ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il cigno verde e la separazione dei poteri (nota a sentenza Tribunale civile di Roma del , sez. II, causa n. 39415 del 2021)
di Giuseppe Tropea
Sommario: 1. La vicenda contenziosa. – 2. Alcuni antecedenti giurisprudenziali e talune premesse culturali. – 3. Quale situazione giuridica è agita nel contenzioso climatico? – 4. Spunti conclusivi sul giudice.
1. La vicenda contenziosa
Deve prevalere un concetto di verità “forte”, in quanto “naturale”, ossia composta delle sue cinque classiche qualità epistemiche (corrispondenza, rivelazione, conformità, coerenza e utilità) scopribili attraverso protocolli scientifici, oppure una verità “debole”, perché soltanto “istituzionale”, ossia frutto dell’ermeneutica giuridica che inquadra tutti i fatti come interpretazioni e reputa insindacabile l’interpretazione fornita dal potere, quando questo è legittimato democraticamente?[1] Il giudice è custode dei “principi”, nonostante le “leggi di natura” e la scienza, o delle “garanzie”, grazie anche alle “leggi di natura” e alle scoperte scientifiche sulla sopravvivenza umana?[2] E ancora: le leggi di natura possono condizionare, come parametro di validità, le previsioni normative, interponendosi la predizione scientifica come parametro di legalità cui il giudice soggiace secondo una logica di legalità di risultato e di anticipatory regulation?[3]
Tali capitali domande, sottese alla sentenza del Tribunale civile di Roma qui in commento, dimostrano quanto essa fosse attesa, non solo fra gli addetti ai lavori, e quanti fronti di interesse essa sottende, in tutte le scienze sociali[4]. Già la denominazione enfatica del caso, “Giudizio universale”, la dice lunga sul carattere storico della pronuncia.
I numerosi ricorrenti sono costituiti da alcune organizzazioni non-governative, da un ampio numero di individui maggiorenni, da alcuni minori rappresentati in giudizio dai propri genitori. L’obiettivo generale dell’azione giudiziaria è accertare l’inadempimento da parte dello Stato italiano degli obblighi internazionali, europei e domestici in tema di contrasto al cambiamento climatico di origine antropica. Il contenzioso non mira ad ottenere uno specifico strumento legislativo né un risarcimento dei danni.
Quello che si domanda al Tribunale è di ordinare al Governo italiano di ridurre le proprie emissioni di gas a effetto serra del 92% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990 e di adottare un piano comunicativo efficace in relazione ai rischi connessi al cambiamento climatico e alle politiche di prevenzione e adattamento a tali rischi da questo intraprese.
Il caso, che rappresenta la prima causa climatica in Italia, si colloca sulla scia di importanti sentenze già rese in altri paesi europei.
Basti pensare alla sentenza resa il 20 dicembre 2020 dalla Corte Suprema olandese nel caso Urgenda, in cui la Corte ordina al governo olandese di ridurre urgentemente e significativamente le emissioni in linea con i propri obblighi in materia di diritti umani.
Oppure alla sentenza resa dal Tribunale amministrativo di Parigi del 3 febbraio 2021, con la quale si riconosce una diretta responsabilità omissiva dello Stato francese in relazione agli obiettivi e agli impegni dell’Unione Europea e nazionali in materia di riduzione dei gas a effetto serra.
Vi sono delle differenze di fondo tra questi due precedenti. Mentre infatti con la decisione Urgenda i giudici hanno deciso non alla luce del dato positivo, ma del dato scientifico[5], nella vicenda Affaire du siècle, invece, il giudice amministrativo francese ha deciso sulla base del dato positivo, a cominciare dall’Accordo di Parigi del 2015 e dalla sua attuazione interna[6]. L’approccio human rights based che ha caratterizzato il caso Urgenda non ha avuto quindi la stessa rilevanza nel caso Affaire du siècle. Qui non è stato necessario mettere in luce la contrarietà della condotta dello Stato rispetto agli obblighi di protezione di diritti fondamentali quali la vita[7] e la salute delle persone, in quanto i ricorrenti avevano lamentato che la condotta dello Stato francese fosse in contrasto, prima ancora che con tali previsioni, con la stessa normativa nazionale in materia di lotta al cambiamento climatico, la cui legittimità non era in discussione[8].
Infine, si consideri la sentenza della Corte costituzionale tedesca del 29 aprile 2021(Neubauer et al. c. Germania), la quale ha ritenuto la legge sul cambiamento climatico (c.d. Klimaschutzgesetz, “KSG” o “Legge sul Clima”) adottata dal governo tedesco nell’ottobre del 2019 come inadeguata a raggiungere gli obiettivi posti dagli obblighi internazionali sulla riduzione di emissioni di gas serra assunti da quest’ultimo.
Insomma, vi erano una serie di precedenti che facevano ritenere in molti che il Tribunale di Roma avrebbe accolto l’istanza di parte attrice[9].
Così non è stato, e in questo senso la posizione restrittiva del Tribunale italiano sembra maggiormente avvicinarsi, con le debite differenze del caso, alla recente giurisprudenza della Corte di Giustizia, la quale ha ritenuto lo Stato francese non responsabile per la non piena attuazione delle direttive sulla qualità dell’aria, in quanto le direttive perseguono gli obiettivi della tutela della salute e dell’ambiente e, pertanto, non sono in grado di far sorgere diritti differenziati in capo ai cittadini europei[10].
Il giudice ha osservato, infatti, che la domanda risarcitoria ricollegata alla titolarità di un diritto soggettivo (e come tale considerata scrutinabile dal giudice ordinario), per come formulata, è diretta in concreto a chiedere, quale petitum sostanziale, un sindacato sulle modalità di esercizio delle potestà statali previste dalla Costituzione. Sennonché, l’interesse di cui si invoca la tutela risarcitoria ex art. 2043 e 2051 c.c. non rientra nel novero degli interessi soggettivi giuridicamente tutelati, in quanto le decisioni relative alle modalità e ai tempi di gestione del fenomeno del cambiamento climatico antropogenico - che comportano valutazioni discrezionali di ordine socio-economico e in termini di costi-benefici nei più vari settori della vita della collettività umana - rientrano nella sfera di attribuzione degli organi politici e non sono sanzionabili nel giudizio.
La responsabilità dello Stato sarebbe originata dalle condotte omissive, commissive e provvedimentali del Governo e del Parlamento che non consentirebbero il raggiungimento di obiettivi più ambiziosi rispetto a quelli cui lo Stato si è vincolato. Quelli posti in essere dal Governo e dal Parlamento sono tuttavia atti, provvedimenti e comportamenti manifestamente espressivi della funzione di indirizzo politico, consistente nella determinazione delle linee fondamentali di sviluppo dell’ordinamento e della politica dello Stato nella delicata e complessa questione del cambiamento climatico antropogenico. Le censure mosse si appuntano sull’azione di indirizzo politico realizzata dai titolari della sovranità statuale in ordine alle concrete modalità con cui stanno contrastando il cambiamento climatico per il raggiungimento degli obiettivi individuati nell’ambito dell’ordinamento eurounitario e internazionale.
Da qui il giudice trae il proprio difetto assoluto di giurisdizione, pur ricordando che la domanda proposta in via subordinata, volta ad ottenere una modifica del Piano Nazionale Integrato Energia e Clima (PNIEC), attenendo alla legittimità dell’atto amministrativo e, comunque, a comportamenti e omissioni riconducibili all’esercizio di poteri pubblici in materia di contrasto al cambiamento climatico antropogenico, è afferente alla giurisdizione amministrativa generale di legittimità.
2. Alcuni antecedenti giurisprudenziali e talune premesse culturali
Riassumendo: il Tribunale di Roma respinge con tali secche argomentazioni tre punti essenziali di attacco su cui si fondava la strategia degli attori.
Da un lato l’azione rappresenta un tipico esempio di lite strategica, sulla falsariga del già menzionato caso Urgenda. Vi è poi l’aspetto ambientale, basato per lo più sulla violazione del diritto internazionale del clima e delle norme che ne hanno dato attuazione sia sul piano comunitario che sul piano interno. Infine, vi è l’aspetto puramente civilistico, per cui si reclama la responsabilità extracontrattuale dello Stato italiano (ex art. 2043 c.c.) per non aver rispettato obblighi di prevenzione di danni in situazioni di ‘minaccia urgente’; minaccia, secondo i ricorrenti, comprovata ampiamente dalla scienza.
Un altro aspetto interessante riguarda proprio il rapporto fra scienza e autonomia della politica. I ricorrenti, in linea con questo tipo di contenzioso, rimarcano come la politica debba agire secondo quelle che sono le più autorevoli indicazioni scientifiche in materia di cambiamento climatico (a livello internazionale si considerino i rapporti dell’Intergovernmental Panel on Climate Change), da cui discende anche un obbligo di informare correttamente i cittadini circa l’attuazione dei piani nazionali (cd. ‘riserva di scienza’), obbligo recepito dal diritto internazionale ambientale nonché dalla giurisprudenza della Corte EDU e della Corte costituzionale italiana[11].
Invero, la strategia dei ricorrenti, non si fondava solo su importanti precedenti in altri Stati, anche di civil law.
Essa ha come base una importante corrente dottrinale[12] fondata su alcuni snodi essenziali. La premessa è che viviamo un’emergenza sia ecosistemica che climatica, aggravata dall’urgenza del necessario abbandono di qualsiasi opzione di transizione energetica ancora fossile, perché ormai «minacciosa» essa stessa.
In tale contesto, i contenuti dell’obbligazione climatica, tracciati primariamente a livello internazionale dal Preambolo e dai primi quattro articoli dell’UNFCCC[13], sono self-executing e integrabili con fattispecie tipiche già disciplinate dai singoli ordinamenti (come, per es., l’art. 2051 c.c. sulla «custodia di cose», non a caso richiamato dalle parti attrici della causa “Giudizio Universale”).
Quindi la tipizzazione resta tutta di matrice internazionale, integrandosi, in ragione della relazione di specialità dell’UNFCCC con le fonti degli Stati, con gli istituti interni compatibili con quella ratio. Si spiega in questo modo il ricorso, nelle c.d. climate change litigation, alle categorie del tort e dell’illecito extracontrattuale. Esse rivendicano il principio del neminem laedere come norma generale interna/esterna, espressiva di un principio di diritto internazionale umanitario, e in secondo luogo ricorrono ancora a esso come regola di responsabilità, non derogabile da nessun genere di diposizione interna[14].
In questo approccio il principio di riserva di scienza ha delle ricadute inevitabili sul piano dei poteri del giudice e dei rapporti di quest’ultimo con l’amministrazione[15], la legislazione e la stessa scienza. In buona sostanza, la discrezionalità politica viene ritenuta pienamente sindacabile nel modo in cui utilizza le conoscenze scientifiche istituzionalizzate dall’UNFCCC[16]; quanto alla cognizione del giudice, il principio ha delle evidenti ricadute con riguardo all’individuazione dei fatti notori (art. 115 c.p.c.) e di quelli non contestabili[17].
La sentenza del Tribunale di Roma si distacca da questo paradigma teorico, non solo nella misura in cui invoca il rispetto della discrezionalità politica e del principio di separazione dei poteri, ma anche ove lamenta la mancanza delle informazioni necessarie per l’accertamento della correttezza delle complesse decisioni prese dal Parlamento e dal Governo.
3. Quale situazione giuridica è agita nel contenzioso climatico?
È accettabile questo self restaint giudiziale? O, al contrario, lo Stato di eccezione permanente che viviamo, col picco del Covid-2019, autorizza severe deroghe ai principi cardine dello Stato di diritto, su tutti quello di separazione dei poteri[18], mercé la riserva di scienza?
Forse si dovrebbe tornare a riflettere sui fondamenti, e in particolare sul rapporto fra giurisdizione e teorica delle situazioni soggettive. Una suggestione in tal senso ci viene proprio dalla sentenza del Tribunale di Roma, che per un verso in maniera condivisibile si dichiara sfornito di giurisdizione di fronte alle immani questioni poste dal “cigno verde” (sono state individuate ben ventiquattro co-emergenze fra loro interdipendenti, fra le quali la «sesta estinzione di massa» e il possibile collasso degli ecosistemi nel 2030[19]), per altro verso individua un margine di intervento – più modesto ma forse più efficace – in capo al giudice amministrativo, rispetto a un atto di pianificazione generale quale il Piano Nazionale Integrato Energia e Clima.
Quando parlo di teorica delle situazioni soggettive lo faccio all’interno di un discorso che non vuole toccare il tema, altrettanto spinoso, delle condizioni legittimanti e dell’interesse all’azione. Sul punto nella nostra dottrina è in corso un fecondo dibattito, con diverse opinioni, più o meno favorevoli a un’estensione della legittimazione per via del recupero della teorica astratta dell’azione o di una valorizzazione del principio di sussidiarietà orizzontale in chiave di standing processuale[20].
Mi limito ad osservare come il tema è spesso filtrato, o forse inquinato, dal profilo dell’insindacabilità delle scelte politiche di Governo e Parlamento sul punto, a sua volta collegato (e confuso) col tema del controllo giudiziale sull’atto politico. Non è un caso che il Tribunale di Roma preferisca atterrare sul tema del difetto assoluto di giurisdizione, piuttosto che soffermarsi su possibili dichiarazioni di inammissibilità del ricorso per difetto di legittimazione o per sussistenza dell’atto politico.
Anche a mio avviso queste ultime due questioni sono dei falsi problemi[21], perché comunque rifrazioni del nucleo duro costituito dalla riserva di scienza e dal suo rapporto potenzialmente destabilizzante e dirompente rispetto all’acciaccato principio di separazione dei poteri. A meno di non prenderne in prestito aspetti euristici utili e interessanti, come quello che guarda alla teoria dell’atto politico come modalità – scettica e storicista, come in un filone delle origini francesi della teoria – di indagine sui rapporti mobili tra giudice, politica e amministrazione[22].
Il Tribunale di Roma, in ogni caso, evidenzia la sommatoria di due lacune connesse: la mancanza nel caso di specie di interessi soggettivi giuridicamente tutelati, in quanto le decisioni relative alle modalità e ai tempi di gestione del fenomeno del cambiamento climatico rientrano nella sfera di attribuzione degli organi politici e non sono sanzionabili nel giudizio. Insomma: l’eccesso di potere giurisdizionale ai danni del legislatore e dell’amministrazione si coniuga qui al il difetto assoluto di giurisdizione per radicale assenza di una posizione giuridica soggettiva meritevole di tutela da parte di qualsiasi giudice[23]. Nonostante la sentenza parli di difetto assoluto di giurisdizione, in realtà essa si riferisce più propriamente all’eccesso di potere giurisdizionale, categoria di più rara frequenza statistica ma meno soggetta a rilievi critici rispetto al difetto assoluto di giurisdizione[24].
Il punto è, quindi, se muoverci in una tradizionale ottica individualista o assumere una diversa prospettiva rispetto al problema.
Anche le più avanzate e coraggiose tesi sulla tutela climatica talora restano intrappolate nella prima, più rassicurante, logica.
Sul punto esistono molte impostazioni sul campo[25]: il diritto alla natura, il diritto della natura, il diritto al clima, la natura come patrimonio comune, la public trust doctrine. Non è questa la sede per approfondirle tutte, ma posso dire di essere dell’idea che anche le più raffinate elaborazioni soggettivistiche, come quella del diritto al clima[26], scontano la crisi della tirannia del diritto[27] e perpetuano una visione antropocentrica del problema.
Contro questa impostazione si è osservato che la diversa narrazione del clima come “bene comune” o “Global Common”, ha portato ad affrontare la classica “tragedia” dell’utilizzo comune senza danni reciproci. Non ci sarebbe più spazio per nessuna inerzia: l’unica tragedia all’orizzonte sarebbe quella «dell’orizzonte temporale», e semmai si dovrebbe aprire ad orizzonti deliberativi e di gestione “comune” in tema di energia e beni vitali da cui la stabilità climatica dipende[28].
Il giudice della sentenza qui in commento non ha evidentemente seguito questa linea, sia pure nel ristretto rigore delle aule e delle “carte” processuali, che solo fino a un certo punto possono riecheggiare le altezze della speculazione teorica. Ma c’è una certa saggezza in questa autolimitazione giudiziale, da non leggere solo in una difesa conservativa e di retroguardia della separazione dei poteri[29].
Forse, dunque, c’è qualcosa d’altro.
È stato osservato[30] che l’idea dell’ambiente come patrimonio collettivo comune, terreno di incontro tra diritto alla natura e diritto della natura, mette al centro la teoria dei doveri, che a sua volta rafforza la dimensione pubblicistica della problematica ambientale[31]. In questo senso, la criticità non sta solo nel profilo dello spostamento delle competenze dalla politica alla giurisdizione[32], ma anche nel senso di collocare le decisioni fondamentali sui complessi rapporti tra ambiente, economia e società fuori dalla mediazione politica ed entro un campo essenzialmente sofocratico, giudice o scienziato che sia[33].
4. Spunti conclusivi sul giudice
Questa sentenza non è evidentemente un punto di arrivo, ma di partenza.
Guarda al passato, ma talora può esser sano un approccio di questo genere, anche se non può portarci a dimenticare la prospettiva disastrosa del “cigno verde”, per riprendere l'immagine suggestiva utilizzata dalla Banca dei regolamenti internazionali per indicare i rischi provenienti dal climate change in relazione alla stabilità finanziaria mondiale[34].
In questo senso, il richiamo finale nella sentenza al giudice amministrativo e alla sua sfera di cognizione sul potere mi pare interessante.
Mi rendo ben conto che la “microfisica” del giudice speciale e del suo processo è tuttora sottoposta ad attacchi, anche salaci e in più punti condivisibili[35].
Ma qui interessa l’opzione teorica di fondo che sembra sottesa al passaggio finale della sentenza del Tribunale civile di Roma.
L’idea mi pare evocare l’applicazione della tecnica del bilanciamento[36], ormai intrinseca alla logica del diritto fondamentale, come sappiamo sin dalla sentenza sull’Ilva di Taranto del 2013 della Consulta, sentenza non a caso definita schmittiana[37], confermata poi dalla giurisprudenza del tempo pandemico. In buona sostanza, emergenze e criticità talmente gravi da mettere in pericolo un assetto sociale impongono di disporre in una scala discendente di interessi; esse, inoltre, implicano unità e prontezza di decisione e valorizzazione di doveri e responsabilità. Insomma, si pongono nuovamente al centro della scena i doveri inderogabili di cui parla l’art. 2 Cost. Il nostro giudice amministrativo ha riflesso in più occasioni tale posizione, ritenendo che l’interesse privato vada contemperato con quello della collettività a prevenire il diffondersi del virus.
Tutto ciò, peraltro, a fonte della ritenuta inadeguatezza del diritto soggettivo a dar conto di determinate dimensioni di doverosità e responsabilità, sull’onda lunga della categoria, di sempre maggiore dignità teorica, dell’interesse legittimo fondamentale, e della centralità del giudice amministrativo non solo al fine di rendere giustizia al privato, ma sempre più anche come arbitro del dialogo e del confronto tra le amministrazioni e del conflitto di attribuzioni fra enti[38].
In campi come il biodiritto e l’immigrazione, ad esempio, le resistenze del legislatore hanno se possibile accresciuto gli interstizi della normazione secondaria e terziaria, sovente tecnica, e spesso in contrazione di “nuovi” diritti o meglio libertà, con nuovamente accresciuto ruolo del giudice, sempre più mediatore di conflitti cui la politica non vuole o non può accedere. In questi casi il giudice al centro della scena, oltre a quello amministrativo, è anche quello costituzionale, il quale spesso stigmatizza l’inerzia legislativa per lo più nei settori eticamente sensibili, e nel farlo colma la lacuna dettando – sia pure in forma embrionale – la disciplina del procedimento da seguire per erogare le prestazioni costituzionalmente dovute.
Probabilmente anche i climate change litigation attecchiranno presso il giudice amministrativo, specie dopo la sentenza in commento, e magari con più fortuna.
La parabola, quindi, sembra essere tornata alle origini: più amministrazione, meno giudice; mi riferisco evidentemente al giudice civile, non a quello amministrativo e costituzionale, che, come detto, si collocano progressivamente al centro della scena, talora peraltro con una ripartizione dei reciproci confini non sempre agevole (si pensi, ancora, alla giurisprudenza pandemica).
Questo non toglie, comunque, che i limiti tra giudice e legislatore dovrebbero essere fatti salvi anche in questo caso, pena la frantumazione sociale e l’esposizione della stessa giurisprudenza a tentativi di delegittimazione da parte della politica.
Peraltro, proprio il carattere embrionale di queste discipline svela i limiti di effettività della tutela solo giurisdizionale proprio in settori come quello delle crisi ambientali, settori che richiedono il coinvolgimento di altri decisori e chiamano ampiamente in causa il sapere tecnico. Anche le liti strategiche come le climate change litigation, quindi, da un lato segnalano i difetti e le insufficienze delle politiche ambientali, dall’altro non possono consentire che il giudice supplisca a inadeguati contemperamenti di interessi del legislatore e dell’amministrazione[39].
Poteri, questi, che a loro volta devono rispettare il – pur discusso – principio di “riserva di scienza”, in base al quale le evidenze scientifiche giocano ormai un ruolo rilevante nel sottrarre spazi di discrezionalità al decisore.
Sulle modalità con cui ciò deve accadere il dibattito è aperto presso i costituzionalisti, che guardano con interesse alla nostra teoria del procedimento amministrativo per rimediare alle annose criticità di quello legislativo[40].
Ma il tema immane della crisi della politica, e dei suoi meccanismi di funzionamento, non può certo essere oggetto di queste brevi note.
[1] Sulla concezione tarskiana della verità cfr. N. Abbagnano, Storia della filosofia, vol. 12, Novara-Roma, 2006.
[2] Su questo dilemma, si pensi ad alcune note contrapposizioni: in ambito giuridico fra Robert Alexy e Luigi Ferrajoli, e, in quello filosofico-sociale, fra Niklas Luhmann e Jürgen Habermas.
[3] G. Campeggio, La causa “Giudizio Universale” e il problema della verità, in www.diritticomparati.it, 21 settembre 2022.
[4] Per un’ampia e recente ricognizione v. AA.VV., Handbook of the Philosophy of Climate Change, ed. G. Pellegrino-M. Di Paola, Cham, 2023.
[5] M. Morvillo, Climate change litigation e separazione dei poteri: riflessioni a partire dal caso Urgenda, in www.forumcostituzionale.it, 28 maggio 2019.
[6] P. Patrito, Cambiamento climatico e responsabilità dei pubblici poteri: aspetti (più o meno) problematici di un recente fenomeno, in Resp. civ. prev., 2023, 1934 ss.
[7] Sulla centralità del diritto alla vita in materia ambientale v. ora M. Monteduro, La tutela della vita come matrice ordinamentale della tutela dell’ambiente (in senso lato e in senso stretto), in Riv. quad. dir. amb., 2022, 423 ss.
[8] L. Del Corona, Brevi considerazioni in tema di contenzioso climatico alla luce della recente sentenza del Tribunal Administratif de Paris sull’“Affaire du siècle”, in La Rivista “Gruppo di Pisa”, 2021, 333.
[9] Per una ragionata rassegna v. M. Delsignore, Il contenzioso climatico dal 2015 ad oggi, in Giorn. dir. amm., 2022, 265 ss.; AA.VV., Environmental Law Before the Courts. A US-EU Narrative, ed. G. Antonelli, M. Gerrard, S. Colangelo, G. Montedoro, M. Santise, L. Lavrysen, M.V. Ferroni, Cham, 2023. Sull’importanza dei casi giurisprudenziali avvenuti nel Global South v. M. Schirripa,Climate Change Litigation and the Need for ‘Radical Change’, in www.federalismi.it. Si consideri che mentre il presente contributo era in corso di pubblicazione è sopraggiunta la sentenza della Corte Edu, del 9 aprile 2024, con la quale i giudici di Strasburgo hanno dato ragione alle ricorrenti dell’associazione svizzera «Klimaseniorinnen», ovvero «le nonne svizzere» data l’età media over 70, che hanno accusato il governo elvetico di aver violato i loro diritti umani non impegnandosi abbastanza rapidamente per affrontare la «febbre» della Terra. In particolare, la Corte Edu ha stabilito la violazione dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, riguardante «il rispetto della vita privata e familiare», ma ha escluso la violazione dell’articolo 2, ovvero «il diritto alla vita». Nella stessa data la Corte Edu è stata chiamata a esprimersi anche sul caso «Duarte Agostinho and Others v. Portugal and 32 Other States», una causa promossa da un gruppo di giovani portoghesi nei confronti di 32 Stati membri dell’Unione Europea (Italia compresa), accusati di non fare abbastanza per ridurre le emissioni. Il loro ricorso è stato dichiarato inammissibile dai giudici di Strasburgo, secondo cui i ricorrenti avrebbero dovuto rivolgersi ai tribunali portoghesi prima di fare ricorso alla Cedu. La stessa sorte è toccata anche al terzo e ultimo contenzioso climatico finito sul tavolo della Corte europea dei diritti dell’uomo. A presentare ricorso in questo caso è stato Damien Carême, ex sindaco di Grande-Synthe, che ha fatto causa alla Francia per non aver agito con abbastanza convinzione ed efficacia per limitare gli effetti dei cambiamenti climatici. La Corte di Strasburgo ha fatto notare però che Carême non vive più in Francia e di conseguenza non può dichiararsi vittima dell’inazione del governo francese.
[10] Corte di Giustizia UE, Grande sezione, 22 dicembre 2022, Causa C-61/21 - J.P. c. Ministre de la Transition écologique e Premier ministre, in Giorn. dir. amm., 2023, con nota di M. Delsignore, Il giudice europeo e il risarcimento del danno per inquinamento dell’aria, la quale, pur criticando la pronuncia, mette in luce la preferibilità di strumenti di public enforcement piuttosto che di private enforcement.
[11] V. ad esempio le sentenze della Corte costituzionale n. 169/2017, n. 338/2003, n. 282/2002.
[12] M. Carducci, Cambiamento climatico (diritto costituzionale), in Dig. disc. pubbl., Agg. 2021, 51 ss.
[13] La Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (United Nations Framework Convention on Climate Change, da cui l'acronimo UNFCCC o FCCC), nota anche come Accordi di Rio.
[14] Cfr. Corte cost. n. 16/1992.
[15] M.F. Cavalcanti, Fonti del diritto e cambiamento climatico: il ruolo dei dati tecnico-scientifici nella giustizia climatica in Europa, in DPCE online, 2/2023. Per una tassonomia dei diversi ruoli svolti e assunti dai giudici rispetto alla scienza (ricostruzione “soggettiva” del giudice, assunzione del parere consolidato all’interno della comunità scientifica, determinazione in concreto del contenuto scientifico di una disposizione legislativa scientificamente indeterminata, utilizzo di una tecnica innovativa a livello medico-scientifico, interpretazione conforme a Costituzione che risulta condizionata dal dato scientifico, self-restraint rispetto alla discrezionalità politica del legislatore, self-restraint a favore di istanze medico-scientifiche), rilevandosi un’inevitabile pluralità di approcci, cfr. S. Penasa, Giudice “Ercole” o giudice “Sisifo”? Gli effetti del dato scientifico sull’esercizio della funzione giurisdizionale in casi scientificamente connotati, in www.forumcostituzionale.it, 17 dicembre 2015.
[16] S. Jasanoff, A World of Experts: Science and Global Environmental Constitutionalism, in B.C. Envtl. Aff. L. Rev., 2, 2013, 439-452.
[17] L. Bergkamp, Adjudicating Scientific Disputes in Climate Science, in Envtl Liability, 2015, 80-102.
[18] M. Ramajoli, Il cambiamento climatico tra Green Deal e Climate Change Litigation, in Rivista giuridica dell’ambiente, 2021, 53 ss.
[19] M. Carducci, Cambiamento climatico (diritto costituzionale), cit., 62.
[20] Mi permetto di rinviare a G. Tropea, La legittimazione a ricorrere nel processo amministrativo: una rassegna critica della letteratura recente, in Dir. proc. amm., 2021, 462 ss.
[21] L. Magi, Giustizia climatica e teoria dell’atto politico: tanto rumore per nulla, in www.osservatoriosulle fonti.it, 2021, 1030 ss. Di contro, tra i primi critici della sentenza del Tribunale di Roma, v’è chi richiama la sentenza n. 81/2012 della Corte costituzionale sull’atto politico. Cfr. L. Cardelli, La sentenza “Giudizio Universale”: una decisione retriva, in www.lacostituzione.info, 11 marzo 2024.
[22] Ribadisco tale idea, da ultimo, in G. Tropea, Teoria e ideologia del controllo giurisdizionale sull’amministrazione, Relazione al Convegno annuale Aipda Lo spazio della pubblica amministrazione. Vecchi territori e nuove frontiere, Napoli, 29-30 settembre 2023, in corso di stampa sull’Annuario Aipda 2023.
[23] Riprendo qui la terminologia dell’attento studio di A. Cassatella, L’eccesso di potere giurisdizionale e la sua rilevanza nel sistema di giustizia amministrativa, in Riv. trim. dir. pubbl., 2018, 625 ss.
[24] Cfr. M. Mazzamuto, L'eccesso di potere giurisdizionale del giudice della giurisdizione, in Dir. proc. amm., 2012, 1677 ss.
[25] Si v. l’attento studio di S. Valaguzza, Liti strategiche: il contenzioso climatico salverà il pianeta?, in Dir. proc. amm., 2021, 293 ss.
[26] A. Pisanò, Il diritto al clima. Una prima concettualizzazione, in L’ircocervo, 2021, 261 ss.
[27] R. Bin, Critica della teoria dei diritti, Milano, 2018.
[28] M. Carducci, Cambiamento climatico (diritto costituzionale), cit., 72.
[29] È la garbata critica che (sia pure in una condivisione dei valori e dei temi di fondo, e nella consapevolezza del modo in cui la separazione dei poteri viene declinata, bilanciata, attuata ed accettata in tutte le sue conseguenze) viene avanzata all’importante ultimo libro di M. Luciani da A. Cassatella, Separazione dei poteri, ruolo della scienza giuridica, significato del diritto amministrativo e del suo giudice. Osservazioni a margine di “Ogni cosa al suo posto. Restaurare l’ordine costituzionale dei poteri” di Massimo Luciani, in corso di pubblicazione.
[30] S. Valaguzza, Liti strategiche: il contenzioso climatico salverà il pianeta?, cit.
[31] F. Fracchia, Coronavirus, senso del limite, deglobalizzazione e diritto amministrativo: nulla sarà più come prima?, in www.dirittodelleconomia.it, n. 3/2019, 575 ss.; P. Pantalone, La crisi pandemica dal punto di vista dei doveri, Napoli, 2023.
[32] Così D. Porena, Giustizia climatica e responsabilità intergenerazionale, in www.rivistaaic, 2023, 186 ss.
[33] Aggiungo che questa centralità del giudice, in un contesto eminentemente di soft law quale il diritto internazionale della crisi ecologica, è tipica della de-politicizzazione derivante dal contesto neoliberale che pervade i nostri ordinamenti. In esso a spiccare è il concetto di resilienza, tipico lemma che può facilmente divenire vettore di assestamenti neoliberali, come dimostrano le pionieristiche ricerche sul tema di Crawford Holling. Si v., se si vuole, G. Tropea, Considerazioni sulla rimeditazione delle relazioni giuridiche di diritto amministrativo dopo la pandemia. Il libro di Pasquale Pantalone sulla “Crisi pandemica del punto di vista dei doveri”, in corso di pubblicazione.
[34] Sui rapporti tra crisi ecologica e attività economica di produzione di beni e di servizi per fini ambientali v. ora F. de Leonardis, Lo Stato ecologico, Approccio sistemico, economia, poteri pubblici e mercato, Torino, 2023.
[35] F. Volpe, Un marziano a spasso per il processo amministrativo (divertissement sul non processo), in www.giustiziainsieme.it, 13 marzo 2024.
[36] Sulla teoria del bilanciamento nella crisi ecologica in atto v. M. Monteduro, Le decisioni amministrative nell’era della recessione ecologica, in www.rivistaaic.it, n. 2/2018.
[37] M. Luciani, Ogni cosa al suo posto, Milano, 2023, 58.
[38] G. Tropea, Teoria e ideologia del controllo giurisdizionale sull’amministrazione, cit.
[39] Cfr. C. Tripodina, La tutela dei diritti fondamentali tra diritto politico e diritto giurisprudenziale, in M. Cavino, C. Tripodina (a cura di), La tutela dei diritti fondamentali tra diritto politico e diritto giurisprudenziale: “casi difficili” alla prova, Milano, 2012, 78, la quale, pur riconoscendo la «primazia della decisione legislativa» su quella giurisdizionale, ritiene che «il “buon legislatore” è quello che non si sottrae al dovere di dettare una disciplina sui “casi difficili”, ma sa farlo rimanendo in equilibrio lungo il sottile crinale che gli è imposto dal rispetto di costituzione, scienza, coscienza e corpo».
[40] Cfr., da ultimo, L. Del Corona, Libertà della scienza e politica. Riflessioni sulle valutazioni scientifiche nella prospettiva del diritto costituzionale, Torino, 2022. Sulla produzione di norme attuative del principio di precauzione come archetipo del rapporto tra scienza e tecnica da un lato e fra politica e diritto dall’altro, e come principio procedurale che non oscura la dimensione politico-valutativa del rapporto fra scienza e diritto, v. L. Buffoni-A. Cardone, Il procedimento normativo precauzionale come caso paradigmatico del ravvicinamento “formale-procedurale” delle “fonti” del diritto, in www.osservatoriosullefonti.it, n. 3/2012.
Giustizia Insieme è felice di ospitare oggi un articolo di Federica Ceccaroni, assegnista di ricerca presso l’Università di Pisa con un progetto sul tema dell’ordine del superiore nel diritto penale internazionale, vincitrice della quarta edizione del Premio Giulia Cavallone istituito presso la Fondazione Calamandrei.
Giulia Cavallone era una giovane magistrata che, fino alla sua morte a soli 36 anni, ha prestato servizio presso il Tribunale di Roma, dove ha trattato tra l’altro il processo relativo ai depistaggi nel caso Cucchi, e che prima di entrare in magistratura aveva dedicato ampia parte delle sue energie intellettuali alla ricerca accademica in materia penalistica, con un percorso di ampio respiro internazionale. Aveva infatti effettuato periodi di tirocinio presso Istituzioni europee, vinto borse di studio e svolto periodi di ricerca presso importanti istituti stranieri, fino al dottorato di ricerca in cotutela internazionale tra l’Università La Sapienza di Roma e l’Università Paris II Panthéon Assas di Parigi. La comparazione, lo sguardo rivolto a sé e all’altro con identico rispetto ed attenzione, è lo strumento che Giulia ha scelto, convinta che fosse l’unico utile, nel diritto come nella vita.
Il Premio voluto dalla famiglia Cavallone in memoria di Giulia è un ideale passaggio di testimone ad altre generazioni di giovani ricercatori che, con quello stesso spirito di apertura, intendano inserire nel proprio percorso accademico un periodo presso università o istituti di ricerca esteri. E il testimone è stato raccolto da Federica Ceccaroni, la cui vocazione internazionale è testimoniata dagli studi già compiuti presso le università di Oxford e Stoccolma durante il corso di studi, nonché presso il Max Plank Institute for Comparative Public Law and International Law di Heidelberg e presso l’École Normale Supérieure di Parigi, nell’ambito del suo percorso di dottorato presso l’Università della Tuscia.
Accogliendo Federica tra i nostri autori accogliamo idealmente quel respiro, che sopravvive a Giulia grazie al filo invisibile che il Premio contribuisce a tessere, legando il suo percorso interrotto a quello di Federica, di tutte le altre e gli altri giovani ricercatori che costruiscono la propria cultura nell’apertura e nel confronto.
Per chi non abbia conosciuto Giulia, Giustizia Insieme l’ha ricordata qui: https://www.giustiziainsieme.it/it/gli-attori-della-giustizia/1350-giulia-cavallone-un-ricordo
Ancora di Giulia e del Premio Giulia Cavallone avevamo già parlato qui: https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-societa/2541-premio-giulia-cavallone-anno-2022
https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-societa/3005-premio-giulia-cavallone-anno-2023
Per una giustizia dell'inumano. Riflessioni sulla codificazione italiana dei crimini internazionali
di Federica Ceccaroni
Sommario: 1. La giustizia penale internazionale di fronte alle nuove guerre. – 2. Coordinate preliminari sull’adeguamento allo Statuto di Roma. – 3. La parabola discendente della complementarietà. Note su sanzioni, tipizzazione e criteri imputativi. 4. – La dimensione ascendente della complementarietà. La responsabilità dell’ente. – 5. Conclusioni.
1. La giustizia penale internazionale di fronte alle nuove guerre.
L’aggressione russa all’Ucraina, i massacri del 7 ottobre in Israele, come pure l’atroce sterminio della popolazione civile di Gaza sollevano un acuto interrogativo sul ruolo e l’efficacia della giustizia penale internazionale. In questo scenario, il sistema istituito dallo Statuto di Roma, imperniato sul principio di complementarietà, rivela una dinamica che colloca le giurisdizioni nazionali al centro del processo di giustizia globale. È infatti compito primario degli Stati perseguire penalmente i crimini internazionali di competenza della Corte penale internazionale (CPI). Tuttavia, in Italia, a quasi ventisei anni dall’adozione dello Statuto di Roma, si ravvisa una normativa in materia frammentata e lacunosa. Invero, la l. 20 dicembre 2012, n. 237, dall’ambiziosa rubrica “Norme per l’adeguamento alle disposizioni dello statuto istitutivo della Corte penale internazionale”, si è limitata a disciplinare gli aspetti procedurali degli obblighi di cooperazione con la Corte, tacendo sugli aspetti di natura sostanziale[1].
Del delicato compito di dare completa attuazione allo Statuto di Roma è stata investita, da ultimo, con decreto del 22 marzo 2022 della ministra della giustizia Marta Cartabia, una Commissione per la stesura di un progetto di «Codice dei crimini internazionali»[2]. L’articolato, unitamente a una meditata relazione di accompagnamento, è stato prontamente elaborato nel rispetto delle strette tempistiche assegnate[3]. L’auspicata riforma ha subito, però, una inattesa battuta d’arresto: il 16 marzo 2023 il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge per l’introduzione del Codice che si limita a prevedere il crimine di aggressione e a estendere le condotte costituenti crimini di guerra[4]. I crimini contro l’umanità sono stati stralciati dal testo e ogni menzione al genocidio è stata dunque omessa. La virata del nuovo governo è difficilmente spiegabile in un contesto minacciato dalle ostilità che richiede l’urgente implementazione di strumenti in grado di supportare attivamente anche la raccolta e condivisione del materiale probatorio, essenziale per i futuri processi di fronte ai tribunali nazionali o internazionali (c.d. complementarity preparedness)[5]. Da più parti si sussurra che le denunce recentemente presentate al Procuratore della CPI per crimini contro l’umanità commessi nei confronti dei migranti in Libia spiegherebbero la premura del Consiglio dei ministri di precludere alle procure e ai tribunali nazionali la possibilità di svolgere simili indagini e procedimenti. Ma si tratterebbe di una prospettiva estremamente miope, considerando che, proprio ai sensi dell’art. 17 ICC St, la Corte è invero dotata della potestà di agire in supplenza, avocando a sé casi che lo Stato non voglia (unwillingness) o non possa (inability) giudicare in modo serio ed effettivo (innanzitutto per lacune del sistema giuridico)[6].
Il diritto penale internazionale, del resto, presenta una spiccata proiezione politica, considerando che si tratta di giudicare i crimini commessi dal potere. Ecco, dunque, che anche la codificazione di questi crimini diventa un atto politico, così come la scelta di non codificarli. Al di là delle ragioni di opportunità come pure di considerazioni relative alla dimensione culturale, occorre stimolare la riflessione, tutta giuridica, sulla necessità di un Codice che dia completa attuazione allo Statuto di Roma. Questo processo, come si vedrà, vede la complementarietà come un principio che si manifesta in una duplice direzione: la prima è una parabola discendente (v. infra § 3), che comporta l’adeguamento del diritto interno allo Statuto; la seconda è una parabola ascendente (v. infra § 4), che prevede l’introduzione di nuovi istituti giuridici che non solo si allineano allo Statuto, ma lo superano, contribuendo così allo sviluppo del diritto internazionale.
2. Coordinate preliminari sull’adeguamento allo Statuto di Roma.
L’adeguamento del corpus delle norme sostanziali interne allo Statuto della CPI sollecita una riflessione sulla diversità genealogica e quindi di funzione del diritto penale internazionale rispetto a quello di matrice nazionale. Si tratta, infatti, di una complessa operazione di integrazione tra sistemi che presentano legittimazione, metodi e finalità politico-criminali non coincidenti. Il diritto penale interno nasce come congegno di garanzia della libertà dei cittadini, come Magna Charta del reo. Il diritto penale è innanzitutto una “scienza dei limiti” che circoscrive lo spazio dell’azione punitiva statale: è strumento di protezione contro l’arbitrio del potere.
D’altra parte, già dal Preambolo, il sistema delineato dallo Statuto di Roma [7] svela la sua autentica vocazione: evitare che continui a perpetuarsi la situazione storica di impunità che avvolge la barbarie dei core crimes, un’impunità altrimenti “cronica” che rappresenta insopportabile pietra di scandalo per un’architettura giuridica modellata sui diritti fondamentali dell’uomo.
È singolare assumere come finalità un obiettivo che la giustizia ordinaria disconosce: la tradizionale “cifra oscura” dei crimini che restano impuniti non rappresenta in ottica interna un fallimento della giustizia penale, ma è piuttosto il normale, tollerabile prezzo da pagare al garantismo[8].
Nell’ordinamento interno, il diritto penale come strumento di difesa dei diritti individuali (scudo) e come mezzo di repressione della criminalità (spada) è una dicotomia mal posta. Non può esistere un diritto penale senza il telaio delle garanzie individuali. Non vi è spazio nella Costituzione per un approccio punitivo che non sia al contempo garantista. La Costituzione non insegue il concetto di una lotta alla criminalità; piuttosto ci parla di una giustizia ancorata alla responsabilità dell’individuo, al rispetto del giusto processo, alla protezione inalienabile della libertà della persona.
In questo senso la giustizia penale internazionale presenta un afflato profondamente diverso: non c’è una necessità di limitare una potestà punitiva, ma al contrario si rivolge all’implosione di statualità. Al potere che, da garante o giustiziere, diventa carnefice.
Per ciò solo risulta impraticabile un’automatica trasposizione interna degli istituti presenti nello Statuto: il diritto penale nazionale esce inevitabilmente riscritto e riplasmato dall’incontro con la dimensione internazionale.
A ben vedere, anche la legalità, per contenuto e funzione, non sembra coincidere con l’idea che anima il principio che negli ordinamenti interni porta lo stesso nome. Per il diritto penale interno è vincolo alla fonte, funzione di garanzia; nel diritto penale internazionale assume i connotati di una tipicità differenziale, in quanto delinea i presupposti di attivazione della giurisdizione della Corte per reati che sono perlopiù previsti anche negli ordinamenti interni. Perimetra, insomma, i limiti di rilevanza del possibile intervento della CPI.
Il problema della determinatezza nella formulazione delle fattispecie nello Statuto di Roma acquista dunque una diversa luce: non è rivolto alla collettività ma ai giudici, segna i vincoli e criteri di esercizio della propria giurisdizione. Difatti, la selezione primaria dell’illiceità è, in realtà, presupposta dallo Statuto; l’attribuzione alla Corte della giurisdizione si basa su un fatto che costituisce reato in base a una fonte di qualificazione distinta e indipendente. In tal senso, può parlarsi di un principio di legalità processuale[9].
Questione che, è evidente, apre a possibili tensioni con il principio di tassatività con cui la Commissione si è effettivamente confrontata. Per fare un esempio, si pensi al crimine di guerra di “violazione della dignità personale, in particolare trattamenti umilianti e degradanti” o al crimine contro l’umanità degli “altri atti inumani”: si è rivelato impossibile tradurre nel Codice interno simili previsioni perché gravemente indeterminate. Del resto, proprio la trasposizione dell’art. 8 (2)(b)(xxi) e (c)(ii) ICC St ha portato la recente giurisprudenza tedesca ad interpretare il termine “persona” protetta dal diritto umanitario del corrispondente § 8 (1) no. 9 Völkerstrafgesetzbuch (VStGB) come riferibile anche a un soggetto deceduto[10]. Esito ermeneutico che costituisce anche il frutto della mancanza di forza tipologica della fattispecie, di un tipo criminoso slabbrato e sfuggente.
3. La parabola discendente della complementarietà. Note su sanzioni, tipizzazione e criteri imputativi.
Questo diverso atteggiarsi della legalità si manifesta anche dal punto di vista sanzionatorio. Mentre nel diritto penale interno la legalità investe anche le sanzioni, nel diritto penale internazionale manca un analogo principio di prevedibilità della misura della pena.
Si deve rammentare come il sistema delle pene delineato nello Statuto di Roma sia delineato in modo sommario, lasciando al giudice una notevole discrezionalità nella determinazione della pena[11]. Non vengono definiti i fini, non si stabilisce un sistema edittale tipico degli ordinamenti di civil law, ma neppure si prevede che il precedente assuma rilevanza come negli ordinamenti di common law. Le uniche norme rilevanti sono l’articolo 77 ICC St, che indica come pena principale la pena detentiva nella forma della reclusione di massimo trent’anni o nella forma dell’ergastolo per i casi più gravi; l’art. 78 ICC St e la regola 145 del Regolamento di procedura e di prova, che si limitano a fare un elenco di fattori da considerare ai fini della valutazione della gravità del crimine e del grado di colpevolezza del reo. Questo si traduce in una pratica sanzionatoria internazionale che differisce significativamente da quella del diritto penale interno, dove esistono parametri ben definiti (artt. 23, 24 e 133 c.p.), che garantiscono la prevedibilità e la proporzionalità delle sanzioni.
In questo senso si è proceduto nella proposta di Codice dei crimini internazionali alla previsione di precisi limiti edittali. Operazione non semplice in quanto ci si confronta con crimini incommensurabili[12]. Il criterio, che trova numerosi corrispondenti a livello comparato, non da ultimo il Codice dei crimini internazionali tedesco, è stato quello di un confronto con le fattispecie “corrispondenti” di diritto interno ma con una scelta di fondo che spinge verso l’alto.
Ma anche a livello di fatto tipico è risultata necessaria una trasposizione delle fattispecie previste dallo Statuto. Occorre, invero, dare conto della peculiare tipizzazione delle fattispecie nello Statuto di Roma, strutturate attorno al c.d. elemento di contesto. Elemento cruciale per comprendere la complessità dei crimini internazionali che, in effetti, implicano una moltitudine di attori e forme di violenza istituzionalizzata e che funge da decisivo amplificatore del disvalore delle singole condotte. Il contesto, dunque, si erge a triste palcoscenico – la violenza di massa – all’interno del quale si colloca il giudizio di responsabilità individuale ed è centrale per decifrare la particolare struttura legale dei crimini, che si compongono di due livelli. Il primo è quello della commissione dei singoli reati-base (c.d. underlying offences, omicidio, lesioni personali, stupro, tortura, sequestro di persona, e via dicendo).
Il secondo livello è, per l’appunto, quello del contesto, la cornice entro cui si iscrivono le underlying offence: ad esempio, le condotte di omicidio, stupro o tortura divengono crimini contro l’umanità se commessi in connessione con un “attacco esteso o sistematico ad una popolazione civile”. Il contesto esprime quindi il disvalore tipico della dimensione macro-sistematica dei crimini internazionali, seleziona i beni giuridici tutelati dalla norma (pace o sicurezza internazionale), ontologicamente diversi rispetto a quelli di diritto penale interno e segna anche una precisa caratterizzazione dal lato degli autori del crimine. Tendenzialmente immancabile è, invero, il legame tra responsabilità degli individui e responsabilità degli Stati: la dimensione massiva di questi crimini, infatti, non può non coinvolgere più o meno direttamente strutture del potere statale. La perpetrazione di tali atrocità trascende le capacità individuali, suggerendo un’involuzione dello Stato da garante di diritto a partecipante attivo nelle violazioni.
Questa complicità statuale porta a riflettere sulla reale necessità di simili previsioni nell’ambito di uno Stato di diritto. Ovviamente la situazione tipica di applicazione del penale internazionale non è quella dello Stato che giudica sé stesso, ma trova un suo importante canale applicativo attraverso il grimaldello della giurisdizione universale[13]. Diventa però essenziale interrogarsi pure sui margini di responsabilità che possono ravvisarsi in operazioni più o meno autorizzate di sterminio, sulla legittimità della guerra preventiva, di eccidi consumati sotto il vessillo della democrazia e di altri valori assoluti. Lo Stato democratico di diritto non è per ciò solo immune dal pericolo di convertire il suo monopolio della forza, le sue strutture politiche, in un mezzo per la consumazione di massacri ammantati da un’apparenza legittima[14].
Tuttavia, occorre rilevare che per una tesi minimalista e conservatrice non vi è necessità di una ulteriore tipizzazione di fattispecie che sono già coperte dal diritto penale interno[15]. Difatti, alcune violazioni previste nel codice penale militare di guerra possono essere equiparate a “crimini di guerra” nel contesto internazionale e la legge n. 962 del 9 ottobre 1967 già punisce alcune forme di genocidio. Ancora, i “crimini contro l’umanità” sembrano essere la trasposizione a livello internazionale di reati contemplati nel nostro Codice penale, come omicidio (anche in forma multipla, per coprire situazioni di “sterminio”), lesioni personali, schiavitù, tortura, violenza sessuale, arresto arbitrario e violenza privata.
Se certamente molte fattispecie previste dallo Statuto trovano un corrispondente nel diritto interno, la necessità di introdurre nuove figure di reato emerge al fine di esprimere il particolare disvalore dei crimini internazionali. L’opzione nominalistica non è mai neutra, ma riafferma con forza i significati; il linguaggio veicola l’intensità della pregnanza simbolica punitiva, recepisce e costruisce la realtà. Non si tratta solo di dare il giusto nome alle cose: “sequestro di persona” non è “sparizione forzata” quale crimine contro l’umanità. Il diverso segno linguistico rimanda, invero, a una specifica fenomenologia criminosa che si apprezza dal punto di vista qualitativo, per via del carattere odioso di questi crimini in quanto costituiscono un attentato a quella dignità che è propria dell’umanità nel suo complesso, e quantitativo, in ragione della loro ampiezza, della dimensione massiva.
Le parole sono importanti, verrebbe da dire. Ma alla portata simbolica dell’intervento penale si accompagna – e non poteva essere altrimenti – quella strumentale. Invero, la necessità di simili previsioni a livello interno appare con evidenza laddove si consideri che il processo italiano al plan Cóndor si è chiuso con ben diciannove assoluzioni per intervenuta prescrizione con riguardo ai crimini commessi durante le dittature in America latina[16]. Non a caso, la proposta di Codice prevede, all’art. 16, l’imprescrittibilità dei crimini internazionali.
A favore di questo progetto di riforma milita altresì il fatto che non tutte le fattispecie trovano un corrispondente interno, almeno nella cornice tipologica prevista dallo Statuto: si pensi ai crimini di guerra di illecita deportazione e illecito trasferimento di popolazione[17] ma anche apartheid, reclutamento e impiego di bambini-soldato: lacuna che potrebbe portare alla attivazione della Corte al nostro posto.
Ad ogni modo, si pone il problema cruciale in questo particolare momento storico circa l’impossibilità di cooperazione investigativa con riguardo ai crimini internazionali commessi all’estero, ove non siano presenti i rigidi criteri di collegamento previsti dal Codice penale.
Ovviamente l’introduzione di un Codice ad hoc non è priva di elementi di criticità soprattutto laddove si vada ad incidere sulle categorie di parte generale: vi è il rischio di una flessibilizzazione delle garanzie nonché della propagazione di criteri imputativi meno stringenti dall’ambito dei macro-crimini ad ipotesi limitrofe (si pensi al terrorismo). Ipotesi non così remota se solo si considera l’esperienza del “doppio binario”, quel canale differenziato della giustizia penale originariamente destinato al solo fenomeno mafioso, che poi ha conosciuto una progressiva ed inesorabile espansione con riferimento a fenomeni del tutto eterogenei. Per questo la Commissione ha optato per valorizzare gli istituti già esistenti, preservando integrità e coerenza del sistema attraverso un equilibrio tra vincoli costituzionali, parametri di diritto internazionale e proiezione dei principi interni. Approccio che ha permesso di evitare le insidie delle pulsioni punitive che talvolta emergono nei sistemi di giustizia penale internazionale.
Ad esempio, in materia di command responsibility, la scelta è stata quella di codificare distintamente una forma di concorso doloso per omesso impedimento nel reato altrui, una corrispondente ipotesi omissiva colposa costruita secondo lo schema dell’art. 57 c.p., e alcuni reati omissivi propri di mancata denuncia e mancata punizione. Soluzione che perimetra adeguatamente i titoli per i quali il superiore gerarchico può essere ritenuto responsabile, fugando il rischio di una automatica ascrizione per posizione del crimine commesso dal subordinato, con inevitabile violazione dei principi costituzionali di responsabilità personale colpevole.
Emerge quindi lo sforzo della Commissione con riguardo alla strutturazione del nesso ascrittivo nell’ipotesi di concorso doloso per omesso impedimento nel reato altrui. In particolare, i termini dell’art. 40, cpv. c.p. sono stati integrati meditatamente con gli esiti dell’evoluzione giurisprudenziale che ha esteso la responsabilità omissiva impropria, alla luce di una lettura combinata con l’art. 110 c.p., anche al caso di omesso impedimento del reato (e non solo dell’evento come testualmente previsto nel Codice penale) che si «aveva l’obbligo giuridico di impedire». A ciò si aggiunga che le ipotesi colpose di command responsibility, sanzionate con pena diminuita, sono state ricostruite come una specifica ipotesi di punibilità dell’agevolazione colposa, ispirata all’art. 57 c.p. sulla responsabilità del direttore di una pubblicazione periodica.
Quanto alle altre ipotesi di responsabilità omissiva, sono state espunte dal titolo di responsabilità per il fatto del subordinato l’ipotesi della mancata adozione da parte del superiore di misure punitive o disciplinari a carico del primo, ovvero dell’omessa denuncia, in una fase successiva alla commissione del crimine, riprendendo una distinzione già fatta propria dal legislatore tedesco. La condotta del soggetto in posizione gerarchicamente sovraordinata rimane penalmente rilevante, ma assurge ad illecito autonomo – una omissione propria – la cui cornice edittale è nettamente inferiore rispetto a quella contemplata per il crimine internazionale del subordinato.
4. La dimensione ascendente della complementarietà. La responsabilità dell’ente.
Il principio di complementarietà che vede i sistemi nazionali di giustizia penale come the most appropriate forum for adjuticating international crimes[18], può ben essere declinato anche in una prospettiva proattiva, introducendo opzioni che vanno oltre la stessa disciplina dello Statuto di Roma. In questo senso, è significativa la scelta operata nella proposta di Codice di prevedere una responsabilità degli enti per crimini internazionali[19].
È noto, infatti, che il tentativo di introdurre tale forma di responsabilità naufragò nell’ambito della conferenza di Roma, principalmente a causa della resistenza degli ordinamenti giuridici romano-germanici che presagivano conseguenze sgradite per via del principio di complementarietà. Si temeva infatti che la sua applicazione potesse risultare in una mancata capacità o volontà da parte degli Stati di perseguire società per crimini internazionali, lasciando tale onere alla CPI secondo l’articolo 17 dello Statuto[20].
Tuttavia, l’evoluzione delle normative nazionali negli ultimi vent’anni ha visto una crescente adozione del modello di responsabilità per enti collettivi. Peraltro, specie laddove si sia fatto ricorso ad un modello generalizzante (senza numerus clausus) dei reati presupposto, i crimini internazionali risultano oggetto di applicazioni giurisprudenziali, sia pur episodiche: si osserva infatti un numero crescente di casi giudiziari per le responsabilità di soggetti di vertice di imprese per serious violations of human rights, talvolta con implicazioni per l’ente (casi in Francia, Olanda, Germania, Svizzera, Argentina, e di recente anche in Italia)[21].
A ciò si affianca la questione se non vi ostino argomenti di ordine ontologico, che discendono dall’identità nonché dalla base di legittimazione del diritto penale internazionale. Sin dal giudizio di Norimberga l’imputazione penale ruota attorno alla persona fisica; non vi è spazio, invece, per una responsabilità dell’ente, in senso proprio. Si tratta di un’opzione che, del resto, riflette il rivoluzionario cambio di paradigma maturato nell’ambito di quella esperienza storica, che può compendiarsi nelle parole della nota sentenza del 1° ottobre 1946 del Tribunale militare internazionale: «i crimini sono commessi da uomini, non da entità astratte, e soltanto punendo gli individui che commettono tali crimini si può dare effettivamente attuazione alle previsioni del diritto internazionale». Il carattere originario del diritto penale internazionale, quale meccanismo sanzionatorio, è la capacità di individualizzare le responsabilità nei contesti di macrocriminalità che connotano i crimini internazionali. L’introduzione di criteri di imputazione autonomi e in senso lato funzionali, come la «corporate culture», o la «colpa di organizzazione», potrebbe così costituire un punto di rottura.
Ad ogni modo, vi è da chiedersi se il coinvolgimento delle imprese nei crimini internazionali non rappresenti forse l’incarnazione di una moderna e antichissima banalità del male[22]. Significativi studi criminologici indicano nello State-corporate crime una nuova fenomenologia criminosa[23] che richiede un’adeguata evoluzione del rimprovero internazional-penalistico. Questo nuovo formante della macrocriminalità, costituito da attori economici e politici, impone così una rinnovata attenzione nella selezione e nell’analisi delle violazioni sistemiche ai valori fondamentali tutelati dalla comunità internazionale.
L’inclusione della responsabilità degli enti nella proposta di Codice italiano costituisce dunque un virtuoso esempio della dinamica innescata dal principio di complementarietà e apre anche all’auspicio di simili evoluzioni nel contesto dello Statuto di Roma[24]. È ampiamente riconosciuto che i sistemi giuridici nazionali esercitino un’influenza significativa sul nucleo duro del diritto penale internazionale, generando un flusso giuridico che promuove un dialogo multilivello tra differenti ordinamenti giuridici.
Quanto al contenuto della proposta italiana di Codice dei crimini internazionali, l’art. 67 integra il regime di responsabilità ex crimine degli enti collettivi all’interno del sistema stabilito dal d.lgs. n. 231/2001. La scelta è particolarmente significativa per ragioni di coerenza di sistema e per il potenziale preventivo nelle realtà di impresa dei Modelli di organizzazione e gestione (MOG) atti a contenere il rischio della commissione di condotte illecite, e nella specie di quelle che possano sfociare in crimini internazionali. Approccio che si distingue positivamente da quello adottato in precedenti tentativi di codificazione dei crimini internazionali in Italia, come il progetto Kessler, che prevedeva l’ipotesi estrema dello scioglimento dell’ente. La Commissione ha quindi adottato una strategia più misurata, tesa a prevenire eccessi punitivi e a salvaguardare lo svolgimento di attività economiche lecite che comportano intrinseche dimensioni di rischio. In particolare, ha limitato la rilevanza del contributo dell’ente ai casi in cui «il reato sia stato determinato da gravi carenze organizzative», così come previsto, in relazione alle sanzioni interdittive, dall’art. 13 d.lgs. n. 231/2001.
Deve, tuttavia, osservarsi che al comma 5 è stata inserita una causa di non punibilità dell’ente: «L’ente non risponde quando la condotta sia stata realizzata nel rispetto di provvedimenti dell’autorità». Si è dunque ritenuto di escludere la responsabilità dell’ente quando questo, ad esempio, abbia agito sotto l’egida di licenze o autorizzazioni amministrative. Si pensi al caso di una impresa di produzione di materiali bellici che abbia effettuato una cessione a una entità pubblica straniera, previo provvedimento permissivo degli uffici preposti, cessione cui sia poi seguito l’impiego della fornitura in un conflitto armato nel quale si ritiene vengano perpetrati crimini di guerra avvalendosi della stessa.
Su quest’ultimo aspetto, la soluzione proposta non convince. Si tratta, infatti, di un punto di equilibrio troppo sbilanciato a favore dell’impresa, traducendosi in una sorta di scudo penale per chi vanti provvedimenti autorizzatori dell’autorità. Permettere che l’impresa che esporta armi verso un regime dittatoriale, notoriamente coinvolto nella commissione di crimini internazionali, nulla possa temere in presenza di un provvedimento legittimante finisce per vanificare la meritevolezza della proposta. Del resto, il diritto penale internazionale trova il suo fondamento nonché una sua base di legittimazione proprio nel tentativo di rivolgersi alle perversioni del potere statuale: è la stessa base criminologica di riferimento, quella dello State-corporate crime, a pretendere uno scrutinio degli atti che promano dall’autorità.
5. Conclusioni
L’integrazione tra il diritto penale internazionale e il diritto penale interno è essenziale per affrontare i crimini di massa che turbano la coscienza collettiva. I nuovi conflitti mettono alla prova l’efficacia del sistema di giustizia penale internazionale, evidenziando la necessità di una dimensione solidale della complementarietà, un concetto che costituisce il sottotesto del progetto di Codice italiano dei crimini internazionali. Progetto che è senz’altro la sapiente canalizzazione del diritto penale internazionale nel tessuto del diritto nazionale. La ritirata di tale iniziativa appare dunque sorprendente, nell’attuale momento storico, e sollecita una rinnovata riflessione che trascende i meri aspetti tecnici per abbracciare anche questioni culturali e politiche.
Il Codice dei crimini internazionali può essere visto non solo come un mezzo di giustizia, ma anche come un simbolo dell’impegno di un paese a difendere i valori fondamentali dell’umanità contro le peggiori forme di barbarie, come la risposta – sia pure imperfetta – alla sofferenza, come l’arduo compito di ricondurre quel male a razionalità. Di fronte alle atrocità di massa il diritto. Il diritto penale dell’inumano[25], riprendendo la felice formula coniata da Mireille Delmas-Marty.
Se il diritto penale internazionale può essere visto come un tentativo di razionalizzare l’indicibile, di reazione all’etica del male, l’adattamento delle norme interne allo Statuto di Roma, ha anche l’indiscusso pregio di riaffermare l’umanità come valore comune da preservare.
[1] La legge include, in effetti, disposizioni sostanziali che mirano a modificare certi reati contro l’amministrazione della giustizia, come la falsa testimonianza e le false dichiarazioni al Pubblico Ministero, e contro la pubblica amministrazione, tra cui concussione e corruzione, al fine di assicurare la punibilità di tali condotte in danno della CPI. Nulla si dice però sui core crimes.
[2] Il testo dell’articolato e della relazione di accompagnamento è rinvenibile online alla seguente pagina: https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_36_0.page?contentId=COS372730.
[3] Sulla proposta di Codice si vedano N. Selvaggi, The way forward. An overview on the draft “Palazzo-Pocar” of 2022, in C. Meloni, F. Jeßberger, M. Crippa (eds.), Domesticating International Criminal Law, Abingdon-New York, 2023; E. Fronza, C. Meloni, The Draft Italian Code of International Crimes, in J. Int. Crim. Justice, Volume 20, Issue 4, September 2022, p. 1027 ss.; A. Vallini, Il codice a pezzi. Ascesa e caduta della proposta di una legge organica sui crimini internazionali, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 1/2023, pp. 91-110; Id., “Una sola moltitudine”: le atrocità della guerra in Ucraina, la giustizia penale internazionale, la Commissione “Palazzo – Pocar” per un Codice dei Crimini Internazionali, lceonline, n. 2/2022, II/Osservatorio, p. 21 ss.; M. Crippa, L’approvazione di un codice dei crimini internazionali “dimezzato” Le ragioni di un (dis)atteso intervento normativo, in Quest. Giust., 21 marzo 2023, 8 ss.
[4] https://www.governo.it/it/articolo/comunicato-stampa-del-consiglio-dei-ministri-n-25/22 114.
[5] F. Jeßberger, Towards a ‘Complementary Preparedness’ Approach to Universal Jurisdiction – Recent Trends and Best Practices in the European Union, Briefing, in Workshop: Universal Jurisdiction and International Crimes: Constraints and Best Practices, Directorate General for External Policies of the Union, Policy Department for External Relations, Settembre 2018, p. 9 ss.
[6] In questo senso il recepimento delle fattispecie dello Statuto, sollecitato dal principio di complementarietà, può essere considerato non tanto come un obbligo ma come un rilevante onere. Sul punto, e più in generale sul tema dell’adeguamento italiano allo Statuto, v., da ultimo, R. Lopez, L’Italia e la mancata repressione dei crimini internazionali, in Proc. pen. giust., n. 2/2024, p. 502 ss.
[7] Nel Preambolo dello Statuto di Roma, alinea 5, si legge testualmente «determined to put an end to impunity for the perpetrators of these crimes and thus to contribute to the prevention of such crimes».
[8] In termini pressoché coincidenti, L. Cornacchia, La funzione della pena nello Statuto della Corta Penale Internazionale, Milano, 2009, p. 89 ss.
[9] A. Di Martino, Postilla sul principio di legalità nello Statuto della Corte criminale internazionale, in M. Delmas-Marty, E. Fronza, E. Lambert Abdelgawad (a cura di), Les sources du droit international pénal: l'expérience des Tribunaux Pénaux Internationaux et le Statut de la Cour Pénale Internationale, Paris, 2004, p. 329 ss.
[10] Si veda, da ultimo, Bundesgerichtshof [BHG], Jan. 28, 2021, 3 StR 654/19, ECLI:DE:BGH:2021:280121U3STR564.19.0. Per un’analisi compiuta delle questioni sottese alla casistica citata cfr. K. Ambos, Deceased Persons as Protected Persons Within the Meaning of International Humanitarian Law: German Federal Supreme Court Judgment of 27 July 2017, in Journal of International Criminal Justice, Volume 16, Issue 5, December 2018, p. 1105 ss.; V. Bergmann, F. Blenk, N. Cojger, Desecration of Corpses in Relation to § 8(1) no. 9 German Code of Crimes Against International Law (VStGB): The Judgment of the German Federal Court of Justice (Bundesgerichtshof) of July 27, 2017–3 StR 57/17, in German Law Journal, 22(2), 2021, p. 276 ss.
[11] A. Riccardi, Sentencing at the International Criminal Court. From Nuremberg to the Hague, Roma, 2016, p. 113 ss.
[12] C. Meloni, Punire l’incommensurabile? Sulla difficile funzione e commisurazione della pena nel diritto penale internazionale, in C.E. Paliero, F. Viganò, F. Basile, G.L. Gatta, (a cura di), La pena, ancora fra attualità e tradizione, Studi in onore di Emilio Dolcini, Milano, 2018, p. 389 ss.
[13] Si vedano le belle pagine di A. Garapon, Des crimes qu’on ne peut ni punir ni pardonner. Pour une justice internationale, Paris, 2002, 19 ss. per una riflessione sulla “compétence universelle”. Secondo l’A. “la competenza universale, oltre a rimarcare la supremazia di alcuni diritti fondamentali sulla sovranità, testimonia la deterritorializzazione estrema dell’idea di giustizia penale internazionale. Questa non si incarna più in una singola istituzione, ma è rinvenibile allo stato latente in qualsiasi organo di giustizia di tutti i paesi firmatari della convenzione. La giustizia sogna di realizzare la profezia del diritto cosmopolita immaginato da Kant nel suo progetto di pace perpetua: «con la comunanza (più o meno stretta) tra i popoli della terra, che alla fine ha dappertutto prevalso, si è arrivati a tal punto che la violazione di un diritto commessa in una parte del mondo viene sentita in tutte le altre parti»” (tr. it. di S. Allegrezza). Attuali anche le considerazioni sull’intricato rapporto tra politica internazionale e giurisdizione universale, che ripropone a livello interno la tensione tra diritto e potere.
[14] Così ammoniva Palazzo nella magistrale introduzione al convegno “La dismisura del male: il diritto di fronte ai crimini di massa”, organizzato dall’Istituto italiano di Scienze Umane, Firenze, 3 marzo 2008. Per il testo della Relazione v. F. Palazzo, Il diritto penale di fronte ai crimini di massa. Introduzione, in Riv. it. dir. proc. pen, n. 2/2009, 750 ss.,
[15] In tal senso, A. Cruciani, Il progetto per un codice di crimini internazionali alla lente dei principi di complementarità e ne bis in idem dello Statuto della CPI, in Quest. Giust., 2 marzo 2023.
[16] Cass. pen., Sez. I, 09/07/2021, n. 43693.
[17] Qui il riferimento non può che andare alla contestazione inerente il mandato di arresto nei confronti di Vladimir Putin. Cfr. Situation in Ukraine: ICC judges issue arrest warrants against Vladimir Vladimirovich Putin and Maria Alekseyevna Lvova-Belova, in www.iccc-cpi.int, 17 marzo 2023.
[18] A. Cassese, The Role of Internationalized Courts and Tribunals in the Fight Against International Criminality, in C. Romano – A. Nollkaemper – J.K. Kleffner (eds.), Internationalized criminal courts and tribunals. Sierra Leone, East Timor, Kosovo and Cambodia, Oxford, 2004, p. 4.
[19] Il tema lambisce i confini disciplinari riconducibili alla nozione tedesca di Wirtschaftsvölkerstrafrecht, settore ancora in via di sedimentazione che indaga la risposta del diritto penale dinanzi ai gravi abusi di potere economico-politico. Cfr. F. Jessberger – W. Kaleck – T. Singelstein (eds.), Wirtschaftsvölkerstrafrecht, Baden-Baden, 2015; K. Ambos, International Economic Criminal Law: The Foundations of Companies’ Criminal Responsibility Under International Law, in Criminal Law Forum, 29, 2018, p. 499; P. Severino – J. Vervaele – A. Gullo (eds.), Criminal Justice and Corporate Business, Proceedings of AIDP – XX International Congress, 13-16 November 2019, Rome, 2021; F. Jeßberger, On the Origins of Individual Criminal Responsibility under International Law for Business Activity, IG Farben on Trial, in Journal of International Criminal Justice, vol. 8, 2010, pp. 783-802; S. Manacorda, Fragments’ of International Economic Criminal Law: Short Notes on Corporate and Individual Liability for Business Involvement in International Crimes, in F. Jeßberger, M. Vormbaum, B. Burghardt (eds.), Strafrecht und Systemunrecht, Festschrift für Gerhard Werle zum 70. Geburtstag, Tübingen, 2022, pp. 193-206.
[20] S. Manacorda, Codificare i crimini internazionali? Prospettive penalistiche nella cornice costituzionale, in Quad. cost., 4/2022, p. 797 ss.
[21] Temi non dissimili sono stati oggetto di communication alla CPI. In particolare, nel dicembre del 2019, è stata proposta una comunicazione relativa alla responsabilità di alcune imprese europee, registrate o attive negli Stati membri dello Statuto CPI, accusate di aver facilitato crimini di guerra in Yemen attraverso la vendita di armi alla coalizione guidata dagli Emirati Arabi Uniti. Già nel 2017, un’associazione di enti impegnati nella difesa dei diritti umani aveva formalmente sollecitato il Procuratore della CPI ex art. 15 dello Statuto CPI, ad avviare un’indagine riguardante il coinvolgimento della Chiquita Brands International in crimini contro l’umanità perpetrati da formazioni paramilitari in Colombia.
[22] H. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, tr. it. P. Bernardini, Milano, 2014.
[23] Il crimine politico-economico è stato formalmente definito come «illegal or socially injurious actions that result from a mutually reinforcing interaction between (1) policies and/or practices in pursuit of the goals of one or more institutions of political governance and (2) policies and/or practices in pursuit of the goals of one or more institutions of economic production and distribution». Cfr. R.C. Kramer – R.J. Michalowski – D. Kauslarich, The Origins and Development of the Concept and Theory of State-Corporate Crime, in Crime & Delinquency, 48(2), 2002, pp. 263–282; R.J. Michalowski, R.C. Kramer (eds.), State-Corporate Crime. Wrongdoing at the Intersection of Business and Government, New Brunswick, 2006; K. Schlegel – D. Weisburd, White-Collar Crime Reconsidered, Boston, 1992, p. 215.
[24] In questo contesto, può osservarsi come la responsabilità degli enti per core crimes potrebbe ispirare rinnovato ottimismo nello strumento internazional-penalistico. Note sono le posizioni critiche di chi parla di una giustizia politicizzata, dipendente dai rapporti di forza tra Stati. In contrapposizione all’idea di un diritto penale portatore di valori universalmente condivisi, si agita da più parti il sospetto che tale strumento giuridico si riveli adatto piuttosto «ad imporre un’idea egemonica – e a dominanza occidentale – dell’ordine mondiale». La deviazione dell’interesse verso la responsabilità delle imprese, generalmente figlie dei paesi sviluppati, potrebbe dunque costituire un punto di rottura per la narrazione neocoloniale della giustizia penale internazionale. In tal senso anche J. Aparac, Business and Armed Non-State Groups: Challenging the Landscape of Corporate (Un)accountability in Armed Conflicts, in Business and Human Rights Journal, 2020, p. 274 ss.: «It would be timely for the ICC to investigate the socio-economic aspects, the root causes and the role of external actors to the conflict, which could help to correct the neo-colonial narrative that violence is specific to third world countries while reiterating the legitimacy of the ICC». In senso contrario v. G. Baars, Capital, corporate citizenship and legitimacy: The ideological force of ‘corporate crime’ in international law, in Baars, G. – Spicer, A. (eds.), The Corporation: A Critical, Multi-Disciplinary Handbook, Cambridge, 2017, pp. 419-433, che sostiene che la responsabilizzazione a livello internazionale delle imprese conferirebbe alle stesse legittimazione.
[25] M. Delmas-Marty, Violenza e massacri: verso un diritto penale dell’inumano?, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 2/2009, p. 753 ss.
La riforma della giustizia pone la giustizia consensuale, la mediazione, come la novità del nostro tempo. Le nuove linee e le prospettive indicate dal legislatore riguardano sia gli ambiti di applicazione sia la nuova ratio.
Nel suo complesso, apre alla soluzione delle controversie non più solo a partire dal diritto, dall’applicazione della legge, ma anche degli aspetti soggettivi e relazionali che le hanno determinate. In questo senso le riconosce, finalmente, il ruolo che le appartiene in una logica divergente rispetto al decreto n. 28/2010. Eppure cristallizza la mediazione secondo una differenziazione di cui non si riesce a giustificare Il senso. Ci sono norme e regolamentazioni diverse se si tratta di mediazione familiare o di giustizia riparativa in ambito penale o di mediazione civile/commerciale.
In particolare quest’ultima non è stata liberata da asfittiche logiche negoziali ed è stata proceduralizzata a tal punto da limitare la modalità di attuazione. A renderla più rigida e formale e meno flessibile e personalizzata. A farla assomigliare più ad una corazza piuttosto che ad un vestito su misura e seconda della taglia della persona che lo indossa. Fuori da metafora, adattata cioè all’unicità ed originalità di ogni situazione.
Intanto ha ampliato le materie soggette a condizione di procedibilità (mediazione obbligatoria), aggiungendo le controversie in tema di contratti di associazione in partecipazione, contratti di consorzio, contratti di franchising, contratti d'opera, contratti di rete, contratti di somministrazione, contratti di subfornitura, società di persone (art. 5); ha recepito gli approdi delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 19596/2020 in riferimento al funzionamento della condizione di procedibilità nel processo di opposizione a decreto ingiuntivo (art. 5 bis); ha autorizzato l'amministratore di condominio ad attivare una procedura di mediazione, aderirvi e parteciparvi, senza dover ottenere una delega/autorizzazione dall'assemblea dei condomini con sottoposizione dell’eventuale bozza di accordo o proposta di conciliazione eventualmente formulata dal mediatore all'approvazione dell'assemblea (art. 5-ter); ha innovato in tema di mediazione demandata dal giudice (art. 5-quater) e in tema di mediazione su clausola contrattuale o statutaria (art. 5-sexies).
Certamente si può ritenere che sia una legislazione ancora in progress e che presenti criticità che attendono di essere sanate.
Di fatto però, a me così piace pensare, fonda il valore riparativo della mediazione in qualsiasi ambito essa venga applicata.
Qui ci soffermeremo sulla rivoluzione culturale che avvia. Infatti, accanto alle questioni procedurali che questo Istituto comporta per i giuristi, perché abbia un senso pieno, deve essere esplorato con attenzione per il cambio di paradigma che pone. Che è nuovo e chiede di mutare la mentalità. Che, definito il disvalore del fatto oggetto della contesa secondo la legge, lo incarna nella realtà dei protagonisti.
Sento per questo necessario e urgente riflettere sul senso profondo su cui si basa. Sono convinta che lo si trovi nell’incontro tra scienze diverse che convergono nel dare punti di vista utili alla costruzione dello statuto epistemologico della mediazione. Indico come privilegiato il pensiero filosofico, quello giuridico, l’antropologia e la sapienza spirituale. Ed è interessante vedere come da presupposti diversi si trovino radici comuni e trasversali che collocano la mediazione in un orizzonte che è interessante ricercare e perseguire. Il pensiero che ne risulta concorda nel presentarla come un volano di cambiamento migliorativo della risposta al bisogno di giustizia della persona. Mi piace citare tra i tanti che sarebbe doveroso ricordare, Salvatore Natoli, filosofo non credente, che riferendosi al Vangelo di Matteo, mette in luce la crucialità della riconciliazione quando scrive che neppure Dio può perdonare se prima non vi sia stato un atto di riconciliazione tra chi ha subito un torto e chi lo ha perpetrato: “se ti ricordi … che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna ad offrire il tuo dono” (Mt 5,23).; e Pietro Bovati, gesuita biblista, che insegna come la giustizia divina non coincida con la condanna del colpevole, presentando il “non giudizio di Dio nei testi biblici”.
Senza la dovuta attenzione a questi presupposti, la mediazione potrebbe divenire per la società un servizio povero, orientato solo al “fare" e cioè alla ricerca di una chiusura del contenzioso, frettolosa e senza le garanzie processuali. Un istituto solo apparentemente innovativo ma piegato a logiche meramente deflattive, o a motivi di risparmio economico per le spese di giustizia.
In tal caso un procedimento, nato per consentire un confronto libero tra i protagonisti delle vicende conflittuali, condizione che permette quel sostanziale riavvicinamento che un procedimento formalizzato impedisce può ridursi ad una prassi di seconda categoria. Diverrebbe così una opportunità persa.
Parlare di mediazione, qualunque sia il contesto in cui si applica, a mio parere invece significa per ogni cittadino entrare nella storia del contenzioso, vedere le sue radici nel vissuto personale, lambire le responsabilità individuali rispetto alle azioni compiute e agli effetti che hanno generato, sostare nell’umanesimo e, soprattutto, elaborare una cultura del vivere colto e coltivato. Significa ancora far emergere un nuovo modo di intendere la giustizia per superare i contenziosi che la vita di tutti presenta; infatti, un diverso rapporto con il prossimo è l’incipit di ogni possibile relazione, evidenziando ciò che unisce piuttosto che ciò che divide a partire dai pensieri differenti, dalle personali credenze e valutazioni, dal proprio sistema di valori. In questo senso, quindi significa abitare ed incarnare una nuova modalità dell’essere.
L’istituto della mediazione ha origine antichissima dove la parola, che diventa dialogo, prende il posto della violenza, per la costruzione di un percorso comune, non più dettato dall’individualismo. Questo il senso del suo essere giustizia riparativa in senso lato, non solo in ambito penale. È riparativa delle violenze fisiche e morali connesse sempre ad ogni conflitto interpersonale, ad ogni sopruso, ad ogni reato. Indipendentemente dagli ambiti in cui si applica, civile, commerciale, amministrativo, penale, familiare, sociale, scolastico, ecc.
Non ci sono infatti contenziosi dove non interviene, più o meno in modo prevalente, la dimensione dei vissuti personali che ha determinato il groviglio, l’irrigidimento, la fissazione nelle proprie posizioni contrapposte all’altro: considerata non semplice controparte ma un nemico da distruggere. Per questo, sempre, la mediazione deve assumere come suo scopo precipuo la trasformazione delle relazioni che hanno generato il contrasto, mutando in ciascuno dei confliggenti la percezione del punto di vista dell’altro e chiarendo, al contempo, il proprio, precisando gli obiettivi reali e le motivazioni che spingono a trovare vie d’uscita soddisfacenti per tutti. Questo è il vincolo di ogni mediazione se si vuole mantenerne il valore. Se il mediatore sceglie, per non assumersene il peso e l’onere, di piegarla e snaturarla al livello di mero accordo, questo sarà “di carta”, durerà lo spazio di un momento e lascerà tutti insoddisfatti.
Da qui la sfida di un diritto che da “retributivo” diventa anche “riparativo” attraverso la mediazione che fa evolvere e trasforma il contenzioso in un’occasione di riappacificazione e di crescita personale.
La mediazione, intesa secondo il modello umanistico-filosofico, pone davanti ad una grande svolta che, perché davvero diventi efficace, ha bisogno di essere sostenuta e difesa; in particolare prevedendo anche la riformulazione della formazione dei mediatori. E’ necessario infatti che abbiano, oltre che la padronanza della metodologia operativa, soprattutto una formazione di base sul significato umano del conflitto, sul mistero degli eventi della vita, sull’empatia. Queste competenze consentono di riuscire a trasformare i limiti oggettivi della lite in occasioni di crescita e di maturazione. Questo percorso di formazione rende i mediatori capaci di guidare le parti verso la soluzione non solo degli aspetti esteriori, oggettivi, cioè dei motivi per cui si litiga, ma dei motivi soggettivi che sono le vere radici del conflitto.
In questo senso è una rivoluzione culturale coraggiosa. Rischiosa. Giovane e vantaggiosa.
Porta verso una giustizia differente da quella che conosciamo e dispensiamo ma è in linea con il bisogno profondo di giustizia del cittadino: bisogno unanime seppure non uniforme.
Cosa vorrebbe la persona quando in un contenzioso personale si ritiene di vittima di una ingiustizia?
E quando è autore di ingiustizia? Sarebbe opportuno che si rispondesse schiettamente a queste domande.
Ci fermiamo per ora alla prima ipotesi, la più facile. Quando si ritiene di subire un torto quale giustizia si invoca? Quella dei Tribunali? Sembra di no, infatti la società civile spesso così risponde: “in queste evenienze ho bisogno di parlare del conflitto che mi oppone e mi opprime; di capire meglio ciò che mi risulta un inaccettabile sopruso; di un ascolto empatico che mi faccia sentire accolto e sostenuto; ho un legittimo desiderio di trovare qualcuno che mi dia ragione”.
Il tribunale non è il luogo dell’ascolto. Non è in tribunale che la persona che ha subito un trauma può essere aiutata a elaborarlo; non è neppure il luogo dove il colpevole di un reato può vedere quali sono gli effetti sulla vittima di ciò che ha fatto.
Il dono che invece può dare la giustizia consensuale è di guarire le ferite e instaurare il dialogo, di dare alle parti in lite la possibilità di esternare il loro dolore e, dall’altra parte, far sentire responsabili quelli che la giustizia ordinaria si limita a giudicare soccombenti o vincitori. In una parola, una giustizia dove al centro dell’interesse ci siano le persone, con la loro storia e le loro emozioni. Dove le procedure non sono rigide e standardizzate.
In questa accezione la riforma attuale è coraggiosa.
Infatti ciò che non si esprime si imprime e primo o poi esplode senza regole né limiti. Palare del conflitto, che sta dietro e dentro il contenzioso, quindi è già, in qualche modo, curativo e catartico: la via per risolverlo, per trovare la forza di immaginare soluzioni creative, riparative, generative.
Radicali le differenze con le vie giudiziarie. Diverso è il valore attribuito al dissidio. Il danno conseguente non viene visto solo come oggettivo ma prevalentemente come soggettivo.
Non dipende dal tipo di conflitto, così come da fattispecie giuridica, ma dal significato che ha per chi lo vive. Una rapina può essere un evento di poco conto o può cambiare la vita di una persona.
Inoltre il giudizio è rigido, gli accordi di mediazione invece sono plurali flessibili e creativi.
Questo è possibile se l’accompagnamento è di alto profilo professionale, se quindi il mediatore sa curare il percorso che porta all’incontro e al dialogo, cioè oltre il monologo “tra sordi” che caratterizza normalmente il parlare di chi litiga. Se il mediatore sa condurre, senza maschere, ipocrisie e infingimenti alla ricerca delle radici profonde che hanno determinato l’evento.
Per questo deve essere lui stesso persona capace di non giudicare, di non consigliare, di mettersi in gioco senza ruoli né toghe, ma in autenticità e verità, con creatività e stupore verso l’originalità e la diversità del singolo essere umano, degna sempre del massimo rispetto.
Sono queste solo alcune caratteristiche di struttura personale dell’essere mediatore, che devono essere allenate nel percorso di formazione, a cui si aggiungono le successive specializzazioni nell’ambito in cui si opera e le procedure metodologiche.
Certamente non si può pensare di lanciare una forma della giustizia, così radicale come questa, senza considerare che le vicende umane sono sempre complesse. Né si può sostituire, o meglio affiancare, il paradigma giudiziario che conta su figure lungamente preparate, con nuovi professionisti senza che questi abbiano, in altro modo, la stessa sostanza formativa.
Occorre contare su professionisti che devono saper considerare il fatto oggettivo che contrappone i confliggenti come l’espressione finale di un groviglio che sta tutto nella sfera intima, personale, affettiva e relazionale e dargli centralità: infatti tutto ciò che nel processo non si manifesta, potremmo dire non ha diritto di esserci, nella mediazione diventa il centro dell’attenzione.
Questa nuova logica è ancora, e forse lo sarà sempre, un orizzonte di senso mai pienamente compiuto ma a cui avvicinarci nel modo corretto e completo.
Tante le raccomandazioni che sento la responsabilità di segnalare oggi che una nuova partenza richiede la migliore attenzione da parte di tutti: cittadini, accademia, operatori della giustizia.
Vale la pena ribadire che se si è consapevoli che la nuova mediazione è altro da quella che si è avviata in questi anni passati, urge attivare uno studio, non solo statistico ma anche e soprattutto qualitativo e sistemico, per cogliere le criticità che la precedente ha comportato e ad approntare i giusti interventi. Così evitiamo che le attuali prassi si fissino e permangano anche in presenza di un fare di altra natura richiesto dalla Riforma della Giustizia.
L’aver fatto esperienza concreta, come mediatore e come formatore, con modalità riflessiva, da tempo mi ha consentito di superare il diffuso stile enfatico buonista, perdonista, o tantomeno ieratico e consolatorio che troppo spesso viene espresso da chi considera solo la portata ideale di questa nuova linea culturale.
Per questo ritengo che la visione di mediazione ora introdotta richieda un intervento su vari piani, difficile e complesso, in questo senso è rischiosa perché ancora non se ne intravvedono le giuste condizioni, in particolare mi riferisco al debole dibattito sulla formazione della nuova figura professionale.
Ho visto le parti in seduta di mediazione avere comportamenti manipolatori ed in malafede che mi hanno confermato che l’animo umano è fatto anche di egoismi, arrivismi, sopraffazioni, menzogne. Mai ho registrato forme di ravvedimento iniziali, nessuna delle parti ha mostrato di aver avuto l’illuminazione sulla via di Damasco iniziando il percorso di mediazione, di aver dismesso l’atteggiamento, in coscienza o pretestuosamente, conflittuale.
Questo ravvedimento può essere solo frutto di un percorso. Quale avviare? Quello, secondo me, della mediazione profonda. Io lo intravvedo nel modello umanistico-filosofico che ho sperimentato.
In questa modalità, il mediatore non è una figura ingenua con una visione angelicata del mondo e delle relazioni conflittuali, anzi deve ben contemplare che l’essere umano ha zone d’ombra e di luce. Deve sopportare, nel senso di saper tollerare, questo dato di realtà e sostenere le parti a fare lo stesso: a lui spetta il compito di saper valorizzare le zone di luce, cioè le tensioni al benessere, e valorizzarle; così lasciando ai margini quelle di ombra.
Qui sta la nobiltà e la capacità del mediatore che, come un buon chirurgo, non opera un paziente sano ma la sua bravura si vede sapendo intervenire sul paziente malato. Nel nostro caso sui confliggenti, entrambi, pur se in modo diverso, vittime di relazioni compromesse.
Ora noi ci troviamo nel mezzo di un paradosso. Da un lato abbiamo un popolo di mediatori benemeriti che sulla base di buoni propositi e del fascino dell’idealità, pur con scarsi riscontri economici, si sono lanciati in questa sfida. Sono anche temerari perché come dei vigili del fuoco si buttano nel fuoco del conflitto senza spesso avere le tute ignifughe, cioè la giusta preparazione.
Dall’altro abbiamo una legge che dà ampia diffusione a questo istituto, ma non si dedica abbastanza, a mio parere, a creare le condizioni per dare effettività a questa nuova risposta al bisogno di giustizia e almeno le stesse garanzie del processo, pur differenti nella loro natura.
Questa riforma indica una svolta affascinante e improrogabile. Infatti che la persona sia un mistero è vero: non è né facile né possibile conoscerla, relazionarvisi, farla evolvere, aiutarla a rinascere a se stessa. Ma questo non ci autorizza a ridurla solo alle sue azioni, e utilizzare soltanto un diritto che mette al centro i fatti.
Pur col rispetto dovuto al limite umano di non poter infrangere il mistero dell’uomo, deve restare ferma la convinzione che al centro del nuovo modo di rendere giustizia deve essere la persona, che nel vivere reale possa accadere di fare sbagli ma questi non autorizzano nessuno a considerarli definitivi.
Chi ha compiuto un fallo non può essere condannato al fallimento, così come chi è responsabile di un illecito mantiene la sua dignità di persona pur se la sua azione deve con chiarezza e certezza essere definita nel suo disvalore. La persona attende sempre, dopo essere stata vittima delle sue zone d’ombra, di essere aiutata a riscoprire e vitalizzare quelle di luce. Un percorso serio e profondo come la giustizia consensuale e fiduciaria lo può assicurare.
Lo pensiamo tutti davvero? Sarebbe bene scandagliare i pensieri reconditi che abbiamo a riguardo: se pensiamo che nessun cambiamento potrà esserci, allora abbandoniamo perfino l’idea del valore rieducativo della pena, valore spesso disatteso nelle prassi e pura dichiarazione di intenti.
Se siamo fermamente convinti dell’antropologia che si fonda sulla fiducia nell’essere umano e nella possibilità sempre e comunque di un cambiamento, allora possiamo intraprendere la via della mediazione, perfino con una visione unitaria delle prassi nei vari tipi di contenzioso, senza perfino graduatorie di peso e valore.
Tutti i professionisti titolati potrebbero quindi, potenzialmente ed in linea di principio, condurre sia mediazioni penali che civili, familiari, sociali, scolastiche.
In questa logica la giustizia consensuale non è altra giustizia dalla riparativa: sono differenti solo apparentemente, nominalmente.
(Immagine: Il Giudizio di Salomone, olio su tela, secolo XVII, Galleria Borghese, Roma)
Riportiamo il breve ma intenso intervento di Antonello Cosentino durante l’adunanza plenaria del CSM che il 7 febbraio scorso ha deliberato di intitolare la propria sede all’ex-vicepresidente, ucciso il 12 febbraio 1980 da un commando brigatista. Oggi, alla presenza di Mattarella, la cerimonia.
Ho assistito all’omicidio di Vittorio Bachelet.
Nel 1980 ero iscritto a Giurisprudenza nell’Università di Roma, la Sapienza. Quella mattina mi stavo recando in facoltà.
Chi conosce la Sapienza sa che l’edificio della facoltà di Giurisprudenza è contiguo a quello della facoltà di Scienze politiche e Bachelet fu ucciso sulle scale di Scienze politiche.
Io stavo entrando a Giurisprudenza e vidi confusione davanti a Scienze politiche, vidi Rosy Bindi uscire piangente… tanta polizia… venne bloccato tutto in un attimo; a quel punto mi allontano.
Qui in Plenum siamo una comunità di persone che hanno storia, estrazioni, esperienze professionali diverse; ma siamo una comunità, prima di tutto, di uomini. Per questo sento il desiderio di condividere con voi questa emozione, che è un’emozione forte.
Intanto, soggettivamente, per il pensare che oggi sono in quest’aula, che a Bachelet è intitolata. Ma soprattutto perché credo che questa emozione serva a richiamare tutti noi al valore della storia.
Vedete, io per ragioni culturali non sono molto propenso a cambiare i nomi alle strade, alle piazze, ai monumenti. Penso che quello che resta scolpito nel marmo tendenzialmente sia bene che permanga anche, se vogliamo, come monito o elemento di riflessione; non mi piace quando si cambia ogni trent’anni il nome di una strada o di una città.
Però il cambiamento del nome della sede del C.S.M. è un cambiamento che mi pare che la Repubblica aspettasse da troppi anni; e credo che, veramente, questo palazzo non possa avere nome migliore che quello di Vittorio Bachelet.
Sommario: 1. Introduzione. 2. L’indipendenza esterna dell’Istituto: la nomina del Presidente della Corte dei conti e i consiglieri di nomina governativa. 3. L’indipendenza interna dei magistrati. 4. Il Consiglio di Presidenza della Corte dei conti tra organo di autogoverno e organo di amministrazione della magistratura contabile. 4.1. Status dei componenti togati. 4.2. Organizzazione interna. 4.3. Autogoverno tra cambiamento e restaurazione. 5. L’assegnazione ai posti di funzione. 6. L’assegnazione degli affari giudiziari. 7. Gli incarichi extraistituzionali. 8. Il regime disciplinare.
1. Introduzione
Già agli albori del secolo scorso, F. Cammeo così scriveva: “Evidentemente l’indipendenza del giudice amministrativo è completa quando ad esso sia concessa una posizione che per metodo di nomina e stabilità nell’ufficio sia eguale a quella dei giudici ordinari “e alle sue considerazioni si associavano illustri studiosi del tempo (Calamandrei, Salandra, Scialoja e D’Amelio).
“Là dove non è garantita l’indipendenza del giusdicente, non c’è giudice di sorta, né ordinario, né speciale, né sezione specializzata di organo giudiziario ordinario “, scriveva, inoltre, Andrioli pochi anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione e proprio in relazione alla problematica dell’indipendenza dei giudici speciali.
In merito all’assetto della magistratura, quale risulta dalla Carta costituzionale, è stato detto da autorevole dottrina che la distinzione tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa (nella quale si ricomprende quella contabile) non deve in alcun modo riflettersi sulle garanzie di indipendenza, che devono essere eguali e che la Costituzione italiana riconosce e prevede una serie di giurisdizioni distinte tra loro per struttura, poteri e competenze, ma ammette un solo tipo di magistrato.
Siamo, cioè, di fronte ad un concetto univoco di “magistrato”, affermato con coerenza e sicurezza sul piano costituzionale. Sicchè - si è aggiunto - l’esistenza di una pluralità di giudici diversamente regolati quanto a status, garanzie esterne ed interne di indipendenza e posizione nell’ordinamento si pone in netto contrasto con la Costituzione.
L’indipendenza dei giudici, di tutti i giudici, non è un fine ma un mezzo posto a garanzia di un bene: la retta applicazione della legge, bene insostituibile per l’intera comunità statale. Anche il solo sospetto della mancanza di indipendenza è in grado di far venire meno la fiducia del cittadino negli organi giudiziari inducendogli il sospetto che la legge potrebbe non venire rettamente applicata da quel giudice.
Indipendenza della magistratura vuol dire, invero, tutela del libero convincimento, libertà di indagine, serenità di giudizio. In una parola, libertà di coscienza, nella quale risiede, come affermava Calamandrei, la più alta ed indiscutibile garanzia dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge; e, sotto il profilo che ci interessa, non sono indifferenti i meccanismi predisposti in via legislativa per attuarlo.
Come rilevato da attenta dottrina,[1]scarsa eco, tuttavia, ha avuto il tema della indipendenza del magistrato contabile, che si interseca con quello della indipendenza della magistratura contabile unitariamente considerata nell’esercizio delle funzioni di controllo e della giurisdizione.
Ed invero, l’indipendenza affermata dall’art. 100/3 Cost., a differenza di quella espressamente prevista dall’art. 108 Cost. che opera nei confronti dei giudici speciali, nella cui categoria rientra in posizione di primo piano il giudice contabile, fa riferimento non solo all’Istituto, ma anche ai suoi “componenti”, nell’ambito della funzione di controllo. Nella sua versione finale, il compito di “assicurare” l’indipendenza dell’Istituto e dei suoi componenti di fronte al Governo è rimesso al legislatore.
Completa il quadro rappresentato, per la Corte dei conti, dagli artt. 100/3 e 108 Cost., l’art. 101 Cost., che riguarda la funzione giurisdizionale in sé considerata con la espressa previsione della garanzia della soggezione “soltanto” alla legge di tutti i giudici.
Eppure, nonostante l’autorevole monito del giudice delle leggi,[2]l’indipendenza, in primo luogo, di tipo “istituzionale”, che riguarda il profilo “esterno” della relazione della Corte dei conti con il Governo, e “interna”, che attiene propriamente all’esercizio delle funzioni di controllo e giurisdizionali, non ha trovato completa attuazione sul piano legislativo, caratterizzato dai soliti interventi disorganici e frammentarii.
Della indipendenza “esterna” e della indipendenza “interna” si tratterà separatamente senza dimenticare, però, che l’indipendenza di tipo “istituzionale” non è sufficiente, da sola, ad assicurare l’indipendenza “funzionale”,[3]che richiede, in particolare, per essere attuata, un autentico sistema di autogoverno e la definizione, per via legislativa, dello status del magistrato contabile.
2. L’indipendenza esterna dell’Istituto: la nomina del Presidente della Corte dei conti e i consiglieri di nomina governativa
Come è noto, l’articolo 1 della legge 202/2000 – che sostituisce l’art. 7 comma 2 R.d. 12 luglio 1934, n. 1214 - stabilisce che il Presidente della Corte dei conti è nominato, con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, sentito il parere del Consiglio di Presidenza.
Orbene, per come è formulata, la norma contrasta, in primo luogo, con il principio di indipendenza della funzione giurisdizionale (art. 101 cost.).
Il potere di proposta del Presidente del Consiglio dei ministri, inoltre, mina alla radice l’indipendenza della Corte dei conti nei confronti del Governo ai sensi dell’art. 100/3 Cost.
L’ordinamento interno della giurisdizione contabile soffre, infatti, ancora vistose eccezioni al principio di indipendenza, affermato per le magistrature amministrative e in modo specifico nei confronti del Governo (art. 100/3), nel suo significato di completa sottrazione al potere esecutivo della nomina degli organi di vertice dell’Istituto.
La resistenza al cambiamento può trovare spiegazione soltanto con l’idea che la “contiguità” funzionale della magistratura contabile all’azione del potere esecutivo implichi necessariamente una qualche forma di legame organico con il medesimo, ma si tratta di atteggiamento che non ha più possibilità di avere diritto di cittadinanza alla luce del nuovo quadro istituzionale.
Garantire l’indipendenza dell’Istituto costituisce, dunque, una operazione “costituzionalmente necessitata “in forza dell’art. 100/3 cost.
Né a confutare quanto sin qui osservato può valere l’argomento che fa leva sul parere del Consiglio di Presidenza, che deve essere sentito, per la semplice ragione che tale parere, pur obbligatorio, non è non vincolante per il Governo, il quale potrebbe, dunque, non dar corso ad una nomina ritenuta sgradita[4].
Il semplice pericolo che ciò possa avvenire in forza della norma di cui all’art. 1 della legge 202/2000 rende lecito dubitare della legittimità costituzionale della stessa.
Il fatto, poi, che il Presidente della Corte dei conti sia anche il “vertice” dell’organo di autogoverno potrebbe riflettersi come ulteriore elemento di influenza, sia pure indiretta, del potere esecutivo sulla piena autonomia dell’ordine[5].
La nomina governativa si pone, quindi, come una anomalia da correggere e da eliminare, valorizzando il ruolo decisionale esclusivo del Consiglio di Presidenza.
Il Governo dispone di una aliquota di consiglieri da nominare ai sensi dell ‘art.7 del R.D. 12 luglio 1934, n. 1214, tuttora vigente, e del d.p.r. n. 385/1977.
Sono ampiamente noti gli orientamenti e le conclusioni della Corte costituzionale[6] sulla questione delle nomine governative dei consiglieri di Stato e della Corte dei conti, che mirano a spostare il problema dell’indipendenza dal momento della formazione dell’organo giudicante a quello delle garanzie successive (essenzialmente l’inamovibilità), quasi che l’indipendenza esista a prescindere dai meccanismi concreti di realizzazione.
In sintesi, secondo la Corte costituzionale non è compromessa l’indipendenza se essa viene garantita nel momento successivo alla investitura dell’ufficio.
Bisogna qui mettere in rilievo, peraltro, che le norme costituzionali sulla giurisdizione non costituiscono un mero “programma” da attuarsi a cura del legislatore, con ampia discrezionalità, ma si presentano alla stregua di un corpo coerente di principi e criteri immediatamente validi ed applicabili e, tra questi, il principio di indipendenza non consente che i giudici possano essere “scelti“ dal potere esecutivo, giacché in tal guisa si spezzerebbe quel rapporto esclusivo che il legislatore costituente ha voluto istituire tra il giudice e la legge, il quale non ammette in alcun modo la interferenza di altri poteri dello Stato, tra cui quello esecutivo.
Ed invero, di recente, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 136 del 15 aprile 2011, ha salvato dalla dichiarazione di incostituzionalità l’art. 2, commi 1 e 2, della legge 14 marzo 2005, n. 41, i quali attribuiscono espressamente al Ministro della giustizia il potere di nomina del membro nazionale presso l’Eurojust, che deve essere un magistrato, soltanto perchè le funzioni del membro nazionale presso l’Eurojust non sono riconducibili a quelle giudiziarie (v. punto 5 dei Considerato in diritto) e non perché deve essere comunque scelto nell’ambito di una rosa di candidati formata dal Csm.
3. L’indipendenza interna dei magistrati
Si è detto efficacemente in dottrina[7][8] che l’indipendenza interna si realizza attraverso lo status del magistrato. È, quindi, la disciplina dei diritti e dei doveri il test di verifica della indipendenza.
E allora, se si confronta lo status del magistrato contabile con quello del magistrato ordinario si può constatare il peso preponderante della produzione consiliare, rappresentata dalla attività deliberativa avente natura amministrativa per quanto riguarda il primo ed il ruolo residuale riservato alla legge, a differenza del secondo pure in presenza della attività paranormativa del CSM.
Senza ombra di smentita si può dire, infatti, che l’unico testo normativo di riferimento per i magistrati contabili è rappresentato dal testo unico degli impiegati civili dello Stato (D.p.r. 10 gennaio 1957, n. 3) e, per quanto riguarda il settore disciplinare, dalla legge sulle guarentigie (R.D.L. 31 maggio 1946, n. 511).
Lo status del magistrato contabile è, quindi, disciplinato in massima parte dalle deliberazioni del Consiglio di Presidenza, in violazione della riserva di legge di cui all’art. 108 Cost.
4. Il Consiglio di Presidenza tra organo di autogoverno e organo di amministrazione della magistratura contabile.
Il Consiglio di Presidenza della Corte dei conti è stato riformato dalla legge 13 aprile 1988, n.117, recante disposizioni in materia di “risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati “.
Il Consiglio di Presidenza della Corte dei conti, previsto dall’art. 38 del regolamento dell’Istituto, deliberato dalle Sezioni Riunite il 2 luglio 1913, risultava composto: dal Presidente della Corte, cui era attribuita la presidenza dell’organo; dal Procuratore generale; da tutti i presidenti di sezione, esclusi quelli fuori ruolo; dal segretario generale, con funzioni di segretario.
La legge 20 dicembre 1961, n. 1345 aveva lasciato sostanzialmente immutata la configurazione di tale organo quale organo di vertice della Corte dei conti, limitandosi ad introdurre un’articolazione interna in sezioni.
Di queste, la prima - composta dal Presidente della Corte, chiamato a presiederla, dal Procuratore generale, dai primi nove presidenti di sezione per ordine di ruolo e dal segretario-, esprimeva il giudizio di promovibilità per le promozioni oltre la qualifica di primo referendario. La seconda - composta, oltre che dai predetti magistrati, anche dai primi due consiglieri rispettivamente della sezione di controllo e delle sezioni giurisdizionali, per ordine di ruolo, dal primo vice procuratore generale, anche qui per ordine di ruolo, dal segretario generale e dal primo referendario del segretario generale, secondo l’ordine di ruolo, con funzioni di segretario - era chiamata ad esprimere i pareri di promovibilità alla qualifica di primo referendario.
Ciò rendeva i magistrati della Corte sostanzialmente privi di garanzie d’indipendenza sia interna che esterna.
La stessa Corte costituzionale, d’altronde, con la sentenza 17 giugno 1987, n. 230, aveva riconosciuto che attraverso l’organo in esame non fosse “sotto alcun aspetto garantita l’indipendenza dei magistrati della Corte dei conti “, attribuendo peraltro a tale affermazione il valore di mera denuncia, poiché si limitava a dichiarare l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale sollevata innanzi ad essa.
Contestualmente, invece, il giudice amministrativo si spingeva più in là, ove non aveva osato spingersi il giudice delle leggi. Il TAR Lazio, infatti, con la sentenza n. 1148 del 10 giugno 1987 dichiarava l’illegittimità dell’art. 38 del regolamento del 1913 della Corte, nel rilievo della manifesta inadeguatezza del Consiglio di Presidenza, nella composizione dell’epoca (limitata alle sole qualifiche di vertice), alla tutela dell’indipendenza interna dei magistrati della Corte dei conti.
Senonché, tale sentenza anziché sortire l’effetto sperato di una rafforzata tutela dell’indipendenza della magistratura contabile, considerata come corpo professionale di magistrati, produsse il risultato opposto: e cioè, una deminutio sul piano delle garanzie di indipendenza, in quanto proprio in esecuzione della sentenza del TAR Lazio, il Presidente della Corte dei conti aveva iniziato ad assumere i provvedimenti relativi ai magistrati prescindendo dal parere del Consiglio. E soltanto la sospensione della esecuzione della menzionata sentenza da parte del Consiglio di Stato evitò che il governo del personale di magistratura piombasse in una situazione di incostituzionalità ancora più grave della precedente.
Evidentemente, però, la situazione di emergenza determinatasi obiettivamente a sèguito della sentenza del TAR Lazio richiedeva un intervento urgente sul piano legislativo.
Della urgenza di legiferare in materia erano del resto ben consapevoli i parlamentari che si resero promotori, all’inizio della X legislatura, di diversi progetti e disegni di legge (A.C. nn. 678, 679, 680 e 735; A.S. nn. 563 e 564).
La riforma del Consiglio di Presidenza della Corte dei conti venne, dunque, approvata sotto la pressione degli avvenimenti. Ciò è messo bene in evidenza dal primo periodo del primo comma dell’art. 10 della legge n. 117/88 (“1.Fino all’entrata in vigore della legge di riforma della Corte dei conti“).
Questo organo, nella sua composizione originaria, prevedeva 17 componenti, di cui : 3 componenti di diritto (Presidente della Corte dei conti, Procuratore Generale e Presidente di sezione più anziano secondo l’ordine di ruolo); 4 componenti laici, scelti, all’epoca, d’intesa dai Presidenti delle due Camere e 10 componenti togati eletti dai magistrati della Corte dei conti, ripartiti tra le qualifiche di Presidente di sezione, consigliere o vice procuratore generale, primo referendario e referendario in proporzione alla rispettiva effettiva consistenza numerica del ruolo.
L’attuale composizione del Consiglio di Presidenza è frutto della riforma “Brunetta” (Art. 11, L. 4 marzo 2009, n. 15).
In disparte quanto si dirà a proposito degli incarichi extraistituzionali (infra n. 7), una assoluta novità, ma si potrebbe dire che sia “frutto di scarsa meditazione”[9] , è quella che legittima a partecipare al Consiglio di Presidenza – senza, però, diritto di voto - il “capo di gabinetto” del Presidente della Corte dei conti.
È stata, invece, confermata la c.d. componente di diritto[10] e la c.d. componente laica[11], mentre quella togata ha subìto un netto ridimensionamento, passando da 10 a soli 4 membri, e senza più le riserve di qualifica previste dalla precedente normativa.
A proposito della nuova composizione numerica, si è rilevato in dottrina[12] il peso maggiore della gerarchia”, in quanto di 7 membri togati ben 3 – più del 40%- sono membri di diritto e, inoltre, il rapporto fra le due componenti elettive (togata e laica) è di assoluta parità (4 contro 4), mentre nel Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa è, invece, di due e mezzo a uno.
Il regime giuridico di tale organo va ricostruito, quindi, sulla base del rinvio, contenuto nell’art. 10, ultimo comma, della legge n.117/88, alle norme della legge 27 aprile 1982, n. 186 concernenti il Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa (artt. 7, primo, quarto, quinto e settimo comma; 8; 9, quarto e quinto comma; 10; 11; 12; 13, primo comma, numeri 1), 2), 3), e secondo comma, numeri 1), 2), 3), 4), 8), 9)) e, per ultimo, dell’art. 11, commi 7-8.
Il rinvio, sia pure parziale, alla normativa riguardante le attribuzioni del Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa tradisce l’intenzione del legislatore della riforma di fare del Consiglio di Presidenza della Corte dei conti un organo di autogoverno sostanzialmente omologo al primo. Hanno pesato sul convincimento del legislatore, molto probabilmente, le ragioni della tradizionale appartenenza della magistratura contabile al comune genus della magistratura amministrativa. Ma ciò non basta e non è sufficiente a spiegare perchè nel momento in cui si poneva mano, in sede legislativa, ad una profonda riforma della composizione del Consiglio di Presidenza della Corte dei conti, caratterizzato dalla introduzione della c.d. componente laica, il modello a cui riferirsi non fosse il Consiglio superiore della magistratura, anche in considerazione delle ragioni che stavano alla base della riforma.
Una battuta d’arresto sulla strada della attuazione di un autogoverno che sia presidio delle garanzie di indipendenza della magistratura è stata segnata dalla riforma “ Brunetta”, in quanto il comma 7 dell’art. 11 della L. n.15/2009 definisce il Presidente della Corte dei conti quale “organo di governo” dell’Istituto, che “esercita ogni altra funzione non espressamente attribuita da norme di legge ad altri organi collegiali o monocratici della Corte” mentre il comma 8 definisce il Consiglio di Presidenza quale “organo di amministrazione del personale di magistratura”[13], attribuendogli competenze limitate a quelle espressamente attribuite da norme di legge, una sorta di interpositio legislatoris!
Ne esce quindi stravolta la governance della magistratura contabile, che sino al 2009 si imperniava sul Consiglio di Presidenza, per effetto del rafforzamento della figura del Presidente della Corte dei conti e a discapito dell’organo di autogoverno, con i conseguenti dubbi in ordine alla costituzionalità del sistema introdotto sotto il profilo della violazione dell’art. 104 Cost. e degli altri parametri rappresentati dagli artt. 100/3 e 108 Cost.
La esperienza oramai trentacinquennale del Consiglio di Presidenza, insediatosi il 27 luglio 1988, peraltro, induce a ritenere che siano ormai maturi i tempi per un ritorno non al passato, ma per una riforma legislativa che, in primo luogo, riconduca entro il recinto della Costituzione il rapporto tra Presidente e Consiglio di Presidenza della Corte dei conti, operando un rinvio alle attribuzioni del Consiglio superiore della magistratura. per definire le competenze di un organo autenticamente di autogoverno.
Questa è, del resto, la strada che è stata seguita dal legislatore ordinario con riferimento al Consiglio della magistratura militare: l’art. 1, comma 3, della legge 30 dicembre 1988, n. 561, istitutiva del predetto organo, stabilisce, infatti, che “ il Consiglio ha per i magistrati militari le stesse attribuzioni previste per il Consiglio superiore della magistratura “ e l’art. 7 del regolamento di attuazione della legge n. 561/88, emanato con d.p.r. 24 marzo 1989, n. 158, dispone che “ per tutto ciò che non è diversamente regolato dal presente decreto, si osservano, in quanto applicabili, le norme previste per il Consiglio superiore della magistratura “.
Nell’ambito delle magistrature speciali - e la giurisdizione militare, si badi bene, è contemplata nella stessa disposizione costituzionale (art. 103) che si occupa della giurisdizione contabile - si è dunque infranto un tabù, in quanto il legislatore ha già valutato favorevolmente la compatibilità del modello di autogoverno realizzato dal Consiglio superiore della magistratura con le esigenze di autogoverno del personale di magistratura appartenente ad una delle magistrature speciali previste dalla Costituzione.
Con ciò non si vuole dire che il CSM rappresenti il punto di riferimento per eccellenza nel campo degli organi di autogoverno, ma che esso è allo stato attuale dell’esperienza degli organi di autogoverno delle varie magistrature il modello che meglio di ogni altro - vuoi per l’esperienza ultracinquantennale vuoi per meriti conquistati sul campo - ha dato ampia dimostrazione di tutelare efficacemente il prestigio e l’indipendenza della magistratura, sapendola difendere dalle insidie delle facili lusinghe del potere politico.
Il rinvio alla normativa applicabile al Consiglio superiore della magistratura, nei limiti della compatibilità con l’ordinamento della magistratura contabile, avrebbe, inoltre, nell’immediato, il vantaggio di colmare il vuoto legislativo in materia di disciplina dello status del magistrato contabile, rimessa oggi quasi esclusivamente all’autoregolamentazione del Consiglio di Presidenza, al quale è lasciata una libertà di azione caratterizzata da eccessiva discrezionalità, con risultati non sempre soddisfacenti.
4.1. Status dei componenti togati.
A differenza dei componenti togati del Consiglio superiore della magistratura, ed analogamente ai membri del Consiglio di Presidenza della giustizia amministrativa, i componenti togati del Consiglio di Presidenza della Corte dei conti non sono collocati fuori ruolo, continuando ad esercitare contemporaneamente le rispettive funzioni d’istituto, nell’area del controllo o della giurisdizione.
Non si rinviene, infatti, nella legge 13 aprile 1988, n. 117 alcuna disposizione normativa che consenta il fuori ruolo, siccome previsto per i membri togati del CSM (v. art. 30 d.p.r. 16 settembre 1958 n. 916, nel testo modificato dall’art. 8 legge 3 gennaio 1981 n. 1 e dall’art. 14 legge 12 aprile 1990 n. 74).
La soluzione adottata della permanenza in attività di servizio dei componenti togati, nelle funzioni magistratuali rivestite al momento delle elezioni, si presta a più di una critica.
In primo luogo, è inevitabile che le sollecitazioni e le pressioni sui componenti togati provenienti dall’ambiente di lavoro in cui essi sono inseriti influenzino le loro posizioni in seno al Consiglio di Presidenza. Il pericolo di un condizionamento, anche ab interno, della attività dell’organo di autogoverno è, inoltre, possibile nel caso eventuale dell’appartenenza al medesimo ufficio di due o più componenti togati.
In secondo luogo, la possibilità per i componenti togati di concorrere alle procedure concorsuali a domanda indette per il conferimento di incarichi o per la copertura di posti di funzione, specialmente se direttivi (presidente dii sezione giurisdizionale e procuratore regionale) o semi-direttivi (consigliere delegato o capo dii delegazione), e di conseguire, in ipotesi, la designazione o la nomina agli stessi può suscitare il sospetto di favoritismi praticati dal Consiglio nei confronti dei propri membri, gettando un’ombra di discredito sulle delibere adottate dall’organo di autogoverno.
In terzo luogo, l’esercizio contemporaneo dei compiti d’istituto danneggia i componenti residenti fuori Roma in misura maggiore dei componenti che prestano servizio in uno degli innumerevoli uffici centrali della Corte dei conti, con sede a Roma, in quanto non consente loro di seguire con profitto i lavori del Consiglio di Presidenza, i quali non si riducono alla semplice presenza fisica alle adunanze e alle sedute delle Commissioni, ricomprendendo in misura altrettanto rilevante tutta l’attività preliminare alle riunioni dell’organismo collegiale (studio, approfondimento ed esame della documentazione e delle questioni poste all’ordine del giorno).
I problemi si sono aggravati con la riduzione del numero (da 10 a 4) dei componenti togali giacchè per far fronte ai lavori delle commissioni consiliari la regola è far parte di più di una commissione.
4.2. Organizzazione interna del Consiglio di Presidenza.
Il Consiglio di Presidenza, insediatosi il 27 luglio 1988, ha provveduto ad approvare, sin da subito, il proprio regolamento interno per il funzionamento, che, nella versione attuale, risulta dalla deliberazione n. 52/CP/2019 del 14 febbraio 2019 (e s.m.i.)
Le principali norme riguardano l’ordinamento (artt. 1-10) ed il funzionamento (artt. 11-32) dell’organo.
Le commissioni permanenti sono previste nel numero di cinque e si distinguono in base alla competenza per materia (v. artt. 25-30).[14][15]
Una norma, in particolare, che desta perplessità è quella che fissa il termine di appena quattro giorni prima di ogni seduta del Consiglio di Presidenza, per la distribuzione a tutti i componenti dei “documenti necessari per la trattazione degli argomenti“ (art. 14, comma 5).
Un’ultima considerazione merita il regime di pubblicità delle sedute.
L’art. 20 afferma, in apertura, che le sedute del Consiglio sono pubbliche, introducendo al comma 3 una serie di eccezioni che vanificano la portata della affermazione di principio.
Esse sono le seguenti:
Inoltre, ai sensi del comma 4, si procede in seduta non pubblica su richiesta del Presidente della Corte dei conti (o di chi ne fa le veci), del Procuratore generale o di almeno tre componenti, ma solo “per specificati motivi di riservatezza”.
Ciò fa si che frequentemente numerosi argomenti inseriti all’ordine del giorno delle adunanze del Consiglio di Presidenza siano riservati alla “seduta non pubblica” anche quando non se ne vede la ragione.
La pubblicità delle sedute è esclusa, quindi, in un gran numero di casi che non trovano corrispondenza in quanto previsto per le sedute del CSM dall’art. 27 del Regolamento interno in vigore. La pubblicità, infatti, è esclusa “Quando ricorrono motivi di sicurezza, ovvero quando sulle esigenze di pubblicità prevalgono ragioni di salvaguardia del segreto della indagine penale o di tutela della riservatezza della vita privata del magistrato o di terzi, in particolare nel caso di trattamento di dati sensibili, l’esclusione della pubblicità è adottata in assenza di pubblico […]”.
La maggioranza richiesta per l’approvazione della delibera che esclude la pubblicità, poi, è di due terzi dei voti validamente espressi.
Se anche in questa consiliatura il trend dovesse trovare conferma c’è da aspettarsi che la maggior parte degli argomenti saranno trattati in “seduta non pubblica” e ai più non resterà che affidarsi alle voci di corridoio per conoscere le posizioni emerse nella discussione svoltasi in plenum.
A questo deficit di pubblicità, come è ovvio, non si può rimediare con la consultazione dei verbali, che recheranno degli omissis nella parte “secretata”, in quanto il comma 3 dell’art. 21 riporta: “ Delle sedute non pubbliche il verbale riporta esclusivamente l’indicazione dettagliata delle procedure seguite, la descrizione sintetica e oggettiva degli argomenti discussi, l’elenco nominativo degli interventi e la motivazione collegiale delle deliberazioni adottate. In caso di votazioni mediante appello nominale, il verbale riporta altresì le singole espressioni di volto”.
4.3. Autogoverno tra cambiamento e restaurazione.
Questo breve excursus sui principali caratteri dell’organizzazione interna dell’organo di autogoverno della magistratura contabile era necessario, in quanto credo metta bene in evidenza l’alternativa di fronte al quale si trova oggi il Consiglio di Presidenza nel corso della sua attività: cambiamento vs restaurazione, con quest’ultima espressione intendendosi un ritorno ai metodi del passato, quando la gestione del personale di magistratura era affidata sostanzialmente nelle mani del Presidente della Corte dei conti, di un ristretto Comitato di saggi (il vecchio Consiglio di Presidenza) e del Segretario generale, longa manus del Presidente della Corte.
Quest’ultimo era il modello che si presentava al legislatore nel 1988, all’epoca della riforma del Consiglio di Presidenza, il cui volto fu profondamente innovato, con la introduzione della rappresentanza laica, da un lato, e della rappresentanza elettiva, dall’altro.
Il giudizio del legislatore della riforma non potè, dunque, che essere negativo, se anzichè apportare lievi ritocchi all’organo di autogoverno scelse la strada più impegnativa, ed innovativa, di riformare radicalmente la composizione e le funzioni dello stesso.
E tuttavia, nonostante la chiara opzione legislativa per un autentico modello di organo di autogoverno, riemergono ogni tanto, nella concreta attività del Consiglio di Presidenza, sotto mentite spoglie, i segni di un passato che stenta a morire.
Volgendo lo sguardo al presente è nell’attuale consiliatura che si paventa il pericolo di una restaurazione - più che di un cambiamento - dei vecchi metodi di governo degli affari riguardanti lo status dei magistrati.
Segnali preoccupanti di tale modus procedendi instauratosi nella prassi consiliare, a partire dagli anni 2000, provengono dal massiccio uso nelle nomine ai posti direttivi del potere discrezionale mal motivato, trovando tale prassi l’avallo del giudice amministrativo.
E sebbene il caso limite sia rappresentato dalla ipotesi nella quale il punteggio discrezionale venga espresso in favore di un solo candidato, sì da alterare il funzionamento degli altri concorrenti criteri (anzianità e professionalità), l’esperienza concreta di tutti i Consigli di Presidenza succedutisi nel tempo (non escluso l’attuale) dimostra che accordi tra le correnti, che rappresentano la maggioranza all’interno del Consiglio, possono determinare inammissibili scavalcamenti nel ruolo di anzianità. Non è la prima volta che ciò accade nell’attuale consiliatura, ripresentandosi negli stessi termini la situazione da anni, con l’inevitabile seguito sul piano del contenzioso che ne scaturisce innanzi al giudice amministrativo (TAR e CdS).
È l’anzianità, invece, a ben vedere, la migliore garanzia della professionalità e dell’impegno nell’attività d’istituto dei singoli magistrati, non esistendo allo stato dei sistemi di rilevamento del rendimento in servizio dei magistrati contabili che siano fondati su indici oggettivi.
Al tempo stesso il principio della equa ripartizione degli incarichi, proclamato dall’art. 2, comma 4, del D.p.r. n. 388/95 (ma già dall’art. 13 della legge n. 186/82, reso applicabile alla magistratura contabile in virtù del rinvio contenuto nell’art. 10 della legge n. 117/88) ha fatto un passo indietro : con buona pace del legislatore delegato del 1995, nelle cui intenzioni non rientrava certamente l’attribuzione degli incarichi secondo criteri incontrollabili e latamente discrezionali, in violazione del chiaro disposto dell’art. 2, comma 3, secondo cui i criteri devono essere oggettivi e predeterminati
5. L’assegnazione ai posti di funzione.
La materia è regolamentata dalla deliberazione del Consiglio di Presidenza n. 231/CP/2019 del 5 novembre 2019 (e s.m.i.).
L’assegnazione dei magistrati contabili ai posti di funzione si fonda su un sistema che abbina anzianità a valutazione discrezionale, con una accentuazione della seconda rispetto alla prima, in considerazione del peso riconosciuto, ai fini della graduatoria definitiva, al voto messo a disposizione di ciascun consigliere.
L’art. 6 dispone, infatti, che le domande di assegnazione ai posti di funzione di magistrati con qualifica inferiore a quella di consigliere sono scrutinate sulla base dei seguenti elementi:
“[…] anzianità di servizio: in misura di 1 punto per ogni anno di servizio o frazione di anno superiore a sei mesi, a prescindere dalla qualifica, sino ad un massimo di venti anni e in misura di 0,50 di punto per ogni anno di servizio successivo […]
[…] Valutazione discrezionale: mediante personale attribuzione, con giudizio motivato, per il posto o per ciascuno dei posti da assegnare, da parte di ciascun componente del Consiglio, di un punteggio pari a 0,50. La somma dei punti in tal modo attribuiti viene aggiunta al punteggio conseguito sulla base degli elementi di cui ai precedenti punti.
Il punteggio discrezionale viene attribuito sulla base della professionalità acquisita nelle funzioni da assegnare, nelle assegnazioni aggiuntive svolte e nella partecipazione ai collegi delle Sezioni Riunite in qualità di estensore e di una valutazione di prevalenza della particolare attitudine alle funzioni da assegnare, desumibile dall’insieme delle doti culturali e dalla natura e varietà delle attività svolte e delle funzioni esercitate e degli incarichi ricoperti, le une e gli altri come risultanti dal fascicolo personale d’ufficio, dall’audizione dei candidati, ove prevista nel bando, dal documentato curriculum prodotto dall’interessato, che dovrà contenere tutti gli elementi necessari per le valutazioni del Consiglio ed al quale vengono allegati tre provvedimenti ritenuti significativi dal candidato in ordine alla qualità del lavoro svolto, dalle autorelazioni e dai dati di monitoraggio acquisiti dalla competente Commissione consiliare. La valutazione tiene anche conto dei criteri di
capacità, laboriosità e diligenza fissati nella delibera n. 74/CP/2014 con particolare riferimento all’ultimo quinquennio. […]
Non si discosta molto l’art. 32 relativo alla assegnazione ai posti di funzione di presidente di sezione, secondo cui:
“a) l’anzianità nella qualifica di Presidente di sezione viene computata attribuendo 1 punto per ogni anno e tanti dodicesimi di punto per quanti sono i mesi eccedenti un anno intero;
b) il punteggio discrezionale, da attribuire con giudizio motivato, è stabilito in punti 1,00 per ciascun componente del Consiglio di presidenza. Il punteggio discrezionale viene attribuito sulla base di una valutazione di prevalenza della particolare attitudine alle funzioni da assegnare, desumibile dall’insieme delle doti culturali e dalla natura e varietà delle attività svolte, delle funzioni analoghe esercitate e degli incarichi ricoperti, nonché delle assegnazioni aggiuntive svolte e della partecipazione ai collegi delle Sezioni Riunite in qualità di estensore, le une e gli altri come risultanti dal fascicolo personale d’ufficio, dall’audizione dei candidati, ove prevista nel bando, dal documentato curriculum prodotto dall’interessato, che dovrà contenere tutti gli elementi necessari per le valutazioni del Consiglio ed al quale vengono allegati tre provvedimenti ritenuti significativi dal candidato sulla qualità del lavoro svolto, dalle autorelazioni e dai dati di monitoraggio acquisiti dalla competente Commissione consiliare. La valutazione tiene anche conto dei criteri di capacità, laboriosità e diligenza fissati nella delibera n. 74/CP/2014, con particolare riferimento all’ultimo quinquennio. In particolare, si tiene conto, nell’attribuzione del punteggio discrezionale dei seguenti criteri di giudizio:
b1) capacità organizzative dimostrate nell’esercizio delle funzioni direttive, con particolare rilievo alla validità dei metodi operativi e di gestione degli affari e dei servizi di cui il candidato abbia dato prova nelle precedenti assegnazioni da Presidente di sezione o nell’esercizio di altre funzioni monocratiche e/o direttive;
b2) capacità professionale nelle materie di competenza della Sezione di cui si tratta, acquisita in tutta l’attività di magistrato della Corte dei conti, da accertare mediante valutazione dell’attività svolta nel settore e della completezza dell’esperienza professionale acquisita attraverso la partecipazione in senso ampio alle attività del settore stesso.
Anzi, se si vuole, l’anzianità, che è uno dei criteri previsti per le assegnazioni dei presidenti di sezione, è vieppiù svalutata, in quanto non viene presa in considerazione l’anzianità maturata nelle qualifiche inferiori (referendario, primo referendario, consigliere). Con la promozione alla qualifica di presidente di sezione, infatti, l’anzianità pregressa viene azzerata e, quindi, si ricomincia da capo; di talché il punteggio discrezionale assume importanza determinante ai fini della graduatoria definitiva, in considerazione dei tempi medi di permanenza in tale qualifica, che rappresenta il traguardo finale della carriera di un magistrato contabile.
Come faccia uso il Consiglio di Presidenza della valutazione discrezionale è attestato dal notevole contenzioso innanzi al giudice amministrativo, che inevitabilmente si innesca in occasione degli scavalcamenti nel ruolo di anzianità.
Vi è da dire, peraltro, che il giudice amministrativo non è di manica propriamente larga nell’accoglimento dei ricorsi proposti dai magistrati contabili.
In primo luogo, deve richiamarsi il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui i provvedimenti di nomina dei magistrati in sede di procedura comparativa non necessitano di una motivazione particolarmente estesa, in cui vengono analiticamente raffrontati i curricula professionali dei candidati, dovendo il giudizio di comparazione essere complessivo ed evidenziare i profili di prevalenza presi in considerazione in relazione all’obiettivo funzionale perseguito.[16]
La giurisprudenza amministrativa ha ulteriormente chiarito, a tale riguardo, che risulta sufficiente una motivazione che si limiti essenzialmente a “ rendere ostensibili in positivo i titoli attitudinali del candidato ritenuto prevalente”, mentre la comparazione tra i candidati in competizione ben “ può risolversi in un giudizio complessivo unitario, frutto della valutazione integrata dei requisiti sopra indicati, con la conseguenza che, ove risulti documentalmente la presa in esame, per ciascun candidato, dei tratti essenziali e qualificanti dei rispettivi curricula professionali, nonché la valutazione ponderata degli stessi in rapporto allo specifico oggetto di conferimento, ben può ritenersi adeguatamente soddisfatto l’onere di comparazione”,[17] trincerandosi dietro alla insindacabilità nel merito della valutazione compiuta dal Consiglio di Presidenza.
Peccato che in un recente caso giurisprudenziale, ad essere preferito al ricorrente, che era il più anziano in ruolo, sia stato un magistrato che aveva trascorso un periodo considerevole di oltre nove anni fuori ruolo!
6. L’assegnazione degli affari giudiziari.
Si è sostenuto in dottrina[18] che, con l’entrata in vigore del codice di giustizia contabile,[19]il legislatore ha perso una ulteriore occasione per declinare in ambito processuale il principio di indipendenza.
Soltanto, infatti, la assegnazione dei procedimenti istruttori ai pubblici ministeri contabili deve seguire “criteri oggettivi e predeterminati”, secondo quanto previsto dall’art. 54, primo comma, ma non anche i giudizi di responsabilità, per la cui assegnazione si procede da parte del presidente della sezione giurisdizionale senza dover rispettare alcun criterio oggettivo e predeterminato.
È palese la violazione, in primo luogo, del principio di indipendenza interna del giudice, che risulta strettamente connesso alla garanzia costituzionale del giudice naturale precostituito per legge, la quale viene richiamata ad escludere l’attività discrezionale all’interno della magistratura da parte dei capi degli uffici giudiziari.
Non pare più discutibile dopo la sentenza della Corte costituzionale 17 luglio 1998, n. 272 che la garanzia del giudice naturale precostituito per legge si riferisca anche alla persona fisica del giudice, nel senso che la legge deve prevedere i meccanismi attraverso i quali, all’interno di un medesimo ufficio giudiziario, spetta ad un giudice, anziché ad un altro, pronunciare su una certa controversia.
In questa prospettiva non si può peraltro non sottolineare la centralità e la rilevanza del c.d. sistema tabellare, che riveste un ruolo essenziale per la indipendenza interna del giudice, in quanto costituisce il cardine della struttura organizzativa degli uffici, con la precisazione che le tabelle delineano l’organigramma dell’ufficio, la sua ripartizione in sezioni, l’assegnazione alle stesse dei singoli magistrati ed i criteri di assegnazione degli affari giudiziari.
Sicché non sono più ammissibili criteri equitativi o che dipendano nella loro attuazione dalla discrezionalità del dirigente dell’ufficio giudiziario.
In definitiva, è decisamente tramontata la prassi che consentiva al capo dell’ufficio di assegnare i fascicoli ad personam in base al criterio, peraltro ragionevole secondo l’uomo della strada e presumibilmente onesto, che “quel tal giudice è più bravo”, ovvero “più esperto della materia “, “più solerte, “più equilibrato, “meno carico di lavoro “.
Come è noto, la sentenza n. 272 del 1998 ha dichiarato non fondata “nei sensi in motivazione” la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, lettera a), del decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453, convertito, con modificazioni, nella legge 14 gennaio 1994, n. 19.
La sentenza in esame ha espressamente escluso che “ i poteri organizzativi dei capi degli uffici possano essere svolti in modo assolutamente libero o addirittura arbitrario”, affermando, comunque, che “ l'esplicitazione di criteri per l'assegnazione degli affari, in quanto espressivi di un'esigenza costituzionale, che opera in tutti i settori della giurisdizione, possa aver luogo proprio nell'ambito di detti poteri discrezionali, quale manifestazione ed esercizio dei medesimi, senza necessità né di una specifica previsione legislativa né, tantomeno, di un intervento additivo di questa Corte “ e concludendo nel senso che possa “ pervenirsi già ora, nell'ordinamento vigente per la Corte dei conti, alla formulazione di criteri per l’assegnazione degli affari attraverso l'esercizio dei poteri spettanti ai capi degli uffici, secondo modalità che non spetta a questa Corte indicare, se non nel senso che esse siano tali da garantire, comunque, la verifica ex post della loro osservanza”.
Con queste parole termina la motivazione della sentenza, che condivide con quelle di indirizzo o interpretative di rigetto, l’invito a risolvere una situazione di disagio dal punto di vista dell’attuazione dei valori costituzionali, ma l’analogia si ferma qui, in quanto il destinatario dell’invito non è, come avviene sempre, il legislatore, ma la stessa Corte dei conti.
Nel commentare la sentenza n. 272/1998 autorevole dottrina si era chiesta quanto sarebbe durata l’attesa per l’attuazione del principio del giudice naturale precostituito per legge all’interno del processo contabile.
Ebbene, a distanza di oltre un quarto di secolo, il principio del giudice naturale precostituito per legge aspetta ancora di trovare attuazione nel processo contabile.
Ciò che preme rimarcare in questa sede, però, è che l’assenza di criteri oggettivi e predeterminati per l’assegnazione degli affari, a causa di una carenza strutturale del sistema, rende in concreto impossibile la verifica ex post della loro osservanza.
Vi è, infatti, un problema di “effettività” della garanzia del giudice naturale precostituito per legge, intesa come reale possibilità di far valere le eventuali violazioni dei criteri per l’assegnazione degli affari. È del tutto evidente, difatti, che il rispetto della garanzia costituzionale del giudice naturale precostituito per legge si può ottenere soltanto se un controllo sulla osservanza dei criteri sia possibile, purché a monte vi sia stata la posizione degli stessi criteri in via generale.
D’altronde, nella sentenza n. 419/1998, che viene richiamata dalla Corte costituzionale, non si esclude che “la violazione dei criteri di assegnazione degli affari sia priva di rilievo e che non vi siano, o che non debbano essere prefigurati, appropriati rimedi dei quali le parti possano avvalersi“.
Di nuovo intervenuta, nel 2017, la Corte costituzionale,[20] pur dichiarando inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate a distanza di oltre 20 anni dalla prima, avendo rilevato che il giudice a quo sarebbe incorso in un errore nella individuazione della disposizione censurata, come ha evidenziato attenta dottrina, “ ha fatto emergere il problema, esclusivo dell’assetto ordinamentale della giurisdizione contabile, dell’assenza di una base legale, che consenta al Consiglio di Presidenza di fissare criteri oggettivi e predeterminati”,[21] alla luce del nuovo assetto frutto della legge n. 15 del 2009 e, in particolare, della limitazione delle competenze del Consiglio di Presidenza alle sole espressamente previste dalla legge, non potendosi più ritenere che “ il Consiglio di presidenza della Corte dei conti disponga attualmente – come avviene invece per gli organi di autogoverno delle altre magistrature – del potere di dettare i criteri di massima per la ripartizione degli affari e la composizione dei collegi”.[22]
Nulla impedisce, dunque, e anzi pare di leggere tra le righe che questo sia l’auspicio del giudice delle leggi, che la questione di legittimità costituzionale venga rimessa di nuovo alla Corte costituzionale, in presenza di una chiara situazione di inattuazione del dettato costituzionale, piuttosto che aspettare a tempo indefinito l’intervento del legislatore, al fine di realizzare appieno nel processo contabile la garanzia costituzionale del giudice naturale.
Ciò, del resto, consentirebbe di colmare un vulnus divenuto intollerabile se si pone a confronto la disciplina della assegnazione dei giudizi pensionistici, in quanto l’art. 154, comma 4, c.g.c. prevede che i ricorsi sono assegnati dai presidenti delle sezioni giurisdizionali regionali ai giudici unici delle pensioni, secondo criteri oggettivi e predeterminati.
7. Gli incarichi extraistituzionali.
Gli incarichi extraistituzionali, ossia lo svolgimento di attività estranee a quelle proprie del magistrato, possono andare ad incidere sulla sua indipendenza, che può confliggere con la ricerca ed acquisizione da parte dei magistrati di gratificazioni ad personam che provengono da organismi o persone estranee all’amministrazione della giustizia o conseguenti al conferimento di incarichi da esercitare nell’ambito dei poteri esecutivo e legislativo.
La disciplina vigente in materia è in parte legislativa ed in parte di emanazione del Consiglio di Presidenza.
Le regole fissate per gli incarichi extraistituzionali si rinvengono, innanzitutto, nel D.p.r. 27 luglio 1995, n. 388, emanato in attuazione dell’art. 58, comma 3, D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29.
La regola fondamentale sancita dall’art. 2 del D.p.r. n. 388/1995 cit. è che i magistrati della Corte dei conti non possono svolgere incarichi “non compresi nei compiti e nei doveri d’ufficio” se non nei casi espressamente previsti da leggi dello Stato o dal presente regolamento.
Segue, quindi, all’art. 3, l’elenco degli incarichi consentiti e degli incarichi vietati.
Il legislatore, nel formulare tali limitazioni della sfera di esercizio delle libertà personali dei magistrati contabili, ha inteso garantire il buon funzionamento della giustizia, in primo luogo, e a preservare l’indipendenza del magistrato, attraverso un esame di compatibilità che è chiamato a svolgere il Consiglio di Presidenza.
Sulla falsariga del D.p.r. n. 388/1995 cit., si muove la deliberazione del Consiglio di Presidenza n. 115/CP/2021 (e s.m.i.) in materia di attribuzione di incarichi ai magistrati della Corte dei conti, che specifica e sviluppa le previsioni regolamentari. Ad esempio, l’art. 8 della deliberazione è dedicato agli incarichi di insegnamento che, in sede regolamentare, non sono espressamente disciplinati.[23]In materia, peraltro, è sufficiente la presa d’atto dell’organo di autogoverno allorquando l’impegno richiesto sia inferiore a 40 giornate annue non frazionabili o all’importo di 35.000 euro.[24]
Assumono, inoltre, particolare rilevanza le “circostanze ostative” (v. art. 5) alla autorizzazione e al conferimento degli incarichi soprattutto per quanto concerne le incompatibilità funzionali (lett. b) e territoriali (lett. c).
Ma è senza dubbio il settore delle autorizzazioni quello in cui più è a rischio l’indipendenza del magistrato e ciò spiega perché il legislatore delegato richieda che in caso di “ indicazione nominativa dell’amministrazione richiedente “ l’incarico sia attribuito “ in base a motivate ragioni”, escludendo la chiamata nominativa comunque per gli incarichi di presidenza di collegi arbitrali e per gli incarichi in commissioni di concorso, commissioni di disciplina, e similari (v. art. 3, comma 4).
Vi è da dire, peraltro, che l’art. 11, comma 7, L. n. 15/2019 ha attribuito al Presidente della Corte dei conti il potere di autorizzare e revocare gli incarichi extraistituzionali, in luogo del Consiglio di Presidenza, che rilascia soltanto un parere.
8. Il regime disciplinare.
I magistrati contabili sono sanzionabili disciplinarmente sulla base di regole formulate in termini molto vaghi, a differenza dei loro colleghi ordinari, per i quali vale il sistema di tipizzazione delle fattispecie disciplinari, cristallizzate nel D.Lgs 23 febbraio 2006, n. 109.
Ai magistrati contabili si applica, invero, la vecchia disciplina rappresentata dall’art. 18 della legge sulle guarentigie (R.D.Lgs. 31 maggio 1946, n. 511) in virtù della clausola di salvezza di cui all’art. 30 del D.Lgs. n. 109/2006 cit., secondo cui “Il presente decreto non si applica ai magistrati amministrativi e contabili”.
L’illecito disciplinare dei magistrati contabili, quindi, si presenta come illecito atipico, suscettibile di ricomprendere la miriade di comportamenti idonei a ledere l’immagine ed il prestigio della giustizia, cioè della stessa legittimazione della funzione giudiziaria.
La discrezionalità dell’organo disciplinare nell’applicare una norma a contenuto vago quella rappresentata dall’art. 18 della legge sulle guarentigie può essere una minaccia per l’indipendenza, poiché può essere utilizzata in modo scorretto, al fine, cioè, di sanzionare i magistrati per i loro orientamenti giurisprudenziali non del tutto ortodossi.[25]
Si evidenzia, in particolare, che “la genericità della formula utilizzata finiva, di fatto, per riconoscere un potere interpretativo enorme alla sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura. Quali fossero in concreto le fattispecie di illecito disciplinare venivano individuate, di volta in volta, dalla giurisprudenza della sezione, che pure veniva così a determinare una qualche forma di diritto vivente in materia disciplinare”[26]
In un sistema disciplinare così congegnato assumerebbe importanza, dunque, il monitoraggio sui procedimenti e sulle sanzioni disciplinari, utile anche per acquisire informazioni sull’insorgere di aspetti critici del comportamento soprattutto giudiziario che richiederebbero una regolamentazione.[27]
Quanto più i giudici sono consapevoli di quelle regole e ad esse conformano i propri comportamenti, tanto più le regole di etica giudiziaria saranno efficaci e conseguiranno il loro scopo primario che è “essenzialmente promozionale e non punitivo”, in quanto “l’obiettivo principale è quello di prevenire eventi che possano interferire con il corretto funzionamento dell’amministrazione della giustizia”. [28]
Ricerche sviluppate all’estero in ambito giudiziario dimostrano, infatti, che laddove l’applicazione delle regole disciplinari è stata monitorata con continuità, le violazioni sono generalmente involontarie e che tra le cause più frequenti vi sono la “mancanza di conoscenza, la mancanza di attenzione e, non da ultimo, la l’eccesso di fiducia in se stessi”[29]
Di qui l’importanza della formazione di un “archivio disciplinare”, sull’esempio di quello riguardante la Sezione disciplinare del CSM, che contenga le decisioni emesse in sede disciplinare dal Consiglio di Presidenza e le sentenze pronunciate in materia dai TAR e dal Consiglio di Stato.
Soltanto di recente, ma senza che venisse data pubblicità all’interno della categoria, è stata pubblicata una raccolta delle massime relative alle decisioni dell’organo di disciplina, a cura dell’Ufficio studi e documentazione, in attuazione di quanto previsto dall’art. 14, comma 5, della deliberazione del Consiglio di Presidenza n. 3/CP/2021 del 7 gennaio 2021.
Si tratta di una iniziativa che colma un vuoto durato oltre 35 anni anche se le massime pubblicate sono prive di riferimenti temporali, impedendo così la ricerca del testo della motivazione della decisione cui la massima si riferisce.
Per quanto riguarda la natura del procedimento disciplinare, si tratta di un procedimento amministrativo[30], come da ultimo autorevolmente affermato dalla Corte costituzionale, con la sentenza 27 marzo 2009, n. 87, sicché i provvedimenti resi dal Consiglio di Presidenza in sede disciplinare sono atti amministrativi e non giurisdizionali.
La natura amministrativa del procedimento disciplinare non ha, però, impedito al giudice delle leggi di dichiarare incostituzionali le norme[31] che impedivano ai magistrati contabili – estendendo ovviamente gli effetti della incostituzionalità anche ai magistrati amministrativi – di potersi far difendere da un avvocato del libero foro. Importante è, in tal senso, l’affermazione di cui al p. 3 del “Considerato in diritto”: “La garanzia dell’indipendenza del magistrato rileva anche in materia di responsabilità disciplinare, perché la prospettiva dell’irrogazione di una sanzione può condizionare il magistrato nello svolgimento delle funzioni che l’ordinamento gli affida.”
Titolare dell’azione disciplinare è il Procuratore generale, ai sensi dell’art.10, comma 9, L. n. 117/1988 e dell’art. 11, comma 8, L. n. 15/2009, che fa salva la titolarità dell’azione disciplinare.
Il regolamento di disciplina in vigore è stato approvato dal Consiglio di Presidenza con deliberazione n. 3/CP/2021 del 7 gennaio 2021.
L’apertura del procedimento è normalmente preceduta dallo svolgimento di indagini preliminari (art. 1, comma 2). Si tratta della c.d. fase predisciplinare, che non risulta disciplinata in dettaglio dalle norme regolamentari.
È in relazione a tale fase che si pone l’interrogativo se il magistrato attinto dalle richieste istruttorie del Procuratore generale ha il diritto di accedere agli atti aventi rilevanza disciplinare.
In senso positivo si è pronunciato, con riguardo alla analoga problematica riguardante i magistrati ordinari, il Tar Lazio, Sez. I, con sentenza n. 3315 del 10 marzo 2021, che è stata ribaltata in appello dal Consiglio di Stato, con sentenza n. 2593 del 2021, sulla base della considerazione che la procedura predisciplinare rappresenta il presupposto logico e giuridico della eventuale incolpazione, a cui segue un iter di carattere giurisdizionale.
È evidente che tale argomento non può valere per la c.d. fase predisciplinare riguardante i magistrati contabili, tenuto conto della natura amministrativa del relativo procedimento disciplinare.
All’esito delle risultanze dell’istruttoria svolta su fatti o atti venuti a conoscenza, il Procuratore generale, se ritiene che non sussistano elementi rilevanti ai fini disciplinari, procede alla archiviazione c.d. predisciplinare, dandone comunicazione al Presidente che informa il Consiglio, il quale, con deliberazione assunta a maggioranza degli aventi diritto, può chiedere al Procuratore generale il riesame del provvedimento di archiviazione e, per non più di una volta, del nuovo provvedimento di archiviazione (art. 2, commi 1 e 2).
In alternativa, il Procuratore generale, qualora ritenga sussistenti i presupposti dell’illecito disciplinare, procede alla contestazione degli addebiti all’incolpato[32]. È l’atto di incolpazione che determina l’apertura del procedimento disciplinare, che non può essere promosso dopo un anno dal giorno in cui il Procuratore generale ha avuto notizia dei fatti di rilievo disciplinare (art. 2, commi 3 e 4).
La fase istruttoria si svolge innanzi al Consiglio di Presidenza ed è caratterizzata dall’affidamento dei necessari accertamenti istruttori ad una apposita Commissione consiliare, composta da tre membri dei quali uno, con funzioni di presidente, scelto tra quelli designati dal Parlamento. È garantito il diritto di difesa dell’incolpato, che può chiedere l’accesso agli atti del fascicolo disciplinare ed estrarre copia degli stessi, presentare le proprie deduzioni, entro il termine perentorio di 30 giorni, e, sebbene non espressamente previsto, chiedere di essere convocato in audizione (art. 3, commi 1-6).
La Commissione, chiusa l’istruttoria, riferisce al Consiglio nella prima adunanza successiva, proponendo il proscioglimento o il passaggio alla trattazione orale (art. 3, comma 7).
Il proscioglimento è deliberato dal Consiglio di Presidenza, se ritiene che non sussistano i presupposti per l’irrogazione di una sanzione disciplinare (art. 4).
Nella ipotesi inversa, è fissata con decreto del Presidente la data della trattazione orale in seduta pubblica (art. 5).[33]
Suscita perplessità il fatto che la normativa regolamentare non preveda expressis verbis gli esiti della udienza disciplinare, lasciando il compito all’interprete di ricostruire l’iter successivo alla trattazione del caso innanzi al plenum, nel senso del proscioglimento o della condanna, e ancora più disappunto la previsione secondo cui la redazione delle deliberazioni in materia disciplinare sia di competenza dell’Ufficio Studi e documentazione del Consiglio di presidenza e non di quest’ultimo organo (art. 14, comma 3)
Le sanzioni disciplinari (ammonimento, censura, perdita dell’anzianità e rimozione) sono previste nel Regolamento, in linea con il richiamo fatto dall’art. 32 della legge n. 186/1982 (a cui rinvia l’art. 10 della legge n. 117/1988) alle “norme previste per i magistrati ordinari in materia di sanzioni disciplinari e del relativo procedimento”.
[1] G. Urbano, Riflessioni sulla indipendenza del magistrato contabile, in federalismi.it, n. 21/2019, 2.
[2] Si veda, da ultimo, C. cost., 7 ottobre 2016, n.215, secondo cui “ Sia l’art. 100, terzo comma, riferibile ai giudici speciali assentiti dalla Costituzione, Consiglio di Stato e Corte dei conti, che l’art. 108, secondo comma, relativo alle ulteriori forme di giurisdizione diverse da quella ordinaria, sono, infatti, norme “ a fattispecie aperta” giacchè dettano solo il principio generale lasciando al legislatore ordinario il compito di specificare il contenuto effettivo della relativa disciplina”
[3] A. Sandulli, La Corte dei conti nella prospettiva costituzionale, in Dir. e Soc., 1979, 33 e ss.
[4] Neppure coglie nel segno l’osservazione di C. Cassarà, La nomina del vertice della giustizia contabile. Commento all’ordinanza di rimessione n. 194 del 2011, (in federalismi.it, n. 24/2011, 8) secondo cui “ In concreto[…]è l’organo di autogoverno della magistratura contabile che provvede alla designazione del presidente della Corte dei conti avendo riguardo sia all’anzianità che alla valutazione sul merito, quindi al possesso da parte del soggetto prescelto di quei parametri preventivamente stabiliti proprio dall’organo di autogoverno medesimo”, per la semplice ragione che tale prassi può essere cambiata a seconda delle contingenze della politica governativa.
[5] Conserva ancora attualità la domanda che si pone A. Orsi Battaglini (“cosa dovrebbe ritenersi di una ipotetica legge che affidasse al Governo la nomina del primo presidente della Corte di cassazione e di un quarto dei suoi componenti?”) in “Alla Ricerca dello Stato di diritto”, Milano, 2005, 83.
[6] Si fa riferimento a Corte cost., 17 gennaio 1967 n. 1. In senso analogo, Corte cost., 19 dicembre 1973, n. 177 con riguardo alla nomina governativa dei consiglieri di Stato
[7] R. Garofoli, Unicità della giurisdizione e indipendenza del giudice: principi costituzionali ed effettivo sviluppo del sistema giurisdizionale, in Dir.proc.Amm., 1998, 138
[8] Idem.
[9] Così, G. D’Auria, La “nuova” Corte dei conti, in astrid.it, 8
[10] Il presidente aggiunto della Corte dei conti (posto di funzione istituito dal D.L. 24 dicembre 2003, n. 354, convertito nella L. 26 febbraio 2004, n. 45) ha sostituito il presidente di sezione più anziano, ai sensi dell’art. 1, comma 1, D.Lgs. 7 febbraio 2006, n. 62
[11] È cambiato solo il meccanismo di designazione, essendo subentrate le due camere ai Presidenti delle stesse.
[12] C. Guarnieri, La differenziazione degli organi di governo delle magistrature: un fenomeno da non trascurare, in federalismi.it, n. 3/2010, 3
[13] V.Mormando, nel suo intervento intitolato “Il Consiglio di Presidenza della Corte dei conti: organo di autogoverno o organo di amministrazione del personale di magistratura?” al convegno di studi “Giustizia al servizio del paese” (Palermo, 12-13 ottobre 2023) si chiede “come può un organo che possiede il sigillo della rilevanza costituzionale essere de-mansionato al ruolo di organo che amministra”
[14] Corte cost., 13 gennaio 2011, n. 16
[15] Suscita perplessità la denominazione di “referenti” solo della prima e seconda commissione, che hanno le maggiori competenze, rispetto alle altre: Commissione Bilancio, Commissione in materia disciplinare e di incompatibilità ambientale, Commissione per il Regolamento e gli atti normativi, Commissione per il monitoraggio. Le perplessità nascono dal fatto che tutte le Commissioni hanno funzioni “referenti” nei confronti del plenum, nel senso di “riferire” a questo sulle tematiche afferenti alle loro competenze.
[16] Cfr. Tar Lazio, Roma, sez. I, n. 5068/2017; CdS, sez. IV, 3 marzo 2016, n. 875; Id., 6 agosto 2014; Id., 28 maggio 2012, n. 3157; Id., Tar Lazio, Roma, sez. I quater, 3 ottobre 2016, n. 10017)
[17] Cfr. Tar Lazio, sez. I, n. 6599/2088, che richiama Cons. Stato, sez. IV, 16 ottobre 2006, n. 6181 e Id., sez. IV, 26 aprile 2006, n. 2289.
[18] G. Urbano, op. cit., 4
[19] Approvato con D.Lgs. 26 agosto 20166, n. 174.
[20] Si tratta della sentenza n. 257 del 16 dicembre 2017
[21] P. Villaschi, Il principio del giudice naturale precostituito nella giurisdizione contabile, in gruppodipisa.it
[22] Così Corte cost., sent. n. 257 del 2017 (punto 4.3. del “Considerato in diritto”)
[23] La libertà di insegnamento può essere fatta rifluire, tuttavia, tra “le attività che costituiscono espressione delle libertà e dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione” che sono sempre consentite (v. art. 1, comma 1, D.p.r. n. 388/1993.
[24] Osserva L. Busico, Dipendenti pubblici. Incompatibilità e attività extraistituzionali, Milano, 2021, 73, che “sussiste più di un dubbio sulla legittimità di fissare obblighi di comunicazione per attività liberalizzate e sembra coerente con le previsioni della normativa primaria ritenere che la mancata comunicazione, a differenza di quanto espressamente previsto dall’art. 53, comma 7, d.lgs. n. 165/01 per l’ipotesi di mancata autorizzazione, non possa, comunque, comportare conseguenze sul piano disciplinare”
[25] Secondo Tenore, Sulla necessità di una riforma del regime disciplinare nelle magistrature speciali, in Riv. C. conti, n. 4/2022, 25, “ Occorre difatti una maggiore tipizzazione delle fattispecie disciplinari per prevenire occasionali arbitri degli organi di autogoverno delle magistrature speciali e garantire diritti difensivi basici dell’incolpato (pur lasciando, assai opportunamente, delle clausole aperte o delle formulazioni di più ampio respiro, che consentono un costante adattamento sia all’evoluzione etico-sociale delle multiformi condotte ed alla loro percezione in termini di disvalore, sia alla straordinaria fantasia italica nel commettere illeciti anche attraverso nuove forme comunicative[…]”. In mancanza di dati più precisi sui casi decisi, non è possibile accedere all’opinione dell’A.
[26] Così, R.Romboli, La responsabilità disciplinare del magistrato nel quadro dei principi e dei valori costituzionali”, in “ Il procedimento disciplinare dei magistrati”, Quaderno n. 8, SSM, Roma, 2022, 18
[27] Nella premessa alla prima edizione della Guide to Judicial Conduct of England and Wales del 2004, l’allora Lord Chief Justice, Harry Kenneth Woolf, riconosce il bisogno di una continua attività di monitoraggio
[28] Citazioni tratte dal commento alla regola 1, che individua l’obiettivo del Judicial Conduct and Disability Act for US Federal Judges del 1980
[29] J.S. Cooke, Judicial Ethics Education in the Federal Courts, in The Justice System Journal, n. 3, 200
[30] Ex multis, Cass. civ., SS.UU., 10 aprile 2002, n. 5126
[31] Art. 34, secondo comma, della legge 27 aprile 1982, n. 186 (Ordinamento della giurisdizione amministrativa e del personale di segreteria ed ausiliario del Consiglio di Stato e dei Tribunali amministrativi regionali) e art. 10, comma 9, della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati), dichiarati incostituzionali nella parte in cui escludono che il magistrato amministrativo o contabile, sottoposto a procedimento disciplinare, possa farsi assistere da un avvocato.
[32] Prima del Regolamento di disciplina n. 14/2013, la contestazione degli addebiti era compito del Consiglio di Presidenza, su richiesta del Procuratore generale.
[33] Deve osservarsi che mentre l’art. 5 del Regolamento di discipline stabilisce la seduta pubblica per la trattazione orale, l’art. 20 del Regolamento interno prevede al comma 3 la esclusione della pubblicità delle sedute che riguardano procedimenti disciplinari e sospensioni cautelari dal servizio (lett. c).
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