Sommario: 1. Premessa: l’effetto collaterale dell’interposizione illecita di manodopera. - 2. La configurabilità del reato di somministrazione fraudolenta di manodopera di cui all’art. 38 bis D.lgs 81/2015. - 3. La rilevanza della somministrazione fraudolenta di manodopera in relazione ai reati di natura fiscale. Analisi dei recenti orientamenti giurisprudenziali. - 4. Il “nuovo” reato di caporalato nel contrasto allo sfruttamento del lavoro: dalla ridefinizione della fattispecie di cui all’art. 603 bis c.p. all’applicazione della misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria ex art. 34 Codice Antimafia. - 5. La rilevanza giudiziale dei comportamenti virtuosi dell’Ente nell’esperienza milanese. - 6. Il sistema di compliance preventivo nel sistema 231: un importante strumento di mitigazione del rischio per l’Ente.
1. Premessa: l’effetto collaterale dell’interposizione illecita di manodopera
Il mutare della realtà sociale, del sistema economico e delle modalità organizzative dell’impresa che, sempre più frequentemente, attua forme di decentramento produttivo determina inevitabili ripercussioni sulle tutele dei lavoratori.
Gli istituti giuridici di natura giuslavoristica hanno l’obiettivo di garantire la massima protezione del lavoratore regolando tutte le variegate situazioni in cui l’imprenditore economico, sotto l’egida della legalità, decida di esternalizzare interi processi produttivi o singole fasi lavorative o, di ricorrere a forme di codatorialità, ad esempio, attraverso contratti di rete, utilizzando forza lavoro proveniente da altri soggetti imprenditoriali.
La dissociazione fra titolarità del contratto di lavoro e utilizzazione della prestazione è, pertanto, un fenomeno in crescita ma la patologia di cui può essere affetto il rapporto contrattuale che determina l’utilizzo di manodopera nella forma della somministrazione, dell’appalto o del distacco che travalichi, lo schema legale disciplinato dalla normativa di settore, può avere significative conseguenze, non soltanto sul piano giuslavoristico afferente più strettamente la tutela del lavoratore, ma anche di natura penale.
Oggi più che mai si sta sviluppando e consolidando una giurisprudenza penalistica sempre più rigorosa nel colpire i fenomeni di fraudolenza nella gestione della esternalizzazione di manodopera e le varie forme di somministrazione contra legem rappresentano, come verrà sviluppato nel presente contributo, il presupposto della sussistenza di fattispecie penali caratterizzate da particolare gravità e disvalore.
Sono fatti noti per il risalto mediatico che hanno avuto i casi relativi ad alcuni colossi imprenditoriali (ad es. del settore della logistica e distribuzione) per le pesanti misure ablative di natura patrimoniale che hanno subito.
Si tratta di vicende legate a società i cui esponenti sono indagati per il reato di “dichiarazione fraudolenta mediante l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti” previsto dall’art. 2 D.lgs 74/2000 per avere mascherato acquisizioni illecite di forza lavoro attraverso contratti d’appalto non genuini stipulati con consorzi di cooperative.
La maggior parte delle inchieste sono state avviate dalla Procura della Repubblica di Milano, in prima linea nel combattere l’esternalizzazione illecita di manodopera e nel colpire il fenomeno dei c.d. “serbatoi di manodopera” costituiti, nella prevalenza dei casi, da società cooperative che nascono e muoiono in breve tempo quando la posizione debitoria nei confronti dell’erario diventa insostenibile per l’evasione dell’IVA. Talune volte le cooperative sono schermate da società filtro (consorzi) che di fatto sono mere cartiere di fatture false.
I lavoratori, in base al meccanismo fraudolento riscontrato in una pluralità di situazioni, sono fatti migrare da una cooperativa all’altra e sono privati delle tutele giuslavoristiche ad esclusivo interesse, da un lato, del committente che beneficia di un rapporto di lavoro a tutti gli effetti subordinato senza assumersi gli oneri e con un costo del lavoro ridotto esercitando un potere direttivo ed organizzativo incompatibile con l’appalto, oltre che del vantaggio fiscale che ne consegue e, dall’altro, dei fornitori di manodopera che non versano l’IVA dovuta sulle fatture emesse.
Alcune di queste vicende sono approdate, soprattutto in fase cautelare, in Corte di cassazione che, con una serie di pronunce di segno sostanzialmente convergente, negli ultimi anni ha sancito una stretta relazione tra interposizione illecita e reati tributari.
Un secondo fronte che si sta sviluppando nelle più recenti inchieste giudiziarie riguarda la contestazione del reato di cui all’art. 603 bis c.p. rubricato “Intermediazione illecita con sfruttamento del lavoro” ma più conosciuto come “caporalato” che, forte delle modifiche apportate dal legislatore con la Legge 26.10.2016 n. 199, sta trovando spazio di contestazione anche fuori dal settore agricolo in cui tradizionalmente ha tipicamente trovato applicazione.
Il reato di frode fiscale ed il reato di caporalato sono, dunque, oggetto di due importanti filoni giudiziari che stanno a significare l’importanza anche del diritto penale nel contrasto allo sfruttamento del lavoro e la cui contestazione rischia di essere particolarmente pervasiva sull’impresa in ragione dei molteplici strumenti giuridici a disposizione dell’autorità giudiziaria per ricondurre l’attività criminale alla legalità.
Le potenziali ripercussioni di tali contestazioni sul soggetto imprenditoriale sono di tutta evidenza considerando che si tratta anche di “reati presupposto” ex D.lgs 231/01 e, pertanto, l’ente a cui venga ascritto l’illecito amministrativo rischia sanzioni interdittive e patrimoniali che possono essere caratterizzate da significativa afflittività.
Naturalmente, accanto a queste due tipologie di reato che sono connotate da particolare gravità sia sul piano sanzionatorio che per i risvolti di natura economica che ne conseguono, continuano a sussistere gli illeciti contravvenzionali tradizionali previsti dalla normativa giuslavoristica ed in particolare il reato di somministrazione fraudolenta di cui all’art. 38 bis D.lgs 81/2015.
Fatte queste generali considerazioni, la dimensione amplificata che sta assumendo il fenomeno della interposizione illecita di manodopera richiede, pertanto, un’analisi ad ampio spettro del contesto giurisprudenziale in cui aspetti giuslavoristi, penalistici e fiscali si stanno indissolubilmente intrecciando tra loro.
2. La configurabilità del reato di somministrazione fraudolenta di manodopera di cui all’art. 38 bis D.lgs 81/2015
Il reato di somministrazione fraudolenta previsto dall’art. 38 bis D.Lgs. n. 81/2015 si configura in tutti i casi in cui “la somministrazione di lavoro è posta in essere con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicate al lavoratore”.
L’art. 30 D.lgs. n. 81/2015 circoscrive i limiti normativi della somministrazione lecita definendo il contratto di somministrazione di lavoro quella tipologia di contratto, a tempo indeterminato o determinato, con il quale un'agenzia di somministrazione autorizzata, ai sensi del decreto legislativo n. 276/2003, mette a disposizione di un utilizzatore uno o più lavoratori suoi dipendenti, i quali, per tutta la durata della missione, svolgono la propria attività nell'interesse e sotto la direzione e il controllo dell'utilizzatore. Nel caso in cui la messa a disposizione di lavoratori avvenga da parte di soggetti privi delle autorizzazioni o al di fuori dei limiti e delle modalità previste dalla legge si corre il rischio di incorrere in una somministrazione illecita di manodopera.
L’art. 38 bis D.lgs n. 81/2015 prevede un illecito di natura contravvenzionale in cui somministratore ed utilizzatore sono puniti con l’ammenda di 20 euro per ogni lavoratore coinvolto e per ciascun giorno di occupazione ma, per espressa previsione normativa, è fatta salva l’applicazione dell’art. 18 D.Lgs. n. 276/2003 che punisce con sanzione amministrativa le ipotesi di somministrazione abusiva.
È, pertanto, un reato plurisoggettivo proprio a concorso necessario in cui i due autori del reato sono puniti allo stesso modo e, quanto all’elemento soggettivo, in ragione della specifica finalità elusiva richiesta per la configurabilità del reato, si tratta di una ipotesi contravvenzionale necessariamente dolosa, diversamente da quanto ordinariamente richiesto per la maggior parte delle contravvenzioni per cui è sufficiente una rimproverabilità a titolo colposo.
La somministrazione fraudolenta era già prevista, con formulazione identica, dall’art. 28 del D.Lgs. n. 276/2003 (legge Biagi), successivamente abrogato, per una scelta poco comprensibile da parte del Legislatore, dall’art. 55 del D.Lgs. n. 81/2015 (Jobs act) e poi reintrodotto per l’appunto dal D.L. n. 87 del 2018, convertito dalla L. n. 96/2018 (c.d. Decreto dignità).
Invece, la somministrazione abusiva di cui all’art. 18 D.Lgs. n. 276/2003 che, in origine, aveva natura contravvenzionale ed era punita con l’ammenda di euro 50 per ogni lavoratore occupato e per ogni giorno di lavoro, è stata oggetto di depenalizzazione per opera del D.lgs 8/2016 che ha trasformato in illeciti amministrativi i reati in materia di lavoro e previdenza obbligatoria puniti con la sola pena della multa o dell’ammenda. Allo stato attuale, chi esercita attività di somministrazione in assenza di autorizzazione o fuori dalle ipotesi previste ed espressamente autorizzate, è passibile di sanzione amministrativa di importo analogo più grave di quella prevista dall’art. 38 bis. L’art. 18 conserva rilevanza penale soltanto nel caso in cui vi sia sfruttamento dei minori.
In virtù della clausola di salvezza prevista dall’art. 38 bis vi può essere una applicazione concorrente delle due norme che determina un duplice intervento sanzionatorio.
Il suddetto illecito è rimasto, pertanto, uno dei pochi ed ultimi baluardi di controllo penale della liceità della somministrazione nell’ambito della normativa giuslavoristica.
Il reato di somministrazione fraudolenta di manodopera è sempre stato additato dalla dottrina[1] come fattispecie dal contenuto troppo indeterminato in quanto il riferimento a “norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicate al lavoratore” è parso troppo generico a scapito delle esigenze di tipizzazione dell’illecito.
Il recente intervento del Legislatore, che ha reintrodotto la fattispecie nella identica formulazione che aveva in precedenza, non ha risolto le perplessità sulla portata applicativa della norma.
Alcune importanti indicazioni interpretative sulla configurabilità del reato di somministrazione fraudolenta si rinvengono in alcune pronunce della Corte di Cassazione penale, per la verità non così numerose, e dalla circolare n. 3/2019 dell’Ispettorato nazionale del lavoro.
Il fatto che in poche occasioni la contestazione del reato di somministrazione fraudolenta sia pervenuta all’attenzione dei Giudici di legittimità è dovuta al fatto che l’ordinamento prevede due modalità di definizione agevolata che conducono alla estinzione del reato.
In primis, per effetto del rinvio operato dall’art. 15 D.lgs 124/2004, l’illecito contravvenzionale è assoggettato al potere di prescrizione di cui all’art. 20 D.lgs 758/1994. L’Ispettorato del lavoro, in caso di somministrazione contra legem, potrà, dunque, adottare il provvedimento di prescrizione obbligatoria e di diffida accertativa per far cessare la condotta antigiuridica attraverso l’assunzione dei lavoratori alle dirette dipendenze dell’utilizzatore per tutta la durata del contratto.
Qualora risulti l’adempimento della prescrizione, l’organo di vigilanza ammette il contravventore a pagare una sanzione amministrativa che corrisponde al quarto del massimo dell’ammenda; in conseguenza del pagamento il reato si estingue.
Trattandosi di fattispecie contravvenzionale, inoltre, il reato di somministrazione fraudolenta è altrimenti definibile attraverso l’istituto dell’oblazione comune ex art. 162 c.p. che ne comporta l’estinzione a seguito del pagamento di una somma pari al terzo del massimo dell’ammenda. La peculiarità di questa forma di oblazione definita “obbligatoria”, prevista per le contravvenzioni punite con la sola ammenda, è che il Giudice non ha alcun potere discrezionale in ordine all’ammissibilità della stessa dovendo verificare, soltanto, che la richiesta avvenga entro i termini previsti dalla legge.
La giurisprudenza[2], unitamente alla dottrina, ritiene la somministrazione fraudolenta un reato permanente, atteso che la condotta risulta caratterizzata da un intento elusivo di norme contrattuali o imperative che trova ragione d’essere in una apprezzabile continuità dell’azione antigiuridica. La natura permanente dell’illecito comporta che l’offesa al bene giuridico si protrae per tutta la durata della somministrazione fraudolenta, coincidendo la sua consumazione con la cessazione della condotta, la quale assume rilevanza sia ai fini della individuazione della norma applicabile, sia ai fini della decorrenza del termine di prescrizione.
È stato osservato in dottrina che, in coerenza con la formulazione normativa che ancora l’irrogazione della sanzione ad ogni lavoratore e per ogni giorno di somministrazione, il reato si perfeziona al primo giorno di somministrazione e la condotta cessa quando termina la prestazione lavorativa dell’ultimo lavoratore somministrato[3].
Per quanto riguarda le questioni di diritto intertemporale riguardanti la successione di leggi nel tempo, la sentenza del Supremo Collegio n. 16831/2010 ha stabilito che, alla luce dei principi di cui agli articoli 1 (“nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite”) e 2 comma 1, (“nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato”), per le condotte di somministrazione fraudolenta che abbiano avuto inizio prima del 12 agosto 2018 (data di entrata in vigore della norma) e che si siano protratte successivamente a tale data, il reato di cui all’art. 38 bis del D.Lgs. n. 81/2015 si possa configurare solo a decorrere dal 12 agosto 2018, con conseguente commisurazione della relativa sanzione per le sole giornate successive a tale data.
La circolare n. 3/2019 citata ha precisato che per il periodo precedente al 12 agosto 2018, resta invece ferma l’applicazione in via esclusiva delle sanzioni di cui all’art. 18 del D.Lgs. n. 276/2003 che sono per l’appunto concorrenti.
Di particolare interesse sono le indicazioni ministeriali relative all’ambito di applicazione della norma sia nelle ipotesi di appalto illecito, certamente più frequenti, sia in quelle che si possono configurare al di fuori dell’appalto.
La circolare n. 3/2019, richiamando la precedente circolare del Ministero del lavoro n. 5/2011, individua alcuni indici rivelatori della finalità fraudolenta dell’appalto.
Una prima considerazione che viene svolta è che il ricorso ad un appalto illecito – e quindi alla somministrazione di lavoro in assenza dei requisiti di legge – già costituisce, di per sé, elemento sintomatico di una finalità fraudolenta, che il Legislatore ha inteso individuare nella elusione di “norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicate al lavoratore”.
A titolo esemplificativo vengono indicate le norme che stabiliscono la determinazione degli imponibili contributivi (art. 1 comma 1 D.L. 338/1989) o, più direttamente, in quelle che introducono divieti alla somministrazione di lavoro (art. 32 D.Lgs. n. 81/2015) o prevedono determinati requisiti per la stipula del contratto (art. 32 D.Lgs. n. 81/2015) o, ancora, specifici limiti alla somministrazione (artt. 31 e 33 D.Lgs. n. 81/2015).
Il risparmio sul costo del lavoro da parte del committente, derivante dalla applicazione del trattamento retributivo previsto dal CCNL dall’appaltatore e dal connesso minore imponibile contributivo, è indicato come un ulteriore segnale rivelatore dell’intento fraudolento. Peraltro, in alcune vicende, è stato riscontrato che i corrispettivi delle commesse risultavano addirittura inferiori al costo della manodopera in base al CCLN applicabile.
Al riguardo, la circolare richiede che sia accertato che le circostanze sopra indicate siano suffragate anche dall’acquisizione di elementi istruttori ulteriori quali, ad esempio, la situazione finanziaria non positiva dell’impresa committente[4] desumibile anche dalla consultazione delle banche dati degli Istituti previdenziali (si pensi, ad esempio, alla correntezza dei versamenti o alla fruizione di ammortizzatori sociali) o dell’Ispettorato del lavoro (si pensi ad un pregresso ricorso al lavoro nero).
In questo senso, anche in assenza di una condizione di sofferenza dell’impresa, secondo l’INL può assumere rilevanza la considerazione della impossibilità, a fronte del fatturato annuo, di sostenere i costi del personale necessario per far fronte alla propria attività.
Alcune recenti sentenze della Corte di Cassazione penale, pronunciate in giudizi cautelari aventi ad oggetto misure ablatorie di natura patrimoniale, sancendo la stretta connessione tra somministrazione illecita di manodopera e reati tributari, che sarà oggetto di successiva analisi, si sono soffermate sui requisiti dell’appalto genuino nel rispetto di quanto previsto dall’art. 29 D.lgs 276/2003 che contiene la distinzione tra contratto di appalto e contratto di somministrazione (lecita ed autorizzata). Il comma 1 stabilisce che “Ai fini della applicazione delle norme contenute nel presente titolo, il contratto di appalto, stipulato e regolamentato ai sensi dell'articolo 1655 del codice civile, si distingue dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione dei mezzi necessari da parte dell'appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell'opera o del servizio dedotti in contratto, dall'esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell'appalto, nonché per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d'impresa”.
In particolare, nella pronuncia n. 16302/2022 la Suprema Corte[5] ha ribadito “come la consolidata giurisprudenza di legittimità abbia individuato nel potere di direzione e di organizzazione il discrimen tra appalto di servizi e mera somministrazione di manodopera, affermando che, in tema di interposizione di manodopera, affinché possa configurarsi un genuino appalto di opere o servizi ai sensi dell'art. 29, comma 1, del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, è necessario verificare, specie nell'ipotesi di appalti ad alta intensità di manodopera (cd. "labour intensive"), che all'appaltatore sia stata affidata la realizzazione di un risultato in sé autonomo, da conseguire attraverso una effettiva e autonoma organizzazione del lavoro, con reale assoggettamento al potere direttivo e di controllo sui propri dipendenti, impiego di propri mezzi e assunzione da parte sua del rischio d'impresa, dovendosi invece ravvisare un'interposizione illecita di manodopera nel caso in cui il potere direttivo e organizzativo sia interamente affidato al formale committente (ex multis, Cass. civ., Sez. 6 - L, n. 12551 del 25/06/2020, Rv. 658115 - 01; nello stesso senso la giurisprudenza europea, v. Corte Giustizia 6 marzo 2014, causa C-458/12, Amatori, con riferimento al trasferimento di azienda o di ramo di azienda)”.
Nel caso specifico, che ha interessato la nota vicenda di DHL Supply Chain S.p.A., la Corte ha ravvisato una serie di indizi rivelatori della fittizietà del contratto di appalto: ad esempio, materiale utilizzato dai lavoratori dei fornitori di proprietà della committenza, potere organizzativo in capo alla committenza, ingerenza in ordine agli esuberi del personale, spostamento del personale da una società appaltatrice ad un’altra senza alcun potere di scelta nel personale.
In un’altra pronuncia che riguardava la fornitura di manodopera a società operanti nel settore turistico e della ristorazione, la Cassazione[6]ha ritenuto configurabile il concorso fra la contravvenzione di cui all’art. 18 D.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 ed il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti ai fini dell’IVA, nel caso di utilizzo di fatture rilasciate da una società che ha effettuato interposizione illegale di manodopera. Secondo i Giudici di legittimità la simulazione dei contratti di appalto emergeva dalla circostanza che la società appaltatrice si era limitata alla mera gestione amministrativa della posizione relativa ai lavoratori impiegati presso le società committenti senza svolgere una reale organizzazione della prestazione lavorativa, che, in realtà, veniva diretta totalmente dai vari committenti.
In altre vicende il Supremo Collegio, nel ritenere la mera somministrazione di manodopera in violazione delle previsioni normative sulla liceità dell’appalto, oltre al potere direttivo in capo alla committenza, ha valorizzato la tipologia di clausole contrattuali sulla determinazione del corrispettivo fissate in relazione alle ore di presenza nella sede lavorativa, il dato temporale di emissione delle fatture rilasciate con cadenza mensile in linea con la periodicità delle buste paga, la scarsa documentazione contabile relativa alle società subappaltatrici [7].
Per quanto riguarda, invece, la possibile sussistenza del reato al di fuori delle ipotesi di appalto contra legem, la circolare precisa che possa realizzarsi anche coinvolgendo agenzie di somministrazione autorizzate, nell’ambito di distacchi di personale che comportino una elusione della disciplina di cui all’art. 30 D.Lgs. n. 276/2003 ovvero in ipotesi di distacco transnazionale “non autentico” ai sensi dell’art. 3 D.Lgs. n. 136/2016.
L’ipotesi in cui possa essere coinvolta una agenzia autorizzata, e la circolare ne sottolinea la frequente ricorrenza, è ravvisabile ad esempio nei casi in cui un datore di lavoro licenzi un proprio dipendente per riutilizzarlo tramite agenzia di somministrazione, violando norme di legge o di contratto collettivo.
Molto correttamente l’indicazione data agli ispettori ministeriali è che, qualora la somministrazione fraudolenta si realizzi per il tramite di una agenzia autorizzata, la prova in ordine alla “specifica finalità” prevista dall’art. 38 bis debba essere accertata con maggior rigore.
In generale, il problema della verifica della finalità fraudolenta specifica richiesta dalla norma per l’integrazione della fattispecie è un aspetto problematico di non poco momento ed il personale ispettivo, nelle sue funzioni di ufficiali di polizia giudiziaria, dovrà raccogliere tutti gli elementi probatori volti a dimostrare la fraudolenza ma la verifica del coefficiente psicologico specifico di natura dolosa non potrà che essere appannaggio dell’autorità giudiziaria nell’eventuale sviluppo del procedimento penale.
Un’altra situazione che può celare una somministrazione illecita è quella del distacco di manodopera da un’azienda all’altra regolamentato dall’art. 30 comma 1 D.lgs. 276/2003. Il distacco, in base a tale norma, è valido soltanto quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa.
Una specifica ipotesi di ammissibilità del distacco è quella prevista dal comma 4-ter art. 30 del D.lgs. 276/2003 che disciplina la possibilità di stipulare un contratto di rete tra più aziende. In tal caso, l'interesse della parte distaccante sorge automaticamente in forza dell'operare della rete, fatte salve le norme in materia di mobilità dei lavoratori previste dall'articolo 2103 c.c.. Inoltre, per le stesse imprese è ammessa la codatorialità dei dipendenti ingaggiati con regole stabilite attraverso il contratto di rete stesso.
La potenziale (e patologica) sovrapposizione tra distacco (anche in rete) e somministrazione è stata oggetto della Nota n. 274/2020 del medesimo INL.
L’automatismo normativo concernente l’interesse del distaccante non elimina la necessità di analizzare la complessiva operazione “volta ad escludere che il ricorso alla rete di imprese funzioni da mero strumento alternativo alla somministrazione di manodopera”. In tal senso l’Ispettorato richiede al proprio personale ispettivo di verificare comunque il requisito dell’interesse al distacco, in particolare in relazione alle ipotesi di lavoratori neoassunti ed immediatamente distaccati presso terzi.
La nota si sofferma poi sul requisito della temporaneità del distacco chiedendo al personale ispettivo di verificare: a) l’oggetto sociale del distaccante che, qualora sia esclusivamente quello di fornire manodopera, costituisce un forte elemento di criticità laddove il personale messo a “fattor comune” sia distaccato e non somministrato; b) l’eventuale esborso maggiorato da parte del distaccatario, rispetto a quanto dovuto al lavoratore dal distaccante, tale da suggerire la remunerazione di una fornitura di manodopera; c) la predisposizione da parte dell’impresa distaccante (anche se retista) di un formulario seriale, in cui l’interesse al distacco è indicato in maniera generica e standardizzata, come indizio di un’attitudine professionale del distaccante alla fornitura di manodopera a prescindere da un effettivo e specifico interesse produttivo; d) distacchi non occasionali ed individualizzati, cioè riferiti a uno o più lavoratori in riferimento a specifiche qualità professionali, ma massivi e generici; e) distacchi contestuali o di poco successivi all’assunzione da parte del distaccante, tali da poter ricostruire l’assunzione come esclusivamente preordinata al distacco; f) differenziali retributivi sistematici fra i minimi di CCNL, inferiori, applicati dal distaccante e quelli applicati dal distaccatario, che possono tradursi in un’indebita riduzione del costo del lavoro di quest’ultimo.
Un aspetto su cui si è soffermata la circolare n. 3/2019 è quello del distacco transnazionale “non autentico”. Secondo le indicazioni ministeriali, in tali evenienze, troverà applicazione l’art. 38 bis D.Lgs. n. 81/2015, nella misura in cui il distacco sia funzionale all’elusione delle disposizioni dell’ordinamento interno e/o del contratto collettivo applicato dal committente italiano.
Il distacco transnazionale di lavoratori è stato di recente oggetto di un arresto della Corte di Cassazione[8] che ha esaminato i rapporti tra il reato di somministrazione fraudolenta di cui all’art. 38 bis ed il reato di truffa aggravata ai sensi dell’art. 640 comma 1 n. 1 c.p. ed è stata l’occasione per puntualizzare l’ambito di applicazione dell’illecito contravvenzionale in rapporto ad altre fattispecie delittuose, come quello di truffa ai danni di un ente pubblico.
La vicenda in questione riguardava un distacco di lavoratori fatti fittiziamente figurare come abitualmente impiegati in Bulgaria e solo temporaneamente in Italia. La Corte ha rigettato il ricorso avverso il provvedimento di sequestro preventivo di somme di denaro in relazione al reato di truffa aggravata, ritenendo che la finalità della condotta di fittizio distacco transnazionale di lavoratori era stata quella di realizzare l'ingiusto profitto, con corrispondente danno per gli enti previdenziali, consistente nel risparmio contributivo derivante dalle differenze di aliquote tra il sistema previdenziale italiano e quello bulgaro, e non, invece, quella di violare gli obblighi in materia di condizioni di lavoro e di occupazione.
Secondo i giudici di legittimità il principio di diritto che giustifica il concorso tra i due reati è il seguente: “Il reato di somministrazione fraudolenta di lavoro di cui all' art. 38-bis D.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, introdotto con l’art. 2, comma 1-bis, d.l. n. 87 del 2018, ha come obiettivo esclusivamente quello di tutelare il lavoratore sul piano delle condizioni di lavoro e di occupazione, escludendo dal suo ambito di applicazione quei comportamenti finalizzati alla elusione della contribuzione, che restano soggetti alla disciplina di cui all' art. 640, comma 2, n. 1, c.p.”.
In sintesi, disattendendo le doglianze difensive, il Supremo Collegio ha fondato tale convincimento sulla lettera della norma di cui all’art. 38 bis ed in particolare sull’utilizzo della congiunzione disgiuntiva “o” che renderebbe evidente che, sia le norme inderogabili di legge che di contratto collettivo siano solo quelle "applicate al lavoratore", altrimenti sarebbe stata usata la congiunzione “e”.
Il giudicante ricava, inoltre, tale conclusione anche dalla Circolare dell'INL n. 3/2019 che, riguardo al distacco transnazionale “non autentico”, precisa che "perché si possa configurare la violazione dell'art. 38 bis, non è sufficiente accertare che la condotta abbia prodotto effetti sotto il profilo della applicazione elusiva del regime previdenziale straniero, ma è necessario altresì accertare la violazione degli obblighi delle condizioni di lavoro ed occupazione di cui al D.Lgs. n. 136 del 2016, art. 4", senza alcun accenno a finalità elusive della contribuzione.
Tali ultime finalità, conclude la Corte, non possono che rientrare nell'ambito di applicazione dell'art. 640 c.p., comma 2, n. 1, in quanto lo scopo della fittizia interposizione transnazionale è proprio quella di procurarsi un ingiusto profitto (con corrispondente danno per gli enti previdenziali) consistente nel risparmio contributivo, del tutto differente da quella (eventuale) del mancato rispetto della normativa posta a tutela dei lavoratori.
3. La rilevanza della somministrazione fraudolenta di manodopera in relazione ai reati di natura fiscale. Analisi dei recenti orientamenti giurisprudenziali.
Quando l’illecita somministrazione di manodopera si cela dietro contratti fittizi di appalti di servizi o accordi di distacco privi dei requisiti di legge, le conseguenze penali del fatto possono assumere dimensioni ben più rilevanti.
Infatti, la giurisprudenza è stabilmente orientata, in questi casi, a ritenere configurati, a seconda della diversa prospettiva del somministratore e del committente, i reati, tra loro speculari, di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, di cui all’art. 8 del d.lgs. n. 74/2000[9], e di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, contemplato dall’art. 2 del D.Lgs. n. 74/2000 [10].
I citati delitti tributari concorrono, quindi, con l’illecita somministrazione di manodopera, in quanto le fatture che originano da questi rapporti contrattuali fittizi ed illeciti vengono considerate come emesse per operazioni inesistenti, sia pure con varie sfumature che si andranno ad analizzare.
È necessario, in via preliminare, ricordare che la definizione di “operazione inesistente” è contenuta nell’art. 1, lett. a) del d.lgs 74/2000, ai sensi del quale: «per “fatture o altri documenti per operazioni inesistenti ” si intendono le fatture o gli altri documenti aventi rilievo probatorio analogo in base alle norme tributarie, emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte o che indicano i corrispettivi o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale, ovvero che riferiscono l’operazione a soggetti diversi da quelli effettivi»”.
È subito evidente che l’inesistenza si configura tutte le volte che ci si trova di fronte ad una divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale[11].
Tale difformità può manifestarsi, innanzitutto, dal punto di vista oggettivo, laddove l’inesistenza può essere assoluta, quando l’operazione oggetto della fattura non sia stata mai eseguita, o relativa, quando la medesima operazione sia stata eseguita solo parzialmente. Le conseguenze della falsa fattura avranno in questo caso ricadute sulle imposte sia dirette che indirette. Allo stesso modo, l’operazione è considerata inesistente quando la prestazione sia stata eseguita ma il documento fiscale indichi il corrispettivo o l’imposta sul valore aggiunto in misura superiore a quella reale: è il caso della sovrafatturazione (c.d. inesistenza qualitativa).
Ancora, l’inesistenza può essere soggettiva, in quei casi in cui la prestazione sia effettiva, ma sia intercorsa tra soggetti (anche solo uno) diversi da quelli reali. È, infatti, innegabile che una simile divergenza assuma rilevanza quantomeno con riferimento all’Iva; conseguentemente, la giurisprudenza è costante nell’affermare che il fatto che l’operazione sia oggettivamente esistente non incide sul perfezionamento del reato di dichiarazione fraudolenta, il quale, nel riferirsi all'uso di fatture o altri documenti concernenti operazioni inesistenti, non distingue tra quelle che sono tali dal punto di vista oggettivo o soggettivo[12].
Più contrastata è, invece, la rilevanza dell’inesistenza giuridica ai fini dell’integrazione del reato di cui all’art. 2 D.lgs 74/2000: quest’ultima si ha quando l’operazione è stata realmente effettuata, ma la divergenza tra realtà e rappresentazione riguarda la natura giuridica della prestazione oggetto della fattura. In particolare, a seguito della riforma del 2000, una parte della dottrina, valorizzando l’avverbio “realmente”, contenuto nell’art. 1, lett. a), ha ritenuto che il legislatore abbia voluto riservare l’applicazione delle fattispecie penal-tributarie ai soli casi di inesistenza dell’operazione in senso naturalistico[13].
Altra parte della dottrina e della giurisprudenza ha, invece, sottolineato la necessità di estendere l’incriminazione alle ipotesi di inesistenza giuridica di un’operazione, poiché anche all’indicazione di un negozio giuridico diverso da quello effettivamente realizzato si può accompagnare una notevole capacità decettiva, ed essa può comportare una falsa rappresentazione di taluni aspetti economicamente significativi del negozio posto in essere, rilevanti anche sul piano fiscale[14].
Ma con riferimento al caso specifico, come anticipato, di fronte a fatture relative a contratti simulati di appalto, che nascondono illecite somministrazioni di manodopera, la giurisprudenza è unanime nel riconoscere l’integrazione delle fattispecie di cui agli artt. 2 e 8 del d.lgs. n. 74/2000.
Purtuttavia, si possono individuare due diverse posizioni: l’orientamento maggioritario[15] limita la contestazione all’IVA, concretizzandosi il reato nell’uso di fatture per operazioni solo soggettivamente inesistenti; altre pronunce, invece, estendono il campo anche al recupero delle imposte dirette.
Il punto di partenza del ragionamento è costituito dal principio pacificamente affermato dalla Sezione tributaria della Corte di Cassazione, secondo il quale, in presenza di un comportamento elusivo quale quello di cui stiamo parlando, l’IVA è applicata indebitamente e quindi non è detraibile[16].
L’invalidità del titolo giuridico su cui poggia la fattura, infatti, rende l’IVA indetraibile “ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, proprio per il fatto che l'alterazione del meccanismo di riscossione dell'imposta in questione, attraverso la realizzazione di comportamenti illeciti dei contribuenti, non consente il dispiegamento dell'ordinaria operatività del diritto alla detrazione dell'imposta sulle operazioni passive dell'imprenditore o del professionista”[17].
Principio che non contrasta con il dato normativo, riferito all’emittente, che emerge dall’art. 21, comma 7, D.P.R. 633 del 1972, in base al quale “se il cedente o il prestatore emette fattura per operazioni inesistenti (...) l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato”.
Il tributo, pertanto, “viene ad essere considerato “fuori conto” e la relativa obbligazione, conseguentemente, “isolata” dalla massa di operazioni effettuate, “estraniata”, per ciò stesso, dal meccanismo di compensazione tra IVA “a valle” ed IVA “a monte”, che presiede alla detrazione d’imposta di cui al D.P.R. n. 633/1972, art. 19. E ciò per il rilievo che il versamento dell’Iva ad un soggetto che non sia la genuina controparte, aprendo la strada ad un indebito recupero dell’imposta, è evento dirompente, nell’ambito del complessivo sistema IVA”[18].
Sul punto si è più volte pronunciata anche la Corte di Giustizia Europea che ha ribadito che la frode comporta una deroga al principio generale di neutralità dell’IVA, e che l'indetraibilità del tributo relativo ad operazioni inesistenti emerge dall'art. 168 della direttiva 2006/112/CE. La Corte europea ritiene che “quando un’operazione di acquisto di un bene o di un servizio è inesistente, essa non può avere alcun collegamento con le operazioni del soggetto passivo tassato a valle, sicché…è inerente al meccanismo dell’IVA il fatto che un’operazione fittizia non possa dare diritto ad alcuna detrazione di tale imposta” [19].
Sulla scorta di quanto affermato, la Cassazione penale, di fronte a contratti di appalto che mascherano una intermediazione di manodopera contra legem, talora richiamando la categoria dell’inesistenza giuridica del negozio simulato, talora parlando di nullità del contratto o di inefficacia dello stesso, ne afferma comunque, almeno, l’inesistenza soggettiva.
Infatti, le operazioni sottostanti “al più potrebbero riferirsi a prestazioni lavorative svolte direttamente dai singoli lavoratori, i quali avrebbero il diritto di chiedere al soggetto che ne ha utilizzato la prestazione la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo come prevede i l d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, art. 38 e/o d.lgs. n. 276/2003, art. 29, comma 3-bis, stante l’invalidità dell’originario rapporto di somministrazione”[20].
L’interposizione soggettiva consente agli imputati di beneficiare di un diverso regime impositivo, facendo figurare elementi passivi fittizi e creando un credito IVA in capo all’utilizzatore che non si sarebbe generato se le parti avessero rappresentato la realtà del rapporto realmente intercorso tra di loro; l'esposizione di dati fittizi anche solo soggettivamente implica, quindi, la creazione delle premesse per un rimborso al quale non si avrebbe diritto in assenza dei contratti di appalto fittizi.
È bene sottolineare che, se nella maggior parte dei casi giunti a processo, gli emittenti fattura erano costituiti da “cartiere” che non versavano l’IVA a loro corrisposta dall’appaltante, ma la incameravano per garantire a quest’ultimo un costo della manodopera concorrenziale, tuttavia, la circostanza che l’IVA sia stata realmente corrisposta all’appaltatore e da questi versata all’Erario è stata ritenuta del tutto ininfluente ai fini dell’integrazione del reato, in virtù delle norme di diritto tributario e comunitario sopra richiamate.
Ma in alcune recenti sentenze sono stati affermati alcuni principi che si discostano dall’orientamento maggioritario assegnando rilevanza, nella prospettiva del delitto di cui all’art. 2 D.lgs 74/2000, anche alle imposte dirette.
Infatti, ciò che permette la deducibilità di tali imposte in base all’art. 109, comma 4, lett. b, T.U.I.R., è che si sia in presenza di costi effettivi, che, oltre ad essere inerenti, “risultino da elementi certi e precisi”.
Così, la sentenza della Corte di Cassazione, sez. III, n. 45114 del 28.10.22 relativa ad una fattispecie concreta in cui si era in presenza di operazione effettuate in regime di c.d. “reverse charge” o inversione contabile, in cui le fatture vengono emesse senza addebito di IVA, ritiene integrato il reato di cui all’art. 2 D.lgs 74/2000 anche in relazione alle imposte dirette (nel caso specifico Ires).
La conclusione si fonda sull’assunto che “il contratto di somministrazione irregolare di manodopera, in quanto affetto da nullità, determina costi non quantificabili e comunque diversi da quelli del contratto di appalto di servizi. A tal proposito, si consideri, ad esempio, che nella disciplina del D.Lgs. n. 276 del 2003, il lavoratore impiegato mediante il ricorso allo schema negoziale vietato potrebbe agire in giudizio per la costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze dell'utilizzatore effettivo”.
Ancora, è stato sottolineato che “i costi documentati in fatture per operazioni soggettivamente inesistenti non possono essere dedotti ai fini delle imposte dirette dal committente/cessionario, che consapevolmente li abbia sostenuti, in quanto essi sono espressione di distrazione verso finalità ulteriori e diverse da quelle proprie dell'attività dell'impresa, comportando la cessazione dell'indefettibile requisito dell'inerenza tra i costi medesimi e l'attività imprenditoriale”[21].
Un'altra recentissima pronuncia[22] evidenzia che, con riguardo all’imposta sui redditi, l’utilizzo di fatture relative ad un negozio giuridico apparente “apre la strada alla detrazione di costi anch’essi fittizi perché non correlati alla prestazione reale essendo funzionale ad abbattere indebitamente il reddito di esercizio mediante imputazione del costo dei servizi, rappresentato dal costo del lavoro che altrimenti le società non avrebbero potuto detrarre”.
Il quadro che emerge dall’analisi della giurisprudenza, seppur con diverse impostazioni, mostra un rischio penal-tributario a fronte di una somministrazione illecita di manodopera, in violazione delle norme giuslavoristiche, estremamente alto.
Non bisogna dimenticare che, contrariamente a quanto sostenuto dalla dottrina, la giurisprudenza considera queste fattispecie, che richiedono il dolo specifico di evasione, compatibili con il dolo eventuale. Si sostiene, con argomentazione assai discutibile, che “il dolo specifico richiesto per integrare il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 2, rappresentato dal perseguimento della finalità evasiva, che deve aggiungersi alla volontà di realizzare l'evento tipico (la presentazione della dichiarazione), è compatibile con il dolo eventuale, ravvisabile nell'accettazione del rischio che l'azione di presentazione della dichiarazione, comprensiva anche di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, possa comportare l'evasione delle imposte dirette o dell'Iva”[23].
Altra componente pesantemente punitiva deriva dal fatto che la contestazione della fattispecie di reato di cui all'art. 2 del D.lgs. 74/2000 può far scaturire un profilo di responsabilità penale anche in capo alle persone giuridiche. Infatti, la riforma del 2019 ha portato all'inserimento di molte delle fattispecie contemplate dal D.lgs. 74/2000 nel novero dei c.d. "reati presupposto" ai sensi del D.lgs. 231/2001 (art. 25 quinquiesdecies[24]).
Ne discende che le aziende possono essere soggette a sanzioni pecuniarie particolarmente afflittive o a sanzioni interdittive, tra cui il divieto di contrarre con la Pubblica Amministrazione o il divieto di ricevere agevolazioni da parte dello Stato.
Altrettanto gravi sono le previsioni in tema di confisca.
È bene ricordare che già in occasione della precedente riforma intervenuta con D.lgs. 24 settembre 2015, n. 158, è stato inserito, all'interno del D.Lgs. n. 74/2000, l'art. 12-bis, il quale prevede che, in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p., per un qualunque reato tra quelli previsti dal D.lgs. n. 74 del 2000, sia sempre ordinata la confisca dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo del reato e salvo che appartengano a persona estranea al reato (c.d. confisca diretta) ovvero, in subordine, la confisca dei beni nella disponibilità del reo per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto (c.d. confisca per equivalente).
L'art. 39, comma 1, lett. q), del D.l. n. 124/2019 ha, poi, inserito, nel D.lgs. n. 74/2000, l'art. 12-ter, affiancando alla citata confisca diretta o per equivalente, la confisca “in casi particolari” disciplinata dall'art. 240 bis c.p. (cd. per sproporzione).
La norma, che disciplina una ipotesi di misura di sicurezza, prevede che, in caso di condanna o di applicazione della pena per alcuni delitti tra quelli puniti ai sensi del D.lgs. n. 74/2000, si applica la confisca di denaro, beni o altre utilità dei quali il condannato non possa giustificare la provenienza e dei quali, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito.
Tale misura di sicurezza è applicabile solo in casi specifici, evidentemente ritenuti così gravi da meritare una risposta special-preventiva di tale portata, tuttavia, tra questi è inclusa la dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2 D.Lgs. n. 74 del 2000) quando l'ammontare degli elementi passivi fittizi sia superiore a 200.000 euro e, quindi, esclusi i casi attenuati di cui al comma 2 bis.
Le confische rappresentano il principale e, forse, più efficace strumento di contrasto della criminalità economica votata al profitto; un modo efficiente per ripristinare, sul piano patrimoniale, lo status quo ante la commissione di un reato, privando l’autore delle utilità economiche conseguite mediante l’illecito.
Va, infine, ricordato che, per quanto riguarda il rapporto tra confisca nei confronti della persona fisica e confisca nei confronti dell’ente, non vi è alcun «rapporto di sussidiarietà o di concorso apparente», ben potendo trovare entrambe applicazione concorrente e «fermo restando logicamente che l’espropriazione non potrà, in ogni caso, eccedere nel quantum l’entità complessiva del profitto».[25]
Al riguardo, onde evitare che il sequestro delle disponibilità finanziarie e dei beni di un ente possa –di fatto– impedirne in toto la prosecuzione dell’attività, l’art. 53 comma 1-bis D.Lgs. 231/01 contempla la eventualità che il custode-amministratore giudiziario, nominato dal giudice, ne consenta l’utilizzo e la gestione agli organi societari esclusivamente per garantire la continuità e lo sviluppo aziendali, vigilando e riferendo all’autorità giudiziaria.
4. Il “nuovo” reato di caporalato nel contrasto allo sfruttamento del lavoro: dalla ridefinizione della fattispecie di cui all’art. 603 bis c.p. all’applicazione della misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria ex art. 34 Codice Antimafia.
Il “caporalato” è individuabile come il fenomeno per cui un “caporale” si occupa, per conto del datore di lavoro, di radunare manodopera giornaliera, di solito non specializzata, da condurre sui luoghi di lavoro, prendendo per quest’attività una percentuale della paga. Per mezzo di questo sistema, il datore di lavoro può eludere il versamento dei contributi obbligatori, ridurre fortemente il costo del lavoro e raggiungere ugualmente i fini produttivi prefissati.
Tutto ciò, in particolar modo nella prima metà del secolo scorso, ha riguardato soprattutto il contesto delle colture intensive del Meridione italiano e, in seguito al rilevante ingresso di persone extra-comunitarie nel Nostro Paese, ha vissuto negli ultimi decenni una preoccupante ripresa[26].
Dinanzi a un fenomeno così tanto presente in Italia, il legislatore si è mosso con estrema lentezza e solo in tempi recenti ha predisposto una disciplina volta a contrastare efficacemente e in maniera specifica queste situazioni.
Prima dell’introduzione dell’articolo 603 bis c.p. nel 2011, norma posta a tutela della dignità del lavorare[27] e del suo status libertatis[28], il caporalato veniva fronteggiato dal legislatore principalmente mediante la disciplina giuslavoristica volta a reprimere l’interposizione e la somministrazione di manodopera[29].
Come affermato dalla Corte di Cassazione, il reato di intermediazione illecita “è destinato a colmare l’esistenza di una vera e propria lacuna nel sistema repressivo delle distorsioni del mercato del lavoro, e in definitiva, è finalizzato a sanzionare quei comportamenti che non si risolvono nella mera violazione delle regole poste dal D. Lgs. 10 settembre 2003, n. 276 (cfr. in specie l’art. 18), senza peraltro raggiungere le vette dello sfruttamento estremo, di cui alla fattispecie prefigurata dall’art. 600 c.p., come confermato dalla clausola di sussidiarietà con la quale si apre la previsione de qua”[30].
Si parla, a riguardo, del c.d. “caporalato grigio” ovvero della situazione in cui i lavoratori si trovano obbligati a lavorare privi di tutele, spesso subendo soprusi sotto il profilo della retribuzione e del trattamento, e a vivere in un persistente stato d’ansia dovuto al timore di perdere il lavoro[31].
A questa forma di caporalato, caratterizzata dall’assenza di un totale assoggettamento del lavoratore, si contrappone il c.d. “caporalato nero” ove il potere dell’intermediario sulla vita del lavoratore è tale da privare quest’ultimo della possibilità di autodeterminarsi liberamente[32].
Con riguardo al c.d. “caporalato nero”, una prima tutela penale era già arrivata nel 2003 con la Legge n. 228 che, modificando il reato di riduzione o mantenimento in schiavitù o servitù, ha previsto una sanzione penale per chiunque riducesse o mantenesse una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative. Tuttavia, la norma, tutelando lo status libertatis, puniva quei comportamenti che portavano una persona ad essere considerata al pari di una res e lasciava sfornite di tutela tutte le situazioni in cui il soggetto non veniva completamente privato della capacità di autodeterminarsi. Inoltre, sovente, la condotta posta in essere dal caporale poteva, ove ne ricorressero i presupposti, essere inquadrata all’interno del delitto di estorsione o in quello di violenza privata.
Complessivamente, quindi, prima dell’introduzione dell’articolo 603 bis nel codice penale, vi erano alcune disposizioni che potevano, pur in maniera indiretta, andare a colpire lo sfruttamento del lavoro povero, ma è soltanto con l’introduzione di detta norma che è stata fornita una repressione specifica, pur con le sue enormi lacune.
Infatti, l’art. 603 bis c.p., nella sua versione originaria, pur perseguendo un nobile scopo, non ha sortito i risultati sperati e nei cinque anni successivi al suo ingresso all’interno del codice penale sono stati pochissimi, in proporzione alla vastità del fenomeno, i procedimenti penali avviati: circa 34 procedimenti contro centinaia di migliaia di lavoratori sfruttati[33].
Le lacune principali di questa norma, secondo la dottrina prevalente, erano date dall’assenza dello strumento della confisca e della mancata previsione della responsabilità degli enti che era invece prevista per i reati di riduzione o mantenimento in schiavitù[34].
Più di tutto però, a rendere trascurabile, sotto il profilo dell’applicazione pratica, l’ingresso di questa norma nell’ordinamento italiano, è stata l’assenza di una previsione volta a colpire i datori di lavoro. Questi ultimi potevano essere incriminati soltanto in ipotesi di concorso di persone nel reato commesso dal caporale, ai sensi dell’articolo 110 del codice penale. Infatti, l’art. 603 bis c.p., nella sua originaria formulazione, si limitava a reprimere la condotta di chi svolgeva un’attività organizzata di intermediazione, reclutando lavoratori con l’utilizzo di violenza, minaccia o intimidazione. La situazione in cui versavano i lavoratori sottoposti a condizioni di sfruttamento da parte del datore di lavoro era, pertanto, esclusa dall’applicazione di questa norma. A rendere ancora più infruttuoso l’utilizzo concreto di questa norma è stata la necessità, per la magistratura inquirente, di dover fornire la prova della gestione in forma organizzata dell’attività di intermediazione, adempimento molto complesso[35].
È dunque stata sollevata da più parti l’opportunità di riformare la fattispecie: tale riforma è intervenuta nel 2016[36].
La legge n. 199 del 2016 ha esteso il novero dei soggetti penalmente punibili ricomprendendo tra questi anche il datore di lavoro, così “spostando il baricentro dell’incriminazione dal terreno dell’organizzazione criminale a quello dell’impresa lecita”[37]. Per entrambi questi soggetti è stata prevista la pena della reclusione da uno a sei anni e la multa da 500 a 1000 euro per ciascun lavoratore occupato.
Inoltre, sono stati eliminati i requisiti dell’organizzazione dell’attività, della violenza, minaccia e intimidazione, venendo così ampliata la sfera di operatività della norma[38]. Le condotte di violenza e minaccia rilevano attualmente soltanto quali circostanze aggravanti del reato e servono, pertanto, a regolare e inasprire il trattamento sanzionatorio.
Così riformulato, l’art. 603 bis c.p. ha consentito di avviare inchieste relative a casi di sfruttamento del lavoro meno evidenti e concernenti contesti diversi da quello agricolo, a cui originariamente era ricollegato lo sfruttamento.
La nuova formulazione della norma, differentemente dalla previgente, consente di perseguire situazioni in cui viene fatto fittiziamente ricorso al modello della prestazione occasionale di lavoro, in cui vengono stipulati contratti per un monte ore inferiore rispetto a quello reale o in cui i datori di lavoro pagano fittiziamente il compenso in busta paga chiedendone poi una parziale restituzione[39].
Il legislatore ha considerato la “condizione di sfruttamento” un elemento costitutivo del reato sia con riguardo all’attività di reclutamento, sia con riguardo a quella di utilizzazione, assunzione o impiego della manodopera. Tuttavia, non è stata fornita alcuna definizione di “sfruttamento”, concetto che risulta particolarmente ambiguo e fortemente influenzato dal contesto politico-culturale. Il termine “sfruttamento”, nel suo significato semantico, indica “l’utilizzazione ai fini di un rendimento funzionale di ciò che si ha a disposizione, ricavando il maggior utile o vantaggio possibile da una situazione”[40]. Trattandosi di un termine di per sé neutro, una definizione maggiormente precisa sarebbe stata più rispettosa del principio di determinatezza ma, ad ogni modo, in un’ottica di semplificazione dell’onere della prova per l’Accusa, è stata preferita l’enunciazione delle condotte rilevanti mediante l’impiego di indici di sfruttamento.
Questi indicatori non sono elementi costitutivi del reato e, di conseguenza, non sono direttamente soggetti al principio di legalità e ai suoi corollari, ma, agevolando l’interprete a individuare la condotta di sfruttamento, appaiono capaci di contribuire, in via indiretta, al rispetto dei principi di precisione e determinatezza.
Il primo di questi indici riguarda la “reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato”.
Non è quindi necessario che la retribuzione diverga sistematicamente, come era previsto nella disciplina previgente, dalla contrattazione collettiva ma è sufficiente che ciò avvenga in maniera reiterata. La giurisprudenza ha avuto modo di chiarire che “al fine di determinare quale sia il trattamento economico riservato al lavoratore, termine di riferimento per accertare se lo stesso sia sperequato rispetto a quanto previsto dalla contrattazione, deve essere indagato l’accordo intervenuto tra le parti”[41] e che “il riferimento alla corresponsione di una retribuzione inadeguata nel comma 3 n.1 dell’art. 603 bis, è evocativo del principio costituzionale che sancisce il diritto del lavoratore a una retribuzione sufficiente ad assicurargli un’esistenza libera e dignitosa (art. 36 Cost)”[42].
Il secondo indicatore riguarda “la reiterata violazione della normativa relativa all'orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all'aspettativa obbligatoria, alle ferie”. Anche con riguardo a questo indice è previsto il riferimento alla reiterazione delle violazioni e la norma deve essere interpretata con riguardo agli standard minimi di tutela, garantiti dalla Costituzione, da considerare secondo l’effettiva offesa al bene giuridico, pertanto non ogni violazione di tali normative costituisce indice di sfruttamento[43]. Coerentemente con questa ricostruzione, la Quarta Sezione della Corte di Cassazione ha affermato che la differenza di entità del monte ore effettivo rispetto a quello contrattuale, per avere rilevanza penale, deve essere tale da determinare una disparità di trattamento palese o eclatante nonché un’offesa alla dignità del lavoratore[44].
Il terzo indice attiene, in realtà in modo alquanto generico, alla “sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro”. Detta violazione non presenta il requisito della reiterazione e, tuttavia, la giurisprudenza ha recentemente ritenuto che “vale anche per la violazione di norme prevenzionistiche il principio che devono essere sistematiche, nel senso che devono essere plurime per ciascun lavoratore, non potendo sommarsi quelle relative a più lavoratori”[45]. Questa ricostruzione è stata fortemente criticata in quanto contrastante con il tenore letterale della norma[46]. A sostegno delle critiche, viene incontro la circostanza che la novella del 2016 ha eliminato l’inciso “tale da esporre il lavoratore a pericolo per la salute, la sicurezza o l’incolumità personale” e contemporaneamente ha introdotto una circostanza aggravante specifica del medesimo tenore al comma 4 n.3. Pertanto, lo scopo perseguito è stato chiaramente quello di estendere l’applicazione della norma anche nei casi in cui difetta un pericolo concreto per il lavoratore[47].
L’ultimo di questi indicatori concerne la “sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti”.
Si tratta di una elencazione di carattere meramente esemplificativo e non tassativo; pertanto, il giudice penale può individuare ulteriori situazioni suscettibili di dar luogo alla condotta di abuso del lavoratore[48]. Gli indici di sfruttamento sono considerati dalla giurisprudenza come “sintomi”, cioè indizi che devono essere valutati dal giudice ove suffragati dagli elementi di sfruttamento e approfittamento dello stato di bisogno: “esemplificando, la violazione delle disposizioni in tema di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro non è di per sè capace di integrare la condotta del delitto, occorrendo comunque che il lavoratore risulti sfruttato e che del suo stato di bisogno il datore di lavoro abbia profittato. Il legislatore, con l'elencazione degli indici di sfruttamento, ha inteso agevolare i compiti ricostruttivi del giudice, orientando l'indagine e l'accertamento in quei settori (retribuzione, condizioni di lavoro, condizioni alloggiative, ecc.) che rappresentano gli ambiti privilegiati di emersione di condotte di sfruttamento e di approfittamento”[49].
Gli indici, come affermato nella relazione ministeriale di accompagnamento alla legge, non rientrano nel fatto tipico, e di conseguenza la loro genericità non lede il principio di legalità. Gli stessi non possono consentire ex se presunzioni, assolute o relative, dello sfruttamento perché, se così non fosse, si avrebbe effettivamente una lesione delle garanzie proprie del processo penale[50].
In sostanza, il delitto in questione può risultare integrato dalla presenza di anche soltanto uno di questi indici purché sussistano gli elementi costitutivi del reato quali lo sfruttamento del lavoratore e l’approfittamento dello stato di bisogno di quest’ultimo da parte del datore di lavoro o del caporale. Infatti, la prova di una delle situazioni descritte dagli indici non può sostituirsi al necessario accertamento degli elementi essenziali del reato: gli indici non coincidono ontologicamente con lo sfruttamento, ma sono massime d’esperienza funzionali alla verifica, in sede processuale, della presenza dello sfruttamento stesso[51].
Orbene, dovendo colmare le lacune legislative e fornire una definizione, la giurisprudenza di legittimità ha definito lo sfruttamento come una condotta abituale consistente in “qualsiasi comportamento, anche se posto in essere senza violenza o minaccia, che inibisca o limiti la libertà di autodeterminazione della vittima senza che si renda necessario realizzare quello stato di totale e continuativa soggezione che caratterizza il delitto di riduzione in schiavitù”[52] e che “si caratterizza per la violazione reiterata della normativa giuslavoristica posta a presidio dei diritti fondamentali del lavoratore, e prima ancora dell’offesa diretta alla libertà di autodeterminazione e alla dignità della persona, è rilevabile una lesione della sua libertà contrattuale, che si manifesta nella violazione di norma extrapenali poste a tutela della sua dignità, appunto, di lavoratore”[53].
Ad ogni modo, il legislatore ha optato per sanzionare non tanto lo sfruttamento in sé, quanto lo sfruttamento mediante approfittamento di una situazione di bisogno del lavoratore, condizione che rileva quale elemento costitutivo del reato. Quindi, per integrare il reato non è sufficiente la sola presenza di una condizione di sfruttamento, eventualmente corroborata dagli indici indicati dalla norma, ma è essenziale che vi sia l’approfittamento dello stato di necessità del lavoratore. La giurisprudenza è orientata a intendere lo stato di bisogno come “impellenza che non consente al lavoratore di percepire un’alternativa possibile per far fronte alle proprie necessità economiche e che si evolve in uno stato degradante della propria dignità”[54] che “non va inteso come uno stato di necessità tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta, bensì come una situazione di grave difficoltà, anche temporanea, tale da limitare la volontà della vittima e da indurla ad accettare condizioni particolarmente svantaggiose”[55].
L’articolo 603 bis c.p. prevede, poi, delle circostanze aggravanti ove il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre, ove i soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa e nel caso in cui i lavoratori sfruttati sono stati esposti a situazioni di grave pericolo.
Ai sensi dell’articolo 603 bis.1 c.p., di contro, è prevista una circostanza attenuante a effetto speciale volta a incentivare la collaborazione processuale mediante una diminuzione della pena da un terzo a due terzi. Detta circostanza è riconosciuta a chi, rendendo dichiarazioni su quanto a sua conoscenza “si adopera per evitare che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero aiuta concretamente l’autorità di polizia o giudiziaria nella raccolta di prove decisive per l’individuazione o la cattura dei concorrenti o per il sequestro delle somme o altre utilità trasferite”.
Come anticipato, la nuova formulazione della norma ha comportato un aumento esponenziale delle inchieste e ha consentito di far emergere lo sfruttamento lavorativo anche al di fuori del contesto agricolo.
Il “Quarto rapporto del Laboratorio sullo sfruttamento lavorativo e sulla protezione delle vittime”, realizzato nel 2022 da “Altro Diritto” e dalla “Flai/CGIL”, ha fatto emergere come le inchieste concernenti lo sfruttamento sul lavoro siano arrivate, secondo i dati raccolti, a 458 nel 2021 mentre, prima della riforma del 2016, i procedimenti penali pendenti erano soltanto 34. Questo incremento ha anche comportato una modifica dell’ubicazione geografica delle inchieste: se l’assoluta maggioranza dei procedimenti penali inerenti il reato di cui all’art. 603 bis c.p., ante novella del 2016, erano instaurati nel Sud, attualmente la distribuzione è sostanzialmente omogenea. Alla data dell’indagine risultavano pendenti, infatti, 138 procedimenti nelle Procure del Nord Italia, 138 in quelle del Centro e 182 in quelle del Sud.
Il dato più rilevante emerso dal Rapporto riguarda, però, l’oggetto dei procedimenti penali instaurati. Le inchieste che si riferiscono al settore agricolo sono ancora quelle numericamente più consistenti, ma sono presenti sempre più procedimenti penali concernenti settori diversi quali la logistica e i trasporti (per cui alla conclusione del 2021 risultavano avviati 19 procedimenti), il volantinaggio, la cantieristica navale, l’industria tessile, l’edilizia, il turismo e l’attività di cura.
Ad esempio, in relazione alle contestazioni del reato di caporalato nel settore della logistica è spesso presente un soggetto, l’agenzia o l’appaltatore, che risulta titolare di molti dei poteri del datore di lavoro ed è pertanto complesso dimostrare in giudizio il dolo dell’utilizzatore effettivo. Infatti, a meno che esista un rapporto diretto tra l’utilizzatore della prestazione lavorativa e i soggetti occupati, non è semplice dimostrare la consapevolezza dello stato di bisogno delle vittime.
Per quanto riguarda le conseguenze di natura patrimoniale derivanti dalla commissione del reato riveste assoluta rilevanza la confisca obbligatoria prevista all’art. 603 bis.2 del codice penale a mente del quale, in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti per il delitto in questione, è sempre obbligatoria “la confisca delle cose che servirono o furono destinata a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto o il profitto, salvo che appartengano a persona estranea al reato” fatti salvi i diritti della persona offesa alle restituzioni e al risarcimento del danno.
Questa misura di sicurezza patrimoniale, che prima del 2016 era facoltativa in quanto possibile soltanto in virtù dei principi generali stabiliti dall’art. 240 c.p., è attualmente obbligatoria: il giudice è tenuto a disporla ed è privato di qualsivoglia discrezionalità a riguardo. Oltre a ciò, il legislatore ha previsto, ove non sia possibile disporre la confisca diretta, la confisca per equivalente e cioè la confisca di beni di cui il reo ha la disponibilità, anche indirettamente o per interposta persona, per un valore corrispondente al prodotto, prezzo o profitto del reato.
La riforma del 2016 ha inserito l’art. 603 bis c.p. all’interno delle ipotesi che legittimano la confisca allargata, attualmente disciplinata dall’art. 240 bis del codice penale. Pertanto, ai sensi di questo articolo, ove intervenga condanna o applicazione della pena su richiesta ex art. 444 c.p.p. per il delitto di caporalato o di sfruttamento del lavoro, “è sempre disposta la confisca del denaro, dei beni o delle altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito, dichiarato ai fini delle imposte sul reddito, o alla propria attività economica” e “quando non è possibile procedere alla confisca del denaro, dei beni e delle altre utilità di cui allo stesso comma, il giudice ordina la confisca di altre somme di denaro, di beni e altre utilità di legittima provenienza per un valore equivalente, delle quali il reo ha la disponibilità, anche per interposta persona”.
Il fondamento di questa disposizione viene rinvenuto nella presunzione che l’accumulo di ricchezza di un soggetto condannato per il delitto di caporalato sia conseguenza del reato stesso e pertanto illecito[56]. Si tratta di una presunzione relativa superabile ove venga fornita adeguata giustificazione in merito alla provenienza dei beni, del denaro o delle altre utilità.
Recentemente, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno ribadito l’ammissibilità della confisca anche di beni pervenuti successivamente alla sentenza di condanna ove i cespiti siano frutto dell’impiego di mezzi finanziari ottenuti in un momento antecedente, fatto salvo il criterio della “ragionevolezza temporale” [57].
In merito, il già menzionato “Quarto rapporto del Laboratorio sullo sfruttamento lavorativo e sulla protezione delle vittime” segnala come pressoché tutti i provvedimenti conclusivi dei procedimenti penali concernenti il reato di cui all’art. 603 bis c.p. hanno disposto la confisca di taluni beni. Il report evidenzia come l’ablazione sia uno degli strumenti principali per contrastare i fenomeni di sfruttamento in quanto, potendo essere disposto anche per equivalente, riveste un importante ruolo in chiave deterrente e preventiva.
Solitamente, oggetto di confisca sono i mezzi utilizzati per portare al lavoro le persone offese, gli alloggi dati in uso ai lavoratori e le somme corrispondenti al risparmio di spesa conseguito dal datore di lavoro tramite lo sfruttamento. Difatti, la giurisprudenza ritiene che anche il risparmio di spesa sia una forma di profitto[58] e che tale nozione “non corrisponde soltanto alle differenze retributive non riconosciute ai lavoratori, ma è una nozione più ampia nella quale deve ricomprendersi ogni arricchimento o utilità patrimoniale conseguiti dall’indagato, che si pongano in rapporto di immediata e diretta derivazione causale con la condotta illecita contestata”[59]. Trattandosi di un “reato contratto”, riguardante un rapporto di lavoro intrinsecamente illecito, quindi nullo e non semplicemente annullabile, al profitto confiscabile non si possono detrarre i costi derivanti dal rapporto illecito[60].
Oltre alle confische, che rappresentano una tradizionale misura di natura ablativa prevista per i reati più gravi, il legislatore ha previsto ulteriori strumenti di contrasto volti a colpire direttamente l’ente giuridico coinvolto in attività criminali.
In primo luogo, la legge 199/2016 ha inserito il reato di cui all’art. 603 bis c.p. nel catalogo dei reati presupposto ex D.lgs 231/01 all’art. 25 quinquies, il quale prevede che la società, nel cui interesse o vantaggio, sia stato commesso il delitto di caporalato è soggetta alla sanzione pecuniaria da quattrocento a mille quote, alle sanzioni interdittive previste dall’art. 9, comma 2, per la durata non inferiore ad 1 anno e, laddove si accerti che l’ente sia stato utilizzato allo scopo unico o prevalente di consentire o agevolare la commissione del reato, all’interdizione definitiva dall’attività ai sensi dell’art. 16 comma 3.
Inoltre, la stessa legge 199/2016 ha previsto una specifica misura cautelare reale ovvero il possibile controllo giudiziario dell’azienda nel cui contesto è stato commesso il reato di cui all’art. 603 bis c.p.. L’art. 3 (“Controllo giudiziario dell’azienda e rimozione delle condizioni di sfruttamento”) dispone che nei procedimenti per i reati previsti dall'articolo 603 bis c.p., qualora ricorrano i presupposti indicati nel comma 1 dell'articolo 321 del codice di procedura penale, il giudice dispone, in luogo del sequestro[61], il controllo giudiziario dell'azienda presso cui è stato commesso il reato, “qualora l'interruzione dell’attività imprenditoriale possa comportare ripercussioni negative sui livelli occupazionali o compromettere il valore economico del complesso aziendale”.
Con il decreto con cui dispone il controllo giudiziario dell’azienda, il giudice che procede per il reato nomina un amministratore giudiziario che affianca l'imprenditore nella gestione dell'azienda ed autorizza lo svolgimento degli atti di amministrazione. La norma prevede che l'amministratore giudiziario, al fine di impedire che si verifichino situazioni di grave sfruttamento lavorativo, debba controllare il rispetto delle norme e delle condizioni lavorative la cui violazione costituisce indice di sfruttamento lavorativo, procedere alla regolarizzazione dei lavoratori che al momento dell'avvio del procedimento per i reati previsti dall'articolo 603 bis c.p. prestavano la propria attività lavorativa in assenza di un regolare contratto e, al fine di impedire che le violazioni si ripetano, adottare adeguate misure anche in difformità da quelle proposte dall'imprenditore o dal gestore.
Ma il controllo giudiziario non è l’unica misura rimediale prevista dal Legislatore per arginare il fenomeno della criminalità di impresa connessa allo sfruttamento del lavoro.
Con la riforma del Codice antimafia del 2017, nell’ambito della misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria prevista dall’art. 34 D.lgs 159/2011, norma oggetto di incisiva rimodulazione rispetto alla disciplina previgente, è stata inserita anche la fattispecie di cui all’art. 603 bis c.p. tra i reati che possono determinare l’applicazione della suddetta misura.
Ai sensi di tale norma, il Tribunale competente per l'applicazione delle misure di prevenzione può disporre l’amministrazione giudiziaria qualora ricorrano specifici e sufficienti indizi per ritenere che il libero esercizio di determinate attività economiche, comprese quelle imprenditoriali, abbia carattere ausiliario ed agevolatorio rispetto all'attività: delle persone nei confronti delle quali è stata proposta o applicata una misura di prevenzione; ovvero di persone sottoposte a procedimento penale per taluno dei seguenti delitti: associazione di stampo mafioso; reati previsti dall'art. 51 c. 3-bis c.p.p. ovvero del delitto di cui all'art. 12-quinquies comma 1 del D.l. 8.6.1991, n. 306 conv., con modif., dalla 1. 7.8.1992, n. 356, delitto assistenza agli associati ex art. 418 c.p.; delitto di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche ex art. 640-bis c.p.; delitto di associazione per delinquere ex art. 416 c.p. finalizzato alla commissione di taluno dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione con esclusione del reato di abuso d'ufficio; delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro ex art. 603-bis c.p.; delitti di estorsione, usura, riciclaggio ed impiego di denaro, beni o utilità di illecita provenienza (artt. 629, 644, 648-bis e 648-ter c.p.).
La novella legislativa ha determinato nella pratica giudiziaria l’applicazione frequente di questa misura nei confronti di enti utilizzatori finali di manodopera - fornita da soggetti indagati del reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (tipicamente cooperative e consorzi) -, spesso destinatari, in filoni di indagine paralleli, di specifiche contestazioni di frode fiscale per l’emissione di fatture per operazioni inesistenti.
Il Tribunale di Milano, sezione autonoma misure di prevenzione, in numerosi provvedimenti, emessi su richiesta della Procura della Repubblica di Milano in vicende aventi come presupposto della misura il reato di cui all’art. 603 bis c.p., (es. Ceva Logistics[62], UBER[63], BRT[64]), ha tracciato le linee applicative ed interpretative dell’istituto.
In particolare è stato precisato che “la finalità dell'istituto dell'amministrazione giudiziaria non è, infatti, tanto repressiva, quanto preventiva, volta, cioè, non a punire l'imprenditore che sia intraneo all'associazione criminale, quanto a contrastare la contaminazione antigiuridica di imprese sane, sottoponendole a controllo giudiziario con la finalità di sottrarle, il più rapidamente possibile, all'infiltrazione criminale e restituirle al libero mercato una volta depurate dagli elementi inquinanti”.
Il presupposto che distingue la misura di prevenzione di cui all’art. 34 Codice Antimafia dalla misura del controllo giudiziario di cui all’art. 3 legge 199/2016, che prevede la sottoposizione a controllo dell’azienda presso cui è stato commesso il reato ed a cui appartengono gli autori del reato, è che l’amministrazione giudiziaria può essere disposta nei confronti dell’imprenditore o di colui che esercita l’attività economica soltanto se è “terzo” rispetto all’agevolato. Nel caso in cui il soggetto per cui viene richiesta l’amministrazione giudiziaria fosse coinvolto nell’attività illecita dell’agevolato (ad esempio come prestanome, concorrente o favoreggiatore ex art. 378 c.p.) non potrebbe applicarsi la misura.
Al riguardo, proprio con lo scopo di distinguere le ipotesi di responsabilità penale da quella di agevolazione rilevante ex art. 34 Codice Antimafia, il Tribunale di Milano della prevenzione, ha elaborato un criterio discretivo imperniato sul titolo soggettivo della rimproverabilità della condotta dell’ente: la misura di prevenzione è applicabile ove il contributo agevolatore apportato ai soggetti indicati nella norma sia di natura colposa (intesa come violazione di normali regole di prudenza e buona amministrazione imprenditoriale esigibili sul paino della legalità da un soggetto che opera ad un livello medio-alto nel settore degli appalti di opere e servizi) senza che ci sia una piena consapevolezza della relazione di agevolazione mentre, ove tale consapevolezza sia presente, l’attività dell’ente sarà inquadrabile all’interno delle fattispecie concorsuali o di favoreggiamento all’attività criminale.
Pertanto, nell’ambito di vicende legate allo sfruttamento del lavoro, l’azienda destinataria della misura non concorre nel reato di caporalato commesso da soggetti fornitori di manodopera formalmente datori di lavoro dei lavoratori ma lo agevola colposamente nelle forme indicate dalla norma.
L’amministrazione giudiziaria può essere impiegata per un periodo massimo di un anno, con possibilità di proroga di ulteriori sei mesi, fino ad un totale complessivo di due anni qualora venga evidenziata la necessità di completare il programma di sostegno e di aiuto alle imprese amministrate e la rimozione delle situazioni di illegalità riscontrate.
Questa misura, essendo strutturata come uno strumento di prevenzione flessibile, permette dunque un intervento proporzionato ed adeguato, con un impatto graduato sulla realtà imprenditoriale e, di conseguenza, sugli aspetti occupazionali. La norma prevede, infatti, che all’amministratore giudiziario, che esercita tutte le facoltà spettanti ai titolari dei diritti sui beni e sulle aziende oggetto della misura, nel caso di società, possa esercitare i poteri spettanti agli organi di amministrazione ed agli altri organi sociali secondo le modalità stabilite dal Tribunale, “tenendo conto delle esigenze di prosecuzione dell’attività di impresa”.
Il paradigma adottato nei provvedimenti citati, come in molti altri, è stato quello di una collaborazione tra amministratore giudiziario e management della società al fine di consentire il risanamento della compagine societaria e il ripristino della legalità.
Tra le varie attività da svolgere congiuntamente agli amministratori della società è stata ricompresa anche la valutazione circa l’esistenza e l’idoneità del Modello Organizzativo di cui al Decreto Legislativo 231/2001 per prevenire fattispecie di reato della specie di quello di caporalato, con ciò confermando l’importante ruolo preventivo ad esso attribuito.
5. La rilevanza giudiziale dei comportamenti virtuosi dell’Ente nell’esperienza milanese
Nell’ambito delle misure di prevenzione il recente provvedimento del 25 luglio 2023 del Tribunale di Milano - Sezione Misure di prevenzione si distingue per un approccio totalmente inedito ed innovativo.
La Procura della Repubblica di Milano dopo avere eseguito un sequestro preventivo d'urgenza per molti milioni di euro nei confronti di Esselunga, importante società operante nel campo della distribuzione, in un'indagine per reati fiscali con al centro una presunta “somministrazione illecita di manodopera”, ha richiesto di applicare la misura di prevenzione dell’amministrazione giudiziaria exart. 34 D.lgs 159/2011 perché tale società risultava essersi avvalsa di altra società coinvolta in fenomeni di caporalato ed a sua volta sottoposta a controllo giudiziario. Vista la fattiva disponibilità della società ad attuare un’attività di risanamento l’organo inquirente chiedeva al Tribunale, prima di emettere la misura, di instaurare un contraddittorio partecipato con la società stessa al fine di monitorare i progressi in ottica di legalizzazione.
Il Tribunale ha accolto la richiesta osservando che l’applicazione di una misura di prevenzione, in una situazione in cui la società già nell’ambito del procedimento penale ha manifestato un comportamento virtuoso, “svolgerebbe nei confronti della società oggetto di richiesta soltanto un’efficacia afflittiva-sanzionatoria e non già, almeno fino all’esito delle verifiche delle azioni di (ri)legalizzazione poste in essere, quella preventiva tipica degli istituti richiamati che partono da una valutazione di censura nell’organizzazione societaria e trovano nell’intervento del Tribunale della Prevenzione un necessario momento di riqualificazione orientata alla prevenzione di eventi criminosi accertati al momento dell’adozione della misura medesima”.
Il Tribunale di Milano ha, pertanto, deciso di estendere l’istituto del contraddittorio anticipato, previsto soltanto per l’interdittiva antimafia ai sensi dell’art. 92 del Codice antimafia, anche alla misura di prevenzione giurisdizionale ex art. 34 D.lgs 159/2011 in quelle fattispecie in cui il Pubblico Ministero agisca su un doppio fronte giudiziario (penale e della prevenzione).
In conclusione, la decisione sull’applicazione della misura è stata differita, senza un limite temporale, all’esito dell’attività di risanamento aziendale.
Siamo al cospetto di un provvedimento giurisdizionale espressione della logica riparativa che dimostra di privilegiare un percorso negoziale attraverso un contraddittorio partecipato ed anticipato che consente di raggiungere più efficacemente l’obiettivo di risanamento aziendale, rispetto ad un iter giudiziario ordinario che può essere sproporzionato rispetto al fine perseguito.
In realtà si tratta di un approccio non nuovo da parte della Procura della repubblica di Milano che, in un procedimento analogo, in cui era stata mossa una imputazione ex d.lgs. 231/2001 ad una società in relazione a reati fiscali legati allo sfruttamento lavorativo, ha chiesto l’archiviazione del procedimento[65] per avere l’ente rimediato alla situazione di illegalità riscontrata, ai sensi dell’art. 17 D.lgs 231/01, tramite: - il versamento all’Agenzia delle Entrate, mediante ravvedimento operoso, dell’imposta complessivamente evasa, comprensiva di interessi e sanzioni previsti per l’illecito tributario;
- l’assunzione dei lavoratori precedentemente inquadrati come prestatori d’opera alle dipendenze delle cooperative che si erano aggiudicate gli appalti;
- l’implementazione di un Modello organizzativo ex D.lgs 231/01 volto a prevenire reati della specie di quello verificatosi.
Ravvisando l’idem factum contestato alla società, sia in sede amministrativo-tributaria che nel procedimento ex D.lgs 231/01, l’organo inquirente, sfruttando la peculiarità della disciplina sulla responsabilità degli enti che riserva direttamente al Pubblico Ministero il potere di disporre l’archiviazione, con un provvedimento condivisibile ed assolutamente innovativo, ha rinunciato ad esercitare l’azione penale in considerazione del conseguito risultato, oltre che del fatto che l’applicazione di ulteriori misure avrebbe comportato una duplicazione sanzionatoria nei confronti dell’ente, facendo pertanto corretta applicazione del principio del ne bis in idem elaborato dalla giurisprudenza delle Corti europee in materia.
Particolarmente pregevole è l’attenzione all’aspetto reputazionale ovvero agli effetti stigmatizzanti ed afflittivi che il coinvolgimento in un procedimento penale determinerebbe a carico dell’ente già colpito dalle sanzioni tributarie.
Logica riparativa e proporzionalità della pena dischiudono, dunque, scenari innovativi di grande interesse nell’ambito della risoluzione di vicende giudiziarie legate alla criminalità di impresa e devono essere stimolo per l’ente a dotarsi di un apparato organizzativo adeguato, non soltanto post factum, ma anche in ottica preventiva per evitare di essere avvinte nelle maglie della giustizia.
6. Il sistema di compliance preventivo nel sistema 231: un importante strumento di mitigazione del rischio per l’Ente
Come è stato illustrato nel presente contributo, il rischio di interposizione illecita di manodopera non è che la genesi di profili di rischio dalle conseguenze ben più gravi, non soltanto a carico dei soggetti autori dei reati fiscali o del reato di caporalato, ma anche per gli enti interessati dalla realizzazione di queste specifiche fattispecie criminose.
L’intervento giudiziario e la risposta sanzionatoria sull’attività di impresa, dalle misure ablative alle misure interdittive o a quelle di prevenzione, come si è visto, possono essere fortemente penalizzanti sia per le ripercussioni dirette di natura economica che per quelle che vanno ad incidere sulla stessa operatività aziendale. Senza dimenticare il rischio reputazionale che può manifestarsi in plurime relazioni nel mercato di riferimento, ad esempio nei rapporti con la clientela o con gli istituti bancari.
L’Ente è, pertanto, chiamato a svolgere un’attività di compliance particolarmente attenta e profonda per mappare e tracciare tutte le aree sensibili in chiave preventiva.
L'adozione e adeguata implementazione del Modello di organizzazione, gestione e controllo ai sensi del D.lgs. 231/2001, funge da mitigantimportante ove l'ente abbia previsto all'interno del proprio Modello l'astratta configurazione dell'illecito commesso, e dunque, abbia adottato dei presidi di controllo per prevenire la commissione. Il Modello si pone, infatti, come misura di organizzazione primaria per la prevenzione dei reati in questione la cui funzione è ribadita anche nei provvedimenti che sono stati citati e di cui occorre tenere debitamente conto per individuare le corrette strategie di presidio del rischio di utilizzo illecito di forza lavoro.
La corretta gestione degli appalti, dei distacchi di lavoratori e della somministrazione di manodopera, in cui possono annidarsi i rischi penali e tributari di cui si è discorso, è dunque il primo step del risk assessment funzionale alla prevenzione a cui deve conseguire la definizione di regole e protocolli interni che individuino puntualmente i ruoli aziendali responsabili dei processi sensibili, le sfere di competenza e le fasi di controllo e monitoraggio.
Occorrerà, pertanto, prestare particolare attenzione alla scelta delle controparti contrattali individuando soggetti che rispondano ai più alti standard professionali, etici e di legalità. I meccanismi di qualificazione dei fornitori nonché la creazione di una anagrafica degli stessi sono strumenti efficaci per valutare la congruità della controparte sotto il profilo reputazionale, fiscale, contributivo e rispettoso della normativa in materia di igiene e sicurezza sul lavoro, mediante la richiesta di documentazione attestante tali requisiti.
Dopo avere scrupolosamente proceduto alla qualifica preliminare del fornitore è necessario redigere idonei contratti di appalto, accordi di distacco o contratti di somministrazione, a seconda dei casi, nel pieno rispetto della normativa di settore e dei principi elaborati dalla giurisprudenza giuslavoristica. Particolarmente interessante è l'adozione della certificazione dei contratti di appalto specificamente prevista dall'art. 84 del D.Lgs. n. 276/03 che, sul fronte penalistico può fungere da argomento difensivo con riferimento al criterio soggettivo, in quanto, risulterebbe più difficile dimostrare la conoscenza della diversa natura contrattuale dell'operazione a fronte della riscontrata verifica della genuinità del contratto.
Vi sono, poi, tutta un serie di presidi da adottare nella fase esecutiva scongiurando situazioni di ingerenza da parte del committente nelle attività oggetto di appalto che, come si è visto, sono un pericoloso campanello di allarme della esistenza di una interposizione illecita di manodopera.
Un secondo ambito di implementazione del Modello organizzativo afferisce più specificamente la gestione della fiscalità per prevenire il rischio penal-tributario. Dovranno essere adottati presidi di controllo specifici volti a verificare la reale natura della prestazione, la corretta applicazione dell’IVA e delle aliquote fiscali nelle fatture ricevute dai fornitori, oltre che il rispetto delle condizioni stabilite contrattualmente che debbono condurre alla risoluzione del contratto in caso di condotte illecite poste in essere dalle controparti con riferimento a criticità di natura fiscale.
Ovviamente questi processi dovranno essere inseriti in uno strutturato sistema di verifica e monitoraggio continuativi delle controparti, funzionali ad intercettare potenziali situazioni di criticità fonte di responsabilità del committente.
Per quanto riguarda, invece, il rischio di sfruttamento del lavoro della manodopera da parte del datore di lavoro dovranno essere sottoposte ad attenta valutazione le aree ed i processi relativi all’assunzione del personale, al rapporto contrattuale con i dipendenti, all’applicazione delle norme di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro.
Infine, posto che le peculiarità degli aspetti giuslavoristici e fiscali richiedono specifiche conoscenze professionali è di centrale importanza definire programmi di formazione mirati rivolti ai soggetti che operano in tali aree di rischio per responsabilizzarli ad una corretta gestione dei processi sensibili.
In conclusione, i vantaggi di una corretta compliance sono di tutta evidenza e la spinta giudiziaria ad adottare modelli imprenditoriali virtuosi è un forte segnale che, allo stato attuale, non può essere ignorato.
[1] A. ASNAGHI, “La somministrazione fraudolenta nel “Decreto dignità”: cronaca di una fattispecie” in www.lavoridirittieuropa.it
[2] Cfr. Cass. pen., sez. III, Sent. 27 aprile 2010 n. 16381; Cass. Pen. Sez. III, Sent. 17 giugno 2015 n. 25313.
[3] P. RAUSEI, “Somministrazione fraudolenta: accertamenti e sanzioni” in Diritto & Pratica del lavoro, n. 13, 2018, pag. 790. Dello stesso autore si segnala anche per un commento alla Circolare n. 3/2019 dell’INL: “Somministrazione di lavoro fraudolenta quando è configurabile il reato” in Diritto e Pratica del Lavoro n. 13/2019.
[4] Cfr. in proposito Cass. pen Sez. III, Sent. 30 ottobre 2015 n. 43813.
[5] Cass. Pen. Sez. III, Sent. 21 gennaio 2022 n. 16302. Negli stessi termini Cass. Pen. Sez.III, Sent. 26 giugno 2020, n.20901.
[6] Cass. Pen. Sez. III, Sent. 4 marzo 2021 n. 8809.
[7] Cass. Pen. Sez. III, Sent. 28 novembre 2022 n. 45114.
[8] Cass. pen. Sez. II, Sent. 11 marzo 2020 n. 9758
[9] Si riporta il testo dell’art. 8 d.lgs 74/2000: “1. È punito con la reclusione da quattro a otto anni chiunque, al fine di consentire a terzi l'evasione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.
2. Ai fini dell'applicazione della disposizione prevista dal comma 1, l'emissione o il rilascio di più fatture o documenti per operazioni inesistenti nel corso del medesimo periodo di imposta si considera come un solo reato.
2-bis. Se l'importo non rispondente al vero indicato nelle fatture o nei documenti, per periodo d'imposta, è inferiore a euro 100.000, si applica la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni”.
[10] Si riporta il testo dell’art. 2 D.Lgs 74/2000: “1. È punito con la reclusione da quattro a otto anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi.
2. Il fatto si considera commesso avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti quando tali fatture o documenti sono registrati nelle scritture contabili obbligatorie, o sono detenuti a fine di prova nei confronti dell'amministrazione finanziaria.
3. Se l'ammontare degli elementi passivi fittizi è inferiore a euro 100.000, si applica la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni”.
[11] Cass. Sez. III, Sent. 20 gennaio 2020 n. 1998.
[12] Cass. Sez. III, Sent. 15 luglio 2020, n. 20901; Id. Cass. Sez. III, Sent. 9 luglio 2018 n. 30874; Id., . Cass. Sez. III, Sent 29 gennaio 2019 n.4236.
[13] L. IMPERATO, “Art.1”, in Diritto e procedura penale tributaria a cura di Caraccioli, Giarda, Lanzi, pag.41. A. TADIOTTO, Reati tributari e fatture per operazioni “giuridicamente inesistenti”: tra inesistenza oggettiva e operazioni simulate, in Sistema Penale, 9/2023.
[14] V. NAPOLEONI, I fondamenti del nuovo diritto penale tributario nel d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, cit, p. 57; U. NANNUCCI – A. D’AVIRRO, La riforma del diritto penale tributario (d.lgs. 10 marzo 2000 n. 74), cit., pag. 59; A. TRAVERSI – S. GENNAI, I nuovi delitti tributari, Milano, 2000, p. 174; M. DI SIENA, La nuova disciplina dei reati tributari. Imposte dirette e IVA, Milano, pag. 110. Nello stesso senso v. anche A. LANZI – P. ALDROVANDI, L’illecito tributario, Padova, 2001, p. 119.
[15] In tal senso, cfr., Cass. pen., Sez. III, Sent. 28 aprile 2022 n. 16302; conf. Cass. pen., Sez. III, Sent. 15 luglio 2020 n. 20901; inoltre, Cass. Pen, Sez. III, Sent. 30 marzo 2022 n. 11633; Id, Cass. Pen, Sez. III, Sent. 6 settembre 2021 n. 32877; Id, Cass. Pen, Sez. III, Sent. 4 marzo 2020 n. 8809; Cass. Pen. Sez. IV Sent. 15 settembre 2022, n. 33994, tutte concernenti la medesima vicenda.
[16] Tra le tante, Cass. Civ, sez. V, Ord. 17 novembre 2021, n. 34876; Id., Cass. Civ. Sez. V, Ord. 26 giugno 2020, n. 12807; Id., Cass. Civ. Sez. V, Ord. 7 dicembre 2018, n. 31720; Id., Cass. Civ. Sez. V, Ord. 5 luglio 2013, n. 16852.
[17] Così Cass. pen., Sez. III, Sent. 28 aprile 2022 n. 16302, DHL, cit.
[18] Sempre Cass. pen., Sez. III, Sent. 28 aprile 2022 n. 16302, cit.
[19] Corte Giust., 8.5.2019, EN.SA. Srl, C -712/17; v. anche sentenza del 27 giugno 2018, SGI e Valeriane, C-459/17 e C-460/17; Corte Giust. 11.12.2014, Idexx Laboratories, causa C -590/13.
[20] Cass. pen., Sez. III, Sent. 28 aprile 2022 n. 16302, cit.
[21] Cass., sez. III, Sent. 12 dicembre 2019 n. 50362.
[22] Cass. Pen. sez. III, Sent. 10 maggio 2023 n. 19595.
[23] Cass. Pen. sez. III Sent. 21 novembre 2018, n. 52411; Id., Cass. Pen, Sez. III, Sent. 6 settembre 2021 n. 32877.
[24] “Art. 25 quinquiesdecies D.lgs 231/01: “1. In relazione alla commissione dei delitti previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, si applicano all'ente le seguenti sanzioni pecuniarie:
a) per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti previsto dall'articolo 2, comma 1, la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote;
b) per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall'articolo 2, comma 2-bis, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote;
c) per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, previsto dall'articolo 3, la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote;
d) per il delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall'articolo 8, comma 1, la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote;
e) per il delitto di emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, previsto dall'articolo 8, comma 2-bis, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote;
f) per il delitto di occultamento o distruzione di documenti contabili, previsto dall'articolo 10, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote;
g) per il delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, previsto dall'articolo 11, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote.
1-bis. In relazione alla commissione dei delitti previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, quando sono commessi al fine di evadere l'imposta sul valore aggiunto nell'ambito di sistemi fraudolenti transfrontalieri connessi al territorio di almeno un altro Stato membro dell'Unione europea, da cui consegua o possa conseguire un danno complessivo pari o superiore a dieci milioni di euro, si applicano all'ente le seguenti sanzioni pecuniarie:
a) per il delitto di dichiarazione infedele previsto dall'articolo 4, la sanzione pecuniaria fino a trecento quote;
b) per il delitto di omessa dichiarazione previsto dall'articolo 5, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote;
c) per il delitto di indebita compensazione previsto dall'articolo 10 quater, la sanzione pecuniaria fino a quattrocento quote.
2. Se, in seguito alla commissione dei delitti indicati ai commi 1 e 1-bis, l'ente ha conseguito un profitto di rilevante entità, la sanzione pecuniaria è aumentata di un terzo.
3. Nei casi previsti dai commi 1, 1-bis e 2, si applicano le sanzioni interdittive di cui all'articolo 9, comma 2, lettere c), d) ed e)”
[25] Così, Cass. pen., Sez. Un., Sent. n. 2 luglio 2008 n. 26654, Fisia Italimpianti S.p.A..
[26] M. LOMBARDO, Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, in Dig. Disc. Pen., 2013, pag. 358 e ss.
[27] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. 7 marzo 2023 n. 9473.
[28] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. 1 febbraio 2022 n. 3554.
[29] P. PASSANITI, Il diritto al lavoro come antidoto al caporalato, in AA.VV. Agricoltura senza caporalato, a cura di F. DI MARZIO, ROMA, 2017, pag. 35 ss.
[30] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. 1 febbraio 2019 n. 5081.
[31] E. TOMASINELLI, Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro: una recente pronuncia del Tribunale di Milano in tema di “caporalato grigio”, pag. 20 in Giurisprudenza Penale, Web, 2019, 12, Rivista Giuridica Registrata presso il Tribunale di Milano
[32] A. MERLO, Il Contrasto Allo Sfruttamento Del Lavoro e Al Caporalato Dai Braccianti Ai Riders – La Fattispecie Dell’art. 603 Bis C.P. E Il Ruolo Del Diritto Penale, Torino, 2020, Pag. 16 ss.
[33] A. MERLO, Il Contrasto Allo Sfruttamento Del Lavoro e Al Caporalato Dai Braccianti Ai Riders – La Fattispecie Dell’art. 603 Bis C.P. E Il Ruolo Del Diritto Penale, Torino, 2020, Pag. 52.
[34] P. BRAMBILLA, “Caporalato tradizionale” e “nuovo caporalato”: recenti riforme a contrasto del fenomeno in Rivista Trimestrale di Diritto Penale dell’Economia, n. 1-2, 1 gennaio 2017, pag. 188 ss.
[35] A. MERLO, Il Contrasto Allo Sfruttamento Del Lavoro E Al Caporalato Dai Braccianti Ai Riders – La Fattispecie Dell’art. 603 Bis C.P. E Il Ruolo Del Diritto Penale, Torino, pag. 53 ss.
[36] Si riporta il testo dell’art. 603 bis c.p. nell’attuale formulazione: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato, chiunque:
1) recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori;
2) utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al numero 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno.
Se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia, si applica la pena della reclusione da cinque a otto anni e la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato.
Ai fini del presente articolo, costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni:
1) la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;
2) la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie;
3) la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;
4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.
Costituiscono aggravante specifica e comportano l’aumento della pena da un terzo alla metà:
1) il fatto che il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre;
2) il fatto che uno o più dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa;
3) l´aver commesso il fatto esponendo i lavoratori sfruttati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro.
[37] S. BRASCHI, Il Reato di Intermediazione Illecita e sfruttamento del lavoro: elementi costitutivi e apparato sanzionatorio in Lavoro Diritti Europa, Rivista Nuova del Diritto del Lavoro, n. 2/2022, pag.7.
[38] V. TORRE, Il diritto penale e la filiera dello sfruttamento, in Giornale di diritto del lavoro e di relazione industriale, 2018, n. 158, pag. 294.
[39] E. SANTORO, L’altro diritto centro interuniversitario di ricerca su carcere, devianza, marginalità e governo della migrazione: primi dati sul contrasto allo sfruttamento lavorativo, Firenze, 2018, pag. 1 ss.
[40] A. PECCIOLI, I profili di sospetta illegittimità costituzionale del c.d. caporalato: la ragionevolezza del trattamento sanzionatorio e la determinatezza degli indici di sfruttamento, pag. 3 in Diritto Penale e Processo, n. 8, 1 agosto 2021, pag. 1043.
[41] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. 22 dicembre 2021 n. 46842.
[42] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. 1 febbraio 2022 n. 3554.
[43] S. ROSSI, Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro: gli incerti confini della fattispecie, pag. 3 in “Il lavoro nella giurisprudenza, n. 8-9, 1 agosto 2023, pag. 811.
[44] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. 22 aprile 2022 n. 15684
[45] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. 13 dicembre 2021 n. 45615
[46] R. GUARINIELLO, Caporalato, la sicurezza del lavoro tra gli indicatori di sfruttamento, pag. 3 in Igiene e Sicurezza del Lavoro n. 3, 1 marzo 2023, pag. 131.
[47] A. MERLO, Il Contrasto Allo Sfruttamento Del Lavoro E Al Caporalato Dai Braccianti Ai Riders – La Fattispecie Dell’art. 603 Bis C.P. E Il Ruolo Del Diritto Penale, Torino, Pag. 85.
[48] Cass. Pen. Sez. IV. Sent. 4 marzo 2022 n. 7857.
[49] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. 7 luglio 2021 n. 25756.
[50] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. 13 dicembre 2021 n. 45615.
[51] A. PECCIOLI, I profili di sospetta illegittimità costituzionale del c.d. caporalato: la ragionevolezza del trattamento sanzionatorio e la determinatezza degli indici di sfruttamento, pag. 3 in Diritto Penale e Processo, n. 8, 1 agosto 2021, pag. 1043
[52] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. 7 luglio 2021 n. 25756.
[53] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. 18 marzo 2021 n. 10554.
[54] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. 2 settembre 2022 n. 32262.
[55] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. 13 dicembre 2021 n. 45615.
[56] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. 21 febbraio 2022 n. 5872.
[57] Cass. Pen. Sez. Un. Sent. 15 luglio 2021 n. 27421.
[58] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. 25 luglio 2022 n. 29397.
[59] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. 5 gennaio 2023 n. 106/2023.
[60] Cass. Pen. Sez. IV, Sent. 16 novembre 2022 n. 43470.
[61] Cass. Sez. IV Pen. 14 marzo 2022, n. 8545 (Conferma Trib. ries. Milano 29 marzo 2021) ha precisato che “in tema di reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, in caso di sequestro dell’azienda funzionale alla confisca obbligatoria di cui all’art. 603-bis.2 c.p., non è applicabile il controllo giudiziario, essendo previsto dalla L. 29 ottobre 2016, n. 199, art. 3 come misura alternativa al solo sequestro "impeditivo" di cui all’art. 321 c.p.p., comma 1. Nel caso di sequestro finalizzato alla confisca, infatti, si nomina un amministratore giudiziario se si tratta di beni aziendali, ma la misura ablativa rimane in vigore. Nel caso, invece, di sequestro preventivo "impeditivo", la misura cautelare reale può essere sostituita da quella del controllo giudiziario, disciplinata secondo le regole previste dai primi tre commi della L. n. 199 del 2016, art. 3”.
[62] Tribunale di Milano, Sezione Autonoma Misure di Prevenzione, Decreto n. 11 del 6 maggio 2019.
[63] Tribunale di Milano, Sezione Autonoma Misure di Prevenzione, Decreto n. 9 del 27 maggio 2020, in merito A. Merlo, Sfruttamento dei riders: amministrazione giudiziaria ad Uber per contrastare il “caporalato digitale”, in Sist. pen., 2 giugno 2020; A. Quattrocchi, Le nuove manifestazioni della prevenzione patrimoniale: amministrazione giudiziaria e contrasto al “caporalato” nel caso Uber, in Giust. pen., 6, 2020.; M. Barberio - V. Camurri, L’amministrazione giudiziaria di Uber: un possibile cortocircuito tra il sistema giuslavoristico e le misure di prevenzione, in Giust. pen., 7, 2020.
[64] Tribunale di Milano, Sezione Autonoma Misure di Prevenzione, Decreto n. 6 del 23 marzo 2023.
[65] Procura della Repubblica Presso il Tribunale Ordinario di Milano, Decreto di Archiviazione del 9 novembre 2022 (dep. 11 novembre 2022).