richiedente sia stato condotto coattivamente, soltanto nelle ipotesi indicate al co. 3 della medesima norma, che fa riferimento alla circostanza in cui siano arrivati contestualmente un gran numero di cittadini di paesi terzi o di apolidi e che tutti presentino domanda di protezione internazionale, in tal modo rendendo impossibile l’applicazione della regola generale disposta dal considerando n. 38 e dal paragrafo 1 dello stesso art. 43.
In dettaglio, guardando a queste disposizioni, la regola sarebbe che per l’esame dell’ammissibilità e/o merito delle domande di protezione internazionale, presentate alla frontiera o nelle zone di transito, gli Stati membri dovrebbero prevedere delle procedure che consentano di decidere sul posto ovvero che gli consentano di decidere alla frontiera o nelle zone di transito «(…) a) sull’ammissibilità di una domanda, ai sensi dell’art. 33, ivi presentata; b) sul merito di una domanda nell’ambito di una procedura a norma dell’art. 31, paragrafo 8»[17]. Ragion per cui, un eventuale trattenimento, fondato sull’art. 8, paragrafo 3, comma 1, lettera c), della direttiva 2013/33/UE, secondo cui questo può essere disposto, tra le altre ragioni espressamente elencate, soltanto «per decidere, nel contesto di un procedimento, sul diritto del richiedente di entrare nel territorio», sarebbe stato compatibile con quanto stabilito dal suesposto art. 43 (direttiva 2013/32/UE) se - come non avvenuto nei casi esaminati - il Presidente della Commissione Territoriale avesse assunto una decisione sulla procedura da seguire per la valutazione dell’ammissibilità o fondatezza della domanda di protezione internazionale, propedeutica al riconoscimento del diritto di entrare nel territorio nazionale, e il trattenimento risultasse funzionale alla sua conclusione.
Da ultimo, nel provvedimento di non convalida viene evidenziato come, in ogni caso, la disciplina di cui all’art. 8 lett. c) della direttiva 2013/33/UE non può trovare applicazione nelle ipotesi di soccorso in mare – in cui rientrano le vicende oggetto di giudizio – nelle quali il diritto di ingresso nel territorio è disciplinato altrove (art. 10 ter del d.lgs. 268/1998 e Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare del 1979) e che il suddetto articolo va applicato alla luce dell’interpretazione della giurisprudenza di legittimità nazionale[18] del principio sancito dall’art. 10, co. 3, Cost., in base alla quale «deve escludersi che la mera provenienza del richiedente asilo da Paese di origine sicuro possa automaticamente privare il suddetto richiedente del diritto a fare ingresso nel territorio italiano per richiedere protezione internazionale»[19], dovendosi invece procedere necessariamente anche da tale punto di vista ad una valutazione caso per caso[20].
4. Riflessioni conclusive
Sono possibili alcune brevi osservazioni in chiave conclusiva.
Negli ultimi mesi, com’è noto, la questione immigratoria è stata ancor di più al centro del dibattito europeo ed italiano e la causa di ciò non è soltanto attribuibile all’approccio restrittivo delle recenti riforme[21], ma anche all’oggettivo incremento del bisogno di protezione e di arrivi irregolari nel territorio italiano[22]. Ciononostante, invece di individuare ed attivare un meccanismo in grado di ampliare i canali regolari di accesso - la cui previsione si sarebbe quantomeno avvicinata ad un approccio maggiormente sistematico al problema – il legislatore, in linea con l’approccio securitario delle precedenti riforme, si è posto l’obiettivo principale di contrastare il flusso immigratorio, anche attraverso l’accelerazione dei tempi di conclusione dei procedimenti volti al riconoscimento della protezione internazionale.
È chiaro dunque che le novità introdotte dal d.l. n. 20/2023 non fanno altro che confermare quanto sostenuto da più parti[23], secondo cui in materia si sono susseguiti, a partire dalla legge 30 luglio 2002, n. 189 (c.d. Bossi-Fini), più provvedimenti che mirano essenzialmente a limitare l’ingresso nel nostro territorio piuttosto che a disciplinare il fenomeno in modo sistematico e coerente con i diritti e le libertà fondamentali della persona che vengono in rilievo in queste dinamiche.
Insomma se è vero che si tratta di un fenomeno di difficile gestione è altrettanto vero che vi è una tendenza a farlo restare tale, anzitutto con l’implementazione della decretazione d’urgenza, giustificata dall’esigenza di assicurare protezione alla comunità che si sente minacciata, non più soltanto dal migrante irregolare ma anche da colui che richiede protezione[24]. Al punto che, oramai, alcuni autori[25] hanno iniziato a parlare, riferendosi alla disciplina “speciale” dei diritti dei migranti, di “diritto amministrativo del nemico”, caratterizzato dal ricorso continuo ad interventi emergenziali e derogatori per rispondere ad un bisogno di protezione contro un potenziale “nemico” comune.
Quanto poi allo specifico approccio alla questione del Tribunale di Catania, dall’analisi svolta è evidente che gli argomenti adoperati si fondando soprattutto sul contrasto tra la normativa nazionale, anche alla luce della sua interpretazione e conseguente applicazione, e il diritto comunitario.
Pertanto, a questo punto della riflessione, nasce spontaneo il dubbio sul se sarebbe stato o meno più opportuno che il Tribunale si rivolgesse alla Corte di Giustizia UE ai sensi dell’art. 267 TFUE, per risolvere il conflitto sorto ovvero sollevasse una questione di legittimità costituzionale per violazione degli artt. 11, 13 e 117, primo comma, Cost, così da scongiurare anche il rischio che si generasse nei consociati uno stato di incertezza sulle regole di diritto effettivamente applicabili ai casi di specie, pregiudicando uno dei valori fondanti dello Stato di diritto, vale a dire quello della certezza del diritto.
Come noto, infatti, in caso di contrasto tra norma nazionale e norma comunitaria, i possibili strumenti riconosciuti al giudice nazionale per la risoluzione del conflitto sono vari, questi deve anzitutto verificare se vi sia la possibilità di salvare la norma nazionale ricorrendo ad un’interpretazione della stessa in modo conforme alla disciplina dell’Unione europea, soltanto ove ciò non fosse possibile[26] e dopo aver accertato l’idoneità di quest’ultima a produrre effetti diretti (in quanto chiara, precisa e incondizionata) nel nostro ordinamento, è tenuto a disapplicare la norma interna e ad applicare quella comunitaria. In questo scenario sommariamente descritto, non essendo questa la sede opportuna per approfondire un tema così complesso[27], si inseriscono il rinvio pregiudiziale e l’incidente di costituzionalità che hanno un impatto maggiore sul sistema giuridico nazionale rispetto all’obbligo di interpretazione conforme e allo strumento della disapplicazione. Infatti, soltanto i primi due hanno efficacia generale, incidendo proprio sulla stessa esistenza nell’ordinamento interno della norma ritenuta anti comunitaria o incostituzionale, hanno insomma efficacia “erga omnes”.
La disapplicazione alla quale è invece ricorsa il Tribunale di Catania, da un lato, senza dubbio, consente di riconoscere al soggetto coinvolto nella singola vicenda, sottoposta alla cognizione del giudice, una tutela immediata ma, al contempo, non può impedire alla norma disapplicata di continuare a produrre i suoi effetti nei confronti dei soggetti dell’ordinamento, fintanto che non intervenga il legislatore abrogandola.
Pertanto, soprattutto considerando che successivamente il Tribunale di Catania ha continuato ad adottare decisioni simili[28] - ragionando in un’ottica di effettività della tutela giurisdizionale e di certezza del diritto, da intendersi in senso ampio e non soltanto come certezza di premesse legislative– si sarebbe potuto propendere per una scelta più incisiva, dal momento che i dubbi sollevati attengono chiaramente alle scelte legislative nazionali e alla loro compatibilità con il diritto dell’Unione europea.
Sono considerazioni che meriterebbero un più ampio e approfondito sviluppo che non può per il momento essere svolto in questa sede e che comunque richiederà ulteriori riflessioni, per le quali probabilmente vi sarà a breve occasione, considerando che l’Avvocatura dello Stato ha già presentato ricorso in Cassazione avverso le decisioni del Tribunale di Catania.
[1] Seppur frutto di un lavoro unitario è possibile attribuire i primi due paragrafi a Sveva Speranza e i paragrafi 3 e 4 a Carolina Cappabianca.
[2] I Centri Permanenza e Rimpatrio sono luoghi di trattenimento del cittadino straniero in attesa di esecuzione di provvedimenti di espulsione (d.lgs. n. 286/1998 e art. 11 del d.lgs. n. 142/2015), rispetto ai quali pure è intervenuto il d.l. 20 del 2023, che all’art. 10 ne dispone il potenziamento e l’ampliamento. Al riguardo, ex multis, v. C. CELONE, La “detenzione amministrativa” degli stranieri irregolari nell’ordinamento italiano e dell’Unione europea ed il diritto fondamentale di ogni persona alla libertà ed alla tutela giurisdizionale, in Nuove Autonomie, 2013, p. 299 ss.; C. LEONE, La disciplina negli hotspot nel nuovo art. 10-ter d.lgs. n. 286/98: un’occasione mancata, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n.2/2017.
[3] Le principali modifiche sono contenute, in parte nel d.l. 13/2017, seguito dalla l. 47/2017, che ha rafforzato i diritti e le tutele dei minori nelle varie fasi dell’accoglienza, e in parte, nel d.lgs. 220/2017, che ha introdotto procedure accelerate per l’esame delle domande di protezione internazionale, risolvendo, al contempo, alcune criticità sollevate dalla l. 47/2017. Successivamente, è intervenuto il d.l. n. 113/2018 e poi il d.l. n. 130/2020 che hanno introdotto ulteriori significative modifiche, tra le quali anche la possibilità di disporre il trattenimento dei richiedenti protezione internazionale in due nuove ipotesi, rispetto a quelle previste dall’art. 6, comma 2, del d.lgs. 142/2015, motivate dalla necessità di determinare o verificare l'identità o la cittadinanza dello straniero richiedente protezione internazionale in luoghi determinati e per tempi definiti (art. 6, co. 3-bis, d.lgs. 142/2015). In dottrina, al riguardo, fra tutti v.; A. MARCHESI, La protezione internazionale dei diritti umani, Torino, 2021; N. ZORZELLA, La protezione umanitaria nel sistema giuridico italiano, in Diritto, immigrazione e cittadinanza, n. 1/2018; S. CELENTANO, Lo status di rifugiato e l’identità politica dell’accoglienza, in Questiono Giustizia 2/2018; R. RUSSO, Le tormentate vicende delle norme di chiusura del diritto di asilo: Neverending story, su Giustizia insieme, 18 gennaio 2021.
[4] Il sistema di accoglienza e integrazione, diversamente nominato nel corso degli anni, è stato istituzionalizzato con la legge n.189/2002, che ha modificato il d.l. n. 416/1989, e si fonda su una condivisione di responsabilità tra Ministro dell’interno ed enti locali. In relazione alle conseguenze evidenti dell’approccio securitario al problema della gestione dei flussi immigratori sul sistema di accoglienza, sulla cui inadeguatezza si è più volte pronunciata anche la Corte EDU, v. M. INTERLANDI, La dimensione organizzativa dell’accoglienza degli immigrati nella prospettiva del diritto ad una “buona amministrazione”: il ruolo degli enti locali nel bilanciamento degli interessi della persona immigrata e delle comunità “ospitanti”, in P.A. Persona e Amministrazione, n.1/2020. L’a., nell’analizzare i profili organizzativi dell’accoglienza umanitaria e dei processi di integrazione sociale, si sofferma sulla necessità di tener conto, accanto al diritto ad una accoglienza dignitosa dell’immigrato, anche il diritto delle comunità “ospitanti” «ad una amministrazione efficiente, in grado di gestire i problemi derivanti dalla presa in carico dei bisogni di un flusso consistente di stranieri», garantendo quindi contestualmente la sicurezza, l’ordine pubblico e il benessere sociale. Al riguardo, inoltre v. M. GIOVANNETTI, Il prisma dell’accoglienza: la disciplina del sistema alla luce della legge n. 50/2023, in Questione Giustizia, n. 3/2020.
[5] Quanto alle zone di transito e di frontiera, queste sono stata istituite con decreto del Ministero dell’interno del 5 agosto 2019, rubricato «Individuazione delle zone di frontiera o di transito ai fini dell’attuazione della procedura accelerata di esame della richiesta di protezione internazionale», il cui art. 2 le individua nei seguenti luoghi: Trieste, Gorizia, Crotone, Cosenza, Matera, Taranto, Lecce, Brindisi, Caltanisetta, Ragusa, Siracusa, Catania, Messina, Trapani, Agrigento, Cagliari e Sud Sardegna. Sulle criticità di immediata evidenza della disciplina v. A. BRAMBILLA, Le nuove procedure accelerate di frontiera. Quali prospettive in un’ottica di genere?, in Questione giustizia, 3/2023, pag.134, ove l’a. le individua nella «incerta estensione territoriale o delimitazione delle zone di frontiera e di transito e l’individuazione di alcuni territori, quali quelli di Trieste e Gorizia, situati in prossimità non di confini esterni bensì di confini interni», aspetto quest’ultimo che secondo l’a. pone non pochi dubbi di compatibilità con le disposizioni del diritto dell’Unione europea, in particolare con il regolamento 2016/399/UE del 9 marzo 2016 (c.d. codice frontiere Schengen) e con il regolamento 2013/604/UE del 26 giugno 2013.
[6] Quanto alla nozione di Paese di origine sicura, si tratta di un concetto introdotto nel nostro ordinamento con la l. n. 132/2018 che ha disposto l’introduzione del nuovo art. 2-bis nel d.lgs. 25/2008, in attuazione degli artt. 36 e 37 della direttiva 2013/32/UE. In riferimento alle novità introdotte al riguardo dal c.d. Decreto Cutro, v. M. FLAMINI, La protezione dei cittadini stranieri provenienti da c.d. «Paesi sicuri» in seguito alle modifiche introdotte dal d.l. n. 20 del 2023, in Questione Giustizia, n.3/2023.
[7] Ci si riferisce chiaramente a quella prevista dall’art. 6-bis del d.lgs. 142/2015, introdotto dalla l. n. 50/2023.
[8] In particolare, ci si riferisce al nuovo articolo 35-ter del d.lgs. 25/2008, introdotto dall’art. 7-bis, l. e) del d.l. 20/2023 e che prevede che, per le ipotesi in cui il trattenimento sia disposto ai sensi dell’art. 6-bis del d.lgs. 142/2015, i termini per presentare ricorso avverso la decisione della Commissione territoriale siano ridotti della metà.
[9] Per un primo approccio alla disciplina si suggerisce di confrontare A. PRATICÓ, Le procedure accelerate in frontiera introdotte dall’articolo 7-bis del decreto-legge n. 20 del 2023 convertito con legge n. 50 del 2023, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, n. 3/2023.
[10] Sul tema della motivazione dei provvedimenti amministrativi - il cui obbligo rinviene il suo fondamento normativo, a livello sovranazionale, nell’art. 41 CFDUE e, sul piano nazionale, negli artt. 97 Cost. e 3 l. 241/90 - ci si limita a rinviare a F. CAMMEO, Gli atti amministrativi e l'obbligo di motivazione, in Giur. it., III/1908, 253 ss; C. MORTATI, Obbligo di motivazione e sufficienza della motivazione degli atti amministrativi, in Giur. it., III/ 1943, 2 ss; A. ROMANO TASSONE, Motivazione dei provvedimenti amministrativi e sindacato di legittimità, Milano,1987; B.G. MATTARELLA, Il declino della motivazione, in Gior. dir. amm., 2007; A. CASSATELLA, Il dovere di motivazione nell'attività amministrativa, Padova, 2013; F. CARDARELLI, La motivazione del provvedimento, in M. A. SANDULLI (a cura di), Codice dell'azione amministrativa, Milano, 2011, 374 ss.; G. COCOZZA, Contributo a uno studio della motivazione del provvedimento come essenza della funzione amministrativa, Napoli, 2020; G. COCOZZA, Il difetto di motivazione del provvedimento giurisdizionale e amministrativo. Simmetrie e spunti nei percorsi giurisprudenziali, in Il processo, n. 1/2023, 111 ss.
[11] In materia di immigrazione, ove il problema della protezione delle libertà personali si scontra con l’interesse primario dello Stato di assicurare un controllo effettivo dei confini nazionali, il principio di proporzionalità, quale canone normativo dell’esercizio del potere pubblico, assume infatti un ruolo particolarmente rilevante. Al riguardo, v. M. INTERLANDI, Fenomeni immigratori tra potere amministrativo ed effettività delle tutele, Torino, 2018, ove l’a. evidenzia come tra i principi generali dell’attività amministrativa «che potrebbero risultare funzionali a salvaguardare i diritti e gli interessi dello straniero dinanzi al potere pubblico, allorché esso si traduca in decisioni arbitrarie o ingiuste (…) il principio di proporzionalità è, sicuramente, quello che meglio sembra esprimere l’esigenza di tutelare i diritti e le libertà delle persone dinanzi ad interessi pubblici, che possono implicare l’adozione di provvedimenti limitativi della sfera soggettiva individuale, in quanto volto ad “imporre” all’amministrazione di contenere il sacrificio solo nella misura in cui risulti indispensabile per il raggiungimento dello scopo, che la stessa autorità è tenuta a realizzare.». Per ulteriori approfondimenti sul principio di proporzionalità in generale nel diritto amministrativo si rinvia, ex multis, a A. SANDULLI, La proporzionalità dell’azione amministrativa, Padova, 1998; D.U. GALETTA, Principio di proporzionalità e sindacato giurisdizionale nel diritto amministrativo, Milano, 1998; S. VILLAMENA, Contributo in tema di proporzionalità amministrativa, Milano, 2008; S. COGNETTI, Principio di proporzionalità. Profili di teoria generale e di analisi sistematica, Torino, 2011; F. FANTI, Dimensioni della proporzionalità. Profili ricostruttivi tra attività e processo amministrativo, Torino, 2012.
[12] Al riguardo, infatti l’orientamento della giurisprudenza sovranazionale appare rigido: Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sentenza 15 febbraio 2016, n. 84 secondo cui «(…) gli altri paragrafi dell’articolo 8 della direttiva 2013/33 apportano, come espongono i considerando 15 e 20 della direttiva in parola, limitazioni importanti al potere attribuito agli Stati membri di disporre il trattenimento. Dall’articolo 8, paragrafo 1, della citata direttiva, infatti, risulta che gli Stati membri non possono trattenere una persona per il solo fatto che questa ha presentato una domanda di protezione internazionale. Inoltre, l’articolo 8, paragrafo 2, della medesima direttiva, impone che il trattenimento possa essere disposto soltanto ove necessario e sulla base di una valutazione caso per caso, salvo che non siano applicabili efficacemente misure alternative meno coercitive. L’articolo 8, paragrafo 4, della direttiva 2013/33, prevede che gli Stati membri provvedono affinchè il diritto nazionale contempli le disposizioni alternative al trattenimento, come l’obbligo di presentarsi periodicamente alle autorità, la costituzione di una garanzia finanziaria o l’obbligo di dimorare in un luogo assegnato».
[13] Corte di giustizia dell’Unione europea 14.5.2020 (cause riunite C-924/19 e C-925/19).
[14] La garanzia finanziaria, che il DM del 14 settembre 2023 ha stabilito ad un importo fisso di euro 4.938, suscettibile di aggiornamento biennale, non è infatti prevista dal legislatore italiano come misura alternativa al trattenimento che andrebbe applicata dopo aver constatato la necessità del trattenimento stesso ma, al contrario, come requisito amministrativo imposto al richiedente prima di riconoscere i diritti allo stesso conferiti dalla direttiva 2013/33. Pertanto in chiaro contrasto con quanto previsto dagli artt. 8 e 9 della medesima direttiva che, tra le garanzie previste affinchè il trattenimento si possa considerare legittimo in base all’art. 43 prevedono, tra più alternative, anche la possibilità di costituire una garanzia finanziaria. Peraltro, anche sotto questo profilo sorgono dubbi circa il rispetto del principio di proporzionalità, data la predeterminazione di un importo in misura fissa, non parametrata alla situazione specifica dei singoli soggetti richiedenti protezione internazionale.
[15] In argomento, fra tutti, v. C. PAGOTTO, La disapplicazione della legge, Milano, 2008; R. ROLLI e M. MAGGIOLI, La disapplicazione della norma nazionale contrastante con il diritto dell’Unione (nota a TAR Puglia-Lecce, sez. I, del 18 novembre 2020 n. 1321), in Giustizia insieme, 22 dicembre 2020, ove gli a. si soffermano sull’evoluzione del rapporto tra ordinamento comunitario ed ordinamento interno, la cui comprensione è necessaria per avere una visione completa della disapplicazione delle norme nazionali in contrasto con le disposizioni comunitarie; D. GALLO, L’efficacia diretta del diritto dell’Unione europea negli ordinamenti nazionali, Milano, 2018. Per completezza, quanto alla disapplicazione del provvedimento amministrativo, invece, v. A. ROMANO, La disapplicazione del provvedimento amministrativo da parte del giudice civile, in Dir. Amm., 1993; G. DE GIORGI CEZZI, Perseo e Medusa: il giudice ordinario al cospetto del potere amministrativo, in Dir. Proc. Amm., 4/1999, 1023 ss.; S. CASSARINO, Problemi della disapplicazione degli atti amministrativi nel giudizio civile, 1993; F. CINTOLI, Giurisdizione amministrativa e disapplicazione dell’atto amministrativo, in Dir. Amm., n.1/2003. Nonché, sullo specifico tema del rapporto tra giudice ordinario e giudice amministrativo in materia di immigrazione, cfr.: M. INTERLANDI, Fenomeni immigratori tra potere amministrativo ed effettività delle tutele, Torino, 2018, che si sofferma in particolare sulle criticità del sistema di tutela giurisdizionale avverso i provvedimenti di espulsione prefettizia ex art. 18, d.lgs. n. 150/2011.
[16] Al riguardo, invero, particolarmente interessante è la riflessione critica di M. SAVINO, Ancora su procedura di frontiera e misura alternativa della garanzia finanziaria: i limiti dell’approccio del Tribunale di Catania, ADiM Blog, Editoriale, ottobre 2023, che tende in parte a ridimensionare questo argomento, affermando che «Il fondamento di tale affermazione, tanto perentoria quanto oscura, risiederebbe nell’insanabile contrasto con gli art. 8 e 9 della direttiva accoglienza (2013/33/UE), interpretati alla luce dell’affermazione della Corte di giustizia secondo cui un richiedente asilo non può essere «trattenuto per il solo motivo che egli non può sovvenire alle proprie necessità (…)» (…), questa versione “radicale” della tesi della contrarietà al diritto UE incontra due limiti: è difficilmente armonizzabile con il dettato dell’art. 8 (4) della direttiva accoglienza, che ammette espressamente le “cauzioni”, e si fonda su una lettura incauta del dictum della Corte di giustizia appena richiamato. (…) nel caso italiano la mancata costituzione della garanzia finanziaria non può essere intesa come «il solo motivo» del trattenimento.» In base alle norme vigenti, infatti, il trattenimento può essere disposto soltanto se ricorrono altri due motivi o presupposti: il primo è la provenienza da un Paese terzo sicuro, condizione necessaria per applicare la procedura di esame accelerata e/o alla frontiera; la seconda è il mancato possesso del passaporto, operando la consegna del passaporto come misura alternativa “prioritaria”, sufficiente a escludere il trattenimento prim’ancora che venga in rilievo l’opzione della garanzia finanziaria».
[17] Art. 43, paragrafo 1, direttiva 2013/32/UE.
[18] Cass., Sez. Un., 26 maggio 1997, n. 4674.
[19] Trib. Catania, sez. immigrazione, n. 1046/2023.
[20] In relazione all’esigenza di valutare di volta in volta le peculiarità del caso concreto per il riconoscimento, più in generale, del diritto fondamentale alla protezione internazionale, anche se il richiedente proviene da un Paese considerato di origine sicuro, particolarmente interessanti sono le riflessioni di M. INTERLANDI, Protezione internazionale e prospettiva di genere nella tutela giurisdizionale delle donne migranti, in (a cura di) O. M. Pallotta, Crisi climatica, migrazioni e questioni di genere, Napoli, 2022, 125 ss. L’a. evidenzia, infatti, la rilevanza anche della prospettiva di genere nell’accertamento delle condizioni per il riconoscimento della protezione internazionale, ritenendo che «la specifica protezione giuridica riconosciuta alle donne migranti richieda, sia in ambito procedimentale che in ambito processuale, una valutazione del caso concreto, volta ad indagare la specifica condizione soggettiva della donna (…)»; nonché, nel medesimo senso, P.F. POMPEO, Protezione internazionale e vittime di tratta. Valutazione di credibilità, dovere di cooperazione istruttoria e forme di protezione, in Questione Giustizia, 12 maggio 2022.
[21] È noto infatti che le politiche pubbliche sull’immigrazione non sono espressione di un orientamento definitivo, essendo soggette anche all’indirizzo politico e all’influenza dell’opinione pubblica, in argomento v. A. CONTIERI, Cittadinanza amministrativa e diritto di voto: dall’uguaglianza nei diritti sociali alla difficile affermazione di un modello condiviso di accoglienza, in Studi in onore di Giuseppe Abbamonte, ESI-Tomo I, Napoli, 2019, pag. 414, ove l’a., dopo aver premesso che i «principi ispiratori dell’azione dei pubblici poteri sono quelli del rispetto della persona umana e dei valori della solidarietà, allorché è addirittura messa in pericolo la vita dei migranti come avviene oramai quotidianamente nei salvataggi in mare», chiarisce che invece «nelle politiche di accoglienza non può individuarsi un definito motivo ispiratore, poiché l’indirizzo politico si mostra incerto e mutevole, influenzato dai cambiamenti, spesso quotidiani degli orientamenti di un’opinione pubblica che appare altrettanto incerta e mutevole e comunque spaccata tra solidarietà e paura del diverso».
[22] Per consultare qualche dato sul punto, cfr.: https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Annual_asylum_statistics; Agenzia dell’Unione europea per l’asilo (EUAA), Relazione sull’asilo 2022, in https://euaa.europa.eu/sites/default/files/publications/2022-07/2022_Asylum_Report_Executive_Summary_IT_o.pdf; https://integrazionemigranti.gov.it/it-it/Ricerca-news/Dettaglio-news/id/2996/Frontiere-esterne-UE-nel-2022-oltre-300.mi-la-gli-attraversamenti-irregolari-di-migranti-e-rifugiati; Frontex, EU’s external borders in 2022: Number of irregular border crossings highest since 2016, 13 gennaio 2023, in https://frontex.europa.eu/media-centre/news/news-release/eu-s-external-borders-in-2022-number-of-irregular-border-crossings-highest-since-2016-YsAZ29.
[23] M. SAVINO, La libertà degli altri. La regolazione amministrativa dei flussi migratori, Milano, 2021; F. ASTONE, Riflessioni in tema di urgenza, emergenza e protezione delle situazioni giuridiche soggettive (nell’ottica del pubblico diritto e avuto riguardo ai fenomeni immigratori ed alla cosiddetta amministrazione dell’emergenza), in Scritti in memoria di Giuseppe Abbamonte, Tomo I, Napoli, 2019, pag. 95 s.s., secondo cui la questione immigratoria rientrerebbe in quella categoria di situazioni che «si lasciano strutturalmente non fronteggiate e non risolte in modo da intervenire con continui provvedimenti in deroga, i cui effetti sono connotati da contorni giuridici inediti e da orizzonti temporali estesi, se non addirittura del tutto ignoti. In questi casi si potrebbe parlare infatti per ossimori di una «emergenza strutturale» di alcune situazioni e di una «straordinarietà normale» delle relative discipline giuridiche».
[24] Il rapporto tra sicurezza e libertà non è chiaramente un tema nuovo, nello specifico contesto dell’immigrazione si rinvia a M. INTERLANDI, Fenomeni immigratori tra potere amministrativo ed effettività delle tutele, Torino, 2018; più in generale, invece, cfr.: G. CORSO, Ordine pubblico, Bologna, 1979; G. TROPEA, Sicurezza e sussidiarietà. Premesse per uno studio sui rapporti fra sicurezza pubblica e democrazia amministrativa, ESI, 2010; V. BALDINI, Sicurezza e libertà nello Stato di diritto in trasformazione. Problematiche costituzionali delle discipline di lotta al terrorismo internazionale, Torino, 2005.
[25] Ex multis, v. M.C. CAVALLARO, Gestione dei migranti, emergenza sanitaria, e sicurezza pubblica: verso un diritto amministrativo del nemico?, in PA Persona e amministrazione, n. 1/2022, pag. 286 ss.
[26] CGUE, 24 gennaio 2012, C-282/10, Dominguez, punto 23, ove la Corte stessa chiarisce che la disapplicazione della norma interna si pone come successiva alla verifica della sua possibile interpretazione conforme al diritto dell’Unione Europea, o meglio «si pone solo se non risulta possibile alcuna interpretazione conforme di tale disposizione».
[27] La difficile opera di armonizzazione tra ordinamento giuridico italiano e ordinamento dell’Unione europea, considerando anche che pure quest’ultimo è dotato di organi giurisdizionali, richiederebbe già di per sé un lavoro monografico per essere affrontato in tutti i suoi aspetti essenziali. Pertanto, per un primo approccio al tema si suggerisce di v. A.A.V.V., Il diritto europeo e il giudice nazionale, Milano, 2023. Il volume da ottobre 2023 è reperibile anche sul sito www.scuolamagistratura.it.
[28] Cfr.: Tribunale di Catania, decreto n. 10798 dell’8/10/2023; Tribunale di Catania, decreto n. 10885 del 10/10/2023; Tribunale di Catania, decreto n. 10887 del 11/10/2023. Tra questi è poi possibile ricomprendere, quanto alle conclusioni, anche la decisione del Tribunale di Firenze n. 9787 del 20/09/2023.
Con la sentenza della V Sezione del 22 gennaio 2024, come emerge dal comunicato n. 2/2024, i giudici del Supremo Collegio hanno affermato che non è idonea a produrre effetti giuridici la contestazione suppletiva di una aggravante che rende procedibile d’ufficio un reato, divenuto, in assenza di tale circostanza, perseguibile a querela per effetto dell’entrata in vigore del d. lgs. n. 150 del 2022, ove la contestazione sia formulata dal P.M. in un momento successivo al decorso del termine, previsto dall’art. 85, comma 1, dello stesso d. lgs. n. 150 del 2022, per la proposizione della querela.
Il dato conseguirebbe all’applicabilità di una delle cause di non punibilità previste dall’art. 129 c.p.p. in quanto la contestazione suppletiva di circostanza aggravante è idonea a produrre effetti giuridici (ad es., quanto al dovere del giudice di pronunciarsi nel merito della stessa e quanto all’incidenza sul termine di prescrizione e sul regime di procedibilità) solo se intervenga prima del verificarsi di una delle “cause di non punibilità” previste dall’art. 129 c.p.p. (v. i principi affermati da Sez. Un. n. 49935 del 28.09.2023, Domingo, RV. 285517-01).
La decisione si pone in contrasto con quanto deciso da Cass. fer. N. 43255 del 22.08.2023, dep. 20.10.2023, RV 285216; Cass. sez. IV 22.11.2023, dep. 29.11.2023, n. 47769, RV 285421 ove si è invece affermato che in tema di reati divenuti perseguibili a querela a seguito della modifica introdotta dal d. lgs. 10.10.2022, n. 150, nel caso di intervenuto decorso del termine previsto all’art. 85 del d. lgs. citato senza che sia stata proposta la querela, è consentito al pubblico ministero di modificare l’imputazione in udienza mediante la contestazione di una circostanza aggravante per effetto della quale il reato divenga procedibile d’ufficio, essendo lo stesso investito, anche in difetto di sopravvenienze dibattimentali rilevanti a tale fine, del potere-dovere di esercitare l’azione penale per un reato correttamente circostanziato (fattispecie di furto, in relazione alla quale, per effetto della contestazione suppletiva dell’aggravante di cui all’art. 625, comma primo, n. 7, c.p., il delitto era divenuto procedibile d’ufficio).
Se si prescinde da qualche retropensiero e si affronta la questione in termini tecnici, seppur complessa e anche legata a sensibilità diverse, deve riconoscersi che la decisione della V Sez. non appare in linea con il sistema processuale e non è pertanto condivisibile.
Il principio di immediatezza di cui all’art. 129 c.pp., non implica, come affermato da Lozzi, una pronuncia intermedia prima che la fase processuale nella quale può manifestarsi la causa di improcedibilità sia esaurita. In questo arco temporale dovrebbe ritenersi applicabile l’art. 517 c.p.p.
Spetterà al giudice, all’esito del contraddittorio, valutare se l’aggravante contestata sussiste oppure no. In quest’ultimo caso, non essendo stata proposta la querela, si dichiarerà l’improcedibilità dell’azione penale.
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