La dimensione di un lavoro dignitoso
di Tiziana Orrù
Relazione di Tiziana Orrù alla Tavola Rotonda organizzata da Area D.G. a Firenze il 23.02.2024 sul tema: "Alla ricerca di una retribuzione adeguata: la contrattazione collettiva alla prova dell’art. 36 della Costituzione".
Sommario: 1. Introduzione - 2. Dignità del lavoro: valore e sviluppo nell’attuale scenario economico-sociale - 2.1. Il Salario minimo: la direttiva europea del 19 ottobre 2022 - 2.2. La proposta di legge del 4 luglio 2023 sul salario minimo e la successiva legge delega - 2.3. La relazione del CNEL - 2.4. Il lavoro povero - 3. Alla ricerca di una retribuzione adeguata - 3.1 L’individuazione dei parametri di commisurazione del giusto salario minimo costituzionale: Il quadro giurisprudenziale antecedente - 3.2. Il giudizio di congruità della retribuzione - 3.3. Gli specifici parametri di raffronto - 3.3.1. I parametri collettivi - 3.3.2. I parametri economici e statistici - 3.4. L’adeguamento della retribuzione al salario minimo costituzionale.
1. Introduzione
Il lavoro dignitoso è un concetto universale che si applica a qualsiasi categoria di lavoratori e pone in luce il ruolo chiave dell’occupazione, con la sua dimensione quantitativa (posti di lavoro creati) e qualitativa (condizioni di lavoro), nella determinazione delle condizioni di esistenza degli individui e nella lotta alla povertà e alla disuguaglianza.
La tutela di un lavoro dignitoso, caratterizzato da un’equa retribuzione, dalla sicurezza nei luoghi di lavoro e dalla protezione sociale, è di fondamentale importanza non solo per i paesi in via di sviluppo ma anche per le economie industrializzate.
Il lavoro non è una merce e non può essere considerato semplicemente un costo di produzione. Il lavoro è una fonte di dignità e di benessere personale e familiare, è sorgente di autostima e di soddisfazione.
Ma non sempre i nostri lavori sono pieni di significato e di opportunità di crescita. Ci sono lavori indegni che rubano senso e dignità alle persone.
Troppo spesso il lavoro viene inteso unicamente come una necessità economica, come uno strumento per ottenere un reddito, ma il lavoro è molto di più.
Il lavoro è soprattutto l’ambito in cui la persona esprime la propria personalità, sperimenta la propria creatività, sviluppa i legami sociali.
La persona che non ha un “lavoro dignitoso” ha un lavoro “povero”, che è concetto più ampio rispetto allo stato di bisogno e/o di deprivazione materiale.
Un lavoro può essere “povero” per via di un salario troppo basso per la sussistenza del lavoratore e della sua famiglia oppure perché soffre di deprivazione non economica. Esiste, infatti, la povertà non di tipo economico: la solitudine, la mancanza di relazioni interpersonali, la bassa qualità della convivenza collettiva, la povertà culturale, la povertà spirituale ecc.
La povertà è un problema democratico che non si risolve senza cultura dei diritti, quegli stessi diritti garantiti dall’art. 23 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e dall’art. 2 della Costituzione – per i quali la dignità del lavoro e del lavoratore è un diritto fondamentale- dall’art. 36, comma 1 Cost. – che individua in una esistenza libera e dignitosa il contenuto minimo essenziale dei diritti del lavoratore e della sua famiglia – dall’art. 41, comma 2 Cost. che pone la dignità umana come limite alla libertà di iniziativa economica privata.
È lecito quindi affermare che lavoro e dignità costituiscono il binomio sul quale si basa il nostro assetto costituzionale.
Nelle considerazioni che seguono cercherò di sviluppare alcune riflessioni circa il significato e i risvolti pratici della dignità del lavoro nell’attuale scenario economico-sociale a cominciare dall’accordo sul salario minimo appena raggiunto a livello europeo e dal significato di “lavoro povero”, per concludere con l’analisi dei recenti approdi giurisprudenziali in tema di retribuzione “adeguata” e dei rapporti con la contrattazione collettiva.
2. Dignità del lavoro: valore e sviluppo nell’attuale scenario economico-sociale
2.1. Il Salario minimo: la direttiva europea del 19 ottobre 2022
La tematica del salario minimo riveste importanza centrale, soprattutto a seguito dell’approvazione della Direttiva 2022/2041 UE del 19 ottobre del 2022, con cui sono stati delineati principi, quali la necessità di garantire al lavoratore un trattamento retributivo adeguato, che devono orientare l’interprete.
In Europa il salario minimo legale è stabilito nella maggioranza dei Paesi tranne che in Danimarca, Finlandia, Svezia, Austria e Italia; l’ultimo Paese che ha introdotto il salario minimo legale è stata la Germania nel 2015 che ha previsto nell’ottobre del 2022 la retribuzione oraria minima in 12 euro l’ora.
La Direttiva prevede che gli Stati membri dovranno recepirne i principi ed il contenuto entro il 15 novembre 2024, con l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita e di lavoro nell’Unione, in particolare l’adeguatezza dei salari minimi per i lavoratori al fine di contribuire alla convergenza sociale verso l’alto e alla riduzione delle diseguaglianze retributive.
Nella Direttiva viene ricordato tra l’altro, che “Il capo II del pilastro europeo dei diritti sociali («pilastro»), proclamato a Göteborg il 17 novembre 2017, stabilisce una serie di principi che fungono da guida per garantire condizioni di lavoro eque. Il principio 6 del pilastro ribadisce il diritto dei lavoratori a una retribuzione equa che offra un tenore di vita dignitoso. Secondo tale principio devono inoltre essere garantiti salari minimi adeguati che soddisfino i bisogni dei lavoratori e delle loro famiglie in funzione delle condizioni economiche e sociali nazionali, salvaguardando nel contempo l’accesso al lavoro e gli incentivi alla ricerca di lavoro. Il principio ricorda infine che la povertà lavorativa deve essere prevenuta e che tutti i salari devono essere fissati in maniera trasparente e prevedibile, conformemente alle prassi nazionali e nel rispetto dell’autonomia delle parti sociali”.
Con l’adozione della Direttiva, le istituzioni dell’UE hanno inoltre ricordato che non tutti i lavoratori dell’Unione ricevono una tutela efficace quanto al salario minimo, e le conseguenze di questa lacuna ricadono soprattutto sulle donne, sui lavoratori giovani, sui lavoratori scarsamente qualificati, sui lavoratori migranti, sui genitori soli o sui lavoratori part time o a tempo.
Nel capo II, all’art. 5, viene così disposto: “Gli Stati membri in cui sono previsti salari minimi legali istituiscono le necessarie procedure per la determinazione e l’aggiornamento dei salari minimi legali. Tale determinazione e aggiornamento sono basati su criteri stabiliti per contribuire alla loro adeguatezza, al fine di conseguire un tenore di vita dignitoso, ridurre la povertà lavorativa, promuovere la coesione sociale e una convergenza sociale verso l’alto e ridurre il divario retributivo di genere”.
La Direttiva ribadisce, infine, il ruolo dell’autonomia collettiva in tema di salario minimo: gli Stati che presentano una copertura della contrattazione collettiva pari all’80% non hanno l’obbligo di introdurre il salario minimo mediante una legge.
Nella Direttiva, dunque, non è contenuto l’obbligo per gli Stati membri di prevedere un salario minimo legale, ma l’invito ad attuare misure che contribuiscano a rendere effettiva la riduzione del divario sociale.
In Italia ad esempio l’attribuzione di efficacia erga omnes ai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali più rappresentative costituirebbe certamente un punto di partenza efficace per orientare la discussione sul salario minimo.
La maggioranza parlamentare attuale, al contrario ha affrontato le questioni del lavoro in tutt’altra prospettiva.
2.2. La proposta di legge del 4 luglio 2023 sul salario minimo e la successiva legge delega
Il 4 luglio 2023 è stata presentata alla Camera la proposta di legge n° 1275 per l’istituzione anche in Italia del salario minimo firmata da PD e M5S.
Dalla relazione che accompagna la proposta si evince che la quota di lavoratori poveri definiti con riferimento al reddito di lavoro annuo netto risulta, nel 2017, pari al 16,5 per cento tra gli uomini e al 27,8 per cento tra le donne, collocandosi in totale al 22,2 per cento, in forte crescita dal 17,7 per cento del 2006. Si evidenzia inoltre che il rischio di bassa retribuzione risulta elevatissimo, pari al 53,5 per cento, tra chi nel corso di un anno lavora prevalentemente a tempo parziale.
Viene inoltre sottolineato che “Per quanto attiene ai lavoratori subordinati, ciò è quanto emerge dall’ultimo rapporto annuale dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) che, ipotizzando la regolazione per legge di diversi importi di salario minimo, individua: 2.596.201 lavoratori «sotto soglia», se si considera un salario minimo tabellare con importo minimo pari a 8 euro all’ora, e 2.840.893 lavoratori «sotto soglia», se si includono nella nozione di salario minimo anche le mensilità aggiuntive e il salario minimo viene fissato a 9 euro”.
Dalla lettura della proposta emerge inoltre chiaramente come l’introduzione del salario minimo non è certo volta a depotenziare la contrattazione collettiva, in quanto “l’attuale assetto della contrattazione collettiva necessita di essere sostenuto e promosso dall’ordinamento statuale al fine di garantire a tutti i lavoratori in Italia l’applicazione di trattamenti retributivi dignitosi”.
All’art. 2 della proposta viene dunque stabilito che il trattamento economico minimo orario stabilito dal CCNL non può essere comunque inferiore a 9 euro lordi. La soglia si applicherebbe soltanto alle clausole relative ai cosiddetti “minimi”, lasciando al contratto collettivo la regolazione delle altre voci retributive.
Conformemente a quanto previsto anche nella Direttiva (UE) 2022/2041 è prevista inoltre la garanzia dell’ultrattività dei contratti scaduti o disdettati.
Sul tema il dibattito è stato molto ampio con posizioni favorevoli e contrarie abbastanza trasversali tra maggioranza, opposizioni e parti sociali.
All’esito dell’esame delle Commissioni, il 6 dicembre 2023 l'aula di Montecitorio ha votato a maggioranza la delega al Governo in materia di protezione dei lavoratori che sostituisce l'art. 1 della proposta di legge n. 1275 del 4 luglio 2023.
Si tratta di un testo radicalmente modificato che di fatto svuota la proposta iniziale con la finalità di: a) assicurare ai lavoratori trattamenti retributivi giusti ed equi; b) contrastare il lavoro sottopagato; c) stimolare il rinnovo dei contratti collettivi; d) contrastare i fenomeni di concorrenza sleale attuati mediante la proliferazione di sistemi contrattuali finalizzati alla riduzione del costo del lavoro e delle tutele dei lavoratori (cosiddetto “dumping contrattuale”).
Come si evince dal testo, nell’esercizio della delega, il Governo è tenuto ad attenersi ad una serie di principi e criteri direttivi, primo fra tutti “definire, per ciascuna categoria, i contratti collettivi più applicati, al fine di prevedere che il trattamento economico complessivo minimo del contratto maggiormente applicato costituisca la condizione economica minima da riconoscersi ai lavoratori appartenenti alla medesima categoria”;
In sostanza la previsione di un salario minimo legale è sostituita dalle condizioni economiche dei contratti collettivi “maggiormente applicati” per una data categoria che in ipotesi potrebbero anche prevedere condizioni economiche che non garantiscono una retribuzione dignitosa.
Analoga previsione è indicata nella materia degli appalti ove deve essere posto un obbligo in capo alle società appaltatrici e subappaltatrici di prevedere trattamenti economici minimi per i lavoratori non inferiori a quelli previsti dai contratti collettivi nazionali.
Per i lavoratori non contrattualizzati a livello collettivo la previsione è di “estendere i trattamenti economici complessivi minimi dei contratti collettivi, applicando il contratto della categoria più affine”.
2.3. La relazione del CNEL
Al dibattito parlamentare approdato nella delega al Governo del 6 dicembre 2023 hanno senz’altro contribuito in maniera preminente le osservazioni conclusive in materia di salario minimo elaborate dal CNEL nella relazione del 7 Ottobre 2023.
Le osservazioni conclusive hanno, tra l’altro, posto in rilievo che le rilevazioni sui principali contratti collettivi dimostrano che la tariffa legale di 9 euro lordi prevista dalla proposta di legge è addirittura inferiore alle tariffe orarie minime di tutti i contratti collettivi, sottoscritti dalle confederazioni presenti al CNEL, se letti non fermandosi alla paga base, e questo anche senza tenere conto del trattamento economico complessivo grazie alle prestazioni di welfare aziendale.
Il focus del documento è dato dal punto 2, dedicato alle proposte al Governo in relazione alla prossima legge di Bilancio e al provvedimento denominato "collegato lavoro" e consistono:
- nella creazione all'interno del CNEL di un National Productivity Board, consigliato dall'Unione Europea, per valorizzare il contributo dei corpi intermedi nel controllo delle dinamiche retributive, legandole alle dinamiche produttive, verificare le misure di incentivazione pubblica della contrattazione di prossimità e del welfare aziendale e le misure di detassazione del premio di produttività;
- per il lavoro povero (parasubordinati, temporanei, lavoratori senza contratto o con mansioni discontinue, a tempo parziale involontario) nell’introduzione di una tariffa tramite contrattazione parametrica sugli indicatori della direttiva europea o interventi legislativi per incrementare il numero di ore lavorate e di un monte ore garantito analogo a quello utilizzato dall’agenzia di somministrazione nel contratto collettivo di riferimento, come garanzia occupazionale.
- sul part time nel creare misure legislative per razionalizzare gli interventi a sostegno del lavoro femminile non solo in termini di genere ma anche di sostenibilità del lavoro per persone afflitte da malattie croniche o parziale disabilità.
2.4. Il lavoro povero
Come ben si evince dai rilievi del CNEL, la povertà del lavoro in Italia non sarebbe legata ai salari bassi e per tale motivo l’introduzione del salario minimo non avrebbe un forte impatto sociale.
La questa considerazione è stata contraddetta, nei fatti, da alcuni casi giurisprudenziali di recente sottoposti all’esame della Corte di Cassazione, giunta a conclusioni diametralmente opposte.
Tuttavia, la relazione del CNEL ha il pregio di avere messo in rilievo il fenomeno del lavoro povero legato alla precarietà dell’impiego.
L’ XXII Rapporto annuale INPS ha sottolineato che i lavoratori poveri in Italia sono tali soprattutto perché precari. Il disagio economico non dipende perciò solo dallo stipendio basso ma soprattutto dalle condizioni di lavoro.
L’Istituto ha focalizzato l’attenzione sui “working poors”, cioè i lavoratori con retribuzione inferiore al 60% del valore mediano degli stipendi nazionali.
I lavoratori dunque, sono detti “poveri” se hanno una retribuzione giornaliera lorda di:
• 24,9 euro per i part time, pari a 588 euro al mese;
• 48,3 euro per i full time, pari a 1.116 euro netti mensili.
I lavoratori poveri in Italia sono pari al 6,3%, ovvero a 871.800 unità.
Secondo i dati INPS, che tiene fuori dal calcolo il lavoro agricolo e quello domestico, di tali lavoratori poveri –– 355.000 sono a tempo pieno e 517.000 a part-time.
Secondo le rilevazioni ISTAT, i lavoratori precari sono risultati circa 3 milioni (2.919.000) a luglio 2023.
Per valutare quante persone guadagnano troppo poco per vivere si dovrebbe quindi tener conto del reddito annuo e non prendere come riferimento il salario orario in quanto in Italia ci sono interi settori produttivi interamente basati sul part time e sul precariato come ad esempio il turismo, l’edilizia, i servizi.
Se quindi è vero che il lavoro povero dipende sia dai bassi salari sia dalle poche ore di lavoro (effetto del frequentissimo part time involontario) guardare solo ai salari orari è miope ed impedisce di mettere a fuoco la vera dimensione del fenomeno.
Da quanto detto emerge senza dubbio che il tema del un salario adeguato è complesso ed articolato e non può in alcun modo prescindere da uno sguardo d’insieme sul mercato del lavoro concentrando l’attenzione sui mezzi per contrastare la precarietà e l’utilizzo sempre maggiore di contratti non standard, e sul tema relativo al potere d’acquisto dei salari, inadeguato a contrastare i fenomeni inflattivi.
Tuttavia, in questi ultimi anni i provvedimenti del governo Meloni in tema di lavoro vanno in tutt’altra direzione: il DL n. 43 del 4 maggio 2023 (noto come decreto lavoro) non porta con sé alcuna forma di contrasto al lavoro precario, anzi: si estende l’uso dei voucher ad alcuni settori e si introduce per i contratti a termine l’ipotesi di una causale individuale.
3. Alla ricerca di una retribuzione adeguata
In dottrina è stato acutamente evidenziato che l’art. 36 Cost. disvela il superamento dell’usuale principio di corrispettività tra le prestazioni tipiche del contratto di lavoro (sulla base del quale vi sarebbe, altrimenti, semplicemente la stretta corrispondenza tra lavoro e retribuzione). In virtù dell’art. 36 Cost. tra le ragioni di scambio è, quindi, ricompresa anche la tutela della personalità del lavoratore.
È stato anche puntualizzato che l’art. 36 Cost., nell’integrare in senso sociale la proporzionalità tramite la sufficienza, evidenzia la sua connessione funzionale con l’art. 3, comma 2, Cost. tendendo a rimuovere uno di quegli ostacoli di ordine economico che impediscono il pieno sviluppo della persona umana.
Le ultime sentenze della Corte di Cassazione (cfr. per tutte Cass. 02.10.2023 n° 27722) hanno messo in discussione il ruolo di “autorità salariale” del contratto collettivo stipulato dalle OO.SS. maggiormente rappresentative che da sempre era riconosciuto come fonte privilegiata per la definizione della retribuzione minima.
In sintesi, il livello retributivo minimo fissato dalle parti sociali può essere disatteso in sede giudiziaria, qualora, in concreto, non risulti conforme ai parametri di proporzionalità e sufficienza indicati dall’art. 36 della Costituzione.
La Corte di Cassazione, in sostanza, legittima il potere giudiziario a sindacare nel merito la retribuzione fissata dalle parti collettive e contestualmente lancia un monito al legislatore stabilendo che anche ove fosse approvata una legge sul salario minimo, questo non potrebbe comunque sottrarsi alla verifica giudiziaria circa la conformità ai parametri costituzionali.
L’orientamento della sezione Lavoro della Corte di Cassazione è condiviso anche dalla sezione Penale chiamata a pronunciarsi sulla fattispecie di reato di cui all’art. 603 bis c.p. in tema di sfruttamento del lavoro.
In proposto la recentissima sentenza n° 2573/2024 del 22.01.2024 (relatore Giordano) ove è affermato che: la proporzione tra l'obbligazione retributiva e la qualità e quantità del lavoro prestato, quale limite costituzionale volto a garantire equità e dignità, deve essere mantenuta anche quale metro della difformità e deve prevalere "comunque" anche su una contrattazione collettiva che ipoteticamente non l'abbia rispettata. L'autonomia delle parti sociali non può infatti derogare al principio della retribuzione quale soglia minima di dignità umana e sociale, personale e familiare, espressione degli artt. 2,3,4,36 e 41 Cost.
In breve, non v'è proporzione tra retribuzione e lavoro prestato quando, tenendo conto delle variabili mansionali, dell'effettiva prestazione patrimoniale, comprensiva della paga base e delle eventuali indennità, sviluppato un calcolo per un arco di tempo quotidiano, settimanale o mensile, considerato dalla contrattazione o dagli usi, l'importo del corrispettivo non assicurerebbe al lavoratore e alla sua famiglia un'esistenza libera dal bisogno che lo ha costretto ad accettare quelle date condizioni di lavoro. Tale deve considerarsi una retribuzione al di sotto della soglia di povertà assoluta pur sempre in presenza dell'approfittamento dello stato di bisogno del lavoratore. Tale sproporzione nel caso concreto non va colta, come invece prospetta la difesa dei ricorrenti, con un semplice raffronto tra la somma oggetto di effettiva retribuzione e quella astrattamente prevista dal contratto collettivo di lavoro, ma tra la quantità e qualità del lavoro prestato e quindi tenendo conto dell'attività, delle complessive condizioni di lavoro, e della determinazione delle ore di lavoro prestate rispetto a quanto previsto contrattualmente. Il riferimento per gli operai agricoli non solo al CCNL ma anche a quello provinciale, nella fattispecie di Trapani.
Al riguardo basti osservare che nel caso concreto il confronto non può risolversi tra la somma dei 45 euro netti effettivamente riconosciuti ai quattro lavoratori e la somma di 51 euro netti astrattamente previsti perché si tratta di due somme risultanti da una quantificazione oraria notevolmente diversa: nel caso concreto si riferisce alla somma prodotta da una attività lavorativa di almeno 9 ore al giorno, in condizioni indegne e particolarmente faticose, a fronte invece di una somma contrattualmente riconosciuta per poco più di sei ore al giorno, per cinque giorni a settimana, con tutele, pause, riposo, ferie etc, del tutto sconosciute nel rapporto di lavoro irregolare. La condizione di lavoro emergente dagli atti e ben più gravosa e non riducibile alla mera quantificazione oraria dell'attività lavorativa.
La contrattazione collettiva e le aziende sono perciò chiamate a confrontarsi, nella determinazione dei livelli retributivi minimi, con i parametri utili a verificare la coerenza con il minimo costituzionale costituente la soglia inderogabile sotto la quale una retribuzione diventa illegittima.
3.1. L’individuazione dei parametri di commisurazione del giusto salario minimo costituzionale: Il quadro giurisprudenziale antecedente
La Corte di Cassazione ha più volte ribadito che il giudice ben può utilizzare, quali parametri di riferimento, non solo i contratti collettivi nazionali ma anche i contratti collettivi locali o aziendali e che legittimamente esercita la propria discrezionalità sia nell’esame del rispetto dei canoni di cui all’art. 36 Cost. sia nella stessa scelta dei parametri di commisurazione (in tal senso per tutte Cass. Civ. n. 19467/2007 e Cass. Civ. n. 944/2021).
Analogamente può discostarsi, in relazione al settore del lavoro nelle cooperative, dalla retribuzione determinata per legge poiché deve pur sempre prestarsi ossequio ai principi di cui all’art. 36 Cost. In ogni caso, la retribuzione corrisposta può essere reputata costituzionalmente inadeguata.
In tali casi il giudice può, quindi, far ricorso, sempre a fini parametrici, alla retribuzione stabilita da altri contratti collettivi o anche a risultanze non di natura collettiva quali la natura e le caratteristiche della concreta attività svolta, le nozioni di comune esperienza e anche criteri equitativi (per tutte Cass. Civ. n. 1415/2012 e Cass. Civ. n. 23925/2014).
La giurisprudenza costante ha inoltre sottolineato che la retribuzione prevista dal contratto collettivo è dotata di una presunzione soltanto semplice di adeguatezza ai principi di proporzionalità e sufficienza (per tutte Cass. Civ. n. 12356/2020).
Una conseguenza del riconoscimento della suddetta presunzione semplice è l’onere del dipendente, oltre che di dimostrare le prestazioni lavorative rese e la paga ricevuta, di specificare le motivazioni che inducono a ritenere inadeguato il trattamento stabilito dalla fonte collettiva e praticato nei suoi confronti e cioè di prospettare i parametri di raffronto che, a suo dire, dimostrerebbero l’incongruità della retribuzione spettando poi al giudice l’effettivo riscontro del rispetto dell’art. 36 Cost.
In caso di mancata prospettazione, da parte del lavoratore, di tali differenti parametri di riferimento il trattamento collettivo deve quindi ritenersi adeguato.
In ultimo, nella giurisprudenza è acclarato che nel caso in cui la retribuzione prevista nel contratto di lavoro, individuale o collettivo, risulti inferiore alla soglia minima stabilita dall’art. 36 Cost., la relativa clausola contrattuale debba essere reputata nulla e, in applicazione del principio di conservazione espresso nell’art. 1419, comma 2, c.c., il giudice debba adeguare la stessa retribuzione secondo i criteri di sufficienza e proporzione e con valutazione discrezionale. (per tutte Cass. Civ. n. 944/2021).
3.2. Il giudizio di congruità della retribuzione
Il giudizio di congruità della retribuzione prevede due fasi logiche: la prima è quella della verifica dell’effettiva rispondenza all’art. 36 Cost. del salario corrisposto, la seconda è quella dell’adeguamento ai precetti dell’art. 36 Cost. della retribuzione che sia stata riscontrata come effettivamente ingiusta.
Con riferimento alla prima fase la giurisprudenza di legittimità non è stata finora prodiga di indicazioni sul come utilizzare i parametri di riferimento e, comunque, sul quando un trattamento retributivo (anche conforme ad un contratto collettivo) possa essere ritenuto concretamente violativo dell’art. 36 Cost.
La novità delle sentenze in commento consiste appunto nell’aver fornito all’interprete alcuni utili riferimenti.
Innanzitutto, si sottolinea il richiamo al contenuto della Dir. UE 2022/2041 per evidenziare che il concetto di “sufficienza” significa che deve essere garantito il diritto del lavoratore ad una vita non solo non povera (cioè orientata solo al soddisfacimento di bisogni essenziali) ma, più propriamente, dignitosa. Perciò una retribuzione che si collochi al di sotto o anche sullo stesso piano dell’indice Istat di povertà assoluta non può mai essere reputata congrua.
Il raffronto tra retribuzione effettivamente corrisposta (con esclusione delle maggiorazioni per il lavoro straordinario svolto), da un lato, e l’indice di povertà, dall’altro lato, deve vertere su poste omogenee sicché in concreto deve valutarsi se l’importo netto della retribuzione corrisposta sia o no al di sopra dell’indice di povertà (che, appunto, rispecchia la capacità di acquisto di determinati beni).
Un ragionamento analogo a quello operato in relazione alla soglia di povertà potrebbe essere svolto anche laddove ci si trovi al cospetto di una retribuzione inferiore o pari all’importo della Naspi o della CIG, o del reddito di cittadinanza o inferiore o pari alla soglia di reddito personale per l’accesso alla pensione di inabilità civile.
La Corte ha, difatti, riscontrato l’inutilizzabilità di tali ultimi indicatori come parametri di riferimento sulla base di ragioni assimilabili a quelle appena illustrate circa la soglia di povertà (ha specificato, cioè, che tali indici denotano solo la disponibilità di somme minime utili a garantire al percettore una mera sopravvivenza).
3.3. Gli specifici parametri di raffronto
Il giudice può servirsi a fini parametrici del trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di settori affini per mansioni analoghe o anche di indicatori economici e statistici.
3.3.1. I parametri collettivi
C. App. Milano n. 579/2022: “Il paragone con gli altri CCNL serve, pertanto, a valutare l’adeguatezza della retribuzione perché il fatto che i rappresentanti delle medesime organizzazioni sindacali, nell’ambito di vari altri contratti collettivi, abbiano stimato proporzionata alla stessa quantità e qualità della prestazione una retribuzione nettamente superiore, grava la retribuzione in questione della presunzione contraria (ovvero di non essere conforme all’art. 36 Cost)”
Dall’esame delle decisioni di merito sembra potersi ritenere che il giudice del merito possa utilizzare, quale parametro di commisurazione, il trattamento retributivo stabilito da contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe allorquando, confrontando questi contratti con il contratto collettivo di settore applicato, emerga che i primi stimino come proporzionata e sufficiente una retribuzione nettamente superiore a quella posta dal contratto collettivo di settore. (App. Milano n. 755/2023; App. Torino n. 640/2023; Trib. Bari n. 2720/2023; Trib. Parma n. 18/2023; Trib. Venezia n. 188/2021; Trib. Milano n. 225/2020; Trib. Torino n. 1128/2019).
In tutti questi casi il giudizio di non conformità ai parametri costituzionali del trattamento economico praticato (che sia stato conforme al contratto collettivo di settore) è reso in caso di significativa/non trascurabile divergenza tra quest’ultimo e gli altri addotti come parametri di riferimento.
3.3.2. I parametri economici e statistici
Le sentenze della Corte di Cassazione in commento hanno il merito di suggerire ulteriori strumenti per il giudizio di congruità richiamando nozioni di comune esperienza, valutazioni equitative e quindi indicatori economici e statistici come quelli menzionati dalla Dir. UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022 (tra i quali il 60% del salario lordo mediano ed il 50% del salario lordo medio, anche ricavabili dai dati Uniemens gestiti dall’I.N.P.S.).
3.4. L’adeguamento della retribuzione al salario minimo costituzionale
Una volta verificata la insufficienza della retribuzione concretamente corrisposta, si deve procedere alla determinazione del quantum del salario costituzionale.
In questa seconda operazione la giurisprudenza di merito utilizza, al fine dell’adeguamento, il contratto collettivo-parametro statuente il trattamento retributivo più basso (limitando il riconoscimento alle sole componenti retributive integranti il c.d. “minimo costituzionale”) o statuente il trattamento retributivo mediano.
Se è, quindi, frequente e legittimo il ricorso a parametri anche di natura non contrattuale nella verifica della effettiva rispondenza della retribuzione corrisposta all’art. 36 Cost., una volta che si sia riscontrato il mancato rispetto di tale precetto, l’adeguamento è pur sempre svolto facendo esclusiva applicazione della contrattazione collettiva (seppure, ovviamente, diversa).
L’allontanamento dalla contrattazione collettiva nella valutazione ai sensi dell’art. 36 Cost. è, quindi, solo parziale in quanto il giudice farà pur sempre applicazione della regolamentazione economica collettiva (diversa rispetto a quella eventualmente applicata) nel momento in cui procederà all’adeguamento.
(Immagine: Telemaco Signorini, L’alzaia, 1864, olio su tela, cm 54 x 173, Collezione privata)