ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il Giorno della Memoria è da celebrare, tanto più quest’anno alla luce delle manifestazioni di antisemitismo seguite al conflitto tra Israele e Hamas. A Roma sono state oggetto di gesti vandalici le pietre d’inciampo, memoria del rastrellamento degli ebrei romani avvenuto nell’ottobre del 1943. Episodi analoghi sono avvenuti in altre città d’Europa.
Il rapporto Eurispes Italia del 2020 rassegna una situazione, sotto il profilo della dissociazione della memoria collettiva dall’Olocausto, non rassicurante. In particolare, è emerso che il 15,6% degli italiani nega l’Olocausto, a fronte dell’84,4% non concorde. L’affermazione secondo cui l’Olocausto non avrebbe prodotto così tante vittime, come viene sostenuto, trova una percentuale di accordo solo lievemente superiore: 16,1%, mentre il disaccordo raggiunge l’83,8% degli italiani. Secondo il 23,9% degli italiani gli ebrei controllerebbero il potere economico e finanziario e, a detta di più di un quinto degli italiani intervistati (22,2%), controllerebbero i mezzi d’informazione. La tesi secondo cui gli ebrei determinano le scelte politiche americane incontra la percentuale più elevata di consensi, pur restando minoritaria: il 26,4%, contro un 73,6% di pareri contrari.
Per celebrare il Giorno della Memoria pubblichiamo l’intervento del prof. Ruggero Taradel tenuto a un incontro organizzato dall’associazione Grande come una città [1] a Roma il 27 gennaio 2019, il cui testo è stato poi pubblicato da Castelvecchi Editore nel 2021[2].
Il sonno della ragione. Razzismo, antisemitismo e Shoah
di Ruggero Taradel
1. Il Giorno della Memoria
Una scritta recentemente vergata con lo spray all'ingresso di un cimitero ebraico in Ungheria recita: “l'Olocausto che non c'è mai stato ci sarà presto”; in un'altra nei pressi di Kiev si legge “per fare felice l'Ucraina bisogna fare due cose: deportare tutti gli omosessuali nei gulag e espellere tutti gli ebrei” altri e numerosi sarebbero gli esempi che in molti paesi mostrano in modo tangibile la crescente forza di questi rigurgiti d'odio, che si sono fatti sempre più frequenti e diffusi a partire dagli anni Novanta.
L'apparentemente ovvia equazione fra il crollo del nazismo e dei fascismi e la fine del razzismo e dell’antisemitismo nelle società europee mostra ormai da molti anni tutta la sua natura illusoria.
Il Giorno della Memoria, designato nel 2005 dall'Unione europea e ricorrente il 27 gennaio, data della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz, si trova così a vivere un rapporto ambiguo in merito al suo senso e significato. Da un lato, la comunità scientifica e gli Stati nazionali riconoscono il carattere fondamentale di questa commemorazione poiché, con la progressiva scomparsa dei testimoni diretti e l'allontanarsi degli eventi nel tempo, il rischio di un ritorno degli antichi demoni del razzismo e dell'antisemitismo viene percepito come una sempre più possibile incombente realtà. Dall'altro lato, questa commemorazione è problematica, e accade di assistere sempre più di frequente a iniziative ed eventi che restituiscono un'immagine parziale, distorta, o perfino edulcorata della Shoah. Il rischio, denunciato da più parti, è quello del verificarsi di una dissociazione tra storia e memoria. Per poter far chiarezza è innanzitutto necessario chiarire i termini della vexata quaestio riguardo la distinzione fra antigiudaismo e antisemitismo.
Le radici storiche - sia chiaro che non che non sto parlando di cause meccaniche dirette - su cui si innesta l'esito estremo della Shoah rimontano, se vogliamo identificare un momento politico specifico al momento in cui l'Imperatore tedesco Teodosio nel IV secolo sancì la religione cristiana come unica forma di culto lecito e tollerato all'interno dell'Impero, bandendo così definitivamente tutti gli dèi dell'antichità. L'unica religione a cui da questo momento in poi viene permesso di esistere, accanto a quella cristiana ufficiale, è l'ebraismo, che si definisce come unico elemento di diversità religiosa e culturale rispetto a una società integralmente cristiana.
Successivamente, nel corso del Medioevo, agli ebrei venne assegnato uno statuto particolare, di matrice prettamente teologica, che li definiva collettivamente colpevoli di deicidio, ovvero della crocifissione di Cristo, e al contempo ostinati negatori della sua messianicità: di conseguenza gli ebrei si trovarono a costituire all'interno della societas medievale una comunità a parte, i cui soggetti sono da sottoporre a speciali interdizioni e a vere e proprie segregazioni. La parola ghetto, di origine veneziana, indicava le aree speciali delle città in cui gli ebrei erano costretti a vivere relegati, condizione che si aggiungeva al divieto di esercitare tutta una serie di professioni. Nel corso dei secoli si era stratificata una molteplicità di stereotipi sul popolo ebraico a livello culturale, ecclesiastico, politico e popolare: stereotipi che spaziavano dagli aspetti più triviali - l'ebreo come sinonimo di usuraio avido e avaro - a quelli apparentemente più fantasiosi e immaginari - ebrei accusati di omicidio rituale e di rapire i bambini cristiani per berne il sangue durante le celebrazioni pasquali -. L’insieme di questo complesso di imagery e di narrazioni viene a volte definito antigiudaismo ma il termine antisemitismo teologico è, a mio avviso preferibile, almeno a partire dall'VIII secolo, poiché il pregiudizio si nutre, essenzialmente, di una radice ideologica che fa capo alla teologia, ma, al tempo stesso, edifica un’immagine negativa fantastica e chimerica del giudaismo, del popolo ebraico e della sua cultura e tradizioni. Il paradigma antiebraico medievale costituisce un netto salto di livello rispetto alla vecchia polemica teologica dei padri della Chiesa. Nel corso del XVII e XVIII secolo, dopo la pace di Vestfalia (1648) e con l'avvento dell'età dei lumi l'ebraismo europeo entra in una fase di emancipazione: i vecchi statuti e interdizioni vengono faticosamente ma progressivamente abrogati e gli ebrei, soprattutto a partire dalla metà del XIX secolo, cominciano ad acquistare la piena cittadinanza in vari paesi d’Europa. Tuttavia, questo processo non si svolse senza opposizioni e resistenze: il vecchio immaginario catastrofico sugli ebrei continuava a persistere in molti strati sociali e culturali, come nei circoli ecclesiastici protestanti, ortodossi e cattolici, per citarne alcuni. Il processo di emancipazione si accompagnava inoltre a una rapida impetuosa evoluzione delle società e delle economie europee le cui contraddizioni irrisolte avrebbero fatto da sfondo e fornito la base la premessa per la nascita di quello che è l’antisemitismo moderno, e proprio nel XIX secolo viene coniato dal giornalista tedesco Wilhelm Marr il termine antisemitismo: le nuove forme di ostilità antiebraica, pur mantenendo diversi elementi dell'antisemitismo teologico preesistente, che finiscono per affiancare, assumono ben presto connotazioni politiche e razziste soprattutto in paesi come la Germania. Gli ebrei non vengono più concepiti come pericolosi, malvagi o parassiti sulla base di argomenti teologici di una tradizione religiosa, bensì come componenti di un popolo costituente una vera e propria natio, una nazione a sé stante: una nazione al tempo stesso distinta e diversa che vive in maniera parassitaria o perniciosa all'interno di altre nazioni territoriali definite. Accanto alla progressiva politicizzazione, si assiste in questo periodo sorgere di una sedicente scienza razziale, una pseudoscienza divulgata da autori come Joseph Arthur de Gobineau, il quale introduce una trasformazione concettuale della definizione di ebreo. A fine ‘800, infatti, alle tradizionali ostilità teologicamente fondate si affianca un nuovo tipo di antisemitismo, ben più virulento, aggressivo e potenzialmente letale. La novità fondamentale portata da questa trasmutazione e cambio di paradigma è la seguente: all'interno del tradizionale framework teologico, l'ebreo aveva la possibilità - concreta non solo teorica - di essere accolto all’interno della società cristiana grazie a un atto di conversione; nel nuovo paradigma, al contrario, questo non è più sufficiente, poiché all'ebreo viene assegnata l'appartenenza a un'unità etnica e razziale specifica che trascende e supera qualsiasi connotazione religiosa. Ciò si evince chiaramente dai testi e dai pamphlet di propaganda antisemita che cominciano a circolare per l'Europa: essi, infatti, avvertono l'opinione pubblica a cui si rivolgono di tenersi in guardia dall'ebreo, anche quello convertito al cristianesimo o socialmente assimilato, la cui natura razziale è tale indipendentemente dalla fede che sceglie individualmente tracciare e con cui identificarsi.
2. Il nazismo al potere
Tale trasformazione ideologica, dopo alcuni decenni di incubazione, è ben consolidata già agli inizi del 900, ed è ben visibile nel programma del 1924 del partito nazionalsocialista: l'ebreo non può e non deve essere considerato un Volksgenosse, ossia un membro della comunità tedesca, e gli si deve imporre una posizione speciale e subordinata all'interno della società. Questo è il pericolo in cui tutta la propaganda antisemita più violenta e aggressiva del secolo precedente viene ripresa e utilizzata da Hitler e dai suoi seguaci per attirare voti per la costruzione del consenso attorno al nuovo movimento politico. La Germania era uscita in condizioni disastrose dalla Prima Guerra Mondiale: la pace di Versailles infatti l'aveva privata dai suoi domini coloniali, aveva costretto il suo Kaiser all'abdicazione, l'aveva condannata a pagare esorbitanti riparazioni di guerra e, soprattutto, l'aveva politicamente umiliata. Per attirare i voti e consensi di una popolazione disorientata, impoverita e timorosa del futuro, i nazisti alimentarono il mito della “pugnalata alle spalle” virgolette applicandolo su due fronti: uno imputava la perdita della guerra per la Germania non a motivi militari, ma al tradimento di una quinta colonna interna; l'altro, rinvigorito dal falso dei Protocolli dei Savi di Sion, ritraeva gli ebrei come i veri agenti di guerre, rivoluzioni, crisi economiche e sociali orchestrate per ottenere il dominio del mondo. L'ebreo diventa, in questa narrazione, il capro espiatorio di tutti i mali nazionali e internazionali. Il partito nazionalsocialista, che agli inizi degli anni Venti veniva ancora considerato da buona parte dell’opinione pubblica tedesca come una rumorosa minoranza di fanatici inclini alla violenza di piazza, trionfa politicamente nel 1933: Hitler riceve il cancellierato dalle riluttanti ma rassegnate mani dell'anziano presidente Hindenburg. La morte di quest'ultimo, avvenuta poco dopo, permette a Hitler di cumulare a quella del cancelliere la carica del presidente del Reich. Con la dissoluzione del Parlamento tedesco e l'istituzione del partito unico venne in brevissimo tempo instaurato il sistema totalitario nazionalista che avrebbe retto le sorti del paese sino al maggio del 1945.
L'ascesa di Hitler al potere rappresentò un vero terremoto per l'Europa intera: la rapidità con cui riuscì a trasformare radicalmente la società tedesca visitata dalla Repubblica di Weimar rappresenta un evento storico davvero impressionante.
Nel 1933 Hitler emana l’Arierparagraph ossia la prima legge del Terzo Reich contro gli ebrei. I nazisti, in questo momento, erano ancora costretti a confrontarsi con un problema che già aveva angustiato tutti i movimenti antisemiti di fine Ottocento. I loro tentativi di far approvare ai parlamenti di Austria e Germania una qualche legislazione speciale erano naufragati miseramente: non solo per mancanza di sufficiente leverage politico, ma per il fatto che non riuscivano, a dispetto di notevoli sforzi, a trovare una definizione legale di chi fosse ebreo che potesse essere giuridicamente accettabile e traducibile in politiche discriminatorie. La complessità sociale e la convenienza fra gli ebrei e il resto della popolazione rendevano ormai davvero difficile, se non impossibile, stabilire dei criteri di demarcazione chiari e che potessero fare da base a leggi speciali.
Questo ostacolo venne superato dai giuristi tedeschi con le leggi di Norimberga del 1935, che per la prima volta elaborano un sistema giuridicamente coerente per classificare con precisione i soggetti del Reich secondo coordinate razziali: alcuni cittadini erano da considerare ebrei a tutti gli effetti, altri erano da considerare dei mezzosangue di diverso grado, aventi ancora diritto a un certo tipo di esenzioni, mentre coloro che non ricadevano in queste categorie venivano invece massificati come completamente ariani. Le leggi di Norimberga presentarono una singolare commistione di criteri tassonomici: vi convivevano criteri razziali, tesi a identificare i rami familiari di un individuo, e quelli religiosi, finalizzati ad accertare l'appartenenza di un soggetto alla religione ebraica o meno. Si tratta di tassonomie logicamente, e a volte chiaramente, contraddittorie che tuttavia avevano il vantaggio di non lasciare margini di incertezza o di dubbi alla pubblica amministrazione del Reich. Sul piano materiale, le carte d'identità vengono riformulate secondo il nuovo sistema giuridico: ogni cittadino tedesco, che rispondeva a determinati parametri, doveva essere immediatamente identificabile come ebreo o ariano. La parola Jude fa la sua apparizione, e l'appartenenza razziale è chiaramente indicata con effetti discriminanti in tutti gli atti della pubblica amministrazione nazista. L'opinione pubblica internazionale, che pur osservava con sconcerto e preoccupazione queste dinamiche, non stentava a comprendere con chiarezza la portata e la direzione che gli eventi stavano per prendere. Certamente a Hitler si rimproveravano misure medievali e anacronistiche che imponevano agli ebrei tedeschi le vecchie e segregazioni e discriminazioni. Ciononostante, quello che sfuggiva a molti cronisti e osservatori degli anni Trenta era la specificità e l'intrinseca pericolosità di un antisemitismo che era adesso di tipo rigidamente biologico e razziale, infinitamente più letale di quello teologico tradizionale.
In Germania la propaganda del regime, che si sarebbe presto fatta martellante e ossessiva a tutti i livelli - dalle scuole all'università, dai cinema alle radio e ai giornali - fu esplicitamente diretta a convincere i cittadini tedeschi del fatto che gli ebrei erano non solo una razza aliena e parassitaria, ma anche pericolosa. Assieme alla legislazione speciale e alla propaganda vennero poi varate misure tese a danneggiare la base oggettiva dell'esistenza degli ebrei tedeschi: tra le tante, il boicottaggio dei negozi e delle attività commerciali di proprietà ebraica, l'espulsione delle scuole e dalle università, il divieto ai medici ebrei di curare pazienti ariani. Ciononostante, molte delle vittime di queste discriminazioni non avevano piena coscienza dei possibili svolgimenti futuri e pensavano che, malgrado la situazione fosse terribilmente difficile, si sarebbe prima o poi raggiunto un punto di equilibrio e di stabilizzazione.
Un primo momento decisivo di radicalizzazione dell'antisemitismo nazista è dato dall’Anshluss ovvero l'annessione dell’Austria avvenuta nel 1938. Questo evento rappresenta una norma successo politico internazionale per Hitler, aiutato in questa impresa anche da Mussolini nel corso di una serie di consultazioni di concesse nel nihil obstat geopolitico. In quell'anno, mentre gli ebrei tedeschi avevano subito da anni un progressivo e costante crescente di misure antiebraiche, gli ebrei austriaci passarono senza soluzione di continuità da uno status dei cittadini austriaci con pari diritti a essere soggetti all'interno del corpus della legislazione antiebraica del Terzo Reich.
L'annessione, salutata da una buona percentuale della popolazione austriaca con genuino entusiasmo, si accompagnò a una serie di violente azioni antisemite, in particolare a Vienna, con gravi aggressioni, pestaggi, umiliazioni pubbliche, al punto che dopo alcune settimane le stesse autorità naziste intervennero per porre un freno a queste manifestazioni di plateale e disordinata violenza: non era questo il tipo di immagine che il Reich intendeva proiettare all'esterno. Allo stesso tempo, diverse cartoline di propaganda mostravano la fuga di un numero crescente di ebrei dall’Austria e dalla Germania in modo sarcastico e derisorio, interpretandola come un momento di Selbstreinigung cioè di “autopurificazione” del Volk tedesco.
È questo l'anno, questo è il contesto in cui in Italia Mussolini decide di emanare le leggi razziali. Si è scritto molto sui motivi che indussero a prendere una simile decisione, ed è possibile indicare due tesi particolarmente rilevanti: mentre alcuni studiosi ritengono che Mussolini non fosse intrinsecamente antisemita, interpretarono così le leggi come un'operazione opportunistica per dare un segnale urbi et orbi di una saldatura e coesione tra l’Italia fascista e la Germania nazista; altri invece sostengono che l'antisemitismo fascista non fu un fenomeno superficiale o opportunistico, quanto piuttosto un autentico momento di radicalizzazione ideologica del regime. Si ritiene attualmente più corretta la seconda ipotesi, dal momento che il fascismo aveva ampiamente dato prova di pensiero e propaganda razzista all'epoca della costruzione dell'impero coloniale. In altre parole, i germi del razzismo fascista erano già presenti ad abundantiam nel momento in cui Mussolini opta per le leggi razziali. Dopo la loro emanazione, praticamente tutti i settori della società italiana abbracciarono senza particolari resistenze la svolta antisemita del regime: in questo svolse un importante ruolo una propaganda pervasiva esemplata sul modello tedesco con metodi già collaudati come la pubblicazione di riviste, giornali e pamphlet dedicati a istituire la popolazione sulla questione ebraica. La celebre copertina del primo numero della rivista “La difesa della razza”, ad esempio, mostra una spada che protegge l'ariano non solo dall'ebreo ma anche dall'americano.
Il 1938 si conclude in Germania con la Kristallnacht, “la Notte dei cristalli”, espressione che indica un vero e proprio pogrom su scala nazionale, incitato e orchestrato direttamente dal regime, che si risolse nella distruzione di centinaia di negozi ebraici, di dozzine di sinagoghe e nell'uccisione e nel pestaggio di moltissimi ebrei. A Vienna, da poco degradata da capitale dell’Austria a città del Terzo Reich, delle novantatré sinagoghe e case di preghiera delle comunità ebraiche presenti al momento dell’Anschlussrimase solo la Stadttempel.
La Sinagoga non venne distrutta dai nazisti solo perché nel 1826 era stata costruita in un modo che integrava gli altri edifici: bruciarla o raderla al suolo avrebbe comportato seri danni anche per altri palazzi.
Questa serie di misure discriminatorie e persecutorie provocò una nuova ondata di emigrazioni: gli ebrei cercarono in questo periodo di fuggire dai territori del Reich per stanziarsi altrove. Tuttavia, solo il numero limitato di ebrei riuscì nell’intento: le fasce più povere socialmente deboli della popolazione non avevano infatti le risorse materiali per affrontare un’impresa simile. Altri ebrei, contro ogni evidenza, speravano poi ancora che la situazione avesse raggiunto il suo punto più estremo, che non avrebbe potuto ulteriormente aggravarsi.
A distanza di poco più di un anno dall'Anschluss, nel settembre 1939, Hitler invade la Polonia - senza una dichiarazione formale di guerra - dando inizio al secondo conflitto mondiale. I milioni di ebrei che vivevano sul suolo polacco si ritrovarono all'improvviso sotto il controllo diretto del Reich e sottoposti, con effetti immediati, alle sue leggi persecutorie, deportati dalle proprie abitazioni, reclusi nei ghetti come gruppo ostaggio alla mercé degli occupanti. È il caso dei ghetti di Cracovia, di Varsavia, di Lublino e di infinite altre città. Thomas Toivi Blatt, uno dei pochissimi sopravvissuti al campo di sterminio di Sobibór, racconta dell'arrivo dei tedeschi a Izbica, in Polonia, aveva 12 anni: lui era terrorizzato, ma il padre, che aveva conosciuto i soldati tedeschi vent'anni prima durante la Prima Guerra Mondiale, li ricordava come brava gente, rispettosa e compassionevole. In realtà, i tedeschi che occupano la Polonia - sia le SS sia la Wehrmacht - non avevano più niente a che vedere con la generazione che li aveva preceduti: erano soldati ufficiali imbevuti di ideologia e propaganda razzista, che presto non avrebbero avuto nessun problema a compiere atti che sarebbero stati assolutamente inconcepibili e inimmaginabili per i soldati tedeschi del primo conflitto mondiale.
L'invasione dell'Unione Sovietica nel giugno del 1941 con l'Operazione Barbarossa rappresenta il vero momento iniziale d'inizio dell'Olocausto: l'annientamento sistematico delle popolazioni ebraiche e bielorusse, ucraine e russe, segna l'avvio di quella che poi verrà chiamata dai burocrati nazisti Endlösung, “la soluzione finale”. Sin dalle prime sue battute la campagna di Russia è radicalmente diversa rispetto alle operazioni militari precedenti: se in Polonia fino a quel momento si era provveduto alla persecuzione, discriminazione e ghettizzazione degli ebrei, in Russia si opta immediatamente e direttamente per lo sterminio. Gli Einsatzgruppen, unità speciali sotto il controllo delle SS che seguivano le truppe della Wehrmacht avevano infatti il compito esclusivo di rastrellare e uccidere gli ebrei nei territori man mano occupati. Per dare un'idea di quanto ampie fossero le dimensioni di questa operazione, basti ricordare l'azione che seguì l'occupazione di Kiev nel 1941. Nei giorni successivi all'occupazione della città da parte dell'esercito tedesco venne emanato un decreto che imponeva a tutta la popolazione ebraica della società della città di presentarsi alle autorità per essere avviata, schedata e utilizzata come forza lavoro: era una trappola, nei giorni seguenti circa 33.000 ebrei, praticamente l'intera popolazione ebraica di Kiev, furono uccisi a Babi Yar, una località di canali e cave nei pressi della città. Un rapporto presentato a Himmler dagli Einsatzgruppen in questo periodo indicava il numero delle vittime delle loro operazioni per area geografica, e si possono notare alcune zone definite come Judenfrei, interamente “libere da ebrei”.
Di solito si tende istintivamente ad associare l'Olocausto alle immagini di Auschwitz, a volte ai nomi di Sóbibor, Treblinka, Belzec: immagini e nomi, quindi, che rimandano a puri campi di sterminio, o a campi misti con funzione di concentramento, lavoro e sterminio. In realtà, quasi la metà del totale delle vittime non furono uccise nelle camere a gas di campi, bensì in questa fase nota come the holocaust by bullets [3], l'olocausto dei proiettili. Un personaggio cui dobbiamo molto a questo proposito è Patrick Desbois, un sacerdote francese che superando ostacoli apparentemente insormontabili, negli ultimi decenni ha condotto delle ricerche sistematiche nei territori dell'est europeo alla ricerca dei luoghi in cui trovarono la morte decine di migliaia di ebrei, e dove ancora un numero incalcolabile di vittime rimangono lì dove furono sepolte dai loro carnefici, senza possibilità di memoria. Il lavoro di Desbois è stato fondamentale per la ricostruzione di questo aspetto dell'Olocausto: ha riportato alla luce non solo proiettili o resti umani, ma anche molte delle vanghe con cui le vittime furono costrette a scavare le proprie fosse comuni. Importantissimo è stato l'aiuto volontario di persone del posto impiegate come traduttori, interpreti e accompagnatori durante le interviste fatte ormai ad anziani che da bambini avevano assistito, volenti o nolenti, a questi massacri. I rastrellamenti e massacri sistematici che accompagnarono l'Operazione Barbarossa sin dal suo inizio rappresentano l'esito di un processo di radicalizzazione ideologica che negli anni successivi avrebbe prodotto eventi apparentemente paradossali. Nella mente di Hitler, di Heydrich, di Himmler e di altri l'eliminazione di ogni singolo ebreo dalla sfera di influenza del Reich era parte inscindibile della lotta per la conquista del Lebensraum e per la creazione del Reich di 1000 anni. Si assiste dunque ad accanimenti - apparentemente senza senso nel quadro di una guerra ormai irrimediabilmente perduta - come il deportare e lo sterminare tra il 1944 e il 1945 ciò che rimaneva dell'inerme popolazione ebraica ungherese, impiegando a questo scopo risorse che sarebbero stati utili per scopi militari ben più urgenti. Questo rispondeva a una logica inesorabile dal momento che la guerra andava combattuta su due fronti: contro l'Unione Sovietica e gli Alleati da una parte, e contro l'ebraismo internazionale dall'altra. Nell'immaginario antisemita nazista, infatti, una parte rilevante degli eventi e dei processi storici, in particolare quelli di tipo negativo (crisi economiche, rivoluzioni violente, guerre), era da attribuirsi a una cospirazione ebraica internazionale.
Nel dicembre del 1941 fallisce l'Operazione Tifone, ossia l'operazione con cui i nazisti tentarono di assestare il colpo di grazia all'Unione Sovietica con la presa di Mosca. Una serie di ritardi, dure condizioni climatiche e l'arrivo di truppe sovietiche dalla Siberia posero il Reich di fronte a uno stallo completamente inaspettato. Hitler e diversi dei suoi generali erano infatti convinti che la campagna di Russia si sarebbe conclusa in circa sette mesi. Dopo aver stabilito un perimetro difensivo dei territori conquistati sulla cosiddetta linea A-A (da Arkhangelsk, a nord, ad Astrakhan, a sud) ci si sarebbe potuti dedicare alla riorganizzazione dei territori conquistati. Alla fine del 1941 diventò invece chiaro che la guerra sarebbe stata molto più lunga, più sanguinosa e usurante, e soprattutto dagli esiti ben più incerti di quanto previsto. È nel gennaio del 1942, proprio nel momento in cui le truppe tedesche sono costrette prima a fermarsi e poi ad arretrare di fronte a Mosca, che viene convocata a Wannsee, nei pressi di Berlino, una conferenza segreta presieduta da Reinhard Heydrich, il terzo in comando nell'organizzazione delle SS, dopo Himmler e lo stesso Hitler. Lo scopo della conferenza era quello di ottenere la collaborazione il coordinamento dei ministeri e delle agenzie del Reich per l'attuazione della soluzione finale. Dei protocolli e delle trascrizioni dalle conferenze non rimane che una delle trentuno copie destinate ai partecipanti, ritrovata alla fine della guerra da alcuni soldati americani, miracolosamente sfuggita alla distruzione. Nel testo preparato da Eichmann è possibile leggere la valutazione del numero di ebrei, Paese per Paese, in una stima delle progettate conquiste del Reich. Il totale era di undici milioni ebrei destinati allo sterminio.
Questo è il momento in cui si prende atto che i metodi usati nella prima fase della Shoah, cioè quella dell'Olocausto dei proiettili indietro si erano dimostrati caotici e usuranti per le truppe soprattutto inadeguati all'enormità delle operazioni in questione. Problemi che vennero tecnicamente risolti con l'organizzazione dei campi di sterminio e di concentramento e con l'individuazione, dopo vari tentativi, del gas Zyklon B per l'uccisione industriale di deportati ed ebrei.
È necessario a questo distinguere tre tipologie fondamentali di lager nazisti: 1. Campi di puro sterminio. Erano di dimensioni molto ridotte poiché prevedevano solo la presenza stabile di soldati SS, ausiliari locali e alcuni deportati, utilizzati per esse per i lavori essenziali. La stragrande maggioranza di coloro che vi arrivavano venivano immediatamente uccisi. Sono di questo tipo i campi di Sóbibor, Treblinka, Belzec; 2. Campi di concentramento. Vi erano esecuzioni uccisioni, senza però che l'attività di sterminio fosse preminente; 3. Campi “misti”, come quello di Auschwitz-Birkenau, che rappresentano una sintesi dei due sistemi, riunendo e integrando concentramento, sfruttamento schiavile della forza lavoro dei deportati e sterminio.
Auschwitz non ha dunque un esempio esauriente di quello che era il progetto nazista: anche perché questo campo, come quello di Mauthausen o Dachau, rimase alla fine della guerra quasi intatto. L'intero ciclo di azione della macchina di sterminio esiste invece ben rappresentato dai campi di Sóbibor, Treblinka, Belzec. Il campo di Sóbibor è un buon esempio: tra il 1942 e il 1943 viene costruito, messo in attività e infine chiuso sterminando tutti i deportati rimanenti. Tutto il complesso viene poi immediatamente raso al suolo e al suo posto viene ripristinata la foresta preesistente. Poco o nulla, alla fine della guerra, si offriva alla lista di chi visitava l'area dove sorgeva.
3. La questione della Resistenza ebraica
Vorrei adesso soffermarmi sulla questione della resistenza. A differenza di quanto sostiene una certa superficiale vulgata, particolarmente popolare a partire dagli anni Sessanta, non è affatto vero che gli ebrei non tentarono di resistere nei limiti loro imposti da circostanze esterne, alla deportazione e allo sterminio. Nel dopoguerra alcuni criticarono con superficialità l'atteggiamento degli Judenräte, i consigli ebraici che svolgevano funzioni da interfaccia tra le autorità naziste e le comunità ebraiche. Le procedure istituite da Heydrich contavano paradossalmente sulla razionalità del perseguitato e se correttamente comprese spiegano il motivo per cui spesso gli Judenräte si trovavano paradossalmente a collaborare o a obbedire agli ordini delle autorità naziste. Venivano infatti posti sistematicamente di fronte alla scelta tra il male e il peggio, costringendoli a un corso d'azione di disperata e contingente limitazione del danno. È purtroppo ho accettato che diversi scenari in cui le comunità ebraiche dell'Europa centrale e dell'est provarono a reagire alle autorità naziste non produssero in ultima analisi alcun risultato positivo: qualsiasi decisione, incline o meno a optare per una collaborazione tattica, non cambiava l'esito finale, ovvero lo sterminio completo della comunità.
Per quanto riguarda le vicende che vedono protagoniste le comunità ebraiche, è possibile citare degli episodi su sono stati fatti degli studi più recenti. Esempio importanti di resistenza, a parte la clamorosa rivolta del Ghetto di Varsavia, sono rappresentati dalla Brigata Bielski, un gruppo armato di partigiani ebrei che salvarono migliaia di ebrei in fuga dai ghetti e dalle città; dalla rivolta nel campo di sterminio di Sóbibor, in cui molti deportati riuscirono a uccidere molte SS e guardie ucraine e a fuggire; e dalle iniziative del Sonderkommando ad Auschwitz. Thomas Blatt notava che la resistenza, nella Shoah, poteva assumere forme e declinazioni per noi difficilmente apprezzabili o percepibili. A Sóbibor, raccontava, c'era la cosiddetta Himmelstrasse, “la strada del paradiso”, come la chiamavano ironicamente nazisti, ossia un percorso attraversato dai deportati avviati alla camera a gas. Uno dei compiti di Blatt, selezionato al suo arrivo come inserviente nel campo, era rastrellare la strada dopo ogni trasporto, in maniera tale che i deportati successivi, attesi per i giorni seguenti, lo avrebbero trovato pulito e privo di qualsiasi segno che potesse far presagire il destino che li attendeva. Nei mesi in cui rimase nel campo, Blatt, nel rastrellare il percorso in terra battuta, ritrovava molto spesso dei piccoli frammenti di banconote olandesi, polacche, tedesche o russe: gli ultimi averi che i deportati portavano con sé e che, avendo preso coscienza di andare a morire, avevano deciso di non lasciare al carnefice.
Quegli uomini e donne avevano usato gli ultimi minuti della loro esistenza per distruggere minutamente le ultime banconote che avevano. Anche questa è resistenza.
Il 27 gennaio 1945 le avanguardie dell'armata rossa, nel corso dell'offensiva sulla Vistola, raggiunsero il campo di Auschwitz, trovando sparuti gruppi di sopravvissuti. Nelle settimane precedenti, infatti, i tedeschi avevano tentato di distruggere i forni crematori e qualunque altro tipo di prova, e avevano avviato moltissimi prigionieri a delle marce forzate verso Ovest, altrimenti chiamate marce della morte, in cui morirono altre decine di migliaia di persone. Primo Levi in un suggestivo passo della Tregua, descrive con queste parole l'arrivo dei russi: “A noi parevano mirabilmente corporee e reali, sospesi [. . .] sui loro enormi cavalli, fra il grigio della neve e il grigio del cielo, immobili sotto le folate di vento umido minaccioso di disgelo”[4]. Levi ricorda che non fu coinvolto nelle marce solo perché, come molte altre persone troppo deboli per poter essere evacuate, era gravemente malato.
4. La caduta del Terzo Reich
La caduta del Terzo Reich e la fine della guerra non comportarono purtroppo la scomparsa dell'antisemitismo in Europa. In Polonia, diversi degli ebrei superstiti, non appena tornati dai campi per riprendere possesso delle loro case o dei loro averi, furono vittime di una serie di Pogrom - fra cui il più noto è quello di Kielce del 1946 - e aggrediti dalla popolazione. Vi furono decine di morti e centinaia di feriti: questi eventi indussero alla fuga buona parte del poco che rimaneva dell'ebraismo polacco verso il costituendo stato di Israele. A provocare l'ondata di furore popolare fu l’inaspettato riemergere della vecchia accusa medievale di omicidio rituale, diffusa attraverso una notizia secondo cui alcuni ebrei avevano rapito un bambino parentesi - per altro poi trovato sano e salvo - parentesi per berne il sangue. Tale diceria aveva trovato terreno fertile nelle credenze popolari sedimentate da secoli di antigiudaismo e antisemitismo teologo teologico. Sebbene il programma di sterminio degli ebrei d'Europa sia stato un patto specifico della Germania nazista, i suoi esecutori poterono spesso contare sulla attiva collaborazione, spesso genuinamente volenterosa, delle autorità di diversi Paesi occupati o alleati.
Alla fine della guerra gli Alleati e il mondo si trovarono di fronte all’emergere in piena evidenza di un massacro di proporzioni e caratteristiche senza precedenti. Il termine Genocidio, il neologismo introdotto dal giurista polacco Raphael Lemkin, venne coniato proprio negli anni del secondo conflitto mondiale, nel tentativo di trovare una parola specifica per descrivere in qualche modo l'eccezionalità e l'unicità di quanto stava avvenendo: ovvero, il tentativo da parte di un governo di sterminare completamente uno specifico gruppo etnico. La questione l'Olocausto, dunque, è centrale nel contesto della ricostruzione e dell'edificazione dell'Europa post-bellica. Il processo di Norimberga permise di far emergere per la prima volta di fronte al mondo la vastità e la sistematicità dei crimini contro l'umanità perpetrati dalla dirigenza nazista. Il processo, inoltre, può in piena luce il problema delle fonti primarie e delle testimonianze: problema di particolare rilievo perché i nazisti avevano cercato in ogni modo di distruggere qualsiasi prova relativa alla Shoah. Solo un repentino collasso del Terzo Reich impedì il successo di questo tentativo. Malgrado le distruzioni, siamo fortunatamente in possesso di un numero cospicuo di fonti di vario tipo. A Norimberga i paesi vincitori - Unione Sovietica, Stati Uniti, Francia e Regno Unito - furono installate in grado di produrre un’enorme quantità di documenti e materiali sequestrati dagli archivi tedeschi, unitamente a filmati e fotografie incriminanti ammessi in sede di giudizio come ulteriori prove a carico degli imputati.
Fino agli anni Cinquanta, dunque, il problema principale fu quello di ricostruire e capire esattamente cosa fosse successo e secondo quali modalità, in uno sforzo costante atto a ricostruire il meccanismo dello sterminio attraverso l'ascolto sopravvissuto e dei testimoni.
Successivamente, dagli anni Sessanta in poi, emerge una domanda particolarmente importante e spesso dibattuta con polemiche aspre: com'è possibile che tutto ciò sia accaduto? Il processo ad Eichmann a Gerusalemme nel 1961, sulla scia del libro di Hannah Arendt, spinse molti a interrogarsi sulla cosiddetta “banalità del male” e a chiedersi quali fossero i meccanismi di obbedienza, di passivo conformismo sociale e di rispetto acritico dell'autorità che avevano creato le condizioni che permisero a centinaia di migliaia di altrimenti “normali” esseri umani di partecipare attivamente a quest'opera di sterminio. Le ipotesi proposte da allora sono state molte, e si sono appuntate soprattutto sul pregiudizio antisemita, sulla forza della propaganda nei regimi autoritari e totalitari o, ancora, sulla personalità del burocrate, privo di scrupoli morali sulle conseguenze delle sue azioni.
A tal proposito, occorre accennare alla disputa storiografica che da decenni impegna i cosiddetti funzionalisti e intenzionalisti. I primi sostengono quella di dirigenza nazista abbia costruito l'idea dello sterminio fisico e totale degli ebrei solo attraverso i momenti successivi, e sono in risposta a una serie di contingenze e di situazioni di ingestibilità operativa delle politiche precedentemente attuate. I secondi, invece, affermano che la progressione delle persecuzioni, in ultima battuta allo sterminio, erano in qualche modo già iscritti implicitamente in un piano complessivo. Personalmente ritengo che il momento iniziale del trapasso dalla segregazione e persecuzione degli ebrei d'Europa allo sterminio fisico sia da rintracciare già con l'inizio della guerra e l'invasione della Polonia: la ghettizzazione, l'espulsione e la requisizione dei beni di milioni di ebrei nei nuovi territori annessi avevano creato una situazione difficilmente gestibile a medio e lungo termine. A un livello generale, occorre ricordare come l'ideologia nazionalsocialista predicava l'espulsione del negativo da ogni contesto della vita nazionale e internazionale. Questo approccio radicale di ingegneria sociale interna e di nation building esterno rappresenta la cifra che unisce operazione apparentemente molto diverse, e sicuramente specifiche, come il programma T4 (l'uccisione di handicappati fisici e mentali o di elementi “asociali”), lo sterminio delle comunità rom e sinti, la persecuzione degli omosessuali e la soluzione finale. L'idea alla base era quella dell'autopurificazione del Volk: i medici nazisti potevano condurre esperimenti su esseri umani o uccidere i propri pazienti perché il giuramento di Ippocrate, primum non nocere, era stato radicalmente reinterpretato ponendo in primo piano il dovere della difesa e tutela della comunità razziale, e subordinandovi i diritti dell'individuo. Il dovere del medico non è più quello di curare o proteggere il singolo paziente ma il Volk, il popolo tedesco nel suo insieme. Negli anni Sessanta e Settanta, lo sguardo retroattivo sulla Shoah si è rivolto allo studio del conformismo e dell'obbedienza: esperimenti dei sociologi e psicologi americani come Milgram e Zimbardo avevano come scopo quello di comprendere come persone non dotate di caratteristiche psicologiche aberranti possano essere indotte in un tempo relativamente breve a cooperazioni eticamente ripugnanti anche in contesti democratici, dove le pressioni esterne non sono in nessun modo a quella esperibili uno stato totalitario.
Gli sviluppi più interessanti - che non sostituiscono ma integrano le acquisizioni precedenti - provengono ultimamente dal campo delle neuroscienze. Sulla base di alcuni studi sui meccanismi neurologici e sociali, gli esseri umani, aventi una determinata vita biologica derivata dall'evoluzione di animali sociali, tendono a percepire e concettualizzare la differenza tra un “noi” e un “loro” attraverso un processo di pseudo- speciazione. Attraverso una serie di analisi e studi, recentemente compendiati da Robert Sapolsky nel suo libro Behave[5] si è riscontrato a livello sperimentale che l'essere umano possiede una vulnerabilità biologicamente determinata che spiega la tendenza istintiva a stabilire delle tassonomie tra l’identico e il diverso, rassicurante e pericoloso, sulla base di meccanismi che precedono la razionalizzazione.
Ogni forma di razzismo tende a classificare gli oggetti del suo odio o pregiudizio in base a tre categorie fondamentali: quella del muscolo, di cui fa parte il “bruto”, ovvero un essere umano di tipo razzialmente e culturalmente inferiore da utilizzare come schiavo o forza lavoro; quella del parassita, in cui rientra la figura della “zavorra”, cioè del soggetto del gruppo sociale inutile e fastidioso di cui liberarsi, benché non lo si percepisca come direttamente pericoloso; l'ultima categoria, la più pericolosa e letale, è quella dell'agente patogeno che se posto in mezzo a “noi” può distruggere il “nostro” stile di vita, la “nostra” civiltà e il “nostro” benessere. Queste categorie tipiche sono chiaramente identificabili all'interno dell'ideologia nazista: il muscolo veniva visto soprattutto nei popoli slavi, di cui una parte andava sterminata e l'altra ridotta in schiavitù; i parassiti veniamo identificati nelle comunità rom e sinti, percepite come pericolose pur costituendo un oggetto di dispute oggetto di disprezzo; infine, la categoria dell'agente patogeno e pericoloso, da eliminare con misure radicali è rappresentato dall'ebraismo. Nel film di propaganda nazista del 1940 Der ewige Jude, “L'ebreo errante”, ad esempio, delle sequenze seguenti sequenze raffigurano gli ebrei sovrapponendoli a immagini di ratti, unendo in un tutt'uno disgusto fisico e disgusto morale.
5. La memoria oggi
Le recenti ricerche e acquisizioni storiche, scientifiche e sociologiche ci aiutano a riflettere più profondamente su uno degli enigmi principali dell'Olocausto e di altre catastrofi storiche simili: come è possibile che lunghe e consolidate tradizioni di civiltà, tolleranza, riconoscimento e rispetto dell'altro possono essere così rapidamente demolite? Com'è possibile che con altrettanta rapidità si possa costruire un nemico immaginario, convincendo un gran numero di altrimenti pacifici cittadini a ghettizzarlo, isolarlo o distruggerlo perché mortalmente pericoloso? Quanto fragile e vulnerabile è, in ultima analisi, la struttura delle società aperte e democratiche? Quali sono le contromisure che si possono adottare a fronte di questa vulnerabilità?
Il Giorno della Memoria è uno di questi strumenti di cui ci si è dotati nel tentativo di impedire che siffatte derive si ripropongano o prendano forza. La sua ricorrenza, però, ha senso solo se è parte di un generale processo formativo ed educativo delle nuove generazioni che in qualche modo disinneschi la possibilità per certi tipi di retoriche e di manipolazioni di attecchire e di diffondersi.
È quindi di fondamentale importanza saper riconoscere con chiarezza l’emergere di propaganda e azioni volte a demonizzare minoranze e gruppi potenzialmente indifesi e vulnerabili, ed essere in grado di reagire tempestivamente. Se chiamati, dunque, ad applicare con intelligenza e discernimento il cosiddetto Paradox of tolerance, il “paradosso della tolleranza” enunciato da Karl Popper nel 1945 in risposta alle sfide senza precedenti poste alle società aperte e alle democrazie dai fascismi e totalitarismi[6]: una società democratica, aperta e liberale garantisce tolleranza e diritto di cittadinanza a ogni opinione, ma non può tollerare al proprio interno quelle forme di pensiero e di azione che puntano al suo disarticolamento e alla sua distruzione.
In ultima analisi il Giorno della Memoria ci pone di fronte a un compito paradossale: ricordare in modo sintetico quanto è avvenuto senza tralasciare il compito di riflettere analiticamente su eventi tanto tragici quanto estremamente complessi. Il rendere il presente l'assenza delle vittime e del loro mondo scomparso rischierebbe altrimenti, con il passare degli anni di diventare un rituale statico e soggetto a inesorabile erosione. Non basta, per quanto importante, ricordare le singole vittime in quanto individui o la loro totalità in modo indifferenziato. Occorre ricordare che dietro nomi e numeri vi sono specifiche e irripetibili comunità distrutte, dotate di una vita familiare, sociale e culturale che è andata perduta per sempre.
Il museo memoriale dell'Olocausto di Budapest rappresenta in modo chiaro questo duplice compito. Da una parte i suoi ricercatori sono tuttora impegnati a identificare più di un quarto di milione di vittime ebree ungheresi, i cui nomi vengono poi iscritti uno a un sul muro interno che si affaccia nel cortile nella sua sinagoga; dall'altra parte, in questo giardino del ricordo sono poste, su due pilastri in pietra, le iscrizioni che ricordano le comunità perdute. Su questi pilastri sono incise dozzine di nomi di città, cittadine e paesi ungheresi che dopo la guerra non hanno più visto il ritorno dei loro ebrei deportati.
Se il Giorno della Memoria ha un senso, lo ha se riesce a far sì che il ricordo dell'Olocausto non sia statico, qualcosa cioè che richiama la mente delle nuove generazioni solamente un nucleo concluso di eventi, di cui rispolverare periodicamente in astratto la rimembranza; esso deve piuttosto farsi ricordo dinamico, che corrisponda a un'attività in fieri intenta non solo a gettar luce su aspetti della storia di questo evento, che tuttora rimangono nell'ombra, ma che invita a domandarsi cosa rappresenti, in concreto, questa catastrofe per noi.
[1] Grande come una città è un movimento politico-culturale nato a Roma nel municipio III, per promuovere momenti di pedagogia pubblica, praticare e ripensare valori democratici come inclusione, femminismo, non violenza, antifascismo. Ha già dato vita a numerose iniziative sul territorio, trasformando giardini, parchi, cortili, piazze, cinema scuole biblioteche in Agorà: spazi condivisi, in cui assistere a lezioni pubbliche, partecipare a dibattiti, manifestare propri per i propri diritti, vivere la cultura come strumento di educazione al confronto e all'immaginazione della società. Il tutto grazie all’incessante impegno di volontari coordinati dalla Presidente dell’associazione Laura Taradel.
[2] Ruggero Taradel, Il sonno della ragione. Razzismo, antisemitismo e Shoah, Castelvecchi, 2021 (trascrizione di Carla Camagni), che pubblichiamo con il consenso dell'autore.
[3] Cfr. P. Desbois, P. Shapiro, The Holocaust by Bullets: A Priest's Journey to Uncover the Truth Behind the Murder of 1.5 Million Jews, Griffin, 2009.
[4] P. Levi, Se questo è un uomo-La tregua, Einaudi, 1989, p.3.
[5] Si veda R. Sapolsky, Behave: the biology of humans at our best and worst, Penguin, 2017.
[6] Cfr. K. Popper, The open society and its enemies, Routledge and Sons, 1945. [Nuova edizione 2011].
Un’abitudine contemplativa che ordina le cose in armonia con i suoi contorni e che, per il ritmo di un tempo che scorre diseguale, le rende tuttavia sempre diverse e attraenti, addestrandole ad un ascetismo appagante, ad occasione di complicità tra uomo e natura. È questa la cifra esistenziale di Hiroyama, protagonista pressoché assoluto dell’ultimo (capo)lavoro di Wim Wenders; maturo e meticoloso puliziere dei bagni pubblici di Tokyo, amante di letture e musiche degli anni sessanta, fotografo dilettante d’alberi e fronde, raccoglitore di piccole piantine spontanee, osservatore muto del mondo intorno, senza l’invadenza del curioso né la malizia del giudicante, ma con la gentile intesa di un assenso che silenziosamente mescola generosità e riconoscente stupore per la vita.
La metodicità dei gesti quotidiani - il risveglio e la mattiniera igiene personale, la colazione al distributore meccanico, l’accesso alle pubbliche toilettes costituite da avveniristici prodotti cittadini d’architettura avanzata e la loro accurata pulizia, seguita da altrettanta diligenza nella pulizia personale alle docce popolari di Tokyo, infine la sempre frugalissima cena nel solito locale submetropolitano - non è fuga né rifiuto per Hiroyama, bensì fonte di una pace interiore che s’intuisce inesistente prima d’allora (l’arrivo della benestante sorella esprime a sufficienza i tratti salienti di un turbolento passato), ma che quotidianamente lo allena da anni ad una gioiosa e ormai irrinunciabile solitudine contemplativa. Lo sguardo malinconico di una giovane donna anch’ella in sosta lavoro, seduta su una panchina del parco a consumare come lui un rapido spuntino e i leggiadri volteggi di un anziano alienato dal reale attirano entrambi la sua attenzione, sollecitando una benefica vibrazione d’accordo in un Hiroyama perfettamente incarnato nel volto di Koji Yakuso, superbo interprete di un ruolo intriso di gesti e zeppo di fisicità muta epperò fortemente espressiva. Ed ugualmente attrattive saranno per lui le fronde degli alberi, con le quali contrae un’amicizia fedele e duratura, ritraendole in foto analogiche poi scrupolosamente archiviate al pari dei tanti libri e di musiche conservate ed ascoltate in vecchie cassette stereo sette.
Parla poco o nulla il sessantenne puliziere e anche lì il risparmio di parola, lungi dall’essere ripulsa, ha il pregio di un misticismo ascetico tanto eloquente quanto attrattivo, come il bacio innocente della giovanissima amica di Takashi, suo inquieto ed incostante collega di lavoro, e la tenera complicità della proprietaria del ristorante, esibitasi per lui in una leggiadra versione della storica The House of the Rising Sun (non a caso la casa del sol levante), fanno intendere. Un silenzio inoltre che non esonera Hiroyama da una giocosa comunicazione con un ignoto frequentatore di un bagno pubblico, con il quale da un giorno all’altro scambia un foglietto con su il gioco del tris, in una sequenza filmica davvero deliziosa che, se da un lato rafforza il profilo tutto analogico e ancorato al passato del personaggio, per altro verso ne usa il tratto per puntare ad un picco poetico nel rapporto al caos della modernità in verità adeguatamente riuscito.
Nella placidità del mondo di Hiroyama - che è poi il mondo di Wenders - esiste ancora un’interfaccia, un riflesso di ogni cosa e persona, una somma di entità che generano dalla luce ma che al buio dei nostri sogni possono ricrearsi plasmate a caso, confuse o nitide, mobili o statiche: le ombre. Che non sono il contrario delle cose reali - e qui il messaggio affonda nei temi cari al regista, riallacciandosi all’intera sua produzione artistica - ma il loro complemento esistenziale, la testimonianza muta e incolore della gratificante luminosità del mondo. Un po' come per Hiroyama a ben vedere, che, uscendo da casa, benedice ogni mattino con un soddisfatto sguardo al cielo e al tempo stesso scruta sedotto le ombre nel brulicante bagliore delle fronde degli alberi, le riproduce fotografandole e pure le incarna sognandole ogni notte in sequenze fosche e sovrapposte, come fossero amiche viventi. Ombre come irrinunciabili attributi di perfezione di tutto, che nei “giorni perfetti” di Wenders si agitano fuori e dentro Hiroyama da complici silenziose e quotidiane della sua esistenza.
Sull’ordinaria diligenza esigibile dal soggetto danneggiato ai sensi degli artt.1227 c.c. e 30 c.p.a. (nota a Cons. Stato, sez. IV, 4 settembre 2023, n. 8149)
di Clara Silvano
Sommario: 1. La vicenda contenziosa. 2. Le questioni di rito. 3. E quelle di merito: in particolare la domanda risarcitoria. 4. Conclusioni
1. La vicenda contenziosa
La sentenza qui in esame[1] consente di tornare a riflettere sul modo con cui il giudice amministrativo si pone rispetto alla tutela risarcitoria richiesta dal privato nei confronti dell’amministrazione e, in particolar modo, sull’onere di diligenza esigibile dal soggetto danneggiato ai sensi degli artt. 1227 c.c.[2] e 30, comma 3, c.p.a.[3], offrendo sul punto una soluzione che, come si avrà modo di vedere, si pone in maniera innovativa rispetto alla giurisprudenza maggioritaria.
La decisione arriva all’esito di un articolato contezioso che vede contrapporsi, da un lato, una società immobiliare, dall’altro la Società Autostrade per l’Italia s.p.a[4].
Con specifico riguardo al contenzioso relativo alla domanda risarcitoria, la Società aveva formulato davanti al T.a.r. per la Toscana[5] una domanda di condanna al risarcimento dei danni nei confronti di Società Autostrade, sostenendo di non aver potuto completare l’intervento edilizio assentito dal Comune a causa della sospensione dei lavori in conseguenza di due diffide di Società Autostrade, motivate sull’assunto, rivelatosi poi erroneo, che le opere edilizie autorizzate dal Comune avrebbero dovuto collocarsi ad una distanza non inferiore a quella di 60 metri dalla sede stradale, in conformità a quanto previsto dal D.M. 1° aprile 1968 n. 1404, distanza non rispettata nel caso di specie.
La ricorrente lamentava che la sospensione dei lavori avrebbe determinato l’impossibilità di concludere i lavori, anche per il mancato accesso al credito bancario, e di procedere alla consegna degli appartamenti ai promissari acquirenti, con conseguente attivazione, nei suoi confronti, di azioni giudiziarie da parte degli stessi, causandole un grave pregiudizio, quantificato complessivamente in euro 6.911.097,24[6].
Il T.a.r. per la Toscana, con sentenza n. 535 del 5 maggio 2020, respingeva il ricorso proposto dalla Società, condannandola alla rifusione delle spese processuali. La società appellante ha impugnato la sentenza, contestandola con un unico articolato motivo, per non aver il giudice di prime cure fatto corretta applicazione dei principi derivanti dall’art. 1227 c.c. e dall’art. 30 c.p.a.
Prima però di entrare nel merito della questione risarcitoria, il giudice amministrativo è chiamato a dirimere due eccezioni di rito sollevate da parte appellata, relative all’irricevibilità del ricorso introduttivo del giudizio e alla sua inammissibilità, eccezioni che, toccando comunque profili relativi alla domanda risarcitoria e al suo rapporto con la tutela di tipo demolitorio, meritano di essere esaminate in questa sede[7].
2. Le questioni di rito
Come detto, il Consiglio di Stato si trova a dirimere una prima eccezione con la quale Società Autostrade per l’Italia contesta la tardività del ricorso introduttivo del giudizio, presentato davanti al giudice ordinario nel 2015, in asserita violazione del termine decadenziale di 120 giorni previsto dall’art. 30 c.p.a. per la proposizione della domanda risarcitoria[8].
Tale eccezione viene superata dal giudice d’appello, richiamando il principio di diritto espresso dall’Adunanza Plenaria del 6 luglio 2015 n. 6[9], per il quale il termine decadenziale di 120 giorni non trova applicazione ai fatti illeciti anteriori all’entrata in vigore del codice.
Nel caso di specie, quindi, dal momento che gli atti causativi dei danni lamentati risalgono al 2008, deve trovare applicazione il termine di prescrizione quinquennale[10], termine che, dovendo considerarsi interrotto durante il giudizio impugnatorio, è stato rispettato da parte della ricorrente con la proposizione della domanda risarcitoria nel 2015.
Il giudice rigetta anche l’eccezione di inammissibilità del ricorso, fondata sul fatto che la domanda risarcitoria proposta dalla Società era basata su una specifica censura di illegittimità delle due diffide emanate da Società Autostrade - consistente nella violazione del combinato disposto dell’art. 1 del D.M. 1404/1968 e dell’art. 9 l. 726/1961 – non ritualmente dedotta nel giudizio di impugnazione[11].
Il giudice, come detto, respinge tale eccezione, sulla base, in primo luogo, dell’autonomia dei due giudizi - quello annullatorio e quello risarcitorio[12] - e, in secondo luogo, della particolare valenza da riconoscersi al giudicato nel processo amministrativo.
In particolare, la reiezione della domanda demolitoria nell’ambito del primo giudizio non preclude la proposizione della domanda risarcitoria basata su vizi di legittimità non esaminati dal giudice di primo grado, in quanto su tali vizi non si è formato il giudicato che si forma, per l’appunto, solo con riferimento ai vizi dell’atto ritenuti sussistenti, e questo perché, nel processo amministrativo il principio per il quale il giudicato copre il dedotto e il deducibile non troverebbe piena esplicazione[13].
3. Le questioni di merito: in particolare la domanda risarcitoria
Esaurite le questioni di rito sollevate dall’amministrazione appellata, il giudice affronta l’articolato motivo di appello proposto dalla società, con il quale la stessa contesta la sentenza di prime cure per aver mal applicato i principi desumibili dagli artt. 1227 c.c. e 30 c.p.a. nel decidere in merito alla domanda risarcitoria.
L’art. 30 c.p.a., effettuando una ricognizione dei principi civilistici in materia di autoresponsabilità e di concorso del danneggiato nella causazione del danno[14], espressi dall’art. 1227 c.c., prevede che: «Nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, anche attraverso l'esperimento degli strumenti di tutela previsti»[15].
In particolare, il T.A.R. Toscana aveva ritenuto che la negligenza imputabile alla società per non aver usufruito correttamente di tutti gli strumenti di tutela disponibili, non avendo proposto ritualmente l’unico motivo ritenuto (in astratto) suscettibile di accoglimento, determinerebbe l’esclusione del risarcimento dei danni che la stessa avrebbe potuto evitare con l’ordinaria diligenza ai sensi dell’art. 30 c.p.a. e 1227 c.c[16].
Avverso tale ricostruzione la Società evidenza, tuttavia, che il T.a.r. avrebbe omesso di considerare il risarcimento dei danni che non si sarebbero potuti evitare con la proposizione di un ricorso tempestivo e rituale contro le diffide di Autostrade s.p.a. e, nemmeno con un eventuale provvedimento cautelare favorevole del T.a.r., danni che la stessa ha ampiamente dimostrato esserle derivati direttamente dalle diffide emesse da Società Autostrade.
Invero, la Società riteneva di aver dato prova del fatto che sin dalla notifica delle suddette diffide si era prodotta in capo alla stessa un danno grave, in quanto il fermo cantiere aveva messo in moto una irreversibile concatenazione di conseguenze dannose non evitabile con l’azione impugnatoria, che in ogni caso era stata tempestivamente promossa, tenendo conto dei tempi fisiologici di chiusura del contenzioso, ma che non si sarebbero potuti evitare nemmeno in forza di un eventuale provvedimento cautelare favorevole da parte del T.a.r. perché avrebbe richiesto alla società un onere di diligenza eccessivo, imponendole di costruire e di portare a termine l’opera sulla base di un mero provvedimento cautelare, nelle more della completa definizione del giudizio.
Il Collegio accoglie la ricostruzione dell’appellante, ritenendo che la sentenza di prime cure avrebbe interpretato il combinato disposto degli artt. 2043 c.c.[17], 1227 c.c. e 30 c.p.a. «in modo talmente rigido da tradursi di fatto, in una forma di denegata giustizia», dovendo invece il giudice amministrativo «approfondire sotto ogni aspetto la pretesa economica oltre che giuridica delle parti, facendosi carico anche dell’evoluzione di un contesto di mercato (anzi di mercati) sempre più complesso».
In altri termini, sempre secondo il Supremo consesso, «la declinazione del duty to mitigate sancito dal secondo comma dell’art. 1227 c.c., in attuazione del canone solidaristico di buona fede, non può assumere, laddove riguardi un interesse legittimo, un rigore tale da condurre alla reazione di un non ammissibile “diritto speciale della p.a.” in materia risarcitoria».
Il giudice ricorda che l’omessa attivazione degli «strumenti di tutela», tra i quali è inclusa la tutela cautelare, rappresenta un dato valutabile, alla stregua del canone di buona fede e del principio di solidarietà, ai fini della mitigazione e finanche dell’esclusione del danno, in quanto evitabile con l’ordinaria diligenza, secondo quanto previsto dall’art. 30 c.p.a. [18].
Nel caso di specie, il Consiglio di Stato ritiene che la società non sia venuta meno al dovere di ordinaria diligenza imposto al danneggiato, avendo la stessa tempestivamente impugnato e chiesto la sospensiva dei due atti di diffida, coltivando la pretesa sia in primo grado sia in grado si appello.
Ancora, il fatto che non sia stata proposta dalla società la censura che avrebbe fatto accogliere l’istanza cautelare non è elemento sufficiente ad escludere il nesso di causa ex art. 1227, secondo comma, c.c., potendo eventualmente rilevare ai fini della riduzione del quantum dovuto, ai sensi del primo comma del suddetto articolo[19].
In ogni caso, il Consiglio di Stato sembrerebbe ritenere che il non aver proposto in modo corretto la censura di illegittimità da parte della Società non sia un comportamento esigibile da parte del danneggiato e questo «per la congerie di fonti normative e la controversa qualificazione urbanistica dell’area, con conseguente difficoltà obiettiva ad individuare la disciplina normativa di riferimento»
Infine, nella valutazione dell’onere di diligenza posto in capo al soggetto danneggiato, il giudice d’appello ritiene che la scelta della Società di non proseguire i lavori, in attesa della conclusione del giudizio contro le diffide impugnate, non sia stata una scelta irragionevole, alla luce dell’autorevolezza dell’ente dal quale tali diffide provenivano e delle conseguenze (la demolizione delle opere edilizie) che si sarebbero verificate in caso di esito negativo del giudizio.
Avendo quindi accertato l’an della pretesa risarcitoria della Società nei confronti di Società Autostrade, il giudice demanda a una verificazione[20] la definizione dell’ammontare dei danni effettivamente dovuti alla Società, formulando un articolato elenco di questioni[21], rimandando la definizione del giudizio all’espletamento degli incombenti istruttori disposti.
4. Conclusioni
La sentenza qui in esame, benché non definitiva, è particolarmente interessante per il modo innovativo con il quale il giudice amministrativo si pone rispetto alla domanda risarcitoria formulata dal privato nei confronti della pubblica amministrazione.
La dottrina ha, infatti, messo ben in evidenza la ritrosia con il quale il giudice amministrativo si è sempre posto nei confronti di questo tipo di tutela[22], evidenziando come lo stesso, vuoi per minor familiarità con le questioni risarcitorie, vuoi per tutelare le casse dell’amministrazione, il più delle volte rigetti la domanda risarcitoria formulata nel processo amministrativo.
Nella sentenza, invece, il giudice ritiene che: «la cognizione piena in materia risarcitoria gli imponga di approfondire sotto ogni aspetto la pretesa economica oltre che giuridica delle parti, facendosi carico anche dell’evoluzione di un contesto di mercato (anzi, di mercati) sempre più complesso», affermando che le difficoltà che spesso ci sono nella concreta quantificazione del danno da parte del giudice possono essere superate ricorrendo, come il giudice poi concretamente ha fatto, agli strumenti processuali messi a disposizione per supplire alla mancanza di conoscenze tecniche.
La diversa attenzione con la quale il giudice d’appello si approccia, in questo caso, alla questione risarcitoria, lo porta a compiere una valutazione concreta e tagliata sul caso di specie dell’onere di diligenza imposto al soggetto danneggiato per prevenire o comunque mitigare le conseguenze dannose, ai sensi dell’art. 30, comma 3, c.p.a., discostandosi in questo modo dalla giurisprudenza prevalente[23] che, applicando in maniera rigida e severa questa disposizione, ha fatto giustamente parlare la dottrina di una “pregiudizialità mascherata”, in quanto il mancato esperimento preventivo dell’azione di annullamento costituisce comunque un ostacolo al pieno esplicarsi della tutela risarcitoria[24].
In particolare, nella giurisprudenza sopra richiamata, la mancata tempestiva impugnazione del provvedimento di cui si lamenta l’illegittimità a fini risarcitori è configurata quale condotta idonea a escludere il nesso di causalità giuridica tra condotta e danno ai sensi dell’art. 1227, comma 2, c.c.[25], limitando in concreto l’autonomia riconosciuta in astratto all’azione risarcitoria dal codice del processo amministrativo che richiede allora, per il suo pieno esplicarsi, il previo (e satisfattivo) esercizio dell’azione di annullamento.
Il Consiglio di Stato, infatti, a differenza del giudice di prime cure, e, in maniera innovativa rispetto alla giurisprudenza prevalente, ritiene che nel caso in cui in sede di impugnazione non sia stato fatto valere in maniera rituale il profilo di illegittimità che avrebbe portato all’annullamento delle diffide impugnate, non è circostanza di per sé idonea a recidere il nesso di causalità giuridica ex art. 1227, comma 2, c.c., potendo al più rilevare ai fini di una riduzione del quantumrisarcitorio dovuto ai sensi del primo comma del medesimo articolo.
Questo profilo è di particolare interesse, non solo perché esclude rigidi automatismi nell’applicazione del c.d. “duty to mitigate” sancito dagli artt. 1227 c.c. e 30 c.p.a., ma restituisce una reale autonomia alla domanda risarcitoria che secondo la ricostruzione del giudice, può essere fatta valere per profili di illegittimità diversi da quelli fatti valere nel giudizio di annullamento.
Autonomia vieppiù confermata dal fatto che la domanda risarcitoria era stata formulata con riferimento a quei danni che la Società ha dimostrato esserle occorsi nell’immediatezza delle due diffide e che nemmeno la proposizione tempestiva del ricorso e della relativa istanza cautelare avrebbe potuto evitare, danni che comunque si sono maturati fino alla definizione del giudizio di appello.
Così, sempre nell’ottica di evitare un’interpretazione delle norme che «configuri la preclusione di ogni pretesa risarcitoria in modo talmente ampio e rigido da tradursi, di fatto, in una forma di denegata giustizia», il Consiglio di Stato valorizza tale circostanza, ben evidenziata dalla società appellante, ritenendo altresì ragionevole la scelta della Società di attendere l’esito del giudizio prima di riprendere i lavori e ciò sia per le conseguenze negative che si sarebbero determinate in caso di rigetto del ricorso contro le diffide, ossia la demolizione di quanto medio tempore costruito, sia comunque per l’autorevolezza dell’ente dal quale provenivano suddette diffide che, primo fra tutti, avrebbe dovuto conoscere e correttamente applicare le norme in materia di rispetto delle distanze delle costruzioni dalle strade[26].
In attesa della definizione del giudizio, non si può che auspicare che l’attenzione e la sensibilità mostrata dal giudice amministrativo nei confronti della pretesa risarcitoria del privato in questa vicenda possa consolidarsi anche nelle future decisioni, valorizzando la tutela risarcitoria quale mezzo di costruzione di una tutela finalmente piena ed effettiva[27].
[1] Si tratta invero di una sentenza non definitiva in quanto il giudice ha disposto incombenti istruttori al fine di definire il quantum risarcitorio dovuto alla società appellante.
[2] Come noto, l’art. 1227 c.c. individua due fattispecie tra loro distinte; secondo la ricostruzione di C. M. Bianca, Dell’inadempimento delle obbligazioni, in (a cura di) F. Galgano, Commentario Scialoja-Branca, Bologna, 1988, 403 «La prima ricorre quando la condotta del danneggiato ha contribuito a cagionare la lesione iniziale ovvero ha inciso sul rapporto di causalità materiale con il danno-evento. La seconda è integrata quando il creditore non si attivi per evitare l'aggravarsi della lesione iniziale ovvero influisca sul rapporto di causalità giuridica con il danno-conseguenza. La prima fattispecie implica un giudizio di imputazione causale del danno, la seconda si traduce in un giudizio sul dovere di correttezza che impone al danneggiato di comportarsi in modo diligente per evitare il danno scaturito dall'inadempimento o dal fatto illecito». Ai fini che qui più interessano, è importante osservare come per la giurisprudenza civile l’onere di diligenza richiedibile al soggetto danneggiato non implichi l’obbligo di iniziare una azione giudiziaria, considerata per definizione attività gravosa e comportante rischi e spese. Si confronti sul punto Cass. civ., sez. III, 9 febbraio 2004, n. 2422; Cass. civ., sez. III, 25 settembre 2009, n. 20684; Cass. civ., sez. III, 29 settembre 2017, n. 22820; Cass. civ., sez. III, 05 ottobre 2018, n. 24522. Di contrario avviso l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 23 marzo 2011 n. 3, per la quale: «Si deve allora preferire al tradizionale indirizzo che esclude, per definizione, la sincadabilità delle condotte processuali ai sensi del capoverso dell’art. 1227 c.c., un più duttile criterio interpretativo che, in coerenza con le clausole generali in materia di correttezza, buona fede e solidarietà di cui la norma in esame è espressione, consenta la valutazione della condotta complessiva, anche processuale, del creditore, con riguardo alle specificità del caso concreto». Per un’analisi di questa sentenza si veda infra, in particolare nota 11 e nota 13.
[3] L’art. 30, comma 3, c.p.a. al secondo periodo recita: «Nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, anche attraverso l'esperimento degli strumenti di tutela previsti». Per l’analisi e l’applicazione giurisprudenziale di questo articolo si rimanda al paragrafo 3 del presente contributo.
[4] Nello specifico, la Società, in forza del permesso di costruire n. 1569/2007, rilasciato dal Comune di Prato aveva intrapreso i lavori per la realizzazione di un complesso residenziale situato in prossimità di uno svincolo autostradale.
La società Autostrade, con nota del 20 marzo e del 19 novembre 2008, diffidava la società dal continuare i lavori in quanto le opere edilizie autorizzate dal Comune avrebbero dovuto collocarsi ad una distanza non inferiore a quella di 60 metri dalla sede stradale, in conformità a quanto previsto dal D.M. 1° aprile 1968 n. 1404. Tali diffide venivano tempestivamente impugnate dalla Proprietà davanti al T.a.r. Toscana, che con sentenza n. 2449/2010 respingeva il ricorso proposto sull’assorbente motivo della non applicabilità delle norme invocate dalla ricorrente alla fattispecie sottoposta alla sua cognizione. Il Consiglio di Stato, con sentenza n. 1118/2012, respingeva a sua volta l’appello proposto dalla società, dichiarando le censure presentate inammissibili perché formulate con memoria difensiva non notificata alla controparte. Tuttavia, il giudice di secondo grado, in sede di appello, osservava comunque che: «dovrebbe auspicabilmente considerarsi che l’area di Greta Immobiliare è compresa in un insediamento non solo compatibile con il P.R.G. del Comune, ma puntualmente inserito nel tessuto urbano, e segnatamente nel c.d. “Sistema della Residenza, Subsistema R4 – la città in aggiunta”, non essendo pertanto per esso ragionevolmente applicabile la disciplina di cui al D.M. 1404 del 1968 dettata per le edificazioni al di fuori del perimetro dei centri abitati e degli insediamenti che, come per l’appunto nel caso in esame, sono previsti dalla vigente strumentazione urbanistica. Pertanto, a fronte di una vigente previsione normativa di una fascia di rispetto di m. 25, la materiale esistenza di una distanza di m. 32 dal ciglio autostradale dovrebbe reputarsi congrua in un’augurabile riconsiderazione della fattispecie». Sulla base di tale sentenza, il Comune di Prato ha rilasciato il permesso di costruire n. 538/2012 per il completamento dell’intervento in questione, fondato sulla rilevata operatività della fascia di rispetto di 25 metri dalla sede autostradale ai sensi dell’art. 9 della legge n. 729/1961.
[5] In verità, la domanda risarcitoria era stata posta, in prima battuta, davanti al giudice civile e, a seguito di regolamento di giurisdizione promosso da Autostrade per l’Italia, la Corte di Cassazione, a sezioni unite, con ordinanza n. 13194/2018, ha individuato il giudice amministrativo come quello munito di giurisdizione con riguardo alla controversia di natura risarcitoria.
[6] Precisamente le voci di danno fatte valere sono così riassumibili:
[7] Si precisa che tali eccezioni non sono state esaminate dal giudice di prime cure il quale «in nome del principio della “ragione più liquida”» respinge il ricorso nel merito, derogando all’ordine logico delle questioni.
[8] In merito all’applicazione del termine decadenziale all’azione di condanna nei confronti della pubblica amministrazione si confronti A. Marra,Il termine di decadenza nel processo amministrativo, Milano, 2012 e, più recentemente, G. Taglianetti, L’azione risarcitoria per lesione di interessi legittimi tra garanzie di giustizia ed esigenze di certezza, in Il Processo, 1/2022, 101. Dubitano della legittimità costituzionale di questa disposizione A. Travi, Lezioni di giustizia amministrativa, 2018, 213; G. Poli, Il risarcimento del danno ingiusto nella logica del Codice del processo amministrativo: brevi osservazioni in tema di costituzionalità, in Dir. e proc. amm., 2/2011, 441; F. Merusi, In viaggio con Laband…, in Giorn. dir. amm., 6/2010, 658; F. Saitta, Tutela risarcitoria degli interessi legittimi e termine di decadenza, in Dir. proc. amm., 4/2017, 1208, dove vengono elencati, in maniera efficacemente sintetica, i dubbi di costituzionalità sollevati da questa disposizione, oltre a quello di irragionevole disparità di trattamento tra le situazioni giuridiche soggettive di diritto soggettivo e di interesse legittimo. Tuttavia, la Corte costituzionale, nella sentenza 19 ottobre 2017, n. 9464, dichiara la questione di costituzionalità sottopostole in merito alla previsione di siffatto termine decadenziale non fondata, invocando esigenze sia di tutela della «certezza degli effetti del rapporto giuridico amministrativo» sia di «stabilità dei bilanci delle pubbliche amministrazioni». La sentenza è stata oggetto di vivo interesse da parte della dottrina, la quale le ha dedicato diversi commenti, tra i quali si segnalano F.G. Scoca, Sul termine per proporre l’azione risarcitoria autonoma nei confronti della pubblica amministrazione, in Giur. cost., 3/2017, 980; F. Cortese, Autonomia dell’azione di condanna e termine di decadenza, in Giorn. dir. amm., 5/2017, 662; F. Pagano, Il principio costituzionale di effettività della tutela giurisdizionale e il termine di decadenza per proporre l’azione autonoma di condanna nel processo amministrativo (nota a Corte cost. n. 94 del 2017), in AIC Osservatorio cost., 2/2017, 3; S. Foá, Risarcimento degli interessi legittimi e termine decadenziale. La lettura italiana del principio di effettività della tutela, in Federalismi.it, 18/2017; A. Marra, Termine di decadenza e azione di condanna risarcitoria, in Dir. proc. amm., 3/2018, 1077.
[9] Cons. Stato, Ad. Plen., 6 luglio 2015 n. 6, in Foro it., 2015, III, 501. La Plenaria, chiamata a risolvere il problema interpretativo relativo all’applicabilità del termine decadenziale previsto dall’articolo 30, comma 3, del codice del processo amministrativo, agli illeciti consumati in epoca anteriore a detto jus superveniens, esprime il seguente principio di diritto: «Il termine decadenziale di centoventi giorni previsto, per la domanda di risarcimento per lesione di interessi legittimi, dall’articolo 30, comma 3, del codice del processo amministrativo, non è applicabile ai fatti illeciti anteriori all’entrata in vigore del codice», trovando tale interpretazione avallo nella giurisprudenza costituzionale. Con la sentenza 31 maggio 2015, n. 57, il Giudice delle Leggi ha, infatti, ritenuto che l’art. 2 del Titolo II dell’Allegato 3 (Norme transitorie) al codice del processo amministrativo, «non è altrimenti interpretabile che nel senso della sua riferibilità anche (e a maggior ragione) all’ipotesi di successione tra un termine sostanziale, qual è quello di prescrizione, ed un termine processuale precedentemente non previsto, quale appunto il termine di decadenza sub art. 30 citato, essendo una diversa lettura della predetta disposizione (nel senso, restrittivo, della sua riferibilità solo a termini processuali «in corso») innegabilmente contra Constitutionem, per la compromissione, che ne deriverebbe, non solo della tutela ma della esistenza stessa della situazione soggettiva». Per un commento a questa sentenza si confronti G. Cocozza, Giudice amministrativo e Corte costituzionale a confronto sulla legittimità costituzionale dell'art. 30 c.p.a., in www.giustamm.it, 8/2017, 1.
[10] La giurisprudenza è sostanzialmente unanime nel ricondurre la responsabilità dell’amministrazione per lesione di interessi legittimi al paradigma della responsabilità extracontrattuale. Si confronti sul punto T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, 16 ottobre 2018, n. 2309; Cons. Stato sez. V, 10 febbraio 2015, n. 675; T.A.R. Campania, Salerno, sez. II, 10 gennaio 2015, n. 94; T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, sez. I, 05 giugno 2014, n. 510; T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 06 novembre 2013, n. 9470. Questo indirizzo è stato sugellato dal Consiglio di Stato, con l’Adunanza Plenaria 23 aprile 2021, n. 7 ove si legge che: «Il paradigma cui è improntato il sistema della responsabilità dell’amministrazione per l’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o per il mancato esercizio di quella doverosa, devoluto alla giurisdizione amministrativa, è quello della responsabilità da fatto illecito». In dottrina propendono per la natura extracontrattuale della responsabilità della pubblica amministrazione per lesione di interessi legittimi, comprendendo anche la lesione causata dal ritardo o dall’inerzia, F.D. Busnelli, Dopo la sentenza n. 500. La responsabilità civile oltre il «muro» degli interessi legittimi, in Riv. dir. civ., 2000, 335, il quale conferma questa presa di posizione nel più recente F.D. Busnelli, La responsabilità per illegittimo esercizio della funzione amministrativa vista con gli occhi del civilista, in Dir. amm., 4/2012, 531; R. Caranta, Attività amministrativa ed illecito aquiliano. La responsabilità della P.A. dopo la l. 21 luglio 2000, n. 205, Milano, 2001; L. Torchia, La responsabilità, in (a cura di) S. Cassese, Trattato di diritto amministrativo. Diritto amministrativo generale, tomo II, Milano, 2003, 1649; F. Liguori, Caratteri della funzione amministrativa e norme sulla responsabilità, in Dir. e società, 2004, 485. Applicano invece la nota teoria del “contatto sociale” elaborata da C. Castronovo, L’obbligazione senza prestazione. Ai confini tra contratto e torto, in Aa.Vv., Le ragioni del diritto. Scritti in onore di Luigi Mengoni, tomo I, - Diritto Civile, Milano, 1995, 147, che teorizza un terzo genus di responsabilità, la responsabilità che nasce da un contatto sociale, alla quale si applicano le regole della responsabilità contrattuale, ritenendo che il “contatto” creatosi tra amministrazione e cittadino nel corso del procedimento fa sorgere in capo all’amministrazione degli “obblighi di protezione” (ma non di prestazione) nei confronti del soggetto privato, che vanta un vero e proprio diritto a che l’amministrazione si comporti secondo buona fede, il cui mancato rispetto determina una responsabilità contrattuale ai sensi dell’art. 1218 c.c. M. Protto, È crollato il muro della irrisarcibilità degli interessi legittimi: una svolta epocale?, in Urb. e app., 1999, 1092; F.G. Scoca, Per un’amministrazione responsabile, in Giur. cost., 1999, 4045, in particolare 4060 e ss.; G.P. Cirillo, Danno da illegittimità dell’azione amministrativa e giudizio risarcitorio. Profili sostanziali e processuali, Padova, 2001, specie 77 e ss.; G.D. Comporti, Torto e contratto nella responsabilità civile della pubblica amministrazione, Torino, 2003, 129 e ss.; L. Ferrara, Dal giudizio di ottemperanza, al processo di esecuzione. La dissoluzione del concetto di interesse legittimo nel nuovo assetto della giurisprudenza amministrativa, Milano, 2003, 175 e ss.; G.M. Racca, Il risarcimento del danno e l’interesse legittimo, in (a cura di) R. Garofoli, G.M. Racca, M. De Palma, Responsabilità della pubblica amministrazione e risarcimento del danno innanzi al giudice amministrativo, Milano, 2003, 171 e ss.; C. Castronovo, La «civilizzazione» della pubblica amministrazione, in Eur. e dir. priv., 3/2013, 637 e ss. Ritiene invece che si possa sostenere l’esistenza di un vincolo obbligatorio anche senza ricorrere necessariamente alla categoria degli obblighi di protezione M.C. Cavallaro, Potere amministrativo e responsabilità civile, Torino, 2004, 217 e passim, la quale ritiene che, a seguito dell’avvio del procedimento, sorge in capo al soggetto pubblico, in virtù dell’art. 1173 c.c., un’obbligazione di mezzi che ha come oggetto l’obbligo per la pubblica amministrazione di tenere un determinato comportamento nei confronti del privato. Ritengono invece che le categorie civilistiche della responsabilità mal si attaglino alla responsabilità della pubblica amministrazione, necessitando la stessa di appositi e autonomi modelli, L. Garofalo, La responsabilità dell’amministrazione: per l’autonomia degli schemi ricostruttivi, in Dir. amm., 1/2005, 1; A. Zito, Il danno da illegittimo esercizio della funzione amministrativa. Riflessioni sulla tutela dell’interesse legittimo, Napoli, 2003, 172 e ss.; D. Vaiano, Pretesa di provvedimento e processo amministrativo, Milano, 2002, 266 e ss.
[11] Nell’ambito del giudizio impugnatorio, come ricordato nella nota 4 del presente contributo, il Consiglio di Stato, con sentenza n. 1118/2012, ha respinto l’appello proposto dalla società, dichiarando le censure presentate inammissibili perché formulate con memoria difensiva non notificata alla controparte. Tuttavia, il giudice di secondo grado, in sede di appello, osservava comunque che: «dovrebbe auspicabilmente considerarsi che l’area di Greta Immobiliare è compresa in un insediamento non solo compatibile con il P.R.G. del Comune, ma puntualmente inserito nel tessuto urbano, e segnatamente nel c.d. “Sistema della Residenza, Subsistema R4 – la città in aggiunta”, non essendo pertanto per esso ragionevolmente applicabile la disciplina di cui al D.M. 1404 del 1968 dettata per le edificazioni al di fuori del perimetro dei centri abitati e degli insediamenti che, come per l’appunto nel caso in esame, sono previsti dalla vigente strumentazione urbanistica. Pertanto, a fronte di una vigente previsione normativa di una fascia di rispetto di m. 25, la materiale esistenza di una distanza di m. 32 dal ciglio autostradale dovrebbe reputarsi congrua in un’augurabile riconsiderazione della fattispecie”». Sulla base di tale sentenza, il Comune di Prato ha rilasciato il permesso di costruire n. 538/2012 per il completamento dell’intervento in questione, sul presupposto della rilevata accettabilità della distanza di mt. 32 del fabbricato dal confine autostradale.
[12] L’autonomia dell’azione risarcitoria rispetto a quella di annullamento è sancita in modo espresso dall’Adunanza Plenaria n. 3/2011, che ricava tale autonomia dall’analisi, in primo luogo, delle disposizioni contenute nel codice del processo amministrativo, in particolare dall’art. 30, da leggersi unitamente all’art. 7, comma 4, l’art. 34, comma 2 e comma 3, affermando che: «Questo reticolo di norme consacra, in termini netti, la reciproca autonomia processuale tra i diversi sistemi di tutela, con l'affrancazione del modello risarcitorio dalla logica della necessaria “ancillarità” e “sussidiarietà” rispetto al paradigma caducatorio». Per un primo commento a questa importante sentenza si confronti M.A. Sandulli, Il risarcimento del danno nei confronti delle pubbliche Amministrazioni: tra soluzione di vecchi problemi e nascita di nuove questioni, in Federalismi.it, 7/2011, 1. Tuttavia, la dottrina ha evidenziato come tale autonomia non sia un’autonomia piena, ma piuttosto un’ autonomia «formale», «temperata», «debole» e «disincentivata», dal momento che il mancato esperimento dell’azione di annullamento, contro il silenzio o di adempimento si ripercuote in maniera significativa sul giudizio risarcitorio, dal momento che l’art. 30, comma 3, c.p.a. prevede espressamente che: «Nel determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti e, comunque, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza, anche attraverso l'esperimento degli strumenti di tutela previsti». Osserva sul punto G. Conti, Concorso di colpa del danneggiato e pregiudizialità amministrativa, in Dir. proc. amm., 2/2015, 769 come: «l’omessa impugnativa continua a rivestire una importanza di fatto decisiva con riferimento agli elementi da valutare nella determinazione del danno: sicché si attribuisce una rilevanza discriminante (in negativo) alla condotta del danneggiato, che abbia omesso di impugnare il provvedimento».
[13] Per una chiara definizione della regola del “dedotto e del deducibile” si confronti G. Chiovenda, Istituzioni di diritto processuale civile, I, Napoli, 1935, 341, ove l’Illustre Autore riconnette tale regola alla «[…] preclusione di tutte le questioni, che furono fatte e di tutte le questioni che si sarebbero potute fare intorno alla volontà concreta di legge, al fine di ottenere il riconoscimento del bene negato o il disconoscimento del bene riconosciuto». Per una declinazione della definizione con riguardo al processo amministrativo cfr. M. Clarich, Giudicato e potere amministrativo, Padova, 1989, 151, per il quale: «deducibile nel processo amministrativo è ogni fatto che può dar origine al diritto potestativo all’annullamento oppure […] che sia rilevante per la produzione dell’effetto costitutivo (annullamento) invocato. Il ricorrente è soggetto ad un vero e proprio onere di dedurre nell’atto introduttivo del giudizio tutti i motivi di invalidità dell’atto impugnato. Se non ottempera all’onere, e fatta salva la possibilità di proporre motivi aggiunti ove ne ricorrano i presupposti, la sentenza di rigetto passata in giudicato non può essere messa più in discussione in un secondo giudizio […]». Ritiene applicabile in maniera “piena” la preclusione del dedotto e del deducibile nel processo amministrativo, A. Piras, Interesse legittimo e giudizio amministrativo, Milano, 1962, 581, per il quale:«[…] così come si deve ammettere, nel corso del processo, una determinata fungibilità dei motivi da cui vien fatto dipendere l’accoglimento della domanda, così si deve anche, parallelamente, riconoscere che la cognizione del giudice, per quanto sia e debba essere limitata — positivamente e negativamente — dalle deduzioni e produzioni delle parti, produce, con la decisione finale, l’effetto di coprire, in relazione al rapporto controverso, il dedotto ed il deducibile». Contra, R. Villata, L’esecuzione delle decisioni del Consiglio di Stato, Milano, 1971, 580-582, per il quale: «[…] non si può accettare la tesi che il giudicato copre il dedotto e il deducibile: esso si riferisce soltanto ai vizi di legittimità denunciati; su tutti gli altri aspetti del provvedimento il giudice non compie alcuna indagine, né si forma alcun accertamento. Ciò è importante non tanto per la possibilità di impugnare una seconda volta l’atto in relazione a motivi diversi, stante la brevità dei termini perentori, quanto perché, se la pubblica amministrazione emana un nuovo provvedimento, dopo il ritiro del precedente, non vi è alcuna forza d’accertamento della sua legittimità, al di là dei vizi presi in considerazione dalla pronuncia cassatoria […]»; nonché G. Greco, L’accertamento autonomo del rapporto nel giudizio amministrativo, Milano, 1980, 182, nella parte in cui, procedendo alla critica della concezione enucleata da Piras, rileva che: «[…] le cennate presunzioni (aggiungiamo per quanto qui rileva: la preclusione del “dedotto e deducibile”), in mancanza di una esplicita disciplina positiva, possono essere riconosciute come vigenti soltanto in un sistema di giudizio di annullamento imperniato sull’accertamento del rapporto; poiché, viceversa, il nostro ordinamento positivo ha predisposto, a mio modo di vedere, un diverso tipo di giudizio di annullamento, le cennate presunzioni appaiono innanzitutto prive di solido fondamento normativo. Esse, comunque, non risultano idonee a garantire il “recupero” dell’accertamento dell’intero rapporto amministrativo nel nostro giudizio d’annullamento e non sono in grado pertanto di colmare del tutto il divario esistente tra la materia del contendere in siffatto giudizio e l’effettivo conflitto di interessi sostanziali, intercorrente tra Amministrazione e destinatario dell’atto». Più recentemente, con riguardo alla regola del “dedotto e del deducibile” ritiene «non giustificato, alla luce di quanto dinanzi messo in rilievo e considerate le norme processuali che costruiscono il giudizio di impugnazione, il trapianto automatico della regola in argomento dal processo civile al processo amministrativo» S. Valaguzza, Il giudicato amministrativo nella teoria del processo, Milano, 2016, 208. Al di là delle oscillazioni dottrinali sopra riportate, la tesi fatta propria dalla sentenza qui in commento ricalca quella fatta propria dall’Adunanza Plenaria 15 gennaio 2013, n. 2, per la quale la piena espansione del principio del dedotto e del deducibile è impedita dalle peculiarità del processo amministrativo e, pertanto, il giudicato amministrativo «non può che formarsi con esclusivo riferimento ai vizi dell’atto ritenuti sussistenti, alla stregua dei motivi dedotti nel ricorso», con la conseguenza che la sede per sindacare la legittimità dei provvedimenti emanati nel caso di riedizione del potere amministrativo sotto profili non oggetto delle statuizioni della sentenza sarà il giudizio ordinario di cognizione e non il giudizio di ottemperanza.
[14] Sul valore ricognitivo dell’art. 30 c.p.a., si esprime molto chiaramente l’Adunanza Plenaria n. 3/2011 supra ampiamente richiamata la quale «reputa che la regola della non risarcibilità dei danni evitabili con l’impugnazione del provvedimento e con la diligente utilizzazione e degli altri strumenti di tutela previsti dall’ordinamento, oggi sancita dall’art. 30, comma 3, del codice del processo amministrativo, sia ricognitiva di principi già evincibili alla stregua di un’ interpretazione evolutiva del capoverso dell’articolo 1227 cit.». Alla luce di tale valenza ricognitiva, la Plenaria afferma che l’art. 30 cit. «enuncia principi che, in quanto già presenti nell'art. 1227 c.c., sono applicabili anche alle azioni risarcitorie proposte prima della sua entrata in vigore, in quanto espressione del principio generale di correttezza nei rapporti bilaterali, mirando a prevenire comportamenti opportunistici finalizzati a trarre occasioni di lucro da situazioni che hanno leso solo in modo marginale gli interessi dei destinatari del provvedimento, la cui lesività avrebbe potuto essere prevenuta con la normale diligenza».
[15] Per un’applicazione di questo articolo si confronti di recente T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 05 maggio 2023, n.7646, per il quale: «Costituisce principio irretrattabilmente sancito in giurisprudenza, sin dalla pronuncia dell'Adunanza Plenaria n. 3/2011, che la mancata impugnazione dell'atto amministrativo illegittimo, pur non precludendo la possibilità di esperire un’autonoma azione di risarcimento dei danni da esso conseguenti, costituisce un comportamento apprezzabile da parte del giudice ai fini dell’ esclusione o della mitigazione del danno medesimo, laddove si appuri che le condotte attive trascurate non avrebbero implicato un sacrificio significativo ed avrebbero verosimilmente inciso, in senso preclusivo o limitativo, sul perimetro del danno, non essendo risarcibili quei danni che il destinatario dell'atto amministrativo lesivo avrebbe potuto evitare con la sua impugnazione e con la diligente utilizzazione degli altri strumenti di tutela previsti dall'ordinamento, secondo quanto previsto dall'art. 30, comma 3, c.p.a, ricognitivo dei principi espressi dall'art. 1227 c.c., secondo cui il creditore è gravato non soltanto da un obbligo negativo consistente nell'astenersi dall'aggravare il danno, ma anche dall'obbligo positivo di tenere quelle condotte rivolte a evitare o ridurre il danno, nel rispetto delle generali clausole di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.». In termini si confronti T.A.R. Lazio, Roma, sez. V, 03 maggio 2023, n. 7529; T.A.R. Lombardia, Milano, sez. III, 23 novembre 2022, n. 2617; Cons. Stato sez. IV, 31 ottobre 2022, n. 9421; Cons. Stato sez. IV, 13 maggio 2022, n. 3774; Cons. Stato, sez. V, 2 febbraio 2021, n. 962; sez. IV, 4 dicembre 2020, n. 7699.
[16] Si legge testualmente nella sentenza che: «In altri termini, sul piano processuale la situazione è esattamente equiparabile al caso in cui l’azione risarcitoria sia stata proposta in assenza della preventiva impugnazione dei provvedimenti lesivi, con la particolarità che in questo caso l’impugnazione vi è stata, ma per motivi/in relazione a vizi differenti da quello in ragione del quale è oggi dedotta, a fini risarcitori, l’illegittimità commessa dalla resistente».
[17] Con riguardo all’individuazione degli elementi dell’illecito aquiliano nel caso di specie, il Consiglio di Stato, ravvisa l’illegittimità delle due diffide, che avevano stabilito quale distanza da rispettare dallo svincolo autostradale quella di 60 metri, dovendosi invece considerare quale distanza sufficiente quella di 30 metri. Su questo punto il Supremo Consesso precisa che tale circostanza non deriva dall’obiter dictum contenuto nella sentenza del Consiglio di Stato, sopra richiamato, dal momento che «nel processo amministrativo il giudicato si forma in relazione ai motivi di gravame e non anche alle affermazioni ulteriori eventualmente contenute nella sentenza, in quanto l’autorità di giudicato è circoscritta oggettivamente in conformità alla funzione della pronuncia giudiziale, diretta a dirimere la lite nei limiti delle domande proposte», ma dal permesso di costruire n. 538/2012 rilasciato dal Comune di Prato per il completamento dell’intervento, nel quale l’amministrazione ha riconosciuto la legittimità della realizzazione dell’intervento edilizio de quo ad una distanza di mt. 32 dal confine autostradale e dalla mancata impugnazione di tale provvedimento da parte di Autostrade per l’Italia. Sul rapporto tra giudicato e obiter dicta si confronti Cons. Stato, sez. III, 3 marzo 2023, n. 2246 che richiama in termini Cons. Stato, III, 24 settembre 2020, n. 5585; sez. III, 21 novembre 2019, n. 7934; sez. V 18 gennaio 2017, n. 202, 19 maggio 2016, n. 2091, e 30 ottobre 2015, n. 4972; Sez. IV, 28 luglio 2016, n. 3415, e 11 settembre 2001, n. 4744; Sez. VI, 19 gennaio 2012, n. 206.
[18] Per l’interpretazione di tale articolo si confronti la nota 15 del presente contributo.
[19] L’art. 1227 c.c. prevede che, in caso di concorso di colpa del creditore nella causazione del danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate.
[20] Tale verificazione si rende invero necessaria in quanto la Società «pur censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso la risarcibilità del danno anche con riguardo alla parte di danno prodottosi nell’arco temporale intercorrente tra le diffide di Autostrade per l’Italia del 2008 e la pronuncia del Consiglio di Stato n. 1118/2012, ha riproposto (per intero) la domanda risarcitoria, formulata nel ricorso introduttivo del giudizio, quantificando complessivamente la pretesa risarcitoria in € 6.911.097,24». Sull’utilizzo della verificazione nel processo amministrativo e sul suo rapporto con la consulenza tecnica d’ufficio si confronti V. Caracciolo La Grotteria Verificazione e consulenza tecnica nel processo amministrativo (Nota a Cons. Stato 24 marzo 2023 n. 3025) in questa Rivista, 21 giugno 2023 e dottrina ivi citata. È interessante notare che, nel caso di specie, il Consiglio di Stato determina le modalità di svolgimento della verificazione in modo da rispettare il contradditorio tra le parti, in questo modo supplendo ad uno dei problemi evidenziati dalla dottrina con riferimento all’utilizzo di questo mezzo di prova.
[21] Questi i quesiti formulati nello specifico:
a) se e in che misura l’intervento edilizio assentito con il permesso di costruire n. 358/2012, rilasciato alla società Greta Immobiliare dal Comune di Prato e divenuto inoppugnabile per acquiescenza della società Autostrade, si discosti da quelli precedentemente assentiti dal predetto Comune e oggetto delle diffide emanate da Autostrade per l’Italia nel 2008;
b) l’attuale stato delle opere realizzate dalla società Greta Immobiliare nell’area de qua e il costo sostenuto dalla predetta società per la loro realizzazione;
c) il valore commerciale che l’opera avrebbe avuto, in base al mercato immobiliare della zona, se fosse stata realizzata in base al progetto presentato nel 2008 e il costo complessivo previsto per la sua realizzazione (da rapportare alla presumibile data di realizzazione dell’intervento, se non fosse intervenuta la sospensione delle attività di cantiere, e tenendo presenti i possibili rischi di cantiere); l’utile che l’impresa avrebbe presumibilmente ricavato dalla realizzazione dell’intervento edilizio, in relazione alla tipologia dell’intervento progettato;
d) le spese effettivamente sostenute dalla società Greta Immobiliare, sulla base della documentazione prodotta dall’interessata in giudizio o in sede di verificazione, per lo spostamento del cantiere e per far fronte alle richieste risarcitorie dei promissari acquirenti;
e) la verosimile incidenza, secondo una valutazione di tipo prognostico (tenendo conto della sua situazione contabile nel 2008), della sospensione dei lavori in questione sulla attuale situazione finanziaria e patrimoniale della società;
f) la sussistenza di eventuali, ulteriori profili di danno rinvenibili dall’esame della documentazione prodotta dall’interessata in giudizio o in sede di verificazione, nei limiti di quanto sopra affermato ai punti 9 e ss.
[22] La tendenza a tutelare l’amministrazione rispetto a eventuali sentenze di condanna al risarcimento del danno o, comunque, al pagamento di una somma, è ben percepibile dall’analisi della giurisprudenza amministrativa che adotta nei confronti di quest’ultima un atteggiamento protettivo. Su questi aspetti si confronti M. Clarich, Riflessioni sparse sul dualismo giurisdizionale non paritario, in Questione Giustizia, 1/2021, 123, il quale osserva come: «il giudice amministrativo ha ancora oggi una minor familiarità rispetto al giudice ordinario con le questioni risarcitorie». Ancora più incisivamente F. Francario, Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria, Ivi, 136 per il quale «il giudizio amministrativo è – e si è comunque dimostrato inidoneo a erogare la tutela risarcitoria».
[23] Cfr. nota 15 del presente contributo.
[24] P. Pozzani, Proposte definitorie circa la pregiudizialità amministrativa in senso sostanziale, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1/2018, 279, il quale ricorda come «illustre dottrina sottolinea che l’approccio sostanzialista non è ancora sufficiente ad offrire piena tutela al soggetto leso poiché la valutazione del mancato esperimento della tutela demolitoria appare determinante al fine di ottenere il risarcimento, il quale, pertanto, ancora lascia il soggetto privato in posizione debole rispetto a quello pubblico. Sarebbe preferibile, secondo questa opinione, l’apprezzamento del comportamento complessivo delle parti e della buona fede che non dovrebbero coincidere con l’esperimento del rimedio impugnatorio, bensì essere ricondotte a parametri diversi come ad esempio la eventuale stimolazione all’autotutela dell’amministrazione tramite diffida».
[25] Limitandosi alle sentenze già richiamate alla nota 15 del presente contributo si legge che, non avendo il ricorrente impugnato il provvedimento ritenuto illegittimo «nessun pregio possono vantare adesso le pretese di ristoro dell’illecito subito dal ricorrente, illecito che, quand’anche sia avvenuto, ha visto la condotta del danneggiato non essere estranea alla sua causazione, ai sensi dell’art. 1227, comma secondo, c.c. Ne consegue, quindi, il rigetto della pretesa risarcitoria in quanto sprovvista di fondamento alcuno» (T.a.r. Lazio, Roma, n. 7646/2023). Sempre il T.a.r. Lazio, nella sentenza 7529/2023 osserva come: «ai fini risarcitori non soltanto è necessaria la dimostrazione da parte dell’istante che il danno sussista, sia ingiusto (ovvero incida su un interesse materiale sottostante) e venga provato, ma è altresì necessario che nella sua causazione non vi sia stato il concorso del fatto colposo del creditore ai sensi dell’art. 1227 c.c.», ritenendo che, nel caso di specie: «il danno lamentato avrebbe potuto essere evitato attraverso un uso corretto e tempestivo degli strumenti (amministrativi e giustiziali) predisposti dall'ordinamento a tutela della posizione soggettiva di cui il creditore è portatore, e che tale danno, ove anche in tesi sussistente, sarebbe comunque conseguenza anche del comportamento inerte del creditore medesimo, nella misura in cui avrebbe dovuto previamente e sollecitamente richiedere all’amministrazione l’attivazione del procedimento di valutazione dell’idoneità costituente presupposto per la riammissione in servizio, in forza di rituale certificazione dalla commissione medico-ospedaliera – C.M.O».
[26] Anche nel valutare questa circostanza il Consiglio di Stato adotta la prospettiva economica necessaria «in un contesto di mercati sempre crescente» evidenziando come «La realizzazione da parte di un soggetto imprenditoriale di opere edilizie di una certa rilevanza economica implica l’impiego di ingenti risorse strumentali, umane e finanziarie, che richiedono una valutazione ponderata delle scelte imprenditoriali, al fine di non esporre l’impresa a gravi conseguenze finanziarie e patrimoniali; nel caso di specie, la scelta della società appellante di attendere l’esito del giudizio intrapreso, prima di portare a compimento la esecuzione dell’intervento progettato, non può essere considerata come espressione di una libera determinazione dell’imprenditore di farsi carico (volontariamente) delle conseguenze dannose derivanti dalla (non obbligatoria) sospensione delle attività di cantiere».
[27] In questo senso sembra muoversi un’altra interessante sentenza del Consiglio di Stato, (sez. IV, 3 agosto 2023, n. 7503) che condanna un comune sardo al risarcimento del danno, stigmatizzando il comportamento dallo stesso tenuto in quanto: «La sua inerzia (prima) e contraddittorietà (dopo) possono essere, almeno in pate, ricondotte a quel fenomeno che la dottrina definisce “burocrazia difensiva” (espressione che si associa a quella – altrettanto diffusa – della c.d. “paura della firma”). Questo fenomeno, che discende da un malinteso senso si “auto-protezione” della struttura amministrativa, finisce per anteporre tale protezione a quella dei cittadini e degli interessi pubblici che la stessa struttura dovrebbe prioritariamente tutelare». Sul fenomeno della burocrazia difensiva si confronti, ex multis, L. Lorenzoni, La responsabilità amministrativa in relazione al fenomeno della cosiddetta burocrazia difensiva, Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 4/2021, 761.
Enrico Manzon intervista Carolina Lussana, presidente del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria dallo scorso novembre.
Bergamasca d’origine, avvocata. Eletta alla Camera dei deputati per tre legislature dal 2001 al 2013 con la Lega, ha ricoperto gli incarichi di vicepresidente della Commissione giustizia di Montecitorio, di vicepresidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte della giornalista Ilaria Alpi, di presidente del Comitato per la legislazione e di componente della Commissione antimafia. Sposata, mamma di due ragazzi di dodici e quattordici anni, attualmente vive a Roma. Lo scorso novembre è stata eletta presidente del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria.
Presidente Lussana, ci dica il suo punto di vista sulla questione di genere. Sono rare le donne in posizioni apicali (c’è solo il precedente di Daniela Gobbi) negli organi di autogoverno. Una contraddizione in quanto nelle varie magistrature la presenza femminile è ormai maggioritaria.
Essere l’unica donna al vertice di un organo di autogoverno della magistratura da un lato è molto gratificante ma dall’altro mi fa comprendere come noi donne abbiamo ancora molta strada da fare. La parità di genere è un argomento da tempo al centro del dibattito pubblico. Bisognerebbe però passare dalle parole ai fatti. Mi spiego. La presenza femminile nelle varie magistrature ha da anni superato quella maschile e sono tante le donne magistrato che oggi ricoprono incarichi di vertice. Il pensiero va subito a Margherita Cassano, attuale prima presidente della Corte di Cassazione. Purtroppo, le donne magistrato devono ancora lottare per vedersi riconosciuti i propri meriti e sono spesso vittime di pregiudizi. Senza considerare le enormi difficoltà che incontrano coloro che hanno figli e che devono scegliere fra la carriera o la famiglia. Il nostro sistema certamente non le agevola. All’estero, nei Paesi del Nord Europa, gli uffici giudiziari sono tutti dotati di asili nido e ciò permette di conciliare il lavoro della donna magistrato con gli impegni familiari senza eccessivi sacrifici. Speriamo che anche in Italia ci sia presto un cambio di passo su questo aspetto. Per quanto riguarda invece la presenza femminile negli Organi di autogoverno le dinamiche sono diverse. Dico soltanto che ci vorrebbe più coraggio, ad iniziare dal Parlamento, nel candidare le donne e noi donne dovremmo imparare ad osare di più e a non ‘auto limitarci’, imparando dalla nostra presidente del Consiglio che ha dimostrato che i tetti di cristallo con volontà, determinazione e capacità si possono frantumare.
Il Cpgt e la riforma della giustizia tributaria. Quale sarà l’agenda della consiliatura appena iniziata? Quali i punti fondamentali e le priorità?
La domanda è complessa e merita una risposta articolata. L’elemento cardine della riforma della giustizia tributaria del 2022 è, senza ombra di dubbio, il giudice professionale e assunto per concorso. Su questo aspetto negli anni c’è stato un fortissimo dibattito, talvolta caratterizzato da accuse ingenerose nei confronti di coloro che svolgono anche a fronte di grandi sacrifici personali la delicata funzione di giudice tributario onorario. Una delle critiche che abbiamo ascoltato è sicuramente quella della asserita minore qualità delle pronunce tributarie di merito rispetto a quelle delle altre giurisdizioni. Alla base di questa affermazione vi sarebbe il numero di sentenze tributarie riformate in Cassazione, maggiore come detto rispetto a quelle civili e penali, e determinato dalla non professionalizzazione dei giudici tributari. Il ragionamento dimentica però che per oltre il 60 percento questi ultimi sono magistrati ordinari, consiglieri di Stato, giudici della Corte di Conti. La questione delle sentenze riformate in Cassazione, a mio avviso, attiene molto anche alla complessità della materia trattata, alle continue modifiche della normativa fiscale, ed ai cambiamenti imposti dall’Europa. Premesso che sono auspicabili interventi normativi di semplificazione, un magistrato professionale, specializzato, a tempo pieno, oggetto di formazione ed aggiornamento continua, certamente non potrà non aiutare comunque a ridurre il contenzioso di legittimità, con un miglioramento costante delle sentenze di merito. In attesa del primo concorso per giudice tributario professionale, il transito dei cento magistrati dalle altre giurisdizioni e che doveva essere lo ‘start up’ della nuova giustizia tributaria è andato molto male, con meno di un quarto dei posti che sono stati coperti. Nelle ultime settimane ci si è interrogati sulle cause di questo insuccesso. Come ho già avuto modo altre volte di ricordare, perché un magistrato dovrebbe cambiare se si trova bene nella sua giurisdizione? Il limite dei 60 anni ha sicuramente influito in senso negativo. Il Consiglio di Presidenza ha chiesto al governo di valutare se con diversi parametri il transito potrebbe risultare più attrattivo ma su una riapertura dei termini la cautela è d’obbligo. Vedremo cosa sarà possibile fare. Adesso è importante far convivere i neo giudici tributari professionali, i cui decreti di nomina sono stati appena registrati dalla Corte dei Conti, con i giudici tributari onorari. È di tutta evidenza che bisognerà affrontare la questione dei carichi di lavoro che oggi sono concepiti per una platea di soli giudici tributari part-time e non full-time. Sulla revisione della geografia giudiziaria, ferma ad una ventina di anni addietro, i dati non hanno bisogno di grandi commenti: ci sono Corti oberate di lavoro ed altre in cui il numero dei procedimenti incardinati è veramente molto basso. Anche in questo caso credo sia necessario metterci mano a breve e cercare la migliore soluzione. Sul rapporto fra giurisdizione speciale di merito e giurisdizione ordinaria di legittimità mi sento di dire che dovrà essere incentivato il ricorso ai nuovi strumenti, come il rinvio pregiudiziale, previsti dal legislatore. Il ricorso in Cassazione deve ricondursi alla sua funzione, quella nomofilattica. Va ricordato, e concludo, che con la riforma a regime la Sezione tributaria della Cassazione sarà comunque composta esclusivamente da giudici che nelle fasi di merito non hanno mai esercitato la funzione di giudice tributario.
Come vede il Cpgt all’interno del sistema istituzionale?
Il Cpgt è perfettamente consapevole del delicato compito che gli è affidato. Considero il Consiglio un ‘baluardo’ per garantire l’indipendenza esterna ed interna dei giudici tributari. In tale scenario i rapporti del Cpgt con gli altri Organi di autogoverno sono da sempre eccellenti ed inspirati alla massima collaborazione. Con il Csm, ad esempio, abbiamo già in programma di dar vita ad un tavolo di lavoro per affrontare tematiche di interesse comune, come quello del reclutamento dei magistrati che in Italia ha tempi troppo lunghi. Riguardo i rapporti con il Parlamento ed il governo, essendo stata parlamentare per diversi anni, credo vadano improntanti al rispetto reciproco senza sconfinamenti di sorta. Il principio della separazione dei poteri è sacro e personalmente non apprezzo quando un magistrato si ingerisce in tematiche che competono al legislatore o al potere esecutivo: c’è il rischio che la sua terzietà ed imparzialità venga irreparabilmente compromessa agli occhi del cittadino. Più articolato è il discorso per quanto concerne il rapporto, non risolto ma addirittura amplificato dalla riforma, con il Mef. È un tema molto sentito soprattutto dai vari operatori del settore, avvocati e commercialisti, che puntavano ad una diversa collocazione della giustizia tributaria. Per questo motivo, credo, sia assolutamente necessario rafforzare sempre più l’autorevolezza, l’autonomia e le prerogative del Cpgt a garanzia e tutela dei giudici tributari e dei cittadini contribuenti.
Il Cpgt sta vivendo un profondo rinnovamento. Come vive questa fase?
Questa domanda si riallaccia in parte alla precedente. Il Cpgt all’indomani della riforma è stato subito oggetto da forti cambiamenti. Fra le novità, mi piace ricordarlo, la creazione dell’Ufficio ispettivo e del Massimario a cui si dovrà ora dare celere attuazione. Il mio cruccio, rispetto agli altri Organi di autogoverno ad iniziare dal Csm, riguarda la mancanza di un ruolo organico del personale. L’autonomia ordinamentale e funzionale è una questione centrale che necessita soluzioni. Merito indiscusso della riforma è aver dato riconoscimento e pari dignità alla giustizia tributaria, di fatto creando la quinta giurisdizione. Adesso serve completare questo processo di equiparazione. Un primo passo è consentire ai consiglieri magistrati ordinari di poter andare fuori ruolo per dedicarsi a tempo pieno alle attività consiliari. Ciò contribuirebbe a riconoscere il delicato ed impegnativo compito da essi assunto e che non è facilmente conciliabile con l’attività giurisdizionale. Stiamo valutando anche modifiche regolamentari che consentano la creazione di un Servizio Studi o altri strumenti di ausilio e supporto dell’attività dei consiglieri. E poi ci sarà da affrontare il problema delle risorse economiche. Per quanto concerne infine la formazione, una attività propria del Consiglio, daremo il via alla Scuola superiore della giustizia tributaria di cui abbiamo già nominato il direttore scientifico. Ci sarà grande attenzione al percorso formativo, in collaborazione con il mondo accademico scientifico, valorizzando anche l’esperienza selezionata e comprovata dei giudici tributari in servizio o in quiescenza.
(Immagine: particolare da Théophile-Alexandre Steinlen, Conversation, litografia, Chicago Art Institute)
Sommario - 1. Introduzione. - 2. Le raccolte informatiche di giurisprudenza, di norme e di dottrina. Il processo telematico. - 3. Che cos’è l’intelligenza artificiale? - 4. Che cos’è l’intelligenza? - 5. L’intelligenza rivelata dalla prestazione (il c.d. test di Turing). - 6. Criteri sintattici e criteri semantici (la stanza cinese di J. Searle). - 7. Il problema della fondazione simbolica (Wittgenstein e le ‘forme di vita’). - 8. I tratti di una nuova rivoluzione copernicana. - 9. Sistemi esperti, machine learning, deep learning. Il rischio dell’opacità. 10. Del giudicare come rendere ragione (di sé) e come praxis. - 11. La coscienza e le radici del male.
1. Introduzione.
L’incontro tra l’esperienza dell’intelligenza artificiale e l’attività del giudice costituisce uno dei temi di più rilevante interesse nell’ambito del dibattito giuridico-politico contemporaneo, e induce a considerarne gli effetti, destinati a ricadere, al di là dello stile o della qualità del lavoro del giudice, sull’essenza stessa della funzione giudiziaria.
La prospettiva su cui più frequentemente insiste lo sguardo che indugia sull’impiego dell’intelligenza artificiale (nel quadro delle diverse attività sociali) tende per lo più a soffermarsi sul tema della ‘sostituibilità’ dell’attività umana, nei suoi aspetti o manifestazioni più salienti, attraverso il contributo fornito dall’elaborazione delle macchine.
Della possibilità che le macchine siano (o, più concretamente, saranno) in grado assicurare con immediatezza lo svolgimento di funzioni giudiziarie, converrà, allo stato, limitarsi a rilevare, con prudenza, il carattere meramente congetturale; e ciò, non tanto (o non solo) per la gravità delle implicazioni d’indole etico-sociale o culturale che appaiono connesse a una simile prospettiva, quanto per la natura ancora preliminare o ipotetica delle conoscenze o delle concrete strategie di elaborazione dei dati rilevanti ai fini di un accettabile o controllabile procedimento di giustizia predittiva.
Si tratta – rispetto a quanto già accade in relazione a molte occupazioni o professioni più agevolmente ‘surrogabili’ dal ricorso alle ‘macchine intelligenti’ – di anticipazioni che, con riguardo all’assunzione di funzioni giudiziarie, si ricollegano più spesso a test, o prove, condotte nel quadro di esperienze giuridiche diverse dalla nostra che appaiono ancora insufficienti a giustificare alcun tipo di realistica o concreta preoccupazione.[1]
Verosimilmente, converrà piuttosto insistere – con riguardo al tema più generale delle reazioni suscitate dall’impiego dell’intelligenza artificiale - sulla necessità di tenersi distanti, tanto da un’ingenua e illusoria esaltazione entusiastica circa le ‘magnifiche sorti e progressive’ della potenza elaboratrice delle macchine, quanto da un’ingiustificata e insensata prospettiva ‘apocalittica’, destinata ad alimentare unicamente l’incubo della progressiva sostituzione dell’umano attraverso la realizzazione di organismi cibernetici dotati di nuove forme di intelligenza individuale o collettiva, secondo i termini della cosiddetta ‘singolarità’; un disegno capace di presagire, una volta resa autonoma l’elaborazione degli scopi delle singole intelligenze artificiali, il futuro dominio delle macchine sull’uomo e il relativo controllo nello spazio e nel tempo.
Entrambe quelle prospettive, pur largamente fruttuose sul piano dello sviluppo delle ideazioni cinematografiche o letterarie di carattere fantascientifico, devono ritenersi, viceversa, prive di alcun significato concreto sul piano della serietà del discorso culturale, se si eccettua il valore di laboratorio morale, in chiave di sperimentazione mentale, che rimane comunque riscontrabile nell’elaborazione e nella discussione pubblica suscitata dalla diffusione di simili forme d’arte.
2. Le raccolte informatiche di giurisprudenza, di norme e di dottrina. Il processo telematico.
Il riferimento alla nozione dell’intelligenza artificiale tout court deve ritenersi, intanto, fermo a una modalità ancora troppo generica di designazione, se si pone mente alle numerose e complesse modalità degli impieghi che accade di riscontrare nelle varie e diverse forme di applicazione dell’intelligenza artificiale.
In ambito giudiziario, varrà intanto sottolineare il carattere largamente sperimentato dell’esperienza informatica delle corti italiane degli ultimi decenni, con particolare riguardo alle applicazioni destinate alla raccolta, conservazione e sistematizzazione critica della giurisprudenza della Corte di cassazione: si tratta di un’attività che, avviata in forma embrionale tra gli anni ’60 e ‘70 del secolo scorso presso il Centro elettronico di documentazione della Corte, è per lo più destinata a fornire a un contributo di informazione immediata sullo stato della giurisprudenza di legittimità in relazione alla risoluzione di singole questioni.[2]
Raccolte analoghe sono state efficacemente organizzate e realizzate, negli ultimi decenni, nell’ambito dell’editoria privata, anche allo scopo di associare, alla raccolta della giurisprudenza di legittimità e di merito, le pubblicazioni di carattere dottrinario già comparse sulle riviste ‘cartacee’ di maggiore diffusione in ambito nazionale.
Si tratta di iniziative che, quando trascendono le finalità commerciali degli editori privati, si estendono anche alla raccolta online della giurisprudenza di altre corti nazionali (di giurisdizione amministrativa) o degli organi di giustizia dell’Unione Europea.
Anche sul piano normativo, le istituzioni italiane hanno provveduto a realizzare efficaci sistemi di raccolta informatica di tutta la normativa primaria esistente, ossia di tutte le leggi e gli atti normativi di carattere legislativo nazionale e regionale, e di gran parte dell’attività regolamentare svolta dagli enti statali e territoriali.
Gran parte degli enti pubblici cui risale lo svolgimento di prerogative di carattere regolamentare gestiscono, peraltro, siti Internet dotati di attendibili raccolte informatiche di contenuto normativo.
Al di là dell’informatica applicata alla raccolta di dati riferiti ai c.d. ‘formanti’ del diritto, non può non sottolinearsi l’introduzione, da alcuni anni (e, nell’ultimo anno, dinanzi alla Corte di cassazione), del c.d. processo civile telematico, ossia di un sistema capace, non solo di governare lo scambio e l’archiviazione documentale degli atti dei soggetti che partecipano al processo, ma che si estende (talora attraverso il ricorso ad applicazioni fornite da terzi ed acquisite sul piano commerciale dall’amministrazione pubblica) alla celebrazione di udienze mediante collegamento a distanza: una tecnica di interazione tra giudice e parti ripresa e istituzionalizzata (sulla falsariga della legislazione emergenziale emanata durante l’epoca delle restrizioni imposte dalla diffusione del Covid-19), dalle più recenti riforme del processo civile.
Ciascuna di queste esperienze di modalità di impiego dell’informatica in ambito giudiziario deve ritenersi sostanzialmente limitata, così come obiettivamente concepita e concretamente configurata, all’esecuzione di compiti di ausilio archivistico, di scambio documentale e di comunicazione a distanza.
Rimane invece ancora escluso (allo stato, anche secondo quanto emerge dalla lettura della Carta etica europea sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari e negli ambiti connessi adottata, nel 2018, dalla Commissione europea sull’efficienza della giustizia - CEPEJ) che i giudici europei facciano uso quotidiano e regolare (o, quantomeno, ufficiale) di software di giustizia predittiva in senso stretto, ossia di software capaci - non solo, genericamente, di ampliarele informazioni riguardo al passato o al presente, ma anche - di generare una risposta in forma di proposta di decisione in relazione a casi particolari sottoposti alla computazione della macchina.[3]
3. Che cos’è l’intelligenza artificiale?
Allo scopo di avviare utilmente la considerazione degli effetti o, in generale, dell’incidenza che l’intelligenza artificiale è in grado di assumere sul lavoro del giudice è in primo luogo indispensabile domandarsi che cosa l’intelligenza artificiale sia e che cosa è possibile attendersi dal suo impiego.
Nella Proposta di Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio che stabilisce regole armonizzate sull’intelligenza artificiale (COM/2021/206 final, 21 aprile 2021) si legge che ‘‘artificial intelligence system’ (AI system) means a machine-based system that is designed to operate with varying levels of autonomy and that can, for explicit or implicit objectives, generate outputs such as predictions, recommendations, or decisions, that influence physical or virtual environments” (Article 3, § 1(1); testo modificato dal Parlamento europeo il 14 giugno 2023).
In una recente sentenza, il Consiglio di Stato ha definito l’intelligenza artificiale «un sistema che non si limita solo ad applicare le regole software e i parametri preimpostati (come fa invece l'algoritmo ‘tradizionale’) ma, al contrario, elabora costantemente nuovi criteri di inferenza tra dati e assume decisioni efficienti sulla base di tali elaborazioni, secondo un processo di apprendimento automatico».[4]
Prima ancora di approfondire il senso o le modalità di struttura e di funzionamento di tali tecniche di elaborazione di dati, varrà muovere da una preliminare considerazione – se si vuole, ‘filosofica’ – del significato che è possibile ascrivere alla nozione di ‘intelligenza artificiale’.
Secondo una fortunata immagine – ripresa da uno dei nostri maggiori studiosi di filosofia dell’informazione [5] – l’intelligenza artificiale consisterebbe, non già nell’incontro tra l’applicazione della funzione intellettuale e la capacità operativa di un dispositivo meccanico (una sorta di unificazione tra funzioni mentali e movimento della materia), bensì nella singolare storia di un ‘divorzio’ tra la capacità di agire (intesa come la capacità di organizzare le premesse operative per la risoluzione di un problema e di agire per ottenerla) e l’intelligenza che presiede a tale azione; in breve, le c.d. ‘macchine intelligenti’ realizzerebbero una capacità di agire (un’‘agentività’, secondo l’inelegante termine invalso nel linguaggio specialistico) del tutto priva di intelligenza.
Il riferimento storico-culturale più spesso evocato, a proposito di tale prospettiva, è quello che allude al lavoro di elaborazione svolto attraverso i c.d. ‘pensieri ciechi’, ossia a quei pensieri che Leibniz, nel corso del XVII secolo, veniva definendo attraverso la scissione (già ritenuta impossibile da Cartesio) tra ‘coscienza’ e ‘conoscenza,’ ossia tramite la combinazione di calcolo e logica formale o simbolica.
L’esempio concreto, espressamente proposto dallo stesso Leibniz, è quello del ‘chiliagono’ (ossia del poligono con mille lati): se l’idea di un simile poligono – diversamente da un triangolo o da un quadrato – non è realisticamente pensabile, immaginabile o tantomeno figurabile, dello stesso poligono è tuttavia possibile calcolare agevolmente i dati e le misure attraverso il ricorso alla logica dei simboli.
In questo caso, secondo la prospettiva leibniziana, il calcolo e il ragionamento condotto sulle caratteristiche di quella figura geometrica prescindono totalmente dalla nostra capacità di pensarne o immaginarne figurativamente il significato.[6]
4. Che cos’è l’intelligenza?
La premessa, secondo cui la realizzazione di macchine capaci di trasformare la computazione di simboli in prestazioni operativamente adeguate non sarebbe caratterizzata dall’impiego di alcuna forma di intelligenza propria, induce a interrogarsi ulteriormente su cosa realmente sia, o possa ragionevolmente intendersi per ‘intelligenza’ o, più precisamente, cosa concretamente occorra affinché sia possibile predicare una simile qualità a un comportamento o a un’azione.
Al di là degli enormi progressi registrati negli ultimi anni dalle scienze umane (dalle discipline cognitive alle neuroscienze, dalle ricerche filosofiche a quelle psicologiche, ecc.), un accordo sufficientemente ampio o diffuso sulla definizione dell’intelligenza deve ritenersi, allo stato, ancora escluso.
E tuttavia, malgrado l’impossibilità di definire in modo soddisfacente, o scientificamente univoco, la nozione di ‘intelligenza’, rimane tuttavia ferma la generalizzata capacità degli esseri umani (quantomeno) di ‘riconoscere’ l’intelligenza in termini pratici, ossia di riscontrarne il ricorso in quei caratteri comportamentali capaci di fornirne un esempio.
Se si immagina cosa possa rendere veramente intelligente un comportamento si è indotti a pensare alla capacità di intendere il senso comune, di ricavare insegnamenti dall’esperienza, alle abilità di apprendimento e di ragionamento, alle competenze comunicative, alla memoria, all’attitudine a vedere in qualcosa qualcos’altro in modo tale da destinarlo a un fine ulteriore, all’acume inferenziale, alla propensione a mettersi nei panni altrui.
Si tratta di forme rivelative dell’intelligenza in cui si esprime la capacità dell’essere umano di ‘gestire informazioni’ sotto forma di simboli o dati; elementi, questi ultimi, che non sono in alcun modo privi di interpretazione, quanto piuttosto pattern (schemi) informativi dotati di un significato loro proprio.
L’essere umano vivente è immerso nel tempo, con le sue specifiche scansioni naturali e culturali da articolare: ha storia, memoria, immaginazione, senso delle possibilità e delle alternative, scarti di imprevedibile creatività, capacità di riflettere su sé stesso in base a una coscienza che non ha nulla a che vedere con i pensieri ciechi di leibniziana memoria.
In un testo d’indole divulgativa pubblicato alla metà degli anni ’90 [7], Daniel Goleman prospettava la possibilità di guardare all’intelligenza e al suo significato attraverso la valorizzazione delle componenti emotive dell’affettività; momenti dell’esperienza individuale chiamati a rivestire una rilevanza non minore, per la vita sociale, di quella che siamo soliti attribuire all’intelligenza razionale o cognitiva.
Se ci soffermiamo ad osservare gli esseri viventi come esempi di chi ‘sa stare al mondo’, ci accorgiamo del carattere dirimente e decisivo del possesso, da parte di ciascun essere umano, di una propria ‘storia’: è nel corso (e in conseguenza di) questi irripetibili processi storici che ciascun essere umano forma la propria abilità di ragionare in modo brillante o meno, o anche di muoversi in maniera imprevedibile o acrobatica.
Ma i percorsi di quelle storie costituiscono, allo stesso modo (e contemporaneamente), anche le ragioni (o le cause) dei ‘difetti’ degli esseri umani, dei diversi temperamenti, delle irriducibili sensibilità e delle credenze che giustificheranno le sensazioni del piacere e del dispiacere, dell’amore, della sofferenza e del dolore; in breve, le ragioni di tutte le differenze individuali destinate ad arricchire i contenuti delle relazioni umane e della convivenza.
Ed è proprio attraverso questa dimensione relazionale e la convivenza, come strutture costitutive dell’umano, che le comunità elaborano, collettivamente, nella reciproca capacità di dare e di ricevere, il senso dello stare al mondo e d’intenderne i significati in ambiti e contesti che appaiono fortemente connotati sul piano emozionale.
Se dietro ciascun individuo, così come dietro ciascuna comunità umana, è possibile ricostruire il senso di ‘una storia’, dietro ogni macchina si trovano ‘tante storie’ quanti sono i dati che ne alimentano l’attività di computazione: nessuna di tali singole storie è, tuttavia, ‘la storia’ di quella macchina e, dunque, nessuna linea coerente di significati e nessuno spazio di convivenza collettiva varranno a sostanziare il senso, temporalmente disteso, della sua esperienza di elaborazione.
Molti ricercatori vedono nel progresso della robotica una strada percorribile per il perfezionamento delle intelligenze artificiali: dotandosi di un corpo, le macchine potrebbero percepire e agire nel mondo, e in tal modo costruirsi un modello di causalità simile a quanto avviene nel mondo animale: si tratta di raggiungimenti che si prospettano concretamente attraverso una stretta collaborazione tra le neuroscienze sensoriomotorie, la robotica e l’intelligenza artificiale.
E tuttavia, anche in questo caso, il cammino che si prospetta non appare affatto così agevole: l’ostacolo più arduo, infatti, sembra rappresentato dalla condizione per cui l’implementazione delle capacità sensoriomotorie della macchina richiederebbe (diversamente da quanto avviene per l’esercizio delle nostre attività mentali) una quantità di calcolo incredibilmente spropositata.
Secondo l’informatico e ricercatore canadese Hans Moravec, ciò è dovuto alla circostanza secondo cui le porzioni di cervello animale dedicate alle abilità sensoriali e motorie sono costruite su centinaia di milioni di anni di interazioni con il mondo, là dove le abilità mentali di alto livello costituiscono un’innovazione relativamente recente, molto più semplici e quindi replicabili in una macchina.[8]
5. L’intelligenza rivelata dalla prestazione (il c.d. test di Turing).
In assenza di un criterio oggettivo capace di fornire una definizione ‘sostanziale’ di intelligenza sufficientemente condivisa, a partire dagli anni ‘50 si è arrivati, in ambito informatico, a distinguere l’intelligenza del comportamento della macchina attraverso la relativa sottoposizione al c.d. test di Turing e alla verifica della relativa capacità di ‘comportarsi come un uomo’, ossia di ‘simulare’ in termini pratici i risultati dell'intelligenza umana.
In termini elementari, il test di Turing è organizzato attraverso la collocazione, in uno spazio isolato, di un uomo a cui è attribuito il compito di porre domande (ad es., attraverso un computer) e, in un diverso spazio separato, di un altro uomo e di una macchina dotata di intelligenza artificiale: ciascuno di questi due ultimi soggetti (il secondo uomo e la macchina) è tenuto a rispondere alle domande del primo uomo; in tal caso, se nel giro di breve tempo l’uomo che pone le domande non è in grado di comprendere quale dei due soggetti che risponde sia la macchina, e quale l’essere umano, si potrà affermare che la macchina ha superato il test di Turing.
Di recente, il laboratorio di ricerca della società OpenAI Inc. ha diffuso in rete (al libero e gratuito accesso della collettività) uno strumento di conversazione dotato di intelligenza artificiale (ChatGpt), attraverso il quale a ciascun utente è aperta la possibilità di procedere autonomamente al tentativo di un (simulacro di) test di Turing.[9]
Digitando nell’ottobre del 2023 [10] la domanda: “Il veicolo non entra nel parcheggio perché è troppo piccolo. Che cosa è troppo piccolo?”, la risposta del programma è stata: “Il veicolo è troppo piccolo. Potrebbe essere che il veicolo sia troppo corto o stretto per il parcheggio”.
Alla successiva digitazione (sempre nel medesimo periodo) della domanda: “Il piede non entra nello stivale perché è troppo piccolo. Che cosa è troppo piccolo?”, la risposta è stata: “Il piede è troppo piccolo: probabilmente il piede è di dimensioni tali da non riempire tutto lo stivale”.
Appare evidente come nel fornire risposta a quelle domande – comprensibili unicamente attraverso la ricerca del significato della proposizione premessa alla frase interrogativa (che allude al decisivo valore semantico del verbo ‘entrare’ rispetto al rapporto tra le dimensioni del veicolo o del piede e quelle del parcheggio o dello stivale) – la macchina non comprende il significato delle informazioni fornite, limitandosi a computarle secondo modalità puramente sintattiche (ossia attraverso l’applicazione delle regole di cui la stessa macchina dispone) formulando, di conseguenza, la propria risposta.
Nel caso di specie, non riuscendo a individuare il soggetto sottinteso della seconda proposizione (“perché è troppo piccolo”) attraverso un’attendibile criterio capace di discriminare le ricorrenze di veicolo, parcheggio, piede o stivale “troppo piccolo” (rispetto al verbo ‘entrare’), la macchina ha fatto ricorso all’unico criterio disponibile, ossia al criterio logico-grammaticale costituito dal soggetto (espresso) della prima proposizione (il veicolo, il piede), giungendo tuttavia, in tal modo, a un esito (da considerare) ragionevolmente paradossale (il veicolo non entra nel parcheggio perché lo stesso veicolo è troppo piccolo; il piede non entra nello stivale perché lo stesso piede è troppo piccolo).
Se solo la macchina avesse compreso il significato del verbo ‘entrare’, posto in rapporto al tema delle dimensioni del veicolo e del parcheggio o del piede e dello stivale, non avrebbe avuto difficoltà, rispetto alla dimensione della ‘piccolezza’, nel discriminare tra il veicolo e il parcheggio o tra il piede e lo stivale.
Infatti, ponendo (sempre nello stesso periodo) le domande: “La macchina non entra nel parcheggio perché è troppo piccolo. Che cosa è troppo piccolo?” e la domanda “Il piede non entra nella scarpa perché è troppo piccola. Che cosa è troppo piccolo?”, le risposte sono state: “Il parcheggio è troppo piccolo. Probabilmente perché lo spazio disponibile nel parcheggio è limitato” e “La scarpa è troppo piccola perché, evidentemente, di dimensioni inferiori rispetto a quelle del piede”.
In tali ultimi esempi, l’elaboratore non ha avuto dubbi nel rispondere che il parcheggio e la scarpa sono ‘troppo piccoli’: facilitata, nel primo caso, dalla distinzione di genere (femminile-maschile) tra il soggetto espresso della prima proposizione (la macchina-femminile) e l’aggettivo della seconda (piccolo-maschile) e, nel secondo caso, attraverso il dato della declinazione al femminile dell’aggettivo ‘piccola’ (femminile) rispetto al genere del soggetto della proposizione principale, il piede (maschile), la computazione non poteva che riannodare i legami tra gli aggettivi e i sostantivi valendosi del criterio del genere, con la conseguente affermazione della ‘piccolezza’ del parcheggio (e non già della macchina) e della scarpa (e non già del piede).
In ogni caso, la comprensione semantica del verbo ‘entrare’, posto in rapporto al tema delle dimensioni della macchina e del parcheggio o del piede e della scarpa, deve ritenersi rimasta, ai fini della risposte fornite dall’elaboratore, del tutto esclusa.
6. – Criteri sintattici e criteri semantici (la stanza cinese di J. Searle).
Le argomentazioni sin qui articolate – unitamente all’oggettivo rilievo della sperimentata incapacità delle intelligenze artificiali attualmente in circolazione di superare stabilmente il test di Turing – consentono di ribadire come l’attività della c.d. ‘intelligenza artificiale’ proceda secondo criteri che sono propriamente sintattici (ossia che prevedono la mera applicazione di regole predeterminate nella gestione dei simboli utilizzati) e non già semantici (ossia legati alla comprensione dei significati di detti simboli).
In breve, mentre le macchine appaiono pienamente capaci di processare molto velocemente impressionanti quantità di dati, le stesse non sono in grado di comprendere il significato dei dati che processano; e ciò, almeno fino a quando non sarà possibile realizzare il progetto di una futuribile ‘macchina semantica’.
Sul versante di tale interpretazione dell’intelligenza artificiale, uno dei più autorevoli e qualificati filosofi della mente e del linguaggio contemporanei, John Searle, ha proposto il noto esperimento mentale della c.d. stanza cinese.
Secondo tale esperimento, si immagina la collocazione di un uomo di lingua inglese (che conosce solo tale lingua) in una stanza diversa da quella occupata da un uomo cinese che comunica con lui, in lingua cinese, attraverso un computer.
Si assume, inoltre, che l’uomo di lingua inglese, non comprendendo una sola parola di cinese, utilizzi uno speciale (e prodigioso) libro di regole, capace di fornirgli, in lingua inglese, le istruzioni migliori sulle risposte (con caratteri cinesi) più adeguate alle domande ricevute, senza peraltro rivelare il significato dei caratteri cinesi della domanda e della risposta.
Si immagina, infine, che la conversazione tra i due proceda, via computer, per diversi minuti con piena soddisfazione dell’interlocutore di lingua cinese: in tal caso potrà dirsi che l’uomo di lingua inglese ha saputo sostenere, per un tempo significativo, una produttiva conversazione in lingua cinese, pur non capendo assolutamente nulla di ciò su cui si era conversato.
Secondo Searle, l’uomo di lingua inglese si è comportato, in tale vicenda, esattamente come fosse un computerchiamato a calcolare una formula sulla base di un programma e di simboli formali. Non era dunque necessario che comprendesse ciò che doveva fare, o il significato dei simboli utilizzati, poiché, ai fini della buona riuscita della conversazione, gli era unicamente richiesto di seguire le istruzioni precedentemente fornitegli.
7. – Il problema della fondazione simbolica (Wittgenstein e le ‘forme di vita’).
Lo scoglio su cui è destinata a infrangersi ogni pretesa dell’intelligenza artificiale di adeguare l’intelligenza umana è, dunque, uno scoglio d’indole semantica: l’intelligenza artificiale non ha (o, se si vuole, non ha ancora) alcuna capacità di attribuire significati ai dati che le vengono sottoposti per la computazione.
Va da sé che una simile incapacità non è nient’altro che la corrispettiva incapacità dell’uomo di attribuire alla macchina la disponibilità di una simile competenza.
Tale incapacità, d’altro canto, discende, a sua volta, dall’impossibilità, allo stato, di rispondere, in modo oggettivamente univoco, all’interrogativo che attiene al modo attraverso il quale i dati o, in generale, i simboli linguistici elaborati dall’uomo nell’ambito delle proprie relazioni (e poi trasmessi alla macchina), acquistano il proprio significato; un interrogativo noto, nel campo dell’intelligenza artificiale, come il problema della ‘fondazione simbolica’.
Anche con riguardo a tale problema occorre riconoscere, in capo alle scienze umane, un non (ancora) estinto debito conoscitivo: non esiste, infatti, (ancora) alcuna chiara o univoca comprensione (al di là delle pur rilevantissime e promettenti ipotesi di studio prospettate al dibattito scientifico) del modo in cui il problema della fondazione simbolica (ossia la risposta alla domanda sul ‘come’ i dati, o talune informazioni, acquistino significato) è risolto dagli stessi esseri umani.
Ciò che è unicamente noto è che la capacità di processare informazioni dotate di significato (e di comprenderne pienamente il senso) è precisamente quello in cui agenti intelligenti come gli esseri umani sono in grado di primeggiare in assoluto.
Tutti gli esseri umani completamente e normalmente sviluppati sembrano avvolti nel ‘bozzolo’ del proprio spazio semantico.
In senso stretto, gli uomini non apprendono mai consapevolmente ‘puri dati’ privi di significato. La percezione genuina di dati totalmente non interpretati, benché possibile in particolari circostanze, non costituisce la norma, e non può essere parte di un’esperienza cosciente a lungo sostenibile.
In breve, l’uomo non percepisce mai puri dati còlti in isolamento, ma sempre in quanto parte di un contesto semantico che, inevitabilmente, li dota di un significato determinato.
Quelli che vanno sotto il nome di ‘dati grezzi’ sono i dati che mancano di una specifica e rilevanteinterpretazione, ma non di qualsiasi interpretazione.
Sappiamo molto poco del modo in cui costruiamo con successo, attraverso il linguaggio, le storie dense di informazioni che ci tengono insieme e di cui siamo parte.
Su tale punto, Ludwig Wittgenstein ci ha insegnato, attraverso la revisione, nelle Ricerche filosofiche, delle tesi contenute nel Tractatus logico-philosophicus, che il significato delle espressioni del linguaggio che normalmente utilizziamo dipende dal contesto storico specifico in cui quelle espressioni vengono utilizzate.
Se non esiste ‘il’ significato del linguaggio è perché il significato del linguaggio è una concreta forma di vita.
Il senso delle nostre azioni e della nostra vita risiede in uno specifico ambito storico-relazionale, ossia nelle particolari forme di vita entro le quali siamo immersi: “Si può imparare a conoscere gli uomini?” si domanda Wittgenstein: “Sì, qualcuno può farlo. Non però attraverso un corso d’insegnamento, ma attraverso l’‘esperienza’”.[11]Il significato delle parole è dato dall’uso che se ne fa nell’esperienza e non da una pretesa corrispondenza tra segni e cose. L’esperienza si frammenta in regioni di esperienza (‘forme di vita’), all’interno delle quali hanno luogo i corrispondenti giochi linguistici: parlare un certo linguaggio fa parte di una certa forma di vita.[12]
Se le cose stanno così, allora, agenti umani e agenti artificiali appartengono a mondi differenti e ci si può attendere che questi ultimi, non solo abbiano capacità dissimili dalle nostre, ma che commettano anche errori di altro genere.
Il comportamento intelligente si basa sulla comprensione dei significati, più che sulla manipolazione sintattica (ossia secondo regole) di simboli, e gli agenti che operano in termini semantici o in termini sintattici, mentre possono entrambi raggiungere facilmente i medesimi obiettivi in modo efficiente e con successo, sono inclini a incorrere in differenti tipologie di possibili errori.
Nonostante i tentativi che ancora vengono svolti da molti ricercatori e studiosi, l’intelligenza artificiale non dovrebbe tentare di ‘simulare’ il comportamento umano intelligente: l’intelligenza artificiale dovrebbe piuttosto cercare di emulare i suoi risultati: è noto, al riguardo, il commento dell’informatico olandese Edsger W. Dijkstra, secondo cui “chiedersi se un computer possa pensare è tanto interessante quanto chiedersi se un sottomarino possa nuotare”.[13]
Seppure, infatti, non disponiamo di tecnologie esperte dal punto di vista semantico, la memoria sopravanza l’intelligenza sul piano della prestazione, sì che tecnologie puramente sintattiche possono eludere il problema del significato e della comprensione, offrendoci ciò di cui abbiamo bisogno con grande efficacia (una traduzione, un ristorante preferito, un libro interessante, un biglietto a un prezzo migliore, e così via).
8. I tratti di una nuova rivoluzione copernicana.
Si è in precedenza accennato al test di Turing e si è notata la stretta inerenza tra l’appropriatezza delle modalità di formulazione dei quesiti posti alle ‘macchine intelligenti’ e la qualità delle risposte acquisibili.
La necessità di conformare le domande in modo coerente alla struttura e alle modalità di funzionamento delle macchine, al fine di ottenere risposte adeguate (si è visto come la domanda sul parcheggio e sul veicolo debba essere posta in modo tale da non trarre in inganno l’elaboratore chiamato a conversare con un umano), esprime, in termini elementari, la stessa necessità che, a livello politico, sociale od economico, governa la costruzione degli ambienti più adatti al corretto ed efficiente funzionamento delle macchine dotate di intelligenza artificiale alle quali sempre più frequentemente chiediamo prestazioni.
Si pensi agli ambienti industriali creati attorno alle macchine che realizzano prodotti in serie, o si pensi, più semplicemente, alla conformazione degli elettrodomestici che circondano la vita quotidiana delle persone; macchine che richiedono, per il loro funzionamento, l’esecuzione di azioni che, benché elementari, appaiono ben diverse da quelle eventualmente richieste per la realizzazione diretta, da parte dell’uomo, delle medesime prestazioni.[14]
Si tratta di esempi che rendono evidenti le necessità imposte dalla convivenza o dalla collaborazione degli esseri umani con le macchine dotate di intelligenza artificiale: nel cooperare con simili macchine è indispensabile che l’uomo adegui, alle esigenze operative di quelle, le variazioni dei propri comportamenti, stilizzando le movenze della propria esperienza di relazione con le macchine secondo la logica di queste.
Appare del tutto intuitivo – presa coscienza della crescente pervasività dei sistemi di intelligenza artificiale che circondano i numerosi e diversi ambiti della nostra esperienza personale e collettiva – come l’impegno ripetuto e costante all’adeguamento dei comportamenti alle esigenze operative delle macchine comporti il rischio del c.d. ‘effetto gregge’, ossia dell’induzione, con il passare del tempo, di stili di vita e di abitudini di ragionamento confinati alla riflessione sulle sole operazioni di ausilio alle principali prestazioni della macchina e, dunque, il rischio di un crollo della consapevolezza individuale e collettiva circa il carattere autonomo o indotto (e quindi eterodiretto) dei nostri stessi pensieri.
Si tratta della squilibrata prospettiva secondo cui il General Intellect (di marxiana memoria) incorporato nelle macchine finisce per conferire forma alle relazioni e di distorcere i comportamenti umani, in un contesto in cui il funzionamento effettivo dei sistemi (commerciali, finanziari, economici, amministrativi, politici, ecc.) in tanto è possibile, in quanto tutto (pensieri e comportamenti umani inclusi) è conformato attorno alle macchine.
Avvolgendo il mondo, le nostre tecnologie conformano i nostri ambienti fisici e concettuali, inducendo ad adattare a loro i nostri comportamenti e i nostri pensieri, poiché questa diviene la via migliore e più facile (o talora l’unica) per far funzionare le cose.
A lungo andare, tuttavia, la mancata sorveglianza sui pensieri e sui comportamenti o, più in generale, la carente consapevolizzazione delle logiche di funzionamento delle macchine con cui dividiamo il nostro tempo (con la conseguente necessaria calibrazione delle aspettative di prestazione) non potrà che favorire, pericolosamente, la generalizzazione di gravi e rovinosi processi di alienazione intellettuale.
9. Sistemi esperti, machine learning, deep learning. Il rischio dell’opacità.
Alla luce delle analisi che precedono è possibile tornare, con un grado di minore ingenuità, alla considerazione del rapporto tra l’esperienza professionale del giudice e l’impiego dell’intelligenza artificiale in ambito giudiziario.
Si è detto come l’uso dei sistemi informatici nei contesti giudiziari sia attualmente limitato alla richiesta di prestazioni contenute alle funzioni di archiviazione documentale o alla ragionata selezione, attraverso la mediazione di operatori logici, dei dati elementari utili alla ricostruzione di indirizzi giurisprudenziali funzionali alla risoluzione di questioni giuridiche astrattamente considerate.
Si è altresì accennato alla perdurante esclusione, allo stato, (anche secondo quanto emerge dalle registrazioni della Commissione europea sull’efficienza della giustizia - CEPEJ) di un uso quotidiano e regolare (o, quantomeno, ufficiale), da parte dei giudici europei, di software di giustizia predittiva in senso stretto, ossia di software capaci (non solo, genericamente, di ampliare le informazioni riguardo al passato o al presente, bensì anche) di generare una risposta in forma di proposta di decisione in relazione a casi particolari sottoposti alla computazione della macchina.
Le ragioni più spesso associate alle valutazioni positive sulla giustizia predittiva (quando non all’incoraggiamento vòlto alla relativa introduzione nella pratica quotidiana) appaiono per lo più argomentate con riguardo agli innegabili vantaggi che l’uso di un simile strumento sarebbe in grado di assicurare sul versante della prevedibilità delle decisioni e della certezza del diritto, oltre che dell’incomparabile rapidità dei processi di computazione e di proposizione delle soluzioni che l’uso delle macchine intelligenti verosimilmente varrebbe a garantire.
Gli studiosi dei temi della giustizia predittiva sono soliti sottolineare, in termini elementari, la fondamentale distinzione tra forme di intelligenza artificiale strutturata sulla base di sistemi esperti e forme di intelligenza artificiale strutturata sulla base di sistemi realizzati per l’apprendimento automatico.[15]
Nei primi casi, la conoscenza del sistema è fornita direttamente dall’uomo: si tratta di sistemi caratterizzati dalla capacità di fornire una rapida ricognizione dello stato delle conoscenze già acquisite, eventualmente aggregate e riaggregate secondo criteri predeterminati, ma sostanzialmente incapaci di generare risposte nuove, dotate di informazioni di per sé non contenute in quelle immesse originariamente nel sistema attraverso i dataset di input.
La contenuta efficienza mostrata dall’impiego dei sistemi esperti nell’ambito dell’attività predittiva può trovare la sua spiegazione nell’enorme difficoltà di formalizzare a priori il ragionamento giuridico in schemi passibili di essere omogenizzati nelle regole di una sintassi, sì da riconoscere e trattare in modo soddisfacente il contenuto di casi nuovi mai precedentemente esaminati.
Nelle forme dell’intelligenza artificiale strutturata sulla base di sistemi realizzati per l’apprendimento automatico, viceversa, la conoscenza del sistema è il frutto di un’autonoma capacità della macchina di estrarre le informazioni rilevanti dai dati di input e così imparare a svolgere in modo adeguato le funzioni a esse affidate.
A lora volta, i sistemi per l’apprendimento automatico possono differenziarsi, in termini generalissimi, nelle forme dell’addestramento supervisionato, per rinforzo e dell’addestramento non supervisionato.
Nell’ipotesi dell’addestramento supervisionato, il sistema può essere, ad es., nutrito di dati tratti da casi che si ritengono risolti correttamente: adottando questa forma il sistema finirà col ‘ragionare’ e rispondere secondo la logica dei casi forniti, ed è intuibile il rischio di ottenere risultati che tendono a risolversi in una sostanziale ‘pietrificazione’ della giurisprudenza formata secondo logiche inevitabilmente conservative.
Nella forma dell’addestramento per rinforzo il sistema è viceversa addestrato per rispondere secondo una propriaelaborazione dei dati forniti e riceverà, dall’uomo che se ne prende cura, una risposta positiva o negativa al suo output; tali risposte saranno in seguito utilizzate dal sistema per regolare il proprio comportamento futuro in base ai feedback della propria stessa attività. In tal caso, il sistema risponderà in coerenza ai valori e alle logiche di coloro ai quali è stata attribuita la responsabilità di fornire i dati di feedback.
L’addestramento non supervisionato, infine, è il sistema nutrito attraverso il ricorso ad un’ampia base di dati (ricorre talora l’uso della controversa espressione ‘big data’) dalla cui elaborazione saranno ricavati (come primo output) schemi formalizzati di ragionamento che costituiranno, a loro volta, la base per la formulazione delle risposte ai casi nuovi.
La struttura di machine learning da ultimo sommariamente descritta è quella verosimilmente tenuta presente in quei tentativi di definizione dell’intelligenza artificiale, cui si è inizialmente accennato, da parte del Parlamento e del Consiglio Europeo, e del Consiglio di Stato italiano, in cui si evidenziano i caratteri più significativi delle forme attualmente più diffuse di intelligenza artificiale: i vari livelli di autonomia (varying levels of autonomy), la costante elaborazione di nuovi criteri di inferenza tra dati e l’automaticità dei processi di apprendimento.
Sono definizioni che se pure evidenziano, dell’intelligenza artificiale di più recente generazione, la facoltà di compensare l’incompletezza delle informazioni ricevute in partenza attraverso l’apprendimento, o la capacità di assumere decisioni in situazioni di irriducibile incertezza, allo stesso tempo sottolineano come l’assolvimento di tali funzioni avvenga in un ambito di perdurante imperscrutabilità dei meccanismi causali interni.
In breve, mentre è possibile individuare agevolmente gli input e gli output del sistema, rimane del tutto occulto ‘cosa’ accade all’interno della ‘scatola nera’, ossia i termini e le forme della catena causale che determina il passaggio da quegli input a quegli output.
Le forme di intelligenza artificiale alle quali si attribuiscono le maggiori potenzialità consistono in applicazioni dotate di capacità di previsione, come i robot di ultima generazione e come tutti i dispositivi capaci di machine learning, ossia di apprendimento continuo, grazie alle sofisticate tecniche di deep learning, alla raccolta massiva di dati (big data) e al collegamento al cloud, ossia a quell’insieme di server remoti che offrono servizi per l’archiviazione e la gestione delle informazioni: un potente hub computazionale in grado di conservare, elaborare ed erogare enormi masse di dati, da cui attingere continuamente per gli aggiornamenti (gli upgrading).
Da questa prospettiva, “i learner, come sono definiti gli algoritmi di apprendimento, sono degli ottimi studenti. Essi consistono generalmente in linee di codice che vanno dalle centinaia ai milioni, e sono ricavati induttivamente, grazie ai big data, da imponenti flussi di dati che generano poi istruzioni precise e univoche. A loro volta, tali dati sono il materiale cui attingono gli algoritmi di apprendimento”.[16]
E tuttavia, “la possibilità di cambiare la struttura del sistema apre, tuttavia, virtualmente la strada a un tipo di IA in grado di trascendere i fini che le assegnano gli umani e di agire, di conseguenza, secondo una logica propria, per noi diventata insondabile”.[17]
Questa dimensione di imperscrutabilità o di insondabilità dei meccanismi di elaborazione autonoma delle macchine, che vanno dal processo dei big data alla costruzione dell’output, costituisce, in particolare, una delle più rilevanti criticità del deep learning strutturato attraverso le c.d. reti neurali, ossia attraverso quell’insieme di ‘nodi’ variamente legati tra loro che veicolano informazioni numeriche, a loro volta rappresentative di una certa valutazione delle informazioni (dati) che vengono volta a volta sottoposte alla macchina.
Una delle caratteristiche più insidiose di questi sistemi è appunto rappresentata dall’opacità delle operazioni che vengono svolte nella computazione delle informazioni, poiché spesso taluni passaggi tra i nodi non risultano spiegabili o adeguatamente comprensibili per il ragionamento umano, quando non offuscati dalle privative industriali legate alla collocazione del prodotto informatico sul mercato.
In termini banali, all’interno di un sistema del genere la descrizione dei fatti di una controversia diventa un insieme di vettori numerici, che debbono essere collegati al possibile esito della stessa, secondo le correlazioni statistiche elaborate dall'algoritmo di apprendimento automatico sulla base delle combinazioni tra descrizioni di fatti ed esiti presenti negli insiemi (dataset) di addestramento.
Trattandosi di sistemi opachi rispetto all'utilizzatore, questi sistemi assicurano una risposta, ma non forniscono spiegazioni.
Nei casi in cui a un giudice fosse affidato il compito di interagire e cooperare, nell’esercizio delle proprie funzioni, con macchine strutturate secondo schemi così definiti, parrebbe assolutamente indeclinabile la necessità che a quel giudice sia stata preventivamente assicurata la possibilità di comprendere con chiarezza la logica di funzionamento e lo stile di computazione del sistema di cui si avvale.
In breve, occorrerà che il giudice disponga di una piena consapevolezza della natura dello specifico dataset di input con il quale sistema è stato alimentato; dei criteri che hanno governato la ricerca e l’analisi di tale dataset; dei caratteri dei processi di successiva selezione algoritmica attraverso cui i dati sono destinati a transitare; degli obiettivi diretti e delle finalità cui sono ordinati i diversi passaggi, o nodi, del sistema, etc.: si tratta di elementi conoscitivi indispensabili affinché il giudice possa esercitare la propria autonoma capacità di valutazione critica del significato dell’output di sistema.
A mero titolo di esempio, se un determinato sistema risulta progettato (in ragione delle modalità specifiche dell’analisi dei dati che lo alimentano e delle strutture algoritmiche che presiedono alla formulazione della decisione di output) allo scopo di prevedere l’esito possibile di certi casi sulla base del passato, un simile sistema potrà soddisfare l'obiettivo di anticipare la sentenza del ‘giudice medio’: un obiettivo che, mentre avvicina l’interesse dell’utilizzatore avvocato o cittadino (là dove interessati a prevedere il probabile comportamento futuro del giudice, sì da impostare di conseguenza il proprio comportamento processuale), assume un’importanza assai più limitata per il giudice, il cui compito è, viceversa, quello di adottare una decisione giuridicamente corretta.
Da qui l’esigenza di comprendere in profondità, nel quadro di un’analisi dei rapporti tra il giudice e l’intelligenza artificiale, il senso stesso di quella particolare attività in cui consiste “il giudicare del giudice”.
10. Del giudicare come rendere ragione (di sé) e come praxis.
Si è detto del carattere indispensabile, per il giudice, dell’acquisizione delle nozioni elementari per la comprensione delle modalità di funzionamento del modello di intelligenza artificiale con cui si trova ad interagire; e si è sottolineata l’indeclinabilità del compito di padroneggiare le forme di funzionamento dei sistemi di intelligenza artificiale e il significato dei relativi risultati, al fine di farne materia di una successiva elaborazione in sede decisionale.
Si tratta di questioni che assumono un rilievo centrale ai fini della meditazione sull’intelligenza artificiale e sui suoi riflessi sul ‘giudicare’.
Sarà bene evidenziare come, a differenza di gran parte delle attività professionali o, in genere, delle attività lavorative o delle funzioni sociali in cui assume valore preponderante il risultato dell’attività (il prodotto) rispetto al procedimento produttivo, con riguardo alla funzione giudiziaria l’esito del lavoro, in tanto ha valore (e conta), in quanto il procedimento per realizzarlo abbia rispettato una o più condizioni o standard di natura qualitativa; nel senso che, più che il risultato, occorre aver riguardo, preliminarmente, all’itinerario seguito allo scopo di raggiungerlo o di definirlo.
In breve, benché sia del tutto ovvio che l’efficacia concreta del dictum del giudice si ricolleghi con immediatezza al contenuto del ‘dispositivo’ di un provvedimento (la condanna a una pena o al pagamento di una somma di denaro; l’annullamento di un contratto; l’assoluzione da un’imputazione di reato), tale dispositivo, in tanto è destinato a sussistere (e a produrre effetti), in quanto costituisca l’esito di un percorso motivazionale logicamente congruo e comprensibile che lo sostiene e lo giustifica.
Non aiuta, in questo senso, una certa (diffusa) inclinazione ‘produttivistica’ nella considerazione dei temi del processo e del giudizio. L’accostamento del processo all’idea della ‘produzione’ induce a guardarvi come a un’attività ‘servente’ o ‘strumentale’ alla realizzazione di fini ad essa estranei; un impegno vòlto, attraverso la tecnica giudiziaria, al compimento del prodotto, e dunque del giudizio (la decisione, la sentenza), di regola chiamato a tradurre, in termini matematici, uno dei principali indici di misurazione della produttività del giudice.
Un’antica tradizione di origine aristotelica[18] – la cui più recente riscoperta ha costituito un tratto essenziale di una parte significativa del pensiero etico-politico del Secondo Novecento[19] – invita a distinguere, della vita pratica dell’uomo, l’attività produttiva (la poiesis, governata dalla techné) dalla prassi (la praxis), avente se stessa quale propria finalità: l’attività per cui l’uomo pone la propria stessa azione come oggetto di un percorso di graduale educazione e perfezionamento, attraverso il governo (non già della ‘tecnica’, bensì) della ‘saggezza’ (phronesis).
Produzione e prassi (poiesis e praxis) valgono a distinguersi dunque in ciò, che il sapere teorico generale di cui l’uomo dispone è destinato, nella produzione che si avvale della tecnica (techné), a trasferirsi sulle cose allo scopo di trasformarle in conformità ad esso; per cui il prodotto, come fine di per sé estraneo all’attività produttiva, diviene lo specchio (o, meglio uno specchio) concretizzato del sapere teorico.
Nel caso della prassi, governata dai canoni della saggezza (phronesis), il sapere teorico generale è viceversa chiamato a combinarsi o a ‘contaminarsi’ con la realtà, con le circostanze e le vicende del mondo, affinché sappia modificarle, ma insieme anche lasciarsene modificare, sì da dar luogo a una nuova forma di sapere capace, con saggezza, di coniugare, e tenere insieme, il generale e il particolare.
Seguendo il filo di queste linee argomentative, alla descrizione dell’attività processuale sembra dunque convenire la qualificazione nei termini di una prassi (di una praxis), ossia di una specifica attività pratica, governata dalla saggezza, che ha fine in sé stessa.
Ogni atto del processo è il giudizio stesso (in taluni contesti, ‘processo’ e ‘giudizio’ sono usati come sinonimi): in realtà, il processo è il giudizio che si va facendo in un tempo e in un luogo determinati, in una dimensione spazio-temporale specificamente qualificata.
Da questo punto di vista assume un preciso significato la regola costituzionale per cui “tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati” (art. 111 Cost.): si tratta di un principio in cui si riflette la necessità che, in un sistema democratico e liberale, ogni decisione costituisca l’esito (ossia solo il punto terminale) di un percorso logico attraverso il quale il giudice rende concretamente ragione della scelta delle premesse su cui ha ritenuto di fondare i propri ragionamenti e dei modi attraverso i quali da tali premesse ha provveduto ad argomentare criticamente le conseguenze che ha inteso trarne.
In breve, l’atto del giudicare (quantomeno sul piano giudiziario) potrà ragionevolmente sintetizzarsi in questo elementare assolvimento del dovere del giudicante di dare sinteticamente ragione di sé, ossia delle scelte che ha ritenuto di privilegiare intorno ai fatti naturali e a quelli normativi dei quali ha inteso informare i percorsi logico-argomentativi posti a fondamento del giudizio.
Là dove il giudice intenda avvalersi dell’ausilio dell’intelligenza artificiale che si esprime nelle forme della giustizia predittiva sarà pertanto indispensabile (proprio allo scopo di assolvere a quel dovere di dare compiuta ragione di sé e delle proprie scelte) entrare, con il proprio interlocutore automatizzato, in una relazione di comprensione critica fondata sull’acquisizione di una piena coscienza della specifica articolazione dei percorsi computazionali che presiedono all’output del sistema; delle articolate potenzialità di questo, ma insieme anche dei limiti o, in generale, della qualità specifica dell’interlocuzione che intrattiene con esso.[20]
11. La coscienza e le radici del male.
Il lungo discorso sin qui condotto si è posto l’obiettivo di individuare, sia pure in termini elementari e non esaurienti, il profilo dei rischi che si annidano nell’incontro tra l’esperienza dell’intelligenza artificiale e l’attività del giudice.
Si tratta degli stessi rischi che da sempre insidiano il corso dell’esperienza umana e che, con riguardo al tema che viene coinvolgendo la considerazione dell’intelligenza artificiale, si traducono nei pericoli del ‘funzionalismo tecnocratico’ o della ‘burocratizzazione’.
Nell’accennare a tale fenomeno, sarà ancora utile riferirsi alle pagine preziose dedicate da Hannah Arendt – oltre ‘Le origini del totalitarismo’[21] e la ‘Banalità del male’[22] – alla figura tradizionale, se non proprio germinale del pensiero occidentale, di Socrate.[23]
Nell’affrontare la densità di quelle brevi pagine, Adriana Cavarero[24] sottolinea come la figura di Socrate abbia finito con l’attraversare l’intera opera di Hannah Arendt, apparendole come il modello di un pensare critico alla base della capacità umana di giudicare, l’invenzione della coscienza come tribunale interno dell’io che, facendosi ‘due-in-uno’, si interroga e dà conto di sé a sé stesso.
Quando Arendt ripensa il nesso tra condizione umana e politica, ne ricostruisce le vicende concettuali fin dalle origini greche, a partire dal dato reale della de-umanizzazione prodotta dalla macchina infernale dei campi di sterminio.
Nella terrificante originalità del sistema totalitario, di cui Auschwitz è l’atroce emblema, è in gioco la cancellazione dell’unicità della persona e perciò la distruzione della spontaneità come componente costitutiva del comportamento umano, al fine di produrre un esemplare completamente indistinguibile e indefinibile della speciehomo sapiens.
Questo post-umano fabbricato dal campo di sterminio non solo coincide con l’evento del collasso delle definizioni di ‘uomo’ e di ‘umanità’ elaborate dalla tradizione metafisica, ma si accompagna al sospetto che proprio questa tradizione, nata con Platone, sia in qualche modo implicata nel verificarsi di tale collasso.
Arendt pone in evidenza come il male radicale abbia a che fare con l’eliminazione dell’imprevedibilità della natura umana.
Esiste una complicità tra l’orrore di Auschwitz, in quanto laboratorio per la fabbricazione dell’animale degenerato Homo, e la predilezione della tradizione metafisica per la categoria astratta di ‘Uomo’.
Nella macchina infernale del lager è la condizione umana stessa, ossia il dato reale della pluralità, a subire la tremenda mutazione mirata ad eliminare negli internati ogni residuo di spontaneità e di umanità, cancellando la molteplicità e trasformando gli esemplari identici della specie artificiale Uomo.
Il crimine ontologico della produzione artificiale di una specie post-umana trova concretizzazione nel processo ad Eichmann, la banale figura del tedesco medio, grigio e solerte burocrate, che incarna in modo emblematico la tipologia umana caratterizzata da un’adesione supina agli standard morali correnti, pronto a passare dai precetti del Vangelo agli ordini di Hitler.
Eichmann non è un mostro, ma lo specchio di un torpore etico diffuso. La banalità del male chiama in causa la capacità di giudicare i principi delle proprie azioni, invece che uniformarle al comando dei potenti.
La lezione di Socrate, così come Arendt la interpreta, è l’antidoto al rischio dell’individuo adattabile e guidato da motivi opportunistici che una perversa eventualità epocale può trasformare in un uomo-massa e renderlo strumento di qualsivoglia follia ed orrore.
La pluralità umana che comporta l’unicità di ogni essere umano (e perciò una visione ‘poliprospettica’ del mondo) fa sì che a ciascuno il mondo appaia da un diverso punto di vista. Socrate è innanzitutto il filosofo che ha il merito di confrontarsi con la pluralità delle opinioni, costringendo ciascuno dei suoi interlocutori a darne conto e a verificarlo insieme, di modo che esse non rischino di cristallizzarsi in verità arbitrarie.
Sfera solitaria, la coscienza è il luogo appartato dove ognuno rende conto di sé a sé stesso, si giudica. Purché, appunto, sia capace di pensare di convivere con la propria coscienza: facoltà che ad Eichmann e alla tipologia di volenterosi carnefici e complice di Hitler evidentemente mancano.
Socrate ha il merito di scoprire che l’attività del pensare, in quanto sede della coscienza, consiste in un dialogo silenzioso dell’anima con sé stessa, attività che perciò è testimone della pluralità umana, in quanto, interrogando sé stessa e rispondendosi, l’io che pensa comprende di essere ‘due-in-uno’, ossia scopre la sua dimensione duale.
“Ripensare l’umanità, o forse pensarla per la prima volta nei suoi tratti concreti, significa […] registrare la pluralità che rende ciascun essere umano un essere unico e diverso da ogni altro […]. Significa postulare un nesso […] fra la pluralità stessa e l’attività solitaria del pensare”.[25]
L’articolazione della complessità in cui consiste il dialogo interiore che ognuno di noi intrattiene con la pluralità delle voci che accompagnano la nostra esperienza esistenziale rappresenta l’unico antidoto contro l’annientamento della propria coscienza.
Il futuro dei rapporti tra l’uomo (e dunque il giudice) e l’intelligenza artificiale non è affidato allo sviluppo di quest’ultima (ai cui percorsi, occorre ribadire, non è sensatamente consentito associare immagini fantasiose, o inquietanti vaneggiamenti), quanto alla responsabilità di ciascuno, a cui, con sempre maggiore urgenza, è richiesto di coltivare in modo continuativo la qualità dei propri saperi e di non smarrire mai la meraviglia, anche ingenua, e la curiosità per tutto ciò che è ‘altro’.
Si tratta di prerogative che, da sempre, rappresentano la migliore premessa di quell’imprevedibile – e, dunque, consapevolmente tragica – capacità umana di comprendere il senso vivo delle cose.
* Il testo riprende, con l’inserimento di minimi riferimenti bibliografici, i contenuti della relazione svolta nel corso del convegno Professione Zeta. L’evoluzione digitale delle professioni nel risarcimento del danno alla persona, dal titolo Giuristi o tecnocrati? Gli effetti della digitalizzazione del processo tra intelligenza artificiale e conformismo intellettuale, organizzato dall’associazione culturale Melchiorre Gioia, in Roma, nelle giornate del 20 e del 21 ottobre 2023.
[1] A titolo di esempio, può ricordarsi che, in Estonia, è previsto, per le small claims, un sistema gestito in autonomia con la possibilità di ricorrere successivamente ad un giudice ‘umano’; in Canada, il governo federale ha emanato direttive per la gestione di pratiche amministrative con strumenti di intelligenza artificiale; negli U.S.A., a parte il noto caso del programma COMPAS sulla previsione della recidiva, di cui al caso Loomis avanti la Corte Suprema del Wisconsin (il cui esame è stato respinto dalla Corte Suprema U.S.A.: www.scotusblog.com/case-files/cases/loomis-v-wisconsin/ V. anche, tra i tanti, il commento di E. Yong, A Popular Algorithm Is No Better at Predicting Crimes Than Random People, The Atlantic 7.01.2018. In generale su IA e diritto v. S. Greenstein, Preserving the rule of law in the era of artificial intelligence (AI), in Artificial Intelligence and Law (2022) 30:291-323, https://link. springer. com/article/10. 1007/s10506-021-09294-4#citeas), di recente è stato il caso di DONOTPAY (I. Carnat, DoNotPLay with justice: high expectation vs harsh reality of robot lawyers, nel blog del Laboratorio Lider-Lab della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, www. lider-lab.it/2023/02/14/donotplay-with-justicehigh-expectation-vs-harsh-reality-of-robot-lawyers/.) a dominare le cronache; recentemente è stata oggetto di numerosi commenti la sentenza del Juzgado Primero Laboral di Cartagena De Indias (Colombia) del 30.01.2023, dove il giudice utilizza ChatGPT per la parte argomentativa della decisione, facendo peraltro proprie le ‘risposte’ della chatbox ai quesiti posti, allo scopo (esplicitamente unico) di ottimizzare i tempi (R. Perona, ChatGPT e decisione giudiziale, in Diritti Comparati 21.02.2023, https://www.diritticomparati.it/chatgpt-e-decisione-giudizialeper-un-primo-commento-alla-recente-sentenza-del-juzgado-primero-laboral-di-cartagena-de-indias-colombia/); un’altra sentenza, peruviana, in materia di famiglia (determinazione misura alimenti) è stata confermata dalla Corte Superior de Justicia de Lima Sur (Note di M. Foti, Innovazione in materia di diritto di famiglia e uso di ChatGPT: il caso peruviano, al link https://www.altalex.com/documents/news/2023/05/02/innovazione-materia-diritto-famiglia-uso-chatgpt-caso-peruviano, e P. Martini, L’intelligenza artificiale entra nel processo, https://www.altalex.com/documents/news/2023/04/26/intelligenza-artificiale-entra-processo. Anche in Italia si discute, da tempo, sull’uso di strumenti informatici nelle controversie familiari: v. da ultimo E. Sertori, Prospettive di applicazione degli strumenti informatici per il calcolo degli assegni nelle controversie familiari, in www.judicium.it (2023). Sul complesso di tali richiami v. D. Cerri, I giuristi pratici e l’intelligenza artificiale, in Nuova Giur. Ligure, 2023, n. 2, pp. 27 ss.
[2] Per una storia del Centro Elettronico di Documentazione della Corte di cassazione v. F. Fiandanese, Il Centro Elettronico di Documentazione della Corte Suprema di Cassazione, in G. Peruginelli e M. Ragona (a cura di), L’informatica giuridica in Italia. Cinquant'anni di studi, ricerche ed esperienze Collana ITTIG-CNR, Serie ‘Studi e documenti’, n. 12, Napoli, ESI, 2014, pp. 151-168.
[3] A queste forme più sofisticate di intelligenza artificiale applicata deve ritenersi dunque rivolto il consistente interesse normativo delle istituzioni europee (e, più in generale, internazionali): ad es., la Commissione UE nel 2020 ha pubblicato il Libro Bianco sull’intelligenza artificiale (COM (2020)65) (https://op.europa.eu/it/publication-detail/-/publication/ac957f13-53c6-11ea-aece-01aa75ed71a1), evidenziando che “Alcuni algoritmi dell’IA, se usati per prevedere il rischio di recidiva di atti delittuosi, possono riflettere distorsioni legate alla razza e al genere, prevedendo probabilità di rischio di recidiva diverse per le donne rispetto agli uomini, oppure per i cittadini di un determinato paese rispetto agli stranieri”; nel 2021ha quindi fatto propria la Proposta di Regolamento che stabilisce regole armonizzate sull’intelligenza artificiale (COM (2021)206) (https://eur-lex.europa.eu/resource.html?uri=cellar:e0649735-a372-11eb-9585-01aa75ed71a1.0006.02/DOC_1&format=PDF), nella cui Relazione (§3.5) si legge che “L’utilizzo dell’IA con le sue caratteristiche specifiche (ad esempio opacità, complessità, dipendenza dai dati, comportamento autonomo) può incidere negativamente su una serie di diritti fondamentali sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”. Il 3 maggio 2023, il Parlamento Europeo ha approvato la Risoluzione sull’intelligenza artificiale in un’era digitale (https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-9-2022-0140_IT.html) e, successivamente, 14 giugno2023 ha approvato gli Emendamenti alla Proposta di Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio che stabilisce regole armonizzate sull'intelligenza artificiale (legge sull'intelligenza artificiale) e modifica alcuni atti legislativi dell'Unione (COM(2021)0206 – C9-0146/2021 – 2021/0106(COD)) (https://www.europarl.europa.eu/doceo/document/TA-9-2023-0236_IT.html). Il Consiglio OCSE ha adottato nel 2019 una Raccomandazione che rinnova la necessità di approntare quello che è definito come un eco-sistema digitale tale da promuovere un “human-centric approach to trustworthy AI”, e dove tutti i protagonisti dovrebbero rispettare le regole dello stato di diritto, i diritti umani e i valori democratici, per tutto il ciclo di vita dei sistemi di IA (1. 2 OECD, Recommendation of the Council on Artificial Intelligence, OECD/LEGAL/0449, a https://legalinstruments. oecd. org/en/instruments/OECD-LEGAL-0449.). Si vedano anche gli Orientamenti etici per un’IA affidabile, redatti dal Gruppo indipendente di esperti ad alto livello sull’ intelligenza artificiale, istituito dalla commissione UE (https://op.europa.eu/it/publication-detail/-/publication/d3988569-0434-11ea-8c1f-01aa75ed71a1). Si possono ricordare anche le Linee Guida universali per l’IA, redatte nel 2018 da EPIC-Electronic Privacy Information Center (https://thepublicvoice.org/AI-universal-guidelines/), oltre che la già ricordata Carta Etica europea sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari e negli ambiti connessi adottata dalla CEPEJ (https://rm.coe.int/carta-etica-europea-sull-utilizzo-dell-intelligenzaartificiale-nei-si/1680993348).
Per gli U.S.A. si veda il Joint Statement del 25.04.2023 delle principali agenzie USA sull’enforcement degli strumenti contro la discriminazione e i pregiudizi negli ‘automated systems’ (ambito più ampio dei sistemi di IA, includendo tutti i processi che impiegano algoritmi) (https://www. ftc. gov/legal-library/browse/cases-proceedings/publicstatements/joint-statement-enforcement-efforts-against-discriminationbias-automated-systems.).
[4] Cons. Stato, sez. 3, sentenza 25 novembre 2021, n. 7891: “Non v’è dubbio che la nozione comune e generale di algoritmo riporti alla mente ‘semplicemente una sequenza finita di istruzioni, ben definite e non ambigue, così da poter essere eseguite meccanicamente e tali da produrre un determinato risultato’ (questa la definizione fornite in prime cure). Nondimeno si osserva che la nozione, quando è applicata a sistemi tecnologici, è ineludibilmente collegata al concetto di automazione ossia a sistemi di azione e controllo idonei a ridurre l’intervento umano. Il grado e la frequenza dell’intervento umano dipendono dalla complessità e dall’accuratezza dell’algoritmo che la macchina è chiamata a processare. Cosa diversa è l’intelligenza artificiale. In questo caso l’algoritmo contempla meccanismi di machine learning e crea un sistema che non si limita solo ad applicare le regole software e i parametri preimpostati (come fa invece l’algoritmo ‘tradizionale’) ma, al contrario, elabora costantemente nuovi criteri di inferenza tra dati e assume decisioni efficienti sulla base di tali elaborazioni, secondo un processo di apprendimento automatico”.
[5] Luciano Floridi, di cui v., almeno, Id., La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2017, passim.
[6] “Quando penso ad un chilogono o poligono di mille lati eguali, non sempre considero la natura dei lati, dell'eguaglianza e del mille (cioè del cubo di dieci), ma mi servo di questi vocaboli (il cui senso, naturalmente, sebbene in forma oscura ed imperfetta è presente nella mente), al posto delle idee che ne ho, perché ricordo il significato di quei vocaboli dei quali non ritengo sia necessaria, in quel momento, fornire la spiegazione. Questo tipo di conoscenza soglio chiamarla cieca o simbolica e di essa ci avvaliamo nell’algebra o nell’aritmetica e quasi dovunque. Certamente, quando la nozione è molto composta, non riusciamo a pensare tutte assieme le note che entrano in essa: quando questo è possibile, o nei limiti in cui è possibile, allora chiamo quella conoscenza intuitiva. Delle nozioni primitive o distinte non c’è altra conoscenza che quella intuitiva; delle nozioni composte la conoscenza, per lo più, è simbolica” (G. W. Leibniz, Meditazioni sulla conoscenza, la verità e le idee (1684), in Scritti filosofici, vol. II, Torino, Utet, 1968, p. 681).
[7] D. Goleman, Intelligenza emotiva, Milano, Rizzoli, 1996.
[8] Su tali questioni v. l’articolo, Il sogno di ChatGPT e la Neuro AI, pubblicato dal neurobiologo Roberto Montanari sulla rivista Eastwest, n 104 del luglio-settembre 2023.
[9] Si tratterebbe di una versione del programma che si assume meno evoluta di quella viceversa offerta a pagamento.
[10] La specificazione della data di proposizione della domanda assume rilevanza se si tiene conto del processo di continua elaborazione, da parte del programma, delle risposte fornite dagli utenti; attraverso tale elaborazione, il programma è, a sua volta, capace di correggere o di superare eventuali output rivelatisi imprecisi o errati.
[11] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 2014, p. 266.
[12] L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit. passim.
[13] E.W. Dijkstra, The Threats to Computing Science. Documento presentato all’ACM 1984 South Central Regional Conference, 16-18 novembre, Austin, Texas, ripreso da L. Floridi, La quarta rivoluzione, cit. p. 189.
[14] La semplice collocazione di piatti o posate all’interno di una lavastoviglie costituisce il compimento di un’azione che, dovendo conformarsi al modo di funzionamento della macchina, appare ben diversa dal lavaggio diretto di tali stoviglie da parte dell’uomo. Allo stesso modo, lo stile di avvio di una conversazione con uno smartphone o con un dispositivo di ausilio domestico, al fine di ottenere informazioni (“Hey Siri” o “Alexa”), è stilizzato in modo rigorosamente meccanico rispetto alla libertà degli infiniti modi di avvio di una conversazione tra persone.
[15] Su tali specifiche questioni v. A. Santosuosso e G. Sartor, La giustizia predittiva: una visione realistica, in Giur.It., 2022, pp. 1760 ss. (specialmente pp. 1765 ss.).
[16] R. Bodei, Dominio e sottomissione. Schiavi, animali, macchine, intelligenza artificiale, Bologna, Il Mulino, 2019, p. 391.
[17] R. Bodei Dominio e sottomissione, cit., p. 392.
[18] Si allude qui ai contenuti del libro VI dell’Etica Nicomachea.
[19] A mero titolo di esempio, possono qui richiamarsi H. Arendt, Vita Activa, Milano, Bompiani, 1964 (The Human Condition, 1958); J. Habermas, Teoria e prassi nella società tecnologica, Bari, Laterza, 1969 e Id., Prassi politica e teoria critica della società, Bologna, Il Mulino, 1973. Più di recente, è possibile esaminare, in rapporto ai temi dell’etica aristotelica, gli approcci dell’opera etico-politica di Martha Nussbaum (v., tra tutti, Id. La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, (1986), Bologna, Il Mulino,1996).
[20] Coerentemente a tali presupposti, l’art. 13, co. 1, della Proposta di Regolamento della Commissione Europea che stabilisce regole armonizzate sull’intelligenza artificiale (COM (2021)206) recita: “I sistemi di IA ad alto rischio sono progettati e sviluppati in modo tale da garantire che il loro funzionamento sia sufficientemente trasparente da consentire agli utenti di interpretare l’output del sistema e utilizzarlo adeguatamente”. Nel Considerando 40 di tale Proposta di Regolamento, la Commissione rileva che “Alcuni sistemi di IA destinati all'amministrazione della giustizia e ai processi democratici dovrebbero essere classificati come sistemi ad alto rischio, in considerazione del loro impatto potenzialmente significativo sulla democrazia, sullo Stato di diritto, sulle libertà individuali e sul diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale. È in particolare opportuno, al fine di far fronte ai rischi di potenziali distorsioni, errori e opacità, classificare come ad alto rischio i sistemi di IA destinati ad assistere le autorità giudiziarie nelle attività di ricerca e interpretazione dei fatti e del diritto e nell'applicazione della legge a una serie concreta di fatti. Non è tuttavia opportuno estendere tale classificazione ai sistemi di IA destinati ad attività amministrative puramente accessorie, che non incidono sull'effettiva amministrazione della giustizia nei singoli casi, quali l'anonimizzazione o la pseudonimizzazione di decisioni, documenti o dati giudiziari, la comunicazione tra il personale, i compiti amministrativi o l'assegnazione delle risorse”.
Con l’emendamento 71 (del 14 giugno 2023) alla ridetta Proposta di Regolamento, il Parlamento, intervenendo sul richiamato Considerando 40 ha licenziato il seguente testo: “Alcuni sistemi di IA destinati all'amministrazione della giustizia e ai processi democratici dovrebbero essere classificati come sistemi ad alto rischio, in considerazione del loro impatto potenzialmente significativo sulla democrazia, sullo Stato di diritto, sulle libertà individuali e sul diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale. È in particolare opportuno, al fine di far fronte ai rischi di potenziali distorsioni, errori e opacità, classificare come ad alto rischio i sistemi di IA destinati a essere utilizzati da un'autorità giudiziaria o da un organo amministrativo, o per loro conto, per assistere le autorità giudiziarie o gli organi amministrativi nelle attività di ricerca e interpretazione dei fatti e del diritto e nell'applicazione della legge a una serie concreta di fatti o utilizzati in modo analogo nella risoluzione alternativa delle controversie. L'utilizzo di strumenti di intelligenza artificiale può fornire sostegno, ma non dovrebbe sostituire il potere decisionale dei giudici o l'indipendenza del potere giudiziario, in quanto il processo decisionale finale deve rimanere un'attività e una decisione a guida umana. Non è tuttavia opportuno estendere tale classificazione ai sistemi di IA destinati ad attività amministrative puramente accessorie, che non incidono sull'effettiva amministrazione della giustizia nei singoli casi, quali l'anonimizzazione o la pseudonimizzazione di decisioni, documenti o dati giudiziari, la comunicazione tra il personale, i compiti amministrativi o l'assegnazione delle risorse”.
Negli Orientamenti etici per un’IA affidabile, redatti dal Gruppo indipendente di esperti ad alto livello sull’intelligenza artificiale, istituito dalla commissione UE, si trova affermato il c.d. Principio dell’esplicabilità, al cui riguardo si evidenzia [2.2 (53)] che “L’esplicabilità è fondamentale per creare e mantenere la fiducia degli utenti nei sistemi di IA. Tale principio implica che i processi devono essere trasparenti, le capacità e lo scopo dei sistemi di IA devono essere comunicati apertamente e le decisioni, per quanto possibile, devono poter essere spiegate a coloro che ne sono direttamente o indirettamente interessati. Senza tali informazioni, una decisione non può essere debitamente impugnata. Non sempre è possibile spiegare, tuttavia, perché un modello ha generato un particolare risultato o decisione (e quale combinazione di fattori di input vi ha contribuito). È il cosiddetto caso della ‘scatola nera’ i cui algoritmi richiedono un’attenzione particolare. In tali circostanze, possono essere necessarie altre misure per garantire l'esplicabilità (ad esempio, la tracciabilità, la verificabilità e la comunicazione trasparente sulle capacità del sistema), posto che il sistema nel suo complesso rispetti i diritti fondamentali. Il grado di esplicabilità necessario dipende in larga misura dal contesto e dalla gravità delle conseguenze nel caso in cui il risultato sia errato o comunque impreciso”.
[21] H. Arendt, Le origini del totalitarismo, (1951), Torino, Einaudi, 2004.
[22] H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, (1963), Milano, Feltrinelli, 1964.
[23] H. Arendt, Socrate, Milano, Raffaello Cortina, 2015, che riprende, in traduzione italiana, la terza e ultima parte di un corso americano tenuto da Arendt nel 1954.
[24] A Cavarero, Il Socrate di Hannah Arendt, in H. Arendt, Socrate, cit., pp. 73 ss.
[25] A. Cavarero, Il Socrate di Hannah Arendt, cit., pp. 97-98.
(Immagine: dettaglio da Antonio Zanchi, Socrate e un discepolo che si guarda allo specchio, 1670, Palazzo Tozzoni, Imola (BO)
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