ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Sommario: 1. Le coordinate della quaestio iuris - 2. Il conflitto nella giurisprudenza della Corte di Cassazione - 3. La parola alle Sezioni Unite?
1. Le coordinate della quaestio iuris
Punto di partenza di queste concise riflessioni è il dato normativo: l’art. 442, co. 2°, c.p.p. prevede che «In caso di condanna, la pena che il giudice determina tenendo conto di tutte le circostanze è diminuita della metà se si procede per una contravvenzione e di un terzo se si procede per un delitto».
Detta differenza nel regime premiale connesso all’accesso al giudizio abbreviato fu introdotta dall’art. 1, co. 44°, della L. 23 giugno 2017, n. 103, che mirava a renderlo più appetibile di quanto non fosse stato sino ad allora con la riduzione omogenea di un terzo per tutte le tipologie di reato, nella prospettiva di alleggerire il carico di lavoro della macchina giudiziaria anche in funzione di prevenzione generale, dato che quest’ultima beneficia, com’è ovvio, della rapida definizione dei processi[1].
La giurisprudenza di legittimità ha da subito valorizzato gli effetti sostanziali della disposizione, di natura indubbiamente processuale, riconoscendone la retroattività ai sensi dell’art. 2, co. 4°, c.p., con il solo limite dell’irrevocabilità della condanna[2].
Per completare l’inquadramento normativo, va ricordato che, nella medesima ottica di favorire l’accesso al giudizio abbreviato, di recente l’art. 674 c.p.p. è stato interpolato dall’art. 24, lett. c), del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, che ha inserito nell’art. 442 c.p.p. il co. 2°-bis, a mente del quale «quando né l’imputato, né il suo difensore hanno proposto impugnazione contro la sentenza di condanna, la pena inflitta è ulteriormente ridotta di un sesto dal giudice dell’esecuzione». Correlativamente, peraltro, l’art. 39, co. 1°, lett. b) del D.Lgs. n. 150 del 2022 ha modificato l’art. 676, co. 1°, c.p.p. per stabilire che la diminuente esecutiva[3] si applica de plano ai sensi dell’art. 667, co. 4°, c.p.p., salva l’eventuale opposizione davanti allo stesso giudice, che allora procede nelle forme dell’art. 127 c.p.p.[4].
Quanto, poi, al formante giurisprudenziale, occorre sinteticamente evidenziare che le Sezioni Unite Penali hanno avuto modo di precisare che:
a) la riduzione derivante dal rito abbreviato opera rispetto alla pena quantificata in concreto, all’esito del giudizio di prevalenza o di equivalenza tra le eventuali circostanze aggravanti e attenuanti (testualmente, «tenendo conto di tutte le circostanze») e al lume dei parametri indicati dall’art. 133 c.p., nonché dopo gli aumenti operati per la continuazione ai sensi dell’art. 81, co. 2°, c.p., come si evince dall’implicito richiamo operato dall'art. 442, co. 2°, c.p.p. all’art. 533, co. 2°, c.p.p.[5]
Al riguardo va, in particolare rimarcato che l’ordine che il giudice deve seguire nelle operazioni di calcolo della pena, nel quale la diminuente del rito è successiva a tutte le altre, è funzionale ad un processo in cui sono stati giudicati tutti i reati riuniti per continuazione al fine di determinare una pena complessiva[6];
b) in tema di reato continuato, il giudice, nel determinare la pena complessiva, oltre ad individuare il reato più grave e stabilire la pena base, deve quindi calcolare e motivare l’aumento di pena in modo distinto per ciascuno dei reati satellite, tenuto conto del tenore dell’art. 533, co. 2°, c.p.p. e anche al fine di consentire di verificare se abbia rispettato il precetto posto dal co. 3° dell’art. 81 c.p. E ciò, sul presupposto che il reato continuato non è un ente unitario[7];
c) il cumulo giuridico, infatti, si scioglie quando ciò è più favorevole per l’imputato[8], ad esempio ai fini di prescrizione[9], indulto[10], estinzione delle misure cautelari personali[11], sostituzione delle pene detentive brevi, benefici penitenziari[12];
d) la riduzione della metà deve avere luogo persino quando la pena irrogata dal giudice di primo grado sia inferiore al minimo edittale, poiché l’art. 442, co. 2°, c.p.p. scolpisce un obbligo tassativo e inderogabile «al quale il giudice non può sottrarsi, spettando correlativamente all'imputato il diritto a vedersi decurtata la pena nella esatta dimensione prevista dalla legge» [grassetto e sottolineatura aggiunti dallo scrivente, n.d.r.].
Ciò trova conferma nell’art. 438, co. 6°-ter, c.p.p., che prevede che il giudice del dibattimento è tenuto ad applicare la riduzione in questione laddove all’esito dello stesso ritenga erronea la declaratoria di inammissibilità della richiesta di giudizio abbreviato pronunciata dal giudice dell’udienza preliminare ai sensi del precedente co. 1°-bis[13].
2. Il conflitto nella giurisprudenza della Corte di Cassazione
Tanto premesso, occorre prendere atto che la giurisprudenza della Suprema Corte si è divaricata in due orientamenti (anche con pronunce rese dalla medesima Sezione) circa il quantum della riduzione di pena in caso condanna emessa all’esito di giudizio abbreviato e avente ad oggetto delitti e contravvenzioni avvinti dal vincolo della continuazione (ma analoghe considerazioni dovrebbero valere pure per il concorso formale), evenienza alquanto ricorrente nella prassi (si pensi alle rapine o alle resistenze a pubblico ufficiale perpetrate con strumenti atti ad offendere portati fuori dall’abitazione).
Per un primo indirizzo, l’art. 442, co. 2°, c.p.p., come novellato dalla L. 23 maggio 2017, n. 103, impone di operare la diminuzione processuale distintamente: sulla pena base e sugli aumenti disposti per i delitti nella misura di un terzo, mentre gli incrementi sanzionatori concernenti le contravvenzioni vanno ridotti della metà[14].
Questi, in sintesi, gli argomenti addotti a sostegno:
Per il secondo orientamento, viceversa, la riduzione prevista dall’art. 442, co. 2°, c.p.p., opera nella misura di un terzo prevista per i delitti anche per le contravvenzioni ad essi avvinte dal vincolo della continuazione (o in concorso formale), sulla scorta dei seguenti argomenti:
3. La parola alle Sezioni Unite?
L’innegabile spaesamento che le dicotomiche prese di posizione della giurisprudenza di legittimità generano nel giudice di merito e, ancor prima, nell’imputato chiamato a valutare se optare per il rito suggerisce che la questione affrontata in queste pagine è tutt’altro che secondaria e merita l’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 618 c.p.p., anche al fine di evitare che siano incentivate impugnazioni mosse dalla speranza che il decisore d’appello segua l’orientamento più favorevole.
Ed invero, le pronunce vagliate nel precedente paragrafo menzionano espressamente quelle espressive della contrapposta interpretazione, di talché appare senz’altro superata la soglia dell’ordinario svolgimento di una riflessione giurisprudenziale in progressivo affinamento, giacché le relative posizioni ermeneutiche si sono sedimentate nel corso di un quadriennio e non ne è prevedibile un’ulteriore evoluzione[24].
E ciò, sebbene di recente la Sesta Sezione della Cassazione Penale abbia concluso in senso diametralmente opposto, negando, però, in modo tautologico un contrasto che affiora nitidamente dalle argomentazioni spese per confutare quelle impiegate dalla tesi opposta[25].
Al riguardo va ricordato che, come ha statuito anche la Corte E.D.U., in ogni sistema giudiziario insorgono contrasti giurisprudenziali tra giudici di merito, ma il ruolo di una giurisdizione suprema è quello di risolverli; se in seno ad essa si sviluppano orientamenti divergenti, invece, ne risulta minato il principio della sicurezza giuridica e si riduce la fiducia del pubblico nell’autorità giudiziaria, entrambi componenti fondamentali dello Stato di diritto[26].
Ciò detto, a parere dello scrivente la soluzione preferibile è quella che impone di modulare la riduzione di pena sulla natura del reato, per i condivisibili argomenti portati a suffragio dall’orientamento che la sostiene (invero, apparentemente maggioritario), nonché per queste ulteriori considerazioni:
I) di fatto, la tesi contraria si risolve in una disapplicazione del dettato dell’art. 442, co. 2°, c.p.p. in un numero assai rilevante di casi, producendo ricadute sfavorevoli sul piano processuale che stridono con la portata mitigatoria del trattamento sanzionatorio derivante dal cumulo giuridico, depotenziato sul versante processuale senza una plausibile ragione;
II) l’incentivo all’accesso al giudizio abbreviato potrebbe essere almeno in parte fiaccato dalla prospettiva di fruire di uno sconto ridotto dalla metà a un terzo, anche perché si riverbera proporzionalmente pure sulla decurtazione di un sesto di cui al co. 2°-bis dell’art. 442 c.p.p., a discapito della finalità deflattiva perseguita dalla L. n. 103 del 2017 e dal D. Lgs. n. 150 del 2022;
III) il diritto dell’imputato a vedersi decurtata la pena nella esatta (e automatica) dimensione prevista dalla Legge, anche oltre il limite edittale inferiore, non può essere conculcato in via interpretativa dal giudice, tanto meno adducendo apoditticamente che il trattamento più favorevole sarebbe ingiustificato, giacché esso deriva da un’espressa disposizione del codice di rito (quella di cui si discute)[27];
IV) l’unificazione quoad poenam disciplinata dagli artt. 76 e 81 c.p. opera sul piano sostanziale, cioè in una fase logicamente e giuridicamente antecedente nella determinazione della pena rispetto a quella in cui interviene la riduzione processuale di cui si discute;
V) non appare decisivo il dettato dell’art. 533, co. 2°, c.p.p., giacché non contiene alcun riferimento esplicito a una pena necessariamente unitaria, ma rinvia soltanto alla disciplina dettata dai suddetti articoli del c.p.;
VI) soprattutto, l’art. 76 c.p. concerne le pene unificate nell’ambito del cumulo materiale disciplinato dal richiamato art. 73 c.p. e non già di quello – ontologicamente differente[28] – giuridico, normato dal successivo art. 81 c.p., bipartizione che peraltro si riflette anche sulla disciplina processuale della fase esecutiva, dettata rispettivamente dagli art. 663 e 671 c.p.p.
L’unitarietà ad ogni effetto giuridico della pena non si presta dunque a essere esportata nell’ambito della continuazione o del concorso formale dei reati, tant’è vero che che le Sezioni Unite nel noto caso Giglia[29] hanno statuito che il criterio dell’incremento sanzionatorio “per moltiplicazione” dettato dall’art. 81 c.p. si atteggia soltanto nel caso di pene di specie diversa (reclusione – arresto o multa – ammenda) come quello dettato dall’art. 76, co. 2°, c.p. (testualmente, è «in linea» con la predetta previsione), al fine di spiegare in che modo esso operi con un apprezzabile sforzo di coerenza sistematica;
VII) coerentemente, lo scioglimento del vincolo della continuazione (o del concorso formale) è fisiologico allorquando è favorevole, come nel caso di specie, perché la porzione di pena inflitta, in aumento, per la/e contravvenzione/i satellite resta autonoma anche a tal fine (e perciò deve essere specificamente indicata), per quanto amalgamata (anche previa conversione ai sensi dell’art. 135 c.p.) a quella del delitto che fissa la pena base, sulla scorta dei criteri dettati dalle Sezioni Unite Giglia[30].
[1] Cfr. Cass. Pen., Sez. Un., 21 maggio 1991, n. 7707, in C.E.D. Cass., Volpe, in mot., che richiama sul punto la Legge delega 16 febbraio 1987, n. 81 (art. 2, direttiva 53) e la relazione al progetto preliminare.
[2] Cfr., ex plurimis, Cass. Pen.: Sez. IV, 15 novembre 2023, n. 49506, in C.E.D. Cass., non mass., 2 mot. dir.; Sez. Un., 31 marzo 2022, n. 47182, in C.E.D. Cass., Savini, 12 mot. dir.; Sez. Un., 17 dicembre 2020, n. 7578 (dep. 26 febbraio 2021), in C.E.D. Cass., Aquistapace, non mass. sul punto, 2 mot. dir.; Sez. IV, 15 gennaio 2019, n. 5034, in C.E.D. Cass., Rv. 275218 – 01; Sez. IV, 15 dicembre 2017, n. 832 (dep. 11 gennaio 2018), in C.E.D. Cass., Rv. 271752 – 01.
Anche le pronunce della Corte Costituzionale depongono nello stesso senso; si vedano Corte Cost. 3 luglio 2013, n. 210 e 3 dicembre 2020, n. 260.
Sul carattere processuale della riduzione dettata dall’art. 442, co. 2°, c.p.p. cfr. anche Cass. Pen.: Sez. Un., 22 febbraio 2018, n. 35852, in C.E.D. Cass., Cesarano, non mass. sul punto, 4 mot. dir.; Sez. Un., 21 maggio 1991, n. 7707, in C.E.D. Cass., Rv. 187851 – 01, Volpe.
[3] V. Relazione illustrativa allo schema di decreto legislativo recante attuazione della L. 27 settembre 2021, n. 134.
[4] Cfr. Rel. Mass. Cass. n. 2/2023, 5 gennaio 2023, pp. 119 – 120, dove si precisa che l’eventuale ricorso per Cassazione avverso il provvedimento del Giudice dell’Esecuzione di accoglimento o di rigetto della richiesta di riduzione di un sesto deve essere riqualificato come opposizione.
Per V. Maffeo, Efficienza e deflazione processuale nella riforma dei procedimenti speciali (legge n. 134 del 2021 e d.lg. n. 150 del 2022), in Cass. Pen., 2023, 1, pp. 32 e ss. si tratta di una larvata minaccia di perdere il premio processuale in caso di impugnazione.
[5] Cfr., ex plurimis, Cass. Pen.: Sez. Un., 22 febbraio 2018, n. 35852, cit., non mass. sul punto, 5.2 mot. dir.; Sez. Un., 25 ottobre 2007, n. 45583, in C.E.D. Cass., Rv. 237692 – 01, P.M. in proc. Volpe.
[6] Cfr. Cass. Pen., Sez. Un., 22 febbraio 2018, n. 35852, cit., non mass. sul punto, 5.2 mot. dir. In dottrina, A. Conz, Il concorso applicativo delle norme penali sostanziali e processuali, in Dir. Pen. Proc., 2008, p. 1405
[7] Cfr. Cass. Pen., Sez. Un., 24 giugno 2021, n. 47127, in C.E.D. Cass., Rv. 282269 – 01, Pizzone, in particolare 6.3 mot. dir., ma già: Sez. Un., 21 giugno 2018, n. 40983, in C.E.D. Cass., Rv. 273750 – 01, Giglia; Sez. Un., 28 febbraio 2013, n. 25939, in C.E.D. Cass., Rv. 255347 – 01, Ciabotti, non mass. sul punto; Sez. Un., 21 aprile 1995, n. 7930, in C.E.D. Cass., Rv. 201549 – 01, Zouine.
[8] Cfr. Cass. Pen., Sez. Un., 24 giugno 2021, n. 47127, cit., non mass. sul punto, 5 mot. dir.; Sez. Un., 26 febbraio 2015, n. 22471, in C.E.D. Cass., Rv. 263717 – 01, Sebbar, non mass. sul punto, 11.1 mot. dir.
[9] Cfr. Cass. Pen., Sez. Un., 24 gennaio 1996, n. 2780, in C.E.D. Cass., Panigoni, Rv. 203977 – 01.
[10] Cfr. Cass. Pen., Sez. Un., 24 gennaio 1996, n. 2780, in C.E.D. Cass., Panigoni, Rv. 203976 – 01.
[11] Cfr. Cass. Pen., Sez. Un., 26 marzo 2009, n. 25956, in C.E.D. Cass., Rv. 243588 – 01, Vitale; Sez. Un., 26 febbraio 1997, n. 1, in C.E.D. Cass., Rv. 207939 – 01, Mammoliti.
[12] Cfr. Cass. Pen., Sez. Un., 30 giugno 1999, n. 14, in C.E.D. Cass., Rv. 214355 – 01, Ronga.
[13] Cfr. Cass. Pen., Sez. Un., 17 dicembre 2020, n. 7578 (dep. 26 febbraio 2021), in C.E.D. Cass., Acquistapace, non mass. sul punto, 7 mot. dir.
[14] Limitandosi a richiamare le sole pronunce non oggetto di massimazione ufficiale più recenti cfr., ex plurimis, Cass. Pen.: Sez. V, 29 novembre 2023, n. 1168 (dep. 10 gennaio 2024), in C.E.D. Cass., non mass., 2 mot. dir.; Sez. II, 4 aprile 2023, n. 33454, in C.E.D. Cass., Rv. 285023 – 01, nonché in latribuna.it, 31 luglio 2023, con osservazioni di V. De Gioia; Sez. I, 6 luglio 2023, n. 36361, in C.E.D. Cass., non mass., 4 mot. dir.; Sez. I, 24 maggio 2019, n. 39087, in C.E.D. Cass., Rv. 276869 – 01; Sez. II, 27 febbraio 2019, n. 14068, in C.E.D. Cass., Rv. 275772 – 01.
[15] V. Cass. Pen., Sez. II, 4 aprile 2023, n. 33454, cit., 1.3 mot. dir.; Sez. I, 24 maggio 2019, n. 39087, cit., 3.2 mot. dir.; Sez. II, 27 febbraio 2019, n. 14068, cit., 1.3 mot. dir.
[16] V. Cass. Pen., Sez. II, 4 aprile 2023, n. 33454, cit., 1.3 mot. dir.
[17] V. Cass. Pen., Sez. II, 27 febbraio 2019, n. 14068, cit., 1.2 mot. dir.
[18] V. Cass. Pen., Sez. II, 4 aprile 2023, n. 33454, cit., 1.3 mot. dir.
[19] Anche in questo caso, il campo viene circoscritto alle pronunce non oggetto di massimazione ufficiale più recenti. Cfr., ex plurimis, Cass. Pen.: Sez. VI, 6 ottobre 2023, n. 51221, in C.E.D. Cass., non mass., 2 mot. dir.; Sez. II, 17 gennaio 2023, n. 40079, in C.E.D. Cass., non mass., 2.7 mot. dir.; Sez. II, 13 settembre 2023, n. 38440, in C.E.D. Cass., non mass., 1.1 mot. dir.; Sez. II, 17 gennaio 2023, n. 40079, in C.E.D. Cass., Rv. 285218 – 01; Sez. VI, 7 novembre 2022, n. 48834, in C.E.D. Cass., Rv. 284076 – 01; Sez. III, 6 luglio 2021, n. 41755, in C.E.D. Cass., Rv. 282670 – 01.
[20] Anche in C.E.D. Cass., Rv. 273751 – 01.
[21] Cfr. Cass. Pen., Sez. VI, 6 ottobre 2023, n. 51221, in C.E.D. Cass., non mass., 2.2 mot. dir., rifacendosi a Sez. Un., 25 ottobre 2007, n. 45583, cit.
[22] Cfr. Cass. Pen., Sez. VI, 6 ottobre 2023, n. 51221, in C.E.D. Cass., non mass., 2.3 mot. dir.
[23] Cfr. Cass. Pen., Sez. VI, 6 ottobre 2023, n. 51221, in C.E.D. Cass., non mass., 2.4 mot. dir.
[24] Sui presupposti per rimettere una questione alle Sezioni Unite cfr., ex plurimis, Cass. Pen.: Sez. V, 25 gennaio 2023, n. 12540, in C.E.D. Cass., non mass., 2 mot. dir.; Sez. III, 1° dicembre 2022, n. 552 (dep. 11 gennaio 2023), in C.E.D. Cass., non mass., 2 mot. dir.; Sez. IV, 23 maggio 2019, n. 39766, in C.E.D. Cass., Rv. 277559 – 02.
[25] V. Cass. Pen., Sez. VI, 6 ottobre 2023, n. 51221, in C.E.D. Cass., non mass., 1 mot. dir.
[26] Tra le altre, Corte E.D.U., 30 luglio 2015, Ferreira Santos Pardal c. Portogallo (ric. 30123/10). Sul punto, e più in generale sulla funzione nomofilattica, di recente E. Lupo, Il giudizio interpretativo tra norma scritta e diritto effettivo, in giustiziainsieme.it, 28 dicembre 2023.
[27] V. Cass. Pen., Sez. VI, 6 ottobre 2023, n. 51221, in C.E.D. Cass., non mass., 2.3 e 2.4 mot. dir., che sul punto pare incorrere nella petizione di principio che imputa all’orientamento avverso.
[28] Sulle origini storiche della differenza tra cumulo materiale e giuridico, nella manualistica v. G. Marinucci - E. Dolcini - G. L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte Generale, Milano, 2019, p. 580; quanto ai motivi ispiratori della riforma del 1974, G. Fiandaca - E. Musco, Diritto Penale. Parte generale, Bologna, 2014, pp. 702 – 703, che peraltro a pp. 699 – 700 dubitano che il concorso materiale costituisca autonomo istituto di diritto penale sostanziale e non già mera disciplina dell’unificazione in via esecutiva delle sanzioni applicabili al soggetto.
[29] Cfr. Cass. Pen., Sez. Un., 21 giugno 2018, n. 40983, cit., in particolare 6.1. mot. dir.
[30] Cfr. Cass. Pen., Sez. Un., 21 giugno 2018, n. 40983, cit., in particolare 6.1. e 6.2 mot. dir.
Annullamento in autotutela del permesso di costruire, legittimo affidamento del privato e responsabilità dell’Ente comunale (nota a Cons. di Stato, 17 novembre 2023, n. 9879)
di Silia Gardini
Sommario: 1. Inquadramento della vicenda oggetto di controversia – 2. Note sulla tutela dell’affidamento del privato in relazione a un provvedimento illegittimo della pubblica amministrazione – 3. (segue) Affidamento, colpa e responsabilità – 4. La decisione del Consiglio di Stato.
1. Inquadramento della vicenda oggetto di controversia
Il Consiglio di Stato, con la sentenza in commento, ha avuto modo di esprimersi in merito alla configurabilità di una responsabilità in capo all’amministrazione comunale a seguito dell’annullamento d’ufficio di un permesso di costruire rivelatosi illegittimo.
Nel caso di specie, con il permesso di costruire era stata autorizzata l’installazione di un manufatto prefabbricato in legno su un’area confinante con un tratto autostradale, in violazione del vincolo di inedificabilità sussistente nella fascia di rispetto stradale. Tale vincolo non era stato evidenziato in sede di asseverazione dell’intervento (da parte del progettista incaricato dai privati richiedenti) e lo stesso Ente comunale non ne aveva rilevato la presenza nel corso dell’istruttoria, omettendo altresì di richiedere il prescritto parere della Società Autostrade per l’Italia (ASPI). Peraltro, anche gli strumenti urbanistici – in particolare, gli elaborati allegati al Piano generale del traffico urbano (PGTU) – vigenti al momento del rilascio del permesso di costruire non risultavano aggiornati, poiché classificavano il tratto autostradale interessato come strada extraurbana di tipo B, anziché come autostrada di tipo A.
Soltanto a seguito dell’espressa opposizione di ASPI, alla quale i privati – dopo aver ricevuto un controllo ispettivo – avevano avanzato istanza di parere in sanatoria, il Comune aveva disposto l’annullamento in autotutela del titolo e, contestualmente, ordinato la demolizione dell’opera abusiva e il ripristino dello stato dei luoghi.
L’annullamento posto in essere dal Comune era giustificato dal fatto che – come costantemente ribadito dalla giurisprudenza di merito – il vincolo di inedificabilità sussistente nella fascia di rispetto stradale ha carattere inderogabile. Esso, infatti, prescinde dalla stessa programmazione urbanistica e risulta correlato alla superiore necessità di mantenere la via libera da ostacoli materiali che potrebbero determinare pregiudizio alla sicurezza del traffico e delle persone, nonché all’esigenza di assicurare, nel tempo, la manutenzione e l’ampliamento delle strade. L’effetto che ne discende è, così, quello della inedificabilità assoluta e della insanabilità dei manufatti eventualmente realizzati nell’ambito della c.d. “fascia di rispetto”, «indipendentemente dalle caratteristiche dell’opera (…) e dalla necessità di accertamento in concreto dei connessi rischi per la circolazione stradale»[i].
Il Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia-Romagna, investito della vicenda in primo grado, aveva dunque correttamente rilevato l’infondatezza della domanda di annullamento presentata dai privati avverso il provvedimento demolitorio di secondo grado, qualificando l’agire comunale, in assenza di ulteriori vizi procedimentali, come pienamente legittimo[ii]. Il T.A.R. bolognese si era, però, pronunciato negativamente anche con riferimento alla domanda risarcitoria proposta in via subordinata, dichiarandola inammissibile.
Dirimente, in tale direzione, era stata considerata la colpa dei ricorrenti.
Infatti, sebbene il Comune non avesse né rilevato autonomamente la presenza del vincolo, né provveduto ad acquisire il parere dell’Ente gestore della strada, l’asseverazione del progettista in ordine alla conformità del manufatto alla normativa edilizia e urbanistica in vigore allegata alla richiesta di permesso di costruire (comprendente, nello specifico, anche la dichiarazione di assenza di vincoli impeditivi dell’edificazione) aveva – ad avviso del Collegio – fuorviato l’agire dell’Amministrazione comunale, contribuendo irrimediabilmente al deficit istruttorio e violando il principio di leale collaborazione posto in capo alla parte privata.
Da qui il “depotenziamento” della pretesa risarcitoria avanzata, tale da impedire ab origine la configurazione di un danno “ingiusto” in capo ai privati[iii].
Il Consiglio di Stato, investito in appello della controversia, è pervenuto a conclusioni diverse, riformando parzialmente la sentenza di primo grafo alla luce dell’iter argomentativo che sarà esaminato nei paragrafi successivi.
2. Note sulla tutela dell’affidamento del privato in relazione a un provvedimento illegittimo della pubblica amministrazione
Dall’analisi della pronuncia in commento emerge la necessità di approfondire il tema della “tutelabilità” dell’affidamento del cittadino rispetto a un provvedimento amministrativo di cui venga successivamente dichiarata l’illegittimità e – di riflesso – della possibilità di configurare, in tali casi, una responsabilità in capo all’amministrazione.
Com’è noto, l’affidamento è un istituto che trae origine nei rapporti di diritto civile e che risponde all’esigenza di riconoscere tutela alla fiducia ragionevolmente riposta o nell’esistenza di una situazione, apparentemente corrispondente a quella reale, da altri creata[iv] ovvero nella correttezza del comportamento altrui (caso, quest’ultimo, in cui trova diffusa applicazione il principio di buona fede[v]).
Nell’ambito dei rapporti di diritto amministrativo, il tema della tutela dell’affidamento assume rilevanza con riferimento al convincimento del privato sulla legittimità (e, dunque, stabilità) degli atti e dei provvedimenti della P.A. e, più in generale, sulla correttezza del suo operato, in virtù del quale può configurarsi una situazione giuridica soggettiva autonomamente tutelabile attraverso il rimedio del risarcimento del danno[vi]. L’affidamento viene, infatti, definito dal Consiglio di Stato come «principio generale dell’azione amministrativa che opera in presenza di una attività della pubblica amministrazione che fa sorgere nel destinatario l’aspettativa al mantenimento nel tempo del rapporto giuridico sorto a seguito di tale attività»[vii]. In tali casi, «(…) è configurabile un affidamento del privato sul legittimo esercizio di tale potere e sull’operato dell’amministrazione conforme ai principi di correttezza e buona fede, fonte per quest’ultima di responsabilità […]»[viii].
È bene evidenziare che, in tale contesto, le regole di legittimità e quelle di correttezza operano su piani differenti: mentre l’uno è relativo alla validità degli atti amministrativi, l’altro prescinde dai vizi intrinseci del provvedimento e riflette la responsabilità dell’amministrazione per la violazione del principio di buona fede[ix]. In quest’ultimo caso, dunque, l’interesse materiale che si riconnette alla tutela dell’affidamento del privato risulta tutelabile in via risarcitoria non soltanto laddove la pretesa sia sorretta da legittime ragioni di diritto (che potrebbero essere “assorbite” dalla pronuncia sui vizi del provvedimento), bensì ogni qual volta l’amministrazione, con il proprio comportamento, susciti una ragionevole aspettativa all’ottenimento e al mantenimento del bene della vita, a prescindere dal fatto che esso sia effettivamente dovuto[x].
L’affidamento può sussistere ed essere risarcibile e, al contempo, l’interesse finale che si collega alla stessa situazione di affidamento potrebbe risultare (legittimamente) non soddisfatto. In altre parole, la lesione dell’aspettativa del privato può essere rilevante anche con riferimento all’affidamento su atti e provvedimenti di cui, attraverso un intervento – giurisdizionale o amministrativo – sia stata rilevata poi l’illegittimità e, dunque, disposto l’annullamento. In tale direzione, come autorevolmente rilevato in dottrina, «il fatto che il principio di buona fede si traduca nella tutela degli effetti di un atto invalido non è fenomeno abnorme, ma, al contrario, perfettamente conforme alla vettorialità dell’intero ordinamento giuridico»[xi].
Ben si comprende, allora, come dall’esercizio legittimo del potere di annullamento d’ufficio del provvedimento invalido possa emergere il dovere di ristorare il pregiudizio economico patito dal cittadino. Invero, la disciplina dell’annullamento d’ufficio, contenuta nell’art. 21-nonies della legge sul procedimento, è comunemente considerata espressione diretta del principio di tutela dell’affidamento del privato[xii], che si presenta come un vero e proprio “limite” (tradotto dal legislatore, nelle fattispecie espressamente previste, nel termine temporale dei dodici mesi) all’esercizio del potere discrezionale dell’amministrazione[xiii]. Ai nostri fini, come rilevato in dottrina[xiv], risulta necesario distinguere la figura dell’affidamento legittimo da quella dell’affidamento incolpevole di matrice civilistica, che fa capo al principio di buona fede. Poiché l’annullamento d’ufficio può intervenire legittimamente solo qualora le ragioni caducatorie prevalgano su quelle della conservazione della situazione esistente, la tutela del legittimo affidamento assume natura preventiva e dipende dal “peso” che assume l’interesse alla conservazione dello stato di fatto prodotto dal provvedimento rispetto all’interesse opposto al ripristino della legalità violata.
Diversamente, l’affidamento incolpevole emerge successivamente all’annullamento del provvedimento favorevole, laddove – in presenza di particolari circostanze idonee a giustificare l’affidamento nella conservazione della situazione giuridica acquisita – emerga la necessità di offrire protezione contro le conseguenze dannose derivanti da una fiducia mal riposta. La tutela, in questo caso, non è volta a ristorare il bene della vita perduto in conseguenza dell’annullamento del provvedimento, ma a risarcire il convincimento ragionevole che esso spettasse. Proprio in tale contesto si configura la responsabilità civile dell’amministrazione per il danno da affidamento[xv], connesso ai doveri di buona fede e correttezza.
La giurisprudenza ha inquadrato i limiti all’ammissibilità del risarcimento facendo leva principalmente sulla “bilateralità” dei principi di correttezza e buona fede[xvi], responsabilizzando dunque il privato nell’ottica della più proficua collaborazione alla formazione della decisione amministrativa che emerge, in particolare, dall’art. 1, comma 2-bis, della legge 7 agosto 1990, n. 241, a norma del quale: “(i) rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione sono improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede”.
L’elemento soggettivo del privato è considerato, dunque, elemento costitutivo dell’affidamento tutelabile in via risarcitoria.
3. (segue) Affidamento, colpa e responsabilità
Le coordinate ermeneutiche fornite dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato ci dicono che l’affidamento, ai fini della tutela risarcitoria, «deve essere ragionevole, id est incolpevole»[xvii] e che deve avere alla base (anche ai fini del radicamento della giurisdizione amministrativa) una situazione di apparenza creata dall’Amministrazione o con il provvedimento, oppure con il comportamento correlato all’esercizio del potere.
L’assenza di colpa non dovrebbe, tuttavia, tradursi nell’assenza di qualsivoglia apporto del soggetto privato alla formazione della decisione amministrativa.
Assodato che, al fine della migliore estrinsecazione del potere pubblico, il procedimento necessiti del contributo di soggetti diversi dall’Amministrazione, nelle forme previste dalla legge n. 241/1990, rimane tuttavia necessario non dimenticare che l’unica titolare della cura dell’interesse pubblico è l’Amministrazione. L’introduzione degli istituti partecipativi e la più recente positivizzazione dei doveri di correttezza e buona fede in ambito procedimentale, pur avendo notevole rilevanza e meritando la più attenta valorizzazione, non fanno venir meno il carattere unilaterale del provvedimento amministrativo e soprattutto la sua inerenza all’esercizio di un potere correlato a finalità istituzionali tipizzate per legge, di cui l’Amministrazione è e resta unica responsabile. Così, nell’ambito dei procedimenti volti al rilascio di provvedimenti ampliativi della sfera giuridica del privato, l’interessato – a prescindere dall’aspettativa da esso vantata – potrà conseguire il provvedimento favorevole solo laddove l’Amministrazione lo ritenga, a ragione o torto, conforme al primario interesse pubblico.
Il T.A.R. Emilia-Romagna, investito in primo grado della vicenda contenziosa oggetto della pronuncia annotata, aveva assunto un orientamento restrittivo con riguardo alla possibilità di riconoscere la responsabilità dell’Amministrazione nella formazione dell’atto illegittimo (e alla conseguente configurabilità di un danno ingiusto), centralizzando invece l’attenzione sulla c.d. “autoresponsabilità” del privato[xviii], che aveva contribuito alla predisposizione di un provvedimento contra legem.
Sebbene la necessità di modulazione del principio di buona fede con quello di autoresponsabilità sia un dato non contestabile, almeno in relazione a quelli che il Consiglio di Stato ha definito come “oneri minimi di cooperazione”[xix],una interpretazione estrema in tale direzione – che consideri qualsivoglia contributo del privato all’emanazione dell’atto (poi dichiarato illegittimo) come elemento escludente – finirebbe per negare tout-court il ricorso alla tutela risarcitoria, dal momento che in tutti i procedimenti autorizzatori il privato titolare dell’interesse pretensivo mantiene un ruolo attivo rilevante, a partire dal momento della presentazione dell’istanza. È, dunque, necessario individuare il limite oltre il quale le azioni del privato assumano i connotati di una consapevolezza idonea ad escludere la configurazione di un affidamento incolpevole.
Della questione si è di recente occupata, come sopra ricordato, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, che – con le sentenze del 29 novembre 2021, n. 19 e n. 20 – ha avuto modo di chiarire in presenza di quali condizioni, a fronte dell’annullamento di un provvedimento accrescitivo rivelatosi illegittimo, possa sorgere in capo al privato un affidamento giuridicamente rilevante e risarcibile[xx].
Punto di partenza è l’accostamento – ormai pacifico per la giurisprudenza amministrativa maggioritaria – della responsabilità della P.A. per illegittimo esercizio della funzione, sia pure con talune particolarità, all’art. 2043 c.c. Quando l’atto è illegittimo, l’elemento soggettivo della colpa previsto dallo schema di responsabilità aquiliana si intende presunto, ma (trattandosi di una presunzione semplice) rimane superabile dall’Amministrazione con la prova contraria dell’errore scusabile[xxi]. In particolare, per il danno da lesione dell’affidamento su un provvedimento favorevole poi annullato, la colpa dell’amministrazione può essere esclusa o attenuata avendo riguardo all’evidenza dell’illegittimità del provvedimento, tale da far ritenere che il privato potesse facilmente esserne consapevole. Sul punto l’Adunanza plenaria ha, infatti, affermato che «la responsabilità dell’amministrazione per lesione dell’affidamento ingenerato nel destinatario di un suo provvedimento favorevole (…) postula che sulla sua legittimità sia sorto un ragionevole convincimento, il quale è escluso in caso di illegittimità evidente o quando il medesimo destinatario abbia conoscenza dell’impugnazione contro lo stesso provvedimento»[xxii].
Dunque, affinché possano configurarsi i presupposti per la tutela risarcitoria, non è richiesto il mancato apporto del privato alla costruzione di una decisione amministrativa poi rivelatasi illegittima, ipotesi non contemplabile nella realtà procedimentale; è tuttavia necessario che la causa di illegittimità o irregolarità (che ha, poi, condotto all’annullamento del provvedimento) non sia nota o, comunque, non sia conoscibile e comprensibile in base all’ordinaria diligenza da parte del privato.
4. La decisione del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato, come sopra accennato, ha ribaltato parzialmente la decisione assunta in primo grado dal T.A.R. Emilia-Romagna. L’importanza della pronuncia sta nel riconoscimento della corresponsabilità dell’amministrazione e, ancor di più, nella ammissione della tutela risarcitoria (seppur parziale) in presenza di un concorso di colpa espressamente riconosciuto in capo al privato.
Ad avviso del Collegio di Palazzo Spada, il Tribunale, dopo aver correttamente rilevato la “obiettiva negligenza degli uffici” nel non avvedersi del vincolo gravante sull’area degli appellanti, non aveva tratto dalle proprie affermazioni le dovute conseguenze sul piano giuridico. L’attenzione era stata, infatti, focalizzata esclusivamente sulla corresponsabilità dei privati nell’indurre in errore l’Ente comunale circa l’esistenza del vincolo medesimo, stabilendo che «la disattenzione [del Comune] avrebbe potuto essere rimediata con la puntuale indicazione dell’esistenza del vincolo»[xxiii].
In verità, lo stesso Comune non avrebbe dovuto ignorare l’esistenza del vincolo, dal momento che la vicenda era stata oggetto di una delibera di Giunta del 2010 (due anni prima del rilascio del permesso di costruire, del 2012), con la quale era stata rilevato che il tratto autostradale interessato era qualificato negli strumenti urbanistici come strada “Extraurbana principale” di tipo “B” (come tale non soggetta ad alcuna fascia di rispetto all’interno del centro abitato), anziché come “Autostrada”, di tipo “A”. Con la medesima delibera di Giunta era stato, dunque, stabilito di intervenire al fine di modificare gli elaborati allegati al Piano generale del traffico urbano (PGTU). La correzione era stata, tuttavia, realizzata soltanto nel 2014, dunque successivamente al rilascio del permesso di costruire ai ricorrenti.
Proprio tali circostanze di fatto, secondo il Consiglio di Stato, hanno determinato l’inescusabilità dell’errore commesso dall’Amministrazione in sede istruttoria, al punto tale da integrare l’elemento psicologico della colpa ai fini del risarcimento del danno. Nella sentenza viene richiamato, a riguardo, l’orientamento precedentemente espresso dallo stesso Giudice, alla luce del quale l’elemento psicologico della colpa della P.A. può essere individuato – oltreché nella violazione dei canoni di imparzialità, correttezza e buona amministrazione – anche in negligenze, omissioni d’attività o errori interpretativi di norme, ritenuti non scusabili in ragione dell’interesse protetto di colui che ha un contatto qualificato con la stessa amministrazione[xxiv].
La responsabilità del Comune non assorbe, tuttavia, quella del privato.
I giudici di Palazzo Spada hanno, infatti, evidenziato come la presenza negli atti del procedimento dell’erronea asseverazione del progettista in ordine alla conformità del manufatto alla normativa edilizio-urbanistica in vigore (comprendente, nello specifico, anche la dichiarazione di assenza di vincoli impeditivi dell’edificazione), pur non essendo sufficiente ad escludere sic et simpliciter la risarcibilità del danno, determina l’estensione della colpa anche in capo al privato. In casi del genere, salvo che sia provata la mala fede o il dolo del proprietario o del progettista, non può parlarsi di “falsità” della rappresentazione dello stato dei luoghi, ma si configura un concorso di colpa al quale né il Comune, né il privato possono sottrarsi.
Emerge, in sostanza, un’ipotesi di corresponsabilità: la colpa del privato non riduce quella del Comune e non vale ex se a giustificare la negazione della tutela risarcitoria; tuttavia, l’evidente concorso colposo non consente di ammettere una tutela piena, ma richiama l’applicazione dell’art. 1227, comma 1 del Codice civile, in base al quale: “[s]e il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate”. Si tratta di un principio che – come puntualizzato dalla sentenza annotata – è stato ripreso e sviluppato dall’art. 30, comma 3, del Codice del processo amministrativo, attraverso la precisazione secondo cui “[n]el determinare il risarcimento il giudice valuta tutte le circostanze di fatto e il comportamento complessivo delle parti”.
Le argomentazioni del Consiglio di Stato si rifanno, in parte, ad un orientamento già espresso dalla Corte di Cassazione. La Suprema Corte – in un’analoga circostanza di commistione di responsabilità tra comune e beneficiario di un permesso di costruire (poi annullato) – ha, infatti, ritenuto configurata l’ipotesi del “fatto colposo del creditore che abbia concorso al verificarsi dell’evento dannoso”, applicando anche in quel caso la disposizione dell’art. 1227 c.c., comma 1, che impone la diminuzione del risarcimento, secondo la gravità della colpa ascrivibile al danneggiato[xxv].
La soluzione prospettata dal Consiglio di Stato appare di pieno bilanciamento del ruolo delle “parti” del rapporto procedimentale: poiché la condotta della parte privata e quella del Comune avevano avuto, nel caso di specie, la medesima incidenza causale nel determinare il rilascio del titolo edilizio illegittimo, l’amministrazione è stata condannata ex art. 1227, comma 1 c.c. a risarcire soltanto per metà il danno subito dai ricorrenti. Coerentemente, il Consiglio di Stato ha, poi, escluso dal computo del quantum del risarcimento – ex art. 1227, comma 2, c.c. (a mente del quale “[i]l risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza”) – tutte le spese sostenute dai ricorrenti successivamente alla presa di coscienza dell’esistenza del vincolo autostradale (momento che è stato fatto coincidere con la richiesta del parere in sanatoria ad ASPI da parte degli stessi).
[i] Cfr., ex multis, T.A.R. Sicilia, Catania, 14 aprile 2023, n. 1271, Cons. di Stato, Sez. II, 22 luglio 2020, n. 1415, tutte in www.giustizia-amministrativa.it. La cornice legislativa di riferimento si rinviene nel Codice della Strada e nel Regolamento di esecuzione. L’ampiezza delle fasce è infatti specificamente disciplinata dal D. Lgs. n. 285/92 (artt. 16, 17 e 18) e dal D.P.R. n. 495/92 (artt. 26, 27 e 28), che pongono un divieto di edificabilità assoluta ed inderogabile nell’ambito della fascia di rispetto autostradale, per una distanza di 60 metri fuori dai centri abitati e di 30 metri all’interno di essi.
[ii] «La pacifica sussistenza di un interesse pubblico di spessore e la distanza ravvicinata dell’esercizio dell’autotutela giustificano di per sé l’adozione del provvedimento di annullamento». Cfr., T.A.R. Emilia-Romagna, Bologna, 29 ottobre 2020, n. 689, punto 3, in www.giustizia-amministrativa.it.
[iii] «Se il Comune non ha provveduto ad acquisire il prescritto parere dell’Ente gestore della strada, tuttavia la redazione della domanda del titolo edilizio è risultata fuorviante, non avendo il progettista dato conto dell’esistenza del vincolo. Certamente le planimetrie prodotte “fotografavano” l’esatto stato dei luoghi, come evidenziato dai ricorrenti, ma il progettista ha attestato la conformità dell’intervento alla normativa edilizia, urbanistica e di sicurezza vigenti: a pag. 14 ha barrato – in luogo dell’appropriata casella “esistono i seguenti altri vincoli” quella immediatamente successiva “NON sono presenti vincoli”, così come non ha compilato il campo di cui al paragrafo 8 “Altri pareri o atti di assenso dovuti per l’intervento in oggetto”. La rappresentazione grafica è sfuggita per un’obiettiva negligenza degli uffici, ma la disattenzione avrebbe potuto essere rimediata con la puntuale indicazione dell’esistenza del vincolo, per cui il privato ha “contribuito” al deficit istruttorio in violazione del principio di leale collaborazione». Cfr., T.A.R. Emilia-Romagna, Bologna, 29 ottobre 2020, n. 689, punto 1.5, in www.giustizia-amministrativa.it.
[iv] Si discorre, in tale ipotesi, della c.d. apparenza del diritto. Cfr., R. Sacco, voce Apparenza, in Digesto disc. civ., I, Torino, 1987, 353 ss.; Id., voce Affidamento, in Enc. dir., I, Milano, 1958, 661 ss.
[v] Nelle relazioni che riguardano soggetti non legati da vincoli contrattuali, come sono le relazioni di potere tra privato e pubblica amministrazione, gli obblighi di correttezza e buona fede sono riconducibili alla clausola generale dell’art. 2043 c.c, che sancisce la responsabilità civile di chi cagiona ad altri un danno ingiusto.
[vi] Di tutela dell’affidamento nel rapporto amministrativo si parla in contesti diversi, non di rado con generico riferimento alla ratio protettiva del privato che ispira talune disposizioni di legge o che ne orienta l’interpretazione; altre volte prospettando la mancata considerazione per le attese del privato come vizio nell’esercizio del potere discrezionale. Non è possibile, in tale sede, inquadrare pienamente un tema così ampio e complesso. Si rinvia, per un approfondimento, alla ricostruzione di F. Trimarchi Banfi, Affidamento legittimo e affidamento incolpevole nei rapporti con l’amministrazione, in Dir. proc. amm., 3/2018, 823 ss.
[vii] Cfr., Cons. di Stato, sez. VI, 13 agosto 2020, n. 5011.
[viii] Cfr., Cons. di Stato, Ad. plen., 29 novembre 2021, n. 19, in www.giustizia-amministrativa.it.
[ix] Cfr., F. Manganaro, Dal rifiuto di provvedimento al dovere di provvedere: la tutela dell’affidamento, in Itinerari interrotti. Il pensiero di Franco Ledda e di Antonio Romano Tassone per una ricostruzione del diritto amministrativo, a cura di L. Giani e A. Police, Napoli, 2017, 121 ss. Sul tema cfr., amplius, F. Manganaro, Principio di buona fede e attività delle amministrazioni pubbliche, Napoli, 1995.
[x] Cfr., Cons. di Stato, Ad. plen., 29 novembre 2021, n. 20, in www.giustizia-amministrativa.it. Viene, dunque, in considerazione un danno che oggettivamente prescinde da valutazioni sul corretto esercizio del potere pubblico, «fondandosi su doveri di comportamento il cui contenuto non dipende dalla natura privatistica o pubblicistica del soggetto che ne è responsabile, atteso che anche la pubblica amministrazione, come qualsiasi privato, è tenuta a rispettare nell’esercizio dell’attività amministrativa principi generali di comportamento, quali la perizia, la prudenza, la diligenza, la correttezza» (cfr., Cass. Sez. un., Ord. 23 marzo 2011, n. 6594).
[xi] Cfr., F. Merusi, L’affidamento del cittadino, Milano 2001, 105.
[xii] In tali casi viene in rilievo la nozione civilistica di affidamento nel senso di fiducia nell’altrui correttezza: cfr., Cons. Stato, Ad. plen., 17 ottobre 2017, n. 8, punto 11.1, in www.giustizia-amministrativa.it.
[xiii] Sul tema, cfr., M. Allena, L’annullamento d’ufficio. Dall’autotutela alla tutela, Napoli, 2018.
[xiv] Cfr., F. Trimarchi Banfi, Affidamento legittimo e affidamento incolpevole nei rapporti con l’amministrazione, cit., 823 ss.
[xv] Ibidem.
[xvi] Il carattere della bilateralità del dovere di buona fede nel rapporto tra cittadino e amministrazione è stato rilevato, ben prima del consolidamento degli orientamenti giurisprudenziali, da F. Saitta, Del dovere del cittadino di informare la pubblica amministrazione e delle sue possibili implicazioni, I nuovi diritti di cittadinanza: il diritto d’informazione. Atti del Convegno di Copanello, 25-26 giugno 2004, a cura di F. Manganaro e A. Romano Tassone, Torino, 2005, 111 ss.
[xvii] Cfr., Cons. di Stato, Ad. plen., 29 novembre 2021, n. 20, in www.giustizia-amministrativa.it.
[xviii] Il principio di autoresponsabilità, di matrice privatistica, si connette al principio generale secondo cui ciascuno è responsabile delle proprie azioni ed omissioni, delle quali deve assumere il rischio. Cfr., P. Trimarchi, La responsabilità civile: atti illeciti, rischio, danno, Milano, 2017, 85 ss.
[xix] Cfr., Cons. Stato, Ad. Plen., 25 febbraio 2014 n. 9, in www.giustizia-amministrativa.it.
[xx] Per un esame approfondito delle importanti questioni sottoposte alla cognizione della Plenaria, che in questa sede possono essere solamente accennate, si rinvia a C. Napolitano, Risarcimento e giurisdizione. Rimessione alla plenaria sul danno da provvedimento favorevole annullato (nota a Cons. Stato, Sez. II, ord. 9 marzo 2021, n. 2013), in questa Rivista, 2021; G. Capra, La lesione dell’affidamento: i dubbi sulla giurisdizione e sulla tutela del privato (Nota a margine dell’ordinanza di rimessione all’Adunanza plenaria n. 3701 del 2021), in questa Rivista, 2021; C. Napolitano, Legittimo affidamento e risarcimento del danno: la Plenaria si pronuncia (nota a Cons. Stato, Ad. plen., 29 novembre 2021, n. 20), in questa Rivista, 2021; M. Baldari, Ultimi approdi in materia di responsabilità precontrattuale della p.a. (Nota a Cons. Stato, Ad. Plen., 29 novembre 2021, n. 21), in questa Rivista, 2022.
[xxi] Cfr., Cons. Stato, Ad. plen., 23 aprile 2021, n. 7, spec. punto 3 di diritto. Sul tema si vedano le note di E. Zampetti, La natura extracontrattuale della responsabilità civile della pubblica Amministrazione dopo l’Adunanza plenaria n. 7 del 2021, in questa Rivista, 2021 e M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione al vaglio dell’Adunanza plenaria (nota a Consiglio di giustizia amministrativa, sez. giur.,15 dicembre 2020 n. 1136), in questa Rivista, 2021, nonché A. Palmieri, R. Pardolesi, La responsabilità civile della pubblica amministrazione: così è se vi pare (nota a Cons. Stato, Ad. plen., 23 aprile 2021, n. 7), in Foro it., 2021, 406 ss.
[xxii] Cons. Stato, Ad. plen., 29 novembre 2021, n. 19, punto 21 e n. 20, punto 26, in www.giustizia-amministrativa.it.
[xxiii] Cfr., T.A.R. Emilia-Romagna, Bologna, 29 ottobre 2020, n. 689, punto 1.5, in www.giustizia-amministrativa.it.
[xxiv] Cfr., Cons. Stato, Sez. VI, 8 settembre 2020, n. 5409; Id., 4 febbraio 2020, n. 909, in www.giustizia-amministrativa.it.
[xxv] Cfr., Cass. Civ., Sez. I, 28 febbraio 2017, n. 5063.
Demanio costiero e uso generale: la “scarsità della risorsa naturale” (nota a TAR Puglia, Lecce, nn. 1223 e 1224 del 2023)
di Giuseppina Mari
Sommario: 1. Premessa e oggetto del contributo; 2. Le sentenze del TAR Lecce nn. 1223 e 1224 del 2023; 3. Le ragioni della demanialità; 4. Gestione amministrativa tra uso generale e uso particolare; 5. La pianificazione del demanio costiero; 6. La scarsità delle risorse naturali secondo l’Adunanza plenaria: critica e rischio di una confutazione basata, a sua volta, su dati meramente quantitativi; 7. Considerazioni conclusive.
1. Premessa e oggetto del contributo
Le sentenze del TAR Lecce nn. 1223 e 1224 del 2 novembre 2023 si inseriscono nell’annosa e complessa vicenda relativa all’applicazione della direttiva servizi 2006/123/CE (direttiva Bolkestein) con riguardo alle concessioni demaniali marittime con finalità turistico ricreative.
Il contributo si concentra, tra le molteplici questioni giuridiche che le proroghe ex lege sollevano – dibattute e oggetto di moltissimi contributi[1] –, sul solo specifico profilo della “scarsità delle risorse naturali”[2], al ricorrere della quale l’art. 12 della direttiva Bolkestein (2006/123/CE) impone, come noto, procedure selettive e vieta il rinnovo automatico. Nonostante la rilevanza dirimente del presupposto, il suo significato concreto non è stato oggetto di specifici approfondimenti da parte della Corte di giustizia, se non nella sentenza del 20 aprile 2023, causa C‑348/22, AGCM c. Comune di Ginosa (nel prosieguo CGUE Ginosa), con un intervento peraltro non definitivamente risolutivo nella misura in cui il giudice europeo non ha fornito una definizione di scarsità della risorsa naturale lasciando al contempo agli Stati membri un ampio margine interpretativo delle modalità pratiche di valutazione della relativa sussistenza[3]. Altrettanto limitata attenzione è stata riservata dalla giurisprudenza nazionale, nella quale la risorsa o è considerata ontologicamente o intrinsecamente limitata[4] e non suscettibile di una considerazione parcellizzata[5] oppure, successivamente alle note sentenze gemelle dell’Adunanza plenaria nn. 17 e 18 del 2021[6] e ripetendone le conclusioni, scarsa a livello nazionale in base a combinati criteri quantitativi e qualitativi astratti[7].
La “scarsità delle risorse naturali” identifica un concetto giuridico indeterminato[8], il cui riempimento, anticipando le conclusioni, non può basarsi su un’indagine meramente quantitativa (quale quella operata, nella fase istruttoria sinora svolta, dal Tavolo tecnico di cui si dirà) prescindendo dal regime giuridico del demanio costiero e dalle relativepeculiarità. Le peculiarità sono collegate alla fruizione collettiva in stretta connessione con diritti costituzionali del cittadino, alle plurime valenze – tra cui quelle ambientali e paesaggistiche – dei beni in questione nonché alla circostanza che essi sono oggetto di pianificazione. Di queste peculiarità non può non tenere conto anche l’auspicata riforma del settore.
Illustrate le argomentazioni del TAR Lecce in tema di valutazione della scarsità della risorsa – che i predetti aspetti trascurano di considerare –, saranno sviluppati, negli essenziali tratti funzionali alle conclusioni cui si intende pervenire, i seguenti profili: il significato storico giuridico della demanialità necessaria e la qualificazione del demanio costiero come bene comune; la dialettica tra uso generale e uso particolare; le conseguenze in punto di “scarsità della risorsa naturale”.
2. Le sentenze del TAR Lecce nn. 1223 e 1224 del 2023
Le sentenze del TAR Lecce si pronunciano sull’impugnazione da parte dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato di deliberazioni delle giunte comunali di Ginosa e Castellaneta contenenti indirizzi per attuare la proroga, fino al 31 dicembre 2033, ai sensi della l. n. 145/2018 (art. 1, commi 682 e 683) e del d.l. n. 34/2020 conv. in l. n. 77/2020 (art. 182, comma 2), delle concessioni demaniali con finalità turistico ricreative e, tramite motivi aggiunti, degli atti di proroga adottati sulla base dei predetti atti di indirizzo[9], sul presupposto della natura self-executing della direttiva Bolkestein(art. 12) e della conseguente doverosa disapplicazione della legge nazionale di proroga (l. n. 145/2018).
Nelle more della trattazione del merito del ricorso, l’Adunanza plenaria si pronunciava con le note sentenze gemelle nn. 17 e 18 del 9 novembre 2021, in cui, tra l’altro, per i profili qui di rilievo, era ritenuta in via generale e astratta la scarsità delle risorse e, conseguentemente, il limitato numero di autorizzazioni disponibili, facendo da ciò derivare la necessaria disapplicazione della legge nazionale.
Nel giudizio che vedeva parte resistente il comune di Ginosa, il TAR Lecce, con ordinanza 11 maggio 2022 n. 743[10], prendendo atto dei principi affermati dall’Adunanza plenaria e non condividendone le conclusioni, disponeva il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, poi pronunciatasi con la già citata sentenza Sez. III, 20 aprile 2023, causa C-348/22[11]. Tra i quesiti pregiudiziali, relativi alla validità e all’interpretazione della direttiva Bolkestein, rileva specificamente, per il profilo di indagine selezionato nella presente nota, l’ottavo, con il quale il TAR chiedeva se competa al giudice nazionale statuire sulla “sussistenza, in via generale ed astratta, del requisito della limitatezza delle risorse e delle concessioni disponibili riferito tout court all’intero territorio nazionale” o, stante la competenza dei comuni nell’affidamento delle concessioni demaniali, detta valutazione debba essere riservata agli stessi comuni e riferita al territorio costiero di ciascun comune. Il quesito, come evidenziato nel prosieguo, originava dall’incertezza determinata dal fatto che, da un lato, l’Adunanza plenaria aveva riferito in maniera generalizzata all’intero territorio nazionale la scarsità e, dall’altro lato, la Corte di giustizia nel precedente Promoimpresa del 2016[12] aveva stabilito – seppure in un rapido passaggio e senza particolari argomentazioni – che il giudice del rinvio dovesse valutare l’elemento della scarsità tenendo conto del fatto che l’assegnazione sarebbe avvenuta in sede comunale[13].
Nella sentenza CGUE Ginosa il rilievo dell’affermazione contenuta nel precedente Promoimpresa veniva ridimensionato a “mera indicazione rivolta al giudice di rinvio” (per aiutarlo ad accertare la concreta sussistenza della “scarsità delle risorse”), giustificata dal contesto della causa che aveva dato luogo alla sentenza (pt. 45).
Il giudice europeo chiariva, infatti, che l’art. 12 della direttiva “conferisce agli Stati membri un certo margine di discrezionalità nella scelta dei criteri applicabili alla valutazione della scarsità delle risorse naturali”, che “può condurli a preferire una valutazione generale e astratta, valida per tutto il territorio nazionale, ma anche, al contrario, a privilegiare un approccio caso per caso, che ponga l'accento sulla situazione esistente nel territorio costiero di un comune o dell'autorità amministrativa competente, o addirittura a combinare tali due approcci” (pt. 46); aggiungeva che “la combinazione di un approccio generale e astratto, a livello nazionale, e di un approccio caso per caso, basato su un'analisi del territorio costiero del comune in questione, risulta equilibrata e, pertanto, idonea a garantire il rispetto di obiettivi di sfruttamento economico delle coste che possono essere definiti a livello nazionale, assicurando al contempo l’appropriatezza dell'attuazione concreta di tali obiettivi nel territorio costiero di un comune” (pt. 47); in ogni caso, i criteri adottati da uno Stato membro per valutare la scarsità delle risorse naturali utilizzabili devono essere “obiettivi, non discriminatori, trasparenti e proporzionati” (pt. 48). In conclusione, sull’ottavo quesito la Corte di giustizia rilevava che “l’articolo 12, paragrafo 1, della direttiva 2006/123 deve essere interpretato nel senso che esso non osta a che la scarsità delle risorse naturali e delle concessioni disponibili sia valutata combinando un approccio generale e astratto, a livello nazionale, e un approccio caso per caso, basato su un'analisi del territorio costiero del comune in questione” (pt. 49).
Nel trattare dell’effetto diretto dell’art. 12 della direttiva – riconoscendolo – e nell’evidenziare che detto effetto non può essere escluso per la circostanza che l’obbligo di procedure imparziali e il divieto di rinnovo automatico “si applichino solo nel caso in cui il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali utilizzabili”, la Corte di giustizia aggiungeva che dette risorse “devono essere determinate in relazione ad una situazione di fatto valutata dall’amministrazione competente sotto il controllo di un giudice nazionale” (pt 71).
Quest’ultimo passaggio della sentenza CGUE Ginosa viene letto e interpretato dal TAR Lecce[14] nel senso di circoscrivere il vaglio del giudice nazionale sulla scarsità a un ruolo di secondo grado, vale a dire di controllo.
Pur riconoscendo che la sentenza Ginosa del 2023, per molte delle sue statuizioni, si pone in continuità rispetto al precedente Promoimpresa del 2016 – in ordine all’applicabilità dell’art. 12 alle situazioni puramente interne (pt. 39-41) e all’onere di disapplicare la norma interna contrastante sussistente anche in capo anche all’amministrazione (pt. 77-79) –, il TAR Lecce attribuisce invece una “portata … decisamente modificativa e innovativa … alla statuizione relativa alla valutazione della scarsità della risorsa e delle autorizzazioni disponibili, sia con riferimento all’individuazione del soggetto cui compete la definizione dei criteri, sia con riferimento al metodo e all’ampiezza del potere discrezionale riconosciuto allo Stato membro, sia infine quanto alla qualificazione di siffatto procedimento come una pre-condizione ovvero come presupposto da accertarsi in via preliminare”[15].
Secondo la lettura della sentenza europea fornita dal TAR, i profili di rilievo da trarne sono due: la valutazione della scarsità delle risorse naturali è individuata dal giudice europeo “innovativamente” come “preliminare accertamento” cui l’applicazione dell’art. 12 è subordinata e, in secondo luogo, tale preliminare valutazione è attribuita allo Stato-amministrazione, e anzitutto agli organi di governo degli Stati membri, risultando invece “esclusa la legittimità di una valutazione o declaratoria tout court della scarsità della risorsa ad opera del giudice nazionale in via generale ed astratta (in assenza di criteri trasparenti ed uniformi [da definire da parte del Governo: n.d.r.] e di attività istruttoria)”.
L’esclusiva competenza dell’autorità di governo e dell’amministrazione attiva trova sostegno, a giudizio del TAR, nel riconoscimento (pt. 46 CGUE Ginosa) agli Stati membri di un “certo margine di discrezionalità nella scelta dei criteri applicabili alla valutazione della scarsità delle risorse naturali” e nella “centralità del procedimento di valutazione della scarsità delle risorse naturali”. Identificando la preferibile modalità di svolgimento della valutazione nella previa definizione, a livello di autorità centrale, di criteri obiettivi, non discriminatori, trasparenti e proporzionali e, poi, in un approccio caso per caso di analisi del territorio, la Corte di giustizia avrebbe fornito indicazioni anche di tipo procedimentale e di metodo. In definitiva, la CGUE avrebbe suggerito un percorso ottimale di attuazione della direttiva.
Da tanto il TAR Lecce fa conseguire che: - è precluso al giudice nazionale statuire in via generale e astratta in merito alla scarsità della risorsa, in assenza della previa definizione di criteri obiettivi e uniformi da parte del governo (il giudice, in sostanza, potrebbe solo valutare la corretta applicazione dei criteri, una volta definiti); - prima di affermare che le concessioni demaniali marittime sono sottoposte al citato art. 12, è necessaria una verifica della scarsità della risorsa da parte dello Stato membro, atteggiandosi detta verifica a pre-condizione della relativa applicabilità.
Le premesse conducono il TAR a dichiarare improcedibile i ricorsi dell’AGCM per “sopravvenuto difetto di interesse, sotto un duplice profilo: l’uno formale e l’altro – per così dire – sostanziale”.
Sotto il primo profilo, i provvedimenti di presa d’atto della proroga risulterebbero caducati per effetto della normativa sopravvenuta, rappresentata dalla l. n. 118 del 2022, che, da un lato, ha abrogato le disposizioni della l. n. 145 del 2018 e, dall’altro, nel fissare il termine di scadenza delle concessioni al 31 dicembre 2023 (poi differito di un anno dal d.l. milleproroghe n. 198 del 2022, conv. in l. 24 febbraio 2023 n. 14), ha avviato l’iter per l’attuazione delle direttive. L’asserito danno derivante all’AGCM dalla proroga delle concessioni al 31 dicembre 2033 sarebbe quindi venuto meno, atteso che le concessioni in essere scadono, per effetto della l. n. 14 del 2023, alla data del 31 dicembre 2024.
Sotto il secondo profilo, il TAR Lecce evidenzia come risulti mutato il contesto giuridico di riferimento. Le sentenze gemelle dell’Adunanza plenaria, precedenti alla CGUE Ginosa e alla citata l. n. 14 del 2023, sono state da queste “contraddette quanto alla valutazione della scarsità della risorsa, sia quanto alla competenza, sia quanto al metodo”. Il brevissimo termine fissato dal Supremo Consesso al 31 dicembre 2023 era conseguenza della pretermissione, nel ragionamento della Plenaria, del necessario presupposto della valutazione della scarsità della risorsa di competenza Governo-Amministrazione, step che il TAR giudica, alla luce della peculiare lettura che fornisce della sentenza Ginosa, “centrale e preliminare adempimento nella direttiva”. La normativa nazionale successiva è coerente, invece, con le “precisazioni innovative” contenute nella sentenza della CGUE “e non integra … gli estremi di una mera ed ingiustificata proroga automatica, vietata dall’art. 12”. In particolare, ai fini della fissazione di criteri uniformi per la preliminare valutazione della scarsità della risorsa naturale, l’art. 10-quater d.l. milleproroghe ha avviato un’attività istruttoria sul demanio marittimo e sulle concessioni in essere, demandandola a un “tavolo tecnico”, il cui compito è anche quello di definire “i criteri tecnici per la determinazione della sussistenza della scarsità della risorsa naturale disponibile, tenuto conto sia del dato complessivo nazionale che di quello disaggregato a livello regionale, e della rilevanza economica transfrontaliera”.
Così ricostruite, le argomentazioni del TAR Puglia sono criticabili, in relazione al profilo di indagine qui scelto, sotto due profili.
La sentenza CGUE Ginosa non esclude affatto un vaglio del giudice nazionale sulla scarsità della risorsa naturale, precisando, piuttosto, che la valutazione non spetta solo al giudice nazionale, ma anche alle amministrazioni quali soggetti tenuti ad attuare la direttiva. I giudici di Lussemburgo fugano, così, ogni dubbio in merito al fatto che l’obbligo di disapplicazione incombe anche sugli organi amministrativi (pt. 78[16]).
In secondo luogo, l’affermazione secondo cui il previo accertamento amministrativo della scarsità delle risorse da parte del Governo-Amministrazione condizionerebbe l’applicabilità dell’art. 12, par. 1 e 2, della Bolkestein contrasta con il carattere self executing della direttiva, non potendo eventuali ritardi dello Stato membro nello stabilire criteri e nell’avviare la valutazione ostacolare l’effetto diretto della direttiva stessa. Gli adempimenti istruttori sono dunque doverosi, ma, in attesa degli stessi, sono comunque illegittime le proroghe automatiche delle concessioni che prescindono dalla valutazione della mancanza di scarsità delle risorse che spetta anche alla singola amministrazione effettuare.
L’applicazione diretta dell’art. 12 della direttiva servizi non è contraddetta dal riconoscimento nella sentenza Ginosa di un margine di discrezionalità in capo agli Stati membri in sede di attuazione della stessa. La sentenza CGUE Ginosa riferisce detto margine di discrezionalità a due distinti ambiti: nella disciplina delle procedure selettive e nella scelta dei criteri applicabili alla valutazione della scarsità delle risorse naturali. Con specifico riferimento alla prima, il giudice europeo ricorda che anche quando una direttiva lascia agli Stati un certo margine di discrezionalità nell’adozione delle modalità della sua attuazione, una disposizione di tale direttiva può essere considerata di carattere incondizionato e sufficientemente preciso se pone a carico degli Stati membri, in termini inequivoci, un “obbligo di risultato preciso e assolutamente incondizionato riguardo all’applicazione della norma da essa enunciata”[17]. In particolare, tale “obbligo di risultato” sussiste se il margine di discrezionalità non impedisce di determinare “alcuni diritti minimi” e, quindi, di identificare “la tutela minima che deve in ogni caso essere applicata”[18]: nella specie l’obbligo – e la correlata tutela minima per i potenziali candidati – consiste nell’applicare procedure di selezione imparziali e trasparenti.
Analoghe considerazioni possono essere svolte con riguardo al secondo dei citati ambiti in cui si esplica la discrezionalità – che viene orientata attraverso il riferimento a “criteri obiettivi, non discriminatori, trasparenti e proporzionati” –, come ricavabile al pt. 71 della sentenza CGUE Ginosa, a tenore del quale la circostanza che l’obbligo di procedure selettive e il divieto di rinnovo automatico “si applichino solo nel caso in cui il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività sia limitato per via della scarsità delle risorse naturali utilizzabili … non può rimettere in discussione l'effetto diretto connesso a tale articolo 12, paragrafi 1 e 2”.
Pertanto, sebbene l’attuazione dell’art. 12 implichi l’esercizio di un certo margine di discrezionalità – a partire dall’individuazione della condizione oggettiva di applicabilità, id est della scarsità delle risorse naturali, sino alla elaborazione di regole per un procedimento di selezione che soddisfi i principi generali in tema di libertà economiche di circolazione nel mercato interno –, l’obbligo di risultato è incondizionato e sufficientemente preciso quanto all'applicazione della regola da esso enunciata (regola che consiste nella previsione di procedure selettive a favore dei soggetti potenziali candidati e nel divieto di proroghe automatiche).
In questa presa di posizione viene dai commentatori individuato il più rilevante valore aggiunto della sentenza CGUE Ginosa[19].
Peraltro, le sentenze CGUE Ginosa e TAR Lecce suggeriscono una riflessione più ampia sulla scarsità della risorsa naturale. Anticipando le conclusioni, si ritiene venga nella specie in rilievo una risorsa ex se scarsa tanto per ragioni di obiettiva limitatezza (sia in termini assoluti che relativi[20]) quanto per il peculiare regime giuridico cui il bene è sottoposto in quanto naturalmente destinato all’uso generale, oggetto di pianificazione o, comunque, di valutazioni discrezionali allorquando lo si intenda destinare ad altre possibili diverse utilizzazioni[21] (identificabili nei servizi pubblici e nei servizi e attività portuali e produttive, oltre che in tutte le attività oggi elencate dall’art. 01 d.l. n. 400 del 1993 conv. in l. n. 494/1993).
3. Le ragioni della demanialità
Il regime del demanio marittimo, pur rimasto nel codice civile invariato, ha attraversato una lunga evoluzione[22], da esaminare – nella prospettiva di indagine qui selezionata – sotto il profilo del rapporto, di coincidenza o meno, tra destinazione pubblica del bene sottesa a detto regime[23] e uso collettivo dello stesso.
La riserva dominicale, conseguente all’appartenenza al genus dei beni demaniali necessari, implica l’insuscettibilità di appropriazione e ha tradizionalmente condotto a concentrare l’attenzione sul regime giuridico degli usi funzionali al soddisfacimento dell’interesse pubblico affidato alle cure dell’amministrazione titolare. Secondo un approccio tradizionale, accanto al soddisfacimento di esigenze della marina e alla difesa dei suoli, la demanialità è stata concepita come categoria diretta ad assicurare l’uso pubblico generale, liberamente praticabile da tutti uti cives (e, quindi, con ritrazione diretta di utilità), secondo l’idea romanistica che comprendeva il lido del mare tra le res communes omnium[24], senza che si potessero accampare diritti d’uso particolare sul bene[25]. La destinazione pubblica era quindi identificata con la garanzia del godimento collettivo del bene, da cui conseguiva ulteriormente la natura infruttifera dello stesso.
In tale quadro, la possibilità di usi particolari[26], diretti a consentire lo sfruttamento economico del bene demaniale, è intesa come eccezione: sottraendo il bene all’uso generale, essa è consentita “nei modi e limiti” stabiliti dalla legge, secondo il principio codificato nell’art 823 c.c..
Il risalente Codice della navigazione (approvato con r.d. 30 marzo 1942 n. 327, di seguito cod. nav.) e il relativo regolamento di esecuzione (d.P.R. n. 328 del 1952) disciplinano un potere concessorio (attualmente dei comuni[27]) avente natura discrezionale, da esercitare “compatibilmente con le esigenze del pubblico uso” (art. 36 cod. nav.); la clausola di compatibilità evidenzia quali interessi debbano primariamente essere perseguiti dall’amministrazione titolare dell’interesse pubblico che il bene, per sua natura, è destinato a soddisfare[28].
Il turismo di massa ha poi contribuito ad alterare questa impostazione, tramite una rilettura della disciplina incline a una “applicazione del modello concessorio onde favorire … interventi di trasformazione dei litorali da parte dell’imprenditoria turistica”[29].
La disciplina recata dal cod. nav. – complice la mancanza di una definizione normativa dei “pubblici usi del mare”[30] – ha nei fatti ricevuto un’applicazione che sottende l’idea che la concessione possa indirizzare il demanio costiero alla sua funzione prioritaria attraverso la mediazione di soggetti dotati di capacità imprenditoriale e finanziaria e, quindi, in grado di predisporre le infrastrutture turistiche[31].
Tant’è che una parte della dottrina ha considerato quella dei “pubblici usi del mare” categoria aperta[32], concretizzabile in “un’imprecisata serie di interessi pubblico sociali, connessi al mare, interessi che gradualmente si evidenziano e attualizzano con l'evoluzione della realtà socio economica”[33].
La crisi della concezione tradizionale si è acuita negli anni ’90, complice la riforma del bilancio dello Stato con l’inserimento del demanio naturale tra i beni suscettibili di utilizzazione economica[34]. Per quanto la classificazione sia stata operata a fini di contabilità e non abbia modificato il regime giuridico di tali beni[35] – stante l’espressa salvezza per i beni dell’art. 822 c.c. della loro natura giuridica e del regime previsto dalle leggi vigenti[36] –, la riforma ha fornito argomenti a sostegno della compatibilità tra natura demaniale del bene e uso a fini di redditività.
Precipitato di tale evoluzione è stata la normalizzazione della concessione a fini turistici e ricreativi[37]: l’uso particolare diventa uno degli strumenti tramite cui l’ente titolare della funzione di gestione realizza la destinazione pubblica del bene, valorizzandolo in termini economici – traendone un canone – e sociali (per i riflessi occupazionali e le esternalità territoriali positive determinate dal turismo)[38]. Correlativamente, l’attività di gestione dei beni pubblici da parte dell’amministrazione è mutata da diretta in una funzione regolatoria dei rapporti concessori[39].
Questa evoluzione è stata avallata dal d.l. n. 400/1993 (conv. in l. n. 494 del 1993), il cui art. 01 ha tipizzato le concessioni per uso turistico ricreativo, codificando le attività – ulteriori rispetto a servizi pubblici e servizi e attività portuali e produttive – per le quali la concessione può essere rilasciata. L’esito è la compressione delle possibilità di esercizio degli usi generali[40], compressione che è stata aggravata, prima, dal diritto di insistenza e dal rinnovo automatico e, poi, dalle proroghe delle concessioni, secondo una logica di tipo proprietario ed escludente[41].
La domanda da porsi è se tale evoluzione conduca a un sistema dominato dalla domanda degli operatori[42] nel quale, in particolare, l’intero patrimonio costiero può essere preso in considerazione come astrattamente concedibile e, quindi, la valutazione della scarsità o meno della risorsa naturale può essere operata su dati meramente quantitativi.
È però necessario un ulteriore passaggio preliminare.
Successivamente al cod. nav. hanno trovato riconoscimento legislativo le funzioni ambientali e paesaggistiche del demanio costiero, con la conseguente necessità di comporre le varie modalità di fruizione, bilanciando i diversi interessi[43].
Dal 1985 (l. n. 431 del 1985, Legge Galasso) i territori costieri entro una fascia di 300 metri dalla linea di battigia sono sottoposti a vincolo paesaggistico ex lege (attuale art. 142, comma 1, lett. a, d.lgs. n. 42 del 2004): la scelta legislativa assegna protezione giuridica ai territori costieri, preservandoli da possibili lesioni esteriori che possano intaccare la loro dimensione non solo naturalistica ma, anche, collettiva e identitaria.
Le coste sono inoltre beni ambientali produttori di servizi ecosistemici, come ad esempio riconosciuto da numerose disposizioni del Codice dell’ambiente, tra cui l’art. 56 ai sensi del quale le attività di pianificazione e programmazione finalizzate alla tutela e al risanamento del suolo e del sottosuolo, al risanamento idrogeologico del territorio tramite la prevenzione dei fenomeni di dissesto, la messa in sicurezza delle situazioni a rischio riguardano anche la protezione delle coste[44].
Nel medesimo bene si trovano quindi due componenti essenziali – ecologico naturalistica e identitaria –, non coincidenti perché fanno riferimento a interessi pubblici differenziati, entrambi valori primari ai sensi dell’art. 9 Cost. Come infatti recentemente sottolineato dal Consiglio di Stato, “(i)l valore culturale del paesaggio costiero si afferma non soltanto in ragione del dato di natura (che in sé risulterebbe tutelabile mediante strumenti diversi, calibrati sugli aspetti ambientali e naturali), ma in considerazione della valenza identitaria che le coste assumono, quali parti della “forma” del Paese e testimonianze materiali della storia millenaria di una penisola che ha avuto nelle proprie coste il crocevia delle partenze, dei ritorni e degli approdi degli uomini e delle civiltà che hanno concorso a determinare l’identità della Nazione italiana”[45].
Quanto sinteticamente accennato sulle funzioni ecologiche e paesaggistiche, sebbene non esaustivo delle plurime valenze, dimostra l’attitudine del bene in questione a esprimere utilità funzionali all’esercizio di diritti fondamentali e al libero sviluppo della persona, consentendo di accostarne la funzione alla nozione di beni comuni[46].
La qualificazione come bene comune enfatizza l’aspetto funzionale del bene rispetto al profilo soggettivo della proprietà[47], e impone di non appiattire le riflessioni relative alle modalità di gestione sulla sola logica del profitto[48]. Ed è significativo che le riflessioni sui beni comuni si intensifichino temporalmente anche quale reazione alla teorizzazione che tutti i beni oggetto di proprietà pubblica sono suscettibili di utilizzazione economica[49].
Come è stato rilevato, la categoria dei beni comuni si allontana da una nozione di proprietà pubblica in cui il profilo soggettivo prevale sugli aspetti funzionali a soddisfare diritti fondamentali e che può condurre, nella logica del profitto, a ridurre accessibilità e fruibilità del bene tramite una determinazione discrezionale dell’amministrazione circa l’interesse primario da perseguire[50].
Piuttosto che beni appartenenti al soggetto pubblico in una logica dominicale, la dottrina ragiona in termini di mera imputazione al soggetto pubblico di risorse da tutelare e gestire in vista della trasmissione alle generazioni future[51], così come la giurisprudenza (tra cui Corte dei conti, Sez. giur. Veneto n. 53/2018[52], coerentemente con le prese di posizione della Cassazione sulle valli da pesca nella laguna di Venezia[53]) ne sottolinea la duplice appartenenza, da un lato, alla collettività e, dall’altro, al suo ente esponenziale, precisando di “intendere la seconda (titolarità del bene in senso stretto) come ‘appartenenza di servizio’, che è necessaria, nel senso che detto ente è tenuto ad assicurare il mantenimento delle specifiche rilevanti caratteristiche del bene e la loro fruizione pubblica e/o collettiva”[54].
4. Gestione amministrativa tra uso generale e uso particolare
Le considerazioni svolte nel paragrafo precedente rilevano nella gestione amministrativa della dialettica uso generale/uso particolare[55].
Secondo la giurisprudenza, il potere concessorio di cui all’art. 36 cod. nav. è connotato da ampia discrezionalità amministrativa, poiché “coinvolge interessi pubblici fondamentali della collettività”[56]; il relativo esercizio può esitare nella sottrazione del bene all’utilizzo generale solo in presenza di un reale beneficio alla collettività: la preferenza è per l’uso libero e generalizzato[57], con conseguente obbligo di adeguata motivazione del provvedimento concessorio. Qualificati i beni del demanio marittimo di cui all’art. 822, comma 1, c.c. come “beni pubblici puri, in quanto non rivali, né escludibili” e “naturalmente soggetti e destinati” all’uso generale della collettività sacrificabile solo per finalità pubblicistiche prevalenti, se ne deduce che “il soddisfacimento di finalità pubblicistiche costituisce … un elemento imprescindibile della concessione di beni pubblici, al punto da costituirne scopo e ragione essenziale”; in tale senso depone “l’art. 37 cod. nav., laddove, in presenza di più richieste di concessione, rimette al discrezionale giudizio dell’amministrazione la valutazione in ordine alla migliore rispondenza di un certo utilizzo anziché di un altro rispetto ad un più rilevante interesse pubblico[58], sottintendendo un complesso bilanciamento di molteplici profili di rilievo che si colgono, da un lato, con riguardo al vantaggio conseguito dalla collettività in ragione delle finalità pubbliche per il soddisfacimento delle quali il bene è concesso in uso ad altri e, dall’altro, in relazione al nocumento patito dalla medesima collettività a causa della temporanea sottrazione del bene all’uso libero e generalizzato cui è naturalmente o potenzialmente destinato”[59].
Tornando alla nozione di “scarsità della risorsa naturale”, da tali argomenti e assunti giurisprudenziali è possibile ricavare che l’eventuale disponibilità, in base a una valutazione meramente quantitativa, di aree ulteriori del demanio costiero rispetto a quelle attualmente in concessione non è argomento ex se sufficiente a rendere certo, con affermazione generalizzata e aprioristica, che dette aree ulteriori siano senz’altro concedibili e, quindi, ex se sufficiente a escludere la scarsità della risorsa naturale ai sensi della direttiva servizi.
5. La pianificazione del demanio costiero
La conclusione del precedente paragrafo è avvalorata ove si consideri il demanio costiero[60] come oggetto di pianificazione.
A seguito della delega delle funzioni di rilascio delle concessioni e – testualmente – “ai fini” dell’esercizio di tale potere, l’art. 6, comma 3, d.l. n. 400/1993 (conv. in l. n. 494/1993) ha imposto alle regioni di predisporre un piano di utilizzazione delle aree del demanio marittimo. La legge finanziaria per il 2007 ha poi disposto che le regioni con detti piani, sentiti i comuni interessati, “devono … individuare un corretto equilibrio tra le aree concesse a soggetti privati e gli arenili liberamente fruibili”[61]: è stato quindi attribuito alla pianificazione regionale il compito di predeterminare il punto di equilibrio tra uso generale e uso particolare, con l’evidente obiettivo di salvaguardare un nucleo essenziale del primo[62].
L’esercizio della potestà legislativa regionale in materia di governo del territorio[63] ha condotto a elaborare, al riguardo, delle regole parzialmente differenziate tra regioni, risultando in alcune regioni la pianificazione articolata tra un piano regionale e piani attuativi comunali[64]. A prescindere da queste differenze, se conseguenza della pianificazione è la riduzione a valle, nel procedimento di rilascio del singolo provvedimento di concessione, della poc’anzi descritta discrezionalità, questa permane a monte nelle scelte di piano[65] e, anzi, si amplia l’orizzonte degli interessi oggetto di ponderazione: la clausola di compatibilità dell’art. 36 cod. nav., “tanto ambigua in sede di puntuale esercizio dei poteri concessori”[66], assume un ruolo più consistente in sede di pianificazione, imponendo una definizione ex ante e su più ampia scala. A seconda del contenuto, più o meno puntuale, dei piani in merito alla individuazione delle aree – e qui rilevano le scelte regionali, potendo il combinato operare del piano regionale e dei piani comunali giungere a contenere previsioni direttamente conformative delle singole aree –, potrebbero non residuare a valle margini di discrezionalità quanto alla scelta tra uso generale e uso particolare[67].
Per la Corte costituzionale[68] i piani in parola sono “destinat[i] ad assolvere, nella prospettiva della migliore gestione del demanio marittimo d’interesse turistico-ricreativo, ad una funzione schiettamente programmatoria” delle concessioni demaniali, al fine di “rendere compatibile l’offerta dei servizi turistici con le esigenze della salvaguardia e della valorizzazione di tutte le componenti ambientali dei siti costieri, onde consentirne uno sfruttamento equilibrato ed ecosostenibile”; essi “svolgono … un’essenziale funzione non solo di regolamentazione della concorrenza e della gestione economica del litorale marino, ma anche di tutela dell’ambiente e del paesaggio, garantendone tra l’altro la fruizione comune anche al di fuori degli stabilimenti balneari”[69]. Detti piani sono quindi espressione dell’acquisita consapevolezza che la zona costiera, bene comune, esprime un notevole valore non solo d'uso ma anche di lascito[70].
Ancora prima che il rinnovo automatico delle concessioni fosse messo in discussione in sede europea, in occasione del primo procedimento di infrazione[71], il giudice amministrativo ha evidenziato come esso trovasse un limite nel persistente potere dell’amministrazione di pianificare e conformare l’uso del bene “analogamente a quanto accade in ogni fenomeno ordinario di pianificazione”[72]. In termini più generali, è stato affermato che “le scelte programmatorie della pubblica amministrazione non possono essere condizionate dalla pregressa indicazione di differenti destinazioni”[73].
Secondo una tesi recentemente sostenuta dalla dottrina, l’art. 6 d.l. n. 400 del 1993 avrebbe inoltre introdotto un presupposto necessario per la concedibilità di aree del demanio costiero, incidendo sui modi e limiti in cui il bene può essere oggetto di diritti di terzi ai sensi dell’art. 823 c.c.[74]: dal fatto che l’uso generale è la naturale destinazione di tali beni e dalla constatazione che dalla normativa successiva al codice civile non è evincibile una modifica del regime giuridico del demanio necessario che consenta di considerare non più un’eccezione l’uso particolare del bene, la dottrina in questione fa conseguire che, in assenza di un piano che specifichi la modalità di fruizione della singola area, rimane ferma la destinazione all'uso generale e l’area non può essere oggetto di diritti dei terzi.
Tale interpretazione del ruolo della pianificazione di settore porta alle estreme conseguenze la condivisibile ratio sottesa alla previsione di un piano di settore: allontanare le scelte sulle modalità di fruizione del bene dalla visione episodica della singola vicenda concessoria per inserirla in una visione ex ante e di insieme del territorio[75], in reazione al sistema derivato dal cod. nav. in cui la concessione ha assunto il ruolo di unico strumento di amministrazione delle risorse demaniali costiere dando luogo a un'amministrazione (non a un governo) “disorganica e puntiforme”[76].
Coerentemente a tale ratio, l’effetto di preclusione connesso alla mancanza del piano di utilizzazione è espressamente previsto in alcune regioni, come il Lazio[77] o la Sicilia[78], e allora è indiscutibile. Con riferimento a tali ipotesi il Consiglio di Stato ha anche escluso che la subordinazione del rilascio della concessione alla previa programmazione leda l’iniziativa economica privata perché rinviata sine die, considerato che, a fronte dell’eventuale inerzia dell’amministrazione nell’osservanza dell’obbligo di pianificazione, l’ordinamento appresta il rimedio del ricorso avverso il silenzio[79].
Con riferimento ai casi in cui tale preclusione sia espressamente prevista a livello regionale, è inoltre di particolare interesse la già citata sentenza della Corte costituzionale n. 108 del 2022, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3 e 9 Cost., di una disposizione regionale che, in deroga al divieto di nuove concessioni nei comuni sprovvisti del piano di utilizzazione del demanio marittimo imposto da una legge regionale precedente, consentiva, nel periodo dell’emergenza pandemica, di adottare provvedimenti concessori anche in assenza di piano, in tale modo finendo col determinare un abbassamento del livello di tutela dell’ambiente e del paesaggio. Tale abbassamento del livello di tutela non è giudicato illegittimo in sé, ma irragionevole non essendo diretto a tutelare interessi aventi pari rilevanza all’ambiente o al paesaggio (valori primari), quanto piuttosto gli interessi degli aspiranti alle nuove concessioni[80].
Va peraltro rilevato che, al di fuori delle ipotesi in cui sia espressamente previsto dalla disciplina regionale, la giurisprudenza non riconosce un effetto preclusivo all’esercizio del potere concessorio alla mancanza del piano[81], tradendo, a giudizio di chi scrive, il tenore letterale del citato art. 6 che collega espressamente (“ai fini”) all’esercizio del potere concessorio le prescrizioni conformative dei piani di settore.
Ad ogni modo, la previsione di una programmazione degli usi del demanio costiero costituisce ulteriore dimostrazione dell’erroneità di una valutazione meramente quantitativa di aree libere ai fini della verifica della sussistenza della condizione della scarsità.
Della complessità e della molteplicità dei valori che contraddistinguono il demanio costiero e della imprescindibilità di una programmazione degli usi sono emblematici gli obiettivi della gestione integrata delle zone costiere (GIZC)[82]: favorire lo sviluppo sostenibile delle zone costiere attraverso una pianificazione razionale delle attività, in modo da conciliare lo sviluppo economico, sociale e culturale con il rispetto dell’ambiente e dei paesaggi; preservare le zone costiere a vantaggio delle generazioni presenti e future; garantire l’utilizzo sostenibile delle risorse naturali; assicurare la conservazione dell’integrità degli ecosistemi, dei paesaggi e della geomorfologia del litorale; prevenire e/o ridurre gli effetti dei rischi naturali e, in particolare, dei cambiamenti climatici; conseguire la coerenza tra iniziative pubbliche e private e tra tutte le decisioni adottate da pubbliche autorità, a livello nazionale, regionale e locale, che hanno effetti sull’utilizzo delle zone costiere[83]. Tra i conseguenti pilastri su cui la gestione integrata delle zone costiere è fondata vi è l’esigenza che ogni decisione sia informata a una preventiva verifica della capacità di carico delle zone costiere, e quindi sulla conoscenza e valutazione anticipata degli effetti, garantendo un orizzonte di sostenibilità alle diverse attività antropiche che si concentrano nella fascia litoranea[84]. Da tanto consegue anche la necessità di adeguare al nuovo assetto valoriale i tradizionali strumenti di amministrazione, tra cui le concessioni a uso turistico ricreativo, subordinando lo sfruttamento turistico alla verifica della capacità di carico del tratto costiero interessato[85].
6. La scarsità delle risorse naturali secondo l’Adunanza plenaria: critica e rischio di una confutazione basata, a sua volta, su dati meramente quantitativi
Le peculiarità risultanti dalla specifica disciplina nazionale del demanio costiero, sopra descritte, non sono prese in considerazione dalla Corte di giustizia (del resto, il giudice europeo, per quanto riguarda l’interpretazione delle disposizioni del diritto nazionale, si basa sulle qualificazioni risultanti dalle decisioni di rinvio[86]), né dall’Adunanza plenaria nelle sentenze nn. 17 e 18 del 2021, incentrate sulla compatibilità delle proroghe ex lege al principio della concorrenza.
Come la Corte di giustizia (ma anche l’ANAC[87]), l’Adunanza plenaria ha adottato una prospettiva funzionalistica, rilevando che “il provvedimento che riserva in via esclusiva un’area demaniale … ad un operatore economico, consentendo a quest’ultimo di utilizzarlo come asset aziendale e di svolgere, grazie ad esso, un’attività d’impresa … va considerato, nell’ottica della direttiva 2006/123, un’autorizzazione …”; ha aggiunto che si tratta di autorizzazione contingentata, con conseguente applicazione dell’art. 12 della direttiva Bolkestein[88].
Per l’Adunanza plenaria la scarsità delle risorse naturali va considerata “in termini relativi e non assoluti, tenendo conto non solo della quantità del bene disponibile, ma anche dei suoi aspetti qualitativi e, di conseguenza, della domanda che è in grado di generare da parte di altri potenziali concorrenti”; nel considerare l’entità delle aree potenzialmente ancora concedibili al fine di valutare se il regime di proroga ex lege possa creare una barriera all’ingresso di nuovi operatori, l’Adunanza plenaria, valorizzando la capacità attrattiva del patrimonio costiero nazionale complessivamente inteso, i dati forniti dal Sistema informativo del demanio sull'occupazione delle coste sabbiose in Italia, la circostanza che in alcune regioni sia previsto un limite quantitativo massimo di costa concedibile (nella maggior parte dei casi coincidente con la percentuale già assentita), ha concluso nel senso della scarsità.
La scarsità è stata dunque affermata sulla base di un dato quantitativo generale nazionale, esponendo l’Adunanza plenaria alle critiche che hanno evidenziato, tra l’altro, come dovrebbero essere le singole amministrazioni comunali, competenti a gestire il demanio e a indire le procedure di evidenza pubblica, a stabilire quando nel loro territorio ci si trovi dinanzi a risorse scarse[89].
Il ragionamento seguito dall’Adunanza plenaria apre al rischio di confutazioni della indisponibilità fondate anch’esse - esattamente come l’assunto da confutare - su dati nazionali quantitativi (come i primi esiti del lavoro istruttorio del Tavolo tecnico inducono a pensare[90]).
L’iter argomentativo del supremo consesso si confarebbe, piuttosto, a un sistema “a domanda”[91], che i profili trattati in precedenza conducono però a escludere.
A conclusioni analoghe in punto di scarsità si può pervenire, piuttosto, attraverso un percorso argomentativo che, considerata la specificità di questi beni e il quadro normativo di riferimento, tenga conto: - della peculiare natura del demanio costiero e della naturale destinazione all’uso generale, mentre l’uso particolare è rimesso a valutazioni ampiamente discrezionali e, quindi, non prevedibili (considerazione che incide nella valutazione della disponibilità di aree ulteriori, rendendola impossibile ove operata in via generale e astratta e in assenza dei piani di settore prescritti); della pianificazione degli usi del demanio marittimo, ove esistente, quale strumento deputato ad attestare l’esistenza di aree ulteriori rispetto a quelle oggetto di concessione[92], e la cui mancanza, secondo qualificata dottrina[93], impedirebbe l’esercizio stesso del potere concessorio.
La recente (16 gennaio 2024) Lettera di risposta fornita dal governo italiano al Parere motivato della Commissione europea reso nell’ambito della procedura di infrazione avviata nel 2020[94] mostra di adottare, invece, una prospettiva radicalmente opposta laddove, a fronte della necessità rilevata dalla Commissione di considerare il limite quantitativo massimo di costa concedibile stabilito con legge in molte regioni e di escludere le aree non passibili di concessione dai criteri di valutazione sulla disponibilità di risorsa, replica che è necessario mantenere distinti due momenti del processo regolatorio, quali la fase di rilevazione dei tratti di costa astrattamente destinabili allo svolgimento di attività economica a scopo turistico-ricreativo e la fase di esercizio delle scelte relative alla destinazione effettiva ad attività economiche delle aree disponibili.
7. Considerazioni conclusive
L’analisi svolta conferma l’impellente necessità di una regolamentazione del settore, diretta sia a fornire certezza giuridica agli operatori e agli attuali concessionari (la tutela degli investimenti dei quali esula dal tema delle presenti note, ma si pone con altrettanta urgenza), sia a rendere effettive sul piano normativo le peculiarità del demanio costiero. In una dialettica tra uso generale e particolare rispettosa della funzione del demanio, l’uso generale (garantito e prioritario) può aprire a esperienze di gestione proprie dei beni comuni; per le aree per le quali sia pianificato un uso particolare, la concorrenza, adeguatamente regolamentata, può essere un moltiplicatore di utilità comuni. Se, in relazione alla natura ex se scarsa della risorsa qui sostenuta, il principio della concorrenza va rispettato, è infatti altrettanto doveroso non ridurre la disciplina delle concessioni alla stregua di un mero rapporto economico dominato dalla regola della concorrenza (intesa come “valore tiranno”[95]), tenendo in debita considerazione anche le esigenze connesse alla natura di tali beni: la direttiva Bolkestein lascia del resto agli Stati membri (par. 3 dell’art. 12) la possibilità di organizzare le procedure bilanciando i numerosi interessi pubblici in gioco, come la tutela delle identità culturali, la peculiarità dei tratti costieri e le esigenze di salvaguardia ambientale, o altri motivi imperativi d’interesse generale conformi al diritto comunitario.
Allo stato attuale, nulla è previsto in merito ai criteri della selezione, risultando troppo generico, in relazione alle plurime valenze del bene in questione, quanto indicato all’art. 37 cod. nav. (che indica i criteri dell’uso più proficuo e rispondente a un più rilevante interesse pubblico)[96] o il richiamo nell’art. 13, comma 5, Codice dei contratti pubblici (d.lgs. n. 36 del 2023), per i contratti attivi che offrono opportunità di guadagno economico, dei principi generali di cui agli artt. 1, 2 e 3[97].
La laconicità delle norme vigenti apre al contenzioso[98] e non garantisce che la selezione possa diventare essa stessa strumento di gestione attiva del demanio funzionale a orientare l’utilizzo da parte del concessionario dei diritti di esclusiva verso il perseguimento degli interessi pubblici sottesi alla demanialità stessa del bene pubblico.
Su tale ultima linea si poneva, invece, la Legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021[99], che, nel delegare il governo ad adottare, nel termine inutilmente scaduto di sei mesi, uno o più decreti legislativi in materia di affidamento delle concessioni demaniali per finalità turistico-ricreative e sportive (art. 4), elencava tra le finalità quelle di assicurare un più razionale e sostenibile utilizzo del demanio marittimo, lacuale e fluviale, favorirne la pubblica fruizione e promuovere, in coerenza con la normativa europea, un maggiore dinamismo concorrenziale, nel rispetto delle politiche di protezione dell'ambiente e del patrimonio culturale[100].
Con riguardo alle aree in concessione, la delega mirava ad assicurare un’adeguata considerazione dei vari interessi pubblici implicati dalla materia, dovendo la riforma prevedere in sede di affidamento della concessione la valorizzazione di “obiettivi di politica sociale, della salute e della sicurezza dei lavoratori, della protezione dell'ambiente e della salvaguardia del patrimonio culturale”, riproducendo le clausole di carattere generale menzionate nel paragrafo 3 dell’art. 12 della direttiva. Tra i principi e criteri direttivi vi era la determinazione di criteri omogenei per l'individuazione delle aree suscettibili di affidamento in concessione, assicurando l'adeguato equilibrio tra le aree demaniali in concessione e le aree libere o libere attrezzate[101].
Nell’ottica della protezione dell’ambiente e del patrimonio culturale, la delega mirava ad assicurare il minimo impatto sul paesaggio, sull’ambiente e sull’ecosistema, stabilendo una preferenza per i programmi di intervento con un utilizzo responsabile di attrezzature non fisse e completamente amovibili. Rilevante era anche la destinazione di una quota del canone a interventi di difesa delle coste e del relativo capitale naturale e di miglioramento della fruibilità delle aree demaniali libere. Era inoltre valorizzata la dimensione sociale della sostenibilità, in relazione alla struttura economica prevalente dell’impresa balneare italiana tradizionale rappresentata dalla micro-dimensionalità imprenditoriale. In ordine alla tutela dei lavoratori del settore, la riforma avrebbe dovuto prevedere clausole sociali volte a promuovere la stabilità occupazionale del personale impiegato nell’attività del concessionario uscente.
Ai fini della scelta del concessionario, avrebbero dovuto essere valutate la qualità e le condizioni del servizio offerto agli utenti alla luce del programma di interventi indicati dall’offerente per migliorare l’accessibilità e la fruibilità del demanio anche da parte dei soggetti con disabilità. Era poi rivolta attenzione all’altrettanto importante esigenza di tutela dei concessionari uscenti tramite la previsione di un indennizzo[102].
I ritardi del legislatore hanno comportato che l’attenzione sulle concessioni si sia focalizzata quasi esclusivamente sul profilo economico e della concorrenza, trascurando la complessità di questi beni e l’esigenza di approdare a un regime delle concessioni in grado di ritrovare la funzione pubblica del demanio costiero, per la quale la previa pianificazione e la disciplina delle selezioni risultano essere fondamentali.
[1] Tra i molteplici contributi, senza alcuna pretesa di esaustività, si ricordano i contributi pubblicati nel fascicolo dedicato di Dir. e soc., 2021, n. 3 (M.A. Sandulli, Introduzione al numero speciale sulle “concessioni balneari” alla luce delle sentenze nn. 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza Plenaria; F. Ferraro, Diritto dell’Unione europea e concessioni demaniali: più luci o più ombre nelle sentenze gemelle dell’Adunanza Plenaria?; G. Morbidelli, Stesse spiagge, stessi concessionari?; M. Gola, Il Consiglio di Stato, l’Europa e le “concessioni balneari”: si chiude una – annosa – vicenda o resta ancora aperta?; R. Dipace, L’incerta natura giuridica delle concessioni demaniali marittime: verso l’erosione della categoria; M. Calabrò, Concessioni demaniali marittime ad uso turistico-ricreativo e acquisizione al patrimonio dello Stato delle opere non amovibili: una riforma necessaria; E. Lamarque, Le due sentenze dell’Adunanza plenaria… le gemelle di Shining?; R. Rolli, D. Sammarro, L’obbligo di “disapplicazione” alla luce delle sentenze n. 17 e n. 18 del 2021 del Consiglio di Stato (Adunanza Plenaria); E. Zampetti, La proroga delle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreativa tra libertà d’iniziativa economica e concorrenza. Osservazioni a margine delle recenti decisioni dell’Adunanza Plenaria; G. Iacovone, Concessioni demaniali marittime tra concorrenza e valorizzazione; M. Ragusa, Demanio marittimo e concessione: quali novità dalle pronunce del novembre 2021?; P. Otranto, Proroga ex lege delle concessioni balneari e autotutela; B. Caravita di Toritto, G. Carlomagno, La proroga ex lege delle concessioni demaniali marittime. Tra tutela della concorrenza ed economia sociale di mercato. Una prospettiva di riforma); nonchè i contributi nel volume M. Gnes (a cura di), Le concessioni balneari tra diritti in conflitto e incertezza delle regole. Progressi, problemi, prospettive, Milano, 2023; G. Greco, La Corte di giustizia ritorna sulle concessioni balneari precisandone le regole: problemi superati e problemi ancora aperti in sede di applicazione nazionale del diritto UE, in Federalismi.it, 14 giugno 2023; C. Volpe, Concessioni demaniali marittime: un’ulteriore puntata di una storia infinita, in www.giustizia-amministrativa.it, 26 aprile 2023; A. Cossiri (a cura di), Coste e diritti. Alla ricerca di soluzioni per le concessioni balneari, Macerata, 2022; Id., Tutela del patrimonio naturale culturale e la gestione delle spiagge: l’annosa vicenda delle concessioni demaniali ad uso turistico, in A. Caligiuri, M. Ciotti (a cura di), Sostenibilità ambientale e gestione del patrimonio culturale marittimo. Riflessioni e proposte, Napoli, 2023, 59; M.C. Girardi, Nel “mare magnum” delle proroghe. Riflessioni a partire dalle sentenze nn. 17 e 18 del 2021 dell’Adunanza plenaria, in Osservatorio AIC, 2022, 2, 254; R. Dipace, Concessioni “balneari” e la persistente necessità della pronuncia della Corte di Giustizia, in www.giustiziainsieme.it, 14 ottobre 2022; F. Di Lascio, Le concessioni di spiaggia tra diritti in conflitto e incertezza delle regole, in Dir. amm., 2022, 1037; A. Cutolo, Concessioni demaniali: indennizzo o punteggio maggiorato al concessionario uscente? Le scelte del legislatore ad un anno dalle sentenze gemelle dell'Adunanza plenaria, in Riv. giur. edil., 2022, 527; B. Caravita, G. Carlomagno, “La proroga ex lege delle concessioni demaniali marittime. Tra tutela della concorrenza ed economia sociale di mercato. Una prospettiva di riforma”, Federalismi.it, 2021; F. Gaffuri, La disciplina nazionale delle concessioni demaniali marittime alla luce del diritto europeo, in CERIDAP, 2021, 3, 37; M. Timo, Funzioni amministrative e attività private di gestione della spiaggia Profili procedimentali e contenutistici delle concessioni balneari, Torino, 2020; M. Conticelli, Il regime del demanio marittimo in concessione per finalità turistico-ricreative, in Riv. trim. dir. pubbl., 2020, 4, 1071; C. Benetazzo, Il regime giuridico delle concessioni demaniali marittime tra vincoli U.E. ed esigenze di tutela dell’affidamento, in Federalismi.it, 28 dicembre 2016; L. Longhi, Concessioni demaniali marittime e utilità sociale della valorizzazione del patrimonio costiero, in Riv. corte conti, 2019, 1, 184; A. Lucarelli, L. Longhi, Le concessioni demaniali marittime e la democratizzazione della regola della concorrenza, in Giur. cost., 2018, 1251.
[2] Il contributo, prendendo spunto dalle sentenze del TAR Puglia, Lecce, 2 novembre 2023, nn. 1223 e 1224, ripropone le considerazioni svolte nella relazione Demanio costiero tra concorrenza e uso generale: la “scarsità della risorsa naturale, al convegno “Evoluzioni del diritto di proprietà sui beni pubblici. Il demanio marittimo, da demanio necessario a bene comune. Il caso Napoli”, Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, Napoli, 26 ottobre 2023, in occasione del quale è stato presentato il libro di A. Abbruzzese, Evoluzioni del diritto di proprietà sui beni pubblici. Il demanio marittimo, da demanio necessario a bene comune - Il caso Napoli, Napoli, 2023.
[3] In argomento C. Burelli, Le concessioni demaniali turistico-ricreative e il requisito della “scarsità delle risorse naturali” ex art. 12, par. 1, della direttiva servizi nella più recente giurisprudenza della Corte di giustizia, in BlogDUE, 10 settembre 2023. Cfr., inoltre, E. Scotti, Il regime delle spiagge nell’era del ritorno dello Stato: pensieri (eterodossi) per un cambio di paradigma, in M. Gnes (a cura di), Le concessioni balneari tra diritti in conflitto e incertezza delle regole, cit., 149.
[4] TAR Lazio, Roma, Sez. II, 15 gennaio 2021, n. 616 (“la risorsa naturale si caratterizza sotto il profilo della scarsità poiché le aree che possono essere oggetto di tale sfruttamento economico sono in numero limitato e ha carattere escludente in quanto preclude, una volta concesso l’uso, la possibilità che lo stesso bene possa essere sfruttato economicamente da altri operatori”); TAR Toscana, Firenze, Sez. II, 8 marzo 2021, n. 363 (“le spiagge sono beni naturali il cui numero è ontologicamente limitato, appunto in ragione della scarsità delle risorse naturali”); TAR Calabria, Catanzaro, Sez. I, 18 febbraio 2019, n. 307 (secondo cui l’utilizzazione del demanio marittimo “è intrinsecamente limitata”). La questione dell’applicabilità dell’art. 12 della Direttiva servizi si pone in termini analoghi e altrettanto urgenti con riguardo alle concessioni di posteggi per l’esercizio del commercio su aree pubbliche, su cui Cons. Stato, Sez. VII, 19 ottobre 2023, n. 9104 che, a proposito della scarsità della risorsa, rileva: “le attività di commercio su aree pubbliche… in analogia con il demanio marittimo, esibiscono il connotato dalla scarsità la quale ai sensi del più volte richiamato art. 12 della direttiva servizi giustifica la selezione “per il mercato”, in cui l'accesso al settore economico avvenga mediante procedure ad evidenza pubblica. .... In entrambi i casi l'attività economica è consentita solo attraverso l'utilizzo del bene pubblico, il quale pertanto, sulla base della sua naturale limitatezza, giustifica la selezione degli operatori economici mediante criteri obiettivi e trasparenti, propri dell'evidenza pubblica” (il corsivo è di chi scrive).
[5] TAR Abruzzo, Pescara, Sez. I, 3 febbraio 2021, n. 40 (“la circostanza che vi siano altre porzioni di spiaggia libera …, pur suggestiva, non può assumere rilievo dirimente, atteso che le concessioni demaniali marittime con finalità turistico ricreative hanno come oggetto un bene/servizio che è ontologicamente “limitato” nel numero e nell'estensione a causa appunto della scarsità delle risorse naturali, poiché la spiaggia è un bene pubblico demaniale comunque limitato nell'estensione; - la scarsità, cioè, non viene meno perché una parte del tutto non è stata ancora assegnata, in quanto è un connotato che riguarda il bene nel suo complesso, che è appunto limitato nello spazio e dunque non accessibile astrattamente a tutti, e perciò la sua assegnazione deve rispettare il principio di concorrenza”); TAR Calabria, Reggio Calabria, 13 giugno 2022, n. 424; Cons. Stato, Sez. VI, 1 marzo 2023, n. 2192.
[6] Cass., Sez. un., 23 novembre 2023, n. 32559 ha cassato, con rinvio al Consiglio di Stato, per diniego di giurisdizione la sentenza dell’Adunanza plenaria n. 18/2021, affermando che costituisce “motivo di giurisdizione”, deducibile avverso una sentenza del Consiglio di Stato sotto forma di diniego o rifiuto della tutela giurisdizionale, quello con cui si denuncia che il giudice amministrativo ha dichiarato, in via pregiudiziale, inammissibile l’intervento di un ente portatore di un interesse collettivo o di un ente territoriale, senza esaminare in concreto il contenuto dei loro statuti o senza valutare la loro concreta capacità di farsi portatori degli interessi della collettività di riferimento. Successivamente TAR Lazio, Roma, Sez. V-ter, 15 dicembre 2023, n. 19051, sul rilievo che la Cassazione non ha affrontato il tema della proroga ex lege delle concessioni demaniali marittime, profilo assorbito dall’accoglimento del primo motivo di ricorso, ha ritenuto che restino fermi i principi espressi dall’Adunanza plenaria, “che riflettono gli orientamenti espressi dalla Corte di Giustizia e dalla consolidata giurisprudenza nazionale”.
[7] TAR Lazio, Roma, Sez. V-ter, 15 dicembre 2023, n. 19051. La nozione di scarsità della risorsa naturale non è trattata nemmeno dalla Corte costituzionale; la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di disposizioni regionali che, non prevedendo procedure di selezione aperta, pubblica e trasparente tra gli operatori economici interessati, determinavano un ostacolo all’ingresso di nuovi soggetti nel mercato, stante la competenza esclusiva statale in materia di tutela della concorrenza (art. 117, comma 2, lett. e), Cost.) e il contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost. per lesione dei principi di derivazione europea nella medesima materia (tra le altre, Corte cost., 24 febbraio 2017, n. 40; 29 gennaio 2021, n. 10).
[8] A. Paiano, Il ruolo dell’amministrazione e del giudice nelle concessioni demaniali marittime: necessità di una valorizzazione, in A. Cossiri (a cura di), Coste e diritti. Alla ricerca di soluzioni per le concessioni balneari, cit., 199.
[9] L’AGCM aveva notificato parere ex art. 21 l. n. 287/1990, sollecitando l’espletamento di procedure di evidenza pubblica, al fine di garantire il rispetto dei principi di concorrenza e di libertà di stabilimento, disapplicando la normativa nazionale di proroga. Stante il mancato adeguamento comunale, l’AGCM ha impugnato gli atti indicati nel testo.
[10] TAR Puglia, Lecce, Sez. I, ord. 11 maggio 2022, n. 743, per un commento alla quale si v. M. Timo, Le proroghe ex lege delle concessioni “balneari” alla Corte di Giustizia: andata e ritorno di un istituto controverso (nota a T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, ordinanza 11 maggio 2022, n. 743), in Giustiziainsieme.it, 2022; C. Burelli, Un nuovo (discutibile) capitolo della saga “concessioni balneari”: il TAR Lecce investe la Corte di giustizia di un rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE, in BlogDUE, 30 maggio 2022.
[11] Su cui: A. Persico, Concessioni balneari: interviene la Corte di giustizia, a conferma della posizione dell’Adunanza Plenaria. (Nota a Corte di giustizia, Sez. III, sentenza 20 aprile 2023, in causa C-348/22), in Giustiziainsieme.it, 27 luglio 2023; D. Diverio, Nulla di nuovo… sotto il sole? Qualche considerazione a prima lettura sulla sentenza della Corte di giustizia nella causa AGCM c. Comune di Ginosa, in AA.VV., Quaderni AISDUE, Napoli, 2023, 1, 205. Cfr., inoltre, C. Burelli, Le concessioni demaniali turistico-ricreative e il requisito della “scarsità delle risorse naturali”, cit.; C. Curti Gialdino, La sentenza della Corte di giustizia europea del 20 aprile 2023 in tema di concessioni balneari. Spunti critici e proposte per chiudere una storia infinita, in Ordine internazionale e diritti umani, 2023, 455.
[12] Corte di giustizia, 14 luglio 2016, C-458/14 e C‑67/15, Promoimpresa e Melis, per un commento alla quale si v. G. Bellitti, La direttiva Bolkenstein e le concessioni demaniali marittime, lacuali e fluviali, in Giorn. dir. amm., 2017, p. 60; E. Boscolo, Beni pubblici e concorrenza: le concessioni demaniali marittime, in Urb. e app., 2016, 1217.
[13] In argomento, a dimostrazione dell’incertezza determinata dalle due pronunce, cfr. Cons. Stato, Sez. VII, 23 novembre 2023, n. 10050 che, da un lato, richiama le sentenze nn. 17 e 18 dell’Adunanza plenaria e, dall’altro lato, richiamando CGUE Promoimpresa, rileva che “ai fini di stabilire l’entità della risorsa in questione occorre aver riguardo alla situazione del territorio comunale”.
[14] TAR Puglia, Lecce, n. 1224/2023, punto 6.
[15] TAR Puglia, Lecce, n. 1224/2023, punto 8.
[16] CGUE Ginosa: “78. A tal riguardo, occorre precisare che l'indicazione contenuta al punto 43 della sentenza del 14 luglio 2016, Promoimpresa e a. (C-458/14 e C-67/15, EU:C:2016:558), secondo la quale spettava al giudice nazionale verificare se il requisito relativo alla scarsità delle risorse naturali, previsto dall'articolo 12, paragrafo 1, della direttiva 2006/123, fosse soddisfatto, non può significare che solo i giudici nazionali siano tenuti a verificare la sussistenza di tale requisito. Infatti, allorché il numero di autorizzazioni disponibili per una determinata attività è limitato per via della scarsità delle risorse naturali utilizzabili, ogni amministrazione è tenuta ad applicare, in forza di tale disposizione, una procedura di selezione tra i candidati potenziali e a garantire che tutte le condizioni previste da detta disposizione siano rispettate, disapplicando, se del caso, le norme di diritto nazionale non conformi”.
[17] CGUE Ginosa, punto 64. Precedenti in termini sono: 8 marzo 2022, Bezirkshauptmannschaft Hartberg-Fürstenfeld, C-205/20, punto 19; 14 gennaio 2021, RTS, C-387/19, punto 47; 5 ottobre 2004, Pfeiffer e a., da C‑397/01 a C‑403/01. Diversamente, quando la discrezionalità riservata agli Stati membri nell’attuazione di una disposizione è “ampia”, è preclusa la diretta efficacia della norma: CGUE 4 ottobre 2018, causa C-384/17, Link Logistic, punti 47-56.
[18] CGUE Ginosa, punto 65.
[19] Cfr. D. Diverio, Nulla di nuovo… sotto il sole? Qualche considerazione a prima lettura sulla sentenza della Corte di giustizia nella causa AGCM c. Comune di Ginosa, cit.
[20] Cfr. C. Burelli, Le concessioni demaniali turistico-ricreative e il requisito della “scarsità delle risorse naturali” ex art. 12, par. 1, della direttiva servizi nella più recente giurisprudenza della Corte di giustizia, per la distinzione tra scarsità assoluta, relativa e “di destinazione”.
[21] In argomento J. Wolswinkel, The allocation of a limited number of authorisations. Some general requirements from European law, (September 29, 2009), https://ssrn.com/abstract=1934152 o http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.1934152, 18: (a) notion of scarcity is that of absolute scarcity. According to this definition, goods are scarce if their quantity has a finite physical limit (and cannot be extended by human intervention) …When considering scarcity of available natural resources within the meaning of Article 12, the notion of absolute scarcity seems most relevant. …. Nevertheless, the notion of relative scarcity remains important for the application of Article 12 as well. If some natural resource can be used for several applications, administrative authorities should decide which quantity of the resource is available for which application: the greater the quantity of a natural resource given for a certain application, the smaller the quantity left for other applications … Therefore, the mere fact that more quantity of some natural resource could have been available for a certain application (even up to the level of satisfaction), does not take away the presence of scarcity if insufficient quantity of this resource had been left for other applications. In such a situation, it could be argued that the condition of scarcity in the meaning of Article 12 would be fulfilled as well”.
[22] In argomento M. Gnes, Le spiagge e le coste: problema o risorsa?, in M. Gnes (a cura di), Le concessioni balneari tra diritti in conflitto e incertezza delle regole, cit., 13.
[23] F. Cammeo, Demanio (voce), in Dig. It., IX, Torino 1989, 881.
[24] A. Abbruzzese, Evoluzioni del diritto di proprietà sui beni pubblici, cit., 29; E. Boscolo, Beni pubblici e concorrenza: le concessioni demaniali marittime, cit., 1219.
[25] In argomento M. Olivi, Beni demaniali ad uso collettivo. Conferimento di funzioni e privatizzazione, Padova, 2005, 69 ss.
[26] G. Colombini, Lido e spiaggia (voce), in Dig. disc. pubbl., 1994, IX, 262. Sulla distinzione tra uso diretto, uso promiscuo, uso generale e uso particolare dei beni pubblici si v. A. Police, I beni di proprietà pubblica, in F.G. Scoca (a cura di), Diritto amministrativo, Torino, 2014, 518-519.
[27] Per effetto del d.P.R. n. 616/1977 (art. 59) e, poi, del d.lgs. n. 112/1998 (art. 105), le funzioni amministrative, tra cui il rilascio delle concessioni, sono state conferite alle regioni. L’art. 42 d.lgs. n. 96/1999 ha poi previsto che le funzioni di cui al citato art. 105 siano esercitate dai comuni. In argomento M. Conticelli, Effetti e paradossi dell'inerzia del legislatore statale nel conformare la disciplina delle concessioni di demanio marittimo per finalità turistico-ricreative al diritto europeo della concorrenza, in Giur. cost., 2020, 2475.
[28] F. Francario, Il demanio costiero. Pianificazione e discrezionalità, in Giustizia insieme, 16 novembre 2021.
[29] E. Boscolo, Beni pubblici e concorrenza: le concessioni demaniali marittime, cit., 1219.
[30] I pubblici usi del mare sono richiamati ma non definiti agli artt. 33, 35 e 42 del Codice della navigazione. In argomento M. Ragusa, Demanio marittimo e concessione, cit., 553; M. Timo, Funzioni amministrative e attività private di gestione della spiaggia, cit., 74.
[31] E. Boscolo, Beni pubblici e concorrenza: le concessioni demaniali marittime, cit., 1219; M. Gnes (a cura di), Le concessioni balneari tra diritti in conflitto e incertezza delle regole, cit., 15.
[32] Su tale evoluzione ampi riferimenti dottrinari in M. Timo, Funzioni amministrative e attività private di gestione della spiaggia Profili procedimentali e contenutistici delle concessioni balneari, cit., 74.
[33] M.L. Corbino, Il demanio marittimo. Nuovi profili funzionali, Milano, 1990, 30-31.
[34] L. 3 aprile 1997, n. 94 e d.lgs. 7 agosto 1997, n. 279.
[35] F. Francario, Il demanio costiero, cit.; A. Giannelli, Beni sfruttabili o consumabili: demanio marittimo e porti, in Federalismi.it, 16 novembre 2016, 9.
[36] Art. 14, commi 1 e 2, d.lgs. n. 279 del 1997.
[37] S. Villamena, Concessioni demaniali marittime e concorrenza. (Profili ricostruttivi e modalità operative), in G. Lami, C. A. Nebbia Colomba, S. Villamena, Le concessioni demaniali marittime, Padova, 2010, 87 (spec. nota 104); M. Gnes, Le spiagge e le coste: problema o risorsa?, cit., 14.
[38] In argomento A. Giannelli, Beni sfruttabili o consumabili: demanio marittimo e porti, cit.; G. Colombini, Lido e spiaggia (voce), cit., 272. Cfr. Corte dei Conti, Sez. giur. per il Veneto, 16 aprile 2018, n. 53, che, nel trattare questioni concernenti l’entità del canone, ha rilevato: “L’ampliarsi dell'attività gestionale dei beni pubblici da parte della pubblica amministrazione in funzione regolatoria dei rapporti concessori ha determinato, sotto altro profilo, un assetto ordinamentale per cui la funzione del bene demaniale da finale diviene strumentale ed il bene demaniale assume il carattere di strumento per la produzione di utilità economiche per un privato imprenditore: la concessione, in quest'ottica, costituisce il mezzo tipico di valorizzazione del bene, cui deve necessariamente corrispondere, in capo al concedente, l'accrescimento patrimoniale correlata all'utilità tratta dal privato in applicazione del principio di proporzionalità”.
[39] M. Calabrò, Concessioni demaniali marittime ad uso turistico-ricreativo e acquisizione al patrimonio dello Stato delle opere non amovibili, cit., 452.
[40] Se “La concessione non muta la destinazione del bene”, essa postula, infatti, “un significativo affievolimento delle possibilità di uso generale da parte della collettività”: E. Boscolo, Beni pubblici e concorrenza: le concessioni demaniali marittime, cit., 1222.
[41] In argomento A. Lucarelli, Il nodo delle concessioni demaniali marittime tra non attuazione della Bolkestein, regola della concorrenza ed insorgere della nuova categoria “giuridica” dei beni comuni, in Dirittifondamentali.it, 14 maggio 2019, 8.
[42] In argomento E. Boscolo, Beni pubblici e concorrenza: le concessioni demaniali marittime, cit., 1220.
[43] E. Boscolo, Beni pubblici e concorrenza: le concessioni demaniali marittime, cit., 1219.
[44] L. Di Giovanni, Il ruolo della pianificazione paesaggistica nella difesa delle coste italiane, in M. Gnes (a cura di), Le concessioni balneari tra diritti in conflitto e incertezza delle regole, cit., 91.
[45] Cons. Stato, Sez. VI, 10 marzo 2023, n. 2559.
[46] In argomento, tra i più recenti contributi, A. Abbruzzese, Evoluzioni del diritto di proprietà sui beni pubblici, cit., 56; G. Iacovone, Concessioni demaniali marittime tra concorrenza e valorizzazione, cit., 542; R. Palliggiano, Verso la “ridestinazione collettiva” del demanio marittimo: dal principio di evidenza pubblica alla categoria dei beni comuni, in A. Cossiri (a cura di), Coste e diritti. Alla ricerca di soluzioni per le concessioni balneari, cit., 227.
[47] Tra i molti contributi, V. Cerulli Irelli, Diritto pubblico della proprietà e dei beni, Torino, 2022, 177; L. Longhi, Concessioni demaniali marittime e utilità sociale della valorizzazione del patrimonio costiero, cit., 185; A. Lucarelli, Il nodo delle concessioni demaniali marittime tra non attuazione della Bolkestein, regola della concorrenza ed insorgere della nuova categoria “giuridica” dei beni comuni, cit.
[48] A. Lucarelli, Beni comuni. Contributo per una teoria giuridica, in Costituzionalismo.it, 2014, 3.
[49] In argomento cfr. le considerazioni svolte F. Francario, Il demanio costiero, cit.: “la quintessenza della demanialità necessaria (la proprietà pubblica come garanzia di usi non commerciali dei beni necessari per la collettività) è stata fatta uscire dalla porta ma è stata fatta poi rientrare dalla finestra teorizzando la sottrazione alla proprietà pubblica del nucleo di beni che devono per natura ritenersi extra commercium”.
[50] A. Lucarelli, Il nodo delle concessioni demaniali marittime tra non attuazione della Bolkestein, regola della concorrenza ed insorgere della nuova categoria “giuridica” dei beni comuni, cit.,
[51] Sulla necessità di riconsiderare l’oggetto stesso della demanialità, “da assumere non alla stregua di un bene rilevante in quanto suscettibile di assicurare utilità secondo dinamiche economiche, bensì quale porzione di un vulnerabile comparto ambientale di scambio terramare, produttivo di servizi ecologici (e culturali) a fruizione indivisa”, E. Boscolo, Beni pubblici e concorrenza: le concessioni demaniali marittime, cit., 1220, osserva che “Più che di un rapporto di appartenenza è invece preferibile parlare di una mera imputazione al soggetto pubblico: una imputazione avente ad oggetto risorse che vanno doverosamente tutelate e gestite nella prospettiva prioritaria della loro preservazione di lungo periodo e trasmissione alle generazioni future, con conseguente imperativo di armonizzazione delle logiche dello sfruttamento con quelle della conservazione”.
[52] Corte dei Conti, Sez. giur. per il Veneto, 16 aprile 2018, n. 53.
[53] Cass. civ., Sez. un., 14 febbraio 2011, n. 3665.
[54] In argomento A. Abbruzzese, Evoluzioni del diritto di proprietà sui beni pubblici, cit., 24 ricostruisce la categoria giuridica dei beni pubblici, ripristinando la distinzione tra questi e proprietà pubblica offuscata a causa della visione proprietaria-privatistica della pandettistica tedesca del bene pubblico, per poi riassegnare alla categoria del demanio marittimo la sua originaria funzione di dominio collettivo, accessibile a tutti e inappropriabile in via esclusiva (50); la proprietà pubblica, infatti, fondata sul concetto di appropriazione, si è sovrapposta al modello demaniale e non tiene conto della funzione sociale del bene pubblico, usandolo per soddisfare gli interessi del dominus (p.A.) anziché le esigenze della communitas: in tale ottica il bene è legato alla funzione che il dominus intende attribuirgli, configurando rapporti escludenti. Sulla distinzione tra lo statuto pubblicistico e quello privatistico della proprietà nella Costituzione, cfr. G. Della Cananea, Le concessioni del demanio marittimo: un mutamento di prospettiva, cit., 24-25 e 31.
[55] Di dialettica tra uso generale e uso particolare si occupa A. Giannelli, Beni sfruttabili o consumabili: demanio marittimo e porti, cit.
[56] Cons. Stato, Sez. VII, 11 agosto 2023, n. 7751. Cfr., inoltre, Cons. Stato, Sez. VI, 7 marzo 2016, n. 892 (“in sede di valutazione dell'interesse demaniale, cioè dell'interesse pubblico che il bene non sia sottratto al suo normale uso generale (pubblico ex art. 36 cod. nav.), l'amministrazione può considerare e valutare tutti gli interessi pubblici specifici che, insorgenti dalla dimensione territoriale del bene, interferiscono sull'uso individuale a base della richiesta di concessione; questa, proprio in quanto viene considerata eccezionale, deve essere del tutto compatibile con l'intero spettro delle esigenze pubblicistiche gravanti sul territorio in cui ricade l'area oggetto della richiesta concessione”; non rileva nemmeno “in senso ostativo all'esercizio da parte dell'Amministrazione del suo potere di scegliere la destinazione del bene demaniale la circostanza che lo stesso sia stato precedentemente oggetto di concessione demaniale. Non vi è dubbio, infatti, che alla scadenza della concessione l'Amministrazione possa rinnovare la valutazione dell'interesse pubblico e ritenere preferibile destinare il bene al libero uso della collettività, piuttosto che rinnovare la concessione”).
[57] Cfr., anche, Cons. Stato, Sez. V, 2 marzo 2018, n. 1296.
[58] L’art. 37 cod. nav. (“Concorso di più domande di concessione”) dispone che “Nel caso di più domande di concessione, è preferito il richiedente che offra maggiori garanzie di proficua utilizzazione della concessione e si proponga di avvalersi di questa per un uso che, a giudizio dell'amministrazione, risponda ad un più rilevante interesse pubblico”.
[59] Cons. Stato, Sez. VII, 11 agosto 2023, n. 7751, cit., che aggiunge: “poiché siffatta valutazione è ampiamente discrezionale, la decisione dell’Amministrazione, limitatamente a siffatto profilo, è censurabile soltanto in caso di illegittimità per manifesta o macroscopica contraddittorietà o irrazionalità della motivazione”. Nel caso in esame, il Comune di Porto Cesareo aveva ritenuto maggiormente utile per la collettività il libero utilizzo del bene demaniale rispetto al rilascio della concessione richiesta da un operatore, valorizzando all’uopo due elementi, ossia la vicinanza dell’area al centro abitato e il tradizionale uso pubblico della spiaggia per la libera fruizione e balneazione. Questa motivazione rende la decisione, a giudizio del Consiglio di Stato, coerente, logica e non censurabile sul piano motivazionale. Cfr., inoltre, Cons. Stato, Sez. VI, 9 giugno 2008, n. 2757: “i beni del demanio marittimo sono istituzionalmente ed in via generale rivolti all’uso pubblico e, pertanto, la scelta dell’Amministrazione di mantenere tale destinazione relativamente ad un determinato bene demaniale, pur in presenza di una domanda di concessione, non richiede una motivazione specifica, apparendo sufficiente la concreta indicazione della incompatibilità della nuova destinazione con l’uso pubblico. Al contrario, tale specifica motivazione sarebbe necessaria nel caso di adozione di un provvedimento di concessione del terreno demaniale, atteso che quest'ultimo atto, distogliendo il bene demaniale dalla destinazione ad uso pubblico, dovrebbe indicare le ragioni che inducano a ritenere la destinazione ad un uso diverso da quello istituzionale, compatibile e non pregiudizievole per l’interesse generale”; Id., Sez. V, 2 marzo 2018, n. 1296. In argomento B. Tonoletti,Beni pubblici e concessioni, Padova, 2008, 351.
[60] Il demanio costiero risulta per sottrazione dalle aree comprese nel demanio marittimo di quelle di pertinenza dei porti (oggetto di pianificazione di settore attribuita alle autorità portuali ai sensi della l. n. 84 del 1994, art. 5): in argomento V. Cerulli Irelli, Diritto pubblico della proprietà e dei beni, cit., 145; F. Francario, Il demanio costiero, cit..
[61] Art. 1, comma 254, l. 27 dicembre 2006, n. 296. In argomento M. Ragusa, Demanio marittimo e concessione: quali novità dalle pronunce del novembre 2021?, cit., 569, osserva come il mutato quadro delle competenze al rilascio delle concessioni abbia sollevato la necessità di trovare una sintesi tra gli usi concessi e l’uso generale e per “scongiurare il rischio che, assegnato all’amministrazione degli enti territoriali minori, il potere concessorio possa con ancora più facilità che in passato prestarsi a un impiego incontrollato”, l’art. 6 citato ha imposto la predisposizione di un piano di utilizzazione del demanio marittimo. Alcune regioni (come indicato nel Report Spiagge 2023 di Legambiente 2023, alle pagg. 55 e ss.) hanno prefissato con legge detta percentuale, come la Puglia (l.r. n. 17/2006) o il Lazio (l.r. n. 8/2015); in Sardegna la percentuale è fissata nelle “Linee guida per la predisposizione del Piano di utilizzo dei litorali”, deliberazioni G.R. 12/8 del 5/3/2013 e 10/5 del 21/2/2017. Cfr. E. Scotti, Il regime delle spiagge nell’era del ritorno dello Stato: pensieri (eterodossi) per un cambio di paradigma, cit., 155-156 ritiene che il legislatore statale dovrebbe fissare delle percentuali minime di arenile da destinare al pubblico godimento quale l.e.p. concernente diritti fondamentali da garantire in modo uniforme ai sensi dell’art. 117, comma 2, lett. m), Cost.
[62] In argomento Corte cost., 24 febbraio 2017, n. 40 (par. 4.1).
[63] Cui tale disciplina è ricondotta, si v. Corte cost., 24 febbraio 2017, n. 40.
[64] Nella regione Campania, ad esempio, il PUAD costituirà il quadro di riferimento per la predisposizione, da parte dei Comuni costieri, dei piani attuativi di utilizzazione (PAD) e per l’esercizio delle funzioni di gestione sul demanio marittimo non portuale.
[65] M. Calabrò, Concessioni demaniali marittime ad uso turistico-ricreativo, cit., 454: tramite questi strumenti di pianificazione “le amministrazioni regionali esercitano la scelta discrezionale “di fondo” circa l’utilizzo dell’area demaniale, ovvero se destinarla al suo naturale uso generale o, al contrario, se prevederne uno sfruttamento economico mediante uso eccezionale”.
[66] M. Ragusa, Demanio marittimo e concessione: quali novità dalle pronunce del novembre 2021?, cit., 570.
[67] In esito al processo pianificatorio risultano individuate le aree destinabili alle diverse modalità di fruizione del litorale: quella soddisfatta dalla semplice esistenza del bene demaniale e che, presupponendo l’accessibilità generale, richiede l’esercizio di poteri pubblici strumentali alla conservazione della risorsa, e quella soddisfatta da un particolare impiego del bene che, richiedendone un uso esclusivo, presuppone l’esercizio di funzioni distributive tramite la concessione: M. Ragusa, Demanio marittimo e concessione, cit., 570. In argomento, si v. anche G. Torelli, Concessioni balneari e governo del territorio, in M. Gnes (a cura di), Le concessioni balneari tra diritti in conflitto, cit., 85.
[68] Corte cost., 5 maggio 2022, n. 108, in Giorn. dir. amm., 2022, 770.
[69] Analogamente Cons. Stato, Sez. V, 21 giugno 2005, n. 3267.
[70] E. Boscolo, Beni pubblici e concorrenza: le concessioni demaniali marittime, cit., 1221-1222. L’attuazione del citato art. 6 è stata però scarsa, a ciò contribuendo la previsione del diritto di insistenza e il regime di proroga automatica introdotto nel 2001 (l. n. 88, art. 10), che hanno condotto alcune regioni a circoscrivere la dialettica tra uso generale e usi eccezionali alle porzioni in cui tale scelta fosse ancora possibile (come accaduto in Sicilia dove le Linee guida per la redazione da parte dei Comuni dei piani di utilizzazione del demanio marittimo del 2016 prevedono una riserva non inferiore al 50% del litorale per la fruizione pubblica facendo espressamente salve le concessioni già rilasciate): M. Ragusa, Demanio marittimo e concessione, cit., 572.
[71] Commissione europea, Lettera di messa in mora 2 febbraio 2009, n. 2008/4908 con cui l’U.E. aveva sollecitato lo Stato italiano a eliminare la preferenza accordata al precedente concessionario perché contraria al principio di libertà di stabilimento (attuale art. 49 TFUE) e all’art. 12 direttiva Bolkestein. L’art. 1, comma 18, d.l. 30 dicembre 2009, n. 194, conv. in l. 26 febbraio 2010 n. 25, abrogava, quindi, il comma 2 dell’art. 37 cod. nav. nella parte in cui prevedeva il cd. diritto di insistenza. Anche il rinnovo automatico, previsto dall’art. 01, c. 2, d.l. n. 400/1993 è stato abrogato dall’art. 11 l. 15 dicembre 2011, n. 217. Espunto dall’ordinamento interno il diritto di insistenza e abrogato l’art. 01, comma 2, d.l. n. 400/1993, il legislatore nazionale aveva però previsto, contestualmente, una proroga al 31 dicembre 2015 delle concessioni per finalità turistico-ricreative in essere e in scadenza prima di tale data, poi posticipata al 2020 (art. 34-duodecies d.l. n. 179/2012, conv. in l. n. 221/2012), qualificando tale disciplina come transitoria in quanto dettata “nelle more del procedimento di revisione del quadro normativo in materia di rilascio delle concessioni” di beni demaniali marittimi. La proroga ope legis ha costituito oggetto di due rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia che, nella già più volte citata sentenza Promoimpresa ha chiarito che una proroga ex lege delle concessioni demaniali marittime, così come di quelle lacuali, in essere per attività turistico-ricreative equivale a un rinnovo automatico, in contrasto con l’art. 12 direttiva Bolkestein. Non è intervenuta negli anni successivi una riforma tale da rendere compatibile la normativa interna con l’ordinamento U.E.: approssimandosi la scadenza del 31 dicembre 2020, con la Legge di bilancio 2019 (art. 1, commi 682, 683 e 684, l. n. 145/2018), il legislatore ha prorogato le concessioni demaniali marittime non ancora scadute, rideterminando il termine di scadenza al 31 dicembre 2033, con conseguente avvio della Procedura di infrazione n. 2020/4118, con lettera di costituzione in mora del 3 dicembre 2020, cui ha fatto seguito il Parere motivato della Commissione europea del 16 novembre 2023 (C(2023)7231) che ha assegnato all’Italia il termine di due mesi per conformare alla direttiva Bolkestein l’ordinamento nazionale. Da ultimo, con la recentissima Lettera di risposta al parere motivato del 16 gennaio 2024, l’Italia ha rappresentato all’U.E. la natura propedeutica della definizione dei criteri sulla scarsità delle risorse, “atti a fornire indicazioni certe e omogenee sull’intero territorio nazionale” e scongiurare il rischio di un’applicazione asimmetrica della disciplina unionale “che alimenterebbe situazioni di incertezza giuridica e disparità di trattamento per gli operatori di settore”; le proroghe, temporalmente limitate, sono quindi giustificate – spiega il governo – dall’esigenza di completare gli approfondimenti istruttori e i percorsi procedimentali necessari a chiarire le modalità di applicazione della direttiva servizi. Sulle varie proroghe si v. C. Feliziani, Le concessioni balneari tra diritto dell’Unione europea e diritto interno. Un’altra occasione mancata?, in M. Gnes (a cura di), Le concessioni balneari, cit., 48 ss..
[72] TAR Abruzzo, L’Aquila, Sez. I, 3 giugno 2009, n. 246 (confermata da Cons. Stato, Sez. VI, 6 settembre 2010, n. 6477.
[73] TAR Liguria, Sez. I, 30 agosto 2018, n. 683. In argomento G. Torelli, Concessioni balneari e governo del territorio, cit., 87.
[74] F. Francario, Il demanio costiero, cit.: dopo avere illustrato i fattori che in astratto potrebbero avere determinato un cambiamento del regime giuridico dei beni demaniali in questione e dopo avere illustrato come in concreto due di questi fattori, quali la patrimonializzazione dei beni pubblici e il trasferimento di funzioni amministrative, non abbiano mutato detto regime, ritiene, invece, che “l’intervento legislativo che impone la pianificazione di settore incide anche sui modi e limiti in cui in cui possono sorgere diritti dei terzi sul bene demaniale costiero”.
[75] Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 9 giugno 2008, n. 2757 che giudica legittimo il diniego di concessione motivato con “l’opportunità di evitare che il rilascio della concessione richiesta possa impedire la realizzazione dell’assetto complessivo organico della zona mediante apposito strumento attuativo prescritto dalla Regione Lazio; opportunità derivante dalla considerazione che notoriamente sorgono difficoltà quando l’Amministrazione intenda ottenere la disponibilità di un’area assentita in concessione”.
[76] E. Boscolo, Beni pubblici e concorrenza, cit., 1222.
[77] Cfr. TAR Lazio, Roma, Sez. II, 16 giugno 2022, n. 8056 e Id., 14 giugno 2022, n. 7906, che sulla base di una disposizione regolamentare regionale espressa, considerano l’adozione del piano comunale, in coerenza con il piano regionale (disciplinato dall’art. 46 l.r. n. 13 del 2007), presupposto indispensabile per l’avvio delle procedure di evidenza pubblica.
[78] Art. 2 l.r. n. 32/2020, su cui Corte cost., n. 108/2022 già citata.
[79] Cons. Stato, Sez. VI, 15 novembre 2021, n. 6028: nel caso di specie una deliberazione della Giunta regionale del Lazio del 2001 disponeva che “Sino all’avvenuta pubblicazione… dell’accordo di programma relativo al P.U.A., non possono essere autorizzate variazioni nell’ampiezza delle concessioni”. Il Consiglio di Stato osserva che “scopo di questa disciplina è quello di regolare il rilascio delle concessioni del bene demaniale degli arenili in modo che l’interesse privato al loro utilizzo economico sia coordinato al meglio con la salvaguardia dei rilevanti interessi pubblici coinvolti, relativi alla conservazione e riqualificazione dei beni, alla tutela ambientale, alla loro fruizione pubblica, al complessivo sviluppo turistico della località interessata, e ciò è consentito soltanto da una previa programmazione, poiché con essa l’utilizzo degli arenili è inserito nel quadro di un equilibrio predefinito degli interessi da tutelare”; nell’affermare ciò, il g.a. richiama il “principio generale sulla indefettibilità degli strumenti di programmazione, anche di natura attuativa, previsti dalle normative di settore, come in materia di uso del territorio, come esemplificato dall’art. 9 del d.P.R. n. 380 del 2001, sulle limitazioni dell’attività edilizia in assenza della pianificazione urbanistica”. Viene peraltro espressamente valorizzata, con rilievo dirimente, la specifica previsione della delibera regionale (impugnata ma giudicata “legittima, poiché, in coerenza con la normativa primaria sull’obbligo di redazione dei P.U.A. da parte della Regione, subordina l’ampliamento delle concessioni in essere all’avvenuta pianificazione, con ciò ragionevolmente condizionandola alla previa definizione del necessario quadro di contesto”). Cfr., inoltre, Cons. Stato, Sez. V, 23 marzo 2018, n. 1862.
[80] In argomento G. Sciullo, La “resilienza” della tutela del paesaggio, in Giorn. dir. amm., 2022, 775.
[81] Cons. Stato, Sez. V, 22 settembre 2017, n. 4439.
[82] Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio n. 2002/413/CE.
[83] Art. 5 Protocollo sulla gestione integrata delle zone costiere del Mediterraneo (approvato con decisione Consiglio UE 2010/631/UE).
[84] E. Boscolo, La gestione integrata delle zone costiere in Italia: prospettive e prime esperienze, in Riv. quadr. dir. amb., 2011, 44-45.
[85] E. Boscolo, La gestione integrata, cit., 45. Cfr., in merito alla necessità di superare una prospettiva meramente economica del tema, per abbracciare una visione d’insieme che tenga conto di diversi aspetti la cui connessione e interdipendenza è stata spesso trascurata, M. Gnes, Le spiagge e le coste: problema o risorsa?, cit., 20; G. Della Cananea, Le concessioni del demanio marittimo: un mutamento di prospettiva, in M. Gnes (a cura di), Le concessioni balneari, cit., 23; M. De Benedetto, Dalle spiagge alle coste: una strategia regolatoria, ivi, 42; E. Scotti, Il regime delle spiagge nell’era del ritorno dello Stato, cit., 153.
[86] Cfr. CGUE, 6 ottobre 2015, Târșia, in C‑69/14, punto 13 e giurisprudenza ivi citata: “non spetta alla Corte di giustizia, nell’ambito della cooperazione giudiziaria istituita dall’articolo 267 TFUE, rimettere in discussione o verificare l’esattezza dell’interpretazione del diritto nazionale operata dal giudice nazionale, in quanto tale l'interpretazione rientra nella competenza esclusiva di tale giudice. Inoltre, quando è sottoposta ad una domanda di pronuncia pregiudiziale da parte di un giudice nazionale, la Corte di giustizia deve fondare il proprio ragionamento sull'interpretazione del diritto nazionale quale le è stata fornita da tale giudice”. Cfr. inoltre, le conclusioni dell’avvocato generale Szpunar nella causa Promoimpresa, pt. 33.
[87] Cfr., ad esempio, segnalazione ANAC n. 4 del 6 settembre 2022.
[88] In un contesto in cui a seguito di una prima procedura di infrazione sono state abrogate le disposizioni in tema di diritto di insistenza e rinnovo automatico, contestualmente disponendo ripetute proroghe ex lege delle concessioni in essere in attesa di un’auspicata - ma non ancora attuata - riforma del sistema delle concessioni, l’Adunanza plenaria, in coerenza con l’orientamento espresso dalla Corte di Giustizia, ha ribadito “il principio secondo cui il diritto dell’Unione impone che il rilascio o il rinnovo delle concessioni demaniali marittime … avvenga all’esito di una procedura di evidenza pubblica, con conseguente incompatibilità della disciplina nazionale che prevede la proroga automatica ex lege fino al 31 dicembre 2033 delle concessioni in essere”. Da ciò consegue il dovere di disapplicazione delle norme statali incompatibili generalizzato, sussistente, cioè, in capo sia agli organi giurisdizionali che alle amministrazioni concedenti e la qualificazione degli atti di proroga già adottati tamquam non essent - senza neppure necessità o obbligo di impugnazione -, siccome meramente ricognitivi della normativa oggetto di disapplicazione. (e ciò anche in presenza di un giudicato favorevole, ricorrendo un rapporto di durata). Come anticipato nelle note iniziali, una delle sentenze gemelle è stata cassata con rinvio dalla Cassazione, che ha dichiarato assorbiti però i motivi concernenti il tema della proroga ex lege delle concessioni.
[89] M.A. Sandulli, Introduzione al numero speciale sulle “concessioni balneari”, cit., 349.
[90] I risultati dell’attività istruttoria svolta dal Tavolo tecnico istituito ai sensi del citato art. 10-quater d.l. 29 dicembre 2022, n. 198 sono stati oggetto di un comunicato stampa pubblicato il 5 ottobre 2023 dal governo italiano (https://www.governo.it/it/articolo/concessioni-demaniali-marittime-lacuali-e-fluviali-riunione-del-tavolo-tecnico-del-5). Ivi si rappresenta che, in merito alle aree demaniali marittime (aree lacuali e fluviali escluse), “è risultato che la quota di aree occupate dalle concessioni demaniali equivale, attualmente, al 33 per cento delle aree disponibili” (solo “al netto di aree militari e secretate” e senza distinzione in base alle caratteristiche, rocciose o sabbiose, della costa). In merito ai limiti di tali dati, esito di una valutazione globale operata solo a livello nazionale, secondo un approccio generale e astratto che non prende in considerazione le competenze regionali e locali in questo settore, cfr. il Parere motivato della Commissione europea 16 novembre 2023 ex art. 258 TFUE nonché la recente Lettera di risposta del governo italiano del 16 gennaio 2024, dove la rilevanza dei dati oggetto nel comunicato stampa viene ridimensionata a quella di “risultati parziali e intermedi” dell’attività istruttoria, non conclusivi “di un procedimento di raccolta, elaborazione e valutazione di dati che, data la complessità della materia e l’assenza di prassi consolidate a livello europeo, richiede congrui tempi di realizzazione”. Con riguardo al dato del 33% nazionale, la Risposta osserva che si tratta di una prima indicazione quantitativa delle aree effettivamente occupate a livello nazionale, cui dovrà seguire il dato disaggregato a livello regionale.
[91] Cfr. E. Boscolo, Beni pubblici e concorrenza, cit., 1225: “Il metodo del first come first serve è inappropriato per l’allocazione di un bene la cui condizione di scarsità si è fatta ormai evidente e deriva non solo dalla morfologia delle coste ma anche dal riconoscimento di insuperabili limiti ambientali che si traducono in previsioni limitative sancite da piani degli utilizzi redatti tenendo in adeguata considerazione i diversi interessi che si concentrano sulla costa e preceduti da valutazione ambientale strategica”.
[92] M. Ragusa, Demanio marittimo e concessione, cit., 579.
[93] F. Francario, Il demanio costiero, cit.
[94] Si rinvia alla nota 71.
[95] Cfr. E. Scotti, Il regime delle spiagge nell’era del ritorno dello Stato, cit., 151.
[96] Come rilevato dal TAR Puglia, Lecce, Sez. I, ord. 11 maggio 2022, n. 743, la procedura di gara prevista dal cod. nav. non è idonea ad attuare la direttiva Bolkestein poiché non prevede un’adeguata forma di pubblicità dell’avviso pubblico e dispone la valutazione comparativa solo in caso di compresenza di più domande.
[97] Sulla cui applicazione cfr. C. Volpe, Concessioni demaniali marittime: un’ulteriore puntata di una storia infinita, in www.giustizia-amministrativa.it, 26 aprile 2023.
[98] Cfr. Parere motivato della Commissione europea 16 novembre 2023, cit., che evidenzia come “Il turismo costiero e i servizi ricreativi, settore cruciale per l'economia italiana, rimangono … in una grave situazione di incertezza giuridica, a scapito dei diritti di tutte le parti coinvolte. Infatti, la reiterata proroga della durata delle attuali ‘concessioni balneari’ non solo scoraggia l’ingresso di nuovi prestatori di servizi innovativi, ma … crea una situazione di incertezza giuridica, all’origine di un grave pregiudizio anche per gli attuali concessionari”.
[99] L. 5 agosto 2022, n. 118.
[100] In argomento le considerazioni di E. Boscolo, Beni pubblici e concorrenza, cit., 1225: “la gara … in quanto modulo duttile agli obiettivi che il banditore si prefigge di perseguire, consente di selezionare l’offerta ritenuta migliore ad una valutazione multicriteria. Nel settore delle concessioni su beni pubblici ad elevata valenza ambientale la gara diviene quindi strumento multivalente per un corretto bilanciamento tra esigenze di efficienza dello sfruttamento, ragioni di massima valorizzazione economica del bene e istanze di sostenibilità”; in tale modo le “gare divengono … uno strumento di politica gestionale attiva del demanio”.
[101] A. Cossiri, Tutela del patrimonio naturale culturale e la gestione delle spiagge: l’annosa vicenda delle concessioni demaniali ad uso turistico, in A. Caligiuri, M. Ciotti (a cura di), Sostenibilità ambientale e gestione del patrimonio culturale marittimo. Riflessioni e proposte, Napoli, 2023, 64, evidenzia come la disposizione crei “uno spazio di tutela sia del bene naturale e paesaggistico in sé, sia della comunità locale, per la quale l’area costituisce anzitutto uno spazio pubblico, che deve restare, almeno in parte, liberamente fruibile anche da coloro che scelgono di non utilizzare servizi a pagamento”.
[102] Su cui Cons. Stato, Sez. VII, ord. 17 gennaio 2024, n. 138.
La Procura Europea (EPPO): prime riflessioni dall’esperienza concreta[1]
di Andrea Venegoni[2]
Sommario: 1. Introduzione – 2. Il Procuratore europeo e le Camere permanenti – 3. EPPO e gli uffici giudicanti.
Introduzione
1. Introduzione
«Da quando sei partito c’è una grossa novità» recitava una famosa canzone di molti anni fa, e nessuna frase appare più appropriata per sintetizzare cosa è avvenuto negli ordinamenti della maggior parte degli Stati facenti parte dell’UE, e quindi anche dell’Italia, ad un ipotetico studioso di diritto penale, o anche collega, che idealmente fosse andato a vivere lontano dal nostro mondo nel 2016 e fosse tornato ai giorni nostri.
La «grossa novità» con cui il rientrante avrebbe a che fare oggi è la comparsa nei sistemi nazionali penali della Procura Europea o, per usare la terminologia con cui è unanimemente conosciuta, di EPPO (European Public Prosecutor’s Office).
Non si vuole qui ripercorrere tutto ciò che riguarda la sua struttura e le sue funzioni, su cui moltissimo é stato già scritto[3].
Oggi che lo vivo dall’interno, piuttosto, mi sembra più interessante iniziare a compiere un’analisi di varie questioni che si sono poste e si stanno ponendo nella pratica, alcune delle quali rivelano sempre più come la creazione ed operatività di EPPO rappresenti veramente un «unicum» nella storia dei sistemi giuridici nazionali, e, per quanto ci riguarda, del nostro.
Uno di quegli eventi che, come si dice, capitano una volta ogni cento anni, ed essere testimone dei quali rappresenta già un fatto eclatante.
Esserne, poi, partecipante attivo può anche dare l’illusione di stare davvero contribuendo a costruire con piccoli mattoni il mondo di domani e di stare facendo, quindi, qualcosa di rilevante.
Sarà forse una illusione o una benevola bugia, ma poco importa ai nostri attuali fini.
Così come, credo, poco importa sapere delle mie personali sensazioni derivanti dal ricoprire una funzione, quella di Procuratore europeo per l’Italia (se si può usare una terminologia tecnicamente non impeccabile, ma che rende l’idea del compito) il cui peso e la cui responsabilità sento appieno, pur cercando di portarli con la consapevolezza del massimo impegno su tutti i fronti che l’incarico richiede.
Molto più importa, invece, iniziare ad addentrarsi in alcuni temi perché si tratta di aspetti coi quali, poco alla volta, una gran parte della magistratura italiana dovrà confrontarsi, nell’inevitabile avanzare di un mondo che va oltre i confini nazionali e che, senza dover necessariamente comportare una rinuncia alla propria tradizione e cultura giuridica, richiederà però una elasticità mentale, una disponibilità all’apertura, come mai forse sono state necessarie prima d’ora.
Credo che la magistratura italiana saprà reggere da par suo il confronto con questo nuovo contesto, come ha fatto dagli anni ’70 in poi nelle varie sfide che le si sono poste di fronte, se non si rinchiuderà in sé stessa, ma saprà porsi come soggetto aperto al dialogo, forte della propria storia che le permetterà di giocare un ruolo da protagonista anche in questo nuovo scenario.
Tra i numerosissimi argomenti di cui si puo’ discutere per illustrare cosa è EPPO e cosa comporta la sua creazione, ce ne sono alcuni che, a mio parere, meritano un accenno anche solo in un’ottica divulgativa, quale può considerarsi la finalità di questo scritto.
Tra questi, in particolare, non posso evitare di trattare la figura del Procuratore europeo, la carica che mi trovo a ricoprire dal luglio 2023, e la figura delle Camere permanenti.
Successivamente, vorrei dedicare alcune righe ad uno degli argomenti ai quali tengo di piu’, e cioé quello del rapporto tra EPPO e gli uffici giudicanti, un argomento non particolarmente esplorato fino ad ora, ma che mi sta particolarmente a cuore e che considero uno delle chiavi di volta del funzionamento del nuovo sistema.
2. Il Procuratore europeo e le Camere permanenti
Nell’ufficio centrale di EPPO esiste un Procuratore europeo per ogni Stato Membro dell’UE aderente alla cooperazione rafforzata.
Occorre premettere, infatti, che non tutti gli Stati dell’Unione sono partecipi dell’esperienza di EPPO. L’ufficio è nato secondo la suddetta procedura, la cooperazione rafforzata appunto, che permette anche solo ad alcuni Stati di accordarsi tra loro per conseguire un determinato obiettivo.
Peraltro, la suddetta cooperazione ha riguardato, al momento, ventidue Stati UE su ventisette, e quindi un numero sicuramente significativo. Ad oggi, non aderiscono ad EPPO, infatti, cinque Stati dell’Unione, Irlanda, Svezia, Danimarca, Polonia ed Ungheria.
Sulla base di quanto sopra, nell’ufficio centrale di EPPO, a Lussemburgo, siedono ventidue procuratori europei, oltre al Procuratore capo, che ovviamente appartiene ad uno dei Paesi aderenti.
Un unico Paese, quindi, dispone di due procuratori nell’ufficio centrale, e cioé il Paese del Procuratore capo, che può annoverare, oltre a quest’ultimo, il rispettivo Procuratore europeo.
Peraltro, il Procuratore capo non ha compiti operativi, tranne il fatto di sedere in una Camera permanente, ma di policy generale, per cui non vi è rischio di sovrapposizione tra le due funzioni.
Quello di Procuratore europeo è un ufficio con alcune peculiarità.
Per sintetizzare, si potrebbe dire che il Procuratore europeo deve saper guardare con ciascun occhio in due direzioni diverse, seppure complementari, quella nazionale e quella europea.
Egli, infatti, secondo il regolamento (UE) 1939/2017 [4], tra gli altri compiti, supervisiona le indagini condotte a livello decentrato dai procuratori europei delegati (PED), e quindi, in questo senso, deve occuparsi della dimensione nazionale, ma ciò compie «per conto della Camera permanente e conformemente a eventuali istruzioni da questa fornite», da cui emerge che il livello decentrato non è mai scisso da quello centrale.
Secondo il considerando n. 23 del regolamento, la «supervisione» dovrebbe essere intesa come «riferita a un’attività di controllo più stretta e costante sulle indagini e azioni penali, comprendente, ove necessario, interventi e istruzioni per questioni relative a indagini e azioni penali», per cui questa formulazione sembra attribuire un ruolo assai pregnante al Procuratore europeo nelle indagini; tuttavia, nella pratica, il contenuto di questo concetto non si concretizza in una situazione ed in un potere di controllo analogo a quello che opera oggi all’interno delle procure italiane ai sensi del d.lgs. n. 106 del 2006[5]. I procuratori europei delegati, per esempio, non devono sottoporre ad alcun «visto» preventivo le richieste di misure cautelari e, quindi, sotto questo profilo, godono di un’autonomia che può ritenersi maggiore di un sostituto. Peraltro, non può tacersi che il potere di «supervisione» si possa tradurre nel seguire comunque in maniera dettagliata le indagini, venendo il Procuratore europeo di fatto coinvolto dai PED nelle decisioni più rilevanti o partecipando anche a riunioni operative, senza intaccare, però, il ruolo del PED di gestore dell’indagine stessa.
Molto dipende anche, ovviamente, dalla quantità di indagini attive nello Stato di riferimento. Nella specie, l’Italia è di gran lunga lo Stato EPPO più attivo, se si pensa che circa il 40% dell’intero carico attualmente pendente in EPPO riguarda casi italiani.
Sempre sul «lato nazionale», poi, il procuratore europeo è, di fatto, il punto di contatto con lo Stato per fare in modo che quest’ultimo doti gli uffici di EPPO situati nel territorio nazionale (in Italia sono otto) delle risorse necessarie per condurre le indagini.
Il regolamento prevede, infatti, un sistema ibrido per il funzionamento di EPPO.
In linea generale, l’Unione provvede a fornire le risorse a livello centrale e, tranne che per alcune spese che l’Unione sostiene anche a livello decentrato, sono i singoli Stati a dover fornire le risorse nei singoli uffici di EPPO collocati in ciascun Paese.
Le risorse riguardano tutto ciò che è necessario per il funzionamento degli uffici, dai locali e le loro attrezzature, materiali ed immateriali (informatiche) al personale di segreteria, alla polizia giudiziaria.
In questo senso, vengono in rilievo i rapporti con il Ministero della Giustizia e con il Consiglio Superiore della Magistratura.
Riguardo ai rapporti con la polizia giudiziaria, il procuratore europeo é anche il punto di riferimento, a livello generale, per le forze di polizia nazionali che conducono le indagini sui reati di competenza di EPPO.
Il «lato europeo» è, invece, rappresentato dal fatto che il Procuratore europeo siede in due organismi dell’ufficio centrale di EPPO, entrambi previsti dal regolamento istitutivo di EPPO, il gia’ citato regolamento (UE) 2017/1939: il Collegio e le Camere permanenti.
Il Collegio comprende tutti i Procuratori europei degli Stati aderenti ed il Procuratore capo.
Esso non ha funzioni operative relativamente alle indagini, ma, essenzialmente, adotta decisioni che riguardano le questioni generali ed organizzative interne dell’ufficio e di policy.
Le Camere permanenti sono il cuore di EPPO. Sono dei mini collegi composti da tre procuratori europei ciascuna che, di fatto, prendono decisioni, sotto la forma di approvazioni o autorizzazioni, sulle questioni essenziali dell’indagine che i PED devono loro sottoporre. Il regolamento enuncia in dettaglio i compiti delle Camere[6]; se, quindi, come si diceva prima, i PED non sono soggetti ad un controllo particolarmente invasivo da parte del Procuratore europeo, per contro sono soggetti a seguire le indicazioni e, in qualche caso, le istruzioni delle Camere permanenti relative ad alcuni momenti-chiave dell’indagine.
Qui, per semplificare, si può riassumere nel senso che, tra le altre cose, la modalità di conclusione dell’indagine (si tratti di archiviazione o di richiesta di rinvio a giudizio) deve essere sottoposta alla Camera, così come la volontà di definire l’indagine con una procedura semplificata, che varia a seconda delle legislazioni nazionali (in Italia la questione opera soprattutto nei confronti del patteggiamento). Le Camere decidono anche questioni strategiche per l’indagine, come la allocazione di un’indagine dal PED di uno Stato al PED di un altro Stato, quando gli elementi concreti lo richiedono.
Le Camere, unitamente ai procuratori europei, sono, infatti, espressione di una delle principali caratteristiche delle indagini di EPPO, in particolare delle indagini sovranazionali, e cioè la visione d’insieme dell’indagine, quando questa riguarda fatti che coinvolgono il territorio di più Stati. EPPO, infatti, in una certa misura abbatte veramente le frontiere nazionali nelle indagini penali, e questa è, probabilmente, la più rilevante novità della sua introduzione, anche se tale percorso non è completo per il fatto che, in mancanza di norme processuali europee comuni, nelle indagini ciascun PED applica la legge nazionale dello Stato in cui opera. Ma l’unicità dell’ufficio europeo, il fatto che i PED operanti nei vari Stati non siano autorità nazionali tra loro diverse, ma colleghi della stessa Procura, costituisce certamente un passo significativo nella realizzazione di un’area comune di giustizia penale.
Tornando all’attività delle Camere permanenti, una delle loro caratteristiche è che ciascuna di esse valuta solo le indagini diverse da quelle condotte dai PED della stessa nazionalità dei componenti. In altre parole, le indagini italiane vengono discusse in tutte le Camere, tranne in quella in cui siede il Procuratore europeo per l’Italia.
La domanda che potrebbe sorgere spontanea, allora, è come può una Camera permanente prendere decisioni consapevoli ed informate su un’indagine che si sta svolgendo alla luce di un sistema giuridico diverso da quello dei suoi componenti.
La normativa primaria e secondaria di EPPO si è raffigurata questo tema, prevedendo che alle riunioni della Camera sia invitato anche il Procuratore europeo dello Stato di riferimento, il quale potrà illustrare gli elementi di fatto e giuridici della questione che deve essere decisa.
Naturalmente, più casi appartengono ad uno Stato e più il Procuratore europeo di quello Stato sarà ospite nelle riunioni di varie Camere permanenti.
Il contributo del Procuratore europeo invitato permette, quindi, di fare sì che la decisione della Camera sia secondo diritto dello Stato interessato, ma certo l’impressione che l’esperienza pratica mi suggerisce è che il confronto tra il Procuratore europeo e la camera permanente non sia esente, per una certa parte del processo valutativo, anche dalla presenza di una componente che si potrebbe definire di «senso comune». Il risultato di questo processo non si può negare che sia la formazione di una «giurisprudenza» (anche se occorre sempre ricordare che le decisioni delle Camere permanenti sono pur sempre interne all’ufficio di procura e non provengono da un organo giudiziale esterno ad esso) che è la sintesi di valutazioni provenienti da culture giuridiche molto diverse tra loro, ma nelle quali alcuni elementi di base, generali, sono comuni anche in virtu’ del processo di armonizzaizone normativa del diritto sostanziale, e quindi, in questo senso, autenticamente nuova ed «europea».
Il compito del Procuratore europeo è, allora, da un lato proprio quello di raccordo tra le indagini dei PED e le decisioni delle Camere permanenti, e questa funzione unitamente, dall’altro lato, all’appartenenza ad una o più Camere permanenti che valutano casi diversi da quelli del proprio Stato, così come l’appartenenza al «College» per le questioni di policy generale e di strategia dell’ufficio ne fanno una figura davvero europea, per questo così affascinante ed impegnativa.
3. EPPO e gli uffici giudicanti
Si è compreso come EPPO sia un ufficio di procura, che conduce indagini penali a livello europeo.
Non è, quindi, un ufficio di coordinamento di indagini di autorita’ nazionali, ne’ di scambio di informazioni, ma è un ufficio titolare delle proprie indagini penali, condotte attraverso propri magistrati che non appartengono più, funzionalmente, ad uno Stato Membro.
Per questo, specie dopo la sua creazione e l’inizio della sua operatività, ci si è molto concentrati sul rapporto tra EPPO e gli uffici di procura nazionali.
Questo anche perché il regolamento ha creato un sistema che si potrebbe definire di «competenza ripartita» sui reati PIF[7] tra EPPO e le procure nazionali.
Se, quindi, EPPO si occupa solo di reati PIF ai sensi dell’art. 22 del regolamento (salvi i reati «inestricabilmente connessi» a questi ultimi, rientranti anch’essi nella competenza di EPPO), non tutti i reati PIF sono trattati esclusivamente da EPPO.
Il regolamento delinea, quindi, agli artt. 25-27, un complesso sistema per individuare in ogni caso specifico se la «competenza», o per meglio dire la “giurisdizione”, a condurre l’indagine spetti a EPPO o alla procura nazionale, stabilendo il principio di alternatività tra le due indagini.
Per questo, i primi contatti che EPPO ha avuto con gli uffici giudiziari nazionali degli Stati hanno riguardato principalmente gli uffici di Procura, specie in relazione ad indagini già pendenti ed astrattamente rientranti nella competenza, anche temporale, di EPPO, in particolare per stabilire se essi dovessero essere trattati da EPPO o continuare ad esserlo da parte dell’A.G. nazionale.
Anche oggi, superata la prima fase «transitoria» sui procedimenti già iniziati, per i nuovi procedimenti i contatti con gli uffici di procura riguardano principalmente la questione dell’individuazione dell’autorita’ addetta a trattare un’indagine.
A mano a mano che le indagini si sono sviluppate e che, a maggior ragione, sono giunte a giudizio, è però emerso il tema del rapporto tra EPPO e gli uffici giudicanti.
Si tratta di un tema, a mio avviso, di grandissima importanza, sebbene non ancora approfondito sufficientemente negli studi su EPPO.
Gli uffici giudicanti, infatti, contrariamente a quanto si potrebbe ritenere a prima vista, sono pienamente coinvolti nell’applicazione del regolamento (UE) 1939/2017.
La premessa delle considerazioni che si andranno a svolgere è che, in mancanza di un giudice europeo, l’interlocutore di EPPO nei vari Stati membri è sempre ed essenzialmente il giudice nazionale.
Questo già nella fase delle indagini, per esempio per le richieste di misure cautelari.
In Italia sono ad oggi numerose le richieste di misure cautelari di EPPO decise dai giudici nazionali, e ciò presuppone, in primo luogo, che il giudice che si trova a ricevere la richiesta proveniente da un ufficio diverso dall’ordinaria Procura della Repubblica conosca EPPO, la sua competenza ed i suoi poteri.
Ma la sfida ancora maggiore per gli uffici giudicanti si gioca, a mio avviso, nel processo, successivamente al rinvio a giudizio.
In quella sede, infatti, non può escludersi l’interferenza delle norme nazionali, primariamente applicabili, con il regolamento europeo.
Si pensi, solo per fare un esempio, all’accesso da parte dell’imputato ad un rito alternativo quale il nostro patteggiamento.
Il regolamento EPPO prevede che le decisioni chiave dell’indagine, tra cui anche l’accesso ad un rito alternativo («simplified procedure» nella versione originale inglese) siano approvate dalla Camera permanente[8].
Molto si discute, invece, se il ruolo della Camera permanente si esaurisca con la fine dell’indagine o continui, essenzialmente con un compito di monitoraggio, durante la fase successiva all’esercizio dell’azione penale.
Alcune norme del regolamento che richiedono l’intervento della Camera permanente anche per alcune decisioni che riguardano certamente la fase del dibattimento, come l’art. 36 comma 7, potrebbero orientare verso questa conclusione[9].
Ipotizzando che sia così , allora, la domanda è se l’accesso ad una «simplified procedure» dopo la richiesta di rinvio a giudizio da parte di EPPO, e quindi al di fuori dell’ambito dell’art. 40 del regolamento, richieda ugualmente un passaggio procedurale presso la Camera permanente.
La questione è particolarmente rilevante nei procedimenti italiani, in cui, come è noto, molte richieste di patteggiamento sono presentate dall’imputato dopo tale momento, come prevede lo stesso art. 446 c.p.p.
Se si ammette che per una richiesta di patteggiamento presentata dopo la richiesta di rinvio a giudizio il procuratore europeo delegato di EPPO debba informare la Camera permanente, lo scenario che si potrebbe porre in una ordinaria udienza davanti ad un giudice italiano in un procedimento EPPO è che il PED – che, ipoteticamente, venga a conoscenza dell’istanza solo in quella sede – non possa concludere l’accordo con il difensore nella stessa udienza in cui l’istanza é presentata, mancando l’informativa alla Camera permanente.
Sempre sul presupposto dell’accoglimento di tale ipotesi, in tal caso, il PED potrebbe essere obbligato a manifestare tale necessità, chiedendo quindi un rinvio dell’udienza per informare la Camera permanente.
A questo punto, la decisione passa al giudice nazionale, ed è qui che il rapporto tra regolamento EPPO e normativa interna si manifesta chiaramente, e la responsabilità di sciogliere il nodo è tutta nelle mani del giudice medesimo.
Per una decisione consapevole, però, il giudice nazionale dovrebbe essere pienamente al corrente di cosa si stia parlando; in primo luogo, dell’esistenza stessa di EPPO e dei poteri dei PED in udienza (ma questo, dopo un po’ di anni dall’inizio dell’operatività di EPPO, auspicabilmente si dovrebbe dare per assodato) ; in secondo luogo, però, di come la richiesta di rinvio da parte del PED trovi una piena base legale nel coordinamento delle norme del regolamento EPPO con le norme nazionali; infine, dello stesso contenuto del regolamento EPPO e della possibilità di fornirne una diversa interpretazione sul punto.
Se manca questa consapevolezza nel giudice, la ipotizzabile richiesta del PED di rinvio dell’udienza «per non poter esprimere il consenso in mancanza di informativa alla Camera permanente» (e quindi per un motivo non previsto nella normativa nazionale) potrebbe sembrare qualcosa di assolutamente anomalo, per quanto, invece, fornito di una base legale del tutto valida, sebbene non rinvenibile completamente nella normativa nazionale, quanto nell’interpretazione di quella europea.
Nel caso estremo, davvero di scuola ma che per completezza di analisi non si può escludere, potrebbe addirittura portare il giudice – erroneamente – a ritenere che il PED non abbia prestato il consenso, e quindi a non dare accesso al patteggiamento, con conseguenze che, evidentemente, ricadrebbero tutte sull’imputato.
Ma vi è di più: poiché il giudice è interprete anche della normativa europea, direttamente applicabile, se egli dubitasse della correttezza dell’interpretazione del regolamento secondo cui il consenso del PED richiede il passaggio processuale presso la Camera permanente anche dopo l’esercizio dell’azione penale, egli potrebbe/dovrebbe chiedere la corretta interpretazione del regolamento (UE) 1939/2017 sul punto alla Corte di Giustizia con un rinvio pregiudiziale, ai sensi dell’art. 42, comma 2, del regolamento stesso.
Quanto sopra è solo un esempio – al quale peraltro nella pratica si potrebbe dare probabilmente anche una diversa soluzione, autorizzando l’informativa alla Camera permanente dopo l’accordo – ma è sufficientemente chiaro per illustrare il rapporto tra normativa europea e nazionale successivamente all’esercizio dell’azione penale nei procedimenti EPPO.
Di fronte a tale scenario, o ad altri che tale rapporto potrebbe porre, allora, la grande domanda che campeggia sullo sfondo è: sono i giudici italiani, anche di tribunali di non grandi dimensioni, davanti ai quali però EPPO può esercitare l’azione penale, “attrezzati” per tali evenienze?
Essere “attrezzati” significa, in questo caso, come detto sopra, avere piena ed approfondita conoscenza della normativa europea su EPPO, del rapporto della stessa con la normativa italiana e della possibilità di interpellare la Corte di Giustizia.
Si torna, quindi, per concludere, alle considerazioni iniziali: quello con cui la magistratura italiana deve inziare a confrontarsi è un momento importante, perché con EPPO l’impatto del diritto europeo in quello penale, anche processuale, segna un ulteriore passo in avanti rispetto a quanto era avvenuto finora.
Certo, la competenza di EPPO è, almeno al momento, limitata a categorie specifiche di reati e, come detto, è ripartita con l’autorita’ nazionale, ma le possibili estensioni della competenza stessa ad altre categorie di reati e, in ipotesi, qualche futura modifica del regolamento, potrebbero rendere l’incidenza del diritto europeo che disciplina le indagini di EPPO sui sistemi nazionali ancora più significativa.
Da qui l’esigenza di informazione e di diffusione della conoscenza di questo nuovo ufficio, della sua struttura e della normativa che ne regola indagini e processi, nell’interesse di tutti i soggetti coinvolti, e nell’interesse di un procedimento realmente “giusto” anche per i casi di EPPO che saranno trattati nel nostro Paese.
[1] Le opinioni ed i commenti contenuti nell’articolo sono espressi a titolo puramente personale e non vincolano ne’ riflettono il pensiero dell’Ufficio di cui l’autore fa parte
[2] Procuratore europeo in EPPO, supervisore dei casi italiani
[3] Numerosissimi sono i testi che trattano di EPPO, della sua struttura, della sua competenza e del suo funzionamento; tra quelli che danno una visione generale degli argomenti qui basta citare SALAZAR, Habemus EPPO! La lunga marcia della Procura Europea, in Arch. Pen., 2017, n. 3, pag. 1; TAVASSI, Il primo anno di EPPO: appunti per una revisione critica, in Sist. Pen., 31.5.2022 ; TRAVERSA, I tre principali aspetti istituzionali dell’attivita’ della Procura europea (EPPO): legge applicabile, rimedi giurisdizionali e conflitti di competenza, in Arch. Pen., 2019, n. 3.
[4] Art 12 regolamento (UE) 1939/2017.
[5] Decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106, recante Disposizioni in materia di riorganizzazione dell'ufficio del pubblico ministero, a norma dell'articolo 1, comma 1, lettera d), della legge 25 luglio 2005, n. 150.
[6] Art. 10 regolamento (UE) 1939/2017
[7] I c.d. «reati PIF», cioe’ che riguardano il campo della protezione degli interessi finanziari dell’Unione Europea, quali frode, corruzione, riciclaggio di denaro e appropriazione indebita, che, ai sensi dell’art. 22 del regolamento UE 2017/1939, rappresentano la competenza di EPPO, sono elencati nella direttiva (UE) 2017/1371 cui il regolamento stesso fa rinvio.
[8] Art. 40 del regolamento (UE) 1939/2017, che si riferisce espressamente alla procedura semplificata in relazione all’esercizio dell’azione penale.
[9] Sulla decisione se presentare appello contro la sentenza di primo grado, e la cui prima fase recita «Quando, in seguito a una sentenza dell’organo giurisdizionale, la procura deve decidere se ricorrere in appello, il procuratore europeo delegato presenta una relazione contenente un progetto di decisione alla Camera permanente competente e attende istruzioni da quest’ultima».
di Franco De Stefano
Come è possibile utilizzare l’intelligenza artificiale per la redazione degli atti giudiziari civili? L’IA può sostituire l’attività del giudice?
Sommario: 1. La decisione commentata – 2. La coeva iniziativa del Garante della privacy – 3. I riferimenti tecnici minimi – 4. Il quadro normativo nazionale – 5. L’algoritmo giudiziario – 6. Gli algoritmi giudiziari per l’attività delle parti – 7. Gli algoritmi giudiziari per l’attività del giudicante – 8. In conclusione.
ABSTRACT
In un panorama soggetto ad una tumultuosa evoluzione tecnologica, il passaggio alla fase finale dell’adozione del Regolamento europeo sull’intelligenza artificiale, nel giugno 2023, ha coinciso con l’epilogo di un clamoroso episodio di cronaca giudiziaria d’oltreoceano, in cui le difese che un avvocato statunitense aveva prodotto dopo averne affidato la redazione ad un sistema di IA si sono rivelate articolate su precedenti completamente inesistenti. È questo lo spunto per una riflessione sull’impiego dei sempre più sofisticati sistemi di IA nel mondo del processo civile: da un lato, quanto alla formazione degli atti giudiziari di parte; dall’altro, quanto all’interazione con le attività del giudicante. In entrambi i casi, le enormi potenzialità dei nuovi sistemi vanno sicuramente colte, ma con adeguata prudenza e cautela, soprattutto mai tralasciando di preservare all’agente umano il ruolo di supervisore e decisore finale consapevole ed attento. Ad una generale algoretica dovrebbe affiancarsi una “giurialgoretica”.
1. La decisione commentata
Si tratta dell’ordinanza motivata (order and decision) della Corte del distretto meridionale di New York degli U.S.A. del 22 giugno 2023, resa da s.o. P. Kevin Castel, reperibile liberamente all’URL https://www.courthousenews.com/wp-content/uploads/2023/06/chatGPT-sanctions-ruling.pdf.
È l’irrogazione di una sanzione pecuniaria (di U$D 5.000, accompagnata da una lettera a tutti i giudici falsamente citati) a due avvocati (ed in solido al loro studio professionale) dell’attore che, in una causa civile di risarcimento danni intentata da un passeggero contro una compagnia aerea, a sostegno delle tesi a favore del cliente nei loro atti avevano fatto preciso ed ampio riferimento a precedenti giurisprudenziali, elaborati da un sistema di intelligenza artificiale noto come ChatGPT, completamente inventati e quindi inesistenti e per di più articolati su di un tecniloquio scadente, ma sulla cui genuinità essi avevano pure, almeno in un primo momento, solennemente insistito.
Il provvedimento giurisdizionale di riferimento, però, non sanziona appunto - in sé e per sé preso in considerazione - l’uso di un sistema di IA nella predisposizione dell’atto giudiziario di parte, ma esclusivamente il suo uso maldestro, cioè senza l’estrinsecazione di un ruolo di supervisione finale sull’affidabilità dei riferimenti indicati e sulla tecnicalità formale e sostanziale delle singole argomentazioni.
Rileva infatti il provvedimento che, nella predisposizione degli atti da sottoporre ai giudici, i buoni avvocati appropriatamente ottengono assistenza dai colleghi meno anziani, dagli studenti di legge, dai praticanti, dai testi di approfondimento giuridici (tra cui le enciclopedie), sicché “non c’è nulla di specificamente improprio nell’uso di un affidabile strumento di intelligenza artificiale per l’assistenza”; “ma le regole vigenti impongono agli avvocati un ruolo di supervisione per assicurare l’accuratezza dei loro scritti”, sicché quelli vengono meno alle loro responsabilità verso controparti e giudice quando si avvalgono di scritti basati su precedenti falsi e, per di più, quando insistono malaccortamente sulla loro esistenza: e tanto per una serie di inconvenienti che l’uso di precedenti falsi provoca ad un sistema giudiziario di common law.
Ma, appunto, a venire in considerazione è la sottrazione al dovere professionale dell’avvocato di controllare la veridicità delle citazioni operate e la congruità, formale e sostanziale, degli atti da lui predisposti: con un ben noto pragmatismo, il sistema giudiziario statunitense non si pone il problema della correttezza dell’uso di un sistema di intelligenza artificiale nel processo, ma solo quello della sua affidabilità.
Ed in questo modo tutto si sposta sul diverso piano di cosa debba intendersi con tale termine, a seconda, evidentemente, degli obiettivi e degli scopi dell’attività coinvolta e delle finalità della stessa introduzione, nel sistema giudiziario, di quegli strumenti: l’insostenibilità della cui piena neutralità diviene sempre più evidente.
In conclusione: per il sistema giudiziario statunitense ben venga anche una IA che scriva gli atti degli avvocati, se quella è affidabile e questi ne controllano gli esiti finali.
2. La coeva iniziativa del Garante della privacy
Con deliberazione d’urgenza del 30 marzo 2023 il Garante per la protezione dei dati personali ha limitato temporaneamente l’utilizzo in Italia del software ChatGPT in mancanza di una informativa agli utenti e a tutti gli interessati i cui dati vengono raccolti dalla fornitrice, l’impresa OpenAI, ma soprattutto in assenza di una base giuridica che giustifichi la raccolta e la conservazione massiccia di dati personali, allo scopo di “addestrare” gli algoritmi sottesi al funzionamento della piattaforma. Lo stesso provvedimento soggiunge che, in base alle verifiche già fino a quel momento effettuate (anteriori, quindi, al clamoroso episodio d’oltreoceano), le informazioni fornite da ChatGPT non sempre corrispondono al dato reale, determinando quindi un trattamento di dati personali inesatto. A seguito di una prima risposta operativa della fornitrice del servizio, il medesimo Garante, con successivo provvedimento 11 aprile 2023, ha sospeso l’efficacia dell’ordine cautelare, ma impartendo ulteriori severe istruzioni operative rivolte al trattamento dei dati, sull’ottemperanza alle quali si è riservata una costante istruttoria.
Anche in tal caso, peraltro, è evidente che la sanzione al sistema di intelligenza artificiale non entra nel merito della possibilità di avvalersene, ma si ferma alla – pure determinante – fase della raccolta delle informazioni e dei dati personali poi utilizzati per addestrare il programma.
Anche in questo caso, quindi, nulla impedisce in sé l’impiego di un sistema di intelligenza artificiale, purché questo garantisca trasparenza e tracciabilità dei dati impiegati.
3. I riferimenti tecnici minimi
A meri scopi descrittivi ed ai fini di questa riflessione, per intelligenza artificiale può intendersi ogni sistema che dispiega comportamento intelligente analizzando il contesto e l’ambiente in cui opera, intraprendendo azioni con un certo grado di autonomia per raggiungere scopi prefissati; per astrazione, l’intelligenza artificiale è l’abilità di una macchina di mostrare capacità umane quali il ragionamento, l’apprendimento, la pianificazione e la creatività, di capire il proprio ambiente, di mettersi in relazione con quanto è percepito e di risolvere problemi, di agire verso un obiettivo specifico, adeguando la risposta all’esito delle analisi dei dati immessi e, sempre più spesso, delle reazioni dell’ambiente alle sue precedenti risposte.
Il sistema ChatGPT può definirsi un chatbot basato su intelligenza artificiale e apprendimento automatico sviluppato da OpenAI specializzato nella conversazione con un utente umano; ed è definito il più noto tra i software di intelligenza artificiale relazionale in grado di simulare ed elaborare le conversazioni umane dal già richiamato provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali del 30 marzo 2023.
Se Chat bot, chatbot o chatterbot, è un programma progettato per simulare una conversazione con un essere umano, la sigla GPT sta per Generative Pre-trained Transformer, una tecnologia nuova applicata al machine learning. Lo scopo principale di questi software è quello di simulare un comportamento umano e sono talvolta definiti anche agenti intelligenti; il loro uso è vario, dalla guida in linea alla risposta automatica alle FAQ degli utenti che accedono a un sito; alcuni impiegano sofisticati sistemi di elaborazione del linguaggio naturale, ma per la maggior parte pare che essi si limitino ad eseguire la scansione delle parole chiave nella finestra di input e fornire una risposta con le parole chiave più corrispondenti. In altri termini, un chatbot è un programma che usa un sistema di intelligenza artificiale ed NLP (Natural Language Processing) per capire le domande dei clienti e automatizzare le relative risposte, simulando la conversazione umana.
4. Il quadro normativo nazionale
Come accennato, il 14 giugno 2023 il Parlamento europeo ha adottato la sua posizione definitiva di negoziazione sull’IA Act, sicché si è passati alla fase dei colloqui con i singoli Stati membri sul testo finale del provvedimento legislativo, allo scopo di raggiungere un accordo entro la fine di quest’anno. Può fin d’ora notarsi che la normativa in itinere si preoccupa dei sistemi “generative” quali appunto ChatGPT, prevedendone minimi requisiti di trasparenza (con obbligatoria menzione della circostanza che il contenuto è stato ottenuto con quel particolare programma, ma pure con accorgimenti per agevolare la percezione della falsità dei risultati) e di garanzia dalla produzione di contenuti illegali, insieme alla libera accessibilità a particolareggiati sommari dei dati coperti da diritto d’autore utilizzati per l’autoapprendimento. Anche il Consiglio d’Europa segue costantemente l’evoluzione della tematica, anche con riguardo al processo.
Per la specifica questione dell’intelligenza artificiale nel processo civile, occorrerebbe affrontare la tematica del contenuto e delle caratteristiche degli atti giudiziari (siano essi di parte o del giudice) secondo la normativa nazionale: ma tanto implicherebbe una riflessione troppo ampia in ordine alle impostazioni generali di ordine culturale sulle modalità di preparazione e successiva estrinsecazione dell’attività difensiva delle parti e decisionale del giudicante.
Tuttavia, può qui bastare il rilievo che mancano limitazioni positive o normative di ordine qualitativo o contenutistico nella redazione degli atti giudiziari, siano di parte, siano del giudice; il legislatore ha solo introdotto una generalizzata potestà regolamentare (variamente articolata tra il diritto processuale civile e quello amministrativo) che può definirsi vòlta ad una tendenziale armonizzazione meramente estrinseca degli atti giudiziari, di parte e del giudice.
Esistono soltanto principi di ordine generale sulle modalità di redazione di atti, ispirati a clausole ampie ed indifferenziate; i riferimenti all’inammissibilità degli atti sono riferiti a vizi dei requisiti cosiddetti di contenuto-forma e sono spesso rimessi alla copiosa elaborazione giurisprudenziale delle giurisdizioni superiori. Nel diritto processuale amministrativo è stato da tempo introdotto per disposizione normativa un limite di ordine quantitativo ed in tal senso si muove la disciplina processuale civile a seguito della riforma di cui al d.lgs. 149/22.
In particolare: nel diritto amministrativo, deve farsi riferimento al co. 2 dell’art. 3 ed all’art. 26 del c.p.a., sull’obbligo di redigere gli atti in maniera chiara e sintetica, ma soprattutto all’art. 13-ter delle norme di attuazione del c.p.a., che rimette ad un decreto del Presidente del Consiglio di Stato la fissazione dei limiti quantitativi degli atti delle parti, la violazione dei quali esime il giudice dall’obbligo di prendere in considerazione l’eccedenza, la mancata disamina della quale non è neppure soggetta ad impugnazione.
Analogamente, il codice di rito civile prevede ora espressamente, al secondo periodo dell’art. 121, che “tutti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e sintetico”; con disposizione ripresa via via, talvolta nella declinazione di chiarezza e specificità, per i singoli atti di parte del processo (art. 163, n. 4; art. 167; art. 281-undecies; artt. 342 e 434; art. 366, nn. 3, 4, 6; artt. 473-bis.12, 473-bis.13, 473-bis.17, 473-bis.32 c.p.c.).
L’art. 46 d.a.c.p.c., come modificato dall’art. 4, co. 3, lett. b), del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, rimette ad un successivo decreto ministeriale, da emanarsi sentiti il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale forense (e da aggiornare con cadenza biennale), per definire: da un lato, gli schemi informatici degli atti giudiziari con la strutturazione dei campi necessari per l’inserimento delle informazioni nei registri del processo; dall’altro, i limiti degli atti processuali, tenendo conto della tipologia, del valore, della complessità della controversia, del numero delle parti e della natura degli interessi coinvolti. La stessa norma prevede pure che il mancato rispetto delle specifiche tecniche sulla forma e sullo schema informatico e dei criteri e limiti di redazione dell’atto non comporta invalidità, ma può essere valutato dal giudice ai fini della decisione sulle spese del processo. E, soprattutto, conclude stabilendo espressamente che il giudice redige gli atti e i provvedimenti nel rispetto dei criteri di cui al presente articolo.
In conclusione, nessun limite intrinseco alla predisposizione di un atto giudiziario può dirsi imposto dalla disciplina vigente, purché esso sia conforme anche all’articolata normativa secondaria sulla giustizia digitale: la quale però è, condivisibilmente, finalizzata a garantire genuinità, autenticità e fruibilità dell’atto medesimo e, in quanto tale, la sua ascrivibilità a chi ne appare l’autore, parte o giudice, ma non incide certamente sul contenuto suo intrinseco.
Pertanto, nulla pare disciplinare, a pena di invalidità di qualsiasi tipo, le modalità con cui si redigono gli atti giudiziari, né, tanto meno, i procedimenti in base ai quali si perviene alla loro definitiva stesura; sicché ad un sistema di intelligenza artificiale, allo stato, ben potrebbe devolversi la redazione di quelli, alla sola condizione che siano fatti propri dall’agente umano.
5. L’algoritmo giudiziario
I sistemi di intelligenza artificiale costituiscono un’accattivante alternativa ad attività intellettuali ritenute seriali e faticose, o comunque poco motivanti:
- per le parti, ad esempio: acquisizione di dati sui fatti rilevanti per le tesi via via sostenute, loro presentazione ed elaborazione onde consentirne la sussunzione in fattispecie astratte regolate dalle norme o già prese in considerazione da dottrina e giurisprudenza (nei Paesi di civil law, soprattutto di legittimità), ricerche su queste due ultime, organizzazione di argomentazioni per illustrare la tesi a sostegno delle proprie difese; redazione con modalità chiare e sintetiche dell’atto finale di volta in volta richiesto;
- per il giudicante, ad esempio: ricostruzione dell’andamento del processo e della materia del contendere, limitata alle questioni dirimenti; ricostruzione dei fatti, attraverso il confronto delle tesi delle parti al riguardo; individuazione delle norme applicabili ai fatti come ricostruiti, previa verifica delle tesi sostenute dalle parti sul punto; elaborazione, in chiave di argomentazione giuridica in sviluppo della premessa, della posizione su ciascuna questione rilevante; redazione del provvedimento conclusivo in modalità chiara e sintetica.
Non giova a tale riflessione l’elaborazione del giudice amministrativo sul punto, limitata – almeno al momento – all’impiego dell’algoritmo nell’attività amministrativa e centrata sull’individuazione dei principi regolatori della materia in quello di conoscibilità, in quello di non esclusività ed in quello di non discriminazione algoritmica: l’attività giurisdizionale è ontologicamente diversa e per nulla assimilabile a quella amministrativa, già solo sotto il profilo della procedimentalizzazione dei processi decisionali.
In linea di principio, il ricorso all’automa è sempre stato ricostruito come teso a liberare l’umano dal peso o dai rischi di un lavoro sentito come sempre meno sostenibile ed al contempo a fornire un risultato reputato più consono od efficace rispetto all’attività che l’umano potrebbe compiere.
Su questa premessa, declassate ad attività secondarie, faticose e ripetitive, quelle di compiuta preparazione del materiale per la decisione, quali la ricostruzione dei fatti rilevanti da esporre e la ricerca delle norme suscettibili da esservi applicate e delle relative elaborazioni di dottrina e giurisprudenza (soprattutto, almeno nei Paesi di civil law, di legittimità), può risultare naturale il passo successivo, dell’affidamento di quelle attività all’automa.
Ora, se la prima delle motivazioni – liberare l’umano da attività secondarie, faticose e ripetitive – può già in qualche modo riferirsi alle attività materiali di raccolta e comparazione efficienti di dati soprattutto in contenziosi seriali indotti dalla massificazione dei rapporti interpersonali, è chiaro che, quanto alla seconda di quelle motivazioni, moltissimo può dipendere dalle scale assiologiche – le stesse che orientano l’etica dell’algocrazia o algoretica – che si vorranno adottare, risultando ormai indifferibile intendersi su cosa si intenda per efficienza della giustizia, tanto da potersi postulare, quale branca dell’algoretica, una “giurialgoretica”.
Le famose leggi della robotica, elaborate dapprima in ambito letterario (fin dal 1941!) e poi assurte al ruolo di principi generali della materia nel diritto eurounitario, non soccorrono, pensate come erano per attività sostanzialmente materiali spesso elementari e quindi inidonee a fronteggiare l’enorme complessità del diritto e dei concetti da definire quanto alle attività in cui sostituire l’umano.
Occorrerà riflettere con grande attenzione e scegliere quali risultati affidare all’automa: e soprattutto in che termini declinare la certezza del diritto, nelle sue molteplici accezioni, cui orientare le decisioni del giudice e, in sua vece o in suo ausilio, del suo alter ego digitale.
Già nell’attuale momento storico è difficile limitare la definizione di quella certezza come trattamento uguale di casi uguali: questa soluzione è reclamata dalla dilatazione globale dei traffici commerciali e giuridici come un bene essenziale, economicamente misurabile, sotto il profilo della conoscibilità o calcolabilità delle decisioni di giustizia, contrapposta alla - o comunque in tensione dialettica con la - sua flessibilità per un adeguamento alle peculiarità della fattispecie; senza considerare le millenarie dispute sul ruolo del diritto in generale e, quindi, della sua funzione di mantenimento e protezione dello status quo in contrapposizione all’altra di ordinatore e propulsore di uno sviluppo e di un cambiamento anche sostanziale degli assetti correnti.
Dal campo del settore penale, dove in diversi contesti l’algoritmo è già stato impiegato per la prognosi della personalità del reo perfino al fine di determinare la pena idonea o per l’acquisizione di prove dal valore sostanzialmente legale, a quello del settore civile (e amministrativo, nel senso di giustiziale amministrativo), dove la possibilità di definizione di procedimenti elementari in via completamente automatizzata (generalmente in settori definibili ad alta serialità e salva la sola facoltà, disegnata come eccezionale, di successivo intervento umano) è ormai apertamente studiata, gli orizzonti si schiudono sterminati: ed anzi in alcune realtà territoriali, sotto l’etichetta di “giustizia predittiva”, si è già avviata una sperimentazione. E tutto questo per non parlare poi dei sempre più sofisticati sistemi di vera e propria on line dispute resolution, che implicano una decisione robotica formalmente negoziale, sostanzialmente assimilata all’arbitrato e sostitutiva, di per sé sola, dell’attività giurisdizionale tradizionale, quella cioè devoluta allo Stato od altro ordinamento ad esso variamente riferibile.
6. Gli algoritmi giudiziari per l’attività delle parti
Un programma di intelligenza artificiale per la predisposizione di bozze o stesure preliminari di atti di parte può assolvere utili compiti, purché sia appunto adeguatamente chiarito il modo di procedere e, soprattutto, garantito un ruolo finale decisivo di effettiva supervisione e decisione da parte dell’agente umano.
L’imposizione di schemi-tipo, con adozione di parametri di contenuto-forma e poi di vero e proprio contenuto, potrebbe giovare grandemente al confezionamento di atti di parte completi ed affidabili: basti pensare al rispetto dei requisiti previsti dalla legge oppure dalla normativa in tema di giustizia digitale oppure ancora, ove esistenti, dai protocolli e, tra breve, dal richiamato decreto ministeriale previsto dall’art. 46 d.a.c.p.c.
È indispensabile l’inserimento di subroutine di verifica dei singoli passaggi, a cominciare dalle citazioni operate, sia dei semplici testi che dei precedenti giurisprudenziali, che consentano di identificare la fonte e che questa rientri tra quelle che possono definirsi affidabili.
È pure indispensabile la consequenzialità tra ricostruzione del fatto, con indicazione dei relativi elementi istruttori (costituendi o precostituiti), ed elaborazione delle tesi in diritto da applicare, secondo lo schema classico, altrettanto agevolmente riconducibile ad un flusso operativo di istruzioni, della sussunzione.
Ed infine è indispensabile la consequenzialità tra premesse, sviluppi argomentativi e conclusioni, al fine di non tralasciare nulla di quanto originariamente richiesto.
L’esperienza dell’infortunio all’avvocato statunitense insegna che dovrebbe essere allora indispensabile quanto meno un sistema di controllo interno da attivare obbligatoriamente, una lista di controllo (o check-list) di tutte le operazioni non solo di progettazione dei singoli passaggi del confezionamento dell’atto giudiziario, ma pure di verifica dell’affidabilità dei dati utilizzati.
Con questi limiti, l’attività dell’avvocato civilista potrebbe ambire a raffinarsi fino al ruolo di colui che impartisce le coordinate generali per l’impostazione dell’atto difensivo in relazione ai tre elementi costitutivi della domanda (personae, causa petendi e petitum), ma senza mai rinunciare a quello di finale responsabile quale approfondito e consapevole ricognitore e supervisore del prodotto del sistema di intelligenza artificiale, prima di appropriarsene.
7. Gli algoritmi giudiziari per l’attività del giudicante
Analogo discorso è a farsi, sia pure con ancora maggiore cautela, per l’attività del giudicante, visto che la gamma dei provvedimenti giudiziari civili deferibili alla predisposizione in bozza da parte di un sistema di intelligenza artificiale potrebbe non essere limitata.
L’istruzione (in senso lato, cioè la preparazione) dei singoli passaggi delle attività del giudice civile riguarda infatti, com’è noto, il giudizio di fatto e quello di diritto. Per fatto e giudizio di fatto deve intendersi tutto ciò che attiene all’accertamento o alla ricostruzione della verità o della falsità di dati empirici (fatti o atti) rilevanti per il diritto, fatta eccezione per le modalità di applicazione delle eventuali norme relative ad ammissibilità ed assunzione di prove, ovvero a prove legali; per diritto e giudizio di diritto si deve avere riguardo a tutto quanto attiene all’applicazione di norme e cioè: all’individuazione o scelta della norma applicabile al caso concreto; all’interpretazione di tale norma, sia con riguardo alla fattispecie astratta, sia con riguardo al comando; alla sussunzione dei fatti, come ricostruiti, entro la fattispecie astratta; all’individuazione o deduzione delle conseguenze da quella norma previste, con applicazione al caso di specie.
Ma anche qui deve esserci un’accorta preliminare definizione di ambiti, paradigmi, presupposti e modalità operative: l’attività decisionale in senso stretto, cioè l’opzione tra due o più soluzioni di questioni di ricostruzione in fatto e di questioni in diritto, nei singoli passaggi sopra ricordati, non può mai essere devoluta ad un’automazione, ma essere sempre riservata all’agente umano.
In definitiva, un diagramma di flusso per standardizzare le operazioni preliminari alla decisione finale potrebbe essere di grande giovamento: ricostruzione dei dati salienti della controversia, illustrazione sintetica delle questioni mosse nel grado o in quelli precedenti, richieste e domande cui rispondere, questioni da affrontare; individuazione delle questioni di fatto e di diritto da esaminare; risoluzione separata delle prime e delle seconde, sempre con prospettazione di una lista di controllo (o check-list) idonea a consentire all’agente umano di intervenire e correggere la rotta in una direzione anche diversa da quella proposta come quella corrispondente all’esito di maggiore frequenza statistica in casi analoghi.
Questo perché l’intelligenza artificiale apprende da sé stessa e dall’esperienza che di volta in volta acquisisce, ma non ha – o, almeno, non ha ancora – la creatività e la capacità di intuizione e di astrazione propria della mente umana, sicché correrebbe il rischio di imbalsamare la realtà in uno schema teorico preimpostato ab externo in relazione ai dati somministrati per impostare le sue analisi e quindi manipolabile fin dalla sua programmazione, restando impermeabile ed insensibile alla valutazione di contesti pure solo in parte imprevedibili, o di eccezioni o deroghe non previamente sperimentate. In una parola, la decisione giudiziale affidata all’automa sarebbe forse garanzia di uniformità con casi precedenti, ma al prezzo di un’immutabilità mortifera e paralizzante, di inflessibilità cieca ed eterodiretta: quindi, sostanzialmente inumana.
8. In conclusione
Da un lato, la massificazione dei rapporti e l’esplosione incontrollata delle risorse cognitive a disposizione offrono strumenti di apparente semplificazione ed ausilio nell’estrinsecazione di tutte le attività, ivi comprese quelle tradizionalmente definite intellettuali. Dall’altro, l’esigenza di un trattamento uniforme per casi uguali è sempre più sentita. Ma, nel campo del diritto civile, la libertà e la creatività del pensiero umano, che nessun automa è per definizione – almeno finora – in grado di replicare, è un valore che si vuole continuare a ritenere irrinunciabile. E sta nel bilanciamento tra queste esigenze la chiave di volta della inarrestabile sostituzione dell’automa a segmenti sempre più estesi dell’attività non più solo materiale, ma anche intellettiva, del suo creatore per il proprio beneficio e progresso.
È questa la vera sfida di fronte al travolgente progresso dell’automazione: sta al creatore Uomo stabilire cosa riservare a sé e cosa devolvere al suo quasi alter ego in tutti i settori della vita quotidiana.
Per il mondo del diritto, non è più differibile una riflessione comune – con adeguati strumenti, tra cui incontri di studio, tavoli di lavoro e così via – fra tutti i suoi attori (Accademia, Avvocatura, Magistratura, Personale amministrativo) che individui i punti irrinunciabili dell’area di intervento umano e che delinei gli ambiti e le modalità operative dei sistemi di intelligenza artificiale da applicare al settore, come pure i principi in senso lato etici che devono governarli: una “giurialgoretica”, cioè l’algoretica del diritto.
GUIDA ALL’APPROFONDIMENTO
In dottrina sul tema:
C. Castelli, Giustizia predittiva, in www.questionegiustizia.it, 8 febbraio 2022;
Consiglio d’Europa, CAI(2023)01 Committee on artificial intelligence (CAI), Revised zero draft [framework] Convention on artificial intelligence, human rights, democracy and the rule of law, Strasbourg, 6 January 2023, reperibile al sito URL https://rm.coe.int/cai-2023-18-consolidated-working-draft-framework-convention/1680abde66;
F. De Stefano, L’intelligenza artificiale nel processo?, in www.giustiziainsieme.it, 6 marzo 2020; European Commission, A definition of Artificial Intelligence: main capabilities and scientific disciplines, all’URL https://digital-strategy.ec.europa.eu/it/node/2226; D. Franklin, The Chatbot Revolution;
ChatGPT: An In-Depth Exploration, 2023, ISBN 979-8370255281;
M. Luciani, La decisione giudiziaria robotica, in Riv. Associazione italiana dei costituzionalisti, n. 3-2018, § 1;
L. Viola (a cura di), Giustizia predittiva e interpretazione della legge con modelli matematici, ISBN-13 978-8835348115, Milano, 2019.
Riferimenti alla normativa eurounitaria in itinere:
https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/HTML/?uri=CELEX:52021PC0206
https://www.ceps.eu/wp-content/uploads/2021/04/AI-Presentation-CEPS-Webinar-L.-Sioli-23.4.21.pdf?
[Contributo già apparso su IUS – Processo civile, https://ius.giuffrefl.it/dettaglio/10602722/intelligenza-artificiale-e-redazione-degli-atti-giudiziari-civili?searchText=intelligenza%20artificiale il 9 agosto 2023]
(Immagine: Yakoi Kusama,Infinity Mirrored Room – Filled with the Brilliance of Life, 2011)
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