ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il potere amministrativo di onomastica stradale (nota a margine di Cons. Stato, Sez. I, 7 gennaio 2025, n. 4)
di Filippo D’angelo
Sommario: 1. Il fatto. – 2. Il parere del Consiglio di Stato. – 3. La struttura del procedimento di denominazione stradale e il momento di produzione degli effetti giuridici. – 4. Il diverso caso del cambio di un toponimo esistente. – 5. Conclusioni (sull’importanza delle distinzioni teoriche).
1. Il fatto
Il parere della Sezione I del Consiglio di Stato 7 gennaio 2025, n. 4 che si annota appare di particolare rilievo sia sul piano della vicenda fattuale, sia per le riflessioni di ordine teorico che induce rispetto alla sistematica del procedimento amministrativo.
Prima di scendere nel dettaglio della decisione occorre premettere un breve cenno al caso controverso che trae origine dal ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto da una privata cittadina avverso la delibera della giunta del comune di Grosseto che nel mese di marzo del 2023 aveva deciso di intitolare un viale urbano a un noto esponente politico italiano scomparso da parecchi decenni.
Alla base della statuizione comunale vi era una precedente delibera del consiglio comunale dell’aprile del 2018 che aveva suggerito l’intitola-zione della via sulla base del prestigio del politico desunto da un serie di elementi oggettivi di seguito elencati: anzitutto per essere “stato eletto nel parlamento italiano per 40 anni consecutivi” ed essere stato anche “parlamentare europeo”; poi per aver “sostenuto un’originale e moderna proposta politica, fondata sulla pacificazione tra gli italiani dopo gli eventi successivi all’otto settembre 1943, culminati con la guerra fratricida tra gli italiani”; ancora per il centrale ruolo ricoperto nella “politica nazionale ed europea del secondo dopoguerra”; infine per il “contributo alla costruzione di una matura democrazia nella nascente Repubblica italiana durante un periodo storico di forti contrapposizioni ideologiche, spesso sfociate in episodi violenti e terroristici” che egli ha “sempre combattuto con lealtà e coraggio”[1].
Da ciò l’adozione della deliberazione impugnata poi seguita dal nullaosta del prefetto locale – intervenuto sei mesi dopo ma non impugnato dalla ricorrente – che ha confermato dopo attenta istruttoria la scelta del comune e ha escluso qualunque rischio di ordine e di sicurezza pubblica che l’intitolazione avrebbe potuto ingenerare[2].
2. Il parere del Consiglio di Stato
Di particolare interesse sono le conclusioni in punto di diritto cui è pervenuto il collegio che ha reputato il ricorso straordinario inammissibile e infondato per mancata impugnazione dell’autorizzazione prefettizia.
Il Consiglio di Stato ha infatti evidenziato che nell’ambito del procedimento di denominazione stradale “correttamente la delibera di Giunta avversata precede la richiesta di autorizzazione al Prefetto”[3].
Nello specifico ha precisato che il “Comune è l’esclusivo titolare della funzione amministrativa di toponomastica, mentre il Prefetto è chiamato a rilasciare o meno l’autorizzazione basandosi su ragioni di tutela dell’ordine pubblico o esigenze di regolarità anagrafica”[4].
Il motivo è presto spiegato.
Il procedimento per l’intitolazione di nuove strade (cd. toponomastica urbana) si divide in due fasi distinte ma collegate: la “prima delle quali consta della delibera di Giunta comunale e, la seconda, del nulla osta del Prefetto”; tale per cui in “assenza di una preventiva deliberazione di Giunta non vi sarebbe alcuna ipotesi di intitolazione da sottoporre al vaglio prefettizio” per le “condizioni afferenti l’ordine pubblico”[5].
Tale affermazione appare del tutto coerente col dato normativo.
In primo luogo con l’art. 10 della legge 24 dicembre 1954, n. 1228, in base al quale il “Comune provvede alla indicazione dell’onomastica stradale e della numerazione civica”; poi con l’art. 41 del DPR 30 maggio 1989, n. 223, per cui “ogni area di circolazione deve avere una propria distinta denominazione” (co. 1) e in particolare “ogni spazio (piazza, piazzale, via, viale, vicolo, largo, calle e simili) del suolo pubblico o aperto al pubblico destinato alla viabilità” (co. 2); infine con l’art. 1 delle legge 23 giugno 1927, n. 1188, che a chiusura rammenta che “nessuna denominazione può essere attribuita a nuove strade e piazze pubbliche senza l’autorizzazione del prefetto”.
3. La struttura del procedimento di denominazione stradale e il momento di produzione degli effetti giuridici
Si può allora tentare di ricavare qualche indicazione dalle motivazioni del parere in commento.
Il Consiglio di Stato, forse in maniera non del tutto inavvertita, sembra aver fatto propria una distinzione da tempo sedimentata in dottrina, ma non sempre calcata con la dovuta precisione rispetto agli stadi genetici di esercizio del potere amministrativo.
La distinzione, cioè, tra la fase determinante e la fase costitutiva del potere[6]; con ciò intendendo, da un lato, il momento in cui sono disegnati gli effetti della funzione; e dall’altro il successivo momento in cui essi sono in concreto realizzati e tradotti in atto[7].
Nel caso di specie tanto la decisione della Giunta comunale, quanto quella prefettizia, vanno collocate nel momento di determinazione degli effetti tipici del potere: da una parte infatti c’è la competenza dell’organo esecutivo comunale che sceglie a chi intitolare il tratto stradale; dall’altra c’è la competenza del prefetto che deve verificare discrezionalmente l’assenza di ostacoli di ordine pubblico.
All’evidenza si è al cospetto di due poteri, manifestati attraverso altrettanti procedimenti amministrativi, che si combinano in vista della produzione di un unico effetto che sarà poi in concreto costituito dall’attribuzione della denominazione stradale[8]; e tale è la logica che riposa al fondo dei procedimenti cd. ‘binari’ che sono qualificati dall’unità del fatto della vita che ne costituisce la risultanza finale[9].
La conseguenza – di non poco momento – è che quelli di cui si discute sono poteri tra loro ‘equiordinati’ in virtù della prefigurazione normativa di una funzione che imputa a tutti i soggetti che vi partecipano un ruolo decisorio identico e convergente; così da realizzare un concorso – ad un pari livello di incidenza – di poteri oggettivamente interferenti[10].
Da tanto discende allora l’interesse per il parere in commento.
Sia perché ha focalizzato l’attenzione sul modo in cui agisce il descritto meccanismo legale di composizione procedurale di competenze amministrative distinte; sia perché ha impresso il fuoco sul principio di unità della funzione amministrativa che serpeggia qua e là nelle strettoie dell’ordinamento amministrativo e che riemerge ogni qual volta occorre conseguire risultati complessivi[11].
4. Il diverso caso del cambio di un toponimo esistente
A conferma di quanto precede si può aggiungere che un procedimento in parte analogo si deve seguire anche per cambiare il nome già esistente di una strada o di una piazza comunale; con la differenza però che in tal caso non serve il nulla osta prefettizio, ma è richiesta un’autorizzazione del Ministero della cultura.
Così dispone infatti l’art. 1 del regio decreto-legge 10 maggio 1923, n. 1158, convertito in legge 17 aprile 1925, n. 473, per le ipotesi in cui i comuni (il testo legislativo parla di “amministrazioni municipali”) intendano “mutare il nome di qualcuna delle vecchie strade o piazze comunali”.
Sul punto è di recente intervenuta anche la giurisprudenza amministrativa che ha precisato che la “norma sul cambio del toponimo, di cui all’art. 1 del regio decreto-legge n. 1158 del 1923, come convertito, si riferisce in modo inequivoco a strade o piazze che abbiano già un “nome” che si intendere cambiare. La diversa norma del 1927, invece, si riferisce a strade o piazze “nuove” e disciplina la prima attribuzione del nome: a differenza dell’altra previsione, dunque, questa assume rilievo laddove una precedente denominazione non vi sia, o perché si tratta di infrastruttura stradale nuova, o perché, pur se non di recente costruzione, la strada o la piazza sia rimasta priva di denominazione”[12].
È per questo motivo che è necessario l’assenso del vertice ministeriale, anziché del prefetto: per astringere l’amministrazione locale a una “valutazione particolarmente ponderata circa le conseguenze e gli incomodi che derivano da simile iniziativa”[13]; valutazione che «abbisogna di un’istrut-toria approfondita sull’effettiva necessità di procedere in tal senso: ciò, avuto riguardo ai disagi che tali iniziative possono arrecare ai cittadini per l’aggiornamento dei documenti in loro possesso e l’aggravio di lavoro a carico dei servizi comunali»[14].
Ecco allora che anche il secondo esempio proposto pare confermare l’assunto di partenza: ossia che il duplice concorso di competenze nel procedimento di onomastica stradale serve a (con)determinare l’effetto finale voluto dalla legge; trattandosi all’evidenza di singoli “atti necessari a completare la fattispecie” complessa[15].
5. Conclusioni (sull’importanza delle distinzioni teoriche)
In conclusione le brevi note qui presentate, muovendo da un caso concreto, intendono soffermare l’attenzione sull’importanza delle pur sottili distinzioni svolte dalla dottrina; la quale è «obbligata a scendere continuamente nel particolare» per poi «risalire al concetto» e «controllare la validità della proposizione ottenuta»[16].
È un’opera che talvolta dà i suoi frutti e della quale la legge, e così la giurisprudenza, spesso riconoscono l’utilità pratica come dimostra la vicenda riassunta.
[1] Così si legge nell’estratto della delibera consiliare riportato alle pagine 3-4 del parere in commento.
[2] Pagina 4 del parere in commento.
[3] Pagina 5 del parere in commento.
[4] Ancora pagina 5 del parere in commento.
[5] Pagine 5 e 6 del parere in commento.
[6] Primi a cogliere la sfumatura A.M. Sandulli, In tema di provvedimenti ministeriali su delibera del Consiglio dei Ministri, in Giur. compl. cass. civ., I, 1949, 894 ss., ora in Scritti giuridici, III, Napoli, 1990, 98 e M.S. Giannini, Accertamenti amministrativi e decisioni amministrative, in Foro it., IV, 1952, 177.
[7] La distinzione è stata approfondita da F.G. Scoca, Contributo sul tema della fattispecie precettiva, Perugia, 1979, 254; Id., La teoria del provvedimento dalla sua formulazione alla legge sul procedimento amministrativo, in S. Amorosino (a cura di), Le trasformazioni del diritto amministrativo. Scritti degli allievi per gli ottanta anni di Massimo Severo Giannini, Milano, 1995, 286.
[8] Per un simile intendimento si vedano in generale A. De Valles, La validità degli atti amministrativi, Roma, 1916, 24; R. Lucifredi, Inammissibilità di un esercizio “ex post” della funzione consultiva, in Raccolta di scritti di diritto pubblico in onore di Giovanni Vacchelli, Milano, 1938, 289; F. Cuocolo, Deliberazioni del Consiglio superiore della Magistratura e sindacato giurisdizionale del Consiglio di Stato, Giur. it., III, 1962, 253.
[9] Così M.S. Giannini, Istituzioni di diritto pubblico, Milano, 1981, 286.
[10] Così F. Migliarese Tamburino, Il coordinamento nell’evoluzione dell’attività amministrativa, Padova, 1979, 70.
[11] Come ricorda esattamente G.D. Comporti, Il principio di unità della funzione amministrativa, in M. Renna – F. Saitta (a cura di), Studi sui principi del diritto amministrativo, Milano, 2012, 309, che riprende i contenuti dell’ultimo capitolo del suo lavoro monografico Il coordinamento infrastrutturale. Tecniche e garanzie, Milano, 1996. In una prospettiva analoga si veda poi D. D’Orsogna, Contributo allo studio dell’operazione amministrativa, Napoli, 2005, 253; e da ultimo sia consentito anche un richiamo a F. D’Angelo, Pluralismo degli enti pubblici e collaborazione procedimentale. Per una rilettura delle relazioni organizzative nell’amministrazione complessa, Torino, 2022, 207.
[12] Così Cons. Stato, Sez. V, 12 luglio 2024, n. 6260, punto 5.3 della parte motiva in diritto; ma anche TAR Toscana, Sez. I, 26 novembre 2020, n. 1522.
[13] Ibidem.
[14] Ibidem.
[15] In tal senso la circolare del Ministero dell’interno n. 83, prot. n. 0017395 del 23 giugno 2023; in giurisprudenza TAR Calabria – sede di Catanzaro, Sez. I, 13 febbraio 2017, n. 210 e anche TAR Veneto, Sez. I, 7 marzo 2005, n. 824.
[16] Così M.S. Giannini, Sociologia e studi di diritto contemporaneo, in Jus, 2, 1957, 225.
1. L’Intelligenza artificiale sollecita molte questioni di interesse per la scienza giuridica: non è un caso che gli stessi temi si ritrovino nei principali documenti internazionali, come il Report dell’Agenzia per i diritti fondamentali dell’Unione europea (FRA) del 2021 e la più recente Convenzione Consiglio d’Europa 2024 su Intelligenza artificiale, diritti umani, democrazia e stato di diritto.
Variamente declinati, in entrambi i documenti si possono ritrovare quei confini etici e giuridici di maggior attenzione, come il principio di non discriminazione nei riguardi dei lavoratori e delle lavoratrici, con riferimento al genere e all’origine biogeografica e a protezione dei soggetti disabili e delle persone minori; la tutela della dignità e dell’autonomia individuale; i principi dello stato di diritto e tutela della democrazie; il rispetto dei diritti umani e anche nel quadro del diritto internazionale; le garanzie accesso alla giustizia; la necessaria predisposizione di sistemi di valutazioni di impatto e di modelli di supervisione e di controllo.
Le applicazioni dell’Intelligenza artificiale, nella loro significativa variabilità, interessano dispositivi di identificazione biometrica, in delicato bilanciamento fra tutele della riservatezza, sicurezza e ordine pubblico; modelli di categorizzazioni biometriche per etnia, religione, genere, orientamento sessuale, ad esempio mediante trattamenti massivi di dati personali e evidenziando i rischi di derive razziste, abiliste, ageiste...; strumenti di polizia predittiva, che consentono il tracciamento di luoghi, la catalogazione di condotte pregresse, con il pericolo di usi impropri di sistemi repressivi; e ancora bubble filters commerciali, che già permettono la profilazione consumeristica, ma anche e politici, con il rischio di influenzare masse consistenti di popolazione ai fini elettorali e politici.
Insieme agli aspetti richiamati, non si può negare, si pone però la dimensione digitale dell’Intelligenza artificiale, con il carattere volatile, impalpabile, etereo delle condotte; con quei suoi peculiari modelli di circolazione delle informazioni, unitamente alla tradizionale complessità di governo e di controllo sulle stesse informazioni e sui dati.
La tecnica si è fatta digitale.
Il tema del macchinico, della tecnica è molto risalente e insiste a diverso titolo sull’esperienza umana: sull’elaborazione di calcoli complessi, sui modelli organizzativi e del lavoro, sulle scelte e sull’influenza delle scelte contrattuali; sulla salute e sulla procreazione. All’inizio nondimeno era (più che altro) la velocità. Era la risoluzione della complessità, principalmente di calcolo, poi di problemi più complessi: questa era l’informatica alle sue origini, con l’avvento dell’elaboratore di calcolo.
Quindi sembrerebbe un tema antico e per certi versi lo è: forse si potrebbe dire da sempre, l’umano si è proteso a potenziare la propria vita, migliorando prestazioni e finanche sostituendo se stesso se conveniente ovvero simulando la mente. Sono probabilmente connaturati nella storia dell’umanità l’esercizio e la strategia del potenziamento umano, dell’aiuto esterno, della sostituzione.
Così, per centinaia di migliaia di anni, nelle diverse epoche storiche, il tema del rapporto fra umano-tecnica ha accompagnato le riflessioni di grandi pensatori e pensatrici.
Quali sono però le differenze, quale la lacerazione simbolica dell’Intelligenza artificiale con la tecnica, nella sua dimensione risalente, ma anche con l’informatica?
La questione se si vuole simbolica sta lì: nell’intelligenza e nella sua artificialità, ovvero nel mito del funzionamento della mente umana e nell’aspirazione verso la possibilità di replicarne gli stili di funzionamento, la capacità di gestione della complessità e soprattutto gli esiti decisionali. Questa tecnologia, diversamente o più spiccatamente delle precedenti, ha l’attitudine o l’aspirazione di reinventare la natura, l’ambizione di stabilire un’altra narrazione antropologia, chiedendo evidentemente qualche sforzo intellettuale ulteriore.
L’assunto starebbe quindi nell’idea che le nuove tecnologie artificiali siano in grado di riprodurre i meccanismi intellettuali del pensiero umano (e di qui, il passo potrebbe essere breve, dell’inconscio umano).
In tale prospettiva, le riflessioni che oggi albergano il tema del rapporto fra umano e tecnica si rivolgono a quello che è stato individuato come un passaggio fondamentale, di non ritorno: dalla tecnica funzionale (che è strumento) alla tecnica teleologica (che si dà come scopo) che, avendo però l’ambizione di reinventare la natura, potrebbe - si teme possa avere - anche la capacità di pensare e costruire un proprio mondo, una propria antropologia. Quindi di essere scopo di sé: e ciò rende la riflessione più complessa.
È in questo contesto che la scienza giuridica (non da sola, si può auspicare) è chiamata a individuare cornici di senso per la coesistenza - plausibile e possibilmente duratura - fra umano e macchinico; ovvero, per dirlo con una maggiore consistenza giuridica, a rispondere all’ineluttabile esigenza di tenere insieme l’inarrestabile avanzare dell’Intelligenza artificiale con principi irrinunciabili dell’umanesimo giuridico, bilanciando cautela e fiducia, prudenza e visione.
2. Ricondotto questo tema sul piano del diritto, dell’argomentazione giuridica, della costruzione della decisione, tutto appare di notevole significanza, per essere il mondo giuridico un interessante banco di prova su più livelli: strutturale, etico, politico.
Affrontando la questione su un piano strutturale, quello del mondo giudiziale che si rivolge all’Intelligenza artificiale, le questioni appaiono per certi versi più agili e rimandano a quei dispositivi di legal assistant o prompting, destinati tendenzialmente a tutte le professioni giuridiche, e che si orientano a favore della predeterminazione delle strategie difensive, della prevedibilità delle decisioni, dell’introduzione di modelli matematici di calcolo.
Sono strumenti che certamente aumentano la velocità operative: lo fanno, in particolar modo, per quei segmenti routinari del lavoro, che si presentano analiticamente più semplici e ripetitivi. Sono strumenti che costruiscono esiti o prodotti sulla base di informazioni predate: si pensi al caso delle liti temerarie o delle clausole vessatorie. Sono esperienze che appaiono affascinanti, anche se sembra si adattino meglio - o forse nascono pensati come maggiormente affini - ai modelli ordinamentali di common law o, ancora, più adeguati ad alcuni settori del diritto più che ad altri: la sensazione è che per alcuni degli strumenti di Intelligenza artificiale, la dimensione romanistica, quella del giurista continentale, e sicuramente la postura accademica fatichino ad assecondare logiche di facilitazione del pensiero.
Al netto di alcune sommarie notazioni, nondimeno, appare certamente affascinante pensare che la raffinatezza degli esiti possa essere illimitata, perché collegata ad un quantum di “immagazzinabilità” delle informazioni, che potrebbe, in tal senso, essere sconfinata e, soprattutto, gestibile.
Un altro elemento, sicuramente affascinante, può essere introdotto usando una definizione offerta dal “Gruppo di esperti ad alto livello sull’Intelligenza artificiale”, istituito dalla Commissione Europea, circa gli Orientamenti etici per un’IA affidabile, pubblicato nel 2018. Il documento intende garantire l’affidabilità dell’Intelligenza artificiale come prerequisito per il suo sviluppo ed utilizzo, in relazione alle qualità tecnologiche e al contesto sociotecnico, ovvero ai processi e agli attori che utilizzano le applicazioni di Intelligenza artificiale.
Il Gruppo esperti definisce l’Intelligenza artificiale come tutti quei sistemi software (ed eventualmente di hardware) progettati dall’uomo, che agiscono nella dimensione fisica o digitale percependo il proprio ambiente attraverso l’acquisizione di dati, interpretando quei dati strutturati o non strutturati, ragionando sulle conoscenze o elaborando le informazioni derivate e decidendo le migliori azioni da intraprendere per raggiungere un certo obiettivo.
I sistemi di Intelligenza artificiale possono usare regole simboliche o apprendere un modello numerico e possono anche adattare il loro comportamento, analizzando in che modo l’ambiente sia influenzato dalle loro azioni precedenti.
Da tutti questi elementi, l’Intelligenza artificiale impara per progredire. Detto aspetto, ovvero quello della capacità di imparare, appare in effetti una funzione straordinaria.
Proprio questo, fra i molti, è certamente l’aspetto sfidante, anche collocato all’interno del sistema giuridico. E lo sarebbe ancor di più, sfidante, se il diritto fosse una scienza esatta, immaginata come replicabile infinitesimamente nella triade fatto, regola applicazione.
Pur tuttavia, per rappresentare la questione con le parole di Hobbes, il diritto non è potere, semmai è la ricerca della giustizia nella regola: il principio si materializza nel fatto concreto e in quello stesso principio il fatto trova la sua attuazione e contenimento. Ma il fatto non è mai ripetitivo: il fatto concreto non sopporta un modello di prevedibilità, se non forse nella dimensione più semplicistica, o nella struttura procedurale, o ancora in alcuni elementi che si rinvengono ricorrenti.
O forse il modello di prevedibilità è piuttosto in grado di rispondere ad un bias di controllo non necessariamente conferente con le evidenze.
“Nella realtà ci sono molte più cose di quante ne possa contenere una regola”, afferma Greco[1]. Così la funzione del giurista resterà autorevole nella misura in cui egli o ella sappia interpretare un compito diverso; nella misura in cui egli o ella sappia sostenere una struttura argomentativa che tenga insieme riflessione, fantasia, audacia; sensibilità, volontà e ragione. Mentre le macchine, per quanto intelligenti, per quanto capaci di imparare, fanno pur sempre uso di una raccolta ingente di dati, di modelli quantitativi, di connessioni logiche e di modelli statistici del linguaggio.
Ma tutto questo, per quanto sfidante, non ha a che vedere con l’intenzione, con la dimensione dell’io interiore, che è inaccessibile alla potenza del pensiero oggettivante della funzione matematica. Tutto questo non ha a che vedere con l’empatia, con la relazione. Dice Byung Chul Han che “il pensiero resta un processo analogico”[2]: il mondo lo commuove, lo tocca. La prima immagine del pensiero è la pelle d’oca. Perché il pensiero scaturisce da un tutto, origina da campo di esperienza, da un orizzonte semantico. Il pensiero ascolta, origlia, tende l’orecchio. Suggerisce. Tentenna. Il pensiero ha il dubbio. L’Intelligenza artificiale ha un buon udito, ma non vacilla: ascolta i fatti predati, le connessioni inculcate, le probabilità statistiche fra A e B.
Mentre il pensiero è C: il pensiero è l’altrove.
3. Semmai ci sono altri due aspetti degni di riflessione: un piano etico e uno politico connessi all’intelligenza artificiale nel sistema giuridico e nel mondo delle professioni legali, ma se si vuole nella dimensione delle professioni intellettuali.
C’è un piano etico, nello specifico di etica del lavoro, dello studio e della ricerca, non solo nei termini abusivi delle condotte - che non per nulla interessano il campo del diritto del lavoro[3], del diritto antidiscriminatorio e delle pratiche che producono vulnerabilità.
C’è invece un tema più strettamente intellettuale in termini di potenziale impoverimento del pensiero e che coinvolge lo studio sui libri, la scrittura di una tesi, e poi di articoli scientifici, di sentenze, di atti difensivi: se prenderemo a produrre studi, ricerche, provvedimenti con l’Intelligenza artificiale, cosa resterà di noi? Perché se forse è vero che di noi resterà ancora molto, vi è piuttosto da chiedersi che cosa resterà di quelli e di quelle che verranno dopo di noi. Perché di quelle persone, del loro destino - educativo, formativo, professionale - forse dovremmo assumerci una responsabilità condivisa.
È molto ben evidente come opera l’Intelligenza artificiale nel campo delle professioni, dato per accolto quanto detto in premessa: l’esercizio e la strategia del potenziamento umano, dell’aiuto esterno, della sostituzione sono connaturati alla storia dell’umanità.
La fascinazione ulteriore è che, forse in maniera e più efficace di altre tecnologie meccaniche - ma similmente al mondo di Internet, l’Intelligenza artificiale è un inganno della mente: apparentemente essa è democratica; salta intermediazioni di potere che ostacolano il raggiungimento del risultato; smaltisce la fatica, scaccia i crucci; velocizza, supera, ottimizza il presente, elimina la paura del futuro.
Proprio questa riflessione conduce ad un altro piano del discorso, quello politico.
Se si guarda, infatti, la questione dell’Intelligenza artificiale su un livello più profondo, ontologico, allora la riflessione si fa, ad avviso di chi scrive, ancora più complessa: perché qualsiasi tecnologia non è mai neutra e questa forse rappresenta il tema in termini ancora maggiori, per la sua evanescenza, per la difficile controllabilità, per la speditezza e per la forza economica che spinge e da cui è spinta e promossa.
C’è a ben vedere una sorta di narrazione sottesa che sta a mezzo fra l’oscurantismo e l’accoglienza, quella della neutralità degli strumenti di cui si parla: una narrazione che rimanda all’idea che le qualità negative o positive dell’Intelligenza artificiale dipendano da come la si usa; da quali limiti giuridici si porranno, da quali limiti apporre e da quale bilanciamento trovare fra etica, diritto e mercato.
Così si pone il regolamento Ue n. 2024/1689, sull’Intelligenza artificiale (AI Act): per promuovere un’Intelligenza artificiale che sia affidabile, esso garantisce che i sistemi siano sviluppati e utilizzati in modo responsabile: il regolamento introduce una disciplina che prevede una scala dei rischi, e quello del rischio inaccettabile, inibendo così l’utilizzo e l’immissione nel mercato di sistemi di Intelligenza artificiale ritenuti potenzialmente lesivi dei diritti fondamentali delle persone; così per quelle tecniche subliminali che possono condizionare il comportamento o le scelte delle persone; quelle che sfruttano le vulnerabilità di una categoria di persone per loro età, disabilità, condizione sociale, genere..; quei sistemi per la valutazione o la classificazione dell’affidabilità delle persone in base al loro comportamento sociale o alle loro caratteristiche (social scoring); e quelli che utilizzano tecniche di identificazione biometrica remota “in tempo reale” in spazi accessibili al pubblico.
Mediante il modello della regolamentazione dei rischi accettabili, invero, l’Ue cerca di contenere gli spazi importanti di rischio, al contempo ponendosi in un difficile equilibrio con l’approccio e il potere statunitense, che di certo non promuove forme regolatorie di tipo precauzionale, quanto piuttosto l’innovazione e il mercato e la sua stessa leadership. Nella consapevolezza della complessità del tema all’interno del sistema globale dei poteri, va però rammentata anche la questione più autenticamente politica: così l’Intelligenza artificiale, oltre ad essere un paradigma che obbliga ridiscutere il posizionamento dell’umano, che impone uno sguardo da fuori, è anche un’industria, quindi una forma di esercizio del potere. Come tale, mai neutro.
“Non possiamo veramente esperire il nostro rapporto con l’essenza della tecnica finché ci limitiamo a rappresentarci la tecnicità e a praticarla, a rassegnarci ad essa o a fuggirla. Restiamo sempre prigionieri della tecnica e incatenati ad essa, sia che la accettiamo con entusiasmo, sia che la neghiamo con veemenza. Ma siamo ancora più gravemente in suo potere quando la consideriamo qualcosa di neutrale; infatti, questa rappresentazione, che oggi si tende ad accettare con particolare favore, ci rende completamente ciechi di fronte all’essenza della tecnica”, argomentava Heidegger nel celebre discorso su La questione della tecnica[4] già agli inizi degli anni Cinquanta, rappresentando il tema della neutralità con limpidezza e attualità.
4. Come si gestisce quindi l’Intelligenza artificiale? E come si governa un mondo in cui il digitale ha ormai un ruolo ineludibile? Il digitale derealizza, disincarna il mondo: è come se il mondo si stesse svuotando delle cose, riducendosi a una forma incorporea. È come se le non-cose stessero penetrando nella nostra vita, scacciano le cose: quelle cose del mondo, diceva Arendt, che hanno il compito di stabilizzare la vita umana[5].
Così quell’ordine umano, costituito da cose che assumono una forma durevole e che danno luogo ad un ambiente stabile, sembra sostituito da non-cose[6]: non più beni ma servizi; non più cose informazioni; non più proprietari, ma consumatori; non più realtà ma social. Abbiamo smesso di vivere il reale. Abbiamo abdicato l’umano, abbiamo dimenticato le cose.
E come si governa un mondo disincarnato, dematerializzato?
L’ordine giuridico ci pone di fronte tradizionalmente alla necessità di trovare risposte rispetto ai contenimenti dell’umano, alla dimensione del limite per governare la complessità. Pur nella grande fiducia nel pensiero giuridico, la risposta sui limiti non potrà essere solamente una risposta giuridica, quanto meno non nel suo senso più tradizionale.
La risposta al richiamo di governare una materia così complessa, non può arrivare solo da regole formali discese dall’alto, ma deve emergere anche attraverso dinamiche virtuose di autoregolamentazione, poiché “non si dà controllo senza autocontrollo, cioè senza quella disposizione alla ‘padronanza di se stessi’ che costituisce il motore d’ogni ordinamento, sia esso politico, giuridico od economico”[7].
Nondimeno, la forza contenitiva, simbolica e promozionale del diritto può certamente rispondere ad alcuni degli appelli che il digitale pone.
Al pari della libertà, matrice giusnaturalistica dei diritti, noi sappiamo che il limite è connaturato nell’essenza del diritto: ma non nel senso più semplicistico, del divieto, della sanzione, della procedura; bensì in quello più radicalmente solidaristico, quello della responsabilità individuale, collettiva, verso noi stessi e quindi verso i pari, ma ancora di più verso le generazioni future: la dignità, la solidarietà, la responsabilità, sono in queste cifre che troviamo il senso dell’umano.
È nella fiducia, che continuiamo a riporre nel diritto[8], forse la chiave della risposta alla complessità: rammentarci della fiducia che il diritto ci accorda, forse significa anche rammentarci della responsabilità che il diritto ci affida. Ed è nel gioco delle reciproche aspettative relazionali che il diritto innesca, circolari e dinamiche, che dovremo continuare a cercare (e poi trovare) un dose consistente di fiducia.
[1] Tommaso Greco, La legge della fiducia, ed. Laterza, 2021.
[2] Byung Chul Han, Le non cose, Einaudi, 2023.
[3] Marco Peruzzi, Intelligenza artificiale e lavoro, Giappichelli, 2023.
[4] Martin Heidegger, La questione della tecnica. Con un saggio di Federico Sollazzo, GoWare, 2017.
[5] Hanna Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani, 2017.
[6] Byung Chul Han, Le non cose, Einaudi, 2023, cit.
[7] Francesco Gentile, Politica aut/et statistica, Giuffrè, 2003.
[8] Tommaso Greco, La legge della fiducia, ed. Laterza, 2021, cit.
Riflessioni a margine del Convegno “Diritti e tutele nell’era dell’Intelligenza artificiale” (XXI Convegno Cammino, Università Cà Foscari di Venezia 14-15 marzo 2025).
Immagine: Salvador Dalì, Le tre sfingi di Bikini, 1947.
Sommario: 1. Premessa: la proposta italiana e l’esperienza (fallimentare) di Israele – 2. La forma di governo introdotta in Israele tra il 1996 e il 2001 – 3. Crisi e abbandono dell’elezione diretta in Israele – 4. Il confronto con la proposta italiana: convergenze e divergenze – 5. Conclusioni: il rischio di riproposizione delle criticità dell’esperienza israeliana.
1. Premessa: la proposta italiana e l’esperienza (fallimentare) di Israele
Alla data di stesura del presente contributo è in discussione in Parlamento il disegno di legge di riforma costituzionale (di seguito “ddl Meloni”) finalizzato a riformare la Parte seconda della Costituzione («ordinamento della Repubblica») con l’introduzione dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri[1]. Nell’intenzione dei suoi proponenti, la proposta di revisione «ha l’obiettivo di offrire soluzione a problematiche ormai risalenti e conclamate della forma di governo italiana, cioè l’instabilità dei Governi, l’eterogeneità e la volatilità delle maggioranze, il “transfughismo” parlamentare[2]». Il testo iniziale, abbinato al disegno di legge di revisione costituzionale A.S. 830, c.d. ddl Renzi[3], ha subito ripetute modifiche a seguito dell’approvazione degli emendamenti governativi e parlamentari[4].
Per i fini del presente scritto – per il quale si prenderà in considerazione il testo del ddl Meloni così come approvato in prima deliberazione al Senato nel giugno 2024 – il progetto di revisione costituzionale prevede l’elezione diretta del Presidente del Consiglio contestualmente a quella del Parlamento e l’attribuzione della fiducia da parte del secondo al primo[5].
Accanto a tali profili, incidenti prevalentemente sulla forma di governo, il ddl Meloni include interventi che interessano il sistema elettorale, con modifiche direttamente inserite in Costituzione[6]. Si prevede, infatti, di modificare l’art. 92 Cost. assegnando per l’elezione di entrambe le Camere e del Presidente del Consiglio un premio su base nazionale che garantisca una maggioranza dei seggi in ciascuna delle Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio, nel rispetto del principio di rappresentatività e di tutela delle minoranze linguistiche[7].
Le modifiche sulla forma di governo ipotizzate hanno destato alcune notazioni critiche tra i primi commentatori in dottrina[8]. Tali rilievi si sono concentrati, oltre che sulle conseguenze nei rapporti con altre istituzioni e, in particolare, la Presidenza della Repubblica, anche sul fatto che il sistema così introdotto risulterebbe sostanzialmente privo di eguali nell’ambito delle forme di governo nazionali[9] previste dalle costituzioni attualmente vigenti nelle c.d. democrazie stabilizzate[10].
In effetti, un ordinamento nel quale l’elezione diretta del primo ministro contemporaneamente e contestualmente a quella del Parlamento è stata in vigore è quello di Israele. Tale sistema ha conosciuto una forma di governo strutturata in modo simile[11] negli anni Novanta ma l’ha superata dopo appena pochi anni[12].
Introdotto in Israele nel 1992 con la comune finalità di promuovere una maggiore stabilità degli esecutivi, il modello basato sull’elezione diretta del Premier contestualmente alla Knesset e l’attribuzione della fiducia da parte di quest’ultima al primo è entrato in vigore nel 1996 ma è stato modificato già nel 2001 con il ritorno ad una forma parlamentare classica (benché razionalizzata). È così rimasto in forza complessivamente per tre elezioni e circa un quinquennio[13].
Tali analogie hanno spinto vari commentatori ad indicare il caso di Israele ed il fallimento dell’intervento del 1992 in tale paese come un riferimento naturale per valutare la riforma in discussione in Italia[14].
La conoscenza dell’esperienza israeliana e delle criticità che ne hanno motivato il subitaneo superamento, del resto, pare nota allo stesso legislatore di revisione italiano. Nella relazione tecnica al ddl Meloni A.S. 935, infatti, si menzionano espressamente le «degenerazioni funzionali che hanno caratterizzato l’esperienza del Premierato israeliano», che si intendono evitare con le modifiche costituzionali incidenti sul sistema elettorale sopra citate[15]. Il successivo dossier parlamentare 215/1 del maggio 2024 dedica, inoltre, un’intera appendice all’esperienza israeliana[16].
Di fronte alle apparenti similitudini tra la forma di governo israeliana in vigore nel periodo 1996-2001 ed il progetto di riforma costituzionale italiano, molti si sono domandati se un sistema che non ha raggiunto l’effetto di stabilizzare gli esecutivi in Israele potrà conseguire tale risultato in Italia.
Alla luce di tali premesse, obiettivo del presente contributo è quello di analizzare la revisione costituzionale di cui al ddl Meloni, come modificato dagli emendamenti approvati sopra citati, mettendo in luce analogie e differenze rispetto alla forma di governo israeliana vigente nel periodo tra il 1996 e il 2001.
A tal fine, nei paragrafi 2 e 3, si tenterà in particolare di comprendere le ragioni che hanno spinto a introdurre e poi a superare dopo soli pochi anni il sistema di elezione diretta del primo ministro in Israele. Nel paragrafo 4 verranno quindi messe in evidenza le similitudini e le differenze del modello israeliano rispetto alle proposte di riforma di cui al ddl Meloni, al fine di appurare se il richiamo all’esperienza di Israele, a più voci proposto, risulti pertinente e appropriato.
Nell’ultimo paragrafo, infine, si tenterà di riflettere sull’idoneità dei correttivi immaginati dall’intervento di revisione costituzionale italiano ad evitare la riproposizione delle criticità sperimentate in Israele.
A tal fine, dal punto di vista metodologico, l’indagine terrà conto, oltre che delle differenze tra le famiglie giuridiche degli ordinamenti considerati e delle particolarità della cultura giuridica israeliana, di aspetti sia di merito sia di metodo. Riguardo ai primi, la riflessione si concentrerà sul tema della “doppia legittimazione” attribuita dall’elezione popolare diretta del primo ministro contestualmente a quella dei componenti del Parlamento e del conseguente «doppio circuito fiduciario» che impone all’eletto di ottenere la fiducia del Parlamento[17]. Riguardo agli aspetti di metodo, particolare attenzione verrà prestata – a fronte dell’esigenza (apparentemente comune) di rafforzare la stabilità dei governi – alla scelta di intervenire sulla forma di governo, sul sistema elettorale o su entrambi.
2. La forma di governo introdotta in Israele tra il 1996 e il 2001
Per analizzare compiutamente analogie e differenze tra il ddl Meloni e la forma di governo israeliana in essere tra il 1992 e il 2001, pare opportuno premettere alcuni cenni introduttivi sul contesto politico e costituzionale israeliano nel quale si innesta la riforma del 1992.
Riguardo al contesto politico, va premesso che, dal momento della sua creazione nel 1948[18] fino alla seconda metà degli anni Settanta, Israele è stata caratterizzata da governi guidati dal partito Mapai, in seguito confluito nel partito laburista[19]. A partire dal 1977, invece, è stato il partito di centro-destra del Likud a mostrare una marcata crescita e ciò ha condotto alla formazione di governi di coalizione per tutta la durata degli anni Ottanta[20].
Anche grazie a un sistema elettorale proporzionale poco razionalizzato e alla presenza di una certa frammentazione partitica favorita dalla crescita di consensi dei partiti minori[21], la situazione politica israeliana si è caratterizzata per una ricorrente instabilità degli esecutivi ed una marcata difficoltà a formare governi duraturi[22].
Con riferimento al contesto costituzionale, va osservato che Israele si caratterizza per una «costituzionalizzazione a tappe»[23] e sui generis[24], passata dall’iniziale assenza di una costituzione scritta – eredità dell’influenza giuridica britannica e del principio della sovereignty of Parliament – fino all’introduzione delle Basic Laws[25] ed alla fondamentale decisione United Mizrahi Bank del 1995 della Corte suprema israeliana[26].
Con tale decisione, la Corte ha determinato la natura sostanzialmente costituzionale delle Basic laws, dichiarandone la supremazia sulle altre leggi[27]. La sentenza United Mizrahi Bank rappresenta, inoltre, il momento d’avvio di un controllo di legittimità costituzionale delle leggi rispetto al sistema delineato dalle Basic Laws, così facendo guadagnare alla decisione la reputazione di Marbury v. Madison israeliana[28].
Nell’ambito di un processo costituzionale fondato sulla stratificazione ma anche sulla rilevanza del fenomeno religioso nella vita pubblica[29], la forma di governo israeliana si è caratterizzata per una connotazione parlamentare classica e per la centralità della Knesset – il Parlamento monocamerale israeliano –, nonché per un sistema elettorale proporzionale poco razionalizzato.
È in questo contesto politico e costituzionale che va collocata la riforma Basic Law: The Government 1992, introdotta a seguito di una prolungata fase di paralisi politica che aveva contraddistinto la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta e volta a modificare il sistema delineato dalla precedente Basic Law: The Government del 1968. Con l’intervento si intendeva ottenere un miglioramento della governabilità e un effetto di stabilizzazione della competizione partitica, nel quadro di un sistema elettorale che doveva restare invariato[30].
Il punto centrale della riforma del 1992 riguardava l’elezione diretta del primo ministro contemporaneamente a quella della Knesset e l’introduzione di un collegamento tra la durata in carica dei due organi[31].
Tali elementi non costituiscono un’idea nuova: trovano infatti precisi e autorevoli antecedenti teorici nel pensiero di autori francesi come Blum e Duverger e nella forma di governo c.d. neoparlamentare ispirata al principio dell’aut simul stabunt aut simul cadent[32].
Il modello delineato da Maurice Duverger, teso ad introdurre un governo di legislatura eletto a suffragio universale in grado di restare in carica per tutto il mandato previsto, riadatta alcuni principi della tradizione britannica al modello continentale e trae origine dal dibattito maturato negli anni Cinquanta in Francia durante le fasi finali della IV Repubblica[33].
La forma neoparlamentare doveva garantire una maggior stabilità dell’esecutivo, rendendo più conveniente la composizione dei conflitti politici insorti piuttosto che l’apertura di una crisi ed il conseguente ritorno alle urne a seguito dello scioglimento dell’assemblea parlamentare[34].
Più nel dettaglio, il sistema introdotto con la riforma israeliana del 1992 prevedeva l’elezione diretta del primo ministro e della Knesset contestualmente e su due schede separate[35]. In ottemperanza al principio aut simul stabunt aut simul cadent, era prevista una durata in carica del Premier eguale a quella della Knesset e pari a quattro anni.
Il governo del primo ministro eletto doveva però ottenere la fiducia dall’organo parlamentare, attraverso un voto esplicito iniziale a maggioranza assoluta, da svolgersi entro quarantacinque giorni dalle elezioni[36]. La mancata attribuzione della fiducia iniziale, così come l’approvazione di una successiva mozione di sfiducia nei confronti del premier, si risolveva in una decisione di autoscioglimento da parte della Knesset e comportava l’avvio di nuove elezioni, sia del premier sia dello stesso organo legislativo[37]. Ciò doveva costituire un deterrente rispetto a possibili attacchi alla stabilità del governo, spingendo a serrare i ranghi della maggioranza ovvero a ritornare alle urne.
A propria volta, il Prime Minister poteva optare per la dispersion, cioè lo scioglimento della Knesset in caso di ingovernabilità ovvero di opposizione al programma governativo. A seguito dello scioglimento così disposto, si tenevano nuove elezioni della Knesset e dello stesso Premier.
Altra ipotesi in cui aveva luogo una nuova elezione generale di Premier e organo parlamentare riguardava la mancata approvazione della Budget Law entro tre mesi dall’inizio dell’annualità finanziaria, ai sensi della section 20.
La ratio sottesa a tali previsioni è chiara: rendere poco conveniente la crisi e garantire la durata dell’esecutivo per tutta la legislatura con la fiducia della Knesset, ovvero ritornare ad elezioni generali[38].
Malgrado il dibattito francese fosse noto ai riformatori israeliani[39], in ragione delle varie differenze previste la dottrina identifica la forma di governo introdotta in Israele nel 1992 come un modello misto[40], ovvero come «strutturalmente differente» rispetto al modello francese puro di matrice duvergeriana[41].
Una delle ragioni si riconnette all’innesto di tale forma di governo all’interno di un sistema proporzionale quasi puro. Di contro, sia gli autori francesi sia in seguito quelli italiani che partecipano alla riflessione sulla forma neoparlamentare[42] convengono sulla necessità di accompagnare l’attuazione del principio simul stabunt simul cadent con interventi tali da garantire un’ampia maggioranza parlamentare a sostegno del governo e, dunque, un intervento sul sistema elettorale[43].
Sotto altro profilo, varie sono le divergenze nella stessa declinazione della forma di governo israeliana del 1996-2001 rispetto al modello francese sopra indicato ma anche a quello britannico.
In primo luogo, il sistema introdotto nel 1992 si allontana da forme di premierato forte sul modello britannico lasciando, tra l’altro, alla Knesset il potere di esprimere l’approvazione sulla nomina dei ministri da parte del Premier ma anche di rimuoverli[44].
Sotto altro profilo, devia da quello francese per la previsione di significative deroghe rispetto al principio dell’aut simul stabunt aut simul cadent. Tra queste assume rilievo centrale la previsione di plurime ipotesi di special elections, cioè di elezioni che – ai sensi della section 5 – coinvolgono solo il Premier e non anche la Knesset[45]. Si ricordano, tra le altre, le dimissioni e il permanente impedimento del Premier, la mancata presentazione della formazione di governo scelta entro i termini, la presenza di un numero di ministri inferiore ad otto senza che vi sia posto rimedio entro settantadue ore, il venir meno della qualifica di membro della Knesset del primo ministro, l’impeachment nei termini di cui alla section 27 della Basic Law: The Government 1992 o l’approvazione di un voto di sfiducia per indegnità morale secondo quanto stabilito dalla section 26.
3. Crisi e abbandono dell’elezione diretta in Israele
Ricostruito il percorso che ha portato alla previsione dell’elezione diretta del primo ministro in Israele, pare opportuno soffermarsi sulle ragioni che hanno condotto tale ordinamento al repentino superamento della forma di governo introdotta nel 1992.
Come anticipato, infatti, con la Basic Law: The Government 2001 Israele è ritornata al sistema in forza prima dell’entrata in vigore della Basic Law del 1992, con una forma parlamentare classica che affida la scelta del primo ministro alla Knesset pur in presenza di elementi di razionalizzazione quali l’introduzione della sfiducia costruttiva[46].
Il sistema introdotto nel 1992 è entrato in vigore nel 1996 ed ha funzionato complessivamente per tre elezioni (nel 1996, nel 1999 e nel 2001) prima di essere accantonato.
Nel 1996, la vittoria di Netanyahu – candidato premier e leader di Likud – avviene con un ridotto margine sul candidato laburista (Peres), costringendo il primo ministro ad un difficile governo di coalizione con forze eterogenee, inclusive di partiti religiosi, specchio di un paese politicamente frammentato[47].
Il risultato di questa prima applicazione del sistema introdotto dalla Basic law: The Government 1992 è un governo durato circa due anni e terminato nel 1998 con un voto di scioglimento anticipato della Knesset, dopo ben 63 voti di sfiducia nello stesso periodo[48].
In un tale clima, il primo esperimento di funzionamento del nuovo sistema è contraddistinto dall’ingovernabilità e dalla paralisi decisionale, favorita anche dalla necessità del premier di accettare continui compromessi con le forze di una coalizione eterogenea e distante nei temi, comunque insufficienti a mantenerlo alla guida dell’esecutivo[49].
Nel maggio 1999, a seguito delle successive elezioni generali, viene eletto premier l’esponente del partito laburista Ehud Barak. Anche in questo caso il nuovo premier è costretto ad un governo di ampia coalizione, pur tendente verso il centro, per conquistare il decisivo elettorato moderato[50].
I risultati delle consultazioni elettorali mostrano ancora una marcata frammentazione partitica, con i principali attori storici della competizione politica israeliana (Likud e laburisti) penalizzati alle elezioni per la Knesset a beneficio dei partiti minori, tra i quali segnano una marcata crescita anche i partiti religiosi e quelli ultra-ortodossi[51].
Anche in questo secondo esperimento governativo a seguito dell’elezione diretta, limitata è la capacità del primo ministro di portare avanti la propria agenda politica, complici le resistenze degli alleati di coalizione ed i continui attacchi alla stabilità dell’esecutivo[52].
La nuova situazione di ingovernabilità – forse anche più difficile rispetto alla precedente esperienza di Netanyahu[53] – conduce alle dimissioni di Barak, con conseguente applicazione della section 23 della Basic law: the Government 1992 e avvio delle special election per il solo primo ministro.
Barak si ricandida tuttavia alle successive elezioni, non essendo previsto alcun divieto in tal senso nella Basic law, con il fine auspicato di ottenere – a seguito delle dimissioni e delle successive special elections – un nuovo responso elettorale favorevole utile a garantire una più forte legittimazione del Premier nei confronti di una Knesset ostile[54]. In realtà, all’esito delle elezioni del febbraio 2001, non si verifica quell’effetto di «trascinamento»[55] auspicato da Barak, il quale soccombe (appena 22 mesi dopo la propria vittoria) alla prova delle urne, che vede trionfare Ariel Sharon per il Likud[56].
Nonostante la netta vittoria del leader del partito della destra israeliana[57], il paradossale risultato delle elezioni è che Sharon, eletto con una maggioranza più ampia rispetto ai predecessori, si trova nella posizione più debole, avendo “ereditato” una Knesset ostile.
Il premier neoeletto è così costretto ad accettare un governo di unità nazionale formato da ben otto partiti, dovendo fare i conti con un’assemblea parlamentare che vedeva in quello laburista il primo partito per rappresentanza; il suo partito – il Likud – poteva invece contare solo su 19 seggi alla Knesset.
È in questo contesto, di fronte alla persistenza di situazioni di empasse ed ingovernabilità, che matura in modo pressocché generalizzato la condivisione politica verso il superamento della riforma del 1992[58].
Il 7 marzo 2001, la Knesset approvava così la nuova Basic law che ripristinava la forma parlamentare precedente con alcune novità. Viene, innanzitutto, introdotta la sfiducia costruttiva, meccanismo classico di razionalizzazione della forma parlamentare per promuovere una maggiore stabilità degli esecutivi[59].
Rimane però anche qualche traccia della precedente esperienza nella previsione della possibilità del premier di sciogliere la Knesset e nell’obbligatorietà dell’approvazione della budget law entro un termine perentorio che, se non rispettato, comporta lo scioglimento della Knesset e nuove elezioni[60].
In questo quadro, il risultato della riforma del 1992 è quasi unanimemente riconosciuto come fallimentare[61].
La frammentazione partitica che doveva essere attenuata dall’intervento si è acuita[62]. La doppia scheda elettorale prevista per le elezioni generali – una per la Knesset e una per il Premier – ha incrementato il ricorso al voto disgiunto[63]. Frequente, infatti, è stato il caso di un voto in favore del partito laburista o del Likud sulla scheda del premier ed un voto ad un partito minore con un’identità politica meglio definita (spesso anche a carattere religioso) nell’altra scheda relativa alla Knesset.
Ciò ha prodotto un’ulteriore conseguenza contraria a quella voluta: il voto disgiunto – unitamente al sistema proporzionale poco razionalizzato e rimasto immutato – ha favorito la crescita e l’importanza dei partiti di minoranza, che hanno assunto un rilievo politico fondamentale per la tenuta dei governi[64]. Ciò si è accompagnato ad una netta diminuzione dei consensi registrata dai due principali schieramenti politici del Likud e del partito laburista in tutte le consultazioni elettorali tenute con il sistema entrato in vigore nel 1996. È stato così ancora più difficile per il premier, sempre eletto tra le file di uno dei due partiti, ricercare la fiducia della Knesset che, come sopra indicato, non era presunta ma andava attribuita in via iniziale.
I diversi premier succedutisi hanno dovuto formare coalizioni ampie e spesso eterogenee, in un panorama partitico molto frammentato. Il risultato è stato una scarsa incisività sull’agenda politica anche di premier con una larga legittimazione popolare alle elezioni come Barak e Sharon.
La previsione delle dimissioni del premier senza divieto di ricandidatura e in assenza di scioglimento contestuale dell’organo parlamentare ha condotto inoltre al tentativo di forzature (prive di successo) come nel caso di Barak, finalizzate a rinvigorire una posizione di premier debole nei confronti di un Parlamento ostile. La marcata conflittualità tra premier e Knesset, del resto, rappresenta una costante nella parentesi di vigenza della Basic Law del 1992. I tratti disfunzionali del doppio circuito fiduciario introdotto in Israele hanno avuto come conseguenza principale una tendenza all’immobilismo, visto l’alto costo della mediazione politica a fronte di schieramenti polarizzati e maggioranze troppo disomogenee.
Ma un’altra conseguenza è stata anche la breve durata dei governi: proprio uno dei mali che l’intervento avrebbe dovuto curare.
4. Il confronto con la proposta italiana: convergenze e divergenze
Venendo alla comparazione tra la forma di governo introdotta con la riforma israeliana del 1992 ed il progetto di revisione costituzionale italiano di cui al ddl Meloni, vanno preliminarmente ricordate alcune rilevanti distinzioni di fondo tra i due ordinamenti considerati.
In primo luogo, la diversa famiglia giuridica, potendo il sistema israeliano collocarsi tra gli ordinamenti di common law[65], malgrado la presenza di forti influenze del diritto romano, del diritto religioso ebraico e di elementi provenienti dalla tradizione ottomana[66].
Altra fondamentale caratteristica del contesto israeliano riguarda la declinazione rigida del sistema elettorale in senso proporzionale. Come anticipato, la Basic Law: The Knesset delinea un proporzionale quasi puro che doveva restare sostanzialmente invariato anche a seguito della riforma del 1992[67]. Si riteneva, infatti, che l’intervento sulla forma di governo potesse produrre indirettamente un effetto di complessiva stabilizzazione del sistema politico israeliano[68].
Al riguardo, è importante precisare che, nel caso italiano, il sistema elettorale costituisce allo stato un’incognita, non essendo il ddl Meloni abbinato ad una proposta chiara di riforma elettorale del sistema misto attualmente vigente, malgrado la presenza di previsioni di principio incidenti in materia elettorale inserite direttamente in Costituzione[69].
Diversamente dal sistema israeliano, ove l’art. 4 della Basic Law: The Knesset 1958 ha disciplinato direttamente il sistema elettorale proporzionale richiedendo una maggioranza assoluta alla Knesset per la modifica[70], la Costituzione italiana del 1948, come noto, non ha incluso indicazioni specifiche sul sistema elettorale, lasciando spazio alla legislazione ordinaria[71]. Ciò ha consentito, tra l’altro, una maggiore flessibilità del sistema ed un più ampio sindacato di legittimità costituzionale da parte della Consulta, come avvenuto – tra i più noti casi – con le sentenze nn. 1/2014 e 35/2017 rispettivamente sul c.d. Porcellum e sul c.d. Italicum[72].
Il ddl Meloni introduce in questa prospettiva due diversi elementi di discontinuità rispetto al passato[73]: in primo luogo, include principi incidenti sul sistema elettorale direttamente in Costituzione e, in secondo luogo, non ha da subito accompagnato alla riforma costituzionale alcun disegno di legge ordinaria in materia elettorale per l’ipotesi di approvazione della riforma, diversamente da quanto avvenuto, ad esempio, con il c.d. ddl Renzi-Boschi[74] e l’Italicum nella XVII legislatura[75].
Va infine considerata, tra le differenze strutturali, la declinazione dell’organo parlamentare: monocamerale in Israele e bicamerale paritario in Italia[76].
Date queste preliminari notazioni di fondo, possono in effetti notarsi alcune analogie tra la forma di governo che verrebbe introdotta in Italia in caso di approvazione del ddl Meloni (nella versione approvata dal Senato) e quella in vigore in Israele tra il 1996 e il 2001.
A livello politico, può evidenziarsi una situazione simile tra i due paesi, caratterizzati da un lungo corso di governi incapaci di restare in carica fino al termine della legislatura e una situazione partitica frammentaria. Di qui, comune (almeno in parte) è la volontà alla base dell’intervento del 1992 e del ddl Meloni: quest’ultimo è infatti prioritariamente volto a rafforzare la stabilità degli esecutivi e ovviare al problema dell’eterogeneità e la volatilità delle maggioranze, nonché di limitare il “transfughismo” parlamentare[77].
Dal punto di vista istituzionale, come anticipato in premessa, anche nel disegno del legislatore di revisione italiano il primo ministro viene eletto dal corpo elettorale contestualmente alle Camere e deve avere anche la fiducia di queste[78]. Come in Israele, la fiducia non è presunta ma viene attribuita al primo ministro eletto sulla base di un voto iniziale che, nel caso del ddl Meloni, deve avvenire entro dieci giorni dalla formazione del Governo[79]. Parimenti, la revoca della fiducia al Presidente del Consiglio si sostanzia in un voto di autoscioglimento che, nel caso italiano, verrebbe però disposto dal Presidente della Repubblica[80].
Anche nel progetto di riforma italiano, inoltre, è riscontrabile un collegamento, pur meno marcato rispetto al caso israeliano, tra il premier e il Parlamento, dovendo il primo rivestire la carica di parlamentare[81].
Curiosamente, a fronte di una comune volontà di rafforzare i poteri del capo del governo, in entrambi i modelli i premier non sono del tutto liberi di nominare e revocare i ministri[82].
Ambedue gli interventi, inoltre, si distanziano dall’applicazione pura del modello duvergeriano in ragione della previsione di plurime eccezioni al principio dell’aut simul stabunt aut simul cadent.
Infatti, anche in base al ddl Meloni residuano diverse ipotesi nelle quali la cessazione della carica del Presidente del Consiglio non comporta anche nuove elezioni parlamentari. È questo il caso, ad esempio, delle dimissioni del Presidente del Consiglio eletto. Il Presidente dimissionario, in base al ddl Meloni, ha due possibilità: o propone, entro sette giorni (previa informativa parlamentare) al Presidente della Repubblica di sciogliere le Camere, ovvero, non esercita tale «facoltà»; in tale ultimo caso, il Capo dello Stato può conferire – per una sola volta nella legislatura – un nuovo incarico di formare il governo, senza sciogliere le Camere, al «Presidente del Consiglio dimissionario o a un parlamentare eletto in collegamento con il Presidente del Consiglio».
Il Presidente della Repubblica potrebbe quindi conferire un nuovo incarico di formazione del governo senza scioglimento delle Camere qualora il Presidente del Consiglio non eserciti la facoltà di proporre lo scioglimento e nei casi di «decadenza, impedimento permanente o morte del Presidente del Consiglio eletto». In tali ultimi casi, il nuovo incarico potrebbe essere attribuito ad un altro parlamentare eletto in collegamento con il Presidente del Consiglio, così evitando nuovamente il ritorno alle urne.
Residuano peraltro alcuni dubbi interpretativi, come dimostra il caso della «decadenza». Questo riferimento si presta a diverse letture divergenti. Secondo una prima interpretazione, il termine potrebbe indicare la decadenza dalla carica di parlamentare. Tale conclusione sembra coerente – in una visione sistematica – con l’apparente necessità della qualifica di parlamentare del Presidente del Consiglio eletto (come nel caso israeliano), che sembrerebbe sottesa alla previsione di cui all’art. 92 Cost., secondo la quale «Il Presidente del Consiglio è eletto nella Camera nella quale ha presentato la candidatura»[83].
Altre letture sono però possibili. La decadenza cui fa riferimento l’art. 94 Cost., come modificato dal ddl Meloni, potrebbe coincidere, ad esempio, con quella prevista dalla c.d. legge Severino[84]. In caso di condanna definitiva per i gravi delitti indicati all’art. 1, infatti, l’art. 6 della legge Severino vieta di assumere incarichi di governo – incluso quello di Presidente del Consiglio ex art. 3 l. 215/2004[85] – a coloro che si trovano in condizioni di incandidabilità per le cariche di deputato e senatore. Nel caso del Presidente del Consiglio (e degli altri membri del governo), la sentenza definitiva di condanna per uno dei delitti di cui all’art. 1 della l. Severino determina la decadenza di diritto dall’incarico ricoperto, accertata con decreto del Presidente della Repubblica.
Per i fini del presente scritto, ad ogni modo, può rilevarsi che nel ddl Meloni, così come nella forma in vigore in Israele tra il 1996 e il 2001, molteplici sono i casi nei quali la cessazione dalla carica del premier non comporta necessariamente anche lo scioglimento dell’assemblea parlamentare, in deroga all’aut simul stabunt aut simul cadent e all’esigenza di rafforzare il legame con l’elettorato[86].
Accanto a queste analogie, significative sono però le differenze specifiche (oltre a quelle di sistema sopra evidenziate) tra la forma di governo israeliana del 1996-2001 e quella che risulterebbe dall’approvazione del ddl Meloni, cominciando da quella terminologica. Mentre infatti in Italia, la riforma è stata associata ad un “premierato”, la forma di governo israeliana è stata identificata talvolta come “parlamentarismo presidenziale”[87] o anche come semi-presidenziale[88].
Da un punto di vista più sostanziale, mentre la riforma israeliana interveniva solo sulla forma di governo, quella italiana introduce previsioni incidenti anche sul sistema elettorale direttamente in Costituzione[89]. Secondo la relazione di accompagnamento, l’intervento sulla Costituzione «dovrà garantire al partito o alla coalizione collegati al Presidente del Consiglio dei ministri, mediante un premio assegnato su base nazionale, la maggioranza dei seggi nelle Camere»[90]. Proprio tale correttivo, nell’intenzione del legislatore di revisione, dovrebbe «evitare le degenerazioni funzionali che hanno caratterizzato l’esperienza del premierato israeliano»[91].
Ad ogni modo, può allo stato osservarsi che, mentre la riforma in Israele si inseriva in un sistema proporzionale poco razionalizzato e con un’unica circoscrizione elettorale per la Knesset, nelle intenzioni del legislatore di revisione italiano – ferme le incognite di cui sopra – il «premierato» dovrebbe accompagnarsi ad una riforma elettorale di segno tendenzialmente maggioritario, con l’introduzione di «un premio su base nazionale» inserito in Costituzione. Il tutto in un sistema elettorale attualmente costituito da una pluralità di circoscrizioni elettorali e caratterizzato dall’elezione su base regionale per il Senato prevista dall’art. 57 Cost., sul quale interviene anche il ddl Meloni[92].
Anche rispetto ai poteri del primo ministro, va osservato che – diversamente dal caso israeliano –
nella riforma in discussione non viene prevista la possibilità del Presidente del Consiglio di sciogliere direttamente le Camere, la quale rimane nella disponibilità del Presidente della Repubblica[93].
Ulteriore differenza del progetto di revisione costituzionale italiano riguarda l’introduzione di un limite per l’elezione del Presidente del Consiglio: l’art. 5 del ddl Meloni approvato al Senato, modificando l’art. 92 Cost., prevede infatti l’elezione del Presidente del Consiglio «per non più di due legislature consecutive, elevate a tre qualora nelle precedenti abbia ricoperto l’incarico per un periodo inferiore a sette anni e sei mesi».
Infine, una peculiarità sostanziale del ddl Meloni, non prevista nel sistema israeliano in vigore fino al 2001, è quella indicata nel linguaggio giornalistico come “norma antiribaltone”. Essa consiste nella previsione di diversi casi nei quali, a seguito della cessazione della carica del premier eletto, il Presidente della Repubblica può assegnare l’incarico di formare un governo senza sciogliere le Camere ad un altro parlamentare eletto in collegamento con il Presidente del Consiglio[94].
5. Conclusioni: il rischio di riproposizione delle criticità dell’esperienza israeliana
Complessivamente sono numerose le differenze tra i due modelli in discussione. Nondimeno, l’esperienza israeliana sembra poter fornire alcune lezioni utili da tenere a mente anche nel contesto del dibattito sulle riforme attualmente in corso in Italia.
La revisione israeliana del 1992 ha acuito, anziché lenire, alcune delle criticità strutturali di un sistema caratterizzato da un’ampia frammentazione partitica e da una diffusa instabilità dei governi, rendendolo anche più rigido e «iperrazionalizzato»[95].
Può affermarsi che uno degli aspetti non considerati dal legislatore israeliano del 1992 sia stato quello di pesare i correttivi sulla forma di governo rispetto all’ordinamento nel suo complesso e alle caratteristiche del sistema elettorale, della dialettica politica e della competizione partitica del paese[96].
Ma, più in generale, la riforma ha omesso di considerare come il sostanziale mutamento della forma di governo sarebbe stato declinato dagli attori politici, attuando in sostanza un salto nel buio[97].
Alcuni dei correttivi inseriti dalla Basic law: the Government 1992 hanno sterilizzato le attribuzioni del Premier, legandolo ad una fiducia parlamentare sempre difficile da ottenere, così accentuando criticità pregresse della competizione politica[98].
Sono state sottovalutate le ripercussioni della presenza di una doppia scheda elettorale, la quale ha favorito il voto disgiunto avvantaggiando, in un sistema elettorale proporzionale non toccato dalla riforma, i piccoli partiti e quelli religiosi (anche ultraortodossi), così rendendo più difficile e imprevedibile la formazione di coalizioni e governi coesi nel quadro del nuovo e complesso doppio circuito fiduciario[99].
Il risultato è stato l’emergere di una conflittualità politica generalizzata che ha impegnato i governi a lottare incessantemente per la propria sopravvivenza e, al contempo, ha impedito loro di portare avanti la propria agenda politica di fronte ai veti incrociati delle rispettive «rainbow coalitions»[100]. In definitiva, una situazione di immobilismo politico, accentuata dalla rigidità del nuovo sistema introdotto[101].
Complessivamente, il giudizio negativo sull’esperienza dell’elezione diretta in Israele pare inevitabile a fronte di una riforma «che non ha mutato, nel profondo, la struttura politico-istituzionale israeliana»[102].
Date queste premesse, rispetto alle proposte italiane va messa in evidenza la maggiore pervasività dell’intervento del ddl Meloni che incide profondamente sulla forma di governo ma anche sul sistema elettorale, includendo – in piena discontinuità con il passato – previsioni su di esso incidenti direttamente in Costituzione.
Va in effetti rilevato, pur in mancanza allo stato di un disegno chiaro sulla legge elettorale[103], che la riforma italiana tiene in considerazione l’esigenza di considerare il sistema elettorale nell’introduzione di modifiche alla forma di governo la cui riuscita, in ultima battuta, anche da esso dipende.
Tuttavia, non è detto che l’inserimento dei correttivi immaginati direttamente in Costituzione possa rappresentare una soluzione efficace. Trattasi infatti di principi che, proprio per via della loro collocazione in Costituzione, potrebbero contribuire ad irrigidire il sistema anche a livello elettorale[104].
Oltre alle difficoltà dell’inserimento di un sistema sbilanciato sul piano maggioritario in un contesto di frammentazione partitica[105], va osservato che i correttivi costituzionali al sistema elettorale (a patto che siano ritenuti conformi ai principi costituzionali e supremi[106]) non eliminerebbero, comunque, il rischio di un’accresciuta contrapposizione tra Premier e Parlamento in virtù della doppia legittimazione popolare, così aumentando anche il costo della ricerca della fiducia[107].
È stato osservato, a questo riguardo, che in un contesto politico come quello italiano ove è diffusa una tradizione di instabilità politica e difficoltà a formare coalizioni durature, non sembra del tutto implausibile che il doppio legame tra Presidente del Consiglio, corpo elettorale e Parlamento possa riproporre le difficoltà nella formazione dei governi già sperimentate in Israele[108].
Resterebbe infatti il rischio di doppie maggioranze difformi (per l’elezione del Presidente del Consiglio e per quella del Parlamento) ed il conseguente pericolo di un inasprimento della conflittualità politico-istituzionale, con un Presidente della Repubblica – sullo sfondo – che risulterebbe indebolito nel suo ruolo di ago della bilancia nei momenti di tensione istituzionale[109].
Rispetto alle criticità verificatasi in Israele con l’introduzione della doppia scheda ed il conseguente ampio ricorso al voto disgiunto che ha favorito la creazione di maggioranze distinte, occorre riflettere attentamente sulle scelte che dovrà effettuare la nuova legge elettorale italiana in caso di approvazione della riforma di cui al ddl Meloni.
Come noto, mentre per la Knesset monocamerale era prevista una sola scheda che si affiancava a quella destinata all’indicazione del Premier, in Italia esiste già una doppia scheda per l’elezione dei componenti di Camera e Senato. Non è dato sapere al momento se, in caso di approvazione della riforma, le schede consegnate all’elettore il giorno dell’elezione contestuale di premier e Camere saranno tre (una per il Presidente del Consiglio, una per la Camera ed una per il Senato) ovvero il legislatore opterà per una diversa soluzione (peraltro difficilmente immaginabile).
Nel primo caso, probabilmente il più verosimile, pare evidente il rischio che si ripresenti – visto il frastagliato panorama partitico italiano e l’esperienza delle pregresse legislature[110] – la possibilità di scelte difformi dell’elettore per Camera, Senato e Presidente[111], salva la riproposizione del divieto di voto disgiunto e delle liste bloccate attualmente vigenti per l’elezione delle Camere[112]. Peraltro, in quest’ultima ipotesi, viene da chiedersi se la combinazione di una riforma complessiva della forma di governo[113] con il divieto di voto disgiunto, le liste bloccate e l’introduzione di un premio di maggioranza possa sortire effettivamente l’effetto auspicato di «consolidare il principio democratico, valorizzando il ruolo del corpo elettorale nella determinazione dell’indirizzo politico della Nazione»[114]. Residuano molti dubbi al riguardo, considerato che il margine di scelta dell’elettore risulterebbe così piuttosto ridotto[115].
Ulteriormente problematico appare anche il menzionato premio di maggioranza e sotto diversi profili[116]. In primo luogo, sono stati avanzati interrogativi sul rispetto dei principi supremi, anche a seguito delle pronunce 1/2014 e 35/2017 della Corte costituzionale, soprattutto in relazione all’originaria versione del ddl Meloni. Essa attribuiva alla legge la disciplina del sistema elettorale «secondo i princìpi di rappresentatività e governabilità e in modo che un premio di maggioranza, assegnato su base nazionale, garantisca il 55 per cento dei seggi in ciascuna delle due Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio». La soglia indicata, venuta meno a seguito degli emendamenti approvati in Senato, poneva in effetti seri dubbi con riguardo alla mancanza di una previsione minima di voti per far scattare il premio[117].
In secondo luogo, si è osservato che in un sistema bicamerale paritario «sorge il problema di un eventuale doppio premio, uno per ciascuna Camera: premi che però, se indipendenti, potrebbero finire con l’essere assegnati a due schieramenti diversi e quindi col determinare una paralisi, dal momento che si fronteggerebbero due maggioranze «blindate»[118]. Sarebbe un problema simile a quello originato della doppia scheda del sistema israeliano ma amplificato dal bicameralismo italiano, che potrebbe moltiplicare le ipotesi di conflittualità. Nel caso italiano, inoltre, la blindatura sarebbe ancora più forte[119], poiché il premio verrebbe introdotto in Costituzione[120].
A onor del vero, il legislatore di revisione interviene anche sull’art. 57 Cost., mantenendo la previsione dell’elezione a base regionale salvi i seggi assegnati alla circoscrizione Estero e facendo «salvo il premio su base nazionale previsto dall’art. 92». La previsione, non di univoca lettura, sembrerebbe così configurare un premio assegnato su base nazionale con ripartizione dei seggi su base regionale per ciascuna coalizione[121]. È chiara la ratio dell’intervento: tentare di scongiurare il rischio che si formino doppie maggioranze tra Camera e Senato, le quali potrebbero riproporre le difficoltà già sperimentate in Israele, rendendo impossibile attuare l’agenda politica anche per un premier eletto con una buona legittimazione popolare.
Su questo correttivo, sono necessarie ulteriori considerazioni. In punto di legittimità costituzionale, risulta opportuno domandarsi se la soluzione proposta non ponga potenziali problemi rispetto alla compatibilità con i principi supremi e, segnatamente, alle esigenze dell’autonomia e del decentramento di cui all’art. 5 Cost.[122], letto in combinato disposto con l’elezione su base regionale che permane, anche nella nuova formulazione, all’art. 57 Cost[123].
Se è vero che l’elezione su base regionale non identifica un nesso tra Senato e amministrazioni regionali ma un mero riferimento alle circoscrizioni elettorali di riferimento[124], la previsione di un unico premio su base nazionale resta comunque problematica[125]. Il conflitto con il principio supremo, infatti, potrebbe risiedere nel fatto che la revisione costituzionale, eliminando il principale elemento di valorizzazione delle realtà regionali nel Parlamento nazionale consistente nell’elezione a base regionale del Senato, andrebbe a diminuire le garanzie che la Costituzione – ex art. 5 e nel suo insieme – attribuisce alle autonomie[126]. Il correttivo immaginato all’art. 57 Cost. potrebbe quindi non essere sufficiente a scongiurare una pronuncia di incostituzionalità per la previsione di un premio su base nazionale al Senato[127].
Un’alternativa per evitare il potenziale contrasto con i principi supremi potrebbe essere l’assegnazione di premi su base regionale come previsto, ad esempio, dalla legge Calderoli n. 270/2005, nota come Porcellum[128]. Sul punto si pongono due diversi ordini di questioni.
In primo luogo, questa soluzione sembrerebbe allo stato contraria alla lettera del ddl Meloni che configura un «premio su base nazionale»[129] e, dunque, sarebbe necessaria una modifica dell’attuale formulazione del progetto di revisione costituzionale per attuarla.
In secondo luogo, tale opzione non parrebbe comunque sufficiente a scongiurare del tutto il rischio di maggioranze difformi tra Camera e Senato e, dunque, evitare le problematiche sperimentate in Israele di un premier eletto incapace di governare. L’esperienza applicativa della legge Porcellum, infatti, suggerisce risultati estremamente variabili e imprevedibili nell’applicazione del premio su base regionale. Le elezioni svolte con il Porcellum hanno spesso originato una maggioranza eterogenea tra Camera e Senato[130], possibile prodromo di una nuova instabilità governativa ovvero di stagioni di governi di larghe intese[131].
In definitiva, allo stato attuale della proposta del ddl Meloni, la difficile scelta a disposizione del legislatore in sede di elaborazione della legge elettorale potrebbe essere tra la previsione di un premio su base nazionale anche al Senato[132], con il rischio di incorrere in censure di incostituzionalità per violazione degli artt. 5 e 57 Cost.[133], oppure la riproposizione dei premi su base regionale che, però, non eliminano il rischio di doppie maggioranze tra Camera e Senato e di ingovernabilità ma anzi lo accentuano[134]. Peraltro, se la formulazione del ddl Meloni approvata al Senato rimanesse quella attuale inclusiva di un premio «su base nazionale», la previsione di premi regionali nella legge elettorale potrebbe comunque risultare incostituzionale.
Sotto un diverso profilo – sempre nell’ottica di uno sguardo a tutto tondo dell’impatto delle riforme alla luce della lezione israeliana – pare necessario tenere a mente anche le possibili ripercussioni sull’equilibrio istituzionale delle misure in via di introduzione. In primo luogo, in Israele le ripetute crisi politico-istituzionali che hanno accompagnato l’introduzione della riforma del 1992 non hanno visto nel Capo dello Stato una figura in grado di contribuire alla risoluzione dell’impasse[135]. Anche nel caso italiano, il Presidente della Repubblica, a seguito della riforma, risulterebbe indebolito in una funzione – quella di sbloccare eventuali situazioni di stallo originate da crisi politiche – che ha invece mostrato di saper svolgere in altre occasioni di cortocircuito della funzionalità dello Stato[136].
In secondo luogo, pare opportuno tenere a mente l’impatto complessivo della riforma sugli organi di garanzia, anche in virtù della presenza di altre rilevanti riforme istituzionali in corso di discussione[137].
In conclusione, alla luce di tali elementi, non pare possibile escludere che anche nel caso italiano vengano riproposte alcune delle criticità riscontrate in Israele neppure alla luce dei correttivi immaginati dal legislatore di revisione, pur presenti e chiari nella loro ratio.
Il principale “male israeliano” che potrebbe riproporsi riguarda la possibilità di disomogeneità tra la maggioranza alla Camera, quella al Senato e tra maggioranze parlamentari e maggioranza a sostegno del Presidente eletto[138]. Se in Israele ciò è stato favorito dal sistema elettorale proporzionale, dal panorama partitico frammentato e dal voto disgiunto, in Italia i fattori critici a cui prestare attenzione sembrano concentrati anche sul bicameralismo paritario e sulla legge elettorale (ad oggi ignota), con particolare riguardo al premio di maggioranza e all’elezione del Senato su base regionale di cui all’art. 57 Cost. Non pare potersi escludere, inoltre, anche il rischio di incompatibilità con i principi supremi di alcune previsioni dell’intervento di riforma, come poc’anzi esposto.
Da ultimo, va considerato l’ulteriore rischio di riproposizione delle difficoltà sperimentate in Israele con riguardo all’attuazione del principio dell’aut simul stabunt aut simul cadent, fondamento del modello neoparlamentare. Si è visto come, nel paese mediorientale, la presenza di molteplici deroghe al principio abbia di fatto annullato l’effetto di stabilizzazione sul sistema promosso dal timore di elezioni generali e alla base del modello duvergeriano di governo di legislatura.
Anche nel ddl Meloni, così come nella breve esperienza israeliana di elezione diretta del Premier, vengono riproposte plurime deroghe all’operatività del “simul simul” che possono condurre a scenari diversi da nuove elezioni generali. È questo il caso delle dimissioni del Presidente del Consiglio[139]: il primo ministro dimissionario può valutare la convenienza o meno di nuove elezioni optando per la proposizione al Presidente della Repubblica dello scioglimento[140]. Ma nel caso italiano le deroghe al principio tanto caro a Duverger sono forse anche maggiori rispetto al modello israeliano del 1992, specie se si considera la portata della c.d. norma antiribaltone prevista all’art. 94 Cost. (come modificato). Secondo quanto sopra ricordato, tale disposizione consente il conferimento di un nuovo incarico a un altro parlamentare eletto in collegamento con il Presidente del Consiglio qualora il premier dimissionario non chieda lo scioglimento delle Camere «e nei casi di morte, impedimento permanente, decadenza»[141].
Trattasi di deroghe che, come insegna l’esperienza israeliana, possono anche prestarsi a strumentalizzazioni politiche in assenza di limitazioni alle nuove candidature del primo ministro dimissionario (vedi il precedente delle dimissioni “strategiche” di Barak) e, in ogni caso, indeboliscono l’effetto di deterrenza rappresentato dalle elezioni generali, con il rischio di annullare gli effetti di stabilizzazione auspicati dalla riforma.
Il presente contributo è tratto da un più ampio scritto destinato alla pubblicazione nel volume E. Albanesi, E. Ceccherini (a cura di), L’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri. Verso una nuova forma di governo?, Editoriale scientifica, Napoli, 2025.
[1] Trattasi del ddl A.S. 935, Disegno di legge costituzionale recante «Modifiche agli articoli 59, 88, 92 e 94 della Costituzione per l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri, il rafforzamento della stabilità del Governo e l’abolizione della nomina dei senatori a vita da parte del Presidente della Repubblica».
[2] Cfr. pag. 3 della Relazione di accompagnamento al ddl A.S. 935, Senato della Repubblica, XIX Legislatura. Si veda anche il dossier parlamentare 215/1 del maggio 2024 “Proposta di modifiche costituzionali per l’introduzione della elezione diretta del Presidente del Consiglio. Note sull’A.S. nn. 935 e 830-A”.
[3] Il riferimento è al ddl A.S. 830, recante «Disposizioni per l’introduzione dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri in Costituzione». Il 24 aprile 2024, la Commissione affari costituzionali del Senato ha approvato il mandato al relatore a riferire all’Assemblea in relazione al testo del ddl Meloni (A.S. 935), con le modifiche apportate dalla Commissione stessa nei mesi di marzo e aprile 2024. In tale occasione, si è altresì proposto l’assorbimento dell’A.S. 830 e, pertanto, il testo di riferimento è stato in seguito denominato «A.S. 935 e 830-A».
[4] Riguardo all’approvazione di emendamenti e subemendamenti d’iniziativa governativa, il riferimento è, tra l’altro, ai quattro emendamenti approvati nei primi mesi del 2024 e, segnatamente, agli emendamenti governativi nn. 2.2000, 3.2000, 3.0.2000 e 4.2000, approvati dalla prima Commissione Affari costituzionali tra il marzo e l’aprile del 2024. Gli altri emendamenti di iniziativa parlamentare, sono i nn. 1.169 (sen. De Cristofaro et al.), 02.1 (sen. Enrico Borghi et al.) 2.0.1 (sen. Pera), mentre i subemendamenti, sempre di iniziativa parlamentare, sono i nn. 3.2000/444 (sen. Durnwalder et al.), 4.2000/49 (sen. De Cristofaro et al.). È invece di mero coordinamento l’emendamento presentato dal Sen. Balboni. Cfr., amplius il contributo di E. Albanesi, L’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri ed il c.d. simul simul. Della fine del libero mandato parlamentare («après moi le déluge!»), in federalismi.it, 2, 2025, passim e F. Lanchester, Il disegno di legge AS n. 935 2023, in Diritto Pubblico Europeo-Rassegna online, 2, 2023.
[5] Ciò è previsto, pur con alcune varianti, sia dal ddl Meloni originario (A.S. 935/23), anche a seguito dell’approvazione degli emendamenti governativi sopra citati, sia dal ddl c.d. Renzi (A.S. 830).
[6] Confermate, pur con alcune modifiche, dagli emendamenti al ddl Meloni approvati. Risultano invece assenti nel Ddl Renzi modifiche costituzionali rivolte direttamente al sistema elettorale.
[7] È venuto meno durante l’esame parlamentare il riferimento all’attribuzione ad una quota di seggi predeterminata, presente nella prima versione del ddl A.S. 935. L’art. 57 Cost., nel progetto di revisione qui menzionato, verrebbe ulteriormente modificato prevedendo che «Il Senato è eletto a base regionale (…) salvo il premio su base nazionale previsto dall’art. 92».
[8] Tra gli altri, G. Silvestri, Stretta autoritaria o paralisi: le rosee prospettive del premierato, in Democrazia e Diritto, 2, 2023, 27-28, A. Ruggeri, Il premierato secondo il disegno Meloni: una riforma che non ha né capo né coda e che fa correre non lievi rischi, in Diritto Pubblico Europeo-Rassegna online, 2, 2023, F. Zammartino, Il progetto di revisione costituzionale del governo Meloni: cambiare tutto per non cambiare niente, in Diritto Pubblico Europeo-Rassegna online, 2, 2023, M. Della Morte, Uno vale tutti. Considerazioni critiche (a prima lettura) sul ddl premierato, in Diritto Pubblico Europeo-Rassegna online, 2, 2023, F. Politi, Uno pseudo-premierato che nasconde la costituzionalizzazione di un sistema elettorale iper-maggioritario, in Diritto Pubblico Europeo-Rassegna online, 2, 2023 e, infine, E. Aureli, Premio di maggioranza e vincolo di mandato governativo: rilievi critici ad una prima lettura del ddl. Costituzionale Meloni, in Osservatorio Costituzionale, 2, 2024, 1-21; R. Tarchi, Il «premierato elettivo»: una proposta di revisione costituzionale confusa e pericolosa per la democrazia italiana, in Osservatorio sulle fonti, 3, 2023, Editoriale.
[9] Un modello simile, come noto, è invece attualmente previsto in Italia per le Regioni. In argomento, anche con riguardo alla riforma del ddl Meloni, si veda F. Furlan, Il premierato elettivo è la strada giusta? La lezione di vent’anni di elezione diretta dei Presidenti di Regione, in Consulta Online, 3, 2023, 1020-1039.
[10] G. Pasquino, The Powers of Heads of Government, Bologna, 2006, 10-11 «Quando si tratta dell’attribuzione della massima carica esecutiva, tutti i sistemi parlamentari condividono una caratteristica specifica: non c’è alcuna elezione diretta del capo del governo. Soltanto Israele per un breve periodo di tempo (1996-2001), vale a dire per tre elezioni nazionali consecutive (1996, 1999, 2001), è ricorso all’elezione popolare del primo ministro con l’intento di ridurre i suoi numerosi problemi di governabilità e, in particolare, l’instabilità e l’incapacità decisionale. Tuttavia, ciò non ha funzionato». Cfr. anche L. Elia, Una forma di governo unica al mondo, in Astrid, 2004 e L. Elia, Governo (forme di), in Aa. Vv., Enciclopedia del diritto, vol. XIX, Milano, 1970.
[11] Pur con significative differenze di cui si dirà infra.
[12] Si veda peraltro A. Morrone, Oltre il parlamentarismo, un premierato conflittuale, in Quaderni costituzionali 3, 2024, 697, il quale ritiene il premierato elettivo italiano come un modello sui generis anche rispetto all’esperienza di Israele.
[13] Per un’introduzione, cfr. S. Navot, The Constitution of Israel, Oxford, 2014, 133 ss.
[14] Cfr. in dottrina ex multis T.E. Frosini, Le ragioni del premierato, in Forum di Quaderni costituzionali, 1, 2024, F. Lanchester, Il disegno di legge, cit., LXXXII.
[15] Di questo avviso è anche T.E. Frosini, Il premierato e i suoi nemici, in Diritto Pubblico Europeo, 2, 2023, xix, secondo il quale «Il progetto governativo individua in una legge elettorale con il premio di maggioranza, assegnando il 55 per cento dei seggi nelle Camere, la soluzione che favorirebbe il formarsi di una maggioranza garantita alle liste che sostengono il primo ministro eletto. Se così non fosse, il rischio sarebbe di ripetere la sfortunata esperienza israeliana, che aveva l’elezione diretta del primo ministro ma con un sistema elettorale proporzionale, che ne decretò la sua fine per instabilità parlamentare. Le tecnicalità operative del sistema elettorale verranno poi previste e specificate con legge ordinaria (tenendo a mente, sul punto, le pronunce della Corte costituzionale)».
[16] Ove si afferma, tra l’altro, che essa ha prodotto «esiti profondamente divergenti rispetto a quelli auspicati, mettendo il Parlamento anziché il Premier, al centro del sistema, e facendo dipendere dalla stabilità delle coalizioni formatesi in seno al primo la sopravvivenza dell’esecutivo». Cfr. pag. 79 del Dossier sopra citato. L’appendice sull’esperienza di Israele è presente anche nel dossier n. 319 del 4 luglio 2024 della Camera dei Deputati in relazione ai ddl di revisione costituzionale AA.C. 1354 e 1921.
[17] F. Clementi, L’elezione diretta del Primo ministro: l’origine francese, il caso israeliano, il dibattito in Italia, in Quaderni costituzionali, 3, 2000, 579 ss.
[18] Tappa centrale di questo processo, come noto, è stata la Dichiarazione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 29 novembre 1947 sulla previsione di uno Stato ebraico. La Risoluzione n. 181 introduce un Partition Plan volto in origine a introdurre entità territoriali distinte in Palestina e, segnatamente, uno stato ebraico, uno stato arabo e un regime territoriale speciale per la città di Gerusalemme. Mentre la Risoluzione venne accettata dai leader ebraici del tempo, la soluzione proposta risultò fortemente invisa alla parte araba, che annunciò un’opposizione, anche militare, allo stato ebraico in via di creazione. Nel maggio 1948, poco prima del termine della giurisdizione britannica sulla Palestina prevista dal Palestine Act, viene proclamata la Dichiarazione sull’indipendenza dello Stato di Israele. Ciò conduce al primo di una serie di conflitti con gli Stati arabi limitrofi. Cfr. S. Navot, The Constitution of Israel, cit., 10 ss.
[19] J.O. Frosini, Il sistema primo-ministeriale: una quinta forma di governo?, in Quaderni costituzionali, 2, 2010, 297 ss.
[20] Cfr. S. Navot, The Constitution of Israel, cit., 98 ss.
[21] Favorita anche dalla presenza di partiti religiosi e ultraortodossi.
[22] Cfr. J.O. Frosini, Il sistema primo-ministeriale, cit., 300 ss. Tali difficoltà sembrano aver contribuito, in fasi molto delicate del processo di pacificazione, a complicarne la risoluzione.
[23] Cfr. Cfr. R. Toniatti, Israele: una costituzione a tappe, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2, 1977, 510 ss. e L. Pierdominici, Evoluzioni, rivoluzioni, involuzioni. Il costituzionalismo israeliano nel prisma della comparazione, Padova, 2022, 11 ss.
[24] Si veda S. Navot, The Constitution of Israel, cit., ix, la quale riconosce «una storia costituzionale unica di Israele».
[25] Per un’introduzione sulle varie Basic Laws si veda L. Pierdomicini, Evoluzioni, rivoluzioni, involuzioni, cit.,53 ss. Le basic law sono considerate dalla Corte suprema israeliana normativamente superiori rispetto alle leggi della Knesset e prevalgono su queste. Il criterio per individuare una Basic Law è prevalentemente “morfologico”: rientrano in tale categoria le leggi qualificate col nomen “Basic Law” dalla Knesset come osserva S. Navot, The Constitution of Israel, cit., 51 ss.
[26] United Mizrahi Bank v. Migdal Cooperative Village, Israel Supreme Court, 49(4) P.D. 221 (1995). Per un commento si vedano T. Groppi, La Corte Suprema di Israele: la legittimazione della giustizia costituzionale in una democrazia conflittuale, in Giurisprudenza costituzionale, 5, 2000, passim e L. Pierdominici, L’evoluzione costituzionale israeliana nella giurisprudenza della Corte suprema, in Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico, 2, 2012, 301-358.
[27] Così palesando anche la centralità del formante giurisprudenziale nell’evoluzione costituzionale del paese. Cfr. L. Pierdominici, L’evoluzione costituzionale israeliana nella giurisprudenza della Corte suprema, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2, 2012, 2301–358.
[28] Cfr. A. Gutfeld, Y. Rabin, Marbury v. Madison and its Impact on the Israeli Constitutional Law, in University of Miami International & Comparative Law Review, 2, 2007, 304 ss.; L. Pierdomicini, Evoluzioni, rivoluzioni, involuzioni, cit., 67.
[29] Cfr. E. Ceccherini, La rilevanza della religione sul formante giurisprudenziale: brevi riflessioni dal punto di vista del diritto comparato, in E. Ceccherini, M. Miraglia (a cura di), “Diritto dei giudici” e sistema delle fonti, Genova, 2022, 151 ss.
[30] E. Ottolenghi, Sopravvivere senza governare: l’elezione diretta del primo ministro in Israele, in Rivista italiana di scienza politica, 2, 2002, 239 ss. Ciò anche in considerazione del fatto che la Basic Law: The Knesset del 1958 prevedeva una maggioranza assoluta per la revisione del sistema elettorale. Cfr. F. Clementi, L’elezione, cit., 584.
[31] S. Navot, The Constitution of Israel, cit., 134 e A. Brichta, Political Reform in Israel: the Quest for a Stable and Effective Government, Brighton, 2001.
[32] Cfr. L. Blum, Lettres sur la réforme gouvernementale (1917-1918), Paris, 1918, M. Duverger, Demain la République, Paris, 1958, M. Duverger, La VIe République et le Régime présidentiel, Paris, 1961. Maurice Duverger, in altre opere, si è anche espresso in termini di «forma semiparlamentare». Tra gli studi recenti sul pensiero di Duverger si vedano A.G. Cuzán, On Duverger and “Laws of Politics, in Political science & politics, 2, 2023, 213–217, S. Ceccanti, La forma di governo parlamentare in trasformazione, Milano, 1997. Sugli aspetti classificatori si vedano inoltre R. Ibrido, La classificazione delle forme di governo europee caratterizzate dalla commistione tra fiducia ed elezione diretta del Capo dello Stato, in Il Filangieri, 2023, 81-120 e F. Clementi, Il Presidente del Consiglio dei ministri: mediatore o decisore?, Bologna, 2023.
[33] M. Duverger, La VIe République, cit., 580 ss.
[34] Non mancano ricostruzioni che qualificano l’esperienza di Israele all’interno della categoria delle forme semi-parlamentari. Cfr. R. Tarchi, Riflessioni in tema di forme di governo a partire dalla dottrina Mauro Volpi, in DPCE Online, 4, 2021, 4259.
[35] Cfr. section 4. Va rilevata anche la coincidenza dell’elettorato attivo, ai sensi della section 6.
[36] Cfr. section 14 della Basic law e, in argomento, E. Ottolenghi, Sopravvivere senza governare, cit., 589.
[37] Cfr. section 19.
[38] La section 19 prevedeva alcuni limiti all’esercizio di tale facoltà da parte del Premier, ad esempio, in caso di raccomandazione di rimozione del Premier da parte del Knesset Committee in attesa della decisione finale. Cfr. anche M. Harris, G. Doron, Assessing the Electoral Reform of 1992 and Its Impact on the Elections of 1996 and 1999, in Israel Studies, 2, 1999, 16–39.
[39] Circostanza favorita anche dall’origine ebraica di alcuni dei protagonisti della stagione teorica francese come osserva F. Clementi, L’elezione, cit., 583. Si veda anche C. Fusaro, Forma di governo e leadership: l’ipotesi del governo di legislatura con premier elettivo. La strada per Londra che passa da Parigi, in Aa. Vv., Politica e Società. Studi in onore di Luciano Cavalli, Padova, 1997, 551-584.
[40] F. Clementi, L’elezione, cit., passim.
[41] S. Ceccanti, La forma neoparlamentare di governo alla prova della dottrina e della prassi, in Quaderni costituzionali, 1, 2002, 119. L’Autore descrive in particolare il modello israeliano come «anarchia temperata dall’elezione diretta». Si veda anche R.Y. Hazan, Riforma elettorale e sistema partitico in Israele, in Rivista italiana di scienza politica, 2, 1999, 323, secondo cui «Israele, dunque, non è più un sistema parlamentare puro, ma non è diventato né un sistema presidenziale né un sistema semi-presidenziale».
[42] Tra gli altri, S. Galeotti, Alla ricerca della Governabilità, Milano, 1983, G. Pasquino, Come eleggere il Governo, Milano, 1992 e A. Barbera, Una riforma per la Repubblica, Roma, 1991.
[43] Cfr. G. Sartori, Ingegneria Costituzionale Comparata, Bologna, 1995, 129 ss. e E. Ottolenghi, Sopravvivere senza governare, cit., 249 ss. Come osserva E. Ottolenghi, peraltro, non è detto che l’intervento elettorale debba essere necessariamente di segno maggioritario: «non è molto importante determinare quale sistema elettorale sia migliore per garantire il buon funzionamento dell’elezione diretta. Differenti scenari partitici e diverse società richiederanno diverse
soluzioni elettorali. Ciò che conta è chiarire che accanto al principio ferreo del «governo di legislatura» – cioè, il concetto
dell’aut simul stabunt aut simul cadent – occorre una riforma elettorale che «produca» una maggioranza a sostegno del Premier».
[44] Come previsto dalle sections 3 e 35, secondo quanto osserva anche F. Clementi, L’elezione, cit., 589.
[45] Sono complessivamente 8 i casi di special elections che derogano all’aut simul stabunt aut simul cadent. Cfr. E. Ottolenghi, Sopravvivere senza governare, cit., 250.
[46] E. Ottolenghi, Sopravvivere senza governare, cit., 247. Per un inquadramento dell’istituto nel diritto comparato si veda M. Frau, La sfiducia costruttiva, Bari, 2017.
[47] Cfr. R.Y. Hazan, Riforma elettorale e sistema partitico in Israele, in “Rivista italiana di scienza politica, 2, 1999, pp. 319-344 e A. Arian, M. Shamir (eds,) The Elections in Israel 1996, Albany, 1998. S. Pasquetti, La Nuova Forma di Governo israeliana, in Il Politico, 1998, 311-331.
[48] F. Clementi, L’elezione diretta, cit., 591, S. Navot, The Constitution of Israel, cit., 134 ss.
[49] E. Ottolenghi, Sopravvivere senza governare, cit., 260 ss.
[50] R.Y. Hazan, Riforma elettorale, cit., 341 ss.
[51] Il riferimento è in particolare a Shas, Yahadut Ha’torah e al Partito religioso nazionale Mafdal.
[52] Cfr. E. Ottolenghi, Sopravvivere senza governare, cit., 263, secondo cui Barack, dopo l’estate del 1999, «ha perso prima gli alleati di sinistra perché giudicato troppo disponibile a soddisfare le richieste dei religiosi in materia di pubblica istruzione, poi gli alleati religiosi per essere troppo disponibile a negoziare Gerusalemme coi palestinesi, e infine l’elettorato laico per avere abbandonato ogni progetto di riforma in senso laico per cercare di riconquistarsi alleati religiosi dopo il fallimento di Camp David nel settembre del 2000». Terreno della crisi politica, già in quell’occasione, è stato il processo di pacificazione.
[53] Così ad esempio per R.Y. Hazan, Riforma elettorale, cit., 343.
[54] E. Ottolenghi, Sopravvivere senza governare, cit., 252.
[55] Id., 252.
[56] Le consultazioni elettorali, svolte dopo la seconda intifada, videro una bassa affluenza.
[57] Sharon otteneva un’ampia maggioranza, pari al 63%, alle elezioni del 2001.
[58] F. Clementi, L’elezione diretta, cit., 592, il quale osserva come una proposta di reintroduzione della Basic Law: the Government 1968 (peraltro già approvata in prima lettura nel 1998 alla XIV Knesset) fosse significativamente sostenuta sia da esponenti della maggioranza sia dell’opposizione, pur con il voto contrario sia di Netanyahu sia di Barak.
[59] G. Rolla, Elementi di diritto costituzionale comparato, Torino, 2018.
[60] Cfr. E. Ottolenghi, Sopravvivere senza governare, cit., 265.
[61] Cfr. M. Cavino, L’introduzione dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri, in Osservatorio costituzionale, 1, 2024, 53 ss., E. Ottolenghi, Sopravvivere senza governare, cit., passim, J.O Frosini, Il sistema “primo-ministeriale”, cit., 305 ss., S. Ceccanti, La forma neoparlamentare, cit., passim, S. Navot, The Constitution of Israel, cit., 133 ss., F. Clementi, L’elezione diretta, cit., 590 ss. e G. Sartori, Premierato forte e premierato elettivo, in Rivista italiana di scienza politica, 2, 2003, 289 ss.
[62] Cfr. R.Y. Hazan, Riforma elettorale, cit., 319-344, secondo cui «[i]n altre parole, la riforma elettorale non solo non è stata in grado di fornire una soluzione al problema per la quale era stata concepita, ma l’ha persino aggravato».
[63] E. Ottolenghi, Sopravvivere senza governare, cit., 264 ss.
[64] Cfr. J.O Frosini, Il sistema “primo-ministeriale”, cit., 303 ss.
[65] V. Varano, V. Barsotti, La tradizione giuridica occidentale: testo e materiali per un confronto civil law common law, Torino, 2018.
[66] S. Navot, The Constitution, cit., 49 ss. e la recensione di E. Campelli, in Nomos, 3, 2016, 2 ss. Trattasi di peculiarità che hanno indotto la dottrina a menzionare l’«uniqueness of the Israeli case». Cfr. R.Y. Hazan, Presidential Parliamentarism: Direct Popular Election of the Prime Minister, Israel’s New Electoral and Political System, in Electoral Studies, 1, 1996, 21-37.
[67] Anche considerato che la modifica del sistema proporzionale richiedeva un voto a maggioranza assoluta della Knesset ex art. della Basic Law: The Knesset del 1958. Come osserva F. Clementi, L’elezione diretta, cit., 584, pertanto, nel sistema israeliano era più semplice un intervento sulla forma di governo piuttosto che sul sistema elettorale.
[68] Tanto che, come osserva E. Ottolenghi, Sopravvivere senza governare, cit., 250-251, citando Hazan, l’intervento era visto come una vera e propria riforma del sistema politico ed elettorale. Nello stesso senso si veda anche A. Brighta, Political Reform in Israel: the Quest for a Stable and Effective Government, Brighton, 2001.
[69] Nella seduta dei lavori del Senato della Repubblica del 7 maggio 2025, la Presidente del Consiglio dei ministri ha ribadito che il premierato costituisce «la madre di tutte le riforme», ribadendo la centralità della riforma per il programma di governo. Malgrado ciò, l’iter parlamentare del ddl sembra aver subito un netto rallentamento e molte incognite circondano anche la legge elettorale. Da ultimo, in una risposta ad un’interrogazione parlamentare alla Camera dei Deputati nel dicembre 2024, la Ministra Casellati ha ribadito l’intenzione di presentare un nuovo disegno di legge elettorale dopo la conclusione della prima lettura sul relativo al premierato.
[70] Prevedendo che «The Knesset shall be elected in general, national, direct, equal, secret, and proportional elections, in accordance with the Knesset Election Law. This article may not be changed save by a majority of the Knesset Members».
[71] Cfr. M. Luciani, Il voto e la democrazia. La questione delle riforme elettorali in Italia, Roma, 1991, 20 ss., A. Gigliotti, Sui principi costituzionali in materia elettorale, in Rivista AIC, 4, 2014, 3 ss.
[72] Legge 6 maggio 2015, n. 52.
[73] Peraltro, la discontinuità va circoscritta all’ordinamento italiano: deve infatti rilevarsi che, come indicato nel dossier parlamentare relativo al ddl Meloni, vari ordinamenti europei e non solo hanno incluso direttamente nelle proprie costituzioni principi relativi al sistema elettorale, spesso con riguardo alla previsione di formule proporzionali. Cfr. A. Gigliotti, Sui principi costituzionali, cit., 2 ss.
[74] Trattasi del disegno di legge costituzionale presentato nella XVII legislatura dall’allora Presidente del Consiglio dei ministri Renzi e dal Ministro per le riforme costituzionali e i rapporti con il Parlamento Boschi n. 1429 recante «Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione».
[75] Sugli argomenti in favore dell’opportunità di lasciare alla legislazione ordinaria la determinazione del sistema elettorale si tornerà infra nelle conclusioni.
[76] La Knesset è composta da 120 deputati eletti per 4 anni con un sistema proporzionale, un collegio unico e una soglia di sbarramento storicamente piuttosto bassa.
[77] Cfr. la relazione di accompagnamento al ddl Meloni.
[78] Nel testo di risulta dell’art. 94 Cost., in base al ddl Meloni come approvato al Senato, «Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia». Secondo l’art. 92, inoltre, «Il Presidente del Consiglio è eletto a suffragio universale e diretto per cinque anni, per non più di due legislature consecutive, elevate a tre qualora nelle precedenti abbia ricoperto l’incarico per un periodo inferiore a sette anni e sei mesi. Le elezioni delle Camere e del Presidente del Consiglio hanno luogo contestualmente».
[79] Verbatim dall’art. 94 Cost. come modificato dal ddl Meloni «Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia».
[80] Verbatim dall’articolo 92 Cost. come modificato dal ddl Meloni: «In caso di revoca della fiducia mediante mozione motivata, il Presidente del Consiglio eletto rassegna le dimissioni e il Presidente della Repubblica scioglie le Camere». Da notare che, in base al ddl Meloni, il Capo dello Stato non ha più la possibilità di disporre lo scioglimento di una sola delle Camere.
[81] Sempre nel testo dell’art. 92 Cost., come previsto dal ddl Meloni nel testo approvato in Senato, si afferma infatti che «Il Presidente del Consiglio è eletto nella Camera nella quale ha presentato la candidatura». Il legame è riscontrabile, sempre all’art. 92, anche laddove, in caso di dimissioni, è prevista a talune condizioni la possibilità di attribuire l’incarico di formare il governo proprio a «un altro parlamentare» (cfr. testo A.S. 935 modificato a seguito degli emendamenti governativi e parlamentari), così implicitamente evidenziando l’appartenenza parlamentare del premier eletto. Nel testo approvato al Senato nel giugno 2024 questo secondo elemento di collegamento è stato attenuato. Infatti, la versione approvata in prima lettura al Senato prevede la possibilità di attribuire, per una sola volta l’incarico di formare il governo «a un parlamentare eletto in collegamento con il Presidente del Consiglio», con l’eliminazione di «altro».
[82] Mentre nel caso israeliano occorreva una manifestazione di volontà della Knesset, a seguito degli emendamenti introdotti al ddl Meloni, il Presidente del Consiglio può proporre, oltre che la nomina, anche la revoca dei ministri. Questa rimane però un atto del Presidente della Repubblica.
[83] Nel corso della discussione che ha condotto all’approvazione del testo da parte del Senato nel giugno 2024, è venuto meno un altro elemento che deponevano a favore di questa lettura e cioè il riferimento ad un «altro parlamentare» presente nella formulazione dell’art. 94 Cost. del ddl Meloni, il quale implicitamente deponeva a favore della necessaria qualifica di parlamentare per il Primo ministro. La formulazione approvata al Senato si riferisce solo a «un parlamentare eletto».
[84] D.lgs. 31 dicembre 2012, n. 235.
[85] Alla quale rinvia la l. Severino.
[86] Non pare sufficiente a ripristinare la pienezza del principio la limitazione della possibilità prevista dall’art. 92 c. 4 volta a consentire l’incarico ad altro parlamentare solo una volta nel corso della legislatura.
[87] R.Y. Hazan, Presidential parliamentarism, cit., passim.
[88] S. Navot, The Constitution of Israel, cit., 133. Vale la pena notare, di contro, che la relazione illustrativa del ddl Meloni faceva riferimento ad un «Premierato israeliano». Si veda anche S. Ceccanti, La forma neoparlamentare, cit., 120, secondo cui «Si potrebbe qualificare il sistema israeliano, in analogia con quanto proposto da Maurice Duverger per la Repubblica di Weimar, come «un’anarchia temperata dall’elezione diretta (…) in termini modellistici si può essere incerti tra una collocazione nella forma di governo presidenziale (cui osta però il rapporto fiduciario) ed una nel sottotipo non maggioritario della forma di governo parlamentare (alla quale osta l’elezione diretta)».
[89] Secondo il nuovo testo di risulta dell’art. 92 Cost., infatti, «La legge disciplina il sistema per l’elezione delle Camere e del Presidente del Consiglio, assegnando un premio su base nazionale che garantisca una maggioranza dei seggi in ciascuna delle Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio, nel rispetto del principio di rappresentatività e di tutela delle minoranze linguistiche».
[90] Cfr. pag. 4 della Relazione al ddl A.S. 935.
[91] Va osservato che l’utilizzo del termine “premierato” non appare invalso nell’ambito della dottrina israeliana ma sembra frutto di una rilettura sulla base del dibattito italiano. Sul punto si veda J.O. Frosini, Il sistema “primo-ministeriale”: una quinta forma di governo?, in Quaderni costituzionali, 2, 2010, 300 ss.
[92] Nella specie prevedendo che il Senato della Repubblica è eletto a base regionale, salvi i seggi assegnati alla circoscrizione Estero «e salvo il premio su base nazionale previsto dall’articolo 92».
[93] Malgrado la presenza di fattispecie nelle quali lo scioglimento sembra assumere la connotazione di atto necessitato. Sul punto si veda il contributo di E. Albanesi, op. cit., passim. Viene così in parte modificato quell’«equilibrio del terrore» di cui parla E. Ottolenghi, Sopravvivere senza governare, cit., siccome mediato dalla Presenza del Presidente della Repubblica.
[94] Previsioni di questo tipo erano previste anche nella proposta di riforma costituzionale della forma di governo avanzata nel 2006 e rigettata a seguito di referendum, come osserva N. Zanon, Tra diritto parlamentare e limiti alla revisione costituzionale: significato ed effetti delle norme “antiribaltone”, in Rassegna Parlamentare, 3, 2006, 723 ss.
[95] Cfr. R. Toniatti, Una forma di governo parlamentare iperrazionalizzata: la soluzione dell’elezione diretta del primo ministro in Israele, in L. Mezzetti, V. Piergigli (a cura di), Presidenzialismi, Semipresidenzialismi, Parlamentarismi: modelli comparati e riforme istituzionali in Italia, Torino, 1997.
[96] Cfr. M. Volpi, Premierato: una comparazione problematica, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 3, 2024, 757, secondo cui la crisi del sistema israeliano è derivata «da un sistema politico a multipartitismo estremo che nelle tre elezioni ha favorito la crescita dei partiti minori a scapito dei due più grandi».
[97] Viene in mente, in questa prospettiva, il sempre attuale pensiero esposto dal Calamandrei nella seduta del 4 marzo 1947 dell’Assemblea Costituente: «La Costituzione deve essere presbite, deve vedere lontano, non essere miope». Questo aspetto è stato particolarmente evidente rispetto alla mancata previsione di un divieto del premier dimissionario di ripresentarsi alle successive special elections, come avvenuto nel caso di Barak.
[98] Peraltro, a fronte di pregresse ambiguità rispetto al rafforzamento del ruolo del premier, il quale non poteva, come si è detto, nominare e revocare liberamente i propri ministri.
[99] E. Ottolenghi, Sopravvivere senza governare, cit., 243.
[100] F. Clementi, L’elezione diretta, cit., 591.
[101] E. Ottolenghi, Sopravvivere senza governare, cit., passim.
[102] Id., 601. L’autore aggiunge inoltre che «Tutto questo rende la legge fondamentale adottata un efficace catalizzatore delle disfunzioni e dei mali sia del sistema politico-parlamentare sia del sistema istituzionale che, in mancanza di equilibrio nel doppio circuito di legittimazione popolare, si dimostra poco flessibile ed ingessato, al punto tale da rischiare di scatenare conflitti anche interorganici».
[103] Dalle ultime notizie risulta comunque l’intenzione annunciata dal Governo di presentare nell’autunno 2024 un disegno di legge in materia elettorale a completamento della riforma sull’elezione diretta di cui al ddl Meloni. Cfr. F. Fabrizzi, G. Piccirilli (a cura di), Un nuovo Osservatorio per un nuovo tentativo di riforma costituzionale (aggiornamento del 26 giugno 2024).
[104] La volontà di non irrigidire eccessivamente l’ordinamento è stata del resto una delle ragioni per cui anche i Costituenti non optarono – «saggiamente» secondo A. Barbera – per la previsione in Costituzione di un determinato sistema elettorale. Cfr. A. Barbera, La nuova legge elettorale e la forma di governo parlamentare, in Quaderni costituzionali, 3, 2015, 365 e A. Gigliotti, Sui principi costituzionali, cit., 5 ss. Va ricordata al riguardo l’opinione difforme (e favorevole alla costituzionalizzazione della formula proporzionale) di Costantino Mortati. Cfr. Atti dell’Assemblea costituente, seduta del 7 novembre 1946, Seconda Sottocommissione.
[105] Cfr. Aa. Vv., Costituzione: quale riforma? La proposta del Governo e la possibile alternativa, in Astrid, 2024, 21 ss.
[106] Con riguardo ai rilievi critici in dottrina che richiamano le pronunce nn. 35/2017 e 1/2014 della Corte costituzionale, si veda, tra gli altri, E. Aureli, Premio di maggioranza e vincolo di mandato governativo: rilievi critici ad una prima lettura del ddl. Costituzionale Meloni, in Osservatorio costituzionale, 2, 2024, 1-21. Va peraltro rilevato che, nel corso dell’esame al Senato, è stato eliminato il riferimento al 55% dei seggi previsto nella versione originale del ddl Meloni.
[107] Alcuni autori, di fronte al rischio di doppie maggioranze divergenti e conseguente stallo analogamente a quanto avvenuto in Israele, hanno proposto l’introduzione direttamente in Costituzione di un’elezione a due turni con un ballottaggio. Così, «Con il primo voto si designa la composizione del Parlamento tranne una quota di premio di maggioranza. Con il secondo, in un unico ballottaggio per entrambe le Camere trai primi due leader, si sceglie la premiership, attribuendo il premio nel rispetto della sua ragionevolezza e della giurisprudenza della Corte (…). Con ciò, eviteremmo almeno il rischio-stallo di due maggioranze distinte e distanti». Cfr. F. Clementi, Premierato e Camere disomogenee: rischio stallo se non c’è ballottaggio, in Il Sole 24 ore, 2 luglio 2024.
[108] S. Ceccanti, La forma neoparlamentare, cit., 120-121. Si veda anche A. Morrone, op. cit., 698 secondo cui «Il punto critico è, soprattutto, la previsione di un dualismo molto problematico tra il premier eletto, da un lato, il governo e il parlamento, dall’altro, realizzato con un mix inedito di presidenzialismo e di parlamentarismo».
[109] Si veda, ancora, Aa. Vv., Costituzione: quale riforma?, cit., 5, ove si afferma che «la riforma produrrebbe un forte indebolimento del ruolo di garanzia e di equilibrio finora assicurato dal Presidente della Repubblica, non solo perché i poteri di risoluzione delle crisi e gli verrebbero sottratti, ma anche perché, in quanto eletto dal Parlamento e non dal popolo, egli disporrebbe di una legittimazione e di un’autorevolezza chiaramente inferiori rispetto a quelle di cui disporrà il Presidente del Consiglio».
[110] Specie in relazione alle diverse maggioranze frequentemente riscontrate tra Camera e Senato.
[111] Va ricordato che, nel caso israeliano, la scelta del premier è di norma ricaduta su uno dei “candidati forti” dei partiti del Likud o del partito laburista, mentre il voto per la Knesset ha avvantaggiato i piccoli partiti con una più specifica caratterizzazione politica. Cfr. E. Ottolenghi, Sopravvivere senza governare, cit., passim.
[112] Cfr. M. Volpi, La forma di governo parlamentare in Italia tra problemi di funzionamento e squilibrio tra poteri, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 1, 2024, 259-267.
[113] Pare condivisibile al riguardo l’opinione di chi, piuttosto che valorizzare il numero ridotto di articoli interessati, qualifica la riforma come un mutamento sostanziale e profondo della forma di governo.
[114] Cfr. pag. 3 della Relazione di accompagnamento al ddl Meloni.
[115] Il dato va contestualizzato in un ordinamento come quello italiano caratterizzato dall’alta astensione, problematica sulla quale non interviene specificamente il ddl Meloni, ritenendo che la possibilità di scegliere il Presidente ridurrà di per sé l’astensione. Non si considera però l’opposto effetto di dissuasione che potrebbe realizzarsi nel caso in cui venissero introdotte limitazioni di tale sorta alla scelta degli elettori sulla base della nuova legge elettorale. Questi ultimi, infatti, potrebbero sì scegliere il proprio presidente del Consiglio ma dovrebbero continuare a rinunciare alle preferenze e alla possibilità del voto disgiunto, così ratificando in sostanza le sole scelte di lista del candidato Premier. Nello stesso senso, si veda M. Volpi, La forma di governo parlamentare in Italia, cit., 261, secondo cui «La legge elettorale vigente con la scelta dall’alto dei parlamentari, imposta dalle liste bloccate, e il divieto del voto disgiunto tra candidato nel collegio uninominale e lista circoscrizionale, entrambe limitative della libertà degli elettori, ha contribuito ad accentuare il forte calo della partecipazione popolare negli ultimi due anni».
[116] Cfr. C. Bassu, L’elezione diretta del Capo del Governo è sufficiente per valorizzare il principio democratico e garantire la stabilità?, in Osservatorio costituzionale, 1, 2024, 5 ss.
[117] Cfr. M. Cartabia, Traccia Audizione – riforma costituzionale. Ddl 830 e ddl 935. Senato, 28 novembre 2023, in www.astridonline.it. Contra, si veda T.E. Frosini, Le ragioni del premierato, in Forum di Quaderni costituzionali, 1, 2024, 64, il quale, pur non entrando nel merito della possibile contrarietà ai principi supremi, vede nel premio lo strumento necessario ad evitare di «ripetere la sfortunata esperienza israeliana, che aveva l’elezione diretta del primo ministro ma con un sistema elettorale proporzionale, che ne decretò la sua fine per instabilità parlamentare».
[118] Cfr. S. Ceccanti, La forma neoparlamentare, cit., 120-121.
[119] E quindi anche più difficile da rimediare nel caso in cui vengano riscontrate criticità come quelle israeliane.
[120] Sul ruolo del bicameralismo attuale come anomalia italiana che causa alcune delle attuali problematiche di funzionamento della forma di governo si veda E. Albanesi, Teoria e tecnica legislativa nel sistema costituzionale, Napoli, 2019, 107 ss.
[121] Cfr. E. Albanesi, L’elezione diretta del Presidente, cit. Questa lettura pare avvalorata dal riferimento al «premio su base nazionale» presente nel ddl Meloni e richiamato anche dalla relazione di accompagnamento introduttiva e da quella del 24.4.2024 a seguito dell’abbinamento col ddl Renzi.
[122] Sul valore dell’art. 5 Cost. e sulla possibilità di annoverarlo come uno dei principi supremi immodificabili, oltre all’“indizio” rappresentato dalla collocazione tra i principi fondamentali, si veda R. Bifulco, Art. 5, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, La Costituzione commentata, Torino, 2006, secondo cui «l’esame dei lavori dell’Assemblea costituente ha permesso di evidenziare la natura fondamentale, pregiudiziale dell’art. 5 rispetto alla configurazione del profilo della Repubblica italiana». Nello stesso senso E. Albanesi, L’elezione diretta, cit.
[123] Cfr. M. Cavino, L’introduzione dell’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri, in Osservatorio costituzionale, 1, 2024, 53 ss.
[124] L. Paladin, Tipologia e fondamenti giustificativi del bicameralismo. Il caso italiano, in Quaderni cost., 1984, 236 ss.
[125] Sull’incompatibilità del premio su base nazionale all’art. 57 Cost. si veda anche C. Fusaro, M. Rubechi, Art. 57, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, La Costituzione commentata, cit., 9.
[126] Si veda al riguardo G. Rivosecchi, Art. 5, in F. Clementi, L. Cuocolo, F. Rosa, G.E. Vigevani (a cura di), La Costituzione italiana, Bologna, 2021, secondo cui le disposizioni ricavabili dall’art. 5 Cost. «esprimono una capacità ordinante nei confronti dell’organizzazione e delle funzioni dello Stato» e «il principio autonomistico, stante la comune derivazione di tutti gli enti territoriali dal principio democratico e dalla sovranità popolare (C.cost. 106/2002), costituisce limite alla revisione costituzionale (ad esempio: Pubusa 1983, 178), esprimendo l’art. 139 cost. una nozione di Repubblica che deve conformarsi ai principi fondamentali della Carta».
[127] Sul punto si veda il par. 5.4 del contributo di E. Albanesi, L’elezione diretta, cit.
[128] Come noto, in base a tale legge elettorale, il premio di maggioranza per il Senato era assegnato su base regionale: la coalizione che otteneva più voti in una regione otteneva il premio corrispondente ai seggi disponibili per la medesima regione, che variava tra le diverse regioni in base alla popolazione. Cfr. AA. Vv., Costituzione: quale riforma?, cit., 56 ss. Va ricordato che, anche all’epoca dell’approvazione di tale legge elettorale, l’originaria intenzione di prevedere un premio su base nazionale al Senato venne successivamente accantonata.
[129] Peraltro in due diversi articoli: il nuovo art. 57 Cost. e il nuovo art. 92 Cost.
[130] Il rischio di frammentazione derivante dall’applicazione di molteplici premi su base regionale pare anche accentuato dalle caratteristiche del radicamento territoriale di alcuni partiti italiani, tradizionalmente in grado di canalizzare forti consensi in certe aree del Paese ma non a livello nazionale.
[131] Ciò è accaduto ad esempio ad esito delle elezioni politiche del 2013, quando la coalizione guidata dal Partito Democratico, pur avendo la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera in virtù dell’applicazione del premio di maggioranza su base nazionale, non è riuscita a formare un governo in quanto priva di una netta maggioranza al Senato. Per un confronto, alle stesse elezioni tale coalizione ottenne 344 seggi alla Camera contro i 124 della coalizione di centro destra, ma solo 123 al Senato, contro i 117 della stessa coalizione. Un problema che avrebbe anche il Presidente del Consiglio eletto che, come previsto dal ddl Meloni, deve avere la fiducia di entrambe le Camere.
[132] Direzione apparentemente assunta in base all’attuale proposta e alle considerazioni esposte nella relazione di accompagnamento.
[133] Va riportata, per completezza, l’opinione di C. Fusaro, M. Rubechi, Art. 57, cit., secondo cui « Non è proprio scontato, tuttavia, che il premio sarebbe illegittimo: se la Costituzione impone il doppio rapporto fiduciario e se si interpreta la «base regionale» restrittivamente (come è del resto quasi sempre avvenuto), seggi aggiuntivi che siano poi assegnati a candidati regionali in relazione ai voti conseguiti nelle singole regioni dovrebbero risultare compatibili con essa». In questa prospettiva, potrebbe residuare, secondo tale opinione, un margine di compatibilità di un premio su base nazionale a Senato ma resterebbe il rischio per il legislatore di incorrere in nuove pronunce di incostituzionalità da parte della Consulta. Rischi che, in allora, avevano condotto il legislatore del 2005 ad accantonare l’ipotesi di un premio su base nazionale per il Senato.
[134] Il tema si ricollega anche alla questione delle schede sopra trattata. Già con il Porcellum, nonostante la previsione del premio di maggioranza, venivano consegnate all’elettore due diverse schede, una per il Senato, una per la Camera. L’ipotesi più semplice sarebbe, anche in questo caso, quella di mantenere due schede distinte per Camera e Senato oltre alla terza scheda per l’indicazione del Presidente del Consiglio. Ma in questo caso, come sopra esposto, per evitare l’esperienza israeliana e i disastrosi effetti di voti diversi degli elettori tra Camera, Senato e Presidente, sarebbe necessario riproporre forti limitazioni alla scelta del corpo elettorale quali il divieto di voto disgiunto. Neppure tali limitazioni, peraltro, erano valse a scongiurare i problemi di governabilità nel caso del Porcellum ed avevano condotto alle censure della sentenza n. 1 del 2014 della Corte costituzionale.
[135] In Israele, peraltro, lo scioglimento delle Camere veniva disposto dal Premier mentre nel ddl Meloni resta formalmente in capo al Presidente della Repubblica.
[136] Cfr. A. Ruggeri, Il premierato secondo il disegno Meloni: una riforma che non ha né capo né coda e che fa correre non lievi rischi, Diritto Pubblico Europeo-Rassegna online, 2, 2023.
[137] La presenza di un premio di maggioranza significativo avrebbe infatti conseguenze non trascurabili rispetto all’elezione del Presidente della Repubblica ma anche su quella dei cinque giudici costituzionale e dei componenti laici del CSM eletti dal Parlamento in seduta comune.
[138] Specie considerata la necessità di un’attribuzione di fiducia palese da parte delle Camere al Premier eletto prevista dal ddl Meloni.
[139] V. supra il par. 3.
[140] Cfr. art. 94 Cost. nel ddl Meloni. Questa possibilità, peraltro, apre ad un possibile utilizzo per fini di convenienza politica dell’istituto delle dimissioni, già sperimentato in Israele (con esiti infausti).
[141] Si veda anche, tra i sostenitori del premierato, T.E. Frosini, Le ragioni del premierato, cit., 65, il quale è a propria volta critico sulla norma c.d. antiribaltone, rispetto alla quale «si può evidenziare una certa incoerenza con l’elezione diretta».
Un nuovo allestimento per uno spettacolo capace di restare lo stesso.
Si è detto molto, si è scritto moltissimo, su questo nuovo aspetto. Ho cercato di leggere i numerosi commenti che hanno preceduto e accompagnato il nuovo Portnoy senza costruirmi condizionamenti. Sono riuscita – almeno – a non appassionarmi più di tanto al dibattito sul titolo, in un clima in cui togliendo quel “lamento” pareva che ad alcuni avessero sottratto un organo vitale.
Non so dire, ora, dopo averlo letto in questa nuova traduzione quanto ci sia di innovativo e quanto invece si riduca a una mera trovata editoriale, dunque commerciale, un po’ ammiccante. Certo è che se si è riusciti a far rivivere ciò che già di per sé era vivissimo, ma forse non per tutti, potrebbe essere sufficiente.
A libro chiuso alle mie spalle (ma così non è stato veramente mai, con nessun libro di Roth e con questo pure meno) rubo spazio alla platea di amanti e detrattori del grande e rimasto unico Philip Roth per dire che l’opera di lifting è consistita anche in un piccolo restauro. Niente di paragonabile a chi qualche anno fa ha recuperato l’autenticità del capolavoro di Steinbeck, Furore, stravolto da una censura azzoppante nonostante la quale tutto il mondo era riuscito ad amarlo, ma qui le premesse erano profondamente diverse. E su queste, almeno, mi pare si sia riusciti a far calare il lettore nella mentalità di quel figlio represso e rincorso da ipertrofici sensi di colpa di quella famiglia ebrea (“mamma, noi crediamo nell’inverno?”), donando alla sua confessione torrenziale un gusto di oralità, colorato dal balbettante pigolio, che – quasi mi duole dirlo – nella mia mente è scolpito proprio come un lamento. Ottimo l’intento, a mio parere riuscito, di restituire all’opera il suono che probabilmente aveva in origine, ossia quello del testo narrativo non altrimenti classificabile, nato per essere letto ad alta voce, forse addirittura recitato in uno spettacolino tra amici. Un set, dunque, nel quale il lettore che già aveva amato il testo si è ritrovato alle prese con una sensazione familiare, quella di chi a suo tempo era entrato come guardone, finendo per sentirsi a proprio agio già dalla “diagnosi” iniziale. Dal basso della mia inettitudine sul punto non sono in grado di esprimermi compiutamente su alcune scelte stilistiche: è corretto un restauro che fa dire ad Alex “sticazzi” e “tanta roba”, ma gli sostituisce dai denti “negro” con “nero”? Forse si è rischiato di snaturare lo spaziotempo che ha generato il soliloquio del caro Portnoy, ma è anche vero che così, se una ragazzina di quindici anni oggi lo prendesse in mano, magari soffiandolo dal mio comodino – come spero che presto qualcuno faccia – si aggirerebbe assai comodamente tra queste pagine che proprio non ne vogliono sapere di invecchiare (forse al lettore adolescente stonerebbe più legger “negro” che non “sono il Raskolnikov delle pugnette”). È e resta un libro profondamente ironico, e l’ironia, come scrisse Natalia Ginzburg in risposta a Cassola, commentando questo libro nel lontano (in tutti i sensi) 1970, è “una cosa meravigliosa, penso che Dio, se esiste, sia molto ironico”. Non so dire quanto lo sia in maniera più convinta, ora, nella traduzione di Codignola, certo non lo è di meno.
Sulla polisemia del complaint non credo proprio abbia senso esprimersi, come dicevo (questo, sì, che suonerebbe lagnoso), ma mi limito a sottolineare che, alla fine, anche chi ha tirato un segno di penna su quel termine, ha voluto recuperarlo – parola del traduttore – nella grafica della copertina del libro meno “copertinabile” del mondo. E questo un significato deve pur averlo. E penso che tale sia il senso restituito da una delle visioni più atrocemente divertenti offerte dai sensi di colpa di Alex: non quella del pene rinsecchito e perduto ai piedi della sedia causa sifilide; non il cane guida per ciechi con cui arriva a casa dopo aver perso la vista per lo sperma finito nell’occhio; bensì la sentenza pronunciata dalla personificazione del suo diavolo personale, l’“ingombrante e pomposo padre spirituale, il rabbino Ciccio-bomba Warshaw”, regista di un contrappasso capace di far arrossire la nostra memoria dantesca, che, dopo avergli detto che esisteva una sola parte del corpo di Portnoy in grado di emozionarsi, gli sputa addosso: “un chiagnefotti, ecco cosa sei. E per di più bilioso” (il “chiagnefotti” calza alla perfezione, ben più del previo “brutto piagnucolone! Brutto fagotto pieno di risentimenti, ecco quello che sei!”).
Philip Roth, Portnoy, traduzione di Matteo Codignola, Adelphi, 2025.
Sommario: 1. Introduzione. Cenni sul fenomeno – 2. L’ordinanza della Corte di Cassazione n. 11027/2024 – 3. Le diverse forme di protezione accordabili alle vittime dei fenomeni connessi allo sfruttamento lavorativo.
1. Introduzione. Cenni sul fenomeno
Con l’ordinanza n.11027 del 24 aprile 2024, la Corte di Cassazione ha contribuito a mettere un ulteriore importante tassello nel riconoscimento dei diritti delle persone vittime di tratta, fornendo principi di diritto di notevole rilievo in materia di protezione internazionale nelle ipotesi riconducibili alla tratta di esseri umani a scopo di sfruttamento lavorativo.
Per la prima volta[1] la Suprema Corte estende allo sfruttamento lavorativo l’applicazione di principi di diritto già consolidatisi nell’ambito della giurisprudenza in materia di tratta a scopo di sfruttamento sessuale, aprendo ulteriormente la strada alla possibilità di riconoscere la protezione internazionale anche in casi di questo tipo e dunque riconoscendo la possibilità di qualificare i fatti che le persone vittime di tali fenomeni subiscono o sono a rischio di subire in caso di rimpatrio quali atti di persecuzione ex art. 7 D.lgs. 251/07 ovvero trattamenti inumani e degradanti ex art. 14 lett. b) D.lgs. cit.
I principi esposti acquisiscono particolare rilevanza in quanto i fatti da cui muove la pronuncia sono riconducibili a vicende che vedono coinvolti numeri sempre più consistenti di persone richiedenti protezione internazionale in Italia. Persone che vivono condizioni di sfruttamento lavorativo o addirittura di schiavitù o lavoro forzato talvolta sin da prima della loro partenza, ovvero nei paesi di transito e/o, ancora, una volta giunti in Italia e le cui vicende sono non solo foriere di gravi violazioni di diritti umani ma altresì estremamente complesse da ricostruire in un’ottica di valutazione degli elementi che denotano una specifica fattispecie giuridica - tratta di persone, riduzione o mantenimento in schiavitù, sfruttamento lavorativo - e di conseguenza del possibile percorso di protezione e tutela accordabili[2].
Vicende, dunque, comuni ad una casistica eterogenea e complessa di persone che, raggiunta l’Italia nell’ambito dei cosiddetti flussi migratori misti, presentano domanda di protezione internazionale e per le quali, al contempo, si registrano indicatori di tratta a scopo di sfruttamento lavorativo e/o di sfruttamento lavorativo.
Negli ultimi anni si è registrata una crescente attenzione a livello istituzionale al tema dello sfruttamento lavorativo[3] e, di conseguenza, un aumento nei numeri delle persone vittime identificate in tale ambito[4]. È chiaro il legame tra questi due aspetti: guardare al fenomeno migratorio con la lente dei rischi legati alla tratta ed allo sfruttamento aumenta la capacità del sistema asilo e di quello anti-tratta di individuare le vittime di tali fenomeni, con conseguente adempimento da parte delle autorità statali di quell’obbligo positivo relativo all’identificazione delle vittime di tratta che discende dalla normativa internazionale ed europea[5].
Con queste premesse è possibile approcciarsi ad un lettura più consapevole del fenomeno per come emerge dalla lettura dei dati disponibili. Ci si riferisce a situazioni estremamente variegate ed altrettanto attuali a livello globale: conflitti e cambiamenti climatici agiscono come moltiplicatori non solo di migrazioni forzate, ma anche di quei fattori che espongono le persone a rischio tratta nei paesi di origine, di transito e di destinazione e, quindi, più ricattabili e vulnerabili rispetto alla possibilità di venire impiegate in forme distorte del mercato del lavoro[6].
In Europa, negli ultimi anni cinque anni, vi è stata una crescita costante delle vittime di tratta registrate in ambito lavorativo[7], circostanza che denota la diffusione del fenomeno ma che specularmente evidenzia una sempre maggiore capacità delle autorità nazionali di identificare tali forme di vulnerabilità, discostandosi dal riferimento alla “vittima-tipo” che, sino a qualche anno fa, aveva comportato una propensione degli attori statali ad identificare esclusivamente le donne coinvolte nella tratta a scopo di sfruttamento sessuale[8].
Per quanto concerne l’Italia, negli ultimi anni sono sempre più numerose le persone richiedenti protezione internazionale, che presentano indicatori di tratta e/o di sfruttamento lavorativo, in particolare tra coloro che provengono da alcuni paesi, tra i quali il i Bangladesh[9].
Nel 2023 e nel 2024 i cittadini bengalesi sono, infatti, entrati in contatto in modo significativo con i servizi degli enti antitratta, nell’ambito del percorso di identificazione delle potenziali vittime e di emersione dal contesto di sfruttamento lavorativo[10]. Rappresentano, per il 2024, la percentuale più significativa delle persone di genere maschile incontrate nei contesti di sbarco o negli insediamenti informali[11]. I vissuti ed i motivi posti alla base della partenza dal paese di origine, ed a fondamento della domanda di protezione internazionale, sono eterogenei e spesso, come nel caso del ricorrente da cui muove la pronuncia in esame, riconducibili ad un miglioramento delle proprie condizioni di vita che, tuttavia, è legata a doppio filo con altre circostanze personali o di contesto: la morte o la malattia di un familiare, l’indebitamento connesso a situazioni precarie, contese ereditarie o relative all’utilizzo di appezzamenti terrieri e l’impatto del cambiamento climatico (alluvioni e processi di salinizzazione delle aree costiere[12]).
Alcuni elementi, o meglio indicatori di tratta, appaiono ricorrenti. Come nella vicenda da cui muove la recente pronuncia in esame, rileva il ruolo che la persona che espatria ricopre nel contesto familiare: nella maggior parte dei casi si tratta di uomini giovani che devono, in ragione dei costrutti e delle norme sociali del contesto di origine, occuparsi del sostentamento della propria famiglia, della madre e delle sorelle che ancora devono sposarsi. Sono, in sintesi, dei “breadwinners[13]”: su di loro incombe il peso sociale e comunitario della costruzione del futuro. Centrale, inoltre, e sempre da intendersi in una dinamica collettiva, è il tema del debito o meglio dei debiti: prestiti usurai collegati alla situazione familiare ai quali si cumulano i costi del viaggio con un ammontare non chiaro all’origine e con interessi fortemente variabili[14]. Nell’organizzazione del viaggio ha un ruolo determinante la figura del broker (dalal) che adesca i potenziali migranti, traccia i percorsi migratori, fornisce i documenti e, spesso, funge da tramite anche con connazionali che li inseriscono nel mercato (irregolare) del lavoro nei paesi di destinazione[15]. Le tappe del percorso verso l’Italia prevedono in molti casi un passaggio in paesi di transito (Libia e/o Paesi del Golfo, ma anche paesi europei) ove si innescano, come nel caso in esame, processi di sfruttamento, riduzione in schiavitù e privazione della libertà personale. Il canale d’accesso per l’Italia non è solo quello via mare (attraverso il Mediterraneo Centrale) o via terra (attraverso la Rotta Balcanica), ma anche quello diretto, e di migrazione regolare, che si perfeziona attraverso la procedura del cd. decreto flussi[16].
Nonostante appaia essenziale tenere in debita considerazione l’estrema varietà e le incolmabili differenze socio-politiche, culturali, antropologiche e storiche dei paesi di origine, alcuni di questi elementi (o indicatori) possono essere utili per leggere il fenomeno anche con riferimento ad altre nazionalità. Le interconnessioni tra la tratta finalizzata allo sfruttamento lavorativo e la protezione internazionale risultano, infatti, anche per le persone provenienti da Pakistan, Marocco, Tunisia ed Egitto. Anche queste nazionalità rientrano tra le principali degli arrivi via mare del 2024 e tra le prime dieci delle domande di asilo presentate nel 2023[17]. Allo stesso tempo le persone provenienti da questi paesi, con bisogni diversi e profili specifici, rappresentano per il 2023 ed il 2024 una porzione significativa delle potenziali vittime di tratta a scopo di sfruttamento lavorativo e persone sottoposte a grave sfruttamento che hanno avuto accesso alle misure di emersione, assistenza e tutela portate avanti dal sistema antitratta italiano. Lo sfruttamento prende forma con un diverso gradiente di coercizione ed assoggettamento della persona in diversi settori produttivi tra i quali l’agricoltura, l’edilizia, la ristorazione, la logistica ed il volantinaggio. Internet e le nuove tecnologie vengono sempre più impiegate non solo per il reclutamento, mediante i canali social, ma anche per il controllo delle persone vittime[18].
Il fenomeno, per come descritto, sembra riguardare prevalentemente persone di genere maschile. Tuttavia, adottando un approccio sensibile al genere, appare opportuno ricordare come esso coinvolga anche donne e persone LGBTIQ+ che, in ragione di fattori di discriminazioni multiple e per il settore in cui vengono impiegate (si pensi ai lavori di cura), faticano ad accedere ai servizi dedicati e, pertanto, ad essere identificate quali vittime[19].
Al di là delle specificità relative al genere ed ai profili etnici, linguistici e culturali di provenienza, il fenomeno è complesso e variegato e, in generale, è estremamente difficile ricostruire la filiera criminale che va dal reclutamento nei paesi di origine allo sfruttamento in Italia. Ciò rende ancora più rilevante il portato e l’ambito applicativo della pronuncia in esame i cui principi di diritto, meritevoli di analisi congiunta con le più recenti ordinanze nel merito dei Tribunali, appaiono quindi come un utile ed attuale chiave di lettura di diversi situazioni di fatto e della loro riconducibilità agli istituti della protezione internazionale e nazionale.
2. L’ordinanza della Corte di Cassazione n. 11027/2024
La decisione della Corte di Cassazione si riferisce alla vicenda di un cittadino del Bangladesh che ricalca le situazioni sopra descritte: il giovane era partito per migliorare le proprie condizioni di vita anche in ragione di una forte pressione debitoria derivante dalla precaria situazione familiare e aggravata dai costi del viaggio. In Libia veniva sottoposto a condizioni di servitù e sfruttamento lavorativo. La condizione lavorativa in Italia, infine, risultava piuttosto precaria e poco definita.
Il Tribunale che aveva esaminato il ricorso lo aveva ritenuto non credibile sotto il profilo del rischio lamentato di subire ritorsioni da parte del creditore in caso di rientro nel paese di origine ed aveva ricondotto la vicenda del ricorrente, come sovente accade, ad una “migrazione economica”, priva di elementi per giustificare una forma di protezione internazionale o anche complementare, ritenendo “irrilevanti” le vicende subite dall’uomo in Libia e insussistenti i presupposti di cui all’art. 19 D.lgs. 286/98 legati ad un possibile inserimento lavorativo ovvero ad una condizione di vulnerabilità.
La Corte di Cassazione contesta tale lettura dei fatti narrati dal ricorrente ed emersi nel corso del procedimento e adduce interessanti considerazioni afferenti aspetti in passato già affrontati ma esclusivamente con riferimento alla tratta a scopo di sfruttamento sessuale. Tra questi: l’obbligo di cooperazione istruttoria del giudice che, in questi casi, porta anche la necessità di disporre l’audizione della persona ricorrente per ricostruire elementi di fatto dubbi[20]; l’obbligo di analizzare la situazione personale della persona ricorrente alla luce non solo delle più aggiornate informazioni sul paese di origine, ma anche delle “Linee Guida sull’Identificazione delle vittime di tratta tra i richiedenti protezione internazionale e procedure di referral” adottate dalla Commissione Nazionale per il Diritto d’Asilo e dall’UNHCR[21]; e, di conseguenza, la valutazione circa la riconducibilità di esperienze di tratta a scopo di sfruttamento lavorativo e/o di sfruttamento lavorativo in paesi di transito e/o in Italia alla nozione di status di rifugiato, di protezione sussidiaria o, in ultima analisi, di protezione nazionale complementare[22].
Con riferimento ai fatti che hanno visto protagonista il ricorrente, la Corte di Cassazione pone enfasi sulla necessità di valutare tutti gli elementi che emergono non in modo atomistico e frammentato ma attraverso una loro analisi complessiva e unitaria, che tenga conto della situazione individuale della persona, tra cui il genere, l’età, il background relativo all’istruzione o alle condizioni sociali di provenienza. Solo in tal modo il giudice adempie al proprio dovere di cooperazione istruttoria, addivenendo ad una qualificazione giuridica dei fatti che può prescindere da una precisa ricostruzione degli stessi, spesso non resa facile a causa di molteplici fattori, tra cui la scarsa consapevolezza del richiedente, il timore di ritorsioni e, non ultimo, la limitata conoscenza da parte degli interlocutori degli indicatori di tratta a scopo di sfruttamento lavorativo.
Queste considerazioni, già espresse dalla Suprema Corte, appaiono particolarmente rilevanti in vicende quali quelle che interessano i giovani uomini provenienti dai paesi asiatici coinvolti in vicende analoghe a quella in esame. Si tratta, infatti, di situazioni per le quali non sempre è facilmente ravvisabile la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie della tratta di persone - l’atto, i mezzi di coercizione utilizzati e lo scopo di sfruttamento - proprio a causa della molteplicità di fatti che vedono protagonisti i ricorrenti, fatti spesso letti, almeno in prima battuta, separati l’uno dall’altro, come effettivamente contesta la Corte al giudice di prime cure. Nel caso che ci occupa, osserva la Corte, il Tribunale aveva “segmentato” la vicenda del ricorrente in tre parti, la prima relativa ai fatti avvenuti in patria e dunque ai motivi della partenza, la seconda relativa ai fatti subiti in Libia - ritenuti peraltro irrilevanti ai fini del fondato timore di persecuzione in caso di rientro in patria - e la terza relativa alla condizione lavorativa e sociale in Italia, “valutata solo al fine di escludere l’integrazione socio-lavorativa”.
La Corte muove dall’assunto che la necessità di protezione della persona debba essere valutata mediante un’analisi della situazione individuale nel suo complesso, inserita peraltro nel contesto in cui i fatti sono nati e si sono svolti.
Una lettura che utilizzi tali lenti, che consentano dunque una maggiore distanza dal singolo fatto, ma che siano di ausilio per uno sguardo complessivo - reso possibile anche dalle informazioni del paese da cui viene la persona fornite dai report ufficiali ed anche dagli indicatori contenuti nelle Linee Guida per le Commissioni territoriali - consente di condurre a conclusioni molto lontane da quelle a cui è addivenuto il Tribunale. Conclusioni che portano a ravvisare la tratta di persone ove si vada ad esplorare, mediante un’analisi complessiva, la condizione di partenza, le vicende vissute durante il transito ed anche la condizione in Italia, quest’ultima rilevante poichè “un contratto di lavoro con elementi dubbi” può costituire, ricorda la Corte, “indicatore di tratta a scopo di sfruttamento lavorativo, come esposto nelle Linee Guida sull’identificazione delle vittime di tratta redatte dall’UNHCR unitamente alla Commissione nazionale per il Diritto di Asilo”.
La Corte si sofferma, in particolare, sulle condizioni di partenza, valorizzando gli elementi che possono condurre l’interprete ad accertare una vulnerabilità che ha esposto la persona alla scelta di partire “ad ogni costo”. Ricorda che la vicenda riferita dal ricorrente deve essere valutata alla luce del contesto sociale, culturale e politico in cui è maturata e non utilizzando parametri europei; solo in tal modo è possibile verificare se sussistano gli elementi del trafficking in persons, che permettono di riconoscerlo e distinguerlo dal diverso fenomeno dello smuggling of migrants, tra questi in particolare il “reclutamento mediante approfittamento della posizione di vulnerabilità”, quella vulnerabilità, ricorda la Corte, definita dall’art. 2 della direttiva 2011/36[23] come quella “situazione in cui la persona in questione non ha altra effettiva ed accettabile scelta se non cedere all’abuso di cui è vittima”[24].
Le vicende vissute durante il transito possono poi costituire elemento che contribuisce ad aggravare la vulnerabilità della persona: i fatti subiti, quali violenze, torture, schiavitù, riconducibili, come evidenza la Cassazione, già di per sè a gravi violazioni dei diritti umani - possono e devono rilevare al fine di rendere fondato il timore di rientro: sembra che qui la Corte si riferisca alle compelling reasons[25], che rilevano ove si ritenga che i fatti subiti continuino a dispiegare i loro effetti ed assurgono alla “persecuzione permanente” rendendo intollerabile il rientro nel paese di origine.
Sotto quest’ultimo profilo la Corte precisa l’importanza dell’accertamento “di eventuali connessioni tra i soggetti che organizzano il viaggio nel paese di origine e coloro che prendono in carico il migrante nel paese di transito”, pur precisando che, avendo la persona riferito di un periodo di riduzione in schiavitù in Libia, avrebbe dovuto essere considerata già di pe sè l’incidenza di queste vicende sulla sua condizione complessiva, trattandosi di gravi violazioni dei diritti umani. Quest’ultima considerazione assume un rilievo particolarmente importante, in quanto, come già detto, non sempre, pur con le attenzioni del caso, è agevole comprendere esattamente e compiutamente la vicenda dei richiedenti protezione internazionale coinvolti in detti fenomeni; e allora sembra di poter dire che, in talune circostanze, in particolare ove i fatti subiti dalla persona assurgano a gravi violazioni dei diritti umani, può prescindersi dal verificare la sussistenza degli elementi della tratta: in particolare, gli obblighi positivi derivanti dall’art. 4 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo[26] impongono allo Stato di adottare misure adeguate per proteggere i diritti garantiti dalla Convenzione, in particolare il divieto di schiavitù e lavoro forzato, così come già rilevato dalla Corte EDU[27].
In tale ottica l’obbligo a carico dello Stato italiano può declinarsi nella necessità di prevenire ulteriori forme di sfruttamento a cui la persona è predestinata ove giunga sul territorio nazionale con una forte esposizione debitoria ed una condizione di vulnerabilità che le rende maggiormente esposta all’abuso da parte di terzi.
Conseguentemente è necessario che siano adottate misure volte alla corretta identificazione delle vittime di tratta, anche in un’ottica di prevenzione di fenomeni di vittimizzazione secondaria. E detta identificazione, sebbene sia opportuno che sia tempestiva, può avvenire, come indicato dalle Linee Guida rivolte alle Commissioni Territoriali, nel contesto della procedura della protezione internazionale, anche in seconda istanza. In tal senso assume rilievo l’obbligo di identificazione[28] sancito dalle norme internazionali ed europee, posto a carico delle autorità statali tra cui deve considerarsi ricompresa l’autorità giudiziaria e dunque in questo caso la sezione specializzata del Tribunale.
La Suprema Corte, nell’ordinanza in esame, affronta anche un altro tema a lei caro, ossia quello della garanzia procedurale dell’audizione del ricorrente, passaggio necessario a cui il giudice, nell’ambito del suo dovere di cooperazione istruttoria non può sottrarsi. L’audizione avrebbe permesso, nel caso di specie, di comprendere se vi fosse stato un reclutamento forzato, se la persona si fosse effettivamente “liberata dal vincolo giungendo sul territorio nazionale, oppure se è ancora sottoposta a servitù o sfruttamento lavorativo”.
Analogamente pare imprescindibile, a parere della Suprema Corte, una valutazione della situazione individuale basata sulle fonti di informazioni attendibili quali le informazioni sui paesi di origine nonchè sugli elementi noti che ricorrono spesso in vicende di questo tipo e che sono riconducibili agli “indicatori di tratta” di cui alle Linee Guida rivolte alle Commissioni Territoriali.
Il riferimento alle Linee Guida pare particolarmente importante in quanto gli indicatori ivi contenuti hanno costituito la base argomentativa di molte pronunce giurisprudenziali di merito e di legittimità, che hanno valorizzato la possibilità di riconoscere la protezione internazionale alle vittime di tratta, anche a prescindere da una qualificazione giuridica della persona ricorrente e da una completa allegazione dei fatti. Ebbene, anche nell’ambito della tratta a scopo di sfruttamento lavorativo la carenza delle informazioni fornite dalla persona richiedente dinanzi all’autorità asilo è piuttosto frequente e riconducibile a motivi spesso simili a quelli che conducono le giovani donne vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale a indugiare nel racconto: la limitata conoscenza dei dettagli del viaggio, la scarsa consapevolezza della propria condizione, i timori di ritorsioni o la scarsa fiducia nelle autorità, portano molti ricorrenti a rendere dichiarazioni talvolta generiche, parziali o addirittura contraddittorie. Sotto questo profilo ormai è pacifico in giurisprudenza che tali elementi , nel contesto della tratta, devono essere letti diversamente ed anzi nei termini talvolta di veri e propri indicatori[29].
L’espressa menzione alle Linee Guida, inoltre, costituisce importante richiamo alle procedure operative in essere ivi contenute che prevedono, in caso di rilevazione di indicatori nell’ambito della procedura per il riconoscimento della protezione internazionale, la segnalazione (referral) della potenziale vittima agli enti specializzati in materia di tratta e sfruttamento - ossia gli enti che realizzano il Programma Unico ex art. 18 d.lgs. 286/98 - per garantirle adeguata protezione ed assistenza. L’ente antitratta restituisce all'autorità asilo una relazione - c.d. nota di feedback - circa i bisogni della persona richiedente, la vicenda di tratta e, eventualmente, la sua identificazione formale quale vittima di tratta[30]. Nella più recente giurisprudenza di merito si registra una crescente valorizzazione di tale procedura di referral anche in materia di sfruttamento lavorativo e delle relative relazioni che, anche per quanto attiene i profili connessi ai rischi di re-trafficking, costituiscono utile elemento di riscontro per la valutazione dei rischi in caso di rimpatrio[31]. Rappresentano, in sostanza, la parte di fatto sulla quale i principi di diritto affermati dall’ordinanza in esame si appoggiano.
In conclusione la Corte di Cassazione è giunta a enunciare il seguente importante principio di diritto: “In tema di protezione internazionale, qualora il richiedente alleghi di avere contratto un forte debito per migrare a causa di una condizione di estrema povertà (c.d. vincolo debitorio o debt bondage), e di essere stato sottoposto a servitù o lavoro forzato nel paese di transito, nonché di avere una situazione lavorativa precaria sul territorio nazionale, ove sia ritenuto credibile su questi fatti, è necessario: valutare unitariamente il racconto, anche alla luce delle Linee Guida per l’identificazione delle vittime di tratta redatte dall’ UNHCR; disporre l’audizione del ricorrente al fine di chiarire gli elementi dubbi; valutare se i trattamenti subiti debbano essere inquadrati giuridicamente quali atti di persecuzione ex art. 7 del D.lgs. n. 251/2007 ovvero quale trattamento inumano e degradante ai sensi dell’art 14 lett. b) del D.lgs. 251/2007; in ogni caso, valutare il rischio conseguente al rimpatrio alla luce di pertinenti ed aggiornate informazioni sul paese di origine e sui paesi di transito, segnatamente sulla configurazione del fenomeno del vincolo debitorio e della riduzione in servitù o sfruttamento lavorativo, al fine di verificare se la persona corra il rischio di essere nuovamente sottoposto ad asservimento, ovvero ad altro trattamento inumano o degradante in ragione del vincolo debitorio, dal quale lo Stato di origine non può proteggerlo; in via residuale valutare se la condizione di vulnerabilità derivante dai pregressi trattamenti, anche se subiti nel paese di transito, giustifichi il riconoscimento della protezione complementare, tenendo conto della complessiva condizione del soggetto richiedente, alla attualità”.
Tale enunciato, che di fatto racchiude più principi di diritto, costituisce un importante punto di riferimento per l’interprete che, in casi afferenti tali fenomeni, si trova a dover valutare vicende estremamente complesse e portatrici di molteplici elementi di complessità.
3. Le diverse forme di protezione accordabili alle vittime dei fenomeni connessi allo sfruttamento lavorativo.
Tra i principi di diritto affermati dalla Suprema Corte nell’ordinanza in esame, appare di particolare interesse l’importanza di valutare la riconducibilità dei fatti illustrati, e quindi delle ipotesi di tratta e sfruttamento lavorativo, alle due forme di protezione internazionale e, in via residuale, alla protezione complementare.
La Corte ha chiarito che, nel merito, il giudice deve valutare in primo luogo la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale; in seconda battuta, ove questa sia da escludere, deve adeguatamente motivare se la condizione di vulnerabilità connessa ai pregressi vissuti, anche consumatisi nei paesi di transito - da valutarsi congiuntamente all’attuale condizione della persona ricorrente - possa determinare il riconoscimento della protezione nazionale di natura complementare.
Effettivamente in tale contesto, rappresentativo di situazioni diverse ma in parte sovrapponibili e dunque suscettibili di essere ricondotte a fattispecie non necessariamente univoche, si pone l’esigenza di individuare le misure maggiormente rispondenti all’interesse delle persone coinvolte.
In particolare ove non possano ravvisarsi gli elementi riconducibili allo status di rifugiato o alla protezione sussidiaria, rilevano le forme di tutela di carattere nazionale, che, in adempimento degli obblighi costituzionali o internazionali di cui all’art. 5 comma 6 D.lgs. 286/1998, si pongono a tutela dei diritti umani. Tra di esse vi è la protezione speciale che nell’attuale formulazione, è ipotesi di chiusura e di attuazione nell’ordinamento italiano del principio del non-refoulement[32] ed espressamente prevista quale esito della procedura per il riconoscimento della protezione internazionale.
Il perimetro delle forme di protezione complementare, tuttavia, include ulteriori fattispecie[33] alcune delle quali rivolte in modo specifico alla tutela delle vittime di tratta e di sfruttamento lavorativo: ci si riferisce agli specifici permessi di soggiorno oggi definiti “per casi speciali”, che comprendono le ipotesi di tratta e grave sfruttamento in tutte le sue forme, di cui all’art. 18 d.lgs. 286/1998[34]e per sfruttamento lavorativo, di cui al recentemente novellato art. 18 ter d.lgs. 286/1998[35].
Tali norme prevedono, com’è noto, la possibilità che, in presenza di determinati requisiti, alla persona straniera venga riconosciuto uno specifico titolo di soggiorno proprio in ragione del vissuto riconducibile alla tratta ed allo sfruttamento in ambito lavorativo.
Per ciò che maggiormente attiene alla presente trattazione quanto più rileva è l’ascrivibilità di dette ipotesi all’insieme delle forme di protezione complementare e, di conseguenza, la loro natura.
Come affermato dalla giurisprudenza della stessa Corte di Cassazione, tali tipologie di permesso di soggiorno sono delle forme speciali di permessi di soggiorno per motivi umanitari[36] che sono state introdotte nell’ordinamento italiano in attuazione della normativa europea[37]. Trovandosi in rapporto di genere a specie con la più generale categoria delle forme di protezione complementari hanno “consistenza di diritto soggettivo”[38] costituzionalmente garantito. Ciò ha delle importanti ricadute anche in ambito procedurale: in primo luogo, com’è noto ed evidente, il contenzioso in materia ricade nella giurisdizione del giudice ordinario. In secondo luogo il giudice, nell’ambito della piena cognizione anche extra petitum, potrebbe trovarsi, in presenza dei requisiti di fattispecie, ad accertare detti diritti anche indipendemente dal rilascio del parere favorevole da parte dell’autorità giudiziaria e degli organi di vigilanza[39].
In altre parole, nell’ambito dei procedimenti giurisdizionali in materia di protezione internazionale, il giudice della sezione specializzata, ove ritenga di non riconoscere la protezione internazionale, dovrebbe poter accertare la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per casi speciali, in virtù di quanto previsto dalle sopra dette norme.
Tale onere è esplicitamente previsto a carico delle Commissioni territoriali dall’art. 32 comma 3bis del d.lgs. 25/08, che prevede che, ove nel corso dell'istruttoria emergano fondati motivi per ritenere che la persona richiedente sia vittima dei reati di tratta e di riduzione o mantenimento in schiavitù, si trasmettano gli atti al questore per le valutazioni di competenza e dunque anche al fine dello specifico permesso di soggiorno che tutela le vittime di tali reati.
Specularmente può dunque sostenersi che anche in seconda istanza tale diritto debba essere considerato e, ove ritenuto sussistente, riconosciuto dal giudice, tanto quello riconducibile all’art. 18 quanto quello relativo all’art. 18 ter che comunque, come detto, mira a tutelare un diritto soggettivo.
In tal senso sarà preziosa una prassi che favorisca procedure di referral al personale specializzato degli enti anti-tratta che possano supportare l’autorità giudiziaria nel valorizzare gli elementi di vulnerabilità, con particolare riferimento alle forme di sfruttamento vissute nel territorio nazionale.
La valutazione del riconoscimento del diritto ad un permesso per casi speciali può essere rilevante, come già detto, per un ampio numero di persone richiedenti protezione internazionale che presentano indicatori di tratta e /o di sfruttamento lavorativo e che vivono situazioni che, come sottolineato anche dalla giurisprudenza di legittimità, sono frequenti perchè connesse alla precarietà giuridica e sociale delle persone straniere e che talvolta assurgono, anche in assenza di violenza fisica, a vere e proprie forme di riduzione in schiavitù di cui all’art. 600 c.p[40].
L'eterogeneità della casistica e dei relativi bisogni determina l’importanza, come emerge dalla pronuncia in esame, di un approccio giuridico in grado di superare la visione segmentata dell’esperienza della tratta e dello sfruttamento nonostante le sfide attuative imposte dalla normativa che, proprio tornando alle nazionalità maggiormente esposte al fenomeno, include, tra le altre, Bangladesh, Egitto e Tunisia tra i paesi di origine cdd “sicuri”[41].
La provenienza della persona richiedente da un paese di origine designato come sicuro ha diverse conseguenze. La prima attiene all’onere della prova riguardo la valutazione del rischio in caso di rimpatrio (e non della credibilità delle dichiarazioni rese): la presunzione relativa di sicurezza fa sì che incomba sull’istante il compito di provare che, nel suo caso specifico, il paese non è da considerarsi sicuro. A ciò si aggiungono conseguenze sul tipo di procedura applicabile alla domanda di protezione internazionale: l’esame delle istanze presentate da persone provenienti da tali paesi vengono, infatti, trattate in via accelerata e di frontiera con tempi stringenti tra la formalizzazione della domanda, l’intervista e l’adozione della decisione da parte dell’autorità asilo[42].
Dette implicazioni procedurali hanno un impatto sulla persona richiedente ed incidono in modo evidente sul “fattore tempo” che, in ragione della complessità dei vissuti e delle esperienze, è determinante affinchè si possa procedere all’identificazione delle vittime di tratta. E’ infatti chiaro come i contesti delle procedure accelerate e di frontiere mal si conciliano con l’attuazione delle indicazioni delle Linee Guida dell’UNHCR richiamate dalla pronuncia in esame e con la lettura complessiva dei bisogni della persona. In particolare, appare difficile che la persona richiedente abbia già maturato gli strumenti per raccontare parti della propria storia che, come si è visto, possono essere determinanti ai fini del riconoscimento della protezione internazionale. Inoltre, è difficile anche che si possa, dalla prospettiva dell’autorità asilo, riuscire a ricostruire in modo completo e non parcellizzato l’esperienza individuale.
L’importanza di una corretta ricostruzione dei fatti che ha visto protagonista la persona diventa dunque fondamentale in tale contesto e ciò acquisisce maggiore rilievo con riferimento alla possibilità del giudice di mettere in campo un ampio ventaglio di forme di protezione. Presupposto necessario, come effettivamente ci ricorda la Corte di Cassazione, è una lettura attenta e consapevole dei fatti, tanto quelli esplicitamente narrati quanto quelli che emergono grazie alla cooperazione istruttoria del giudice stesso e dunque attraverso la conoscenza delle informazioni sul paese di origine e dell COI e degli indicatori di tratta, l’audizione della persona interessata ed eventualmente il supporto del personale specializzato delle organizzazioni anti-tratta che possono coadiuvare il complesso processo di identificazione della persona ricorrente quale vittima di tratta.
[1] La Corte di Cassazione era già intervenuta sul punto con l’ordinanza del 4 maggio 2023 nel procedimento n. 21413/22 RG, sebbene non enunciando un principio di diritto ma cassando con rinvio un decreto del Tribunale di Brescia in quanto il giudice di prime cure non aveva ravvisato una vicenda di tratta a scopo di sfruttamento lavorativo in danno di un cittadino nigeriano reclutato all’età di 15 anni e condotto a lavorare in condizioni di sfruttamento in Libia.
[2] Per un approfondimento su questo tema si veda F. Nicodemi, “Tratta di persone, schiavitù, sfruttamento lavorativo. Le diverse forme di protezione e di tutela accordabili in considerazione della varietà delle fattispecie e dei bisogni delle persone”, in Diritto Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 1/2024.
[3] Dalla prospettiva istituzionale, numerose iniziative sono state poste in essere alla luce del crescente interesse al fenomeno: l’istituzione del Tavolo Caporalato, l’adozione del Piano Nazionale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura e al caporalato (2020-2022) e la pubblicazione delle Linee Guida nazionali del Ministero del Lavoro in materia di identificazione, protezione ed assistenza alle vittime di sfruttamento lavorativo in agricoltura ed il cui ambito operativo è da intendersi esteso anche agli settori operativi (rinvenibili al seguente link: https://www.lavoro.gov.it/priorita/Documents/Linee-Guida%20vittime%20sfruttamento%20lavorativo_P_14_CU_Atto_Rep_n_146_7_ott_2021.pdf). Anche la versione aggiornata delle “Linee Guida sull’Identificazione delle vittime di tratta tra i richiedenti protezione internazionale e procedure di referral” contiene un approfondimento sul tema dello sfruttamento lavorativo definendo anche specifici indicatori su tale aspetto. In parallelo anche il sistema antitratta, in linea con quanto previsto dal Piano Nazionale Piano nazionale d’azione contro la tratta e il grave sfruttamento degli esseri umani 2022-2025 e dal relativo Meccanismo Nazionale di Referral ha posto sempre più l’accento sul tema del grave sfruttamento lavorativo. Dall’altro, in termini quantitativi, i dati circa le persone richiedenti la protezione internazionale le cui esperienze sono riconducibili alle categorie delle vittime di tratta e/o sfruttamento lavorativo sono in aumento.
[4] Nel 2024 gli operatori del sistema anti-tratta, nell’ambito del lavoro di valutazione che svolgono in seguito alle segnalazioni da parte dei diversi interlocutori, hanno identificato quali vittime di tratta a scopo di sfruttamento lavorativo o comunque di grave sfruttamento lavorativo un numero di persone maggiore, in termini di percentuali (22,4%), rispetto alle vittime di tratta a scopo di sfruttamento sessuale (16,3%). Inoltre, tra le persone che hanno aderito al programma unico e che quindi sono state prese in carico dal sistema anti-tratta nello stesso anno il 38,5% sono vittime di tratta a scopo di sfruttamento lavorativo, a fronte del 24% delle persone che fuoriescono dallo sfruttamento sessuale. Si veda: Numero Verde contro la tratta degli esseri umani e/o Il grave Sfruttamento, Relazione annuale 2024, 2025, disponibile a: https://osservatoriointerventitratta.it/wp-content/uploads/2025/04/Relazione_2024-1.pdf.
[5] L’art. 10 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta alla tratta stabilisce che “Ciascuna delle Parti si assicura che le autorità competenti dispongano di personale formato e qualificato per la prevenzione e la lotta alla tratta di esseri umani, nell’identificazione delle vittime, in particolare dei minori, e nell’aiuto a questi ultimi, e si assicura che le autorità competenti collaborino tra loro, così come con le organizzazioni che svolgono un ruolo di sostegno, al fine di permettere di identificare le vittime con una procedura che tenga conto della speciale situazione delle donne e dei minori vittime e, nei casi appropriati, che vengano rilasciati permessi di soggiorno nel rispetto delle condizioni di cui all’articolo 14 della presente Convenzione”.
Anche la direttiva europea 2024/1712 all’art. 11 richiama ai doveri degli Stati sotto tale profilo chiedendo che siano adottate “misure necessarie ad istituire, mediante disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, uno o più meccanismi miranti alla rapida individuazione, all'identificazione, all'assistenza e al sostegno delle vittime identificate e presunte, in collaborazione con le organizzazioni di sostegno pertinenti, e a designare un punto di contatto per l'orientamento transfrontaliero delle vittime”.
[6] Per approfondire la prospettiva globale si rimanda a quanto esposto in UNODC, Global Report on Trafficking in Persons, 2024, disponibile a: https://www.unodc.org/documents/data-and-analysis/glotip/2024/GLOTIP2024_BOOK.pdf.
[7] Nonostante la forma di sfruttamento prevalente continui ad essere quella sessuale, tra il 2008 e il 2018 lo sfruttamento lavorativo si attesta tra il 14% e il 21%, mentre dal 2019 in poi raggiunge il 28% e il 41% del totale negli Stati Membri. EUROSTAT, Trafficking in human beings statistics, 2025, disponibile a: https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Trafficking_in_human_beings_statistics&oldid=626610#The_prevalence_of_labour_exploitation_is_almost_equal_with_sexual_exploitation.
[8] Su questo aspetto si veda C.Cirillo e F.Nicodemi “ Toward effective protection of victims of trafficking in mixed migration flows: referral mechanisms shaped on individual need. The Italian experience and the European perspective” in “Frontiers in human Dynamics, 2024, (https://www.frontiersin.org/journals/human-dynamics/articles/10.3389/fhumd.2024.1436612/full).
[9] Secondo i dati del Ministero dell’Interno nel 2024 sono arrivate via mare 66.317 persone,13779 provenienti dal Bangladesh. Le persone provenienti dal Bangladesh sono circa un quinto di coloro che hanno raggiunto l’Italia via mare nel 2024 e nel 2023, ultimo anno per il quale sono disponibili i dati del Ministero dell’Interno, costituiscono la principale nazionalità tra coloro che richiedono la protezione internazionale in Italia. Ministero dell’Interno, Cruscotto Statistico al 31 dicembre 2024,2024, disponibile a: http://www.libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it/sites/default/files/allegati/cruscotto_statistico_giornaliero_31_dicembre_2024.pdf. Ministero dell’Interno, Ufficio Centrale di Statistica, Richieste asilo dati 2023, 2025, disponibile a: https://ucs.interno.gov.it/ucs/allegati/Download:Richieste_asilo_dati_2023-21979949.htm.
[10] Numero Verde contro la tratta degli esseri umani e/o Il grave Sfruttamento, Relazione annuale 2023, 2024, disponibile a: https://osservatoriointerventitratta.it/wp-content/uploads/2024/08/Relazione_NV_2023-con-COPERTINA.pdf. Numero Verde contro la tratta degli esseri umani e/o Il grave Sfruttamento, Relazione annuale 2024, 2025, disponibile a: https://osservatoriointerventitratta.it/wp-content/uploads/2025/04/Relazione_2024-1.pdf.
[11] Numero Verde contro la tratta degli esseri umani e/o Il grave Sfruttamento, Relazione annuale 2024, 2025, pg 25, vedi nota 10.
[12] HRC - UN Human Rights Council (formerly UN Commission on Human Rights): Visit to Bangladesh; Report of the Special Rapporteur on the promotion and protection of human rights in the context of climate change, 2023, disponibile a: https://www.ecoi.net/en/file/local/2092311/G2307030.pdf.
[13] Il termine viene usato nel contesto internazionale per descrivere la specificità di questo ruolo sociale in un’ottica sensibile al genere anche in connessione con i rischi correlati alla tratta ed al grave sfruttamento. Per approfondire si veda: OSCE, Applying gender-sensitive approaches in combating trafficking in human being, 2021, disponibile a: https://www.osce.org/files/f/documents/7/4/486700_1.pdf.
[14] Per approfondire si veda: M.Ricca e T.Sbriccoli “Shylock del Bengala. Debiti migratori, vite in ostaggio e diritto d’asilo (Un approccio corologico-interculturale alle implicazioni anti-umanitarie del patto commissorio)” in CALUMET – intercultural law and humanities review, 2016, disponibile a https://www.questionegiustizia.it/data/rivista/articoli/410/qg_2017-1_21.pdf.
[15] HRC - UN Human Rights Council (formerly UN Commission on Human Rights): Visit to Bangladesh; Report of the Special Rapporteur on extreme poverty and human rights, Olivier De Schutter, 2024 disponibile a: https://www.ecoi.net/en/file/local/2110046/g2406857.pdf;
DIDR - Division de l'information, de la documentation et des recherches (OFPRA), Bangladesh : La traite par l’exploitation par le travail, 2023, disponibile a: https://www.ofpra.gouv.fr/libraries/pdf.js/web/viewer.html?file=/sites/default/files/ofpra_flora/2309_bgd_traite_119273_web.pdf.
[16] L’analisi sul campo e le esperienze del sistema anti-tratta, dei progetti in materia di sfruttamento lavorativo sul territorio italiano e degli enti del settore rilevano numerose criticità riguardo allo strumento che regola i flussi di ingresso per quote. Dette analisi evidenziano come il decreto flussi nasconda situazioni riconducibili alla truffa della persona straniera che, dopo avere pagato per l’ingresso in Italia, una volta sul territorio, non può perfezionare il contratto di soggiorno in quanto il datore di lavoro non esiste o non è reperibile. Anche in ragione della precarietà giuridica in cui versa, la persona, priva di un titolo di soggiorno, scivola spesso in condizioni di marginalità sociale e di sfruttamento lavorativo. In alcuni casi tali modalità di ingresso nascondono situazioni di vera e propria tratta finalizzata allo sfruttamento lavorativo. Si vedano, tra gli altri, gli approfondimenti sul tema contenuti nell’ultima relazione del Numero Verde Antitratta (vedi nota 4) e dalla campagna Ero Straniero, disponibile a https://erostraniero.it/decreto-flussi-ero-straniero-nel-2022-solo-il-30-di-chi-ha-fatto-ingresso-in-italia-e-stato-assunto-e-ha-i-documenti-il-sistema-va-riformato-subito/.
[17] Nel 2024 sono arrivate via mare 3.284 persone provenienti dal Pakistan, 7677 dalla Tunisia, 4296 dall’Egitto.
Ministero dell’Interno, Cruscotto Statistico al 31 dicembre 2024,2024, disponibile a: http://www.libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it/sites/default/files/allegati/cruscotto_statistico_giornaliero_31_dicembre_2024.pdf. Nel 2023 le domande di protezione internazionale presentate da cittadini pakistani sono state 17077; 18296 da cittadini egiziani; 7785 per la Tunisia e 5223 per il Marocco. Ministero dell’Interno, Ufficio Centrale di Statistica, Richieste asilo dati 2023, 2025, disponibile a: https://ucs.interno.gov.it/ucs/allegati/Download:Richieste_asilo_dati_2023-21979949.htm.
[18] Per approfondire si vedano Numero Verde contro la tratta degli esseri umani e/o Il grave Sfruttamento, Relazione annuale 2023, 2024,cit. Numero Verde contro la tratta degli esseri umani e/o Il grave Sfruttamento, Relazione annuale 2024, 2025 cit.
[19] Si registra, infatti, una generale mancanza di dati aggregati che aiutino a raccogliere informazioni sulle donne o sulle persone LGBTIQ+ sfruttate nel settore lavorativo (per approfondimenti si rimanda a quanto eposto da M.G Giammarinaro, Understanding Severe Exploitation Requires a Human Rights and Gender-Sensitive Intersectional Approach’ in ‘Frontiers in Human Dynamics’, 2022 (https://www.frontiersin.org/articles/10.3389/fhumd.2022.861600/full). Tuttavia, un approccio intersezionale al tema porta ad affermare che le donne richiedenti asilo siano particolarmente vulnerabili allo sfruttamento, soprattutto in alcuni ambiti produttivi come il lavoro domestico. Quest’ultimo, anche per la specificità del luogo ove si avviene e l’inviolabilità del domicilio, è di per sé ancora più occulto, con significative lacune nell'implementazione di strategie di identificazione sensibili al genere- Per approfondire: P. Degani e F. Cimino, On the severe forms of labour exploitation of migrant women in Italy: an intersectional policy analysis, in ‘Rivista Italiana di Politiche Pubbliche’, n. 3/20, 2021 rinvenbile a: https://www.academia.edu/108607914/On_the_Severe_Forms_of_Labour_Exploitation_of_Migrant_Women_in_Italy_An_Intersectional_Policy_Analysis; L. Palumbo e A. Sciurba, The vulnerability to exploitation of women migrant workers in agriculture in the EU: the need for a human rights and gender based approach, European Parliament, 2018. rinvenibile a : (https://www.europarl.europa.eu/thinktank/en/document/IPOL_STU(2018)604966).
M.G. Giammarinaro e L. Palumbo Situational vulnerability in supranational and Italian legislation and case law on labour exploitation in VULNER-blog, 2022, disponibile a: https://www.vulner.eu/99788/Situational-Vulnerability.
[20] Sul punto, e nello specifico sul tema delle vittime di tratta, la Corte di Cassazione si è pronunciata in più occasioni. Tra le altre si vedano: Corte di Cassazione, sez. I civ., ordinanza 676 del 12.01.2022; Corte di Cassazione, sez. I civ., ordinanza 32083 del 15.06.21; Corte di Cassazione, sez. I civ. n. 1750 del 2021; Corte di Cassazione, sez. I civ., ordinanza n. 30402 del 28.05.21.
[21] Il testo delle Linee Guida è rinvenibile al seguente link: https://www.unhcr.org/it/wp-content/uploads/sites/97/2021/01/Linee-Guida-per-le-Commissioni-Territoriali_identificazione-vittime-di-tratta.pdf.
[22] Come noto, la Corte di Cassazione si è soffermata più volte sugli elementi per il riconoscimento del rifugio alle persone sopravvissute a tratta a scopo di sfruttamento sessuale ed ha sviluppato una giurisprudenza gradualmente sempre più inclusiva. Tra le pronunce si vedano Corte di Cassazione, prima sezione civile ordinanza n. 32083 del 15.06.21; Corte di Cassazione, prima sezione civile ordinanza n. 30402 del 28.05.21 e da ultimo Corte di Cassazione, prima sezione civile, ordinanza del 4.08.23 n. racc. gen. 23883 (RG 4135/22). Analogamente Corte di Cassazione prima sezione civile del 22.09.23 n. racc. gen. 12010/22 (RG 30717/23).
[23] La nuova direttiva 2024/1712/UE, che ha modificato alcune disposizioni della precedente direttiva del 2011, ha mantenuto la definizione di vulnerabilità nell’art. 2.
[24] Le Linee Guida UNHCR “sull’applicazione dell’articolo 1A(2) della Convenzione di Ginevra del 1951 e/o del protocollo del 1967 relativi allo status dei rifugiati alle vittime di tratta e alle persone a rischio di tratta” , nel tentativo di fornire un’interpretazione della Convenzione di Ginevra tale da poter ricomprendere nella definizione di rifugiato le vittime di tratta, evidenziano la frequente sovrapposizione tra smuggling e trafficking, sottolineando come, sebbene siano fenomeni distinti, siano spesso correlati “perché entrambi approfittano della vulnerabilità delle persone in cerca di protezione internazionale o di accesso al mercato del lavoro all’estero.(https://www.unhcr.org/it/wp-content/uploads/sites/97/2020/07/linee_guida_protezione_int.pdf).
[25] Le Linee Guida UNHCR (par. 16) evidenziano l’opportunità di valutare la situazione individuale del richiedente anche ove, sebbene la persecuzione subita durante l’esperienza di tratta sia conclusa, essa sia stata “particolarmente atroce e l’individuo stia ancora soffrendo protratti effetti psicologici che potrebbero rendere intollerabile il suo ritorno nel paese”.
[26] L’art. 4 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo proibisce la schiavitù e il lavoro forzato prevedendo ai primi due paragrafi che Nessuno può essere tenuto in condizioni di schiavitù o di servitù e che “Nessuno può essere costretto a compiere un lavoro forzato od obbligatorio” (https://www.echr.coe.int/documents/d/echr/convention_ita).
[27] Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Chowdury and Others v. Greece - 21884/15, pronuncia del 30.3.2017, disponibile a https://hudoc.echr.coe.int/eng#{%22itemid%22:[%22002-11581%22]}.
[28] Si veda nota 5.
[29] Sulla possibilità di riconoscere la protezione internazionale pur in assenza di un’esplicita allegazione da parte della persona richiedente e dunque in assenza di una “auto-identificazione” quale vittima di tratta, o comunque in caso di dichiarazioni generiche o omissive, la Corte di Cassazione si è espressa ripetutamente. In particolare con l’ordinanza 676/2022 ha enunciato il principio di diritto per cui, in tema di tratta “il richiedente asilo ha l’onere di allegare i fatti, ma non di qualificarli, compito questo del giudice che deve, in adempimento del dovere di cooperazione, a tal fine analizzare i fatti allegati, senza modificarli né integrali, comparandoli con le informazioni disponibili, pertinenti e aggiornate sul paese di origine e sui paesi di transito, nonché sulla struttura del fenomeno, come descritto dalle fonti convenzionali ed internazionali, e dalle Linee guida per la identificazione delle vittime di tratta redatte dall’UNHCR e dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo”.
[30] Le procedure di referral sono divenute nel corso degli anni una prassi diffusa anche presso le sezioni specializzate dei Tribunali, in alcuni casi anche tramite la formalizzazione di Protocolli d’Intesa tra il Tribunale e gli enti del pubblico e del privato sociale che realizzano il programma unico ex art. 18 co. 3 bis D.lgs. 286/98. Tra i Tribunali che hanno sottoscritto il Protocollo vi sono Catanzaro, Roma, Bologna, Firenze, Torino, Trento, Salerno.
[31] In tal senso tra le più recenti, Sez. Spec. Trib. Torino, RG 3191/2023 decreto del 12/05/2025; Sez. Spec. Trib. Torino, RG 68/2024, decreto del 23/12/2024; Sez. Spec. Trib. Torino, RG 3459/2023 decreto del 04/03/2024; Sez. Spec. Trib. Torino, RG 17090/2023 decreto del 06/03/2025; Sez. Spec. Trib. Roma, RG 10182/2023 decreto del 28/07/2023; Sez. Spec. Trib. Firenze, RG 7486/2022, decreto del 24/05/2023; Sez. Spec. Trib. Salerno, RG 5147/2019, decreto del 28/11/2022; Sez. Spec. Trib. Salerno, RG 11731/2019, decreto del 19/10/2022; Sez. Spec. Trib. Milano, RG 11096/2019 decreto del 01/08/2023; Sez. Spec. Trib. Catanzaro RG 6346/2018, decreto del 18/02/2021.
[32] I contenuti ed il nome di detta forma di protezione complementare (in passato chiamata protezione umanitaria) sono stati oggetto di un susseguirsi di interventi normativi che ne hanno ridotto l’ambito applicativo ad oggi disciplinato dalla previsione di cui all’art. 19 comma 1, 1.1 e 1.2 D.Lgs. 286/1998 comma e riformato dal cd Decreto Cutro. Per una disamina si veda, tra gli altri contributi in materia,E. Masetti Zannini, La protezione nazionale post dl 20/2023, su Questione Giustizia, 2024, disponibile a:https://www.questionegiustizia.it/articolo/protezione-nazionale-post-dl-20-2023-2.
[33] Tra di esse, ad esempio, a tutela del diritto costituzionalmente garantito alla salute, il permesso di soggiorno per cure mediche.
[34] L’art. 18 d.lgs. 286/1998 prevede, come noto, la possibilità che la vittima di reati connessi alla tratta e dunque in particolare di cui agli artt. 600 e 601 c.p., che voglia sottrarsi alla condizione di sfruttamento e per tale ragione incorra in un pericolo concreto per la propria incolumità, ottenga il titolo di soggiorno anche al di là della volontà della stessa di cooperare nel procedimento penale contro chi l’ha sfruttata.
[35] La norma, introdotta dalla legge 187/24 che ha convertito il decreto legge 145/24, richiede quale presupposto applicativo operazioni di polizia o procedimenti penale per il reato di intermediazione illecita e sfruttamento lavorativo di cui all’art. 603bis c.p. nell’ambito delle quali venga accertata la condizione di sfruttamento, violenza o abuso della persona lavoratrice straniera o dei suoi famigliari. La persona vittima, tuttavia, deve fornire un “contributo utile alle indagini" e, al fine del rilascio del titolo da parte della Questura, è necessario una proposta o parere dell’autorità giudiziaria o dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro. Per ulteriori informazioni di natura sostanziale o procedurale si rimanda a quanto esposto nel FAQ del Ministero del Lavoro disponibili al seguente link: https://integrazionemigranti.gov.it/it-it/Ricerca-news/Dettaglio-news/id/4194/Vittime-di-sfruttamento-lavorativo-chi-sono-e-quando-hanno-diritto-al-permesso-di-soggiorno.
[36] In questo senso Cass. Civ. Sez.I, sentenza n. 3393/23. Detta pronuncia, che muoveva proprio da un ricorso in materia di riconoscimento della protezione internazionale, si esprimeva riguardo alla tipologia di permesso di soggiorno prevista per le ipotesi di particolare sfruttamento lavorativo che, al momento dei fatti, era disciplinata dall’art. 22.12quater D.lgs. 286/1998 ad oggi dall’art. 18ter D.lgs. 286/1998. In ragione del medesimo ambito applicativo ed esplicita intenzione del legislatore di sostituire detta fattispecia con la neo introdotta previsione, le considerazioni formulate su quella tipologia di titolo di soggiorno sono estendibili all permesso di cui all’art. 18ter e, per analogia, all’art. 18.
[37] Ci si riferisce per le ipotesi di tratta e quindi per il permesso di soggiorno di cui all’art. 18 alla Direttiva EU 2024/1712 e per l’ipotesi di sfruttamento lavorativo alla Direttiva EU 2009/52. Entrambe le fonti stabiliscono che alle vittime straniere che versano in condizione di irregolarità di soggiorno debba essere rilasciato un permesso ad hoc.
[38] Cass. Civ. Sez.I, sentenza n. 3393/2023. Conforme Cass. Civ. sentenza n. 23456/2019.
[39] Detti pareri, secondo la Corte di Cassazione, hanno natura di atti endoprocedimentali, e non sono vincolanti per l’autorità giudiziaria. Cass. Civ. Sez.I, Sentenza n. 3393; Cass. Sez. Unite, sentenza n. 30757/2018 e n. 32044/2018; Cass. Civ. Sez. I. sentenza n. 10291/2018.
[40] Sotto questo profilo assume rilievo una recente sentenza della Corte di Cassazione, che ha confermato le condanne per riduzione in schiavitù nei confronti dei caporali che sfruttavano migranti durante la raccolta agricola nella zona di Nardò, in Puglia, con ciò mettendo in luce le condizioni disumane in cui operano molti lavoratori migranti ed evidenziando come le condotte perpetrate in loro danno dovessero ricondursi non tanto al reato di cui all’art. 603 bis c.p., bensì alla fattispecie ben più grave di cui all’art. 600 c.p. Si veda Cass. Pen. Sez. I, sentenza n. 16136 del 29.04.25.
[41] Nell’ambito della procedura di riconoscimento della protezione internazionale e tenuto conto delle disposizioni della normativa europea, un paese terzo viene considerato sicuro se, sulla base della situazione giuridica, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica complessiva, non vi sono generalmente e costantemente atti persecutori, tortura o trattamenti disumani o degradanti, né pericolo di vita, a causa di violenza indiscriminata, in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. Il concetto di “paese sicuro” è uno strumento di natura procedurale che è stato introdotto nell’ordinamento italiano dal D.L. 213/2018. Nella sua attuale formulazione l’art. 2bis D.Lgs. 25/08 indica quali paesi di origine sicura: Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d'Avorio, Egitto, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Perù, Senegal, Serbia, Sri Lanka e Tunisia.
[42] Dette ipotesi sono disciplinate dalla previsione di cui all’art. 28bis D.Lgs. 25/08. Ciò determina non solo un tempo più rapido per convocare la persona ed intervistare , ma anche tempi più brevi per l’adozione della relativa decisione. Inoltre, in caso di rigetto dell’istanza esso può assumere la formulazione della manifesta infondatezza, con conseguente dimezzamento dei termini per l’impugnazione e mancanza di sospensiva automatica con la proposizione del ricorso dinanzi la Sezione Specializzata del Tribunale competente.
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