ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Introduzione - 2. Il diritto di sciopero nell’art. 40 Cost. - 3. La delibera della Commissione di Garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali - 4. L’ordinanza di precettazione ex art. 8 L. 146/1990.
1. Introduzione
Le recenti astensioni dei lavoratori del novembre e dicembre 2023 in ampi settori dei servizi pubblici essenziali hanno posto nuovamente al centro del dibattito il diritto di sciopero in tali servizi e, in particolare, la sua regolamentazione anche attraverso provvedimenti amministrativi emanati dalle competenti Autorità: Commissione di Garanzia per l’applicazione della L. 146/1990 e Pubbliche Amministrazione di riferimento per i singoli servizi.
L’attenzione si è, in particolare, concentrata sul servizio di trasporto pubblico, nazionale e locale, anche in ragione dei diversi interventi del Ministero competente con ordinanze di precettazione e regolamentazione in senso restrittivo rispetto alle proclamazioni comunicate dalle OO.SS., precedute da delibere regolatrici della Commissione di Garanzia, parimenti limitative.
Il numero[1] e il tenore dei recenti provvedimenti è, dunque, occasione per tornare a riflettere sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali e sul necessario contemperamento tra lo stesso e i diritti della persona su cui inevitabilmente incidono.
É noto, infatti, che il Legislatore ha disciplinato l’istituto con la L. 146/1990, integrata dalla L. 83/2000, che rappresenta - nel contesto europeo - una delle norme più restrittive. La legge del 1990, tuttavia, ha come incipit un articolo 1 che, dopo aver individuato i servizi pubblici essenziali in “quelli volti a garantire i diritti della persona costituzionalmente tutelati” (alla vita alla salute alla libertà e alla sicurezza, alla liberà di circolazione, all’assistenza e previdenza sociale, all’istruzione e alla libertà di comunicazione), esplicita al comma 2 la ratio dell’intera disciplina, individuandola nella necessità di “contemperare l’esercizio del diritto di sciopero con il godimento dei diritti della persona …di cui al comma 1”.
2. Il diritto di sciopero nell’art. 40 Cost.
Nella materia che ci occupa, infatti, si fronteggiano posizioni giuridiche di pari rilievo costituzionale: da un lato il diritto di sciopero di cui all’art. 40 Cost., e dall’altro i diversi diritti inviolabili della persona, specificamente elencati nell’art. 1 c. 1 citato.
Su questi ultimi basti richiamare la parte prima della Costituzione e l’incontestabile rilievo agli stessi riconosciuto.
Quanto al primo, merita qui spendere qualche parola in più. L’art. 40 Cost. afferma, infatti, che “il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”, e, superando la precedente qualificazione corporativa dell’astensione dal lavoro come reato[2], fa assurgere lo sciopero - senza riserve - a “diritto” di rango costituzionale e introduce una riserva di legge per la disciplina dei limiti, che attengono non già al diritto in sé, ma esclusivamente al suo esercizio. L’art. 40, dunque, è norma immediatamente precettiva e vincolante: con esso il Legislatore costituente ha inteso dare dignità e rilevo al conflitto sociale, prendendo chiara posizione in merito ad uno degli strumenti cardine di tale conflitto: lo sciopero, appunto. Proprio al fine di sottolinearne il valore primario, i commentatori non hanno mancato di evidenziare la differente attenzione riservata, per contro, alla serrata, che – viceversa – non ha avuto ingresso nella Carta.
Ebbene, nella consapevolezza che il conflitto è l’essenza delle relazioni industriali nonchè imprescindibile meccanismo di tutela del lavoro, l’art. 40 Cost. mira a rafforzare la posizione delle parti deboli di tali relazioni e, in combinato disposto con il precedente art. 39, può quindi essere considerato necessaria espressione di eguaglianza sostanziale. Dai verbali della Prima Sottocommissione dell’Assemblea Costituente, si ricava una illuminante definizione: “il diritto di organizzazione sindacale, senza un connesso diritto di sciopero, non avrebbe importanza. Il lavoratore si organizza a scopo di difendersi. La difesa non può essere che lo sciopero”[3].
I limiti all’esercizio del diritto di sciopero, tuttavia e come noto, non sono stati regolati da alcuna legge ordinaria per quanto attiene al settore privato, con necessaria e prolifica attività di supplenza ad opera della giurisprudenza, sia costituzionale che ordinaria; mentre con riguardo al settore pubblico e, in specie, ai servizi pubblici essenziali è stata approvata, nel 1990 la L. 146, qui in commento.
Non è questa la sede per richiamare il dettaglio della disciplina, come detto particolarmente dettagliata e stringente. É, tuttavia, utile ricordare che le regole e le procedure imposte per l’esercizio del diritto di sciopero hanno come dichiarata finalità quella di “assicurare l’effettività, nel loro contenuto essenziale, dei diritti medesimi”[4], (sia quello allo sciopero che quelli della persona). Tale contemperamento si estrinseca – sempre secondo il Legislatore del 1990 – nella previsione a) di “prestazioni indispensabili” da assicurarsi anche durante le astensioni dal lavoro, b) del preavviso minimo di proclamazione dell’astensione e c) della comunicazione scritta a parte delle OO.SS. proclamanti, circa la durata, le modalità e le motivazioni sottese allo sciopero. Le prestazioni indispensabili sono, poi, garantite altresì dalla previsione di un intervallo minimo tra la prima astensione e la proclamazione delle successive, al fine di non compromettere la continuità del servizio (c.d. rarefazione oggettiva) e dalla regolamentazione di modalità e procedure di erogazione ad opera di contratti e accordi collettivi[5].
L’individuazione delle prestazioni indispensabili, delle modalità e procedure della loro erogazione è, infatti, rimessa alle parti sociali, benché sottoposta al vaglio di idoneità della Commissione di Garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali; Commissione che interviene in funzione sostitutiva e temporanea solo quando manchi la regolamentazione pattizia o quando questa sia valutata non “idonea”.
L’intervento dell’organo di garanzia, dunque, si pone come verifica e controllo ‘terzo’ ed ‘ago della bilancia’ tra le diverse istanze delle parti e nonché dell’utenza interessata al servizio pubblico coinvolto. Inoltre, trattandosi di Autorità Amministrativa Indipendente, le delibere adottate sono provvedimenti amministrativi, in quanto tali immediatamente efficaci e frutto di valutazione discrezionale. Parimenti discrezionale è il potere riconosciuto - nell’ambito della medesima procedura di regolazione dello sciopero nei servizi pubblici essenziali - al Presidente del Consiglio o, come più spesso accade, al Ministro delegato, per l’adozione dell’ordinanza di cui all’art. 8 L. 146 cit., anch’essa di regolamentazione restrittiva dello sciopero, ove sussista un “fondato pericolo di pregiudizio grave e imminente ai diritti della persona costituzionalmente tutelati”.
Ed è proprio questo il fulcro della riflessione qui proposta.
Nel quadro dei diritti costituzionalmente riconosciuti e tutelati, quando è legittimo e fin dove può spingersi l’intervento delle Autorità amministrative previsto dalla legge?
3. La delibera della Commissione di Garanzia dell’attuazione della legge sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali
I recenti provvedimenti della Commissione di Garanzia e del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, in relazione alla proclamazione dello sciopero generale del 17 e 24 novembre 2023 nonché 15 dicembre 2023, suggeriscono un esame meditato anche alla luce degli esiti che gli stessi hanno avuto: a fronte delle stringenti misure di rimodulazione dell’astensione - sia in termini di orari di durata che di calendarizzazione, che, addirittura, di ambito settoriale di operatività, con specifica esclusione di alcuni settori[6] – e delle conseguenze sanzionatorie previste dagli artt. 4 e 9 della L. 146/90 per i casi di inottemperanza a tali delibere e ordinanze, le OO.SS. proclamanti hanno deciso di adeguarsi a buona parte delle disposizioni ricevute, salva la facoltà di impugnazione dei provvedimenti anzi al Giudice Amministrativo.
Nel caso di specie a fronte di una proclamazione di sciopero generale nazionale da parte di due OO.SS. di indubbia rappresentatività a livello nazionale, la Commissione di Garanzia ha riqualificato l’astensione come plurisettoriale, ha valutato la regolamentazione della stessa riferendola ai singoli settori ed ha applicato a ciascun settore coinvolto le specifiche regole di raffreddamento, durata, e rarefazione oggettiva, per ritenerle violate nel caso concreto e disporre stringenti restrizioni.
Rimane da chiedersi se rientri tra i poteri della Commissione quello di qualificazione dello sciopero come generale o settoriale e, in caso affermativo, sulla scorta di quali criteri normativi tale potere debba essere esercitato. Nulla si rinviene sul punto nella L. 146/1990, che all’art. 2 c. 2 circoscrive i (pur ampi) poteri della Commissione alla valutazione di idoneità della regolamentazione pattizia eventualmente raggiunta dalle Parti Sociali e alla elaborazione di una regolamentazione sostitutiva e temporanea per il caso di mancanza o inidoneità della prima e, comunque, tutto ciò sempre e solo con riguardo alla previsione e alla disciplina delle “prestazioni indispensabili” che devono essere garantite. Difetta, viceversa, nel dato normativo, un richiamo al potere qualificatorio dello sciopero, vieppiù in difformità rispetto a quanto contenuto nella comunicazione di proclamazione. Non è di aiuto, invero, neppure la delibera del caso specifico, in quanto sprovvista di motivazione sul punto così come di indicazione delle ragioni sottese alla mancata valutazione di elementi pur essenziali ai fini della qualificazione dello sciopero, quali ad esempio le ragioni dell’astensione[7].
In presenza di rivendicazioni che coinvolgono indistintamente tutti i settori produttivi e che possono riguardare lavoratori attivi su tutto il territorio nazionale, non vi è ragione per escludere il carattere generale dello sciopero e costringere l’astensione nelle strette maglie delle svariate e difformi regolamentazioni di settore.
Dal momento che, proprio nel caso vagliato dalla Commissione nel novembre 2023, la qualificazione dello sciopero come generale avrebbe consentito l’applicazione di limiti al relativo esercizio meno stringenti, con il superamento dell’applicazione della disciplina regolatrice di questo o quello specifico settore (ad esempio in tema di procedure di conciliazione, raffreddamento, rarefazione oggettiva, ecc.), la stessa avrebbe meritato ben più ampia motivazione; rectius, avrebbe meritato una motivazione, invero del tutto assente.
Sembra, dunque, potersi affermare che i poteri di intervento e regolazione della Commissione di Garanzia, sono sorretti da due ordini di limiti, interni ed esterni: da un lato, infatti, essi sono circoscritti alle materie indicate nell’art. 2 c. 2, più volte citato[8], e dall’altro – nell’ambito di dette materie – sono il frutto della discrezionalità amministrativa cui si è fatto riferimento sopra, e proprio per tale ragione non possono prescindere da adeguata preliminare attività istruttoria né da una puntuale motivazione, escludendosi qualsiasi profilo di arbitrarietà, illogicità o irragionevolezza delle decisioni adottate.
Anche i poteri regolamentari in commento, infatti, devono essere esercitati nel rispetto del quadro generale disegnato dall’art. 1 della legge regolatrice dello sciopero nei servizi pubblici essenziali, di talché essi devono conformarsi e rispondere alla ratio di tale disciplina. Non si tratta, in altre parole, di un potere ispettivo e/o di vigilanza sbilanciato sulle modalità di esercizio dello sciopero e sulla tutela dell’utenza, ma è esso stesso espressione di quel bilanciamento di diritti costituzionalmente rilevanti e pari-ordinati cui si è fatto riferimento in apertura.
L’assunto, sembra trovare conforto in un recente arresto della giurisprudenza amministrativa, chiamata a pronunciarsi su una delibera della Commissione di Garanzia modificativa della disciplina della c.d. rarefazione oggettiva, con ampliamento dell’intervallo minimo tra la prima astensione e la proclamazione di un successivo sciopero da 10 a 20 giorni. Nel ritenere illegittimo il provvedimento amministrativo, nel 2023 il Consiglio di Stato, con argomenti che è utile ritrascrivere, ha chiarito come “l’ampia discrezionalità decisionale della Commissione, nello specifico con riguardo alla individuazione del periodo di rarefazione oggettiva tra gli scioperi, proprio perché involge e coinvolge diritti costituzionalmente garantiti, merita di essere esercitata con particolare cautela ed attenzione, assumendo decisioni che siano il frutto di una accurata istruttoria e che siano caratterizzate, nell’individuazione della misura più opportuna da mettere in campo, da una motivazione puntuale dalla quale sia possibile poter ricostruire nella sua interessa e completezza il corredo informativo che ha consentito di indirizzare la manifestazione di volontà della Commissione verso scelte proporzionate all’interesse pubblico che si intende salvaguardare”[9].
4. L’ordinanza di precettazione ex art. 8 L. 146/1990
Riflessioni non dissimili possono essere fatte con riferimento all’ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri o del Ministro delegato (o ancora, per gli scioperi locali, del Prefetto) di cui all’art. 8 L. 146/1990. Anche tale provvedimento è un atto amministrativo discrezionale, con tutte le caratteristiche sopra riferite alla delibera della Commissione di Garanzia, ma presenta un limite ulteriore, peraltro, particolarmente stringente.
L’ordinanza, infatti, per espressa previsione dell’art. 8 cit., potendo disporre autoritativamente il differimento dell’astensione, la riduzione della durata o altre misure idonee ad assicurare il funzionamento del servizio pubblico interessato, trova la sua giustificazione unicamente in presenza di un “fondato pericolo di un pregiudizio grave e imminente ai diritti della persona costituzionalmente tutelati”.
La lettera della norma, induce a ritenere che il potere de quo incontri non soltanto i limiti propri dell’agire amministrativo sopra esaminati, ma necessiti di una motivazione rafforzata e relativa a) all’esistenza di un pericolo di pregiudizio grave e imminente, dunque qualificato, b) ad elementi fattuali che facciano ritenere tale pericolo non semplicemente possibile o probabile ma, addirittura, “fondato”. Tale termine richiama profili di concretezza della situazione di rischio e consente di qualificare come eccezionale l’intervento amministrativo.
Ebbene, a fronte di ciò, e prendendo spunto proprio dalle recenti ordinanze del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti[10], sembra potersi affermare che provvedimenti non adeguatamente motivati o che riconducano le ragioni delle direttive impartite a necessità avulse dal bilanciamento di diritti paritari o dall’esistenza di concrete necessità di fronteggiare un pericolo “grave ed imminente” per uno o più di essi, non possano dirsi conformi al dettato normativo e si traducano in una indebita ingerenza degli organi amministrativi nel conflitto sociale e nella regolazione delle relazioni industriali.
Le ordinanze in commento, infatti, sono - per loro stessa natura - provvedimenti invasivi, che si risolvono necessariamente in uno svantaggio per una delle parti interessate; per tali ragioni, il ricorso alle stesse deve essere vagliato con particolare rigore, e parimenti attenta deve essere la verifica della loro rispondenza al dettato normativo o, per contro, la eventuale frustrazione delle finalità perseguite dalla legge. Ordinanze precettive emanate oltre i limiti legali (formali e sostanziali) sopra descritti, infatti, si traducono in strumenti deflattivi dell’azione sindacale e, dunque, della tutela del lavoro o, comunque, un indebito contenimento del conflitto in misura non proporzionale alle necessità di tutela dei diritti dei fruitori del servizio interessato.
Non va dimenticato, a tal proposito, che il disagio per l’utenza coinvolta nei servizi pubblici essenziali interessati è connaturale all’esercizio stesso del diritto di sciopero. Ciò che le Autorità Amministrative coinvolte sono chiamate a vagliare e a garantire non è, dunque, la mera esistenza di un qualche disagio, se del caso anche di un certo rilievo, ma l’entità non equilibrata dello stesso e l’insufficienza delle misure volte ad assicurare le prestazioni indispensabili. Il Legislatore, in altre parole, ha già compiuto valutazioni generali sul contemperamento degli interessi in gioco, fornendo alle Autorità Amministrative competenti i parametri per il corretto esercizio del potere autoritativo.
Riprendendo, ancora come spunto comparativo, il contenuto delle ordinanze recentemente adottate dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti[11] pare non potersi ritenere, ad esempio, adeguata motivazione ex art. 8 L. 146/1990, quella che fa riferimento a possibili danni per un preteso “trend positivo del turismo” o al probabile aumento del “traffico veicolare con ripercussioni sulla sicurezza stradale e sulle emissioni ambientali”, o addirittura ad una paventata “partecipazione consistente” all’astensione dal lavoro da parte dei lavoratori.
Si tratta, infatti, di valutazioni, da un lato meramente ipotetiche perché non adeguatamente supportate da elementi istruttori, e comunque prive del carattere della concretezza preteso dalla norma; dall’altro, riferite a (possibili lesioni di) diritti privi del rilievo costituzionale imposto dal Legislatore del 1990 (così, per non fare che gli esempi sopra riportati, il turismo o il traffico veicolare), quando non addirittura in contrasto con il dettato costituzionale: la prevedibile massiccia partecipazione all’astensione (sempre nel rispetto dell’obbligo di fornire le prestazioni indispensabili) è l’essenza stessa dell’esercizio del diritto di sciopero e non certo un suo possibile limite.
La specificità e completezza della motivazione appare, in quest’ottica, strumento indefettibile di scrutinio della legittimità dell’esercizio del potere autoritativo e sanzionatorio dell’organo amministrativo. In difetto di un concreto e attuale rischio per posizioni giuridiche di rilievo costituzionale, non si giustifica il sacrificio di un diritto (questo sì, attuale e concreto) di indubbio rango costituzionale quale è quello di sciopero; ciò a meno di voler accettare il rischio di introdurre – per via amministrativa – ulteriori ed inedite derive regolatorie e i limiti del tutto nuovi rispetto a quelli contenuti in una normativa che già allo stato attuale risulta particolarmente vincolante.
[1] Le ordinanze del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti riferite ad un’unica tornata di astensioni generale dal lavoro proclamato il 27/10/2023 sono la n. 196T del 15/11/2023 e la n. 198T del 12/12/2023. Nel precedente mese di settembre era stata, peraltro, emanata l’ordinanza n. 194T del 26/9/2023 in relazione ad uno sciopero proclamato in data 24/8/2023 di tenore e contenuto sostanzialmente simile.
[2] Il Codice penale Rocco prevedeva infatti agli artt. 502-506 svariate ipotesi di reato legate all’astensione dal lavoro (sciopero e serrata) per motivi contrattuali, non contrattuali, per solidarietà o per protesta.
[3] Verbale del 15/10/1946, intervento del costituente Pietro Mancini.
[4] Così recita testualmente l’art. 1 c.2 L. 146/1990.
[5] Così dispone l’art. 2 c. 2 L. 146/1990.
[6] Il riferimento è fatto alla delibera Commissione di Garanzia 1314/23 del 9/11/2023 nonché alle ordinanze n. 196T e 198T Min. Infrastrutture e Trasporti cit..
[7] Nel caso esaminato le rivendicazioni delle OO.SS. erano legate alla legge di bilancio, alle politiche economiche e sociali del Governo, alle piattaforme sindacali unitarie, a provvedimenti in materia di lavoro, politiche industriali, fisco, pensioni, istruzioni, sanità, ecc.
[8] Il riferimento è alle prestazioni indispensabili, alle modalità e alle procedure di erogazione, nonché gli intervalli minimi da osservare tra l’effettuazione di uno sciopero e la proclamazione del successivo e le procedure di raffreddamento e di conciliazione.
[9] Cfr. Cons. Stato, sent. n. 2116 del 1/3/2023.
[10] Le già citate ordinanze nn.- 194T/2023, 196T/2023 e 198T/2023. Nell’ordinanza n. 196T, in particolare, si legge: “CONSIDERATO il trend positivo del turismo, che torna ad essere un settore trainante per la nostra economia e che si caratterizza con una forte intensificazione dei flussi turistici in entra e in uscita dal territorio nazionale, prevalentemente nei weekend, in aggiunta alla persistenza degli spostamenti dei lavoratori pendolari; CONSIDERATO che gli effetti dello sciopero si riverberano anche sul traffico veicolare con ripercussioni sulla sicurezza stradale e sulle emissioni ambientali, anche tenuto conto della sua fissazione nell’ultimo giorno lavorativo della settimana, connotata da maggiori flussi di traffico; (…) TENUTO CONTO che, alla luce di quanto verificatosi in occasione di precedenti astensioni dal lavoro promosse da Organizzazioni Sindacali altamente rappresentative nel settore dei trasporti, si prevede che la partecipazione ai richiamati scioperi sarà consistente”.
[11] Le già citate ordinanze nn. 194T, 196T e 198T del 2023.
(Immagine: foto di repertorio fonte)
Sommario: 1. Introduzione. La transizione digitale della giustizia penale italiana: l’approccio collaborativo ed inclusivo seguito da CSM e MdG - 2. APP: non funziona! - 3. La roadmap genetica ed evolutiva - 4. L’interattività e il prodotto della concertazione con gli utenti-effetti collaterali - 5. La somministrazione agli Uffici Giudiziari del prodotto. Il supporto fornito dal MdG e quello fornito da CSM-STO-RID-MagRif.
1. Introduzione. La transizione digitale della giustizia penale italiana: l’approccio collaborativo ed inclusivo seguito da CSM e MdG
Chiedo umilmente venia al lettore per il clickbait a cui ho fatto ricorso nel titolo di questo contributo, che ripete il mantra “APP non funziona!”, ultimamente molto in voga tra gli addetti ai lavori e non del processo penale. Per contro, ricorro all’esercizio dialettico del titolo esca, tipico degli internauti, al mero fine di attirare l’attenzione proprio del lettore emozionalmente atterrito dal cd grido di allarme al fallimento del processo penale telematico e di APP, nonché per cercare di offrire uno spunto di riflessione sul tema e di lanciare, da addetta ai lavori, un ambizioso segnale di rasserenante approccio.
Corre l’obbligo di inquadrare lo scenario di fondo nel quale si enuncia il fallimento del PPT e di APP, ovvero l’opera di transizione digitale, che passa necessariamente per la tanto attesa digitalizzazione del processo penale. Tralasciando, per ragioni di sintesi e di contestualizzazione del tema, tutte le osservazioni che a rigore si imporrebbero per il dovere di allineare il settore giustizia al quadro di transizione digitale nello scenario italiano e sovranazionale, mi limito a rappresentare banalmente come la cd virata alla modalità digitale nella Pubblica Amministrazione costituisca un obbligo ineludibile anche del Settore Giustizia, che non a caso ha comportato l’istituzione di un apposito dipartimento del Ministero della Giustizia.
Snodo normativo fondamentale del processo di digitalizzazione delle PA è il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. La prima componente della Missione n. 1 del Piano, denominata “Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura”, ha come obiettivo generale l'innovazione del Paese in chiave digitale, ed è articolata in tre settori di intervento, tra i quali l’innovazione organizzativa della giustizia. Giova precisare come l’impegno alla transizione costituisca un intervento finanziato con limitati fondi nazionali e non europei, se pur la realizzazione (non l’obbligatorietà) dell'applicazione rientri tra le milestone del PNRR, riforma 1.8.
Non si può tacere come la transizione digitale nel contesto giudiziario debba, innanzitutto, uniformarsi al disposto della normativa sovranazionale e delle direttive europee.
Ovviamente è fondamentale tenere ben presente come la transizione del sistema giudiziario - nell’alveo delle direttive europee che enfatizzano l'importanza dell'etica, dell'inclusione e della sostenibilità, richiedendo agli Stati Membri il monitoraggio del rispetto dei diritti fondamentali, affinché venga tutelato in maniera egualitaria il libero diritto di accesso alla giustizia da parte di tutti i cittadini, indipendentemente dalle loro competenze digitali - diversamente dalla transizione di altro ramo della Pubblica Amministrazione, rappresenti, apriori una sfida complessa, che richiede un'integrazione sinergica di competenze tecniche, legali e amministrative, in quanto incide sull’organizzazione di un servizio a cui partecipano vari attori in posizione spesso paritaria, nonché agisce sulla movimentazione di dati sensibili, oltre che sulla gestione delle risorse umane e tecnologiche degli Uffici Giudiziari.
Secondo le Linee Guida[1] varate in materia dal Consiglio d’Europa, “I principi di inclusività e accessibilità rappresentano dimensioni fondamentali per raggiungere l'efficacia nel perseguire il principio del digitale per default”. La centralità dell'utente consente al sistema giudiziario di tenere in considerazione le esigenze e le voci di tutti gli utenti finali, siano essi interni o esterni, durante la progettazione, la consegna, l'implementazione e la valutazione delle soluzioni e dei servizi digitali.
La digitalizzazione del processo deve, per essere adeguata e collimante con le linee guida europee, garantire uniformità e standardizzazione procedurali, e dovrebbe anche prevedere, in una certa misura, flessibilità per agevolare le diverse eccezioni e i casi d'uso specifici che potrebbero verificarsi durante la trasformazione delle procedure giudiziarie o in relazione a diverse soluzioni tecnologiche che potrebbero essere adottate o evolversi in futuro[2].
Inoltre, l’opera di transizione digitale deve essere in grado di fronteggiare e superare in maniera omogenea il digital divide, consentire di fronteggiare i diversi livelli di alfabetizzazione digitale degli utenti e di dar ad essi l’opportunità di godere di un approccio sostanzialmente egualitario.
Last but not least, un programma di trasformazione giudiziaria efficace ed efficiente nel nostro sistema giudiziario richiede una forte volontà politica, un approccio gestionale completo e un ampio coinvolgimento degli stakeholders[3] e, per poter conseguire il proprio scopo e rispettare gli strumenti sovranazionali che la hanno prevista normativamente, oltre che per poter essere adeguata alla diversa modalità operativa dei vari attori del sistema giustizia italiano, deve potersi manifestare come trasversale ed inclusiva, impostarsi su un approccio collaborativo tra vari attori istituzionali: i magistrati, il CSM, il Ministero della Giustizia, il DGSIA, i cancellieri, gli avvocati e tutti i professionisti del diritto che interagiscono nel processo.
La digitalizzazione del sistema giudiziario italiano, in particolare nel processo penale, rappresenta una sfida complessa che si sta operando su un piano di integrazione, trasversale e verticale, sinergica, di competenze tecniche, legali e amministrative. Questo obiettivo è delineato con un’attività di continuativa cooperazione tra Ministero e CSM, e un modulo innovativo, un unicum senza precedenti nella storia della giustizia italiana, un metodo istituzionalizzato di collaborazione intensa tra i due attori principali della scena chiamati a costruire e recepire la transizione.
Per addivenire all’obiettivo di inclusività e di cooperazione da parte di tutti gli attori del processo penale, invero, si è assistito nel nostro sistema giudiziario, nel corso degli ultimi due anni e mezzo, dall’ottobre 2021, alla creazione di moduli differenti di elaborazione condivisa dei progetti degli applicativi del PPT (ivi compreso APP), destinati a esser generati, osservati, monitorati e implementati, da una serie di esperti operatori giudiziari: magistrati, in ruolo e fuori ruolo, cancellieri, avvocati, soggetti tutti non lontani dalle aule giudiziarie ma in diretta, reale e concreta connessione con il territorio, reclutati dal Ministero come esperti in base alle non comuni competenze informatiche mostrate dal loro percorso professionale.
La storia evolutiva dell’approccio condiviso CSM-Ministero può come segue essere sintetizzata:
Nel ginepraio di gruppi e incarichi ministeriali che comunque hanno consentito alla componente di magistratura di contribuire alla transizione fino ad ora effettuata, in sintesi, appare evidente come occorra fermarsi e fare ordine, strutturare il cammino condiviso. La transizione digitale necessita, in sintesi, di un cambiamento di paradigma, che consenta la collaborazione paritetica di tutte le istituzioni coinvolte nel processo evolutivo, di passaggio al processo digitale. Da quanto avvenuto emerge che deve darsi come pacifico che gli aspetti tecnologici e quelli giuridici non possono essere dominio della singola istituzione, ma devono sinergicamente essere analizzati in concreto attraverso una strutturata forma di collaborazione istituzionale.
La vicenda di APP sottolinea l'importanza di superare l'approccio tradizionale basato sulla relazione/fornitore-utente nel contesto dello sviluppo del Processo Penale Telematico. Ciò implica l'adozione di un modello più collaborativo e inclusivo, dove la corresponsabilità tra le parti coinvolte diventa un pilastro fondamentale. In questo scenario, magistrati e avvocati non sono semplici destinatari di tecnologie e soluzioni imposte dall'alto, ma attori attivi nel processo di innovazione, con una voce in capitolo significativa nella progettazione, implementazione e valutazione delle soluzioni tecnologiche. Abbracciare un modello di collaborazione effettiva significa riconoscere l'importanza di integrare le conoscenze e le esperienze dei professionisti del diritto fin dalle fasi iniziali dei progetti di digitalizzazione.
Questo implica un dialogo costante e costruttivo tra sviluppatori tecnologici, magistrati, avvocati e altre figure chiave, per assicurare che le nuove soluzioni non solo rispettino le procedure codificate ma anche ne facilitino l'efficienza e l'efficacia. L'obiettivo è dunque quello di costruire un sistema di Processo Penale Telematico che sia non solo tecnologicamente avanzato, ma anche profondamente radicato nelle reali esigenze e dinamiche del mondo della magistratura.
Questo richiede un cambio di paradigma che ponga l'enfasi sulla corresponsabilità e sulla partecipazione attiva di tutti gli stakeholders coinvolti, per garantire che l'innovazione tecnologica nel settore giuridico sia realmente al servizio della giustizia. Si auspica una seria presa di posizione del CSM al fine pretendere dal Ministero una proficua condivisione della strategia di informatizzazione nel processo penale anche con il coinvolgimento - attraverso tavoli tecnici ancora possibili - dei soggetti istituzionali tutti (CSM, ANM, CNF, Dirigenze amministrative) coinvolti nella informatizzazione del processo penale. L'importanza di superare la logica fornitore/utente per favorire una collaborazione effettiva che includa la corresponsabilità nel contesto dello sviluppo del Processo Penale Telematico porta inevitabilmente a considerare la necessità di un intervento incisivo da parte del Consiglio Superiore della Magistratura, che è chiamato a prendere una posizione ferma per sollecitare ed individuare con il Ministero della Giustizia la promozione di una strategia di informatizzazione del processo penale che sia frutto di una reale, trasparente, allargata e proficua condivisione con tutti i soggetti istituzionali coinvolti.
Questo approccio collaborativo, che vede il CSM impegnato a richiedere e favorire una partecipazione attiva e concreta di tutti gli attori istituzionali coinvolti, segna un passo fondamentale verso la realizzazione di un sistema di giustizia penale telematico efficace, efficiente e, soprattutto, equo. Solo attraverso una seria presa di posizione e la promozione di una strategia di informatizzazione realmente condivisa a tutti i destinatari del prodotto, sarà possibile superare le sfide poste dall'innovazione tecnologica e garantire che il processo penale telematico si sviluppi in modo tale da rispettare e valorizzare le peculiarità del sistema giudiziario, migliorando al contempo l'accesso alla giustizia per tutti i cittadini.
2. APP: non funziona!
L'introduzione di APP del Processo Penale Telematico ha segnato un passo significativo nella transizione digitale del processo penale nei termini anzidetti, costituendo l’esordio del processo penale telematico: anche se i primi veri passi verso la digitalizzazione sono passati per robuste ed altrettanto tortuose strade come il PdP e il PNdr, l’impatto di APP, come applicativo di flusso, può senz’altro portare a definirlo il vero Caronte digitale. Esso, pertanto, costituendo il primo ma non unico prodotto del cammino di transizione del processo penale verso il digitale, solleva questioni notevoli relative alla progettazione, implementazione e adozione di tecnologie digitali in un ambiente giuridico e processuale, del quale rischia di intaccare alcuni punti sacrali.
La scelta del clickbait di questo articolo “APP non funziona” è dettata dalla necessità e opportunità di analizzare funditus, da addetta ai lavori in un Distretto anche molto complesso oltre che sconfinato, la reale corrispondenza alla realtà di questo tormentone. Per esigenze di completezza, occorre inevitabilmente fare appello nella maniera più tecnica ed oggettiva possibile ai dati che l’esperienza sul campo ha consentito di recepire, non senza passare per un inquadramento descrittivo e sostanziale dell’applicativo protagonista della scena, anche al fine di fornire pochi fondamentali tecnici che non sono di comune dominio stante la giovane età del nostro Caronte.
La definizione
APP è l’applicativo unico di gestione del processo penale telematico, per il governo dei flussi procedurali e documentali esterni e interni agli uffici giudiziari, che vanno dall’iscrizione della notizia di reato fino all’udienza preliminare esclusa (obiettivo PNRR M1C1-38, Riforma 1.8).
L’obiettivo
L’obiettivo perseguito con la transizione digitale operata via/APP non è tanto quella di sostituire il documentale TIAP esistente (né tanto meno di duplicarlo), bensì:
Il risultato perseguito con la transizione al PPT via APP, operando su una piattaforma composta non solo documenti ma da veri e propri procedimenti, stricto sensu, è quello di fruire del pregio degli applicativi gestionali, consentendo di ottimizzare al massimo il processo, rendendolo più semplice, più veloce, senza errori, trasparente, fruibile dall’utente medio.
Il tipo di applicativo: gestionale e documentale; struttura e funzioni principali
Il software approntato per la gestione del processo penale, cd APP, ambisce ad offrire il vantaggio tipico dei software gestionali e documentali insieme.
Pertanto, esso si colloca nella prospettiva finalistica, non tutta oggi conseguita, della realizzazione dei seguenti risultati, propri degli applicativi gestionali:
APP è invero un sistema collaborativo informatico, che è progettato per consentire a tutti i soggetti abilitati la redazione, la firma digitale e il deposito telematico dei provvedimenti penali, rendendo telematici tutti i flussi procedimentali, dall’iscrizione della notizia di reato all’udienza preliminare esclusa, integrandosi con il PDP e il Portale delle Notizie di Reato. L’applicativo prevede, in progetto, tutte le funzionalità atte a garantire la redazione di atti nativi digitali, gli scambi telematici bidirezionali tra i diversi uffici giudiziari coinvolti, e l’integrazione con i Portali (PNdR e PDP) per la ricezione automatizzata degli atti, dei file multimediali e dei relativi dati strutturati. Basti notare che oggi TIAP permette la sola scannerizzazione in formato immagine (anche di bassa qualità) di documenti cartacei, senza alcuna possibilità di altre tipologie di file (es. multimediali), la cui acquisizione e usabilità è prevista in APP.
APP si distingue per la sua connotazione ultra ed extra-documentale, gestionale, accorpando in sé il documentale preesistente (Tiap) e, recuperando i dati dal registro, provvede al contestuale governo dei flussi procedurali di documenti interni, oltre che alla ricezione dei documenti esterni ad esso.
Nell’area di gestione dei flussi procedurali esso distingue varie aree, dedicate ai singoli flussi: intercettazioni, indagini preliminari (archiviazione, proroga, riapertura, conclusione, tabulati, iscrizione, prelievo coatto, interrogatorio, sequestro probatorio, ispezioni, incidente probatorio, esibizione, perquisizioni), misure precautelari, misure cautelari, impugnazioni misure, avocazione.
Allo stesso tempo l’applicativo offre:
3. La roadmap genetica ed evolutiva
La roadmap evolutiva dell’applicativo, disegnata secondo un approccio incrementale, in ottica di miglioramento continuo, si è sviluppata nei seguenti step del percorso programmato, preventivato, condiviso e perseguito nel corso di questi mesi:
In buona sintesi, l’avvio di APP, nella sua release ha recepito le indicazioni definite nei tavoli tecnici, composti da numerosi magistrati, cancellieri, avvocati, informatici e ingegneri, ed è stato progressivo per consentirne la sperimentazione prima dell’obbligatorietà del deposito telematico (Decreti Ministeriali previsti dall’articolo 87 commi 1 e 3 D.Lgs. 10 ottobre 2022 n. 150). Per indirizzare gli obiettivi del PNRR M1C1, entro il 2023, è stata realizzata la soluzione di base del sistema APP e realizzato il flusso intercettazioni PM – GIP. Pertanto, sono state posti in campo alcuni segmenti di sperimentazione in esercizio, con l’apertura l’ultima settimana di ottobre 23 ad undici Uffici Giudiziari, la 4° settimana di novembre alla Procura Europea e a tutti gli Uffici di Procura e Gip.
Lo stato e la pianificazione degli sviluppi fuoriuscito dalle sessioni di lavoro effettuato sottoposte all’analisi del cd Gruppo di Analisi, dopo essere stato progettato dal Gruppo istituito dal Ministero con componenti esperte della magistratura, autorizzate ovviamente dall’organi di autocontrollo, ha portato alla predisposizione di funzionalità aggiuntive, a titolo esemplificativo individuate in: popolamento del modellario, introduzione, in aggiunta alla funzione di redazione mediante l’uso di Word on line, della previsione preliminare della funzione di plug-in Word, l’introduzione delle personalizzazione dell’atto off-line, la gestione del fascicolo documentale con la predisposizione di appositi tag nella funzione App Studio -la cui disponibilità, prevista, è stata differita- la firma massiva, qualche predisposizione di funzionalità per i visti con ritorno atti in cancelleria o con ritorno atti al redattore e assenso; nonché per la visibilità selettiva.
4. L’interattività e il prodotto della concertazione con gli utenti-effetti collaterali
Se APP funziona o meno, non può essere ad avviso di chi scrive una conclusione automaticamente derivante dagli aggiustamenti evolutivi che giocoforza esso ha imposto e impone anche grazie alla cooperazione, ma rimane una mera ipotesi che merita di essere vagliata sul piano sperimentale, a valle dei preventivi passi iterativi e delle complessive risorse messe in campo dal sistema giustizia italiano.
Giova sin da subito riportare che il monitoraggio dell’esercizio ha consentito di rilevare- al di là dei problemi di hardware e di infrastruttura rispetto ai quali è in corso un’operazione di ri-assettamento e risoluzione e che ha portato a sospendere per due giorni le attività di alcuni Uffici (tra cui i maggiori del Distretto di Napoli) -che l’applicativo sicuramente necessita degli adeguamenti di software, tra cui quelli di seguito menzionati (e rilevati nell’ultimo report del Gruppo di Analisi), adeguamento fortunatamente fronteggiabile proprio grazie alla caratteristica evolutiva di APP, che consente ad esso per sua natura di adattarsi alla realtà materiale del lavoro del giudice. Nel corso della best practice di Train on jobmessa in campo dall’UDI di Napoli, che lavora come gruppo permanente di esercizio live dei flussi di archiviazione (flussi completi: segreteria Pm-Pm-Gip-cancelleria Gip-restituzione segreteria PM), si è consentito, invero, di acquisire come dato prioritario, che APP viene utilizzato sempre senza problemi - tecnicamente - di flusso (e quindi APP, come applicativo di flusso, tecnicamente, funziona), ma con momenti bloccanti, al 100 % riconducibili a inciampi infrastrutturali e, quindi, tecnicamente di Hardware, con performances e tempistiche differenti a seconda dei diversi seguenti co-agenti di seguito indicati, rispetto ai quali si connota in termini di diretta proporzionalità:
L’esercizio live dell’UDI di Napoli (compiuto fino ad oggi in sette sessioni di due ore e mezza circa ciascuna) ha invero lasciato - salvi i casi di funzionamento a singhiozzo dell’infrastruttura e salvi alcuni individuali problemi dovuti ad errori di profilazione e/o abilitazione dell’utente singolo, risolti in gran parte dei casi - emergere sempre una corretta e piuttosto snella elaborazione del flusso, durato da un minimo di un minuto e trenta secondi ad un massimo di sette minuti e trenta secondi (nel caso più complesso in cui si è anche aperto e risolto live un ticket di profilazione con l’assistenza on line del CISIA) per l’intero flusso.
Le sessioni di train on job del Gruppo di lavoro distrettuale partenopeo hanno dato, invero, modo di registrare una media sensibile soddisfazione degli utenti nell’uso di APP per la fluidità del transito del flusso tra cancellerie GIP e segreterie PM, per l’eliminazione di carte-carrelli- commessi, soddisfazione che è stata più intensa nel caso dell’esercizio della sperimentazione delle modalità funzionali dei firma massiva, in uso in alcune Procure del Distretto. L’esercizio ha comportato l’esponenziale crescita delle richieste di abilitazioni di accesso da remoto ed ha riscontrato un upgrade delmodulo, grazie all’instaurazione di una collaborazione, costante e sinergica con il CISIA locale, che ha consentito la risoluzione live dei ticket aperti dagli utenti, alla presenza degli utenti stessi chiamati in call, e la registrazione di corrispondente riduzione esponenziale, come risultato di periodo, numero dei ticket, effetto derivante evidentemente dalla condivisione dell’esperienza.
La regolarità del funzionamento di APP (applicativo di flusso, regolarmente funzionante) è avvalorata dai rilievi effettuati fino al 31.1.2024 che, unitamente alla mappatura nazionale di archiviazioni depositate via/APP, e alle risultanze degli estratti statistici di accesso al sistema e di lavorazione delle pratiche di archiviazione, evidenziano che APP è utilizzato (circa 2000 utenti con circa 30.000 atti lavorati con APP). Osservando la distribuzione territoriale, circa il 45% degli atti lavorati si concentra nei distretti più grandi (Milano, Bologna, Firenze, Roma, Napoli). Si registra, tra l’altro, che l’applicativo è stato utilizzato non solo per redigere e sottoscrivere atti relativi alla fase di archiviazione, obbligatori in formato digitale per legge, ma anche per la gestione di ulteriori fasi e provvedimenti del processo penale (ad esempio: avviso conclusione indagini, decreto penale di condanna, sequestri, etc).
I dati preliminari di rilievo lasciano emergere che le medie dei depositi di archiviazione in APP sono in decisivo calo rispetto allo scorso anno, per la fisiologica incidenza dei tempi di rodaggio derivati dall’epocale innovazione messa in campo, il che denota sicuramente un inevitabile rallentamento in avvio, ma non la sussistenza di una condizione di empasse o collasso degli Uffici dell’intera Nazione.
L’interattività e evolutività dell’applicativo ha peraltro consentito di recepire il contenuto delle segnalazioni ricevute dagli utenti e filtrate dai Gruppi di Lavoro sopra indicati, segnalazioni che sono state ricevute, completate, sviluppate, analizzate in corso d’opera e hanno infine dato luogo al rilascio di numerose patch migliorative e modificative, non comunque esaustive di tutte le istanze proveniente dalla base, selezionate evidentemente per priorità..
A titolo esemplificativo, sono state di consistente rilievo le segnalazioni che hanno consentito di prevedere varie implementazioni, alcune delle quali già rilasciate, altre in corso su APP1.0, e altre da inserire in APP 2.0 (Funzione gestione del team, Wizard per la voce capi di imputazione o punti di motivazione, Caricare modelli dall’esterno, Agenda), altre da elaborare (Emissione di atti urgenti per il personale di turno, messa in evidenza fascicoli di nuova assegnazione).
A titolo esemplificativo si indicano le seguenti implementazioni, come detto testé, rilasciate, previste, in corso, d’opera:
In generale, alla luce delle evoluzioni indicate e in corso d’opera e del prodotto finito, si deve evidenziare come non sia francamente opportuno decretare sic et simpliciter il fallimento dell’applicativo, senza tener conto dell’enorme percorso di cambiamento che esso involge, anche se l’attesa dei risultati concreti può spaventare. Invero APP, per sua natura imprescindibilmente iterativo, lavora per evoluzioni continue, recepite dalla interazione continua con gli stakeholders, in modo da permette di evolvere costantemente le evoluzioni, indirizzando requisiti che, in contesto così complesso, è normale che emergano dalla prova sul campo in ambiente reale.
Questa caratteristica è senza dubbio produttiva del collaterale effetto, verificatosi, di generare anomalie tecnologiche, rallentamenti a volte consistenti, ed errori di sistema ricorrenti, che devono essere prontamente indirizzati, il che va d’altra parte commisurato all'imponente numerosità di utenti che utilizzano l'applicativo su tutto il territorio italiano, anche questo, dato che merita opportuna analisi di fattibilità e adeguate tecniche di fronteggiamento.
Dai riscontri fatti in corso d’opera è emerso agli addetti ai lavori come l'evoluzione di APP sia stata guidata da principi di ingegneria del software di natura agile e iterativa. Questa elasticità, che per alcuni aspetti e che un approccio diffidente potrebbe essere considerata come uno svantaggio è, per contro, elemento connaturale degli applicativi evolutivi, che nel caso di APP ha permesso, non senza attese snervanti e difficoltà logistiche del caso, di implementare cicli di feedback continui, nel corso dei quali le modifiche e gli aggiustamenti sono stati apportati in base alle risposte degli utenti e alle sfide incontrate.
Deve d’altra parte essere precisato che le indicazioni sovranazionali sono inevitabilmente dirette a raccomandare la natura flessibile agile degli applicativi introdotti nel corso della transizione digitale dei processi giudiziari, al precipuo e concreto fine di adattarsi a diverse eccezioni e casi specifici che potrebbero emergere durante la trasformazione delle procedure giudiziarie o in relazione a soluzioni tecnologiche diverse che potrebbero essere adottate o evolversi nel futuro. L'agilità è un concetto che enfatizza la flessibilità, la risposta ai cambiamenti e la collaborazione continua. Nel settore del software, l’agilità è di un approccio alla gestione dei progetti e allo sviluppo del software che mette in primo piano i risultati, promuove la partecipazione degli stakeholders e favorisce il miglioramento continuo.
Questo metodo prevede la suddivisione dei progetti in fasi e l'iterazione per consegnare valore attraverso incrementi piccoli ma consumabili. In sintesi, l'agilità è caratterizzata da adattabilità, fluidità e agire in base ai risultati anziché a regole rigide[4]. L’agilità, si ripete, è una caratteristica naturale, tecnica, normativamente prevista per i software di gestione dei processi, e non può costituire, per converso, un difetto dell’applicativo. La rimodulazione dell'uso dell'APPalle sole archiviazioni traduce il significato della natura evolutiva ed agile dello stesso, e al contempo costituisce una dimostrazione dell’efficacia della cooperazione, un esempio di come gli obiettivi ambiziosi perseguiti siano stati rimodulati in risposta alle esigenze emergenti, rivelando la necessità di un ulteriore sviluppo e adattamento per il residuo campo del processo penale.
Si può ad attenta analisi dell’applicativo asserire che, anche se sotto molti aspetti APP, come compiutamente indicato nei report del Gruppo di Analisi, è perfettibile e imperfetto, da altro punto di vista esso appare all’uso quasi banale, user-friendly e idoneo a fronteggiare il divario di competenze digitali inevitabilmente riscontrabili in un organico così ampio come quello della magistratura. Dall’esperimento compiuto sul campo fin dal suo primo utilizzo emerge infatti come l’accesso all’applicativo APP non abbia mai richiesto una sia pur minima opera di alfabetizzazione digitale, non risultando elementi bloccanti scaturenti dalla inintelligibilità o non usabilità diretta dello stesso.
Nè può tacersi quanto la necessità di un ulteriore consistente sviluppo nella funzionalità di APP sia evidente, così come oggi sia ineludibile la necessità di un approccio adattivo per rispondere a queste sfide. Attraverso workshop, sessioni di feedback e test pilota, è stato fino ad oggi possibile a tutti gli attori della progettazione e sperimentazione chiamati ad interagire, convogliare input essenziali per garantire che l'applicativo rispondesse effettivamente alle esigenze degli utenti finali. Questo processo, carente peraltro di necessaria strutturazione, ha permesso di creare uno strumento che, per quanto non sembri (per antonomasia nel campo informatico – in quanto app - deve essere user-friendly), non solo appare tecnologicamente avanzato, proprio perché semplice, ma anche intuitivo e facile da usare per tutti gli operatori del settore giudiziario.
Può concludersi che APP appare certamente come un sistema evolutivo, giovane, per definizione elastico agli adattamenti richiesti dalle esigenze, emergenti anche in esercizio, pur non potendosi cogliere l’altro lato della medaglia, e cioè che gli adattamenti richiedono interventi che a volte necessitano del blocco dello stesso, patiti dall’utenza con disagio che aumenta esponenzialmente nel caso in cui debbano essere compiuti interventi per alcune ore continuative.
Il bilancio dell’esercizio di due mesi scarni di sperimentazione facoltativa (di undici degli uffici giudiziari, la maggior parte dei quali ha effettuato la sperimentazione riducendola a pochi componenti dell’ufficio e a poche attività) e di venti giorni di esercizio ha consentito di ricavarne dati rilevati a livello nazionale con l’uso diffuso di APP – salvi i casi del blocco delle infrastrutture che è oggetto di analisi localizzata - che sono il risultato della composizione di diversi co-agenti e di diverse connotazioni, dovute alla diversa complessità e composizione uffici, al maggiore o minore accesso al sistema, alla differente tenuta delle infrastrutture e del differente livello di alfabetizzazione digitale degli utenti.
Inevitabilmente l’attività di rodaggio e di assestamento ha influito in questi 20 gg dall’entrata in vigore della obbligatorietà, sui tempi di lavorazione delle richieste di archiviazione e si sono registrate sostanzialmente, alla data del 26.1.2024 le seguenti notazioni:
È un elenco di momenti impeditivi che incidono consistentemente sulla capacità performativa (e sulla funzionalità in senso lato dell’applicativo) e che connotano la presenza di carenze del sistema hardware, delle infrastrutture, piuttosto che di disfunzioni o blocchi del software APP, che nella sua modalità evolutiva, contempla in corso la risoluzione già avviata delle inadeguatezze sue proprie, di software (strettamente tali sono quelle sub 1, 2,3 e 4).
5. La somministrazione agli Uffici Giudiziari del prodotto. Il supporto fornito dal MdG e quello fornito da CSM-STO-RID-MagRif
In vista dell’avvio sperimentale e della successiva apertura a tutti gli utenti, la DGSIA ha progettato un articolato percorso di supporto agli utenti per l’utilizzo delle funzionalità previste dall’applicativo, da ottobre 2023 a giugno 2024, mediante sessioni formative e webinar, materiale formativo, video-pillole, FaQ, supporto dedicato di primo livello, tramite chat su piattaforma Teams, supporto da remoto prenotabile mediante booking integrato con Teams, presidio on site in distretti da parte di operatori dedicati ad integrazione del supporto da remoto.
Deve sottolinearsi come in questo contesto di primo piano sia il ruolo degli organi della Innovazione e i compiti a questi demandati dalla Circolare CSM del 6 novembre 2019 su Rid e MagRif, di interagire efficacemente sulle criticità e di trasferire il bagaglio esperienziale accumulato, compito fondamentale per l'efficientamento degli applicativi in generale e di APP in particolare. Il ruolo dei RID in base all'articolo 5 della Circolare Rid/Magrif si sviluppa sia in senso verticale, attraverso l’attività di informazione e formazione a cascata – tramite il collegamento RID/MAGRIF/colleghi dell’U.G. – sia in linea orizzontale mediante la collaborazione con i Dirigenti degli UU.GG. del Distretto, con la STO e con la VII Commissione del CSM. Sotto il profilo informativo, essi sono chiamati a diffondere la conoscenza dell'applicativo, spiegandone le funzioni principali e sollecitandone l'utilizzo e deputati a convogliare le informazioni sulle esperienze degli utenti e sulle criticità riscontrate, per poi trasmetterle agli organi di assistenza tecnica per invocare/guidare gli interventi correttivi ed evolutivi. Questi attori, attraverso un processo di feedback bidirezionale - essenziale per identificare e segnalare le disfunzioni tecniche e operative, contribuendo così all'evoluzione dell'applicativo- e di collaborazione con diverse entità istituzionali, possono e devono contribuire significativamente all'evoluzione e all'efficacia dell'applicativo, in linea con gli obiettivi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). La rete dei RID, strutturata e rafforzata in concomitanza con l'adozione del PNRR, anche mediante l'utilizzo di strumenti di comunicazione come la mailing list nazionale dei RID/magrif istituita dal CSM e la creazione di TEAM dedicati alla sperimentazione dell'APP, faciliterebbe senza dubbio lo scambio di informazioni e esperienze. Sarebbe anche possibile progettare un modello piramidale del tipo train of trainers, sfruttando un meccanismo di trasferimento di informazioni e formazioni, da ciascuno dei Rid esperti a un gruppo di colleghi, che a propria volta potrebbe diventare formatore di altro gruppo, in modo da allargare la piattaforma della formazione, così che il circuito di conoscenze non si arresti. Così come si potrebbe utilizzare il network Cosmag-RID per condividere le best practices messe in campo dai vari UDI per l’efficientamento dell’applicativo.
[1] CEPEJ Gudelines on electronic court filing and digitalization of courts, 8-9.12.20221 37 th penary Meeting of Cepej
[2] Cfr Dedicated legislation, in Guidelines Consiglio d’Europa on digitalisation cit.
[3] Cfr Governance Strategy point 11 in Guidelines Consiglio d’Europa on digitalisation cit.
[4] Dedicated legislation point 6 Council of Europe guidelines on digitalization : number 3 of 2022-2025 CEPEJ Action Plan: All justice professionals contribute to the same public service, that of justice at the service of the user;they must therefore have easy-to-use, compatible, and efficient communication tools.
I
“Perciò eleggiamo la Sicilia a nostra diletta fra le terre e la scegliemmo a residenza della nostra dimora, perché noi, cui irradia lo splendore del titolo di Cesare, non ci teniamo meno gloriosi di chiamarci uomo d’Apulia; e ci sentiamo, per dir così, pellegrini fuori della nostra casa, quando, chiamati ovunque nel mare tempestoso dell’Impero, veleggiamo lontano dalle corti e dai porti di Sicilia… Sempre trovammo unanimi i nostri coi vostri desideri, unanime sempre il vostro col nostro volere”.
Questo disse Federico II della Sicilia. La Sicilia era stata sempre la terra agognata dagli imperatori tedeschi, il paradiso sognato da tutti i Germani. Ciò che non era stato ottenuto con le guerre, un imperatore tedesco, Enrico VI, padre di Federico, lo aveva ottenuto con un matrimonio, quello con la normanna Costanza d’Altavilla. La terra che per Goethe era “la chiave di tutto” era, con le Puglie, la terra promessa di Federico II, che, quando ebbe visto la Sicilia di là dal mare disse, con la sua inclinazione al motto blasfemo, che Jehova certo non aveva conosciuto la Sicilia, la Puglia e la Terra Laboris, sennò non avrebbe avuto parole così alte di elogio per la terra promessa degli ebrei”.
Forse nessun siciliano amò la Sicilia come la amò il grande imperatore normanno-svevo. La Sicilia, che doveva intendersi per lui, politicamente, tutta l’Italia meridionale, comprese la Puglia, la Calabria e la Basilicata, era la terra promessa, i siciliani erano il suo popolo eletto, col quale si sentiva tutt’uno. Federico amava i siciliani come un padre ama i suoi figli, lo splendore della civiltà di Sicilia irradiava luce vivissima sul tempo e sulla storia. Come il Dio di Israele si era scelto un popolo nella moltitudine dei popoli così lui, l’Imperatore del Sacro Romano Impero, il Re dei re, aveva scelto come suo popolo eletto il popolo di Sicilia. Come Napoleone diceva di avere solo un’amante, la Francia, come Hitler diceva che era sposato con la Germania, così Federico II diceva di avere solo una passione, quella che lui chiamava “la pupilla dei miei occhi”, la Sicilia, “la terra che supera ogni dolcezza terrena”, “porto nel mare tempestoso, giardino di delizie nella foresta selvaggia”, che egli cercava sempre “colmo di nostalgia”. La Sicilia. Un amore sconfinato. Soprattutto perché vi visse un’infanzia felice. Nonostante le lotte accanite fra i suoi reggenti, nonostante alcuni anni di stenti, egli visse un’infanzia meravigliosa in Sicilia. Lo nutrirono le famiglie palermitane, a turno, secondo le loro possibilità. La Sicilia lo amava. A nove anni vagava solitario per i vicoli del mercato e i giardini di Palermo, sotto il monte Pellegrino, fra genti e popoli di tutte le razze e religioni, fra califfi e sultani, fra imam mussulmani e preti cristiani, e maestri ebrei, fra moschee e sinagoghe e cattedrali normanne, tra mosaici d’oro bizantini e colonne greche, e il nome di Allah inciso in ogni angolo della capitale. Come poteva fare crociate contro l’Oriente? Fra parchi popolati di animali esotici e castelli normanni, all’ombra degli ulivi o rinfrescato da fontane zampillanti che incantavano i poeti arabi, nelle piazze e nei mercati affollati dalla più varia e bella umanità, in mezzo a una babele di lingue che imparai ben presto, visse un’infanzia meravigliosa e coltivò un sogno diverso da quello di tutti gli altri figli di re: il sogno dello Stato universale. Un’educazione di strada ma meravigliosa. Federico non fu educato da preti dotti o nel silenzio di un convento, ma dal popolo. Arabi furono i suoi primi precettori, araba fu la sua prima lingua che egli sentì e parlò arabe le prime favole che ascoltò, arabo il mondo fantastico in cui visse nella sua prima infanzia, fiabe in cui parlavano cose e animali. Per il resto, egli fu il prodotto non di un maestro o di una scuola, ma della vita che lo costrinse a vivere nella strada. Suoi maestri furono le vie, le piazze, i mercati, le chiese e le moschee di Palermo, la cultura e la conoscenza del mondo. Oh, i giardini palermitani! Che mondo fantastico, cosmopolita, eclettico, fascinoso! Nel quale incontrava intellettuali e medici arabi, filosofi, astronomi, astrologi, scienziati. Lo affascinava non la religione ma il pensiero dell’Islam. Nel suo vagabondare trovò il senso della vita. Nel suo vagabondare fortificò anche il suo corpo. Si esercitò in tutte le attività diventando esperto e abile nell’uso delle armi, nell’esercizio dell’arco e dell’equitazione, nella scherma, nel maneggio, nell’amore per i cavalli e nella passione per la caccia. Appena dodicenne, faceva tutto questo sotto la memoria della storia di Roma e col sogno di un mondo nuovo. Sì, il più grande dei siciliani, l’unico siciliano che ebbe un sogno voleva creare l’uomo nuovo, e la Sicilia era il luogo perfetto per questo progetto, luogo d’incontro di mille culture e di mille civiltà, di grandi popoli. La Sicilia era il luogo adatto per creare l’uomo nuovo. Che sogno! Un grande impero internazionale, una nuova società, l’uomo nuovo. La Sicilia perse la sua grande occasione: dopo di me, il vuoto. La Spagna, l’arretratezza, l’inquisizione. Da qui doveva partire la fondazione dell’uomo nuovo. L’uomo nuovo: prodotto di razze e di culture, altro che razzismo! Non c’è solo il razzismo, non c’è solo Hitler, tra i Tedeschi. In quel tempo, forse solo Dante comprese la sua grandezza. Tutta la Divina Commedia è percorsa dalla storia del grande imperatore normanno-svevo, Federico II, Pier della Vigna, Manfredi, Costanza d’Altavilla, la Divina Commedia è un’apoteosi della dinastia sveva. Dante mette Manfredi, il grande figlio naturale di Federico II, nel Purgatorio, dunque in grazia di Dio, è il re “biondo, bello e di gentile aspetto”. E sua madre Costanza è “la gran Costanza”, l’”imperadrice”, e suo padre Enrico VI è il “secondo vento di Soave”, e lui è “l’ultima possanza”.
Quest’è la luce de la gran Costanza
che del secondo vento di Soave
generò ‘l terzo e l’ultima possanza.
Dante non poteva non mettere all’inferno lo Stupor Mundi, ma aveva esaltato il grande imperatore svevo anche nel Convivio e nel De vulgari eloquentia. Federico II è stato il più grande dei siciliani. Anzi, il più grande dei tedeschi. Anzi: il più grande degli europei. Perché Federico II ha creato uno Stato, ma soprattutto ha creato un popolo. Ha dato orgoglio e fierezza a una terra senza nome, unità di lingua, di fede, di storia, di diritto.
II
Gli arabi definirono Palermo la più superba metropoli del mondo. Palermo era una città meravigliosa al tempo di Federico II, con palazzi sontuosi e giardini ameni e profumati. Era la città delle Mille e una notte, con le sue cinquecento moschee e i suoi trecento minareti, più bella di Cordova e di tutte le altre città dell’Islam. Tutti amavano la Sicilia. Anche gli avi normanni di Federico II – che rispettarono comunque tutti i popoli - amarono disperatamente la Sicilia, non solo gli arabi e Ibn Hamdis.
Federico dunque amò disperatamente due terre, la Sicilia e le Puglie. La Sicilia era la sua terra promessa! La terra a cui si era affidato, a cui si era abbandonato, con cui era cresciuto. Come Napoleone – lo abbiamo detto - aveva una sola amante, la Francia, così lui ebbe una sola compagna: la Sicilia. Lui che ebbe ascendenti svevi, normanni, sassoni, francesi, figli in tutta Europa, forse venti, da altrettante donne, mogli giovani e anziane, amanti, e anche il figlio suo prediletto, Manfredi, dall’amatissima Bianca Lancia, lui ebbe un solo vero amore, il suo amore più grande, la Sicilia. Federico II scrisse poesie e parole d’amore solo per lei – “oh, pupilla dei suoi occhi è il suo regno del Sud, l’amabilità della sua terra supera ogni dolcezza terrena, porto nel mare tempestoso, giardino di delizie nella foresta selvaggia, che io bramo e cerco, colmo di nostalgia, quando sono sbattuto nel mare dell’impero”.
Federico II mise ordine in una terra preda dell’anarchia e del disordine - forse fu l’unica volta nella sua storia. Nella piccola Sicilia cozzavano fra di loro tutte le forze e il fior fiore delle potenze del tempo, scorrazzavano nei campi di Puglia e di Sicilia come forze primigenie devastanti e incontrollate tedeschi e francesi, siciliani e pugliesi, genovesi e pisani, saraceni, italici, papali, perfino spagnoli. Tutti volevano profittare della ricchezza della Sicilia a spese di un re infante. Impadronirsi del re, la parola d’ordine. Agnus inter lupos, passò di mano in mano fin quando l’età e il senno non li vinse. La Sicilia era il sogno dei Germani. Federico II ebbe nella testa solo la Sicilia, non la Germania: in questo, la politica del più grande papa del Medioevo, Innocenzo III, di tenere separate le due corone di Germania e di Sicilia per molto tempo, fu anche il suo obiettivo. Dal tempo del visigoto Alarico, il regno di Sicilia era per i tedeschi una terra da favola, un paradiso da conquistare. Tutti gli imperatori tedeschi cercarono di conquistarla, soprattutto gli Staufen, fino all’ultimo Corradino. Solo il nonno di Federico II, il Barbarossa, ci riuscì, facendo sposare suo padre Enrico VI con una normanna, Costanza d’Altavilla. La Sicilia era il lontano paese delle meraviglie, la terra dei Greci e dei Romani, della poesia, dell’arte, della cultura. La Sicilia era Taormina, la terra di Dedalo, era l’Etna, il mito di Vulcano, la leggenda di Sant’Agata, era Girgenti l’araba e la greca, Siracusa, Balaarm dei giardini profumati di aranci e limoni, la terra delle palme e dei datteri. E poi Napoli e le Puglie… La Sicilia era l’Eldorado dei sultani d’Oriente. Quando il padre di Federico II, Enrico VI, prese possesso della Sicilia, giunse al castello imperiale di Trifels, in Germania, una carovana di centocinquanta muli carichi d’oro, sete, gemme e oggetti preziosi.
I tedeschi amavano la Sicilia ma la Sicilia non amava i tedeschi. Perciò Federico fece di tutto per farsi amare dai siciliani. La Sicilia amava Costanza d’Altavilla e i normanni ma non i tedeschi. Anche la madre di Federico II, Costanza d’Altavilla, figlia del normanno Ruggero II re di Sicilia, odiava i tedeschi, di cui conosceva la violenza. Alla morte di suo padre, lei voleva che Federico fosse solo il figlio di Costanza d’Altavilla, regina di Sicilia. Certo, Federico non voleva essere solo tedesco, intendeva creare una monarchia universalistica fondata non sulla volontà di dominio di una razza sulle altre, come era nelle corde di suo padre Enrico VI, ma sulla collaborazione dei popoli, sulla pace e sull’amore. Suo padre, anche se per pochi anni, ebbe in mano l’intera Europa. Tutti gli Stati d’Europa erano suoi vassalli. Dalla Danimarca alla Borgogna, alla Castiglia. L’Italia tutta era assoggettata, trampolino di lancio per la conquista dell’intero bacino del Mediterraneo e per la restaurazione dell’Impero Romano dei Cesari. Tutto l’Oriente era suo tributario, i mussulmani, tutti i sultani e principi e re pagavano tributi. Enrico VI in pochi anni aveva messo in ginocchio il mondo intero. Ma lui voleva creare un impero universalistico con una politica aggressiva e violenta, dura, di una durezza però senza prospettiva futura. Il suo era un Impero fragile, non si poteva governare sempre col terrore.
La nascita di Federico II fu anche la fortuna di Enrico VI. Il potere di Enrico VI era precario, mancava di unità. Lui ne era consapevole: troppe etnie, troppi ordinamenti nei territori dell’impero: la Germania era una monarchia elettiva, la Sicilia una monarchia ereditaria. Troppi cani sciolti tra i principi e duchi e feudatari. Concesse l’ereditarietà dei patrimoni ai Principi tedeschi e la libertà di scegliersi i successori ai Vescovi per avere un impero più forte. La nascita di Federico II fu benedetta: egli avrebbe continuato il suo progetto di collocare il Mezzogiorno d’Italia al centro del suo Impero e di fare della Sicilia un dominio personale.
Ma Federico II intendeva agire su altre basi, con altri metodi. Egli aveva sangue romano-germanico nelle vene - svevo-burgundo dal lato paterno, normanno-bassolorenese da quello materno. Questo già lo predisponeva a una universalità di spirito, in una capitale e in una terra dove si fondevano tutte le civiltà del mondo. Fece suoi lo spirito, le lingue, i riti, i costumi, l’umanità di infiniti mondi. Solo dalla Sicilia sarebbe potuto nascere un nuovo mondo.
Per questo, in seguito, storici e non solo storici considerarono Federico II il più grande degli europei. Perché diede il diritto. Dopo Giustiniano e il suo Corpus Iuris, realizzò la più grande - e unica - codificazione dell’epoca, che riscosse l’ammirazione del mondo intero. I suoi modelli furono Cesare, Augusto, Giustiniano. Unificò le leggi siciliane, poi emanò le Costituzioni di Melfi, che ebbero un’influenza enorme sulla formazione del diritto degli Stati assoluti d’Europa.
Il mondo, l’Europa, l’Italia, e al centro la Sicilia: era un sogno. Ma era un sogno che, secondo alcuni storici, si poteva realizzare. L’uomo che ha dato più lustro alla Sicilia, al Meridione d’Italia, all’Italia, all’Europa, l’uomo nuovo, il primo imperatore moderno, fu il primo che voleva unificare l’Italia. Sia sul piano legislativo che amministrativo, politico, e soprattutto sul piano linguistico, letterario, culturale. Forse era anche l’unico capace di poterlo fare, per intelligenza e energia; per genialità e intuito. L’Italia aveva tutte le risorse per diventare il più grande, il più cosmopolita Stato del mondo. Il più grande Stato del Medioevo. Il perno attorno al quale si sarebbe formata l’Europa Unita. Forse Federico era un precursore, aveva anticipato i tempi."
III
Certo, Federico era anche un uomo del Medioevo. Ma fu anche un titano, in un tempo di profondo cambiamento, dibattuto fra stato laico e integralismo cattolico, fra dogmatismo ed eresie e libero pensiero, fra superstizione e scienza nascente. Fu medievale e moderno. Medievale perché viveva nel tempo del mito dell’Impero e del potere universale che si scontrava col Papato, moderno perché aveva compreso che il futuro dell’uomo e della storia si sarebbe potuto realizzare con l’integrazione delle culture e delle razze, delle religioni e delle ideologie, attraverso l’universalità del sapere.
Un tedesco strano, straordinario. Che parlava nove lingue. Tutte meglio del tedesco. Che nella Magna Curia fondò la Scuola poetica siciliana, cui Dante riconobbe il primato nel poetare in lingua volgare e nella nascita del linguaggio poetico e letterario d’Italia. La letteratura italiana non sarebbe nata senza Federico II. Certamente, al centro del suo impero laico, al centro del mondo, era la Sicilia. Fu un’occasione persa, anche a causa dei comuni del Nord. I lombardi erano un grave ostacolo, non solo alla monarchia universale, ma anche alla nascita dell’Europa, dell’Italia, della stessa Germania.
Innocenzo IV - ma anche gli altri papi - ragionava in termini piccini. L’accerchiamento dei domini pontifici da parte dell’imperatore. I papi, secondo Federico, non capivano che i comuni lombardi erano contro la loro stessa pretesa di essere sovrani universali. Crociate contro l’Imperatore, scomuniche, non comprese nemmeno dagli stessi cristiani. Federico II combatteva contro il papa, contro i comuni, contro il suo stesso sangue, i tedeschi. Forse per questo era destinato alla sconfitta.
L’uomo che fondò la prima monarchia assoluta d’Occidente, una monarchia assoluta e illuminata, con cinquecento anni di anticipo; l’uomo che fu l’ultimo tedesco fondatore di Stati su suolo italiano: per la prima volta nella storia, tutti, l’Occidente cristiano e l’oriente musulmano, guardavano a quest’uomo come all’imperatore equilibrio del mondo. Egli fu l’ultimo grande imperatore, dopo di lui il nulla: finì l’ultimo sogno di una monarchia universale, e venne il tempo delle Nazioni e dei particolarismi, e con i particolarismi fu stroncato un sogno, il sogno di un’Europa unita, con i particolarismi, accadde quel che accade oggi, il mondo che va verso la rovina.
È evidente che un uomo come Federico II era anche odiato. Ci fu chi credette che egli fosse come il nuovo Messia, il nuovo San Pietro, il secondo Mosè, chi vide lui come il nuovo Messia, il puervirgiliano, il nuovo Augusto riformatore del mondo.
Ma ci fu anche chi pensava che fosse un convertito all’Islam. Per i suoi avversari era l’Anticristo, come si diceva allora, perché si accolse la leggenda che egli fosse nato dal rapporto peccaminoso di una smonacata di cinquant’anni con un frate, il suo cavalier servente, Fra Pacifico, prima poeta, poi coautore del Cantico di frate sole, compagno di Francesco d’Assisi. O che fosse, addirittura, figlio di un macellaio.
Lasciando perdere le fantasie e le dicerie dei guelfi, Costanza d’Altavilla diede alla luce Federico a Jesi in una tenda, pubblicamente, mostrando il suo seno ancora turgido di trentanovenne, anche se ebbe una sola gravidanza dopo nove anni.
Forse, fu anche per quelle dicerie che Federico II fu scomunicato più volte.
Ne collezionò tre, di scomuniche, il record per un imperatore. Ma Federico se ne impipava delle scomuniche, sapeva che l’Europa moderna e la collaborazione fra i popoli non potevano nascere dal particolarismo egoistico della Lega Lombarda e del Papato. Che sarebbero stati travolti da un’altra calamità, ben più perniciosa, la nascita delle grandi monarchie nazionali. Partiva anche scomunicato per le crociate, ma sapeva che il tempo delle crociate era finito. Per questo cercava accordi diplomatici coi sultani orientali e col Saladino. Egli stesso si incoronò Re di Gerusalemme, avendone diritto: del resto, non poteva combattere popoli che facevano parte del suo stesso Regno di Sicilia. Durante le sue assenze per le crociate, il papa e la Lega Lombarda, e anche i nobili tedeschi, ne approfittavano e devastavano il suo regno. Nonostante le sue concessioni e la restituzione – a questi ultimi - dei beni sottratti a monasteri e chiese.
Federico II creò un grande Stato. Con le Costituzioni di Melfi, una delle più grandi opere nella storia del diritto, con l’aiuto del suo fidato notaio Pier delle Vigne, creò lo Stato centralizzato, burocratico, moderno, con funzionari pagati dallo Stato, limitando il potere e i privilegi dei nobili e dei prelati, e migliorando la condizione sociale delle donne. Ridusse il potere dei feudatari locali, favorì la scuola medica salernitana. Con la Confoederatio cum principibus ecclesiasticis, dovette concedere molto ai principi-vescovi, una forte autonomia economica e legislativa, ottenendo tuttavia un migliore controllo nella parte continentale dell’Impero. Abolì leggi feudali come l’ordalia, diviso in province l’impero per amministrare la giustizia, e fu il primo sovrano a introdurre interventi diretti statali nei processi economici.
Introdusse addirittura il monopolio del sale, creando il primo monopolio di Stato del Medioevo, affidandone direttamente la gestione alla Corona. I re normanni, invece, si erano limitati a mettere una tassa sul trasporto del sale. E in politica estera, lo ripetiamo, Federico II non guardava all’Oriente come al nemico dell’Occidente. Il Sultano d’Egitto era più vicino alla Sicilia della Germania, e la Sicilia doveva diventare centro di irradiazione della civiltà dell’Occidente e di unione tra i popoli.
Fu un grande legislatore. Fondò università, a Napoli creò la prima università statale e laica della storia dell’Occidente. Napoli divenne un grande centro intellettuale e culturale. Favorì la scienza e l’economia. L’algebra, la matematica, la filosofia, l’astrologia. La medicina. Con le Costituzioni di Melfi e l’attività legislativa, riorganizzò lo Stato, costruì città e castelli, edificò, innalzò monumenti, dimore sontuose, palazzi, abbazie. Fu un grande costruttore. Favorì il gotico nell’architettura con artisti e monaci cistercensi.
Non ci fu scienza o arte che non ricevette il suo aiuto. Fu un mecenate eclettico, immenso. Egli stesso fu poeta e scrittore, scienziato, scrisse un trattato di falconeria, De arte venandi cum avibus, L’arte della caccia con gli uccelli, che fece epoca e sensazione, nel tempo in cui la falconeria – che egli amò quasi quanto la Sicilia - non era un passatempo ma era una scienza.
Costruì a Palermo un meraviglioso zoo con splendidi animali esotici. Che cosa si vuole di più da un sovrano? Vivevano alla sua corte i più grandi uomini di cultura di tutti i tempi, matematici, filosofi, giuristi, letterati. Di tutti i popoli e di tutte le razze, greci, ebrei, arabi, normanni, svevi, francesi, catalani, castigliani. Furono tradotti i più grandi testi scientifici, culturali, filosofici, greci, arabi, ebraici.
Fu il fondatore della letteratura italiana. Creò, infatti, la più grande scuola poetica dell’epoca, la Scuola siciliana, che, ingentilendo il volgare siculo-pugliese con il più evoluto provenzale, influenzò fortemente, con la sua poetica, le tematiche cortesi e i suoi moduli espressivi, la Scuola toscana, e quindi Dante. Anch’egli avrebbe potuto avere un futuro di poeta – scrisse sonetti e canzoni – se non ne avesse avuto un altro, da imperatore. I suoi funzionari erano intellettuali di prim’ordine, a tutto tondo. Che ebbero, come lui, una sterminata sete di conoscenza.
IV
Federico II si muoveva come un sovrano universale, con al seguito baroni, soldati, dignitari, voleva apparire come una figura maestosa, imperiale. Ostentava potere e bellezza, voleva abbagliare, più di un papa, fra i contadini nei borghi meridionali in un tempo in cui l’uomo era nulla. Aveva con sé al seguito letterati, notai, ministri, burocrati, scrivani, filosofi, matematici, musici, ma anche ballerine di straordinaria bellezza, odalische, eunuchi, saltimbanchi, poeti, anche animali esotici, cammelli, cani da caccia, animali feroci, anche uomini in cerca di fortuna, perché no?, e avventurieri, guerrieri saraceni. Tutti, vedendolo, lo ammiravano, restavano a bocca aperta, i papi, gli altri re, rimanevano stupefatti da tanto splendore, intimoriti, sconcertati. Girava per le strade d’Europa con una corte sontuosa, era uno spettacolo inenarrabile che destava stupore, sfilava un lunghissimo corteo di cavalli saraceni purosangue, e al centro del corteo c’era lui, il divino, l’uomo eccezionale, l’uomo nuovo. In una carrozza, col suo eccezionale portamento, o in sella al suo splendido cavallo moro preferito, Dragone, vestito da cacciatore.
Federico VII Hohenstaufen di Svevia, Federico I di Sicilia, Federico II Imperatore del Sacro Romano Impero, re di Borgogna, re di Gerusalemme, re d'Italia e re di Germania, e soprattutto Re di Sicilia, duca di Puglia, principe di Capua, Stupor mundi, puer Apuliae; nipote di Federico I Barbarossa di Svevia, figlio di Enrico VI imperatore e di Costanza d’Altavilla regina di Sicilia, figlia di Ruggero II il Normanno: visse un curioso tempo di morte.
Fatale gli fu un avvelenamento di un traditore, i traditori si annidano dappertutto. Si avverò la profezia dell’astrologo di corte che sarebbe morto sub flore, ed egli, che evitò sempre Firenze, morì nella domus di Fiorentino di Puglia. Morì assolto dai suoi peccati e avvolto nel saio grigio dei Cistercensi. Per sua volontà le sue esequie dovevano avvenire senza pompa, ma Manfredi non fece mancare onori e gloria alle sue spoglie. Lasciò il cuore in Puglia e l’anima in Sicilia. La sua salma fu tumulata in Palermo da lui amata più di ogni cosa, nel sarcofago di porfido rosso dei suoi avi, accanto alla sua gloriosa ascendenza. Le genti videro in lui il Pantocratore, meraviglia del mondo. L’invitto, il sommo dei principi dell’orbe. L’ultimo imperatore dei Romani, che salì alle stelle e fu deificato. Il Signore della fine, l’uomo apparso alla fine del tempo nello splendore del fuoco. Videro in lui la forza attesa in eterno, il Messia, il sovrano del regno apollineo del sole vaticinato dalle Sibille. Tramontato è il sole del mondo che splende sopra le genti, disse suo figlio Manfredi; tramontato il sole della giustizia, colui che dava la pace. Con lui si chiuse un’epoca, l’Impero romano. Il Papa lo diceva sempre che l’Impero era finito e l’imperatore morto. Ignorava, però, di essere morto anche lui. Molti non credettero alla sua morte, lo vedevano nel cielo o in mare, a capo di migliaia di armati.
I tedeschi non lo amarono. I tedeschi videro in lui solo la dissoluzione nel nulla dell’Impero, l’immagine terribile dell’Anticristo sopra le nuvole, il fustigatore della Chiesa corrotta. I tedeschi gli attribuirono saggezza, maestà, nobiltà, splendore, ma, in realtà, non lo amarono. Sarebbe tornato per loro come restauratore dell’Impero romano della nazione germanica. Ma, in realtà, il popolo tedesco non lo comprese, né seppe realizzare le sue aspirazioni. Ora le sue ossa giacciono in un sepolcro di porfido rosso scuro, secondo la tradizione dei re normanno-svevi, accanto a sua madre Costanza d’Altavilla, a suo padre Enrico VI e a suo nonno Ruggero II. Insieme con la sua prima moglie Costanza II d’Aragona, con duchi, regine, re e imperatori. Hanno aperto la sua tomba due volte, per scoprire solo il mistero di una donna sconosciuta accanto a lui. Una delle sue quattro mogli accompagna la sua eternità. Non occorre cercare ancora misteri nella sua tomba.
Federico II aveva statura media, equilibrata, volto gentile, nobile. Era biondo, bello e ben fatto, con fronte serena e occhi brillanti, viso espressivo, animo ardente e ingegno pronto. Aveva portamento regale, maestoso, liberale, era amabile, pieno di grazia e di nobili aspirazioni. Federico II leggeva, scriveva, cantava e componeva melodie. Solamente questo potrebbero trovare dentro lo spesso marmo di porfido rosso del suo sarcofago.
Dissero pure che era sanguigno, insofferente, talvolta collerico, con atteggiamenti a volte triviali, retaggio dei rozzi contatti e delle non raffinate amicizie dell’infanzia palermitana. Dissero tante altre cose. Che fu l’Anticristo, l’Apocalisse. No. Federico Ruggero Costantino II fu lo Stupor Mundi, il più grande sovrano illuminato, che dedicò la sua vita all’unificazione dei popoli e delle culture, attraverso la promozione dell’arte e delle lettere, nella terra che amò più di ogni altra cosa, la Sicilia. Egli fu il rinascimentale. Il moderno. Egli fu l’uomo nuovo, l’uomo totale. L’uomo che ebbe un sogno. Eppure dissero che non volle dare una patria al popolo tedesco. Che non volle fondare uno Stato tedesco. Come forse ancora credono le algide orde di turisti tedeschi che ogni giorno passano indifferenti davanti alla sua tomba, guardano distratti, e in silenzio se ne vanno.
Non è la prima volta che l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, di cui sono titolare, sceglie di approfondire il tema della giustizia riparativa. Lo fa sulla scorta di un mandato legislativo specifico: l’art. 3, co. 1, lett. o) della legge 112 del 2011, istitutiva di questa Autorità, chiede di «diffondere la cultura della mediazione e degli altri istituti atti a prevenire o risolvere con accordi conflitti che coinvolgano persone di minore età». Il primo lavoro, che pure ha trovato uno spazio di presentazione su questa rivista, era dedicato agli aspetti procedurali, alle questioni riguardanti l’innesto nel sistema penale minorile.
Questa nuova indagine, che ci ha visto impegnati con il Ministero della giustizia e l’Istituto degli innocenti negli ultimi due anni, tenta di rispondere a domande diverse: a cosa serve la giustizia riparativa? Qual è il suo senso e significato? E in che cosa si sostanzia, in concreto? Ancora, chi sono oggi i soggetti che erogano in Italia servizi in questo campo?
Si tratta di quesiti che assumono una particolare rilevanza alla luce della recentissima riforma introdotta dalla già ministra Marta Cartabia, che con il D. Lgs. 150 del 2022 ha reso la giustizia riparativa un paradigma con il quale tutti gli operatori del diritto, e non, sono chiamati ora a confrontarsi.
L’Indagine nazionale, di natura qualitativa, è composta in tre parti: la prima raccoglie, con un andamento narrativo e corale, le testimonianze di ragazze e ragazzi autori e vittime di reato, di genitori e di operatori della giustizia minorile che raccontano sulla base della propria esperienza cosa ha portato nella loro vita la partecipazione a un programma di giustizia riparativa.
La seconda parte si incentra sulla rilevazione, sempre tramite gli strumenti propri della ricerca qualitativa, quali focus group e interviste, dei programmi di giustizia riparativa in uso oggi in Italia, con particolare attenzione a quelli diversi dalla mediazione penale.
Infine, la terza parte dell’indagine offre una panoramica sulla natura e le caratteristiche degli enti – pubblici e del privato sociale – che offrono servizi di giustizia riparativa sul suolo nazionale.
La pubblicazione – disponibile anche in versione digitale per favorirne una massima diffusione – ospita anche in appendice normativa la nuova disciplina organica della giustizia riparativa.
Accanto all’Indagine, sulla scorta delle testimonianze raccolte in particolare dalle ragazze e dai ragazzi, è stato altresì costruito il video: “Giustizia riparativa. Voci di un incontro”. La giustizia riparativa, infatti, la si può comprendere, prendere con sé, non tanto attraverso discorsi e presentazioni astratte, ma piuttosto attraverso le parole vive di chi l’ha attraversata. Per ragioni di privacy, le voci e le immagini del video non corrispondono a quelle dei reali testimoni, ma ogni frammento, ogni racconto costituisce un prezioso lascito delle persone che generosamente hanno condiviso la propria esperienza.
L’augurio è che entrambi tali lavori facilitino, nelle istituzioni così come nella cittadinanza in genere, quel cambio di passo culturale che la riforma Cartabia ha anticipato sul piano normativo. Ma, soprattutto, che la giustizia – anche con il contributo della giustizia riparativa – possa sempre più assolvere alla sua più alta missione di ricostruzione di legami sociali infranti e di cura della comunità.
Qui il link all’Indagine: https://www.garanteinfanzia.org/sites/default/files/2023-10/giustizia-riparativa-indagine-2023.pdf.
Video prodotto nell’ambito dell’indagine, con le testimonianze di ragazze e ragazzi:
Sono particolarmente grato agli organizzatori del Convegno per avermi dato l’opportunità di partecipare a questo importante dibattito[1] nel quale viene data voce ai componenti del Consiglio nelle diverse consiliature.
Spesso ho sentito dire – ed a mia volta ho avvalorato tale tesi – che ciascun Consiglio fa storia a sé.
Questa espressione sintetizza un dato di fatto inconfutabile, nel senso che ciascuna consiliatura, già solo per gli eventi che deve affrontare, ed in disparte la variabilità della sua composizione, agisce secondo dinamiche proprie.
Un’altra espressione ricorrente sintetizza un convincimento diffuso: i protagonisti di una stagione ritengono di avere vissuto momenti epocali ed irripetibili.
Anche questo è vero, almeno in parte: considerato il ruolo dell’ordine giudiziario, le funzioni di tutela dell’autonomia e dell’indipendenza di esso attribuite al CSM, le molteplici scelte che l’organo di governo autonomo compie quotidianamente, è innegabile che ciascuna consiliatura incida profondamente sugli equilibri della magistratura e, spesso, anche sui rapporti tra questa e gli altri poteri dello Stato[2].
Nondimeno credo che la consiliatura 2006-2010, della quale ho fatto parte, davvero abbia vissuto un momento storico di particolarissimo rilievo.
È stato, quello, il Consiglio investito dalla riforma dell’ordinamento giudiziario, introdotta dalla l.d. n. 150 del 2005 ed attuata con il d.lgs. n. 160 del 2006, a sua volta profondamente modificato dalla l. n. 111 del 2007.
Con la riforma vennero, ad esempio, introdotte le valutazioni di professionalità e con esse modificato il precedente sistema di progressione in carriera.
La legge n. 111 è del 30 luglio 2007 ed a me era stata attribuita la presidenza della Quarta commissione, competente in materia, proprio in quel periodo.
Ho il vivo ricordo di una estate trascorsa ad esaminare la normativa primaria e ad immaginare quella secondaria da introdurre. Quest’ultima doveva, in ossequio alle prescrizioni di legge, essere adottata entro 90 giorni. Non adempiere avrebbe significato paralizzare la progressione in carriera – e quella economica – dei magistrati; occorreva al contempo “creare” una disciplina per l’inquadramento nelle nuove classi valutative dei magistrati che avevano conseguito i precedenti “gradi” (magistrato di tribunale, di appello e così via); infine, occorreva introdurre una disciplina transitoria non potendo procedersi contestualmente alla valutazione di migliaia di magistrati[3].
Sempre in quegli anni intervenne la legge con cui si impediva ai magistrati di prima nomina di essere destinati alle funzioni requirenti, con conseguente collasso degli organici degli uffici del pubblico ministero e torsione dell’intero sistema. Pochi cenni per illustrare la questione.
È noto che, stante il principio dell’inamovibilità dei magistrati, l’unico trasferimento di ufficio possibile (salvo i casi di patologia: incompatibilità parentale o funzionale, irrogazione di gravi sanzioni disciplinari; altre rare e peculiari ipotesi di ricollocamento in ruolo) è l’assegnazione della sede ai magistrati al termine del tirocinio.
Precluso l’unico serbatoio di ingresso per così dire coattivo e non essendo possibile impedire i trasferimenti in uscita, su domanda, vi furono casi nei quali in alcuni uffici di piccole dimensioni rimase un solo magistrato (ricordo per tutti Gela)[4].
Ciò posto, le novità che cambiarono più radicalmente l’assetto ordinamentale della magistratura furono quelle in tema di incarichi direttivi e semidirettivi.
Il nuovo ordinamento giudiziario introdusse due fondamentali novità: 1) la temporaneità degli incarichi direttivi e semidirettivi; 2) i criteri per il conferimento dei medesimi.
A quest’ultimo riguardo, il legislatore, in sintesi, previde, da un lato, un assoluto ridimensionamento del parametro dell’anzianità, trasformato da criterio di selezione avente carattere prioritario (e nella prassi spesso di per sé decisivo) a mero requisito di legittimazione alla partecipazione al concorso, dall’altro, la contestuale valorizzazione, quanto alla scelta selettiva, dei parametri delle attitudini e del merito.
Si trattava di riforme condivisibili, la prima delle quali, la temporaneità, del resto, invocata dalla magistratura da lungo tempo.
Difatti, già nel 2002, il Consiglio aveva adottato un parere sulla riforma, nel quale tra l’altro si rimarcava come “la temporaneità degli incarichi direttivi è antica rivendicazione della magistratura, già presente nel progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario elaborato dall’Associazione nazionale magistrati nel lontano 1958. In particolare, nella temporaneità dei compiti di direzione di uffici giudiziari è stato individuato lo strumento per contrastare il formarsi di centri di potere, per riaffermare concretamente la natura di “servizio” della funzione di direzione dell’ufficio giudiziario, per consentire l’avvicendamento non traumatico di dirigenti non rivelatisi pienamente all’altezza del compito e la piena utilizzazione di nuove energie. In sintesi: l’ufficio direttivo come “incarico” e non più come “status” o come posizione gerarchica stabilmente acquisita e resa potenzialmente immutabile dal riconoscimento al magistrato che è a capo di un ufficio della prerogativa dell’inamovibilità posta a garanzia del magistrato che esercita attività giudiziaria”.
Anche se con minore perentorietà, pure la seconda era auspicata ed invocata da molti settori della magistratura associata.
L’analisi della storia della mia consiliatura passa anche per la verifica della ricaduta di tale riforma.
Ebbene, la legge di riferimento[5] classificava gli uffici direttivi e semidirettivi, definiva gli indicatori dell’attitudine direttiva distinguendo i criteri attitudinali specifici in ragione delle diverse funzioni da conferire; infine, disciplinava i tramutamenti di funzione da giudicante a requirente e viceversa.
Si trattava di una normativa prima facie dettagliata e stringente, in grado quindi di contenere la discrezionalità dell’organo di governo autonomo, secondo l’evidente intenzione del legislatore: necessariamente, essa, tuttavia, affidava al Consiglio superiore della magistratura la specificazione di alcuni aspetti di assoluto rilievo, quali, ad esempio, gli indicatori per l’attitudine direttiva, peraltro da individuarsi d’intesa col Ministro della giustizia.
Il Consiglio, quindi, dovette in primo luogo, anche al riguardo, provvedere ad emanare una propria normativa secondaria. Si procedette per gradi: dapprima adattando le circolari consiliari previgenti ai princìpi dettati dalla riforma, successivamente smantellando il vecchio impianto e introducendo una normativa nuova e radicalmente diversa dalla precedente. Cito in proposito: una prima delibera del 21 novembre 2007, la risoluzione del 10 aprile 2008 in tema di individuazione degli indicatori di cui all’art. 11, comma 3, lett. D), d.lgs. n. 160 del 2006 (deliberazione assunta d’intesa con il Ministro della giustizia), poi la deliberazione del 30 aprile 2008 sul conferimento degli incarichi semidirettivi, settore fino a quel momento non modificato; ancora, la delibera del 24 luglio 2008 in tema di conferma per gli incarichi direttivi e semidirettivi, che costituiva l’altro aspetto di novità della riforma; la delibera del 4 febbraio 2010, con la quale veniva eliminato il sistema dei punteggi per il conferimento degli incarichi semidirettivi; infine, la delibera del 30 luglio 2010, di emanazione di un testo unico sulla dirigenza giudiziaria, significativamente adottata allo scadere della consiliatura della quale ho fatto parte, quale suggello conclusivo al percorso riformatore.
Quale l’effetto complessivo delle risoluzioni generali adottate e della concreta declinazione delle nuove regole nelle singole delibere di attribuzione di specifici incarichi? Indiscutibilmente, il radicale ridimensionamento del criterio dell’anzianità e la valorizzazione assoluta di quelli delle attitudini e del merito.
Quale fu la reazione della magistratura in un primo tempo? Direi la sofferta accettazione di questa vera e propria rivoluzione.
Ricordo, nella diversità delle reazioni individuali, una costante: quando un magistrato, risultato soccombente nella procedura comparativa, apprendeva della nomina di un collega più anziano nel ruolo, accettava la decisione come equa; quando, al contrario, un soccombente si vedeva “scavalcato” (questo il termine sovente utilizzato) da un prescelto più giovane, immediatamente si chiedeva in cosa avesse, a giudizio del Consiglio, demeritato.
Era questo un portato della sopravvivenza culturale del parametro dell’anzianità senza demerito, per decenni adottato dal Consiglio superiore della magistratura e scomparso con la riforma.
Tali reazioni, di sostanziale accettazione dell’operato del Consiglio, ben presto mutarono.
Questo per una ragione molto semplice: la temporaneità determinò un aumento delle procedure per il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi, anche per effetto dell’assenza di previsioni transitorie che interrompessero con gradualità gli incarichi ultraottennali in essere.
Tutto ciò si tradusse nel fatto che dal settembre 2007 al luglio 2009 vennero conferiti oltre 670 incarichi, numero grossomodo equivalente a quello degli interi conferimenti della consiliatura precedente (2002-2006).
Dal settembre 2009 al luglio 2010, furono conferiti altri 320 incarichi, per un totale di quasi mille incarichi attribuiti secondo le nuove regole.
Un numero così elevato di conferimenti comportò, fisiologicamente, l’impossibilità di utilizzare parametri valutativi sempre ineccepibili o, comunque, sempre percepibili dalla comunità dei magistrati come immutabili nella concreta applicazione. Tanto più, occorre dirlo, che, se errori nelle scelte concrete vi sono stati, essi vanno ascritti all’intero circuito del governo autonomo, sia centrale, sia periferico[6].
Il parametro dell’anzianità, che pure spesso aveva dato cattiva prova di sé (rivelandosi la scelta concreta operata, alla luce dei fatti, non la migliore; e davvero non vi è bisogno di citare i casi più evocativi, a tutti noti), aveva nondimeno il pregio di fondarsi su un dato certo (il famoso ruolo di anzianità in magistratura). I criteri delle attitudini e del merito, destinati a sostituirlo, invece, oltre ad essere in sé per qualche verso opinabili e comunque non immediatamente incontrovertibili come il primo, necessitavano di essere concretamente declinati in modo serio e rigoroso, ancorandoli a precisi dati fattuali.
A tanto non erano pronti, forse ancor più dell’organo di governo autonomo centrale, gli organi periferici, da decenni “abituati” alla redazione di pareri tanto generalmente elogiativi, quanto spesso disancorati da un’armonica e complessiva valutazione delle concrete esperienze lavorative. Ciò comportò che specie la nostra consiliatura si trovò a compiere scelte, in taluni specifici concorsi, tra candidati tutti valutati come eccezionali, al medesimo livello.
Di qui il risultato: in una comunità di diecimila persone, si provvide a nominare mille Capi con criteri che apparvero altamente discrezionali.
Il tempo concesso non mi consente di meglio esplicitare, dunque mi limito a descrivere la generale linea di tendenza.
Di fronte a questo fenomeno, percependo i primi scricchiolii del sistema, in punto di credibilità dell’organo destinato a tutelare l’autonomia e l’indipendenza dell’intera magistratura, ho pensato e detto (in quegli anni e, invero, anche successivamente) che avremmo dovuto adottare un criterio di discrezionalità “variabile”: per gli incarichi direttivi più è grande, importante e peculiare (in ragione, per esempio, della sua collocazione in un territorio affetto da pervasive forme di criminalità mafiosa) un ufficio, maggiore è la discrezionalità esercitabile alla stregua dei parametri delle attitudini e del merito; per gli incarichi semidirettivi, più è di modeste dimensioni un ufficio, minore deve essere il ricorso alla discrezionalità, al limite anche ricorrendo al parametro (ormai residuale) dell’anzianità.
Tutto ciò per una evidente ragione, che esplicito esemplificando e riferendomi alla mia esperienza dell’epoca, nella quale, come consigliere, avevo modo di ascoltare l’opinione di tanti colleghi: quando si trattava di scegliere il dirigente di una importante Procura distrettuale, era generalmente condiviso il fatto che il prescelto potesse-dovesse vantare una proficua esperienza in materia di criminalità organizzata, per ciò prevalendo sul candidato che tale esperienza avesse in grado minore, benché più anziano; quando, invece, si trattava di nominare un presidente di sezione che, di fatto, in ragione delle ridotte dimensioni dell’ufficio, fungeva sostanzialmente da presidente di un collegio, con limitati compiti organizzativi, ben più arduo era far comprendere ai colleghi come su una maggiore anzianità, spesso considerevole, avessero prevalso le doti organizzative, ritenute più spiccate, di un magistrato con minore anzianità.
E ancora una volta semplificando e scusandomi per il doverlo fare, se in un concorso x viene prescelto il decimo in ordine di ruolo, anche il (potenziale) decimo in un altro concorso nutre legittime aspirazioni e, dunque, prima di tutto, propone domanda o più domande per posti diversi.
Per questo, nella mia consiliatura, ci trovammo non solo a coprire mille posti ma, inoltre, a scrutinare centinaia di domande.
Sono queste le basi, a mio avviso, di un fenomeno iniziato da quella riforma e culminato, poco più di un decennio dopo, nella situazione descritta da un altro degli odierni relatori, il consigliere Cascini, in un drammatico plenum presieduto dal Capo dello Stato il 21 giugno 2019, nel quale tra l’altro fu convalidata l’elezione dei subentranti Giuseppe Marra e Ilaria Pepe. Disse Cascini: “nel 2006 è stata approvata una riforma dell’ordinamento giudiziario con la quale è stato eliminato il peso dell’anzianità nella scelta dei dirigenti, che ha implicato una pericolosa trasformazione del rapporto dei magistrati con la carriera … tale mutamento si è andato a saldare con la trasformazione dei metodi di raccolta del consenso accentuandone gli aspetti deteriori di cura degli interessi particolari”.
Molte altre concause vi sono, ovviamente, ma credo che quella descritta sia la causa prima della cd. degenerazione del correntismo.
Ne è derivata una generale perdita di credibilità - e di consenso, circa le concrete modalità del suo agire - dell’Istituzione.
Se, quando viene nominato un magistrato ad un incarico direttivo, tutti gli altri concorrenti dubitano della maggiore idoneità del prescelto e, al contempo, ascrivono al correntismo il torto che assumono subito, la credibilità dell’organo di governo autonomo è minata alle fondamenta.
Né la stessa può esser recuperata dai consiglieri pervenendo a scelte unanimemente condivise all’interno del Consiglio, poiché, come è stato da altri sottolineato, se tutte le componenti associative sono concordi su una opzione si potrà sostenere che l’accordo è frutto del deteriore correntismo; al contrario, se tale condivisione non si realizza, il risultato viene ascritto alle divisioni tra i gruppi, vissute a loro volta come contingenti scontri e spaccature tra componenti interessate soltanto a prevalere.
Quali rimedi?
Una riforma della composizione del Consiglio (pure da taluni invocata) che, ferma restando la necessaria maggioranza di togati, consenta di contenere il peso delle spinte deteriori del correntismo e, al contempo, salvaguardi le necessarie diversità culturali, è destinata, in definitiva, a risolversi in una ennesima riforma della legge elettorale e si è potuto constatare, ripetutamente, come nessun positivo esito abbiano dato le precedenti.
Deve, dunque, agirsi soprattutto sui criteri di attribuzione degli incarichi direttivi, che costituiscono il vero punto controverso dell’agire del Consiglio superiore della magistratura; quello, in altri termini, sottoposto a più aspre e generalizzate critiche.
Nell’impossibilità di esaminare in questa sede tutti i possibili rimedi, inclusi quelli strutturali, mi limito ad enunciare quello di più immediata applicazione: bisogna agire sui criteri e gli indicatori delle attitudini direttive.
Il discorso in questione mi consente di chiarire un possibile equivoco: l’avere sottolineato i mali derivati dalla riforma con la quale è stato ridimensionato il peso dell’anzianità non significa che io invochi un ritorno al passato.
Come è stato giustamente, da tempo e da più parti, evidenziato, in passato il profilo del buon dirigente era identificabile in quello del magistrato indipendente e capace professionalmente, con ciò riferendosi essenzialmente alla sua qualità di “bravo giurista”, estensore di impeccabili provvedimenti.
Quel modello, tuttavia, si era imposto in un’epoca connotata da modalità di lavoro meno complesse delle attuali, da una domanda di giustizia estremamente meno diffusa di quella odierna, con la conseguenza che era al tempo valida, mentre oggi non lo è più, almeno non sempre, l’equazione tra “buon magistrato” e “buon dirigente”, con conseguente necessario prevalere della maggiore esperienza professionale.
L’epoca attuale, invece, fa registrare una mutazione delle forme e delle modalità di gestione degli uffici giudiziari, i quali, anche in ragione delle loro accresciute dimensioni (conseguenti a varie riforme) risultano essere strutture complesse, necessitanti anche del ricorso a risorse tecnologiche evolute.
L’ottimizzazione e la gestione delle risorse, spesso insufficienti, impongono al dirigente il possesso di doti organizzative elevate, tali da consentire di rendere un effettivo servizio ai cittadini.
Occorre, dunque, che il Consiglio, individuato il modello di magistrato dirigente, si doti di regole chiare e funzionali allo scopo, e che esse siano applicate immancabilmente.
Naturalmente, ribadisco che è mia convinzione che tali regole possano esser diversamente declinate per i semidirettivi, avuto riguardo alla minore decisività delle doti manageriali richieste a questi ultimi[7].
Occorre, anche e soprattutto, che il circuito del governo autonomo decentrato, compia uno sforzo analogo in tema di individuazione, nei casi concreti, delle capacità che imprescindibilmente deve possedere un buon dirigente[8].
Occorre, infine, che gli amministrati, cioè tutti i magistrati, accettino l’idea che l’amministrazione della giurisdizione, come ogni attività amministrativa, è caratterizzata da un ineliminabile (per quante regole si possano dettare) margine di discrezionalità tecnica.
È comprensibile che taluni, nel complesso quadro descritto, possano ritenere che l’istituzione non ha sinora dato buona prova di sé e che tale circostanza non consente di nutrire speranza in un positivo cambiamento.
Sennonché, fermo restando che l’amministrazione della giustizia, chiunque la eserciti, non si sottrae ad un margine di necessaria discrezionalità, invocherei, a difesa del Consiglio, il concetto evocato da Winston Churchill a sostegno delle forme democratiche di governo: “è stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate fino ad ora”.
Ecco, coloro che, non senza qualche ragione, sottolineano difetti e limiti del Consiglio, dovrebbero por mente, come tutti noi, alle passate forme di governo della magistratura, quando i direttivi venivano nominati dal Ministro di grazia e giustizia e, in concreto, individuati da funzionari governativi.
(Intervento di Alfredo Pompeo Viola nel seminario La partecipazione di Alessandro Pizzorusso al CSM (1990-1994) e le successive " stagioni", Università di Pisa, 15 dicembre 2023.
Immagine: A classroom with children sitting at long tables and a teacher standing with a book in her hand, litografia di J.B. Sonde, Wellcome Collection, Londra).
[1] Il testo che segue è la versione estesa dell’intervento orale. Il compendio di note contiene una esplicazione delle riflessioni svolte nella sede convegnistica, che avrebbe appesantito l’esposizione.
[2] Il Consiglio, difatti, in ogni sua delibera, attua scelte di governo della magistratura, che per loro natura implicano valutazioni che determinano gli assetti dell’ordine giudiziario. Non è questa la sede per discutere funditus se ti tratti di valutazioni tecnico - discrezionali di natura meramente amministrativa, sia pure “alta” o se esse abbiano contenuto politico, ovviamente inteso il termine in senso lato. E’ tuttavia opportuno chiarire, a mero titolo esemplificativo, e senza fare ricorso al facile richiamo ai pareri sui provvedimenti normativi (potere pure previsto dalla legge n. 195 del 1958), che le decisioni in ordine alla c.d. mobilità orizzontale, nel caso in cui l’organico effettivo sia inferiore alla dotazione organica prevista dalla legge, hanno comunque un impatto considerevole sull’assetto degli uffici giudiziari: in questo senso, sono scelte di “politica della magistratura” quelle connesse al numero dei posti da bandire, agli uffici presso i quali bandirli, alle sedi da assegnare ai magistrati ordinari in tirocinio, all’impostazione generale nei confronti dei collocamenti fuori ruolo. Tali scelte, a loro volta, influenzano i rapporti con gli altri poteri dello Stato in maniera fisiologica; ancora, a mero titolo esemplificativo, ove il Consiglio, nell’adottare le indicate scelte, rilevi situazioni che rendano necessario un intervento legislativo, ai sensi della citata legge n. 195 del 1958, ha il potere di intervenire con risoluzioni e proposte al Ministro della giustizia.
[3] Quello appena indicato è uno degli ulteriori classici e fisiologici esempi di attività “politica”, sia pure non in senso stretto, del Consiglio, chiamato dal legislatore ad adottare la normativa di rango secondario in una determinata materia. Con riguardo alle valutazioni di professionalità, lo sforzo del Consiglio è stato notevole, non tanto e non solo con riguardo al rigoroso rispetto dei tempi imposti dalla legge, ma soprattutto con riguardo all’obiettivo di dare vita a un corpus normativo solido e coerente, che ha resistito nel tempo. Le frequenti critiche che ad esso vengono rivolte non attengono all’astratta disciplina, ma alle modalità con le quali le disposizioni vengono applicate alle singole pratiche; modalità applicative che, peraltro, connotano in maniera peculiare ciascuna consiliatura, definendone il complessivo orientamento.
[4] A tal proposito, la consiliatura della quale mi onoro di aver fatto parte adottò una precisa e ferma linea, impegnandosi con tutti gli strumenti riconosciuti dall’ordinamento per evitare la c.d. “desertificazione” delle Procure e nel contempo mitigare gli effetti sul principio di inamovibilità derivanti dalla prima legge sui trasferimenti d’ufficio a sede disagiata, tanto vero che la suindicata previsione divenne oggetto di successive modifiche normative volte a consentire l’assegnazione dei MOT anche agli uffici requirenti.
[5] Il d.lgs. 160 del 2006, come modificato dalla l. 111 del 2007.
[6] Rectius: durante quella eccezionale stagione, da un lato il numero elevatissimo di pratiche trattate e dall’altro l’assoluta novità della disciplina applicata ha portato alla percezione di una non uniforme e coerente applicazione delle regole. In realtà, il Consiglio in ogni sua delibera ha fatto applicazione delle regole date, ma il margine di necessaria discrezionalità tecnica, il fisiologico annullamento di talune delibere ad opera del giudice amministrativo (numero comunque percentualmente scarso rispetto alla mole di delibere adottate e impugnate), l’altrettanto fisiologico margine di errore hanno portato alla convinzione della opinabilità delle scelte adottate dal Consiglio, opinabilità accentuata dalla resistenza al cambiamento rispetto alla tranquillizzante soluzione dell’anzianità senza demerito e dalla evoluzione che il sistema delle nomine e delle carriere ha avuto nel tempo (come si spiegherà più oltre).
[7] È pertanto necessario individuare con chiarezza il profilo professionale necessario all’esercizio da un lato delle funzioni direttive e dall’altro delle funzioni semidirettive, nel bilanciamento delle attitudini organizzative e delle capacità più strettamente giuridico professionali, laddove le prime devono essere particolarmente accentuate nel caso della direzione di uffici di grandi dimensioni, mentre le seconde dovrebbero – come già accennato – prevalere nelle funzioni semidirettive, dove maggiormente necessaria appare la propensione al coordinamento delle attività, anche e soprattutto con riguardo alla coerenza degli orientamenti giurisprudenziali.
[8] In senso più ampio, è assolutamente necessario che i pareri resi dagli organi di governo autonomo decentrato garantiscano degli strumenti realmente efficaci a descrivere la figura professionale dei magistrati che aspirano a un determinato incarico, uscendo dalla logica della standardizzazione dei pareri, in maniera tale da mettere il Consiglio nelle condizioni di esercitare la propria discrezionalità tecnica in maniera consapevole e, soprattutto, efficace per gli uffici. Solo in questo modo sarà possibile superare la visione del Consiglio come “nominificio” e allo stesso tempo evitare di confinare tale organo nei ristretti margini di una tecnicalità puramente amministrativa che ne snaturerebbe la natura di organo di rilievo costituzionale.
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