ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Tra le attribuzioni del Consiglio Superiore della Magistratura, quella di carattere consultivo in favore del legislatore non è tra le più studiate e, pur tuttavia, è tra le più controverse, per l’ambito, i modi, l’oggetto. A riportarla di attualità, pur in assenza di contrasti paragonabili a quelli del passato, sono alcune operazioni di revisione critica in ordine alle interferenze dell’attività giurisdizionale nella sfera di pertinenza di altri poteri dello Stato e al ruolo del governo autonomo dei magistrati. Le posizioni esistenti su questi temi influenzano le letture divergenti dell’art. 10, comma 2, della legge 195/1958. Per quanto questa vi si presti, nella sua concisione, esistono però una prassi consiliare, avalli istituzionali autorevoli e punti fermi dottrinali che non possono essere dimenticati.
Sommario: 1. Il dibattito consiliare. 2. Il dato normativo. 3. Leale collaborazione e buon andamento degli uffici giudiziari. 4. A chi si indirizzano i pareri. 5. L’oggetto. 6. Il parere sulla conformità a Costituzione. 7. Gli atti su cui il CSM esprime i pareri. 8. Il parere espresso d’iniziativa.
1. Il dibattito consiliare.
L’approvazione recente di un parere sullo schema di conversione di un decreto legge è stata l’occasione per dibattere in adunanza plenaria dei limiti riconosciuti al Consiglio Superiore della Magistratura nell’esercizio dell’attribuzione consultiva rispetto ai rapporti col legislatore [1]. Nella circostanza v’è stato chi ha mosso critiche alla delibera perché il parere che si proponeva di votare avrebbe esorbitato dal perimetro consentito; lo sconfinamento sarebbe sorto dal fatto che il parere non si limitava a trattare in modo neutro delle ricadute che la nuova disciplina avrebbe avuto sull’organizzazione degli uffici giudiziari, ma esprimeva pure valutazioni negative su singole disposizioni ritenute lacunose o asistematiche.
Nel caso specifico la delibera è stata poi approvata dal Plenum a larga maggioranza (tre astensioni).
Il dibattito ha messo in luce più che in altre recenti occasioni l’esistenza di posizioni molto difformi in seno al Consiglio Superiore. Si tratta di divergenze certamente favorite dall’esistenza di nodi storicamente irrisolti, nella dottrina, nella lettura del dato normativo che assegna al CSM questa attribuzione, ma vistosamente riconducibili a visioni diverse sul ruolo del Consiglio e dei suoi rapporti con il Ministro della giustizia. Non pare casuale che esse emergano nella fase storica in cui gli effetti stessi dell’esercizio dell’attività giudiziaria vengono (ri)messi in discussione con argomenti che investono l’orizzonte della separazione dei poteri.
Intervenendo il 30 novembre nel Plenum straordinario convocato per la sua visita, il Ministro della giustizia ha espresso la volontà di incrementare la richiesta al CSM di pareri su testi che siano non solo di legislazione primaria, ma anche regolamentari. È possibile che questa apertura a un fecondo dialogo giuridico tra Istituzioni stemperi le divergenze emerse settimane prima.
Tuttavia, esse vivono anche al di fuori del CSM, frutto e al contempo causa del tentativo di delimitare con la massima precisione possibile i ruoli degli organi protagonisti dello scenario istituzionale, col risultato inevitabile di valorizzarne alcuni a discapito di altri. Questa operazione, per certi versi comprensibile nel suo intento di prevenire occasioni di possibile frizione tra le istituzioni, rischia di travolgere alcuni paletti che parevano ormai solidamente sistemati; ogni delimitazione di confine, pur se mossa da commendevoli ragioni di certezza, può rivelarsi ancora più dannosa, se non sia basata su mappe e tracciati sicuri.
2. Il dato normativo.
Senza coltivare la pretesa di arrivare a risolvere gli aspetti più controvertibili, conviene dunque ricordare quei punti fermi, per evitare che anche le certezze ormai acquisite vengano travolte da uno spirito revisionista del tutto contingente e non sufficientemente meditato.
Come noto, l’art. 10 della legge n. 195/1958, dopo avere elencato le materie su cui al Consiglio spetta di deliberare, aggiunge, al secondo comma, che “può fare proposte al Ministro per la grazia e giustizia sulle modificazioni delle circoscrizioni giudiziarie e su tutte le materie riguardanti l'organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia. Dà pareri al Ministro, sui disegni di legge concernenti l'ordinamento giudiziario, l'amministrazione della giustizia e su ogni altro oggetto comunque attinente alle predette materie”.
L’ultimo comma è norma di chiusura, giacché aggiunge che il CSM “delibera su ogni altra materia ad esso attribuita dalla legge”.
È venuta così a configurarsi una funzione propulsiva e consultiva, di carattere tecnico-giuridico, attraverso la quale il Consiglio instaura un dialogo con gli organi titolari dell’indirizzo politico e che si esprime attraverso tre tipologie di atto: proposte (art. 10, co. 2, prima parte); pareri (art. 10, co. 2, seconda parte); relazione sullo stato della giustizia (art. 43 del regolamento interno del CSM).
È bene precisare che quest’ultima, per quanto non prevista da norma primaria, trova fondamento in una pratica sorta negli anni sessanta del secolo scorso, prima ancora della sua codificazione nella regolamentazione dell’attività consiliare. Viene ricordato in proposito l’ordine del giorno approvato dal Senato della Repubblica il 29 gennaio 1969, in cui si valutava “sommamente opportuno” che il Ministro presentasse una relazione annuale sullo stato della giustizia accludendovi “analoga relazione del Consiglio superiore della magistratura” [2].
3. Leale collaborazione e buon andamento degli uffici giudiziari.
L’idea di un collegamento tra CSM e legislatore ha quindi una storia condivisa e radicata nel tempo. Già questo sola constatazione basterebbe a inficiare l’ipotesi di un’illegittimità dell’art. 10, secondo comma, della legge 195/1958, avanzata sulla base del fatto che l’espressione dei pareri non sia inclusa tra le potestà elencate espressamente dall’art. 105 della Costituzione [3].
Storicamente i contenuti della relazione tra CSM e Ministro della giustizia, in particolare, vengono maggiormente focalizzati con l’aumentare dell’attenzione verso l’attuazione delle disposizioni costituzionali (specialmente in materia di indipendenza e autonomia dei magistrati) e, in epoca più recente, per l’esigenza di perseguire il buon andamento dell’amministrazione della giustizia [4].
Per quanto concepito come organo di garanzia dell’indipendenza dei magistrati, il Consiglio esercita una funzione di amministrazione della giurisdizione [5] nel quadro costituzionale. Perciò le sue competenze in materia di assetto degli uffici giudiziari (si pensi alle delibere su tabelle e progetti organizzativi) o relative al percorso professionale dei magistrati non possono essere esercitate con riferimento al mero rispetto di regole formali, ma implicano anche valutazioni di adeguatezza delle attività e delle soluzioni, dovendo guardare all’efficienza dell’organizzazione.
Anche sull’estensione delle competenze in tema di organizzazione e funzionamento dei servizi attribuite al Ministro della giustizia (art. 110 Cost.) le opinioni dei costituzionalisti sono varie, non meno di quanto siano quelle relative alle funzioni affidate al CSM. Tutti concordano, però, sul fatto che entrambe queste istituzioni presiedano al sistema giudiziario nell’ambito di poteri che incidono a loro volta sull’amministrazione della giustizia. Da ciò deriva l’ineludibile necessità di una loro cooperazione diretta all’unico scopo, racchiusa nella locuzione “leale collaborazione”.
Questo concetto è stato approfondito dalla giurisprudenza costituzionale soprattutto in riferimento all’istituto del concerto, richiesto al Ministro sulla proposta di conferimento di funzione da parte del Consiglio (art. 11, co. 3, l. 195/58), e racchiude in sé le “regole di correttezza nei rapporti reciproci e di rispetto dell’altrui autonomia” [6], le quali impediscono a ciascuno dei due soggetti di “dare luogo ad atteggiamenti o comportamenti dilatori, pretestuosi, incongrui o contraddittori o insufficientemente motivati” [7].
Una volta che è stata costituzionalizzata la ragionevole durata del processo (art. 111, co. 2), il principio del buon andamento è andato progressivamente a identificarsi, almeno nel dibattito pubblico, con quello di efficienza del servizio; questo passaggio ha reso ancora più evidente l’esigenza di una collaborazione tra i due vertici dell’organizzazione giudiziaria, poiché, se è vero che l’efficienza chiama in causa in prima battuta il Ministero, quale organo deputato a dotare la macchina giudiziaria dei mezzi necessari, nondimeno pressoché ogni iniziativa dell’Amministrazione diretta a innovarne i servizi impatta sull’esercizio della giurisdizione, sicché il Consiglio non può risultarvi estraneo.
L’espressione, da parte di quest’ultimo, dei pareri sugli interventi legislativi e delle proposte normative rientra pertanto in un tale assetto relazionale.
4. A chi si indirizzano i pareri.
L’interrogativo che si è posto in ordine alla destinazione di tale funzione riguarda la possibilità che il CSM indirizzi i pareri e le proposte, almeno in caso specifici, anche al Parlamento, oltre che al Ministro. La prassi non è in questo senso e, probabilmente, non a caso. I regolamenti delle due Camere, infatti, non menzionano il Consiglio come loro possibile interlocutore, diversamente da altri soggetti istituzionali. In difetto di ciò, è difficile ravvisare l’eventualità di una stabile procedura di collegamento tra le Camere e il Consiglio, trattandosi di materia che l’art. 64 Cost. riserva alla disciplina dei regolamenti medesimi [8].
Lo stesso ordine del giorno approvato dal Senato il 29.1.1969, come s’è detto, auspicava una relazione da parte del CSM come mero allegato di quella ministeriale. Anche il regolamento dell’attività consiliare, quando ancora prevedeva la redazione della propria relazione sullo stato dell’amministrazione della giustizia “in conformità” a quell’ordine del giorno, ne disponeva comunque la trasmissione al solo Ministro per la grazia e la giustizia [9]. Dal 2016 quel riferimento è scomparso dal regolamento interno. La relazione sullo stato dell’amministrazione della giustizia continua a essere distribuita, per la sua discussione in seduta plenaria, esclusivamente al Ministro oltre che ai componenti del Consiglio (art. 43, co. 2, reg. int.).
Per altro verso la stessa commissione Paladin giudicava insoddisfacente, rispetto allo scopo dell’atto, l’assenza di un meccanismo che vincoli il Ministro a trasmettere alle Camere la relazione consiliare sullo stato dell’amministrazione della giustizia. È segno, questo, della riconosciuta utilità, per l’istituzione parlamentare, di un apporto del C.S.M. nonché della necessità che la collaborazione tra questo e il Ministro della giustizia sia improntato a lealtà.
In coerenza con questa ricostruzione si ritiene dunque che la funzione consultiva del Consiglio non sia esercitabile nei confronti del Parlamento senza la mediazione ministeriale [10].
5. L’oggetto.
L’art. 10, secondo comma, della legge n. 195/1958 rende evidente che il Consiglio non può dirigere il proprio intervento verso ogni iniziativa normativa e che, anzi, gli è preclusa la possibilità di esprimersi su alcuni terreni che pure toccano l’attività giudiziaria.
L’attribuzione risulta invero limitata a due ambiti specificamente nominati: “ordinamento giudiziario” e “amministrazione della giustizia”.
L’ordinamento giudiziario designa quel settore dell’ordinamento giuridico statale che disciplina, sotto il profilo organizzativo, le attività dei giudici, dei pubblici ministeri e dei loro collaboratori [11]. Si può quindi concludere che la prima locuzione normativa è riferibile a un complesso di norme. Da ciò consegue che il C.S.M. è chiamato a esprimere pareri sulle attività di riforma che incidano sull’assetto e il funzionamento degli organi che esercitano la giurisdizione.
Meno immediata appare l’interpretazione della seconda locuzione. La “amministrazione della giustizia” è astrattamente riferibile, infatti, tanto a un nucleo di elementi materiali e funzionali, che costituiscono l’apparato amministrativo di settore, quanto a un’attività, rappresentata dall’esercizio della giurisdizione.
La prima opzione è contraddetta da due rilievi.
In primo luogo, ci troveremmo di fronte a un concetto sostanzialmente sovrapponibile a quello della prima locuzione normativa, poiché, pur nella sua superiore astrattezza, la complessiva disciplina coincidente con l’ordinamento giudiziario già riguarda l’organizzazione dell’attività giudiziaria, alla quale è dedicata la macchina amministrativa del Ministero della giustizia. Attribuendo quel significato alla seconda espressione si finirebbe dunque per depotenziare del tutto l’efficacia descrittiva del binomio normativo.
In secondo luogo, va considerato che la locuzione integrativa seguente (“.. e su ogni altro oggetto comunque attinente alle predette materie”) chiarisce come i due concetti precedenti vadano a identificarsi con una materia. Ma l’amministrazione della giustizia, intesa nella sua dimensione statica, quale complesso di beni e servizi non è definibile come “una materia”. Lo è, viceversa, l’ordinamento giudiziario.
Molto più convincente, dunque, è la seconda opzione interpretativa, la quale porta a concludere che l’amministrazione della giustizia dell’art. 10, secondo comma, l. 195/1958 altro non è che la iurisdictio.
Una volta che sia stato così chiarito, il dato normativo porta ad affermare quindi che al Consiglio è affidata l’espressione di pareri sugli interventi legislativi che riguardano, da un lato, l’organizzazione e il funzionamento degli organi giudiziari e, dall’altro, l’esercizio concreto della giurisdizione. Da qui l’identificazione del loro possibile oggetto.
Cade dunque in errore chi – anche tra coloro che sono intervenuti nel dibattito plenario menzionato in premessa – ritenga l’attribuzione consultiva del CSM limitata ai pareri sulle sole norme incidenti l’organizzazione giudiziaria.
Vi rientrano, invece, le disposizioni che regolano il (o incidono sul) funzionamento degli organi giudiziari e quelli di natura processuale.
Vi rientrano altresì le norme di natura sostanziale che condizionino l’attività giurisdizionale, per le loro ricadute sul piano organizzativo, su quello processuale o, a maggiore ragione, su entrambi (si pensi all’introduzione di misure amministrative suscettibili d’influire sui flussi processuali).
Quanto al contenuto del rilievo che il CSM è chiamato a muovere, va considerato che l’interpretazione della legge è l’operazione più intimamente connessa alla giurisdizione, la prima, dunque, che, per la sua frequenza, influisce sull’andamento della giustizia e sulla ragionevole durata dei processi. Una norma oscura o aperta a più significati o distonica rispetto agli obiettivi enunciati dal legislatore si espone al rischio di decisioni tra loro contrastanti e dunque a un vulnus al valore della loro prevedibilità in funzione di uno stabile assetto dell’ordinamento giuridico sul quale i cittadini possano confidare [12].
È, pertanto, nella responsabilità del Consiglio superiore – esprimendo pareri improntati alla leale collaborazione che gli è richiesta – evidenziare al legislatore simili imperfezioni, nella misura in cui siano suscettibili di rendere imprevedibili, se non il quadro normativo [13], i risultati dell’attività giurisdizionale che lo interpreterà.
6. Il parere sulla conformità a Costituzione.
Di qui al rilievo di possibile costituzionalità del testo esaminato il passo è breve. Ma è un passo che entra nel territorio riservato alle attribuzioni del Presidente della Repubblica, in via preventiva, e della Consulta, in fase successiva.
La prassi ha conosciuto numerosi pareri in cui il Consiglio ha valutato la conformità a Costituzione di proposte normative. Vi è un drastica opinione contraria a tale facoltà, espressa dal Presidente Giorgio Napolitano: “non può esservi dubbio od equivoco sul fatto che al CSM non spetti in alcun modo quel vaglio di costituzionalità cui, com’è noto, nel nostro ordinamento sono legittimate altre istituzioni” [14]. Nel messaggio si coglie evidente la preoccupazione che una presa di posizione consiliare possa generare un conflitto istituzionale con gli organi ai quali quel controllo è stabilmente affidato.
Eppure anche gli autori meno propensi a una lettura estensiva della funzione consultiva del CSM ritengono dubbia una soluzione che gli neghi ogni valutazione di costituzionalità, soprattutto quando il parere venga espresso su richiesta del Ministro [15]. Altri, invece, non intravedono limiti in questa facoltà [16].
La questione è quindi delicata, poiché, se è difficile immaginare che il Consiglio debba astenersi da rilevare un vizio di legittimità, soprattutto se macroscopico, presente eventualmente in una norma, è altrettanto chiaro che un simile intervento può sconfinare nella sfera di attribuzioni non dell’organo cui il parere è rivolto, bensì di un’istituzione terza, titolare del controllo per Costituzione.
La soluzione potrebbe raggiungersi ricordando l’esigenza generale di salvaguardia della sistematicità e della stabilità dell’ordinamento giuridico. Il Consiglio potrebbe quindi riconoscersi investito del vaglio di costituzionalità di una disposizione, alla stregua della sua ragionevolezza, quando questa sia commisurata al più ampio quadro normativo, nel quale andrà a inserirsi, e al pericolo che l’interpretazione consequenziale possa minarne l’assetto.
Può cioè fondatamente sostenersi che il parere possa avanzare dubbi di compatibilità costituzionale (o di conformità all’ordinamenti euro-unitario) della disposizione in esame ogni volta in cui dal possibile contrasto con una norma sovraordinata possano derivare scelte ermeneutiche tra loro contraddittorie o confliggenti con l’obiettivo stesso enunciato dal legislatore: nel primo caso viene messa in discussione la stabilità del quadro normativo; nel secondo gli effetti delle decisioni giudiziali potrebbero rivelarsi asistematici. In entrambe le situazioni si avrebbe un risultato applicativo incerto che il Consiglio deve segnalare.
7. Gli atti su cui il CSM esprime i pareri.
L’art. 10, co. 2, menziona soltanto i “disegni di legge”, dunque gli atti di iniziativa governativa (art. 87, co. 4, Cost.); il che confermerebbe, tra l’altro, che il Consiglio Superiore dialoga col legislatore solo per il tramite del Ministro della giustizia.
Non sembra dubbio però il fatto che esso possa esprimersi anche sui regolamenti, nella forma dei decreti ministeriali, quando siano adottati in attuazione o siano comunque previsti dalla legge, se, ovviamente, abbiano per oggetto le materie di competenza. Sarebbe del tutto irragionevole, in effetti, che questa possibilità fosse preclusa al Consiglio (e che il Ministro non la attivasse, richiedendo lo specifico parere), dato che, come spesso accade, è il regolamento, più che la norma di legge generale, a impattare sull’organizzazione o sull’amministrazione della giustizia.
Si pone se mai una questione di effettività dell’attribuzione consiliare, quando il tempo a disposizione per fornire il parere sia in concreto inadeguato rispetto alla complessità delle questioni.
È in corso, per esempio, il dialogo istituzionale sull’attuazione delle infrastrutture digitali centralizzate per le intercettazioni telefoniche. L’art. 2, co. 3, d.l. 105/2023 (conv. nella legge 137/2023), che le ha istituite, ne ha demandato la realizzazione al Ministro attraverso almeno tre decreti (commi 2, 3 e 5); su ciascuno il Consiglio deve essere sentito – al pari del Garante per la protezione dei dati personali e del Comitato interministeriale per la cybersicurezza – “entro venti giorni dalla richiesta, decorsi i quali il provvedimento può essere adottato” (art. 2, co. 9, d.l. 105/2023). In ordine ai primi due decreti i venti giorni sono resi di fatto perentori dalla circostanza che al Ministero stesso siano dati termini insuperabili entro cui provvedere (sessanta giorni nel secondo comma e novanta nel terzo).
A chi conosca le procedure di deliberazione consiliare risulta evidente che venti giorni per esprimere un parere su temi altamente specialistici e settoriali – quali i requisiti tecnici specifici per la gestione (accesso, conservazione, trasferimento) dei dati relativi ai flussi delle conversazioni intercettate e per le garanzie di sicurezza delle relative infrastrutture – rappresentano una scadenza ben difficilmente conciliabile con una valutazione ponderata e approfondita.
La rilevanza conferita a tale funzione è testimoniata del resto dall’iter dei pareri, sistematicamente preceduti da una proposta della sesta commissione e previa consultazione formale dell’ufficio studi e documentazioni, mai emessi, per converso, per deliberazione diretta del Plenum [17], sebbene il regolamento consiliare lo consenta in via d’urgenza.
Perciò, quando la ristrettezza dei termini è destinata a comprimere i tempi della deliberazione, deve soccorrere la leale collaborazione tra le istituzioni, fatta anche di interlocuzioni preliminari che pongano il Consiglio nella condizione di rendere la propria consultazione effettiva e non formale.
La clausola di chiusura dell’art. 10, co. 2, l. 195/58 (“e su ogni altro oggetto comunque attinente alle predette materie”) consente infine di affermare che la funzione consultiva del CSM non è circoscritta ai soli disegni di legge e ai regolamenti che vi danno attuazione. L’oggetto è più ampio; il limite viene dalla materia, non dalla forma dell’atto.
Al Consiglio non è preclusa pertanto l’espressione di pareri sulle proposte di legge di origine parlamentare quando investano l’ordinamento giudiziario e l’esercizio della giurisdizione. Ciò vale, innanzi tutto, per gli atti di conversione dei decreti legge, stante l’impossibilità di un parere prima che il provvedimento d’urgenza sia adottato.
Ma ciò non può non estendersi anche al testo delle altre proposte legislative, una volta che questo si trovi formalmente depositato presso una delle Camere e l’iter di approvazione parlamentare sia stato avviato.
8. Il parere espresso d’iniziativa. La facoltà di esprimere pareri anche sulle proposte di legge di origine parlamentare si collega alla questione del possibile esercizio di questa attribuzione consultiva non su richiesta del Ministro, bensì per iniziativa del Consiglio.
V’è una prassi consolidata in tal senso, avallata autorevolmente anche da più di un Presidente della Repubblica [18], difesa espressamente da più di un vicepresidente del C.S.M. [19] e, pur tuttavia, non esente da critiche [20].
Va osservato, in primo luogo, che la legge non prevede alcuna richiesta.
A quello letterale si aggiungono peraltro altri argomenti a conforto della prassi consiliare, alcuni dei quali valgono a contrastare l’obiezione legata alla sua invadenza nella sfera legislativa: innanzi tutto il parere non è vincolante, sicché può fornire un contributo tecnico-giuridico, ma mai interferire con l’autonomia deliberativa del Parlamento, che lo può liberamente disattendere; secondariamente, la “collaborazione” istituzionale ha un contenuto ineludibile di doverosità, che richiede al Consiglio di fornire quel contributo ogni volta in cui ravvisi nell’attività legislativa in corso un intervento che interessi le materie affidate al suo governo. L’iniziativa del CSM pertanto, va letta non come intromissione, ma come ausilio nella ricerca della più efficace soluzione normativa sull’oggetto e rispetto alla linea di orientamento che il legislatore adotta nella più piena e incomprimibile autonomia politica.
D’altronde, se dovesse ritenersi che i pareri possano darsi solo a richiesta, si ammetterebbe la possibilità di una paralisi della funzione consultiva anche rispetto alle proposte di legge, poiché il Ministro stesso potrebbe omettere di richiederli. La storia, da questo punto di vista, insegna. Non convince al riguardo l’obiezione per cui il CSM. ha un’ampiezza di funzioni non azzerabili da un’ipotetica inerzia ministeriale: quella consultiva, infatti, è un’attribuzione specifica e singolare, dai contenuti e dagli effetti infungibili con quelli delle altre riconosciute al Consiglio; essa è l’unica idonea a favorire la formazione di leggi adeguate ai bisogni dell’ordinamento e della giurisdizione.
Collegata a questa considerazione è, infine, la questione dei contenuti dei pareri del CSM; periodicamente vengono commentate con avversione le espressioni di analisi critica che vi sono riportate, quasi che ogni manifestazione di dissenso determini di per sé un conflitto istituzionale.
È invero, invece, il contrario. La lealtà è propria di chi agisce con sincerità; e la sincerità giustifica la sottoposizione al pubblico dibattito e alla dialettica con le altre istituzioni delle problematiche che la legiferazione può comportare nella sfera della giurisdizione.
Altra cosa è il tono del dissenso e su questo non si può concordare con chi ha osservato che la nettezza di un’asserzione vada misurata non solo rispetto al ruolo dell’interlocutore, ma anche al livello del difetto che si intende censurare; perciò, ad esempio, se il C.S.M. intenda evidenziare un possibile profilo d’incostituzionalità, dovrà farlo avendo presente i possibili sconfinamenti della sua attribuzione rispetto al ruolo di altre cariche dello Stato. Ma questo è un problema di misura, non di limiti della funzione istituzionale.
[1] Il dibattito è avvenuto nel corso dell’adunanza plenaria del 25 ottobre 2023 e può essere riascoltato dal sito www.radioradicale.it/scheda/711669/consiglio-superiore-della-magistratura-plenum.
[2] Cfr. S. Gava, La crisi della giustizia. Discorso pronunciato al Senato nella seduta del 29 gennaio 1969 in risposta a varie mansioni, Tipografia delle Mantellate, 1969.
[3] Tesi “non peregrina”, secondo T. E. Frosini, I confini costituzionali del CSM e la riforma del sistema giustizia”, in www.federalismi.it 14, 2008, che richiama la ben più netta affermazione di E. Caianiello, in Istituzioni e liberalismo, Rubbettino, 2005, 56.
[4] Per giurisprudenza costituzionale consolidata, il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, pur essendo riferibile agli organi dell'amministrazione della giustizia, attiene esclusivamente alle leggi concernenti l’ordinamento degli uffici giudiziari e il loro funzionamento sotto l'aspetto amministrativo, mentre è estraneo all'esercizio della funzione giurisdizionale (così, tra le altre, Corte cost. 174/2005, 272/2008, 66/2014, 44/2016, 91/2018 e 90/2019).
[5] L’espressione si deve ad A. Pizzorusso, L’organizzazione della giustizia in Italia. La magistratura nel sistema politico e istituzionale, Einaudi, 1990, 95.
[6] Corte cost., 27 luglio 1992, n. 379. La sentenza viene commentata con riferimento ai rapporti più generali tra C.S.M. e Ministro della giustizia in N. Zanon e F. Biondi, Diritto costituzionale e dell’ordine giudiziario, Status e funzione dei magistrati alla luce deli principi e della giurisprudenza costituzionale, Giuffré, 2002, 15.
[7] Corte cost., 30 dicembre 2003, n. 380.
[8] In tal senso si esprime testualmente la commissione Paladin, istituita il 26 luglio 1990 dal Presidente della Repubblica Francesco Cossiga per rendere un parere sulla posizione istituzionale del Consiglio, reperibile in www.csm.it, pag. 159.
[9] Artt. 21, reg. int. approvato il 26 marzo 1976, e 28, reg. int. del 6 aprile 1988.
[10] N. Zanon, I pareri del Consiglio Superiore della Magistratura tra leale collaborazione e divisione dei poteri, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 2009, 3; F. Biondi, Profili costituzionali e ordinamento giudiziario: il ruolo del Csm, in www.air.unimi.it, 2010, 6.
[11] Così F. Dal Canto, in Lezioni di ordinamento giudiziario, Giappichelli, 2020, XV, secondo cui l’o.g. è altrimenti definibile come “quella parte del diritto pubblico che si occupa, da un punto di vista statico, dell’insieme di principi, regole ed istituti strumentali al funzionamento degli organi che esercitano l’attività giurisdizionale”.
[12] Sul “dovere costituzionale funzionale dei giudici di assicurare l’uniformità dell’interpretazione del diritto” cfr. G. Zagrebelsky, Manuale di diritto costituzionale, I, 1998, 88.
[13] Cfr. Corte cost., 24 gennaio 2017, n. 16, per cui l’affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica è “elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto”.
[14] Si tratta della lettera di G. Napolitano indirizzata l’1 luglio 2008 al vicepresidente N. Mancino, in www.archivio.quirinale.it/aspr/comunicati, e riferita al parere espresso dal C.S.M. sul c.d. “decreto sicurezza” (d.l. 23 maggio 2008, n. 92).
[15] Ci si riferisce a N. Zanon, I pareri del Consiglio Superiore della Magistratura tra leale collaborazione e divisione dei poteri, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 2009, 13.
[16] Così C. Salazar, in Il Consiglio Superiore della Magistratura e gli altri poteri dello Stato: un’indagine attraverso la giurisprudenza costituzionale, in www.forumcostituzionale.it, 2007, 13. Secondo E. Fortuna, I pareri del C.S.M. e i disegni di legge di sospetta incostituzionalità, in La magistratura, 2008, 241, “mai si sono posti dubbi sulla legittimità e opportunità di esprimersi anche sulla costituzionalità della norma, se ciò appariva necessario o utile al fine di stabilire fino a che punto fosse prevedibile una ricaduta positiva o negativa sull’organizzazione o sul funzionamento della macchina giudiziaria”.
[17] Ci si riferisce all’art. 23, co. 2, del vigente regolamento interno del CSM.
[18] Cfr. il discorso di C. A. Ciampi del 26 maggio 1999, in www.csm.it, e la lettera di G. Napolitano, già citata.
[19] Ci si riferisce agli interventi pubblici di N. Mancino, su La stampa dell’1 luglio 2008, Il Csm boccia la blocca processi. Napolitano, richiamo ai giudici, in www.lastampa.it/politica/2008, e di V. Rognoni, sul Corriere della sera del 7 luglio 2008, Perché i pareri del Csm sono legittimi, riportato in 19luglio1992.com/rassegna-stampa-7-luglio-2008.
[20] N. Zanon, I pareri, cit., 7 ss., il quale evoca per il Consiglio l’immagine della “terza Camera” che interviene, spesso con contenuti fortemente critici, magari dopo che una disegno di legge sia stato già approvato da un ramo del Parlamento, mettendo “in campo profili di rapporto tra poteri, che presentano una loro oggettiva «pesantezza»”.
[21] E. Paciotti, I tempi della giustizia, in I Quaderni di Astrid, Il Mulino, 2005, depreca proprio il fatto che “troppo spesso il Governo e lo stesso Parlamento hanno adottato innovazioni legislative in tema di ordinamento giudiziario e di giustizia senza che fosse richiesto in modo corretto ed effettivo il previsto parere del Consiglio superiore della magistratura. Il decreto sulla competitività, i decreti legge, e le relative leggi di conversione, in materia di proroga dei magistrati onorari, di proroga del procuratore nazionale antimafia, di trasferimento di competenze al giudice di pace, di prescrizione dei reati sono frutto di politiche di breve periodo e, spesso, addirittura emergenziali, che hanno finito per accrescere in via generale le difficoltà operative degli uffici giudiziari ed hanno ostacolato la programmazione dei lavori del Consiglio superiore della magistratura: l’intera politica sulla giustizia è stata sviluppata dal governo in modo profondamente autoreferenziale. Occorre, dunque, che su tutte le iniziative legislative che hanno ricadute in materia di ordinamento giudiziario, ivi comprese le disposizioni processuali di natura sistematica, il Ministro provveda a richiedere al Consiglio superiore un parere che, per le caratteristiche dell’organo da cui proviene, è in grado di fornire indicazioni e valutazioni potenzialmente di grande utilità”.
[22] Così ancora N. Zanon, I pareri, cit., 10.
[23] Così B. Giangiacomo, Le funzioni dei Consigli superiori della magistratura, in www.foroplus.it, 2011, 3.
[24] In tal modo può leggersi l’osservazione di N. Zanon, I pareri, cit., 14.
Tutti, anche i magistrati, hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione (in qualunque forma, anche non verbale). Ma l’esercizio di questa libertà porta con sé obblighi e responsabilità. Questo il quadro di principio come si ricava dalla integrazione dell’art. 21 della Costituzione con l’art. 10 della Convenzione europea dei diritti umani.
Il codice etico della magistratura richiede al magistrato di ispirarsi a “criteri di equilibrio, dignità e misura” in ogni forma di espressione pubblica e, in generale, di mantenere una immagine di imparzialità e di indipendenza.
Vi sono dunque degli obblighi che si traducono in limiti per il magistrato che si esprima pubblicamente fuori dell’esercizio delle sue funzioni. Limiti il cui superamento difficilmente dà luogo a qualche forma di illecito e che tuttavia definiscono la figura del magistrato nella società: essi richiedono sensibilità, prudenza, consapevolezza della speciale natura delle funzioni che sono proprie ed esclusive del magistrato ed anche delle attese sociali in ordine ad esse. Si tratta di un complesso di principi, esigenze e attese che hanno ampi margini di evanescenza. Quella stessa evanescenza che connota la nozione di “cultura della giurisdizione” cui spesso si richiama la magistratura associata e ha ricadute che distinguono il magistrato da ogni altro cittadino.
Da ciò - dev’esser chiaro - non si trae che “il giudice si esprime solo nelle sentenze”, secondo una pretesa di silenzio che non ha base alcuna e non risponde all’interesse pubblico in una società democratica. In questo senso è l’importante orientamento della Corte europea dei diritti umani, più volte investita di ricorsi promossi da magistrati (spesso esponenti di associazioni di magistrati) colpiti da sanzioni penali o disciplinari per le loro dichiarazioni pubbliche.
La Corte, con riferimento alla libertà di espressione, ha più volte indicato che in una società democratica le questioni relative alla separazione dei poteri e l’indipendenza della giustizia costituiscono soggetti importanti che richiedono un’ampia protezione. Da un lato la missione particolare del potere giudiziario impone ai magistrati un dovere di riserbo, anche perché le parole del magistrato sono ricevute come frutto di una valutazione obiettiva. Esse impegnano non solo chi le esprime, ma tutta l’istituzione giudiziaria. Si ha quindi ragione di aspettarsi che il magistrato si avvalga della libertà di espressione con discrezione e misura ogni volta che l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario (la cui protezione è menzionata dallo stesso art. 10 Conv.) rischino di esser messe in discussione. D’altro lato, il fatto che un dibattito su tali temi abbia delle implicazioni politiche non è ragione per impedire ad un giudice di esprimersi in proposito. E quando il magistrato si esprime nella qualità di attore della società civile, come un dirigente di un’associazione di magistrati, egli ha il dovere e non solo il diritto di intervenire su questioni che riguardano il funzionamento della giustizia.
Come si vede, l’insieme di principi ed esigenze che entrano in campo trattandosi della libertà di espressione dei magistrati implicano sempre delicati bilanciamenti e contemperamenti: l’intervento del magistrato (e di un’associazione) può essere addirittura un dovere in una società democratica, ma non deve mettere in discussione la indipendenza ed imparzialità della giustizia, la sua immagine e la fiducia che deve poterne avere la società. Difficile esercizio, sempre legato alle forme del caso concreto, che richiede responsabilità da parte del magistrato e, per converso, pretende rispetto da parte di coloro cui le espressioni del magistrato sono rivolte.
Indipendenza e imparzialità sono doveri fondamentali riguardanti i singoli magistrati e la magistratura nel suo insieme. Vi è un nesso stretto tra ciò che riguarda il singolo magistrato che si esprime e le ricadute sulla magistratura tutta. Quando si dice – e si pretende che abbia portata generale – che la magistratura è “potere diffuso”, si deve poi considerare che il potere giudiziario tutto è coinvolto nel comportamento dei singoli magistrati. D’altra parte, le espressioni pubbliche di un magistrato sono accompagnate da particolare attenzione, proprio perché chi parla è magistrato. Ciò vuol dire che il magistrato spende la sua qualità e quindi, che lo voglia o no, coinvolge la magistratura. Ecco allora un aspetto della “responsabilità” menzionata dall’art. 10 della Convenzione europea dei diritti umani.
L’imparzialità è un aspetto particolarmente delicato ed importante che emerge quando vi sia polemica nei confronti del magistrato (il giudice in particolare) per sue espressioni, nel caso in cui successivamente, nell’esercizio delle sue funzioni, si pronunci su questioni toccate dalle sue precedenti prese di posizione. Si è detto e ridetto recentemente che l’imparzialità si traduce nell’obbligo di motivazione dei provvedimenti, la quale consente di valutarla, anche con le conseguenze possibili in sede di impugnazione. Ma non è così. L’imparzialità è esigenza autonoma ed è un carattere (e dovere) che precede la presa in carico di un affare da parte del giudice. Lo dimostra l’obbligo di astensione e la possibilità di ricusazione. La possibilità che la propria imparzialità sia messa in discussione nel processo impone al giudice una particolare prudenza prima del processo stesso. Il codice etico della magistratura richiede al giudice di valutare con particolare rigore l’esistenza di motivi di astensione per gravi motivi. E non è dubbio che vi sia un dovere del giudice di non mettersi in condizione di doversi astenere. L’imparzialità è qualcosa che riguarda l’idea che se ne fa lo stesso giudice – che si sente imparziale – , ma soprattutto l’idea – non pretestuosa – che se ne fanno le parti processuali, con le ricadute possibili sull’opinione pubblica e sulla fiducia generale nella amministrazione della giustizia. A proposito dell’opinione pubblica o di suoi settori, si può certo volta per volta ritenere ch’essa sbagli nel giudicare l’imparzialità del magistrato. Ma pur nella difficoltà della questione, non si può semplicemente ignorarla, poiché la fiducia nella magistratura è essenziale condizione in una società democratica.
Le prese di posizione pubblicamente espresse dai giudici danno luogo a problemi incidenti sulla loro imparzialità su due livelli: quello della generale fiducia sulla imparzialità della magistratura indipendentemente dall’incidenza su singoli provvedimenti e quello relativo alla partecipazione del giudice alla decisione di uno specifico caso. Con riferimento a questa seconda ipotesi e al tema della astensione rileva la sufficiente specificità del rapporto tra l’opinione espressa e l’oggetto della causa. Così, ad esempio, si ritiene che prese di posizione che esprimono un generale orientamento politico non implichino successivamente un dovere di astensione. Ma quando invece un nesso sufficientemente stretto esista viene in discorso quel che la Corte costituzionale, in tema di incompatibilità, ha chiamato “forza di prevenzione”: la difficoltà di cambiare idea e la naturale tendenza a mantenerla, tanto più quando quell’idea non sia rimasta nel foro interno, ma sia stata esplicitata.
Imparzialità vuol dire anche disponibilità a cambiare idea all’esito dell’ascolto delle ragioni delle parti nel processo. In proposito esiste un campo importante di manifestazioni del pensiero, che il magistrato esprime in campi spesso strettamente legati a ciò che professionalmente deve trattare. Vi è, da sempre, una massiccia e ricca partecipazione di magistrati al dibattito dottrinale, con note a sentenza, articoli, relazioni a convegni, monografie su questioni di diritto, che spesso ricadono nel campo della loro attività giudiziaria. Non risulta che questa tipologia di partecipazione dei magistrati al dibattito sia stata messa in questione sotto il profilo della loro successiva imparzialità (esistono casi di ricusazione?). Forse perché si tratta normalmente di dibattito tecnico-giuridico? O perché zittire i magistrati significherebbe una troppo grave perdita sul piano dello svolgersi della elaborazione del diritto? La “forza di prevenzione” in tali casi non opera? O si ha fiducia nella capacità dei magistrati di allontanarsi dalle posizioni in precedenza espresse e ricollocarsi nel ruolo giudiziario (con le deliberazioni collegiali, quando è il caso, il richiamo ai precedenti, la considerazione degli argomenti sviluppati dalle parti, ecc.)?
La questione però esiste e non è irrilevante nel dibattito generale sull’incidenza delle manifestazioni del pensiero dei magistrati sulla loro imparzialità: vuoi per una improbabile restrizione della partecipazione dei magistrati al dibattito dottrinale, vuoi per una meno schematica e polemica considerazione del tema generale.
(Immagine: Grandville, Descente Dans Les Ateliers De La Liberté De La Presse, Bibliothèque nationale de France, https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b53006319v)
Il 2023 è stato l’anno del centenario della nascita di Italo Calvino. Per ricordarlo, proponiamo la lettura di un racconto breve che scrisse nel 1943, appena ventenne.
Il racconto è di singolare attualità. Nel paese in cui è ambientata la storia, a seguito di iper produzione normativa, gli abitanti hanno dimenticato che “la vera giustizia è ascoltare le querele degli uomini e, a seconda dei casi, giudicare e per ciascuno dire diversa sentenza ma con un animo uguale e rettitudine”.
A seguito di due fatti, solo apparentemente identici, e due possibili condanne all’impiccagione, quando il primo imputato viene assolto e il secondo condannato si scopre che gli articoli di legge, utilizzati a mo’ di algoritmo, non assicurano la giustizia del caso concreto, perché non tutte le circostanze del fatto sono contemplate nella fattispecie astratta.
La sentenza del giudice svela l’inganno dell’algoritmo. In quel paese “qualcosa non va”.
Occorre risolvere il problema. La soluzione adottata è: “fare leggi contro i giudici”. Il giudice riprende il mulo e lascia il paese.
Con questo racconto auguriamo ai Lettori e alle Lettrici di Giustizia Insieme il 2024 migliore possibile, senza leggi contro i giudici e che i giudici, come i pubblici ministeri, possano decidere, come scrive Calvino, "con animo uguale e rettitudine".
Il Giudice sul mulo di Italo Calvino
In un paese impiccavano uno.
Intanto arrivò un vecchio su un mulo e la gente si mise a guardarlo.
Il vecchio si sedette sotto un albero grande che era di quercia e stava in mezzo alla piazza e la gente gli chiese: “Chi sei?”
“Giudice”, rispose il vecchio.
E la gente chiese cos'era giudice.
“Noi lo sappiamo”, dissero gli anziani, “quando le leggi ancora non erano complete succedeva che venivano i dubbi nel condannare uno e nel dar ragione o torto all'altro c'era quello apposta che decideva delle ragioni e dei torti e delle pene da dare a uno ed ecco quello era il giudice.”
“Bene”, disse la gente, “qui ora il giudice non serve qui ora le leggi sono complete, tutto è previsto, non ci sono più dubbi sulla ragione e sul torto sulle pene da dare a uno. Il giudice non serve.”
“Va bè”, disse il giudice. “Io però vi dico che i casi del mondo sono sempre diversi una volta dall'altra e chiedono leggi nuove ogni momento e ogni uomo.”
“Questo è anarchia”, disse la gente che era intorno.
“No che non è", disse il vecchio, “perché vera è giustizia ascoltare le querele degli uomini e a seconda dei casi giudicare e per ciascuno dire diversa sentenza ma con un animo uguale e rettitudine e queste sono le virtù del saggio.”
La gente chiese cos’era saggio ma neanche gli anziani lo ricordavano.
Ora avendo la gente sempre tendenza verso le cose nuove e molti, in essa avendo in dispetto alcuna delle leggi scritte, avvenne che fu detto al vecchio: “Proviamo cosa sai fare”.
Il vecchio diede ordine che togliessero il basto al mulo e indicando un uomo che stavano impiccando, disse: “Cominciamo da quello”.
“Ma quello”, disse la gente, “se lo impiccano è perché deve essere impiccato.”
“Vediamo”, disse il giudice. “Conducetelo a me.”
Così il condannato gli fu condotto e il giudice chiese cosa aveva fatto.
“Ha fatto che ha ammazzato sua moglie con un colpo di scure in testa”, dissero gli altri. “Bisogna vedere le circostanze”, disse il vecchio.
“Le circostanze sono previste dai codici”, risposero gli altri e ci fu chi disse dei numeri.
“Nei codici c'è tutto”, continuarono. “Dei secoli ci sono voluti per farli ma adesso sono completi ci sono tutti i casi che possono succedere. Se uno ammazza sua moglie con un colpo di scure in testa, per esempio. E lì ci sono tutti i casi e le aggravanti e le attenuanti e tutte le combinazioni possibili delle aggravanti e delle attenuanti. Poi, in fondo a ognuna, c'è scritta la pena. Per un caso come il suo c'è scritto: sta impiccato. Dei secoli ci sono voluti per farli.”
“Vediamo”, disse il giudice e interrogò l'imputato, vide che aveva ragione e lo mandò assolto.
La gente rimase lì che non sapeva cosa dire. Avevano impiegato dei secoli a fare delle leggi che fossero complete, adesso che capitava un caso che combinava così bene con le leggi, ecco che veniva fuori uno a dire che tutto era sbagliato.
Così erano tutti lì che non sapevano cosa dire. Uno pensò di trarne vantaggio.
“Facciamo bene i conti”, pensò. “Come è capitato a lui di ammazzare la moglie, così può capitare a me. Tutto sta a non sbagliare i calcoli”
Così andò a casa prese la scure e ammazzò la moglie.
Poi andò a costituirsi. Le guardie lo portarono sotto la quercia dal giudice.
Lui disse come erano andate le cose né più nemmeno come quello di prima.
“Allora”, disse il vecchio, “vuol dire che questo lo impicchiamo”.
Lui ci rimase male.
“Come?”, disse, “che abbia sbagliato i calcoli? Eppure no: ho fatto talquale l'altro”. E ripetè tutto al giudice insistendo che era tutto uguale. Mi sembrava che più quello aggiungesse particolari, più il giudice ostinasse a condannarlo.
“È li il brutto”, diceva, “questi due fatti così uguali. Mai capitate due cose senza niente di differente. Così se lui aveva ragione vuol dire che tu hai torto. Sarai impiccato”. Gli altri però non erano convinti.
“Lui lo impicchiamo”, dissero, “però qui succedono dei pasticci. Vogliamo vederci chiaro.”
Difatti lo impiccarono poi tornarono dal vecchio per vederci chiaro: “Cosa vuol dire questo affare che uno ammazza la moglie e una volta è innocente e una volta è colpevole? Qui uno non sa più come deve comportarsi”.
“Capirselo da sé, deve", disse il vecchio, “sennò le leggi scritte non contano”.
“Capire che cosa?”, chiese la gente, neanche gli anziani si ricordavano che ci fosse qualcosa da capire, al di fuori delle leggi scritte.
“Qui succedono dei pasticci”, dissero, “noi non ci capiamo”. E rimisero il basto al mulo.
Così il vecchio salutò tutti, e risalì sul mulo e andò via, dicono verso la Mecca.
Nel paese, volere o no, s’erano accorti che qualcosa non andava.
Per rimediare, cominciarono a fare leggi contro i giudici.
(tratto da Raccontini giovanili, in Romanzi e racconti vol. III Mondadori Milano 1994, pp 779—781 - scritto nel 1943)
La Carta EDU e la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione contemplano entrambe la clausola generale che impone la interpretazione non limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti dalle normative interne o da altre fonti internazionali.
Tuttavia, vi sono sfide ricorrenti alle fondamenta dell’assetto della Rule of Law, come disegnata dalla Convenzione e dalla Carta dei diritti.
Se la Turchia rifiuta di dare esecuzione alle sentenze della Corte, che hanno più volte sanzionato le gravi violazioni della Convenzione in danno di giudici, pubblici ministeri e avvocati, non meno grave è il rifiuto della Polonia di riconoscere nella gerarchia delle fonti la preminenza di quelle Unitarie e dunque il ruolo del giudice comune e persino la sua legittimazione ad applicare quelle fonti e a sollecitare il rinvio pregiudiziale nella interpretazione dei Trattati.
Tema che, insieme a quello della disapplicazione delle norme nazionali, costituirà certamente oggetto delle relazioni dei nostri illustri relatori, il primo anche per il suo ruolo bifronte, quale giudice europeo e della Corte, la seconda per l’impegno accademico sui valori e quindi sul divieto di regressione nella interpretazione.
Il principio della espansione della tutela dei diritti fondamentali ha radici profonde nelle origini del costituzionalismo.
Si pensi al tema del ruolo contro-maggioritario della Judicial Review, recentemente riemerso polemicamente nel dibattito politico, che ci riporta ai Federalist Papers e alla discussione tra Alexander Hamilton, James Madison e Thomas Jefferson. Negli anni Sessanta del secolo scorso, come ha ricordato recentemente il grande giurista Guido Calabresi, il dibattito si è riacceso intorno alla Counter-majoritarian difficulty, definizione coniata da Alexander Bickel nel 1962.
Per la Corte suprema degli Stati Uniti, l’affermazione che alcuni diritti fondamentali prevalgono e devono comunque trovare protezione, si lega alla Judicial review as a check against anti-democratic majoritarianism.
Nella giurisprudenza dei giudici costituzionali e comuni italiani il principio di massimizzazione si sposa ormai con la condivisione di tale regola anche nello spazio europeo.
Stiamo forse raggiungendo quello Ius Commune europeo, stella polare della navigazione giurisprudenziale in materia di diritti fondamentali, di cui parlava molti anni fa Gaetano Silvestri.
Oggi non ci occuperemo della massimizzazione come espansione verso nuovi diritti – tema controverso e assai ampio – ma essenzialmente delle conseguenze ordinamentali di quel principio.
Questo approccio porta verso due diversi approdi, di cui oggi credo discuteremo:
Il primo riguarda la Rete che unisce le giurisdizioni sovranazionali al giudice nazionale e dunque agli sforzi che nel tempo le Corti superiori e le Corti di Strasburgo e del Lussemburgo per regolare i loro rapporti, in un contesto non meramente gerarchico delle fonti.
A questi aspetti si lega però anche il tema dell’interpretazione e dunque del ruolo del giudice, che si dipana tra applicazione diretta del diritto europeo, ricorso al giudice delle leggi e rinvio pregiudiziale.
Tema politicamente molto sensibile, perché spesso letto come esondazione del potere giudiziario rispetto agli altri poteri dello Stato.
Proprio la ricerca della massima tutela dei diritti, poi, ha portato al dialogo, non sempre facile, tra Corte costituzionale e Corte di Giustizia. Percorso, dunque, che si inserisce tutto nella volontà di far prevalere la più ampia interpretazione dei diritti, letti alla luce delle Carte e della prevalenza della più ampia tutela di diritti fondamentali previsti dalla Costituzione.
La Corte di cassazione e la Corte costituzionale hanno dimostrato nei fatti l’importanza del ricorso al rinvio pregiudiziale, tutte le volte che le incertezze interpretative non possono essere risolte con gli strumenti ermeneutici a disposizione del giudice. Sono ragionevoli le preoccupazioni circa l’introduzione nel nostro ordinamento del Protocollo 16 della CEDU? Certo, effetti diversi del rinvio, che derivano dalla diversa forza della Convenzione rispetto ai Trattati, ma non diversa è l’esigenza di interpretazione uniforme della Convenzione. Sugli effetti del rinvio pregiudiziale nei contesti dei Trattati e della Convenzione credo che i relatori avranno modo di confrontarsi.
La giurisprudenza della Corte EDU ma soprattutto, per le sue implicazioni di carattere generale sulla struttura dell’UE, della Corte di Giustizia in materia di indipendenza della giurisdizione si lega strettamente ai due temi appena citati, come nel caso delle decisioni sulla Polonia, e si basa sul divieto della regressione dei valori nella Unione, di cui ha discusso quale accademica la giudice Rossi.
In tale contesto, fondamentale è non trascurare il ruolo del pubblico ministero nell’attuazione del diritto europeo. La sua indipendenza effettiva – nel penale e, dove ha attribuzioni, nel civile e nella regolazione dei conflitti tra giurisdizioni – esalta la terzietà del giudice. L’indipendenza del pubblico ministero non è certo imposta dalle fonti europee, ma si va espandendo in molti Paesi dell’Unione, in forme diverse.
Nell’ordinamento italiano, il Procuratore generale della Cassazione non è solo indipendente ma partecipa dell’imparzialità del giudice, in questo differenziandosi dal pubblico ministero di merito che, pur gravato dall’obbligo della imparzialità, è comunque parte. Il Procuratore generale – proprio per effetto della sua imparzialità – può contribuire alla nomofilachia delle prassi, che è necessario complemento della nomofilachia anche europea, di cui innanzi si diceva a proposito del Protocollo 16.
La nomina qual giudice costituzionale dell’Avvocato Generale della Corte di Giustizia, Giovanni Pitruzzella, nasce anche dall’imparziale attuazione del diritto, emergente dalle sue conclusioni. Questo ruolo non è affatto diverso da quello che svolge il Procuratore nella Corte di cassazione, ad esempio nell’efficace sollecitazione del ricorso al rinvio pregiudiziale, più volte operato.
Un ruolo anche autonomo che la Procura generale, con il pubblico ministero di merito, svolge per l’attuazione del diritto unitario e la esecuzione delle sue sentenze, ora finalmente disciplinato nelle sue declinazioni rescissorie ed esecutive, rispetto alla intangibilità del giudicato. Esito per la verità già raggiunto in via interpretativa dai nostri pubblici ministeri e giudici di merito, di legittimità e costituzionali.
È stato recentemente sottoscritto un protocollo tra la Procura generale e l’Avvocatura generale dello Stato, per rendere più efficace l’intervento di attuazione delle decisioni in materia civile.
Questo protocollo segue il percorso di intese tra Corti superiori e Corti europee, di cui Guido Raimondi è stato partecipe e promotore, quale presidente della Corte EDU, ora ai vertici della Corte di cassazione.
*Moderazione della sessione Il principio della massima espansione della tutela dei diritti fondamentali: Corte di cassazione CEDU e CGUE del convegno "I Cento anni della Corte di cassazione unica", Roma, 28 novembre 2023.
Sommario: 1. Lo spazio accresciuto della interpretazione giuridica. - 2. La discrezionalità interpretativa del giudice. – 3.Non solo soggezione del giudice (alla legge), ma anche suo potere interpretativo. – 4. Il “diritto effettivo”: la prevedibilità della regola giuridica applicata (legalità in action, e non solo in the books). - 5. Il ruolo della Cassazione: il senso delle recenti innovazioni legislative. - 6. Nomofilachia e responsabilità.
1. Lo spazio accresciuto della interpretazione giuridica.
È innegabile il maggiore spazio che oggi l’interprete ha rispetto alle norme scritte, se confrontato con quello che gli era riconosciuto a metà del secolo scorso, quando fu elaborata la Costituzione repubblicana. Sono tanti i fattori che hanno determinato l’ampliamento dello spazio interpretativo. Qui mi limito ad indicarne due, tra quelli di maggiore incisività.
Innanzitutto, le profonde innovazioni nel sistema delle fonti normative, radicato non più sulla primazia gerarchica della legge, ma sulla Costituzione, con gli effetti che questa è idonea a determinare non solo come legge gerarchicamente superiore, ma anche come fonte di principi e di valori caratterizzanti l’intero ordinamento interno. Sulla legge si sono, in epoca successiva, sovrapposte anche le fonti (primarie e secondarie) dell’Unione europea e, altresì, quelle derivanti da convenzioni internazionali (rilevanti a norma dell’art.117 Cost.), tra cui la CEDU. Si è in presenza – si è detto – di uno Stato di diritto, costituzionale ed europeo[1].
Spesso queste fonti sovranazionali, non diversamente dalla Costituzione, contengono principi giuridici, e non delineano fattispecie: i primi, qualunque sia la definizione che se ne dia, prevedono vincoli molto meno rigidi per l’interprete, rispetto alle seconde. Oggi il testo scritto della legge deve essere interpretato alla luce di tutte le fonti sovraordinate, tra le quali, inoltre, non sempre sussiste un rapporto gerarchico preciso (si parla, infatti, di fonti normative multilivello, formanti un sistema non piramidale). Di questo primo fattore innovativo si tratterà nei diversi temi della seconda sessione, e quindi mi limito ad un mero richiamo.
Occorre soffermarsi un poco di più sul secondo fattore, che è di natura culturale. Esso consiste in una diversa concezione dell’attività interpretativa, la quale si è andata progressivamente imponendo tra gli studiosi, tanto da costituire oggi una acquisizione quasi pacifica e tale da non potere essere ignorata anche dagli operatori pratici. Mi riferisco alla distinzione, introdotta a livello concettuale, tra la disposizione (l’enunciato linguistico contenuto in un atto normativo) e la norma (il significato dell’enunciato, desunto dalla sua interpretazione)[2]. Consegue che la norma giuridica non è l’oggetto della interpretazione, preesistente alla stessa, ma ne è il risultato. La pronunzia giudiziale accerta l’esistenza della disposizione rilevante per la decisione del caso concreto, ma è “creativa” della norma applicata, e cioè della regola giuridica posta a base della decisione.
Rimane ferma, a mio avviso, la necessità di una correlazione tra l’enunciato e la norma che il giudice ne trae, e cioè tra il significante e il significato, onde la “creatività” ha un ambito che, pur potendo avere una estensione di volta in volta variabile, è sempre limitato; altrimenti saremmo fuori della interpretazione, che consiste nella attribuzione di un significato ad un testo.
2. La discrezionalità interpretativa del giudice.
In ordine a questo ambito, senza entrare negli ampi e complessi studi sulla interpretazione giuridica, trovo rispondente alla mia esperienza giudiziaria la metafora della “cornice”[3] entro cui possono essere collocati i possibili significati di un testo normativo, e quindi le diverse norme da esso alternativamente desumibili[4]. Non sempre la “cornice” ha contorni precisi, per l’indeterminatezza semantica del linguaggio, spesso aggravata dalla cattiva qualità riscontrabile nella legislazione. Questi sono i “casi difficili”, nei quali lo spazio del giudizio interpretativo è ancora più ampio.
Nell’ambito della “cornice” dei significati possibili del testo[5], la scelta dell’interprete avviene attraverso l’impiego degli argomenti interpretativi[6]. È questo l’ambito tipico della “creatività” dell’interprete (sia egli o meno un giudice), che però non è mai illimitata perché deve partire dalla lettera del testo (è significativo che le sentenze delle Corti europee di Lussemburgo e di Strasburgo premettano sempre al ragionamento argomentativo il testo delle disposizioni coinvolte), deve impiegare argomenti interpretativi consentiti dalla scienza del diritto, deve pervenire ad un risultato compatibile con il testo (e cioè rientrante nella “cornice”[7]) o che ne spieghi il superamento sulla base di argomenti a ciò ritenuti razionalmente e ragionevolmente idonei[8].
Il superamento della “cornice” posta dalla lettera della disposizione può avvenire per l’operatività di una interpretazione conforme (alla Costituzione, al diritto dell’U.E., a una convenzione internazionale). Quando il significato che si ritenga conforme a queste fonti sovraordinate – in modo diretto o indiretto (attraverso la rilevanza dell’art.117 Cost.) – non rispetta il tenore letterale della disposizione legislativa è, però, opportuno che il giudice adotti una linea di self-restraint, preferendo la rimessione (a seconda dei casi) alla Corte costituzionale e alla Corte di giustizia dell’Unione europea per la soluzione di una questione su cui queste Corti non si sono ancora pronunziate.
Una individuazione più precisa di quale sia la “cornice” posta dalla lettera della disposizione, conseguente soprattutto alla elasticità insita nel linguaggio, può derivare dalle caratteristiche particolari del caso concreto da giudicare, che possono indurre ad attribuire alle parole significati nuovi rispetto alle precedenti prassi interpretative. Nell’attività di interpretazione si realizza, cioè, il c.d. circolo ermeneutico tra fatto e diritto, nel senso che il primo può incidere non solo sulla individuazione della disposizione da applicare ad esso (sussunzione), ma anche sulla interpretazione della stessa, nei limiti in cui se ne può desumere una norma idonea alla soluzione del caso, secondo il corretto uso degli argomenti interpretativi sopra menzionati[9].
Mi sembra, allora, utile sostituire il termine piuttosto equivoco di “creatività”[10] con quello, usato spesso in dottrina[11], di “discrezionalità” (della interpretazione) giudiziaria, che, a differenza del primo, reca in sé, come elemento indefettibile, quello dei limiti, mentre il termine precedente fa pensare alla arbitrarietà, e quindi al mancato rispetto della divisione dei poteri[12].
La discrezionalità nella interpretazione della legge sta a esprimere il potere conferito al giudice di scegliere tra due o più norme desumibili dal testo normativo, tutte conformi alla legge. Essa deriva dal fatto che gli argomenti interpretativi, di regola, non conducono a un unico risultato, ma lasciano spazi più o meno ampi di incertezza. Significative sono le decisioni delle sezioni unite della Cassazione, quando risolvono un contrasto emerso tra diverse sentenze delle sezioni semplici della Corte. Spesso i contrastanti orientamenti in precedenza affermati sulla questione decisa dalle sezioni unite si appoggiano su corretti argomenti interpretativi, onde non possono essere considerati errati. In questa eventualità la decisione delle sezioni unite è il frutto di scelte di valore consentite dagli spazi lasciati dagli enunciati normativi[13]. In tal senso converge l’esperienza che ho fatto nei collegi delle sezioni unite con lo studio teorico delle sentenze dello stesso collegio che, successivamente al mio pensionamento, ho avuto occasione di fare in un corso universitario che, per alcuni anni, ho dedicato alla analisi dell’argomentazione adottata dalle decisioni (civili e penali) di quel collegio risolutivi di contrasti[14].
All’esercizio della discrezionalità si addice che di esso il giudicante renda conto attraverso la motivazione del giudizio interpretativo, la quale può essere considerata anche come lo strumento per controllare la fedeltà del giudice alla legge.
3. Non solo soggezione del giudice (alla legge), ma anche suo potere interpretativo.
I due fattori qui considerati nel loro effetto ampliativo dello spazio dell’interprete, e in particolare di quell’interprete dotato di autorità quale è il giudice, rendono incompleta la previsione costituzionale relativa alla soggezione del giudice alla legge (art.101, cpv.).
Da un lato, la legge obbliga il giudice solo in quanto essa sia conforme alla Costituzione. E, soprattutto, la soggezione viene meno nel caso di contrasto della legge con il diritto dell’Unione europea, che non solo legittima, ma obbliga il giudicante a non applicare la legge nazionale.
D’altro lato, il concetto attuale di interpretazione giuridica al quale si è fatto riferimento nei precedenti paragrafi non appare pienamente conforme alla ideologia del Costituente. Dai lavori preparatori[15] si desume che, nella discussione del testo dell’art.101, cpv., Cost., furono proposte formule alternative a quella dei giudici “soggetti alla legge”, come “dipendono” (dalla legge) - così il progetto approvato dalla Commissione dei 75 (art.94, comma 2) - ovvero “sono vincolati” o “obbediscono” (alla legge). Il testo vigente fu approvato a seguito di un intervento dell’on. Ruini, il quale si espresse per la cancellazione, dal citato art.94, comma 2, del progetto, delle parole: (legge che i giudici) “interpretano ed applicano secondo coscienza”, prospettando il pericolo che tale previsione potesse rendere ammissibile il “cosiddetto diritto libero”. Nella discussione sembra di percepire ancora un’eco della nota posizione di Cesare Beccaria, secondo cui “l’interpretazione delle leggi è un male”[16].
Lo spazio oggi riconosciuto all’interprete-giudice, avente effetti vincolanti almeno per le parti del processo, costituisce un vero e proprio “potere” (interpretativo). Una recente voce enciclopedica è dedicata ai “poteri interpretativi” e alla loro “tensione con la legalità”: I giudici controllano il rispetto della legge, ma in una certa misura sono i giudici stessi a fissare il significato della legge[17]. La “misura” indica i limiti essenziali del potere interpretativo, che sono limiti non solo giuridici (come, per esempio, il divieto di analogia in materia penale), ma anche deontologici.
Questi ultimi sono affidati al senso di responsabilità del giudicante, il quale va sempre correlato alla sfera di autonomia riconosciutagli: maggiore spazio esistente per l’interpretazione dei testi normativi, maggiore responsabilità deontologica del giudice. La scienza giuridica sta iniziando una ricerca diretta a concretizzare e precisare i doveri deontologici che devono accompagnarsi a questo potere interpretativo[18]. L’auspicio è che questa ricerca continui, anche con il contributo attivo di coloro che sono titolari di questo potere.
Ci si può, allora, interrogare sul significato attuale della disposizione costituzionale relativa alla soggezione del giudice alla legge. Direi che essa mantiene il suo fondamentale rilievo, espresso anche dall’essere contenuta nel primo articolo del titolo sulla magistratura e dall’essere connessa con il precedente comma che instaura un collegamento (qualunque ne sia il preciso significato) dell’amministrazione della giustizia con il popolo, i cui rappresentanti hanno approvato la legge a cui i giudici sono soggetti[19]. Ma sono innegabili le innovazioni segnalate che hanno modificato tale significato, il quale oggi deve comprendere sia le diverse fonti sovraordinate alla legge, sia i poteri interpretativi consentiti dal diritto.
Per esprimere siffatte innovazioni si è, in sede dottrinale, usata l’espressione di soggezione del giudice al “diritto”[20]. Quest’ultima espressione, nella sua letterale ampiezza, può essere criticata perché il diritto comprende anche le fonti secondarie, di cui il giudice comune ha il compito di giudicare la legittimità e alle quali egli, perciò, non è soggetto; essa, comunque, non è idonea a esprimere il valore della fedeltà alla legge e la legalità della giurisdizione che è nell’essenza di questa attività. Ma, pur con questi limiti, l’espressione di soggezione del giudice al “diritto” è, probabilmente, atta a fare percepire l’incompletezza della previsione costituzionale e le innovazioni verificatesi nelle fonti del diritto.
La formulazione del tema assegnatoci, riferendosi alla interpretazione non soltanto delle “norme scritte” (che preferirei indicare come “disposizioni” scritte) ma anche del “diritto effettivo”, mi sembra che recepisca questo passaggio dalla legge (fonte prioritaria all’epoca del Costituente) al diritto, come comprensivo del più ricco e complesso sistema delle fonti nonché dei poteri interpretativi delle fonti stesse.
4. Il “diritto effettivo”: la prevedibilità della regola giuridica applicata (legalità in action, e non solo in the books).
L’importanza e gli effetti delle fonti normative sovraordinate alla legge e sopravvenute alla Costituzione si possono percepire con immediatezza se si riflette sulla qualificazione che, nella formulazione del nostro tema, viene aggiunta al diritto: il suo essere “effettivo”, e cioè applicato: non rileva il diritto che è soltanto scritto (in the books), ma quello che riceve effettiva applicazione (in action). Quindi, per usare i termini del tema successivo del nostro incontro, rileva il “diritto vivente”, e non quello vigente.
È questo un punto fermo della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (e del diritto dell’Unione europea: art.6 TUE). La nozione di legge recepita dalla CEDU implica che essa abbia determinate “qualità”, tra le quali la prevedibilità della sua applicazione. Un testo di legge che consente letture giurisprudenziali contraddittorie non è “legge” ai fini della Convenzione fino a che una giurisprudenza stabilizzata non venga in luce[21].
La ragionevole prevedibilità della applicazione della regola giuridica rileva ai fini del rispetto non solo dell’art.7 (principio di legalità in materia penale), ma anche dell’art.6 della CEDU (equità del processo), e quindi concerne ogni materia. Secondo la Corte di Strasburgo, la stabilità della giurisprudenza e il rilievo riconosciuto ai precedenti sono componenti di ogni giudizio interpretativo, il cui esito deve tendere a evitare una “sorpresa” per l’individuo.
Siffatto risultato è di non facile conseguimento in un sistema ordinamentale che, come quello italiano, è caratterizzato da un potere giudiziario diffuso, per l’assoluta indipendenza del potere interpretativo di ogni giudice e per la normale assenza di vincolatività dei precedenti. Assumono allora un rilievo essenziale le istituzioni alle quali è assegnata, nei rispettivi ambiti interpretativi, una funzione unificante e uniformatrice: la Corte costituzionale, la Corte di giustizia dell’Unione europea, anche la Corte Edu (una volta ratificato dall’Italia il protocollo n.16), la Corte di cassazione.
Con riferimento a quest’ultima istituzione (delle altre si parlerà nella seconda sessione), richiamo l’attenzione sulla sentenza della Corte Edu 30 luglio 2015, Ferreira Santos Pardal c. Portogallo (ric. 30123/10), peraltro espressiva di un orientamento già affermato. È stata ritenuta sussistente la violazione del processo equo in un caso in cui la Corte suprema del Portogallo, nel decidere un’azione di responsabilità civile contro lo Stato per un errore giudiziario, ha adottato una soluzione negativa diametralmente opposta a una giurisprudenza interna costante. La Corte europea ha osservato che sono connaturali a ogni sistema giudiziario i contrasti giurisprudenziali nell’ambito dei giudici di merito, ma che il ruolo di una giurisdizione suprema è quello di risolvere tali contrasti. Se orientamenti divergenti si sviluppano e coesistono all’interno della più alta autorità giudiziaria dello Stato, ciò viola il principio della sicurezza giuridica e riduce la fiducia del pubblico nell’autorità giudiziaria, i quali – principio e fiducia – rientrano tra le componenti fondamentali dello Stato di diritto. La Corte ha, quindi, censurato l’assenza, all’interno della Corte suprema, di un meccanismo idoneo ad assicurare l’uniformità delle decisioni[22].
5. Il ruolo della Cassazione: il senso delle recenti innovazioni legislative.
L’uniformità della interpretazione-applicazione del diritto, attraverso la funzione unificante della Cassazione, è stato l’obiettivo perseguito, sia pure con ripensamenti e con misure per alcuni aspetti contraddittorie, da ben cinque interventi legislativi di modifica del giudizio civile di legittimità intervenuti in questo secolo, a partire dal d. lgs. n.40/2006, che ha introdotto nel linguaggio legislativo la “funzione nomofilattica” della Corte. A questo intervento sono, poi, succeduti: la l. n.69/2009, la l. n.134/2012, la l. n.197/2016, il d. lgs. n.149/2022[23].
Mi limito a indicare alcune delle innovazioni principali nella attuale disciplina di questo giudizio:
a) il vincolo delle sezioni semplici della Corte ai principi di diritto enunciati dalle sezioni unite, in modo da dare stabilità a questi principi, imponendo un particolare procedimento per il loro mutamento (art.374, terzo comma, c.p.c.);
b) l’ampliamento dei casi in cui il Procuratore generale presso la Corte può chiedere l’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge (ma irrilevante per le parti del processo) e la possibilità che questo principio di diritto sia pronunciato di ufficio anche nel caso di ricorso della parte dichiarato inammissibile (art.363 c.p.c.);
c) la riduzione, tra i motivi del ricorso per cassazione, dell’ambito del vizio di motivazione e l’esclusione assoluta di tale vizio nei casi di doppia conforme sui medesimi fatti (art.360 c.p.c.);
d) l’udienza pubblica limitata alle sole decisioni di una “questione di diritto di particolare rilevanza” (art.375, primo comma, c.p.c.) e la decisione degli altri ricorsi in camera di consiglio; nel primo caso la decisione è emanata con sentenza, nel secondo caso essa assume la forma della ordinanza;
e) il rinvio pregiudiziale del giudice di merito alla Corte di cassazione per la risoluzione di “una questione esclusivamente di diritto”, quando – tra gli altri requisiti – essa “è suscettibile di porsi in numerosi giudizi” (art. 363-bis c.p.c.).
Chiaro è il senso di queste innovazioni. Il legislatore di questo secolo ha scelto di privilegiare la funzione della Cassazione civile di risolvere questioni giuridiche rispetto alla diversa funzione di controllo della logicità delle motivazioni dei giudici di merito sull’accertamento dei fatti. Il sindacato sulla motivazione in fatto è stato sempre lo strumento utilizzato dai ricorrenti per indurre la Corte a compiere sostanzialmente un riesame dei fatti di causa, stante la non chiara individuazione, sia nella teoria che nella prassi, dei limiti di quel sindacato. Esso, ora, non solo risulta limitato nel suo ambito oggettivo (art.360 c.p.c.), ma ha assunto un rilievo nettamente minore nel ruolo della Corte in conseguenza del maggiore spazio previsto per la soluzione delle questioni giuridiche e per la formulazione dei principi di diritto.
Nell’ambito delle questioni giuridiche, poi, mi sembra essenziale l’innovazione recentissima della differenza di procedura imposta dal citato art.375: l’udienza pubblica è riservata alla soluzione delle questioni di diritto “di particolare rilevanza” (oltre ai ricorsi che chiedono la revocazione per contrarietà alla CEDU e ai rinvii pregiudiziali dei giudici di merito). Si è in tal modo introdotta una vera e propria selezione dei ricorsi (sia pure soltanto a fini procedurali), che è stata condivisibilmente ritenuta la caratteristica di una Corte suprema[24]. Di “particolare rilevanza” vanno evidentemente considerati i ricorsi che prospettano questioni giuridiche suscettibili di porsi in numerosi giudizi (di cassazione o di merito), nei quali può esplicarsi la funzione nomofilattica della Cassazione[25]. La stessa finalità ha il menzionato rinvio pregiudiziale (art.363-bis c.p.c.). La funzione di nomofilachia assume, pertanto, secondo la disciplina codicistica, una importanza chiaramente prioritaria.
Molte delle ambiguità che Michele Taruffo individuava nella normativa sulla Cassazione civile[26] mi sembra che oggi siano superate dagli interventi legislativi di questo secolo. La funzione essenziale che la Corte deve assolvere è quella di garanzia oggettiva di legalità (ius constitutionis). La garanzia soggettiva della ricorribilità per cassazione prevista dall’art.111 Cost. (ius litigatoris) rimane ferma e immutata, ma essa, secondo la previsione costituzionale, è limitata alle violazioni di legge, nell’ambito delle quali una posizione nettamente secondaria assumono le questioni di controllo sugli accertamenti di fatto compiuti dai giudici di merito, che hanno una rilevanza limitata al caso concreto.
Rispetto al processo penale l’orientamento del legislatore di questo secolo è meno netto e univoco di quello del legislatore civile, ma non discordante. La l. n.46/2006 ha ampliato l’ambito del vizio di motivazione[27], ma anche nel giudizio penale di cassazione sono state introdotte innovazioni dirette a rafforzare la funzione nomofilattica della Corte[28]: il vincolo della sezione semplice al principio di diritto delle sezioni unite e la possibilità per la Corte di enunciare il principio di diritto anche quando il ricorso è dichiarato inammissibile per causa sopravvenuta (art.618, commi 1-bis e 1-ter, c.p.p.), e quindi non vi è più l’interesse del ricorrente. Inoltre, in alcune ipotesi di ricorso per cassazione è stata esclusa la deducibilità del vizio di motivazione[29]. Recentemente, infine, è stata modificata la disciplina procedurale del giudizio penale, poiché l’art.611 c.p.p. ha previsto come regola ordinaria la decisione dei ricorsi in camera di consiglio, mentre si procede alla trattazione in udienza pubblica su richiesta delle parti ovvero anche di ufficio, nel caso di “rilevanza delle questioni” da decidere. La procedura pubblica, pertanto, è finalizzata non solo all’esercizio della nomofilachia (come nei giudizi civili), ma anche alla tutela del contraddittorio.
Questa parziale diversità accentua l’importanza e la potenziale incidenza operativa della innovazione relativa alla procedura dei giudizi civili. Qui la selezione dei ricorsi da trattare in udienza pubblica è determinata esclusivamente dalla importanza generale della questione da decidere.
Un’innovazione comune ai due giudizi concerne l’esecuzione delle decisioni della Corte dei diritti dell’uomo che hanno accertato la violazione della relativa Convenzione da parte di pronunzie interne. Essa, con discipline diverse nei presupposti (più limitati nella materia civile), è stata attribuita alla Corte di cassazione (art. 391-quater c.p.c. e art.628-bis c.p.p.), considerato che “la delicatezza del nuovo istituto, destinato ad incidere sulla tenuta processuale del giudicato nell’ordinamento interno, richiederà sin dai suoi esordi una costante uniformità interpretativa”[30]. Anche in questi istituti innovativi si ribadisce la funzione uniformatrice che è propria della Cassazione.
6. Nomofilachia e responsabilità.
La nomofilachia della Corte è oggi esercitata in modo che non può considerarsi soddisfacente. In un corso della Scuola superiore della magistratura dedicato al giudizio civile di cassazione[31] si è autorevolmente affermato che “sia in campo sostanziale, sia in campo processuale – dappertutto si annidano contrasti”[32]. Per la Cassazione penale si è condivisibilmente affermato che la funzione nomofilattica è da essa assolta “solo quando decide a sezioni unite, mentre le sezioni semplici finiscono per svolgere prevalentemente funzioni di giudice dello ius litigatoris, pronunciando un numero sterminato di decisioni, con il rischio conseguente ed effettivo di un aumento esponenziale dei contrasti giurisprudenziali”[33]. Ma, soprattutto, sono inaccettabili i tempi lunghi del giudizio civile di cassazione, non giustificati dalla sua struttura semplice, ma determinati esclusivamente dall’enorme numero dei ricorsi e dall’arretrato conseguentemente formatosi.
Su questo aspetto occorre rilevare che la durata media del giudizio penale di cassazione è sensibilmente inferiore a quella di un anno ritenuta ragionevole dal legislatore. La Cassazione penale, quindi, è riuscita a fare fronte al numero enorme di ricorsi, a differenza della Cassazione civile. Non è questa la sede per individuare e analizzare le cause di questa differenza. Qui, però, può e deve prospettarsi qualche rimedio idoneo a incidere positivamente sui tempi dei giudizi civili, in guisa da concretizzare quel “traguardo” che è nel titolo di questa prima sessione.
Penso a due interventi, uno interno alla Corte, di natura organizzativa, e l’altro esterno alla stessa, perché richiede una modifica legislativa.
La menzionata selezione dei ricorsi, imposta a fini procedurali dal d. lgs. n.149/2022, deve essere utilizzata per perseguire organizzativamente un duplice risultato: da un lato, un esercizio più meditato e stabile della nomofilachia; dall’altro, una netta distinzione dell’impegno motivazionale e un minore aggravio complessivo dello stesso.
La decisione della questione di diritto di particolare rilevanza deve essere preceduta da un lavoro preparatorio che coinvolga tutti i magistrati della sezione, e non solo i componenti del singolo collegio decidente. La nuova competenza del rinvio pregiudiziale può costituire l’occasione di partecipazione alla nomofilachia anche dei giudici di merito e della dottrina, stante la preventiva conoscenza pubblica della ordinanza di rinvio.
Sugli altri ricorsi, da decidersi con ordinanza, l’impegno motivazionale (che occupa tanta parte del lavoro dei giudici) va ridotto al minimo, perché le questioni da risolvere attengono o alla logicità della motivazione in fatto (il cui controllo, come si è detto, non costituisce la funzione prioritaria del giudice di legittimità) o consistono in questioni giuridiche che, se non sono state considerate di particolare rilevanza, possono essere risolte in modo sintetico, non richiedendo la loro motivazione quelle caratteristiche di persuasività che devono contrassegnare le decisioni con rilievo nomofilattico.
Mi sembra che il legislatore abbia ora imposto quella diversità di impegno motivazionale che avevo prospettato all’inizio della mia Presidenza della Corte con il provvedimento sulla “motivazione semplificata”[34], che i collegi decidenti erano “invitati” ad adottare quando decidevano “ricorsi che non richiedono l’esercizio della funzione di nomofilachia” (come sono tutti quelli che censurano la motivazione in fatto) ovvero che “sollevano questioni giuridiche la cui soluzione comporta l’applicazione di principi giuridici già affermati dalla corte e condivisi dal collegio”. Il mero invito ai magistrati della Cassazione civile, che era prospettato in quel provvedimento interno, è ora un dovere professionale, stante la diversità di motivazione richiesta dal sistema (raffronto tra l’art.132 e l’art.134 c.p.c.) tra le sentenze, emanate in esito alle udienze pubbliche, e le ordinanze conclusive dei procedimenti in camera di consiglio.
Non si può, però, non riconoscere che qualunque intervento organizzativo è reso difficile e complesso dall’enorme numero di ricorsi che la Cassazione è tenuta a decidere in modo comunque motivato e che finisce con l’ostacolare anche un’attenta selezione interna dei ricorsi. È questa la ragione per la quale i numerosi interventi legislativi di questo secolo diretti ad introdurre filtri interni nei giudizi civili non hanno raggiunto risultati positivi, avendo anzi in alcuni casi prodotto ulteriori complicazioni e difficoltà per la Corte. Ritenuta inopportuna una modifica della ricorribilità per cassazione prevista dall’art.111 Cost., prospetto una innovazione nella legislazione forense che, sull’esempio di ordinamenti stranieri (Germania e Francia), disponga la separazione categoriale tra gli avvocati legittimati a difendere nei giudizi di merito e quelli che scelgano di esercitare nel solo giudizio di legittimità, il quale richiede una preparazione e una esperienza particolari. La proposta fu formulata da Giorgio Santacroce, Primo presidente della Cassazione che mi seguì immediatamente e purtroppo è prematuramente scomparso[35]. La riserva al secondo gruppo della abilitazione a proporre ricorso per cassazione creerebbe un corpo di difensori altamente specializzati, idonei perciò a compiere un filtro esterno all’accesso alla Corte di legittimità e a limitarne prevedibilmente il numero, con l’effetto ulteriore di migliorare il livello qualitativo dei ricorsi proposti[36].
Quest’ultima considerazione giustificherebbe l’estensione della innovazione anche alla materia penale, ove oggi non si ha, come si è detto, una durata patologica dei giudizi di legittimità, ma è sempre elevatissimo il numero dei ricorsi presentati annualmente, con la già menzionata difficoltà anche della Corte penale di assolvere in modo idoneo e celere alla funzione di nomofilachia. La necessità di elevare la qualità media dei ricorsi penali si desume dal fatto che circa due terzi dei ricorsi proposti sono dichiarati inammissibili[37].
L’indubbia esistenza di queste difficoltà non deve, però, fare venire meno nei magistrati tutti della Corte di legittimità la consapevolezza della importanza enormemente accresciuta, in un’epoca di diritto giurisprudenziale, della nomofilachia e, correlativamente, della maggiore responsabilità della intera istituzione e dei magistrati che la impersonano. Questa responsabilità etica e deontologica non rimane a un livello teorico e astratto, ma può essere resa concreta e visibile dal fatto che le interpretazioni del giudice di legittimità sono assoggettate alle valutazioni di altre Corti. Così dicasi per:
- la Corte costituzionale, che può essere investita del controllo di costituzionalità sul principio di diritto dettato per il giudizio di rinvio, e che, nella materia penale, può sindacare il rispetto, anche da parte degli orientamenti della Cassazione, del divieto di analogia (come è sostanzialmente avvenuto nella sentenza costituzionale n.98/2021[38]);
- la Corte di giustizia dell’Unione europea, che può affermare la responsabilità civile dello Stato causata dalla emanazione di pronunzie della Cassazione, come è avvenuto nella nota vicenda della società Traghetti del Mediterraneo[39];
- la Corte europea dei diritti dell’uomo, che può dichiarare la violazione della CEDU commessa anche da sentenze della Cassazione civile e penale. Queste pronunzie contribuiscono all’esaurimento delle vie di ricorso interno, che è condizione di ricevibilità del ricorso alla Corte Edu (art.35 della CEDU), onde l’accoglimento di quest’ultimo ricorso implica, di norma, che la accertata violazione della CEDU non sia stata impedita ovvero sia stata commessa dal giudice nazionale di ultima istanza.
*Intervento pronunciato in occasione del convegno, I Cento anni della Corte di cassazione "Unica", Roma 28 novembre 2023.
[1] Così M. Cartabia, nella Relazione introduttiva del convegno su “Il giudice e lo Stato di diritto”, organizzato a Roma il 20 ottobre 2023 dalla Accademia dei Lincei e dalla Scuola superiore della magistratura.
[2] V., di recente, F. Modugno e A. Longo, Disposizione e norma. Realtà e razionalità di una storica tassonomia, Editoriale Scientifica, 2021. V. anche F. Caringella, L’interpretazione del diritto, Dike giuridica, 2021, di cui è significativo il sottotitolo: Il viaggio dalla disposizione alla norma.
[3] R. Guastini, Interpretare e argomentare, Giuffrè, 2011, p.59-61. Lo stesso concetto è espresso da H. Kelsen, La dottrina pura del diritto (1960), Einaudi, 2021, p.449, con il termine “schema”, comprendente i più significati possibili dell’atto da interpretare (ma senza la previa distinzione tra disposizione e norma).
[4] Anche chi, in posizione minoritaria, critica la menzionata distinzione tra disposizione e norma ritiene “innegabile che gli enunciati normativi si prestino alla pluralità delle interpretazioni” e che “sia fallace l’dea dell’unico significato del testo” (M. Luciani, Interpretazione conforme a Costituzione, in Enc. dir.. Annali. vol. IX, p.438).
[5] La “cornice” è normalmente definibile: Corte cost. 5 giugno 2023, n.110, ha dichiarato l’incostituzionalità di una disposizione di legge regionale per essere “l’enunciato normativo affetto da radicale oscurità”, per “contrasto con il canone di ragionevolezza della legge di cui all’art.3 Cost.”.
[6] V., ex plurimis, D. Canale e G. Tuzet, La giustificazione della decisione giudiziale2, Giappichelli, 2020, p.62 ss.
[7] Si prescinde dall’ipotesi in cui gli argomenti interpretativi conducano all’accertamento di una lacuna, da colmare mediante l’analogia legis o iuris.
[8] Condivido, quindi, la concezione metodologica della interpretazione (N. Irti, Riconoscersi nella parola, Il Mulino, 2020, p.119). Lo stesso Autore (I cancelli delle parole, in Un diritto incalcolabile, Giappichelli, 2016, p.83) ricorda una frase di Francesco Carnelutti: “L’interpretazione testuale traccia i confini entro i quali liberamente si muove la interpretazione logica” e, oggi deve aggiungersi, sistematica, con riferimento alle fonti sovraordinate alla legge.
[9] L’espressione “circolo ermeneutico” ha grosso rilievo nel ragionamento giuridico proposto dalla teoria ermeneutica del diritto (F. Viola e G. Zaccaria, Diritto e interpretazione, Laterza, 1999). Senza prendere posizione su questa teoria dell’interpretazione, l’espressione viene qui recepita soltanto per esprimere la possibilità che l’attribuzione del significato alla disposizione normativa dipenda dalle caratteristiche del fatto da giudicare. Questo passaggio, nella soluzione del caso, dalla individuazione della disposizione da applicare agli aspetti particolari del fatto concreto e viceversa (con la conseguente scelta di quali ne sono le caratteristiche rilevanti per la decisione), è una ricerca che non incide sulla funzione nomofilattica della Cassazione, la quale presuppone che sia stato definitivamente accertato il fatto da giudicare. La nomofilachia attiene alla giustificazione della premessa maggiore del sillogismo giudiziario, non essendo in contestazione la premessa minore dello stesso (che, però, è opportuno che sia tenuta presente per la precisa e corretta comprensione del principio di diritto affermato dalla Cassazione).
[10] In dottrina si è soliti distinguere diversi significati del termine “creatività della interpretazione”: v., di recente, G. Pino, L’interpretazione nel diritto, Giappichelli, 2021, p.341 ss.. V. anche M. Nisticò, L’interpretazione giudiziale nella tensione tra i poteri dello Stato, Giappichelli, 2015, cap. IV.
[11] A. Barak, La discrezionalità del giudice, Giuffré, 1995; Id., La natura della discrezionalità giudiziaria e il suo significato per l’amministrazione della giustizia, in Politica del diritto, 2003, p.3; H. L. A. Hart, Il concetto di diritto2, Einaudi, 2002, p.166-173, 347 ss. (Poscritto); H. Kelsen, La dottrina pura del diritto, cit., p.447, 453; P. Rescigno, La discrezionalità del giudice, in P. Rescigno e S. Patti, La genesi della sentenza, Il Mulino, 2016, p.81. Non uniforme è, però, il significato che questi autori danno al termine “discrezionalità”, anche se in tutti è presente il concetto di limiti esistenti nella attività giudiziaria. Nell’art.132 c.p. il “potere discrezionale del giudice” è riferito alla applicazione della pena “nei limiti fissati dalla legge”.
[12] Per l’incompatibilità tra la dottrina della separazione dei poteri e il giusrealismo radicale (teoria per cui tutto il diritto è prodotto dai giudici) v. M. Barberis, Separazione dei poteri e teoria giusrealistica dell’interpretazione, negli Atti del XIX Convegno annuale della Associazione italiana dei costituzionalisti svoltosi a Padova il 22-23 ottobre 2004, Cedam, 2008, p.29. La compatibilità, secondo lo stesso Autore, può, invece, essere ravvisata rispetto alla teoria del giusrealismo moderato, che, come ho detto, ritengo preferibile rispetto al tradizionale formalismo interpretativo, secondo cui le disposizioni avrebbero ognuna un solo significato.
[13] A. Barak, La discrezionalità del giudice, cit., dopo avere affermato che “la discrezionalità esiste in tutti i sistemi giuridici e fa sorgere problemi comuni” (p.5), distingue tra “soluzione legittima e soluzione appropriata” (p.6), che è quella derivante dalla dall’esercizio della scelta discrezionale (che egli limita ai “casi difficili”) tra più soluzioni legittime. Secondo L. Ferrajoli, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, vol.2, Laterza, 2009, p.75, l’attività della giurisdizione è “inevitabilmente discrezionale e contrassegnata assai spesso da giudizi di valore”.
[14] Di diversi contrasti giurisprudenziali risolti dalle sezioni unite, analizzati nella loro origine e negli argomenti adottati dalle sezioni unite per risolverli, ho trattato nella relazione: Tra la lettera e lo spirito della legge: tensioni giurisprudenziali, in Iustitia, 2018, fasc. 1, p.37 e fasc. 2, p.223.
[15] La Costituzione della Repubblica italiana illustrata con i lavori preparatori, a cura di V. Falzone, F. Palermo, F. Cosentino, Oscar Studio Mondadori, 1976, p.324.
[16] C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, cap. V (parole iniziali). L’affermazione di Beccaria sembra riferirsi in generale alla interpretazione delle leggi (v. il cap. IV), al di là della materia penale che è l’oggetto dello scritto.
[17] G. Pino, Poteri interpretativi e principio di legalità, in Enc. dir.. I tematici, vol. V - Potere e Costituzione, Giuffrè, 2023, p.983. L’autore parla, in proposito, di “paradosso della legalità”.
[18] Per la materia penale possono citarsi gli scritti di M. Donini, Fattispecie o case law? La “prevedibilità del diritto” e i limiti alla dissoluzione della legge penale nella giurisprudenza, in Questione giustizia, n.4/2018, p.79, spec. Il § 18, p.101 (Sei regole deontologiche di ermeneutica penale); V. Manes, Dalla “fattispecie” al “precedente”: appunti di “deontologia ermeneutica”, in Cass. pen., 2018, p.2222; F. Palazzo, Legalità penale, interpretazione ed etica del giudice, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, p.1249. Per una più ampia linea di ricerca v. M. Nisticò, L’interpretazione giudiziale nella tensione tra i poteri dello Stato, cit., cap. V: Oltre l’interpretazione. Configurabilità dell’eccesso di potere giurisdizionale, rimedi e questioni di legittimazione (del giudice).
[19] “Nello Stato costituzionale di diritto la legge conserva ancora una sua ‘sfera’ e non è riducibile a mero svolgimento della Costituzione, sicché la salvaguardia dei suoi tratti caratteristici continua a essere un requisito essenziale del mantenimento dell’ordine dei poteri e della certezza del diritto” (M. Luciani, Ogni cosa al suo posto, Giuffré, 2023, p.109).
[20] D. Bifulco, Il giudice è soggetto soltanto al “diritto”. Contributo allo studio dell’art.101, comma 2, della Costituzione italiana, Jovene, 2008,
[21] Così, V. Zagrebelsky, R. Chenal, L. Tomasi, Manuale dei diritti fondamentali in Europa3, Il Mulino, 2022, p.149. Al volume si rinvia anche per le numerose citazioni giurisprudenziali. Questo orientamento, riferito all’art.7 della CEDU, è stato applicato dalla Corte europea nella nota e discussa sentenza 14 aprile 2015 Contrada, in cui la giurisprudenza stabilizzata sulla ammissibilità del concorso esterno in associazione mafiosa si è ritenuto che fosse stata raggiunta solo con la sentenza delle Sezioni unite penali Demitry del 1994.
[22] Il meccanismo introdotto nel c.p.c. portoghese dal décret-loi n. 303/2007 del 24.8.2007, ma non applicabile ratione temporis ai processi già pendenti e quindi al caso di specie, consiste nella possibilità concessa alle parti del processo (civile) di impugnare davanti alla assemblea plenaria delle sezioni civili della Corte suprema una sentenza resa da questa Corte “in contraddizione” con un’altra sua sentenza pronunziata sulla medesima questione di diritto e in applicazione della stessa legislazione (art.763 c.p.c.).
[23] Di fronte alla recente affermazione che la funzione di nomofilachia della Corte di cassazione fu “bocciata” dalla Assemblea costituente (G. Scarselli, La nomofilachia e i suoi pericoli, in Giustizia Insieme, 23 ottobre 2023, § 5) va ricordata la contraria opinione di un costituzionalista (A. Pizzorusso, Corte di cassazione, in Enciclopedia giuridica Treccani, vol. IX, 1988), secondo cui la Costituzione ha recepito “il «sistema della cassazione» quale è stato delineato attraverso una tradizione di studi che ha il suo massimo prodotto nella famosa opera di Piero Calamandrei” (§ 1.1) e la Cassazione è un “organo dotato di rilievo costituzionale soprattutto per il fatto di esercitare la funzione di nomofilachia”. (§ 1.2). Per una analisi dei lavori della Costituente debbo rinviare al mio intervento “La Corte di cassazione nella Costituzione”, in Cass. pen., 2008, p.4444.
[24] A. Nappi, Il sindacato di legittimità nei giudizi civili e penali di cassazione2, Giappichelli, 2011, p.19 e 62.
[25] Nello stesso senso A. Giusti, La nuova udienza pubblica, in La Cassazione civile riformata, a cura di P. Curzio, Cacucci, 2023, p.104.
[26] M. Taruffo, Il vertice ambiguo, Il Mulino, 1991, Introduzione, p.7-26.
[27] Per l’affermazione che la legge del 2006 ha confermato il ruolo nomofilattico della Cassazione v. A. Caputo, Giudizio penale di legittimità e vizio di motivazione, Giuffré Francis Lefebvre, 2021, p.295 (e, amplius, il cap.2, § 4).
[28] L n.103/2017, d. lgs. n.11/2018, d.lgs. n.150/2022.
[29] Ricorso contro la sentenza di non luogo a procedere pronunziata in grado di appello (art.428, comma 3-bis, c.p.p.); ricorso contro la sentenza di appello pronunziata per reati di competenza del giudice di pace (art.606, comma 2-bis, c.p.p.); ricorso del p.m. contro la sentenza di proscioglimento del giudice di appello che conferma quella di primo grado (art.608, comma 1-bis, c.p.p.).
[30] Così la relazione illustrativa all’art.3, comma 28, lettera o) del d. lgs. n.149/2022, che ha introdotto l’art. 391-quater c.p.c., in Gazz. Uff., 19/10/2022, suppl. straord. n.5, p.45.
[31] Quaderno n.20 della SSM, Il giudizio civile di cassazione, 2022.
[32] L’affermazione è del Pres. Angelo Spirito (che si presenta come il “magistrato che da più tempo opera nelle aule della Corte di cassazione”), in Quaderno cit., p.40. Sono questi contrasti che rendono criticabile la nomofilachia come oggi è esercitata, non il pericolo di soppressione della libertà interpretativa dei giudici di merito (come sostiene Scarselli, La nomofilachia e i suoi pericoli, cit., § 10), i quali sono sempre liberi di seguire una tesi diversa da quella della Cassazione purché la motivino. Mentre non è in sintonia con il principio costituzionale di uguaglianza e con la previsione (confermata dal Costituente) della Cassazione unica l’esaltazione dei contrasti giurisprudenziali implicita nella affermazione di Scarselli secondo cui “un contrasto di giurisprudenza significa che i giudici sono liberi”.
[33] G. Fidelbo, Il precedente nel rapporto tra sezioni unite e sezioni semplici: l’esperienza della Cassazione penale, in Questione Giustizia, n.4/2018, p.138.
[34] Provvedimento del 22 marzo 2011, con correlata relazione, in Foro it., 2011, V, c.183.
[35] È quanto riferisce A. Nappi, Quattro anni a Palazzo dei Marescialli, Aracne, 2014, p.142, il quale recepì il suggerimento di Santacroce in una proposta del CSM diretta al Ministro della giustizia attraverso una delibera del 2 luglio 2013, la quale avrebbe conseguito la maggioranza se non vi fosse stata l’assenza per impegni sopravvenuti del Pres. Santacroce.
[36] In Germania “non vi sono più di 40 avvocati abilitati a patrocinare dinanzi alla Corte federale di giustizia” nel settore civile (K. Tolksdorf, L’accesso alla Corte suprema tedesca, in Giurisdizioni di legittimità e regole di accesso. Esperienze europee a confronto, a cui di G. Alpa e V. Carbone, Il Mulino, 2011, p.46); in Francia il detto numero si aggira, notoriamente, attorno al centinaio. Questo aspetto dell’ordinamento francese è stato ritenuto dalla Corte Edu conforme al giusto processo e viene valutato molto utile per il funzionamento della Corte di cassazione francese (D. Le Prado, Alcune caratteristiche del sistema di cassazione alla francese, in Giurisdizioni di legittimità, cit., p.163). Giudizio ancora più positivo viene dato all’analogo aspetto dell’ordinamento forense della Germania (K. Tolksdorf, Op. loc. cit.).
[37] Nel 2022 è stato dichiarato inammissibile il 70,6 % dei ricorsi decisi (P. Curzio, Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2022, presentata il 26 gennaio 2023, Gangemi, p.150).
[38] Nell’annotare la sentenza n.98/2021 F. Palazzo, Costituzione e divieto di analogia, in Dir. pen. proc., 2021, p.1218, rileva che essa, pur essendo una pronunzia di inammissibilità, costituisce “un forte richiamo per i giudici comuni” al rispetto del divieto di analogia delle norme incriminatrici.
[39] La sentenza della Corte di giustizia (Grande Sezione) del 10 giugno 2010 (causa C-173-03) ha affermato la responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati alla società Traghetti del Mediterraneo per la violazione del diritto comunitario imputabile alla Corte di cassazione.
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