Diritto d’amore e responsabilità civile esprime un’endiadi che già solo al primo sguardo sembra contenere una serie di relazioni e contraddizioni.
Scomponendo l’endiadi, la locuzione Diritto d’amore perviene, come è noto, da un celebre saggio di Rodotà su Politica del diritto[1], esito di un intervento tenuto al Festival della filosofia di Modena e dopo confluito nel lavoro monografico che ne rielabora i concetti in maniera più approfondita. In quella sede, l’A. esordisce con un interrogativo che costituisce il filo che conduce a tutte le digressioni successive, ovvero quello della compatibilità fra diritto e amore, due profili dell’esistenza umana così distanti per fondamenti epistemologici, funzioni ed esiti d’esperienza: esprimendo, si potrebbe dire in una scontata contraddizione, l’apollineo (il primo) e il dionisiaco (il secondo), l’ordine e il caos, la categorizzazione e la sorpresa, Creonte (e l’obbedienza alle leggi dell’ordine normativo) e Antigone (e la supremazia delle leggi dell’amore).
Sulla base di questa prima relazione conflittuale, l’A. passa a indagare un secondo aspetto, si può dire fondativo delle riflessioni contemporanee sul diritto, ovvero, per dirla con parole di chi scrive, se sia possibile una contro-narrazione rispetto all’idea (di foucaultiana memoria[2]) che il diritto sia un dispositivo che ha la precipua funzione di controllo sociale e di dominio sui corpi, e, di qui, che sia uno strumento che concorre a neutralizzare l’amore - e anche quelle che l’A. chiama le eccedenze dell’amore, che pure sfuggono al diritto.
In quelle pagine, fra le altre, l’A. ci ha proposto una straordinaria rilettura della scienza giuridica, come esperienza che porta con sé, coesistendo con l’opposta tensione razionalizzante e sistematizzante dell’esistenza umana, anche un seme generativo e trasformativo - quando esso dà rilevanza a interessi fondativi, riconducibili a soggettività socialmente riconosciute e su di esse costruendo diritti e formalizzando tutele.
Ma Diritto d’amore e responsabilità civile non può esimersi dal confronto con l’altra misura dell’endiadi, rimandando all’altrettanto celebre lavoro del prof. Patti sulla responsabilità civile nelle relazioni familiari[3], risalente ancor di più nel tempo, dove lo stesso A., con un accostamento apparentemente provocatorio, elabora il pensiero, altrettanto rivoluzionario, che la configurabilità dello strumento risarcitorio nel mondo dell’amore non sono non sia incompatibile con quello (in presenza dei requisiti che l’istituto richiede), ma sia anche, in certo modo, doverosa, stante la natura degli interessi coinvolti: ciò pur a fronte delle interminabili digressioni argomentative di dottrina e giurisprudenza, in particolare, sul danno non patrimoniale, sulle allegazioni necessarie e sulle poliedriche funzioni della responsabilità civile, che in questo ambito si rendono evidenti e talvolta sono anche consapevolmente assunte (es. art. 709 ter c.p.c.).
Incontestati gli approdi di quel pensiero (e lasciando da parte gli strascichi relativi alla riconducibilità a questo o a quel regime), resta la consapevolezza che, discorrendo di rimedio risarcitorio, siamo in un ambito argomentativo ben diverso dal tema rodotiano: l’art. 2043 c.c. non è lo strumento per affermare il rilievo degli interessi, tutt’altro. Esso si colloca nella dimensione della tutela, e in quanto tale successivo e secondario.
E questa affermazione non potrebbe apparire palesemente inutile nella sua banalità, se non fosse che siamo tutte e tutti consapevoli della deriva presa, suo malgrado, dalla scienza giuridica, la quale assume risonanza e riconoscibilità sociale quasi esclusivamente nella dimensione patologica.
Data quest’ultima constatazione e facendo una sorta di ipotetica sintesi fra diritto d’amore e responsabilità civile, come lettura che superi l’esperienza foucaultiana del diritto come mero strumento di controllo sulla libertà, sull’amore, sul corpo e sulla felicità degli uomini e delle donne, appare profondamente fallace appiattire il diritto nella dimensione patologica: non solo perché ciò significa allocare la responsabilità della costruzione della dimensione simbolica del diritto al solo ambito giurisdizionale, abdicando l’imprescindibile funzione politica della costruzione dell’ordine normativo e la funzione etica della dottrina; ma anche, e forse soprattutto, perché il diritto, nella costruzione dell’argomentazione, ha una profonda capacità generativa dell’ordine sociale di riferimento; da quello è permeato e quello stesso ordine sociale il diritto influenza in una mutualità di senso che è vivifica.
Tutto ciò pur senza tralasciare l’implicita capacità contenitiva (c.d. holding)[4], di matrice psicologica e psicoanalitica, che è propria del diritto - razionalizzante e categorizzante delle pulsioni più emotive, negative o di ostilità o stereotipia -, va nondimeno rivendicata la sua dimensione precedente alla fase patologica, riscoprendo il valore culturale, trasformativo, parte dell’esperienza umana. Proiettando l’argomento sul piano della responsabilità collettiva, al giurista è dato il compito di un utilizzo intelligente del diritto, a favore del vivente e non solo delle disposizioni vigenti, secondo le logiche assiologiche e personalistiche che la Costituzione ci chiama a onorare.
Fatte queste brevi premesse, che chiariscono l’adesione genuina e convinta della compatibilità fra diritto e amore e fra diritto d’amore e rimedio risarcitorio, è utile interrogarsi ora su dove si collochino gli orizzonti più inusitati della convergenza fra amore e responsabilità civile e, forse - anzi sicuramente prima - dove si spingerà la rilevanza degli interessi che Rodotà asseriva giustamente essere il prius logico per dare consistenza giuridica soggettività socialmente riconosciute.
E sembra potersi affermare con una certa dose di sicurezza che lo spazio di senso che appare di maggiore interesse è quello della genitorialità e delle genitorialità. Perché mentre l’ambito delle relazioni familiari adulte è ormai schiacciato su una certa retorica dell’autonomia privata (v. accordi prematrimoniali o a latere, contratti di convivenza, clausole di inefficacia dei doveri, cumulo di domande separazione e divorzio), quello dei minori si rappresenta multiforme: per un verso, ancora ancorato a uno spazio di inderogabilità, a principi di interesse superiore, di matrice pubblicistica; per altro verso, obbligato a confrontarsi con una dimensione tutta autodeterminativa dell’esperienza genitoriale.
Mi spiego, utilizzando proprio Rodotà.
Ragionare in punto di genitorialità, di genitorialità sociale e di omogenitorialità, seguendo la strada segnata, significa partire dall’idea che il diritto, se vuole avvicinarsi all’amore, deve, in primo luogo, abbandonare i suoi pregiudizi e farsi “discorso aperto”, senza che ciò significhi una perdita in termini di tecnicità. Come a dire che, se “l’amore ha le sue regole”, tanto irrazionali, quanto eterogene e variabili, allora il diritto non può pensare di impadronirsene e di soggiogarle in fattispecie impermeabili, ma deve offrire soluzioni a istanze affettive, trasformando tecnicamente sé stesso all’interno di una cornice di senso che, pur mantenendo l’assetto valoriale di riferimento, sappia “cogliere e accettare contingenza, variabilità e persino irrazionalità”.
Quanto premesso pare essere fondamentale quando si ragiona di genitorialità e di omogenitorialità: il diritto, e vieppiù l’interprete, nella riflessione sulla categoria di riferimento, nella costruzione della norma come nel percorso argomentativo del caso concreto, non possono esimersi dalla considerazione e dalla valutazione dell’esperienza soggettiva. Se ciò è vero all’interno della tradizionale e confortevole categoria della genitorialità biologica, non può non valere pure nel contesto della genitorialità sociale che comprende una composita fenomenologia: famiglie adottive e affidatarie, create con tecniche procreative, allargate-ricomposte, monoparentali, persino quelle straniere dove, banalmente, i concetti di parentela e affinità possono esondare/divergere dai confini che la norma occidentale prevede.
Questa premessa consente di fare alcune ulteriori riflessioni: è evidente, ormai, che, a fronte di un modello codicistico di filiazione sostanzialmente unitario, archetipico, fondato sul paradigma dominante e tradizionalmente ordinatore della genitorialità biologica (composta di eterosessualità nella procreazione, duplicità delle figure genitoriali, derivazione genetica, gestazione e parto) si contrappongono e si affiancano modelli genitoriali che si costituiscono e vivono nelle forme più diverse, si fondano su differenti presupposti e che prescindono da riconoscimenti e divieti esistenti.
Questo non solo perché “l’amore ha le sue regole”, sempre parafrasando Pascal, contingenti, eterogenee e variabili; ma anche perché queste esperienze affettive si basano su un presupposto tanto semplice, quanto irrazionale: la genitorialità, prima ancora del discorso giuridico, ha radici profonde, saldamente fissate in un terreno antico; essa è legata agli aspetti più primordiali della corporeità, rappresentandosi come un desiderio atavico, una pulsione irrazionale di perpetuazione della vita e, in un senso di onnipotenza, della creazione di un altro da sé, di una ri-nascita, e non necessariamente sempre in un senso biologista[5].
Se questo è vero, anzi costituisce un pre-dato del discorso giuridico, elemento implicito, indiscusso, anche socialmente accondisceso nella dimensione della genitorialità “naturale”, non può stupire che altrettanto sia nelle dinamiche ricorrenti nella genitorialità sociale.
È certamente vero che l’avvento dei progressi scientifici e culturali ha mutato radicalmente il paesaggio, per un verso, rendendo la genitorialità uno degli ambiti dell’autodeterminazione personale e delle disposizioni del corpo, luogo e oggetto di una delle scelte realizzabili nel mondo della possibilità procreativa; per altro verso, la stessa maternità appare sciolta dal legame intenso con la femminilità e con una certa dimensione naturalistica dell’esperienza, per assumere una forte dimensione progettuale. Questa dimensione nuova della corporeità e della genitorialità, in luogo di una maternità per alcuni aspetti dismessa, diviene un fatto autodeterminativo, sociale e psichico. Il corpo (e con esso gli aspetti più tradizionali della corporeità - quali la gestazione, l’allattamento, il parto naturale) da “luogo” anche metafisico in cui si realizza la procreazione, diviene strumento per realizzare la scelta, in una inusitata relazione fra il soggetto e la sua stessa corporeità.
Acquisito questo fatto, non può sconcertare che la pulsione narcisistica del paradigma procreativo sia assunta, se non con forza maggiore, quanto meno in misura analoga nella genitorialità sociale, soprattutto se connessa alle tecniche assistite, dove il dominio sul proprio appare implicito, sconfinando, talvolta con esiti incerti, nel terreno di una procreazione davvero artificiale, nell’utilizzo del proprio corpo e degli strumenti della tecnica e della scienza per realizzare, anche “forzando la natura”, la scelta, l’ultimo e quasi estremo desiderio di procreazione.
Non si tratta di un discorso fattualista, che meramente accondiscende la dimensione esperienziale a discapito della costruzione normativa e dei valori, e men che meno con una propensione valutativa; ma piuttosto di un elemento che non può non tenersi in considerazione, a più livelli, e anche nel senso delle conclusioni a cui si vuole approdare: perché se tutto ciò è vero, e la struttura fondativa dell’esperienza genitoriale è divenuta un percorso estremamente ricercato, voluto, consapevole e non privo di ostacoli (naturali e giuridici), di sofferenze (fisiche ed emotive) e di costi (precedenti e successivi alle nascita) e di rischi, come è possibile non immaginare di oltrepassare i tradizionali confini risarcitori della responsabilità endofamiliare per violazione dei doveri parentali, che tendenzialmente si attestano alle fattispecie di abbandono del genitore, delle costituzioni tardive del legame genitoriale e delle contestazioni tardive del legame ma con la consapevolezza della difformità fra dato biologico e status, fino alle più tradizionali condotte ostacolanti dei doveri genitoriali e denigranti dell’altro genitore.
Ebbene, sul piano interno, si possono sicuramente intravedere almeno tre profili rilevanti in tema di genitorialità sociali, che ancora non trovano una compiuta definizione e che, in stretta correlazione con questo, lasciano purtroppo ancora spazio, in termini abusivi, all’esercizio di diritti, determinando nondimeno la violazione dei principi della responsabilità nella procreazione, dell’autoresponsabilità (nel senso pugliattiano del termine), della solidarietà e…del diritto d’amore dei nati e delle nate dalle tecniche procreative:
- è il caso di una procreazione assistita eterologa fatta all’estero o anche in Italia da due donne, che non sia trascritta o non (ancora) costituita con lo strumento dell’art. 44 lett. d), l. ad., ovvero sia stata trascritta e poi revocata dal giudice, che vede la madre legale adottare comportamenti ostativi alla relazione fra i figli/ie e la madre sociale, giuridicamente inesistente, nella dimensione propriamente affettiva o anche ostacolandone i rapporti giuridici, ad esempio non acconsentendo ad un accordo stragiudiziale per l’affidamento condiviso e/o rifiutando le frequentazioni nella crisi.
- Vi è poi la gestazione per altri realizzata all’estero da coppia eterosessuale ovvero omosessuale non (ancora) costituita per il genitore d’intenzione ai sensi dell’art. 44 lett. d), l. ad., che, di nuovo, vede il genitore biologico legale adottare comportamenti ostativi alla relazione con i nati dalla tecnica, sia nella dimensione propriamente affettiva, sia rifiutando il consenso alla costituzione del secondo legame del genitore sociale in sede di procedura adottiva speciale.
- Ancora, si pone l’ipotesi di una gestazione per altri realizzata all’estero da coppia eterosessuale ovvero omosessuale non (ancora) costituita per il genitore d’intenzione ai sensi dell’art. 44 lett. d), l. ad., il quale però mostri completo disinteresse per la costituzione del legame, di fatto decidendo di non assumersi quella responsabilità per il fatto procreativo che, per intenzione, progettualità, consapevolezza, sofferenze e costi, appare un percorso con un livello significativo di autoresponsabilità rispetto alla genitorialità naturale: una autoresponsabilità, dicono le corti, è idonea addirittura a superare la dimensione dell’esistenza vivente, (v. procreazioni post mortem) per farsi cogente anche dopo la morte, e a vincolare le parti anche dopo la fine del legame, quando la vita che non è ancora atto, ma è solo potenza (v. procreazioni che si realizzano dopo lo scioglimento del vincolo affettivo della coppia con materiale embrionario crioconservato, a seguito della recente pronuncia della Corte costituzionale).
Ponendo lo sguardo oltre la dimensione della sola genitorialità, osservando quella delle relazioni in un senso più ampio, su più piani è feconda la prospettiva dell’art. 8 Cedu: nella necessità che la tutela nazionale sia celere e effettiva, anche nella dimensione risarcitoria (Kuppinger c. Germania); che gli accertamenti sulla genitorialità siano rapidi e efficaci (Mikulić c. Croazia); che le regole consentano concretamente di accertare la paternità presunta (Bocu c. Romania), e la genitorialità di intenzione (Mennesson c. Francia; Labassee c. Francia). Perché, richiamando sempre la corte Edu, la vita familiare è intesa sì come reciproco godimento della relazione genitori/figli (Monory c. Romania e Ungheria; K.-T. c. Finlandia), ma anche come vita potenziale e non solo già vissuta (Nylund c. Finlandia); come nella dimensione dei legami fattuali con gli affidatari (Moretti e Benedetti c. Italia; Jolie et a. c. Belgio), con gli ascendenti (Marckx c. Belgio; Bronda c. Italia) e con gli zii e (Butt c. Norvegia).
L’orizzonte delle prospettive risarcitorie - anche oltre la dimensione prettamente genitoriale - è decisamente ampio, ma, prima ancora, ciò che appare limpido è il delinearsi della fase performativa dell’argomentazione, quella della rilevanza degli interessi minorili e delle soggettività socialmente riconosciute e che il diritto d’amore è chiamato comprendere, nei più sensi del verbo.
Resta indiscussa l’idea che diritto e amore siano compatibili e che questa compatibilità sia imprescindibile. Ma, sempre parafrasando Pascal, se è vero che l’amore ha le sue leggi, anche il diritto ha le sue leggi. E la via della saggezza feconda ci chiede di essere al contempo Antigone (che osserva le leggi dell’amore) e Creonte (che obbedisce a quelle del diritto): bisogna essere al contempo Antigone e Creonte, per non essere integralmente né Antigone né Creonte.
(Lo scritto rielabora la relazione tenuta dall'autrice al XX Congresso nazionale dell'Associazione Cammino, “Diritto d’amore per i vent’anni di Cammino, costruendo percorsi per la tutela dei diritti fondamentali dei soggetti vulnerabili”, che si è tenuto a Roma nei giorni 25-25-27 gennaio 2024. Si tratta della prima di una serie di pubblicazioni sulla nostra Rivista in tema di "diritto d'amore" per condividere le riflessioni emerse in occasione del Convegno.)
[1] S. Rodotà, Diritto d’amore, in Pol. Dir., 2014, p. 335; poi Id., Diritto d’amore, ed. Laterza, 2014.
[2] V. proprio S. Rodotà, Foucault e le nuove forme del potere, ed. L’Espresso, 2011.
[3] S. Patti, Famiglia e responsabilità civile, Giuffrè, 1984, passim.
[4] J. Abram, Il linguaggio di Winnicott, Franco Angeli, 2013, che rielabora il concetto di Winnicott.
[5] Si consenta il rinvio ad A. Cordiano, Dalle tecniche procreative all’utero artificiale: una storia di limiti e di desiderio, in Nuovi paradigmi della filiazione, a cura di V. Barba, E.W. Di Mauro, B. Concas, V. Ravagnani, Sapienza-University Press, 2023, p. 445.
Immagine: Giuseppe Diotti, Antigone condannata a morte da Creonte, olio su tela, 1845, Accademia Carrara, Bergamo.