Dedicato ai magistrati resistenti[1].
La lunga vicenda processuale seguita all’omicidio dell’on. Giuseppe Di Vagno[2], tanto nella porzione svolta nel biennio 1922-1924, sia in quella successiva alla revisione del processo dopo la caduta della dittatura, rappresenta il paradigma dell’atteggiamento della magistratura professionale italiana (non già dei tribunali speciali costituiti dal regime con evidenti scopi persecutori) a fronte degli episodi di violenza commessi dai fascisti prima e durante l’affermazione del regime.
Quasi tre anni prima dell’uccisione di Giacomo Matteotti, nel sud barese si consumò un primo, meno noto, omicidio politico.
L’on. Di Vagno, deputato socialista, il 25 settembre 1921, venne raggiunto da una squadra fascista, mentre si apprestava a partecipare ad una iniziativa politica a Mola di Bari. Inseguito mentre fuggiva, venne attinto da due colpi da arma da fuoco, esplosi uno dopo l’altro, che colpirono la regione lombare e l’articolazione sacro coccigea. Dalle ferite ne derivò la morte.
La sentenza della Corte di assise di Bari del 1922, fra imputati amnistiati e complici la cui posizione era stata tralasciata già in fase di indagine, non rese mai giustizia al martirio del deputato socialista.
Nel 1944, la Corte di appello di Bari revocò l’amnistia concessa nel 1922 ed il Procuratore Generale presso la Corte di assise di Bari dispose nuove indagini sull’omicidio.
Scaturì il processo bis, celebrato per “legittima suspicione” a Potenza e concluso con la sentenza del 31 luglio del 1947 che accertava l’omicidio volontario e condannava esponenti fascisti baresi, nel frattempo divenuti “classe dirigente” locale.
In questa sede interessa, però, l’esito finale, ossia la sentenza della Corte di Cassazione del 22.3.1948, adottata in un’epoca in cui neppure vi era il timore che le decisioni giudiziarie contravvenissero alla volontà politica del fascismo.
La Suprema Corte, a conclusione del nuovo processo, qualificò l’omicidio come preterintenzionale e come tale, secondo gli ermellini, “coperto” dall’amnistia Togliatti.
Non serve scomodare gli annali della giurisprudenza, per precisare che l’omicidio è preterintenzionale quando la volontà dell'agente è diretta a percuotere o ledere ed il reo non prevede come conseguenza della sua azione l’evento morte, che – appunto – si verifica praeter l’intenzione.
Nel caso Di Vagno, lo svolgimento dell’azione, accertato pacificamente nei gradi di merito, palesa più elementi sintomatici dell’intento omicidiario: l’utilizzo di un’arma da fuoco, l’inseguimento della vittima, la pluralità dei colpi esplosi, le parti del corpo attinte. La conclusione della Suprema Corte piuttosto che fare uso dei canoni ermeneutici già allora affermati è facilmente sospettabile di avere puntato ad una “benevola” conclusione della lunga vicenda processuale, appunto tramite la qualificazione dell’omicidio come preterintenzione e conseguentemente riconoscendo l’amnistia in favore degli assassini del Di Vagno.
Al momento della sentenza il regime fascista era già venuto meno, si deve allora riflettere sui motivi di questo atteggiamento clemenziale. L’analisi verterà sulla condizioni e sulla composizione della magistratura italiana nel dopo guerra ed almeno fino al ricorrere di due eventi fondamentali, che si sarebbero verificati nel decennio successivo: l’entrata in funzione della Corte Costituzionale nel 1956 che promosse una lenta ma efficace rilettura dell’ordinamento e delle leggi fasciste alla luce dei precetti della Costituzione repubblicana e la legge istitutiva del Consiglio Superiore della Magistratura nel 1958 che garantì la indipendenza ed autonomia del potere giudiziario.
Solo a partire dagli anni ’60, per effetto della piena operatività della Corte costituzionale e del Consiglio superiore ma anche per il fecondo clima culturale promosso da una generazione di giuristi attenti ai temi delle libertà, delle garanzie e dei diritti, la magistratura italiana cominciò un lungo viaggio che la rese coprotagonista della attuazione della Costituzione e del progresso della civiltà giuridica italiana.
Invece, la magistratura del dopoguerra era ancora quella mirabilmente descritta da Dante Troisi in Diario di un giudice: inconsapevole del suo ruolo costituzionale, ripiegata in se stessa, muta testimone delle rovine morali e materiali del dopoguerra ed attenta solo alle progressioni in carriera.
Circa le condizioni economiche, rileva quanto osservato da Meniconi “negli uffici giudiziari il clima era reso difficile dalle condizioni economiche e materiali in cui veniva amministrata la giustizia: affollamento delle cause civili e penali, diminuzione del numero di magistrati, dovuto al blocco dei concorsi, stipendi falcidiati dalla inflazione post bellica”. Un magistrato assunto nel 1910 con uno stipendio di 200 lire, si trovava ad essere consigliere di Cassazione con uno stipendio di 33.009 lire che però equivaleva alla capacità di acquisto di appena 150 lire nel 1910: ossia aveva visto, nonostante avesse raggiunto l’apice della carriera, diminuire di un quarto il potere di acquisto della sua retribuzione[3].
Una magistratura, schiacciata dall’eccessivo lavoro giudiziario ed insieme spinta a preoccuparsi dei propri bisogni materiali, è più facile che si sottragga all’approfondimento faticoso delle questioni ed alla decisione coraggiosa perché tendenzialmente troverà rifugio nella comodità del precedente giurisprudenziale e nella soluzione più semplice, se non addirittura in quella che meno scontenta la parte processuale più potente. Trova anche così giustificazione la motivazione della Corte di Cassazione nel processo “Di Vagno bis” che ha preferito dilatare i confini della nozione di omicidio preterintenzionale al fine di trovare una soluzione di compromesso (accertare la colpevolezza ma amnistiare i rei) che scontentasse il meno possibile. Si tratta di un “meccanismo” di inconsapevole autodifesa professionale che deve sempre essere tenuto presente quando si pretende l’adempimento delle funzioni giudiziarie secondo parametri quantitativi, seguendo l’approccio aziendalistico –oggi tanto in voga- ai temi della giustizia e la (purtroppo diffusa) pretesa di valutare l’attività giurisdizionale solo per il numero di affari definiti e non secondo la capacità di verificare, nel caso concreto, le ragioni ed i torti.
Ma si deve anche ragionare sulla composizione del ceto magistratuale del dopo guerra.
Il “corpo” della magistratura era rimasto quello del regime: come in generale per la pubblica amministrazione, la macchina dell’epurazione dei magistrati produsse pochissime decisioni di condanna anche per evitare la decapitazione di un’intera classe dirigente con la conseguente impossibilità per l’amministrazione di funzionare. Quanto lungo e difficoltoso sia stato il ricambio generazionale risulta dalla statistica riportata da Neppi Modona: assumendo come punto di riferimento i ruoli del 1968, risulta che erano stati assunti in servizio prima del 1944 tutti i magistrati di cassazione e ben il 70% dei magistrati di appello mentre erano il 99% i magistrati di tribunali assunti dopo il 1944. Quella che allora era definita l’“alta magistratura” (a più di venti anni dalla caduta del regime) era di origine “fascista” e non per nulla proprio dalla “bassa magistratura”, a partire dagli anni ’60, vennero gli stimoli per la stagione dell’affermazione dei diritti e delle garanzie.
È facile dunque immaginare quale fosse la composizione della magistratura al tempo del processo “Di Vagno bis” e quanto operasse in piena continuità con la tradizione fascista. Infatti, se è vero che i magistrati italiani potevano vantare il rifiuto di prestare giuramento alla Repubblica di Salò, è incontrovertibile che la loro carriera si era tutta sviluppata durante il fascismo così da avere il paradosso che fossero fra loro colleghi i magistrati che avevano avuto ruoli di vertice durante il regime[4] ed i magistrati che erano stati rimossi dal regime per motivi politici[5], a tacere dei magistrati resistenti ricordati da Borgna.
Si deve inoltre tenere presente che la cultura giuridica, dominante allora ed almeno per un altro decennio, era tutta fondata sul tecnicismo e sulla pretesa apoliticità dell’attività di interpretazione delle norme. Era dunque difficile l’immediato assorbimento dei principi fondanti la Carta costituzionale nata dalla Resistenza e comunque più complessa l’applicazione delle norme introdotte, dopo la Liberazione, per sanzionare i crimini fascisti, da più parte criticate per la loro vaghezza e per i loro difetti tecnici.
Si tratta dello stesso ritardo culturale che i magistrati hanno subito nel cogliere la gravità dei reati commessi in un contesto mafioso. Annota Isaia Sales[6] che dall’Unità d’Italia fino al 1992 a fronte di 10.000 omicidi ci furono in Sicilia solo 10 condanne all’ergastolo di mafiosi, mentre ce ne saranno 450 solo fra il 1993 ed il 2006. Al di là dell’inasprimento dell’apparato sanzionatorio antimafia, dovuto alla legislazione degli anni’80 e ’90, Salvatore Lupo[7], fra i maggiori storici della mafia, ha individuato questa radicale inversione di tendenza nel “processo di distacco della giovane magistratura dal potere; grazie alla scolarizzazione di massa che sottrae il reclutamento ai tradizionali canali riservati alla possidenza fondiaria ed alla classe dei grandi professionisti; grazie all’applicazione seppure tardiva del dettato costituzionale, che dà alla magistratura prima, al singolo magistrato dopo, un’autonomia della quale mai l’una e l’altra avevano goduto in passato”.
Ancora una volta solo la sua rinnovata composizione sociale e la definitiva affermazione della cultura costituzionale consentirono alla magistratura di affrancarsi da prassi giurisprudenziali conformiste e poco propense a smuovere lo status quo. Un tema, quella della composizione sociale della magistratura, che non deve cessare di interessare chi si occupa di giustizia e diritti, soprattutto di questi tempi quando le difficoltà concorsuali hanno innalzato l’età di accesso alle funzioni giudiziarie (con medie ben superiori ai trenta anni) con il rischio di ritorno ad un meccanismo censuario di selezione, perché solo chi è sostenuto da famiglie che possono garantire il mantenimento economico fino ai trenta anni può dedicarsi serenamente alla preparazione delle prove di accesso. Così come, tuttora, deve tenersi ben saldo l’assetto costituzionale del potere giudiziario, ben prevenire il rischio che gli organi giurisdizionali tornino a rimanere, anche solo inconsapevolmente, supini al gradimento delle maggioranze del momento.
È ora però di tornare al tema dell’atteggiamento della magistratura del dopo guerra rispetto ai crimini fascisti. Neppi Modona, tirando le fila dello studio sugli orientamenti giurisprudenziali di quegli anni in materia di sanzioni contro i fascisti e di processi per i crimini commessi dai partigiani durante la Resistenza, conclude che “il ceto giudiziario della Cassazione romana (a differenza dei giudici di merito delle zone dove maggiormente si sviluppò la guerra di Liberazione, come per esempio il Piemonte, nda) che non aveva vissuto in prima persone le barbarie nazifasciste e la cui compromissione con il regime era stata certamente maggiore, opera una scelta non solo di continuità ….ma di copertura dei reati comuni commessi dai nazifascisti”.
Ed in conclusione, rileva il giudizio di V. Zagrebelsky “in generale l’orientamento della magistratura può essere definito moderato e conservatore, conforme a quello politico prevalente in ogni campo e particolarmente favorito dall’atteggiamento della magistratura, per un verso di ostentata estraneità a tutto ciò che si richiamasse ad opzioni politiche e per altro verso naturalmente incline ad esprimere le scelte con argomentazioni tecniche. In fondo un simile atteggiamento era anche favorito dalla convinzione diffusa tra i magistrati che la magistratura fosse rimasta esente da influenze politiche persino durante il periodo fascista, come sarebbe dimostrato dal fatto che il fascismo, per ottenere una giustizia politicamente orientata, aveva istituito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato”.
Breve bibliografia
AAVV, Il processo Di Vagno, Camera dei Deputati, 2011.
BASSO, Il Principe senza scettro, Milano, Feltrinelli, 1999.
NEPPI MODONA, La magistratura dalla Liberazione agli anni Cinquanta. Il difficile cambiamento verso l’indipendenzain Storia dell’Italia Repubblicana, a cura di F. Barbagallo, vol. III, 2 Torino, Einaudi, 1997 pp. 83-137.
V. ZAGREBELSKY, La magistratura ordinaria dalla Costituzione ad oggi in Storia d’Italia. Annali 14. Legge, diritto, giustizia a cura di L. Violante, Torino, Einaudi, 1998, pp. 713-790.
MENICONI, Storia della magistratura italiana, Bologna, Il Mulino, 2012.
BORGNA, La magistratura resistente in Questione Giustizia on line.
[1] Alcuni nomi ricordati da Borgna: Carlo Alberto Ferrero, della Corte d’appello di Torino che, per aver definito «prive di fondamento giuridico» le sanzioni a carico dei familiari dei renitenti alla leva, fu catturato dai tedeschi, seviziato, costretto a sfilare nel paese di Chiusa Pesio con appeso al collo un cartello con la scritta «traditore» e infine fucilato.
Mario Fioretti che a Roma, il 12 dicembre 1943, fu ucciso in piazza di Spagna al termine di un comizio. Il giudice di Ferrara Pasquale Colagrande, il quale, incarcerato dai fascisti, quando gli si offri di fuggire, rispose «Salvarsi? O tutti o nessuno». E poco dopo, davanti al plotone di esecuzione, alzò il grido: «Assassini!». Dirà Calamandrei in un discorso commemorativo tenuto a Ferrara nel novembre 1950: «Quella non fu un’imprecazione; egli era un magistrato: quella fu una sentenza, l’ultima inappellabile sentenza di un magistrato eroico».
Il giudice cuneese Vincenzo Giusto, che cadde in combattimento dopo aver raggiunto sulle montagne le formazioni partigiane.
[2] Ben descritta da Marco Nicola Miletti Il doppio tradimento. Una lettura storico giuridica delle carte processuali, Giulio Esposito Le premesse del delitto e Vito Antonio Leuzzi La revisione del processo: tra reazione e democrazia tutti in Il processo Di Vagno, Camera dei Deputati, 2011.
[3] Venne addirittura proclamato lo sciopero descritto da Scalambrino in Questione Giustizia n. 1, 1984, pp. 219 e ss.
[4] Si pensi a Luigi Oggioni, già procuratore generale della Repubblica di Salò e poi procuratore generale presso la Corte di Cassazione in epoca repubblicana od ad Gaetano Azzariti, già presidente del Tribunale per la razza e poi giudice e presidente della Corte Costituzionale.
[5] Si pensi a Giuseppe Pagano, nominato primo presidente della Corte di Cassazione dal Guardiasigilli Togliatti od a Giuseppe Badia e Vincenzo Chieppa, dirigenti dell’associazione nazionale magistrati.
[6] La Mafia impunita in la Repubblica del 27.3.22.
[7] Storia della mafia. Dalle origini ai giorni nostri, Roma, Donzelli, 1996.