ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Riforma Foti amministratori pubblici esonerati, i cittadini pagano il conto.
Di fronte agli sprechi di risorse pubbliche la risposta alla domanda del cittadino “Adesso chi paga ?” è chiara: “Il cittadino stesso”.
Sommario: 1. Premessa – 2. Consistente limitazione del quantum del danno erariale risarcibile – 2.1. Limite al quantum risarcibile – 2.2. Ulteriore riduzione del limite massimo risarcibile – 2.3. Si sono salvati anche i concessionari di servizi pubblici – 3. Ma non finisce qui – 4. E ancora non finisce qui: dallo scudo alla immunità per gli amministratori pubblici: l’eldorado della componente politica – 4.1. Funzionari e/o dirigenti pubblici: Dalla “paura della firma” alla “paura degli amministratori” [1] - 4.2. Mani legate alle procure… non più tali!
1. Premessa
Prima di addentrarmi nella descrizione di quanto sta accadendo rispetto ai progetti di riforma della magistratura contabile (la Corte dei conti) che procede con iter spedito verso la sua approvazione definitiva, vorrei provare a spiegare anche a chi non è esperto del settore giuridico di cosa si sta parlando, in quanto le modifiche proposte incideranno pesantemente sulla vita quotidiana di tutti i cittadini ed anche degli stessi dirigenti e funzionari pubblici, in modo nettamente peggiorativo.
Per questo proverò a ricorrere ad una similitudine, utilizzando, il meno possibile, termini tecnici.
Tutti o quasi tutti noi cittadini viviamo la esperienza dei “condomini”, con la conseguente necessità di amministrare le parti comuni, affidando la relativa gestione ad un amministratore cui versiamo, a tal fine, una quota di denaro, il cd. onere condominiale.
Laddove l’amministratore gestisca con gravissimo disinteresse, menefreghismo ed ignoranza le risorse finanziarie che ciascun condomino mensilmente versa, sprecando le stesse senza fare eseguire correttamente gli eventuali lavori di cura e manutenzione, sarà possibile agire, da parte dei condomini, contro quell’amministratore per fare valere la sua responsabilità. È di tutta evidenza che quell’amministratore sapendo di “rischiare” anche con il proprio patrimonio personale (ove sia chiamato a risarcire un danno arrecato con negligenza al palazzo), starà attento a che ciò non accada.
Ebbene, medesimo ragionamento, sebbene con riferimento a numeri immensamente più rilevanti rispetto agli importi degli oneri condominiali, va fatto anche per la gestione della pubblica amministrazione affidata a ministeri, comuni, province, regioni, società partecipate da enti pubblici. Anche in tali casi, infatti, i cittadini, pagando le tasse, affidano ad amministratori, dirigenti e funzionari pubblici immense risorse economiche per gestire i servizi pubblici.
Anche in tale caso, allora, ci si aspetterebbe, da parte del cittadino, di potere controllare come quelle risorse finanziarie vengono gestite, di avere la possibilità di far valere la responsabilità risarcitoria dell’amministratore e/o dirigente o funzionario pubblico che, per menefreghismo, negligenza, gravissima ignoranza, spreca quelle risorse, danneggia la collettività consentendo la costruzione di opere inutili oppure di ponti pericolanti oppure non adempia correttamente ai propri doveri verso il cittadino non lavorando o lavorando male con conseguenze quali ad esempio infinite liste di attesa nella sanita, trasporti pubblici inefficienti, strade non curate e piene di buche ecc…
Fino ad oggi, la possibilità di fare valere questo tipo di responsabilità, la responsabilità, cioè, di amministratori e dipendenti pubblici per non avere gestito in modo corretto le finanze della collettività, per avere sprecato le risorse pubbliche, esiste, con la presenza di un pubblico ministero della magistratura contabile (cioè della Corte dei conti) obbligato ad avviare indagini nei confronti di chiunque sprechi le risorse pubbliche e chiamarlo a risarcire i danni arrecati. Il pubblico ministero, in pratica, sostituisce i cittadini nel controllare ed indagare l’operato degli amministratori e funzionari pubblici.
Come per l’amministratore di condominio, dunque, anche per l’amministratore pubblico, rispetto a risorse finanziarie immensamente più grandi (si pensi ai bilanci di comuni come Napoli, Milano, Roma o ministeri vari) può valere, innanzitutto, l’effetto conformativo indotto dalla paura di essere chiamato dal pubblico ministero contabile a rispondere di condotte gravemente inefficienti e disinteressate, dalla paura di rischiare, quindi, il proprio patrimonio personale, così impegnandosi a meglio operare. Laddove, poi, nonostante il pericolo della responsabilità, si operi ugualmente con menefreghismo, disinteresse e scorretta gestione delle risorse pubbliche, entra in gioco l’azione effettiva del pubblico ministero contabile, terzo ed imparziale, che ha l’obbligo, come si diceva, di intervenire a tutela dei cittadini per fare eventualmente condannare chi ha prodotto danni, sprecando le risorse pubbliche, a risarcirli alla collettività danneggiata.
Con la riforma “Foti” che si sta portando avanti, ove definitivamente approvata, non ci sarà più alcuno strumento per tutelare il cittadino dalla gestione negligente e disinteressata delle risorse pubbliche, dallo spreco delle stesse, con un esonero pressoché totale dei “politici” da ogni responsabilità e la conseguente possibilità per gli stessi di gestire a proprio piacimento funzionari e dirigenti pubblici, in violazione del principio della separazione tra indirizzo e gestione.
Come spiegherò meglio più avanti, la riforma in atto mira semplicemente a lasciare mani libere alla componente politica, prevedendo per gli amministratori una “scudo” rinforzato dalla presunzione che agiscano sempre e comunque bene (presunzione della buona fede).
2. Consistente limitazione del quantum del danno erariale risarcibile
Una prima incisiva modifica, come si diceva, è la fortissima riduzione del danno risarcibile da parte di politici, funzionari e dirigenti pubblici, anche nelle ipotesi nelle quali il danno sia il frutto di condotte gravemente negligenti, viziate da gravissima ignoranza, disinteresse e menefreghismo.
Come noto, la pubblica amministrazione è chiamata a gestire risorse finanziare elevate, rappresentate, nella quasi totalità, dalle tasse pagate dai cittadini e, da ultimo, dai finanziamenti straordinari provenienti dalla Unione Europea (il cd PNRR).
Senza dubbio si tratta di una gestione complessa che richiede da un lato, professionalità, preparazione, attenzione e dedizione al lavoro, ma che, dall’altro, induce anche un “timore” in chi opera, proprio in ragione delle elevatissime somme di denaro gestite e delle possibili altrettanto elevate conseguenze in termini di responsabilità che rischia.
Per questo motivo il legislatore, come indicato anche dalla Corte costituzionale, deve individuare un giusto punto di “equilibrio” che riduca la quantità di rischio dell’attività che grava sull’agente pubblico, in modo che il regime della responsabilità, nel suo complesso, non funga da disincentivo all’azione.
Più banalmente, occorre individuare fino a che punto può ritenersi che l’errore ed il conseguente spreco delle risorse pubbliche da parte dei politici e dei funzionari e dirigenti pubblici possa essere “giustificato” e, dunque, non risarcito rimanendo a carico della collettività. Si tratta, cioè, di individuare il punto fino al quale i danni e gli sprechi (somme spese male ed inutilmente) derivanti da negligenza ed errore, ad esempio, nel costruire un ‘opera oppure nel gestire un ospedale o nell’erogare un servizio sanitario inefficiente con ritardi e liste di attesa infinite, possano non essere risarcite dai responsabili rimanendo a carico dei cittadini.
Ebbene, fino ad oggi, il limite oltre il quale si è ritenuto che non sia più scusabile l’errore e che, quindi, chi rompe deve pagare, deve, cioè, restituire ai cittadini le somme pagate inutilmente, le somme sprecate, è stato individuato nel caso in cui il danno sia conseguenza di un errore che sia gravissimo, frutto di disinteresse, grave ignoranza, grave negligenza, menefreghismo.
Pertanto, l’errore che non sia grave, ma che sia giustificato dalla indubbia complessità della gestione e che non derivi da disinteresse, menefreghismo, assenza sul lavoro, ma da oggettiva difficoltà della materia gestita, non comporta la responsabilità del politico o pubblico funzionario ed il danno che ne sarà derivato sarà pagato dai cittadini.
Viceversa, Il politico e/o pubblico funzionario o dirigente che, per gravissimo errore, disinteresse e menefreghismo, utilizza male le risorse che la collettività gli ha affidato per gestire un ospedale e/o un ufficio pubblico e/o un servizio pubblico (raccolta rifiuti, pulizia delle strade ecc..), dovrà risarcire il danno che ne sarà derivato, restituendo ai cittadini le risorse sprecate.
Il punto di equilibrio così definito ha retto per anni, fin dalla sentenza della Corte costituzionale n. 371/1998.
Con la riforma in corso di approvazione, si mira a rompere questo equilibrio in funzione di una ricomposizione dello stesso in differente formulazione, con spiccata tendenza alla deresponsabilizzazione.
2.1. Limite al quantum risarcibile
Innanzitutto, si introduce una drastica limitazione alla risarcibilità del danno derivante da condotte gravemente negligenti e frutto di disinteresse e menefreghismo nella gestione dei servizi e funzioni pubbliche.
L’autore del danno non potrà risarcire, infatti, più del 30% del danno accertato ed i cittadini dovranno pagare il restante 70%.
Per meglio comprendere, se un amministratore pubblico (sindaco, assessore, presidente, consigliere) e/o funzionario o dirigente pubblico, per gravissimo ed inescusabile errore, dovuto, cioè, a gravissima ignoranza, disattenzione e menefreghismo, decide, ad esempio, di pagare milioni di euro non dovuti oppure costruisce un’opera inutile oppure si “disinteressa” di riscuotere i canoni della locazione degli immobili di proprietà dell’ente pubblico (e quindi di tutti noi cittadini), risponderà, nonostante la gravissima e colpevole negligenza, di non più del 30% di quel danno arrecato. Immaginando, pertanto, uno spreco, di 500.000 euro (ad es, si “regala” la gestione di una bellissima abitazione di proprietà dell’ente pubblico a soggetti “amici” impedendo alla collettività di guadagnare il prezzo di una vendita nel libero mercato), l’amministratore e dirigente e/o funzionario colpevole potrà essere condannato a restituire una somma non superiore a 150.000 euro.
Si badi, il 30% è la quantificazione massima, potendo, pertanto, essere condannati a restituire anche una somma inferiore al predetto limite massimo del 30%, ponendo la restante parte del danno (nel nostro caso euro 350 mila ove si giunga a condannare a risarcire la misura piena del 30% del danno) a carico di noi cittadini che in buona fede abbiamo affidato nelle mani di quell’amministratore e/o funzionario pubblico la gestione delle risorse pubbliche versate attraverso il pagamento delle tasse.
2.2. Ulteriore riduzione del limite massimo risarcibile
Il risarcimento potrebbe, poi, essere anche ulteriormente ridotto, laddove quel famoso 30% dovesse essere, comunque, superiore, al doppio della retribuzione di un anno del funzionario o dirigente colpevole oppure superiore al doppio della indennità fruita dall’amministratore pubblico colpevole della spesa.
In tal ultimo caso, infatti, il massimo risarcibile sarà parametrato all’importo della retribuzione lorda annuale (goduta al momento dell’illecito) e non oltre![2]
Nel nostro esempio, dunque, laddove il funzionario o amministratore colpevole fruiscano, rispettivamente, al momento dell’illecito di una retribuzione lorda annuale oppure di una indennità annuale, pari a 100.00 euro, inferiore quindi ad euro 150.000, pari al limite massimo del 30% del danno di cui all’esempio, saranno condannati a pagare un risarcimento non superiore ad euro 100.000/00 (centomila) a fronte id un danno causato pari a complessivi euro 350.000/00!
Con l’ulteriore seguente beffa per il cittadino: la norma proposta fa riferimento “alla retribuzione lorda conseguita nell'anno di inizio della condotta lesiva causa dell'evento o nell'anno immediatamente precedente o successivo”.
Ciò significa che, se quel funzionario o amministratore che ha sprecato soldi pubblici con disinteresse, successivamente alla data in cui ha commesso gli sprechi, ottiene anche un aumento della retribuzione annuale e/o della indennità, il limite al risarcimento non verrà proporzionalmente aggiornato allo stipendio o indennità più alti successivamente conseguiti! Rimarrà fermo, infatti, come parametro del limite del risarcimento massimo imputabile all’autore del danno, l’importo inferiore della retribuzione goduta al momento della commissione dell’illecito.
Dunque, non solo godrà del limite posto in linea generale al quantum del danno risarcibile, ma, nello specifico caso appena sopra descritto, sarà anche parametrato ad una retribuzione inferiore rispetto a quella effettivamente goduta al momento della condanna![3]
2.3. Si sono salvati anche i concessionari di servizi pubblici
La cosa è resa, poi, ancora più grave dal fatto che il grave limite al quantum di danno risarcibile non riguarda solo i politici ed i funzionari e dirigenti pubblici, ma potrebbe intendersi esteso a ricomprendere anche i concessionari e/o controparti contrattuali della pubblica amministrazione.
La norma proposta, infatti, nel quantificare il limite risarcitorio in questione precisa che non può comunque superare il “il doppio della retribuzione lorda conseguita nell'anno di inizio della condotta lesiva causa dell'evento o nell'anno immediatamente precedente o successivo, ovvero non superiore al doppio del corrispettivo o dell'indennità percepiti per il servizio reso all'amministrazione o per la funzione o l'ufficio svolti, che hanno causato il pregiudizio”.
Il riferimento al “corrispettivo” per il servizio, funzione o ufficio svolti, consente di comprendere tra i destinatari del limite in questione anche i concessionari di servizi pubblici della pubblica amministrazione, anch’essi, infatti, soggetti alla possibile azione del pubblico ministero contabile ove sprechino le risorse pubbliche di cui sono, appunto, affidatari (cioè, concessionari).
Si pensi ai concessionari del servizio di gestione del patrimonio immobiliare di un ente pubblico o del servizio di raccolta dei rifiuti.
Ebbene, anche in questo caso, quel concessionario, pur essendo un privato che fruisce di beni e risorse pubbliche, non potrà essere condannato a risarcire un danno che sia superiore al doppio del corrispettivo contrattuale che fruisce per erogare quel servizio pubblico, anche se il danno arrecato alla collettività sarà molto più alto!
3. Ma non finisce qui
Responsabilità a geometria variabile: casi di esonero totale da responsabilità, nei quali il funzionario e/o il politico non è proprio chiamato a risarcire il danno pur se commesso con gravissima negligenza… (caso della ADER -agenzia entrate riscossione;
- del funzionario che conclude accertamenti con adesione, di accordi di mediazione, di conciliazioni giudiziali e di transazioni fiscali in materia tributaria;
- della Rai;
- dell’esonero dal danno per mancata copertura dei servizi minimi;
- dell’esonero da responsabilità per dissesto degli enti locali)
Vi sono casi, introdotti con la riforma in corso, nei quali il funzionario non può essere chiamato a risarcire il danno derivante da spreco inutile di risorse pubbliche, anche se lo ha commesso con una condotta inammissibilmente negligente e menefreghista del pubblico interesse.
Insomma, una responsabilità per danno all’erario a “geometria variabile” con spiccata tendenza all’esonero.
Tra i casi in questione, acquisisce notevole interesse per il cittadino, innanzitutto quello, contenuto nella riforma in esame, relativo alla ipotesi in cui il funzionario e/o dirigente pubblico concluda “procedimenti di accertamento con adesione, di accordi di mediazione, di conciliazioni giudiziali e di transazioni fiscali in materia tributaria” che si rivelino dannosi per la collettività. Si tratta della materia relativa alla gestione delle “tasse” e, più in particolare, dei casi nei quali il funzionario pubblico sbagli, per gravissimo errore, nella gestione del tributo o imposta o tassa a carico di un contribuente, ad es. avvantaggiando indebitamente il contribuente destinatario di quei provvedimenti (si pensi ad una transazione fiscale dannosa per la collettività ma indebitamente vantaggiosa per i contribuente con cui è conclusa), con disparità di trattamento rispetto a tutti gli altri cittadini-contribuenti!
Già esistono, poi, norme, ad oggi in vigore, che prevedono ulteriori casi di vantaggi e forme di irresponsabilità in favore di alcune categorie di dipendenti pubblici: si pensi alla agenzia entrate riscossione (ADER): sono ben noti ai contribuenti i fastidi e le conseguenze in termini di danni patrimoniali che possono derivare da una esecuzione coattiva per cartelle esattoriali illegittime o comunque indebite. Ebbene, con il d.lgs. 110/24 recante “Disposizioni in materia di riordino del sistema nazionale della riscossione”, disciplinante, nello specifico, l’attività della sola agenzia entrate riscossione, si è escluso che si possa agire dinanzi alla magistratura contabile per far condannare ADER 8 ed i relativi funzionari) al risarcimento per i danni arrecati alle casse pubbliche (e quindi alle tasche dei cittadini) a seguito di omissioni, irregolarità e i vizi verificatisi nello svolgimento dell'attività di riscossione, salvo limitate ipotesi elencate tassativamente dalla norma[4]. In pratica se la ADER, agenzia entrate riscossione, pone in essere una esecuzione forzata indebita a danno di un cittadino/contribuente arrecandogli, oltre a gravi fastidi, anche danni patrimoniali, nessun dirigente o funzionario della ADER medesima risponderà davanti alla corte dei conti per quella condotta, anche se gravemente negligente e disinteressata.
Laddove, infatti, il cittadino/contribuente vessato riuscirà ad ottenere il risarcimento del danno che ha patito per quelle esecuzioni fiscali illegittime, quel danno sarà pagato con soldi pubblici e quindi a carico dei cittadini che pagano le tasse, senza che il pubblico ministero contabile possa chiamare in giudizio il funzionario ADER autore della condotta illecita e gravemente negligente per ottenere che restituisca ai cittadini quelle somme!
Si pensi alla Rai: Ai sensi dell’art 64 del d.lgs. 208/2021[5] L'amministratore delegato e i componenti degli organi di amministrazione e controllo della Rai-Radiotelevisione italiana S.p.a non possono rispondere del danno erariale, cioè non possono essere chiamati dal pubblico ministero contabile per essere condannati a risarcire i danni derivanti dallo spreco dele risorse pubbliche che i cittadini versano mediante pagamento del canone Rai! Eventuali spese “pazze”, di ogni genere, sostenute dalla RAI, saranno a carico esclusivo dei cittadini e delle stesse non risponderanno i vertici della RAI.
Si pensi ai politici per i quali:
1) Dl 543/96 art 3 comma 2 ter prevede l’esonero degli amministratori dal danno derivante dalla mancata copertura dei servizi minimi: L'azione di responsabilità per danno erariale non si esercita nei confronti degli amministratori locali per la mancata copertura minima del costo dei servizi[6];
2) Dl 25/2025, nel modificare l’art 248 dlgs 267/00[7], con riferimento alla responsabilità per dissesto dell’ente locale ed alla conseguente ineleggibilità ed incandidabilità decennale comminata ai politici che abbiano causato quel dissesto, ha introdotto una drastica limitazione di siffatta responsabilità, precisando che, ove anche risulti avere causato o concausato il dissesto dell’ente locale, con colpa grave e cioè per condotte gravemente negligenti e disinteressate, con evidente spreco delle risorse dei propri cittadini, non potrà essere condannato alla ineleggibilità ed incandidabilità e, dunque, non risponderà del dissesto, se avrà adottato un piano di riequilibrio finanziario pluriennale approvato dalla Corte dei conti, ai sensi dell'articolo 243-bis, entro due anni dall'insediamento del primo mandato e a seguito di delibera della Corte dei conti ai sensi dell'articolo 148-bis, comma 3, di accertamento di gravi irregolarità o criticità relative agli esercizi precedenti l'elezione. In definitiva, ove anche gli amministratori pongano in essere azioni gravemente negligenti e buttino letteralmente i soldi dei contribuenti dalla finestra causando il dissesto dell’ente locale, potranno comunque andare esenti da ogni responsabilità erariale semplicemente adottando e facendo approvare dalla corte dei conti un piano di riequilibrio, nel rispetto dei tempi normativamente previsti.
Piano di riequilibrio, con il quale, tra l’altro, le tasse, a carico dei cittadini, vengono alzate fino alle aliquote massime.
In questo modo i cittadini sono beffati due volte: non solo l’amministratore in questione avrà sprecato le risorse del bilancio dell’ente provocandone il dissesto (fallimento), senza rispondere di alcunché, ma le tasse, a causa di questa condotta che rimarrà impunita, verranno portate alla aliquota massima, aumentando il peso fiscale sui cittadini medesimi.
A testimoniare quanto la predetta norma sia “parziale” e finalizzata a consolidare la irresponsabilità della sola componente politica, rileva il fatto che analogo esonero da responsabilità non è stato, invece, previsto per i revisori dei conti, per i quali, ove concorrenti al dissesto, permangono, invece, le sanzioni già previste con la norma di cui al comma 5 bis del medesimo art. 248 d.lgs. 267/00.[8]
In un simile contesto normativo, la generale limitazione del quantum del danno risarcibile, unitamente ad ulteriori situazioni particolari nelle quali, viceversa, i funzionari e dirigenti sono totalmente esentati da ogni responsabilità, non vi sarà più alcun incentivo ad agire con diligenza, non vi sarà più il deterrente, rappresentato dalla possibile responsabilità patrimoniale personale, utile ad indurre, chi gestisce le ingenti risorse provenienti dalle tasse pagate dai cittadini, ad agire in modo diligente, in quanto ormai a pagare tutte le conseguenze delle condotte illecite sarà solo “Pantalone”, cioè i cittadini medesimi!
4. E ancora non finisce qui: dallo scudo alla immunità per gli amministratori pubblici: l’eldorado della componente politica
Con recente emendamento il progetto di legge Foti ha anche rafforzato la esenzione della componente politica da ogni responsabilità per lo spreco delle risorse pubbliche, prevedendo in loro favore una presunzione normativa di buona fede.
Si prevede, infatti, che nel caso di deliberazioni di organi collegiali aventi ad oggetto atti che rientrano nella competenza propria degli uffici tecnici o amministrativi, la responsabilità non si estende ai titolari degli organi politici che in buona fede li abbiano approvati ovvero ne abbiano autorizzato o consentito l'esecuzione: a tal proposito si precisa che la buona fede è presunta per legge!
Viene in tal modo “scudata” la posizione della sola componente politica, rispetto a quella di funzionari e dirigenti pubblici, ritenendoli esenti da ogni responsabilità, in quanto si presume la relativa buona fede!
Con una inversione dell’onere della prova normativamente imposto, sarà eventualmente compito del pubblico ministero dimostrare che, nella realtà dei fatti, quella buona fede non esisteva. Ove non si riesca a fornire in giudizio siffatta prova, quel politico non risponderà dello spreco di risorse pubbliche causato! Ne risponderà il solo dirigente o funzionario che ha dato parere favorevole, ma con il limite risarcitorio sopra richiamato, anche se la condotta dello stesso è stata viziata da gravissima negligenza, disinteresse, ignoranza e menefreghismo verso la corretta gestione delle risorse dei cittadini!
Ove, poi, si riesca comunque a provare, da parte del PM contabile, la assenza della buona fede, l’eventuale condanna dell’amministratore pubblico al risarcimento del danno sconterà i limiti quantitativi più volte richiamati e che, nello specifico caso degli amministratori, corrispondono al 30% del danno accertato o, comunque, non superiore al doppio della “indennità” percepita per la funzione svolta.
Ove, infine, dalle condotte dissennate e di spreco ne scaturisca anche il dissesto, ad esempio, del comune, gli amministratori non sconteranno alcuna responsabilità se, prima della formale dichiarazione del dissesto stesso, avranno ottenuto la approvazione di un piano di riequilibrio con il quale, tra l’altro, le tasse verranno portate alle massime aliquote, con conseguente gravissimo aumento del peso fiscale a carico dei cittadini!
4.1. Funzionari e/o dirigenti pubblici: Dalla “paura della firma” alla “paura degli amministratori” [9]
L’ordito normativo, se da un lato tesse uno “scudo” ben attrezzato per la componente politica, dall’altro colloca i dirigenti e funzionari pubblici in uno stato di evidente prostrazione.
Pur prevedendo la più volte menzionata limitazione quantitativa del risarcimento del danno cui possono andare incontro, nel contempo prevede, però, per i soli funzionari e dirigenti pubblici e non anche per i politici che concorrano nello spreco delle risorse pubbliche, la possibilità che gli venga irrogata, per i soli casi più gravi, anche una sanzione interdittiva consistente nella sospensione dalla gestione di risorse pubbliche per un periodo compreso tra sei mesi e tre anni, con conseguente destinazione a funzioni di studio e ricerca ed avvio di un procedimento disciplinare ai sensi dell’art. 21 d.lgs. 165/01[10].
Ne deriva, dal quadro normativo oggetto di proposta, che la posizione di dirigenti e funzionari, al cospetto della componente politica ben scudata da ogni possibile responsabilità risarcitoria e(o sanzionatoria per gli sprechi causati, sarà di evidente debolezza, con la conseguente disapplicazione del principio di separazione tra potere di indirizzo e gestione di cui al d.lgs. 165/01.
La ratio di fondo, dunque, della riforma in commento non è certo quella dichiarata del maggiore efficientamento della corte dei conti, bensì quella di un mal celato obiettivo di deresponsabilizzazione, in primis della componente politica, in favore della quale, non solo si è previsto un sistema ben strutturato di esonero e/o drastica limitazione della responsabilità erariale, senza previsione, nei loro confronti, di eventuali sanzioni interdittive previste, invece, nei confronti di funzionari e dirigenti pubblici autori di ingenti danni erariali, ma sono state, nel contempo, anche gravemente ridotte le conseguenze sanzionatorie originariamente previste per le condotte di spreco causative del dissesto degli enti locali!
V’è da dire, a tal ultimo proposito, che la previsione delle sanzioni interdittive, consistenti, in pratica, nella temporanea sospensione dalla gestione di un certo settore di coloro per i quali sia stata accertata con sentenza una condotta gravemente negligente, rappresenta una misura che, a mio modo di vedere, può giustamente compensare la previsione di un tetto massimo alla risarcibilità, da parte dei dipendenti medesimi, del danno patrimoniale accertato.
Rappresenta, infatti, misura ragionevole il destinare ad altro incarico coloro che diano prova di inefficienza e grave negligenza in un determinato settore di gestione. Si tratta, peraltro, di misura che, se da un lato non incide in modo devastatane sul patrimonio personale, come nel caso di condanne a risarcire danni milionari, dall’altro consente, comunque, di sanzionare chi opera con gravissima negligenza, così da mantenere inalterata la funzione deterrente della responsabilità per danno all’erario, prospettandosi, in caso di condanna per gravissima negligenza, sia il risarcimento di una quota minima del danno (come ampiamente illustrato sopra), ma anche l’eventuale spostamento ad altro incarico, con il rischio di perdere parte del trattamento retributivo accessorio.
Peraltro, la declinazione di siffatta misura interdittiva ben si inquadrerebbe nell’attuale sistema della responsabilità, connotato da un evidente spostamento della attenzione del legislatore dalla posizione del danneggiato, cui va prioritariamente assicurato l’integrale risarcimento del danno patito, alla posizione del danneggiante, rispetto al quale va tenuto in debita considerazione, sotto lo specifico profilo del limite delle conseguenze patrimonialmente rilevanti della responsabilità, il rapporto proporzionale tra l’assunzione delle responsabilità e l’ammontare della retribuzione erogatagli per l’assunzione di quelle medesime responsabilità.
Tuttavia, che la richiamata previsione sanzionatoria accessoria, di cui al DDL Foti, sia relativa ai soli dirigenti e funzionari pubblici e non sia estesa anche ai “politici”, adattandola ovviamente allo specifico ruolo dagli stessi ricoperto, rende il tutto estremamente asimmetrico, costruendo un sistema di immunità per la sola componente politica finalizzato a ricondurre il pallino, non solo dell’indirizzo ma anche della gestione delle risorse pubbliche nelle loro mani.
Il problema principale, però, è che, ormai, rarissimamente si discuterà di risarcimenti di danni erariali, peraltro molto contenuti nel quantum o di sanzioni accessorie interdittive comminate, in quanto, la riforma in commento si spinge fino alla definitiva riduzione al silenzio delle procure contabili!
4.2. Mani legate alle procure… non più tali!
La riforma, infatti, va molto oltre, incuneandosi nel DNA della magistratura contabile per mutarlo definitivamente in qualcosa di diverso, contrario alla nostra stessa amata Costituzione!
Fermi restando tutti i paletti, limiti e scudi previsti alla possibile responsabilità per danno all’erario, si è prevista, mediante un progetto di legge delega, sempre integrato nel Foti, la riorganizzazione della magistratura contabile, con l’evidente fine ultimo di limitare drasticamente, fino alla eliminazione sostanziale, la possibilità di azioni giurisdizionali per responsabilità derivante da sprechi di risorse pubbliche.
Se da un lato, infatti, si ampliano le funzioni di controllo e consultive, definite espressamente prioritarie in sede di delega legislativa, con la conseguenza che gli atti sui quali si interviene in tale specifica funzione saranno totalmente scudati da responsabilità per danno all’erario; dall’altro si verticalizzano le procure erariali, con poteri di accentramento e di avocazione dei fascicoli, di accesso agli atti e addirittura di “cofirma” degli atti di chiamata in giudizio da parte del procuratore generale!
Viene letteralmente stracciata con un semplice tratto di penna la caratteristica fondante di una magistratura che sia davvero tale, la indipendenza, cioè, l’autonomia e terzietà dei magistrati medesimi, subordinando i pubblici ministeri ad un vero e proprio potere di ingerenza dell’unico procuratore generale.
Ove anche i cittadini dovessero denunciare imbrogli e sprechi delle risorse pubbliche da parte di amministratori, dirigenti e funzionari, il pubblico ministero sarà pur sempre soggetto al parere, al controllo, alla valutazione e decisione di un unico soggetto, il procuratore generale, con gravissime ricadute sotto il profilo della assenza di autonomia, terzietà ed indipendenza!
Si giunge, in questo modo, ad impedire la libera ed autonoma azione tipica di una magistratura e del suo potere inquirente, in pratica si trasforma la magistratura contabile in qualcosa che non è più una “Magistratura”, sottraendo alla Repubblica un baluardo, previsto in Costituzione, a difesa del corretto uso delle risorse pubbliche, sostituendolo con una sorta di “amministrazione” e violando di netto gli art. 25 e 107 Cost. Il tutto con una semplice legge ordinaria!
Per ironia della sorte, nel progetto di legge in esame, nel trattare della riforma delle procure, si fa ricorso al termine “procura della Repubblica presso la Corte dei conti”, nonostante si stia trasformando le stesse in qualcosa d’altro, di certo non più “procura della Repubblica”!
Si tratta, forse, di un errore freudiano di chi ha compilato questo incredibile “pastrocchio” a danno di tutti i cittadini della Repubblica, quasi a testimoniare un intimo sussulto della coscienza rispetto alla consapevolezza di avviarsi, in questo modo, ad eliminare il vero baluardo contro gli sprechi delle risorse pubbliche in una nazione, come la nostra, divorata dal debito pubblico!!!
C’è da domandarsi se, una volta ben compreso in cosa effettivamente consista questa riforma della Corte dei conti e le conseguenze concrete cui dà luogo in termini di drastica limitazione della responsabilità per lo spreco delle risorse della collettività, sia ciò che davvero vuole il popolo italiano!
Senza dubbio, al momento, una riforma siffatta fornisce una risposta chiara e netta alla domanda e adesso chi pagherà? che il cittadino si pone, sgomento, di fronte ad intollerabili sprechi di denaro pubblico: Pantalone, cioè gli stessi cittadini, cioè tutti noi!
[1] Si consenta il rinvio a: FERRUCCIO CAPALBO, “Riforma della Corte dei conti: che paghi la collettività i danni causati dai funzionari incapaci - dalla "paura della firma" alla paura che i dirigenti firmino” in LEXITALIA – ottobre 2024.
[2] La proposta normativa è la seguente: 1-octies. Salvi i casi di danno cagionato con dolo o di illecito arricchimento, la Corte dei conti esercita il potere di riduzione ponendo a carico del responsabile, in quanto conseguenza immediata e diretta della sua condotta, : il danno o il valore perduto per un importo non superiore al 30 per cento del pregiudizio accertato e, comunque, non superiore al doppio della retribuzione lorda conseguita nell'anno di inizio della condotta lesiva causa dell'evento o nell'anno immediatamente precedente o successivo, ovvero non superiore al doppio del corrispettivo o dell'indennità percepiti per il servizio reso all'amministrazione o per la funzione o l'ufficio svolti, che hanno causato il pregiudizio.
[3] Vi è, inoltre, una evidente asimmetria con altri settori dell’ordinamento, come quello delle società commerciali. In tale ultimo ambito, infatti, con la recente legge 35/2025, nel modificare l’art 2407 cc, ha posto un tetto al danno dai medesimi risarcibile ove commesso con negligenza. Tuttavia, in questo specifico caso si è fatto ricorso ad un multiplo della indennità percepita molto più alto di quello previsto per i politici ed i funzionari e dirigenti pubblici dal ddl FOTI (pari al doppio della retribuzione o indennità annuale) in quanto va DA UNA MISURA PARI DA QUINDI A DIECI VOLTE IL COMPENSO“…i sindaci che violano i propri doveri sono responsabili per i danni cagionati alla società che ha conferito l'incarico, ai suoi soci, ai creditori e ai terzi nei limiti di un multiplo del compenso annuo percepito, secondo i seguenti scaglioni: per i compensi fino a 10.000 euro, quindici volte il compenso; per i compensi da 10.000 a 50.000 euro, dodici volte il compenso; per i compensi maggiori di 50.000 euro, dieci volte il compenso”
[4] La norma di cui all’art. 6 comma 10 e 11 reca:
Le omissioni, le irregolarità e i vizi verificatisi nello svolgimento dell'attività di riscossione non comportano l'avvio di giudizi di responsabilità previsti dal codice della giustizia contabile, di cui all'allegato 1 al decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174, salvo che in presenza di dolo e con l'eccezione, altresì, dei casi in cui dal mancato rispetto, per colpa grave, delle previsioni:
a) dell'articolo 2, comma 1, lettere a) e b), sia derivata la decadenza o la prescrizione del diritto di credito, per le quote affidate a decorrere dal 1° gennaio 2025;
b) dell'articolo 2, comma 1, lettera b), sia derivata, relativamente agli adempimenti posti in essere a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto, la prescrizione del diritto di credito, per le quote affidate fino al 31 dicembre 2024.
11. Le disposizioni del comma 10 si applicano anche nei casi di riaffidamento ai sensi dell'articolo 5, commi 1, lettera c), e 5.
[5] Art. 64. Responsabilità dei componenti degli organi della RAI-Radiotelevisione italiana S.p.a.
In vigore dal 25 dicembre 2021
1. L'amministratore delegato e i componenti degli organi di amministrazione e controllo della RAI-Radiotelevisione italiana S.p.a. sono soggetti alle azioni civili di responsabilità previste dalla disciplina ordinaria delle società di capitali
[6] Dl 543/96 art 3 comma 2 ter prevede l’esonero degli amministratori dal danno derivante dalla mancata copertura dei servizi minimi: L'azione di responsabilità per danno erariale non si esercita nei confronti degli amministratori locali per la mancata copertura minima del costo dei servizi
[7] Art 248, dlgs 267/00 come modificato dall’art. 8, comma 7, D.L. 14 marzo 2025, n. 25: Fermo restando quanto previsto dall'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, gli amministratori che la Corte dei conti ha riconosciuto, anche in primo grado, responsabili di aver contribuito con condotte, dolose o gravemente colpose, sia omissive che commissive, al verificarsi del dissesto finanziario, non possono ricoprire, per un periodo di dieci anni, incarichi di assessore, di revisore dei conti di enti locali e di rappresentante di enti locali presso altri enti, istituzioni ed organismi pubblici e privati. I sindaci e i presidenti di provincia ritenuti responsabili ai sensi del periodo precedente, inoltre, non sono candidabili, per un periodo di dieci anni, alle cariche di sindaco, di presidente di provincia, di presidente di Giunta regionale, nonché di membro dei consigli comunali, dei consigli provinciali, delle assemblee e dei consigli regionali, del Parlamento e del Parlamento europeo. Non possono altresì ricoprire per un periodo di tempo di dieci anni la carica di assessore comunale, provinciale o regionale nè alcuna carica in enti vigilati o partecipati da enti pubblici. Ai medesimi soggetti, ove riconosciuti responsabili, le sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti irrogano una sanzione pecuniaria pari ad un minimo di cinque e fino ad un massimo di venti volte la retribuzione mensile lorda dovuta al momento di commissione della violazione .Le disposizioni di cui al primo, secondo e terzo periodo del presente comma non si applicano agli amministratori che, nei soli casi in cui la responsabilità sia attribuita per colpa grave, abbiano adottato un piano di riequilibrio finanziario pluriennale approvato dalla Corte dei conti, ai sensi dell'articolo 243-bis, entro due anni dall'insediamento del loro primo mandato e a seguito di delibera della Corte dei conti ai sensi dell'articolo 148-bis, comma 3, di accertamento di gravi irregolarità o criticità relative agli esercizi precedenti l'elezione.
[8] 5-bis. Fermo restando quanto previsto dall'articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, qualora, a seguito della dichiarazione di dissesto, la Corte dei conti accerti gravi responsabilità nello svolgimento dell'attività del collegio dei revisori, o ritardata o mancata comunicazione, secondo le normative vigenti, delle informazioni, i componenti del collegio riconosciuti responsabili in sede di giudizio della predetta Corte non possono essere nominati nel collegio dei revisori degli enti locali e degli enti ed organismi agli stessi riconducibili fino a dieci anni, in funzione della gravità accertata. La Corte dei conti trasmette l'esito dell'accertamento anche all'ordine professionale di appartenenza dei revisori per valutazioni inerenti all'eventuale avvio di procedimenti disciplinari, nonché al Ministero dell'interno per la conseguente sospensione dall'elenco di cui all'articolo 16, comma 25, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148. Ai medesimi soggetti, ove ritenuti responsabili, le sezioni giurisdizionali regionali della Corte dei conti irrogano una sanzione pecuniaria pari ad un minimo di cinque e fino ad un massimo di venti volte la retribuzione mensile lorda dovuta al momento di commissione delle violazioni.
[9] Si consenta il rinvio a: FERRUCCIO CAPALBO, “Riforma della Corte dei conti: che paghi la collettività i danni causati dai funzionari incapaci - dalla "paura della firma" alla paura che i dirigenti firmino” in LEXITALIA – ottobre 2024.
[10] 1-decies Nella sentenza di condanna la Corte dei conti può, nei casi più gravi, disporre a carico del dirigente o del funzionario condannato la sospensione dalla gestione di risorse pubbliche per un periodo compreso tra sei mesi e tre anni. L'amministrazione, conseguentemente, avvia immediatamente un procedimento ai sensi dell'articolo 21 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, da concludere improrogabilmente entro il termine della sospensione disposta con il passaggio in giudicato della sentenza, e assegna il dirigente o il funzionario sospeso a funzioni di studio e ricerca.»
Sommario: 1. La proposta di introduzione del reato di femminicidio – 2. Il quadro delle prime critiche al disegno di legge - 3. Il femminicidio e il femicidio - 4. La responsabilità “di aver a che fare" con il diritto penale - 5. La dimensione politica della ribellione delle donne alla violenza maschile - 6. L’impatto sulla carcerazione a seguito del riconoscimento della rilevanza penale della violenza maschile nei confronti delle donne - 7. L’assenza di uno statuto coerente dei diritti e poteri della persona offesa dal reato e la vittimizzazione secondaria - 8. Note conclusive.
1. La proposta di introduzione del reato di femminicidio
Il 7 marzo 2025, come noto, è stato presentato in conferenza stampa dal Governo il disegno di legge per l’introduzione del reato di femminicidio.
Il disegno di legge formula un delitto autonomo introducendo l’articolo 577-bis nel codice penale che punisce con l’ergastolo «chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità». Con la stessa formulazione si propongono aggravanti per altri reati, come maltrattamenti, atti persecutori, violenza sessuale e lesioni.
Sul piano processuale e organizzativo, il testo mira a potenziare i diritti delle persone offese e dei loro familiari nel procedimento penale attraverso obblighi di informazione fin dal primo contatto con le autorità, il diritto a essere ascoltate dal pubblico ministero e prevede la notifica obbligatoria di atti rilevanti, come le richieste di patteggiamento. Vengono rafforzati i criteri per applicare misure cautelari e introdotti obblighi di comunicazione anche in fase esecutiva, ad esempio in caso di concessione di benefici penitenziari.
La legge prevede, infine, la formazione obbligatoria per magistrati e operatori, per assicurare un approccio competente e rispettoso delle vittime del reato, anche con lo scopo di prevenire ogni forma di vittimizzazione secondaria.
2. Il quadro delle prime critiche al disegno di legge
Le posizioni critiche sul disegno di legge che introduce il reato autonomo di femminicidio si muovono lungo i seguenti assi principali: l’inefficacia strutturale della legge penale per affrontare la violenza maschile nei confronti delle donne, l’abuso del diritto penale e l’incostituzionalità della norma, un protagonismo esacerbato delle vittime di reato, fino a considerazioni generali secondo le quali le ultime riforme in materia avrebbero alimentato la risposta carceraria senza nessun impatto né deterrente né di prevenzione generale, mentre la vittima sarebbe ridotta a oggetto simbolico della legge, privata di agency. Il carcere diventa il principale — e unico — strumento di risposta. La giustizia trasformativa e sociale sarebbe così accantonata a favore di una deterrenza punitiva che non mostrerebbe efficacia concreta.
Insomma, come si legge sempre a ogni proposta di riforma penale sul tema, dalla violenza sessuale allo stalking, il diritto penale alle donne “non serve”, sarebbe la “polpetta avvelenata” cui alcune più ingenue abboccano, e per di più si contrapporrebbe con il movimento abolizionista (del carcere).
Dall’altra parte, giuristi e penalisti evidenziano gravi criticità tecnico-costituzionali. Il nuovo reato è visto come espressione di un uso strumentale del diritto penale a fini di consenso politico, con un effetto simbolico che sovraccarica la macchina giudiziaria già ingolfata. Si sottolinea la vaghezza e l’indeterminatezza della fattispecie incriminatrice introdotta, ritenuta fondata su concetti psicologici e morali (odio, discriminazione, repressione dell’identità) che sarebbero difficili da provare in sede processuale e dunque suscettibili di applicazioni arbitrarie e soggettive.
Secondo questa prospettiva, il d.d.l. presentato ribadirebbe una deriva panpenalista, non solo inefficace e ingannevole, ma anche pericolosa per la tenuta costituzionale del diritto penale in uno Stato democratico, addirittura definita una “ordalia”, una vendetta femminista.
Inoltre, si osserva che, se davvero si volesse punire in modo autonomo l’omicidio motivato da odio verso un’identità, allora sarebbe necessario istituire specifiche figure di reato anche per omicidi omotransfobici, razzisti o abilisti.
Vale la pena ricordare sul punto che in questa direzione andava proprio il d.d.l. “Zan”, che aveva al cuore misure di natura strettamente penale, poiché volto ad ampliare l’ambito di applicazione dei reati attualmente contenuti nella sezione dedicata ai “delitti contro l’eguaglianza”, oltreché a modificare l’art. 1 della c.d. ‘legge Mancino’ (art. 5 del d.d.l.).
Nello specifico, l’art. 604 ter c.p., che già prevede invece un’apposita aggravante – applicabile a tutti i reati, fuorché quelli già puniti con l’ergastolo – che aumenta la pena fino alla metà se i reati sono commessi “per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità”, avrebbe meritato, secondo la proposta di legge, molto sostenuta anche da parte di chi oggi si scaglia contro la formulazione del delitto autonomo e dell’aggravante di femminicidio, l’aggiunta al novero delle possibili discriminazioni che la legge già prende in considerazione (razza, etnia, nazione, religione) quelle, del sesso, del genere, dell’orientamento sessuale, dell’identità di genere e della disabilità (art. 2 e 3 del d.d.l).
3. Il femminicidio e il femicidio
Il termine “femicidio”, dall’inglese femicide, è in uso sin dal XIX secolo e nel Law Lexicon del 1848 compare con il significato di “uccisione di una donna”. Nel contesto del dibattito femminista è impiegato per la prima volta da Diana Russell, scrittrice e attivista, durante la campagna per la costituzione a Bruxelles di un tribunale internazionale sui crimini contro le donne (Russell, Van De Ven, 1976). In tale contesto, secondo Diane Russell, il termine “femicidio” costituiva una valida alternativa al termine “omicidio” per indicare le uccisioni di donne “in quanto donne”: come l’espressione “omicidi a sfondo razzista” (racist murders) evidenzia il razzismo che ispira alcune uccisioni, così, secondo Russell, l’adozione del termine “femicidio” (femicide) e “femicidio nelle relazioni intime” (intimate partner femicide) avrebbe potuto condurre ad una maggiore sensibilizzazione sulle ragioni culturali e politiche che sottendono molte uccisioni di donne da parte di uomini, evidenziandone e denunciandone la motivazione misogina (Russell D. , 2012).
In Messico, l’antropologa e politica Marcela Lagarde ha approfondito e diffuso l’utilizzo del termine femminicidio per indicare il contesto generale nel quale si consumano i femicidi.
Secondo Marcela Lagarde per femminicidio si intende, dunque, l’insieme delle «condotte misogine che comportano l’impunità delle condotte poste in essere, tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una situazione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambini, di sofferenze psichiche e fisiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle Istituzioni e all’esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia» (Lagarde, 2008).
Marcela Lagarde “nominando” tale contesto con il termine femminicidio ha richiamato l’attenzione sulla dimensione sociale e politica che costituisce terreno fertile per la commissione e l’impunità delle violenze maschili nei confronti delle donne nello stato di Chihuahua, in particolare a Ciudad Juárez[1], dove l’entità della questione sociale aveva raggiunto numeri tali da far parlare in Messico e poi in altri paesi dell’America Latina, di una vera e propria “guerra alle donne”, anche se ovunque sono state evidenziate preoccupazioni in merito a una risposta esclusivamente punitiva, scollegata da un rinnovamento socio-culturale (Segato, 2023).
In questa accezione ampia il termine femminicidio è stato sviluppato e utilizzato quale categoria antropologica e sociologica in altre zone del Messico e dell’America Latina, per essere recepito poi in Spagna (Instituto Centro Reina Sofìa, 211, 2007) e in Italia (Spinelli, 2008; UDI, 2004).
Il dibattito conseguente all’affermazione delle parole per nominare l’uccisione delle donne in quanto donne si è spostato anche sul piano di specifiche formulazioni di reati in molti ordinamenti, proprio a partire dai paesi latinoamericani (Toledo, 2013), avviando una riflessione sull’insieme delle pratiche sociali, politiche e pubbliche che di fatto legittimano le violenze maschili nei confronti delle donne in una dimensione di impunità, e sull’opportunità di una formulazione di fattispecie incriminatrici ad hoc, senza trascurare le misure volte ad assicurare l’effettività delle norme introdotte come disposto dalle Corti regionali per i diritti umani e dal Comitato CEDAW.
Il termine “femminicidio” ha trovato progressivamente diffusione anche nel linguaggio comune nel nostro paese, grazie all’instancabile lavoro del movimento delle donne che a partire dal 2009, in occasione dello Shadow report presentato al Comitato CEDAW per i trent’anni della convenzione Onu per l’eliminazione di ogni discriminazione nei confronti delle donne, si è mobilitato affinché la parola entrasse nel discorso pubblico, fino ad entrare ufficialmente anche nel dizionario della lingua italiana per indicare «qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale, allo scopo di perpetuare la subordinazione e di annientare l’identità attraverso l’assoggettamento fisico o psicologico, fino alla schiavitù o alla morte» (Devoto, Oli, 2014).
Nonostante l’innegabile impegno profuso dalle studiose e dalle attiviste femministe a chiarire il significato e la rilevanza dei termini femicidio e femminicidio, il loro recepimento da parte del discorso giuridico è sempre stato particolarmente problematico e anche dileggiato con le stesse modalità che spesso si riservano a chi di noi pretende di essere nominata al femminile.
In Italia, sul piano politico, i termini femminicidio e femicidio sono stati impiegati in modo interscambiabile come etichette giornalistiche da apporre di volta in volta alle più variegate iniziative legislative, a fronte delle quale si registra sempre una diffusa reazione che invoca la generale presunzione di adeguatezza delle norme penali e procedurali vigenti ogni qualvolta, in modo trasversale tra le varie legislature degli ultimi venti anni, sono state proposte norme di diritto penale sostanziale e procedurale, lanciando allarmi per la tenuta del sistema penale liberale classico, percepito come “sotto assedio” dell’Unione Europea che progressivamente potenzia la posizione delle vittime di reato nei procedimenti penali, e come “labirinto intricato” dalle sentenze delle Corti e degli atti internazionali. Indicativo della refrattarietà della dottrina a istanze volte a riequilibrare i rapporti di potere tra uomini e donne costruiti dal diritto è sicuramente il dato storico che i timori di un eccessivo interventismo della Corte europea dei diritti umani si siano diffusi nella dottrina proprio quando i giudici di Strasburgo hanno cominciato ad aprire brecce nel muro di indifferenza che storicamente ha occultato la responsabilità statale dinanzi alle violazioni dei diritti fondamentali delle donne.
4. La responsabilità “di aver a che fare" con il diritto penale
Il disegno di legge che oggi propone, tra l’altro, il delitto di femminicidio, come ogni proposta di legge nel nostro ordinamento, sarà discusso e posto di fronte alle contraddittorie e gravi ulteriori proposte legislative che minano la sicurezza sociale delle donne, per esempio non riconoscendo pienamente diritti e libertà sessuale e riproduttiva o perseguitando in sede civile coloro che cercano di difendere i figli da una genitorialità controllante e coercitiva. D’altro canto, la riforma delle disposizioni in materia di violenza sessuale ha atteso il 1996 per essere approvata ben diciotto anni dopo la proposta di legge di iniziativa popolare, attraversando cinque legislature.
Sulle disposizioni proposte dal disegno di legge, nello specifico, mi sto ancora interrogando e lo sto facendo insieme ad altre donne con cui sono in relazione politica, in particolare le operatrici attiviste, le avvocate e le donne accolte dai centri antiviolenza dell’associazione Differenza Donna: quotidianamente infatti, e a partire dall’esigenza concreta di misurarci con il bisogno specifico, e sempre diverso, di strategie elastiche e ridefinite caso per caso al fine di liberarsi da una situazione di violenza maschile (espressione che ancora ci dice in modo realistico chi agisce la condotta violenta), ci domandiamo “dell’utilità e del danno” delle tante disposizioni introdotte dal 1996 in poi, sulla loro efficacia deterrente, sull’effettività della protezione, sulle dinamiche processuali che continuano a imbrigliare la libertà delle donne e a mortificarne la dignità di soggetto di diritto uguale davanti alla legge[2].
Questa riflessione non può mai ignorare che il diritto penale storicamente ha codificato la violenza maschile nei confronti delle donne, nel senso che ne è stato architrave legittimante, con tracce culturali ancora vivide nella giurisprudenza di merito contemporanea, nella quale a volte riacquistano vigore le motivazioni che fondavano la tollerabilità sociale e giuridica della violenza nei confronti delle donne.
Pertanto, il diritto penale non è il solo strumento da invocare, ma neppure può rimanere ideologicamente esente da riscrittura e nuova problematizzazione e, in particolare, non può restare campo minato che impedisce il pensiero ogni qualvolta siano le donne il soggetto di diritto cui sono riconducibili i beni giuridici di rango costituzionale che si assumono violati.
La legge, in particolare quella penale, in nessun ordinamento ha eliminato la violenza maschile nei confronti delle donne fino alle sue conseguenze letali, così come, del resto, il reato di tortura, laddove introdotto, non ha posto fine alla inumana sopraffazione ai danni di chi rimane nella disponibilità solo della sua nuda vita nelle mani del potere statale, né, d’altra parte, il diritto internazionale e il diritto penale internazionale sono stati capaci di eliminare la guerra e i suoi spietati crimini, ma non per questo è possibile affermare, in tutta onestà intellettuale, che le disposizioni negli ambiti citati non abbiano prodotto un cambiamento degli ordinamenti e delle società attraverso meccanismi che assicurano l’accountability individuale e pubblica.
Non è dettaglio di contorno poi considerare che proclamarsi contro il diritto tout court non ha mai significato per le donne una estraneità del diritto stesso alla propria vita: ogni norma giuridica produce e ha prodotto un impatto su tutte e ciascuna, e non riesco a riconoscere alcun potenziale trasformativo della sola parola “contro” che non si interroga sulla possibilità di una riscrittura delle norme, comprese quelle penali, e non perché io “creda” nel diritto: la responsabilità di mettere mano alle norme, comprese quelle penali, è radicata proprio nella consapevolezza della loro fragilità e vischiosità, così come delle trappole delle procedure, consapevolezza che deriva dalla pratica di avvocata che non consiste, come ci ricorda la Suprema Corte, in una prestazione privatistica, ma in una funzione pubblica strumentale al corretto esercizio della giurisdizione nei confronti di tutte le parti[3], comprese le donne, esposte costantemente a un doppio standard di valutazione in qualsiasi ambito del diritto (civile, minorile, penale, finanche amministrativo) ci muoviamo.
Dunque, insieme all’opportunità o meno della formulazione del nuovo reato o dell’aggravante ipotizzata sarà necessario discutere e ragionare insieme sulle altre norme di diritto sostanziale e processuale necessarie affinché si definisca una cornice più complessa che metta a sistema tutte le modifiche normative che si sono susseguite negli ultimi anni, ma questa volta prevedendo un cospicuo investimento di risorse finanziarie nel sistema giudiziario, in affanno certamente, ma non perché ingolfato dalle denunce delle donne, come si legge da più parti, ma in quanto deprivato di spazi, mezzi, magistrati e personale sufficiente ormai da decenni.
5. La dimensione politica della ribellione delle donne alla violenza maschile
Preliminarmente a qualsiasi considerazione sulla proposta legislativa in questione, per me è importante riflettere sulla reazione scandalizzata che essa ha scatenato e sui tanti luoghi comuni che costantemente ritornano al centro della discussione quando si ripropone il dibattito su legge penale e diritti delle donne.
Innanzitutto, la violenza maschile nei confronti delle donne viene puntualmente mistificata: è bene chiarire che non stiamo parlando di corteggiamenti quando le donne denunciano atti persecutori, non stiamo parlando di litigi e conflitti irrisolti dalla psicanalisi quando le donne si rivolgono alla giustizia penale, non stiamo parlando di libertà sessuale repressa o conservatorismo bigotto quando si pretende di restituire centralità al consenso nelle relazioni sessuali. Bisognerebbe forse cominciare a pubblicare i capi di imputazione oggetto dei processi penali pendenti dinanzi agli uffici giudiziari del nostro paese e ciò per consentire di comprendere in concreto, fuori dagli esercizi di stili, la molteplicità di condotte che le donne ancora subiscono nelle relazioni da parte dei propri partner ed ex partner a prescindere dall’estrazione sociale, culturale e provenienza geografica, età e condizioni materiali.
Sono capi d’imputazione difficili da leggere e a volte anche per l’ordinarietà delle condotte, che spiazza, perché non racconta dell’eccezione, di contesti che si possono allontanare da sé in quanto marginali, che consentono di fare differenze tra chi agisce, subisce e chi legge: sono capi di imputazione che raccolgono fatti che “ci dicono” di tutti e tutte, dello stato delle relazioni nella nostra società, ci parlano dei vicini di casa, degli amici di famiglia, e forse di ciascuno/ciascuna di noi. E questo è faticoso da accettare, quindi si normalizza, si mistifica per non vedere cosa non va non solo nelle relazioni degli altri/e ma anche nelle proprie.
Sono capi di imputazione che, a prescindere dall’esito processuale, comprovano che le donne non accettano più violazioni dei propri diritti e libertà per un tempo prolungato, perché si riconoscono come soggetto e si occupano della realizzazione della propria identità; riconoscono le dinamiche di oppressione che vivono, provano a svelarle stando nella relazione, ma poi si ribellano e “si portano via” da quella situazione, nominandola sempre di più per quello che è: violenza sessista. Altra storia è la nominazione istituzionale che ricevono in risposta ciascuna nella propria esperienza di ribellione.
Non intendo dunque qui scendere nel dettaglio dei fatti oggetto di denuncia, per rispetto di tutte e di ciascuna: dal femminismo ho appreso che la realizzazione piena della mia umanità viene dal riconoscimento della forza trasformatrice della parola usata, da una parte, per “riparare” nella relazione con le altre donne al tentativo di annientamento della propria personalità, dall’altra per ribellarsi politicamente alle forme che assume il patriarcato privato e pubblico.
I fatti di violenza costituiscono il prezzo che le donne pagano per la ribellione dinanzi a chi ne vuole annullare identità e libertà, autodeterminazione e vitalità, sono causa di un trauma loro prodotto deliberatamente mediante condotte che in qualsiasi altro contesto e relazione sociale ormai sono ritenute inammissibili, essendo giunti anche a una censura netta del presunto monopolio statale della forza e della violenza.
Dunque, ciò che mi interessa, al di là di quello che la singola parola racconta, è il coraggio stesso della parola (dal racconto tra le pari alla denuncia in senso tecnico, passando per la rivendicazione pubblica), che fa politica perché apre al mondo ciò che si ritiene debba, ancora, rimanere privato.
Che tale parola femminile di ribellione trovi spazio anche nelle aule giudiziarie penali non può dirsi insignificante passaggio, poiché ha contribuito e contribuisce a ristabilire un equilibrio tra le voci ascoltate che somiglia sempre di più a un’idea di giustizia equa, che quasi mai, come più avanti si approfondisce, sfocia nella detenzione, poiché le pene sono generalmente contenute nelle soglie che ne consentono la sospensione oppure l’applicazione di pene alternative al carcere.
Per l’obiettivo di una giustizia anche per le donne, d’altra parte, lo studio e la pratica processuale non mi consentono di confidare sull’apporto della “dottrina autorevole” che oggi si scandalizza dinanzi alla proposta di una fattispecie incriminatrice che menziona l’odio o la discriminazione verso la donna o la volontà di reprimerne la libertà e l’identità: la pubblica indignazione manifestata mi induce a riflettere infatti sul contributo proprio di tale dottrina alla cultura giuridica che oggi ancora agisce da detonatore di ogni avanzamento sociale e giuridico delle donne dentro e fuori dai tribunali, dentro e fuori dall’accademia, dentro e fuori dai libri sui quali apprendiamo il diritto, e dove si legge che ritenere l’espressione “diritti dell’uomo” non equipollente a “diritti umani” sarebbe solo una questione di moda utile a soddisfare «un esacerbato formalismo femminista»[4].
Quando si parla di uguaglianza giuridica davanti alla legge nel nostro ordinamento, a maggior ragione davanti alla legge penale che, come ci hanno ricordato da più parti proprio negli ultimi giorni, deve essere caratterizzata da tassatività e determinatezza ed è soggetta al divieto di analogia, bisognerebbe partire dall’articolo 575 del Codice penale che, ancora oggi, è formulato prevedendo la punizione di “chiunque cagiona la morte di un uomo”. Questo delitto è spiegato da sempre nei manuali chiarendo che oggetto materiale è “un uomo” che indica ogni “essere umano”, “qualsiasi uomo” e l’evento prodotto è “la morte dell’uomo”, oggetto giuridico è “un altro uomo”, ovvero la vita di cui è titolare “qualunque uomo”[5], senza sentire mai il bisogno di contestualizzare e riattualizzare la formulazione della fattispecie incriminatrice e chiarire che dovrebbe intendersi superata la prospettiva per la quale la nozione di uomo si identifica con quella di essere umano in generale[6].
Sarebbe quindi importante riflettere sulle ragioni storiche, politiche, giuridiche per le quali ancora oggi l’articolo 575 del codice penale sia così formulato e sul motivo per il quale non disturba nessuno/a che la donna non sia espressamente nominata, e ciò costituirebbe riflessione utile anche per il superamento delle logiche binarie, ricorrendo per esempio alla parola “persona”, già usata nel Codice penale per nominare il titolo XII del libro secondo (reati contro la persona), scelta linguistica che ci conferma, insieme agli altri pochi riferimenti alle donne nel codice penale, come individuare quale soggetto passivo del reato l’uomo, piuttosto che l’uomo e la donna o in generale una persona, non è stata storicamente motivata dal registro linguistico all’epoca in uso, (anche perché ci si è interrogati a lungo sulla posizione di soggetto passivo del reato nel caso di uccisione del monstrum partorito “da donna”), ma deliberata decisione dettata dal maggior valore della vita maschile a fronte di quella femminile, per la quale fino al 1981 non valeva nella dimensione privata l’habeas corpus, in quanto esposta all’ira funesta del padre, fratello o marito colpiti nell’onore per l’esercizio della sua libertà non contemplata dall’ordinamento.
6. L’impatto sulla carcerazione a seguito del riconoscimento della rilevanza penale della violenza maschile nei confronti delle donne
Secondo le ulteriori critiche sollevate, la logica sottesa al disegno di legge in esame alimenterebbe politiche di “incarcerazione di massa” così come avrebbero fatto le riforme legislative intervenute in tema di violenza maschile nei confronti delle donne negli ultimi anni. La proposta della pena dell’ergastolo — già previsto nel nostro ordinamento per l’omicidio aggravato — viene letta da molte voci come un arretramento rispetto alle battaglie per il superamento del carcere, e come un’ulteriore manifestazione del populismo penale.
Il movimento abolizionista del carcere e i movimenti femministi si intersecano, e non può essere silenziato con poche battute l’enorme contributo quotidiano da parte femminista a sostenere le ragioni di un superamento del modello carcerocentrico, considerato tutto il compendio di mobilitazione femminista per la denuncia politica di ogni forma di violenza istituzionale.
Tuttavia, invece di duellare “su chi è in possesso della verità” come spesso accaduto tra movimento abolizionista e movimento femminista[7], sarebbe auspicabile riflettere sul fatto oggetto di problematizzazione: quando si discute di politiche pubbliche e di diritto penale in tema di violenza maschile nei confronti delle donne, sarebbe prioritario partire dalle condizioni primarie trasversali e diffuse che rendono le donne particolarmente esposte all'uso della violenza psicologica, fisica e sessuale fino all’uccisione da parte degli uomini. Riprendo sul tema il dubbio che avanzava Gerlinda Smaus la quale sottolinea come ancora agisca da fattore di disturbo nel contesto del movimento abolizionista, che per lo più si mobilita per la liberazione degli “altri” rispetto a chi prende parola, cioè di coloro che, marginalizzati e razzializzati sono più vulnerabili alle pratiche selettive della criminalizzazione e carcerazione, il fatto che le condizioni primarie sottese alla violenza sessista non consentono alterizzazioni, poiché ci dicono di noi tutti/tutte.
La promozione di un quadro normativo effettivo ed efficace anche in termini di deterrenza ci viene indicato dalla Corte europea dei diritti umani, che penso rimanga autorevole riferimento tanto se obbliga l’Italia a punire la tortura[8] quanto se impone l’adozione di norme penali deterrenti in tema di violenza nei confronti delle donne[9], quale uno dei pilastri della politica integrata di prevenzione della violenza maschile nei confronti delle donne. In rapporto a questa finalità si condivide che il sistema delle pene andrebbe superato nelle sue logiche non conformi ai principi costituzionali, e ciò sotto un profilo sistemico e complessivo, anche alla luce dell’esperienza delle donne stesse che, dopo aver denunciato e ottenuto una condanna non possono permettersi la leggerezza del disinteresse, a causa di un diritto delle relazioni familiari tutt’altro che mite. E tuttavia ciò non può significare per l’ordinamento rinunciare a tutelare da violazioni di diritti e libertà fondamentali, ma vanno ridisegnate le forme della reazione dell’ordinamento nel rispetto dei principi costituzionali.
Non corrisponde, inoltre, a un dato di realtà correlare i reati specifici e le misure di protezione introdotti dalle riforme in materia all’incremento della popolazione detenuta, tantomeno è corretto affermare che le misure normative volte a prevenire la violenza nei confronti delle donne si inserisca nella cornice del populismo penale. Sul piano della realtà sociale che si vuole descrivere è bene ricordare che la pena non interessa alle donne che denunciano il proprio partner o ex partner, poiché la motivazione che muove all’accesso alla giustizia è la paura concreta per la propria integrità psicofisica; dunque, primario obiettivo è la prevenzione primaria ossia la protezione da ulteriori forme di violenza che si può concretamente perseguire con divieti disposti dall’autorità giudiziaria. A ciò deve aggiungersi però il superamento di una lettura individualista della violenza maschile nei confronti delle donne e la promozione di sicurezza intesa come risultato della condivisione e della co-gestione dello spazio pubblico nel quale il benessere individuale è tassello del più generale benessere collettivo. Ciò significherebbe rifiutare l’accettabilità sociale delle logiche omertose che spesso, a livello comunitario, intrappolano le donne nelle relazioni violente: per le singole sembra non esserci via di uscita perché c’è un muro di silenzio che giustifica, normalizza e rafforza l’autore aggravandone il controllo e la forza coercitiva. V’è inoltre l’indifferenza e la de-responsabilizzazione collettiva per la sofferenza individuale, di cui ciascuno/ciascuna risponde per non aver fatto abbastanza per prevenire un danno, nella logica stereotipata della considerazione per cui “forse se l’è cercata”, con i suoi comportamenti, con le sue scelte, anche con la sua fragilità, di cui si è sempre un po' colpevoli.
Una volta frenata la condotta violenta, le donne chiedono di essere credute. Chiedono che la propria vita, schiacciata dalla sopraffazione, possa essere riscritta con parole di giustizia. Cercano risarcimento e riparazione, perché questa è la risposta che la cultura giuridica ha formulato ripudiando ogni forma di vendetta e mirando a ricostruire rapporti sociali prima segnati dalla violenza attraverso il riequilibrio e il riconoscimento del danno prodotto, salvo poi tutto ciò essere usato in sede giudiziaria come pretesto per screditare l’attendibilità delle donne che hanno osato chiedere un risarcimento del danno subito. Sul punto, è bene evidenziare che dalle prime attuali documentazioni dei percorsi di recupero dedicati agli autori del reato che ritroviamo nei fascicoli (in attesa di una effettiva implementazione dei percorsi di giustizia riparativa) emerge una generalizzata tendenza a giustificare i comportamenti addebitati al condannato alla luce delle condotte delle donne, facendo “rientrare dalla finestra” tutte quelle argomentazioni colpevolizzanti delle donne faticosamente espunte dal processo penale, interferendo così con l’accertamento dei fatti e delle responsabilità contenuto nelle sentenze di condanna, mai incoraggiando operativamente una dimensione di consapevolezza del disvalore delle condotte commesse, bensì alimentando, al contrario, mistificazioni delle stesse quali reazioni tutto sommato “comprensibili” alla delusione, al rifiuto, alla ribellione delle donne.
È infondato, inoltre, su un piano statistico sostenere che la legislazione penale intervenuta in materia di violenza maschile nei confronti delle donne sia causa in concreto di politiche carcerarie inflazionate: prima del 2001 si interveniva solo quando la condotta era ormai gravissima, quindi non solo prolungando l’esposizione al rischio di atti lesivi della vita, ma anche ricorrendo alla misura cautelare in carcere, cioè con la massima privazione della libertà personale possibile durante il procedimento penale prima dell’accertamento della responsabilità penale.
Solo con la legge n. 154 del 2001 e poi con il decreto-legge n. 11 del 23 febbraio 2009, convertito con modificazioni dalla legge n. 38 del 23 aprile 2009, che ha introdotto il reato di atti persecutori, sono state disciplinate misure che — dopo l’abbandono della custodia cautelare in carcere prevista ex lege per la violenza sessuale, dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale — hanno risposto in modo più articolato e coerente alle esigenze di prevenzione primaria.
Tali misure si collocano nell’ambito di una gradualità effettiva del sistema, da presidiare anche in sede di discussione del nuovo disegno di legge che propone automatismi nella fase cautelare, in quanto ispirata al principio del minimo sacrificio della libertà personale e al principio di adeguatezza, secondo cui la misura deve essere proporzionata alla natura e all’intensità delle esigenze cautelari da soddisfare, in conformità agli articoli 13, primo e secondo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione.
Secondo le statistiche del Ministero della Giustizia, al 31 luglio 2024, su una popolazione carceraria totale di 61.133 detenuti, 15.285 (circa il 25%) erano in custodia cautelare, dato che indica una diminuzione complessiva della percentuale di detenuti in custodia cautelare sul totale della popolazione carceraria, che nel 2010 era il 42% della popolazione detenuta. I dati non ci dicono quanti di questi detenuti lo siano per reati che rilevano in tema di violenza nei confronti delle donne; tuttavia, si consideri che la custodia cautelare in carcere generalmente è risposta, prevista dal codice di procedura penale, alle violazioni delle restrizioni imposte con l’applicazione della misura cautelare specifica del divieto di avvicinamento (art. 282-ter c.p.p.), misura che ha percentuali di applicazione che oscillano da 9,2% fino al 14,9%, mentre l’allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis c.p.p.) rappresenta la quota minore delle misure cautelari (tra il 3,3% e il 5,6% in generale), in calo netto nelle percentuali negli anni recenti (anche sotto l’1% in alcuni casi)[10]. Si consideri che questi dati non sono disaggregati dunque potrebbero riguardare anche situazioni di violenza domestica, per esempio, dei figli contro i genitori.
In generale, rileva evidenziare che si registra una diminuzione significativa del numero assoluto di misure cautelari emesse nel quadriennio 2020–2023 rispetto al biennio precedente e, in generale, secondo i dati statistici disponibili al 31 dicembre 2024, la popolazione detenuta in Italia è costituita da persone perseguite per reati che non riguardano né la sfera familiare né quella interpersonale. I detenuti al 31 dicembre 2024 erano ristretti prevalentemente per reati contro il patrimonio come furti, rapine, truffe (35.287 persone). Seguono i reati in materia di stupefacenti (21.131 detenuti), che da anni costituiscono un asse portante del sistema penale e penitenziario italiano. A questi si aggiungono 9.303 persone detenute per associazione di stampo mafioso (art. 416-bis c.p.), 9.242 per violazioni alla legge sulle armi, 2.716 per reati contro l’ordine pubblico, 11.214 per reati contro la pubblica amministrazione[11]. Questi dati confermano che l’universo penitenziario italiano continua a essere strutturato attorno a reati economici, di criminalità organizzata o di sicurezza pubblica.
Nel 2022 risultano rilevate sul territorio italiano 10.146 notizie di reato a carico di uomini per delitti di atti persecutori, maltrattamenti contro familiari o conviventi, percosse, violenze sessuali, omicidi consumati, diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti, deformazione dell'aspetto della persona mediante lesioni permanenti al viso, costrizione o induzione al matrimonio[12].
Rileva, infine, evidenziare che la maggior parte delle pene di reclusione applicate in caso di condanna per i reati prevalentemente contestati nei casi di violenza maschile nei confronti delle donne sono sotto i due anni, sono sospese, solo a volte condizionate al risarcimento del danno e, fino ai quattro anni beneficiano dell’esecuzione mediante pene alternative (ad eccezione dei reati ostativi, tra cui la violenza sessuale o la violenza assistita di cui all’art. 572 co. 2 c.p.).
Se ne ricava, pertanto, un quadro nel quale la violenza maschile nei confronti delle donne costituisce in realtà una parte minoritaria delle condotte effettivamente punite con il ricorso alla carcerazione.
7. L’assenza di uno statuto coerente dei diritti e poteri della persona offesa dal reato e la vittimizzazione secondaria
Vengo all’ultimo tema toccato dal dibattito in corso, ossia il presunto protagonismo della vittima di reato, denunciato come segno di un arretramento culturale perché restaurerebbe una struttura dei rapporti sociali fondata sul modello della vendetta insieme al correlato paradigma vittimario di analisi dei conflitti sociali.
Il disegno di legge proposto contiene dei meri correttivi, pur fondamentali, a lacune informative del sistema processuale che ancora, dopo i numerosi interventi legislativi, non ha saputo costruire uno statuto sistematico e coerente di diritti, facoltà e poteri per la persona offesa dal reato che rischia di rimanere all’oscuro delle scelte processuali dell’indagato/imputato, anche quando le stesse scelte possano avere un impatto sulla propria incolumità personale.
In questo contesto, il ruolo della difesa tecnica è quello di garantire che il processo penale non si faccia strumento di un nuovo silenziamento istituzionale delle donne, ma sia, al contrario, luogo di riconoscimento della loro parola. Un ruolo che va esercitato non in modo assolutistico o dogmatico, ma nella relazione, nell’ascolto delle scelte soggettive, anche quando consistono nel desistere, nell’arretrare, nel rinunciare. Perché non di rado quelle scelte sono frutto di una sopraffazione ancora in atto, o segnano invece un oltrepassamento, una nuova direzione, una libertà.
Neppure questa scelta è neutra quando a compierla sono le donne. Se una persona offesa da un reato di truffa (art. 640 c.p.) decide di rimettere la querela nei confronti dell’imputato, nessuno si azzarda a generalizzare, sostenendo che “tutte le vittime di truffa mentono”. Al contrario, quando una donna sceglie di non proseguire l’azione penale per violenza subita, sa che quella decisione —mai leggera come non lo è la denuncia querela — avrà un impatto che travalica la sua vicenda personale: alimenterà, suo malgrado, quel senso comune diffuso secondo cui le donne denunciano “strumentalmente”, per vendetta, interesse o calcolo. Una rappresentazione tossica e persistente, che finisce per ricadere su tutte secondo una generalizzazione che non si rileva per altre fattispecie incriminatrici.
L’altra questione sollevata è quella della prevalenza di un paradigma vittimario nella costruzione pubblica dei problemi sociali: un approccio che innegabilmente oggi tende a patologizzare questioni strutturali, a ridurre i conflitti politici ad antagonismi puntuali, privandoli di spessore trasformativo. Su questo, ritengo sia fondamentale chiarire che non è certo addebitabile alle mobilitazioni per politiche sistemiche di prevenzione della violenza maschile nei confronti delle donne l’incapacità politica attuale generalizzata di assumersi la responsabilità collettiva dei conflitti sociali, della loro analisi e della loro trasformazione, anzi, nella mobilitazione politica femminista sulla violenza di genere v’è ancora traccia di una politica delle relazioni e della complessità che altrove è difficile scorgere.
È giunto però il momento di un riconoscimento pubblico alle donne che si ribellano alla violenza della piena dignità di soggetto politico del nostro tempo accantonando l’immagine di simulacro senza voce della miseria femminile che temiamo ricada su di noi ogni qualvolta non mettiamo distanza tra noi e “queste” donne viste solo come oggetto della violenza prima e dell’intervento pubblico poi.
A fronte di violazioni gravi di diritti e libertà fondamentali, quale risposta l’ordinamento dovrebbe predisporre? Tra le righe di tanti commenti critici io leggo chiaramente che quanto le donne denunciano non è riconosciuto, davvero, in termini di compressione di beni giuridici ritenuti da tutelare: in fondo, rimane forte il preconcetto che si tratti “di questioni di famiglia”, di “liti”, di “panni sporchi da lavare in casa”.
Accanto alle fattispecie incriminatrici, sarebbe importante riflettere inoltre anche sui meccanismi normativi e pratici in grado di monitorare e sanzionare l’inadempimento delle autorità pubbliche di fronte alle richieste di protezione in caso di violazione dell’obbligo di dovuta diligenza, comportamenti discriminatori, dilatori, di sottovalutazione o che scoraggino l’accesso alla giustizia da parte della persona offesa. Norme di questo tipo, che spostano il fuoco dell’attenzione sulle responsabilità istituzionali, possono rappresentare un ulteriore importante strumento per promuovere un cambiamento culturale profondo. Un cambiamento che chiami le autorità giudiziarie a riconoscere, non solo nei singoli casi concreti, ma anche nell’operato delle autorità coinvolte le connessioni tra la violenza perpetrata nella dimensione privata e quella tollerata o prodotta in ambito pubblico, interrogandosi sulle strategie per spezzare questa continuità e superare le cattive prassi che ostacolano la protezione effettiva e producono vittimizzazione secondaria.
Quest’ultimo fenomeno tanto è stato documentato, anche in sede istituzionale dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e ogni forma di violenza nei confronti delle donne[13], in particolare in relazione alle cattive prassi delle forze dell’ordine e alla vittimizzazione secondaria nel processo, ma un ulteriore approfondimento meriterebbe anche il ruolo dell’avvocatura, oggi scagliata compatta contro l’ipotesi di un reato autonomo di femminicidio intesa quale tradimento di una prospettiva liberale e garantista del diritto penale, ma che nelle aule giudiziarie perpetua una strategia difensiva basata sul discredito, sulla colpevolizzazione della vittima, sulla mistificazione e sottovalutazione della offensività delle condotte oggetto di accertamento, allorché una difesa tecnica consapevole che riconosce le dimensioni della questione sociale della violenza maschile potrebbe essere di grande ausilio, soprattutto nella fase di attualità delle condotte aggressive: porre un freno ai propri assistiti, non avallarne le motivazioni e definire strategie difensive volte alla maturazione della consapevolezza delle lesività delle proprie condotte non significa non fare gli interessi del proprio assistito o non chiedere l’assoluzione laddove non ci sia la prova della responsabilità. Significa. al contrario, contribuire ai presupposti per un percorso autentico di riparazione e rieducazione.
8. Note conclusive
Non esistono soluzioni semplici a fenomeni strutturali come la violenza maschile contro le donne. Ma è certo che il diritto, anche quello penale, svolge un ruolo che non è mai neutro. E non lo è neppure l’inerzia legislativa o istituzionale così come non lo è un generalizzato rifiuto di definire una condotta offensiva di beni costituzionalmente protetti.
La discussione sull’introduzione di un reato autonomo di femminicidio, con tutte le sue ambiguità, è oggi uno spazio politico che, come a ogni proposta di legge che riguardi il tema, e che attraversano tutte le legislature, problematizza le pratiche politiche e l’esperienza delle donne, ma non può essere abbandonato né derubricato a “discorso populista punitivo”. È un terreno di conflitto simbolico e concreto, che impone di interrogarsi sul senso della giustizia e sul potere che la legge mantiene, a prescindere dal nostro rifiuto, di nominare, proteggere, riconoscere o escludere.
Sostenere la necessità di questa discussione non equivale a negare le contraddizioni del sistema penale né a smettere di lottare per un cambiamento sociale profondo, per la prevenzione, per l’autodeterminazione e la libertà delle donne. Significa, invece, riconoscere che anche il linguaggio della legge è luogo in cui si gioca la possibilità, per le donne, di essere credute, riconosciute e vedersi difeso il diritto a vivere libere dalla violenza. Rifiutarsi di nominare giuridicamente la violenza per ciò che è — esercizio del potere patriarcale, alimentato da odio sessista — significa mantenere agibile il terreno del diritto quale contesto per legittimarla dimenticando che il tentativo di problematizzarla anche in termini di fattispecie giuridiche ha consentito di sparigliare le carte sul tavolo delle relazioni sociali e della pratica processuale.
E perciò, infine, mi chiedo, dopo aver letto tanti articoli e analisi sul disegno di legge in questione: perché l’odio razziale può essere oggetto di accertamento giuridico, e quello sessista no?
Perché si invocano scioperi accademici per l’espressione “limitazione della libertà della donna” nel Codice penale, e non per la riscrittura autoritaria del diritto penale minorile, per l’abuso delle misure penali e amministrative contro dissenso, povertà e migrazioni, per l’assenza di identificativi per le forze dell’ordine, o per lo “scudo penale” loro promesso?
Prima ancora di discutere la perfezione tecnica della formulazione normativa, credo sia urgente interrogarsi su ciò che queste resistenze raccontano. Forse che l’odio per le donne, purtroppo, è più diffuso e socialmente legittimato di quanto siamo disposti/e ad ammettere.
[1] Marcela Lagarde, Los cautiverios de las mujeres. Madresposas, monjas, putas, presas y locas. Coordinación General de Estudios de Posgrado, UNAM. México, 1993; Id, “Género y feminismo. Desarrollo humano y democracia”, in Cuadernos Inacabados, No. 25, 1997; p. 244; Id., “Para mis socias de la vida. Claves feministas para el poderío y la autonomía de las mujeres, los liderazgos entrañables y las negociaciones en el amor”, in Cuadernos Inacabados, No. 48, p.489.
[2] https://www.differenzadonna.org/news/differenza-donna-lancia-il-suo-1-rapporto-nazionale-sulla-violenza-maschile-contro-le-donne/
[3] Cass. Pen., Sez. Un., 27 giugno 2019 (dep. 19 novembre 2019), n. 46994.
[4] Così Zanghì, La protezione dei diritti dell’uomo, Giappichelli, Torino, 2013, p.3.
[5] G. Mantovani, Diritto penale. Parte speciale I. Delitti contro la persona, CEDAM, 2008, p. 95 ss.
F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte speciale. I delitti contro la persona, Milano, Giuffrè, 2006, p. 43 ss.
[6] R. Bartoli, M. Pelissero, S. Seminara, Diritto penale. Parte speciale, Torino, Giappichelli, 2024, cap. I, §3 (edizione online, Biblioteca Giappichelli).
[7] Così G. Smaus, Io sono io, Castelvecchi, 2024, p. 95.
[8] Corte EDU, Quarta Sezione, sentenza 7 aprile 2015, Cestaro c. Italia, ricorso n. 6884/11.
[9] Da ultimo Corte EDU, Quarta Sezione, sentenza 13 febbraio 2025, P.P. c. Italia. ricorso n. 64066/19.
[10] Relazione al Parlamento 2024 ai sensi della legge 16 aprile 2015, n. 47
[11] https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?contentId=SST459008# https://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_1_14_1.page?facetNode_1=1_5_2&facetNode_2=3_1_6&contentId=SST613925&previsiousPage=mg_1_14
[12] https://www.istat.it/statistiche-per-temi/focus/violenza-sulle-donne/il-percorso-giudiziario/denunce-forze-di-polizia/
[13] https://www.senato.it/service/PDF/PDFServer/DF/372013.pdf
Immagine: Henri de Toulouse-Lautrec, Ritratto di Suzanne Valadon, olio su tela, 1885, Museo Nacional de Bellas Artes, Buenos Aires.
Escussione della vittima vulnerabile: è abnorme il rigetto della richiesta del pubblico ministero di procedere con il mezzo dell’incidente probatorio
(commento Cass. SS.UU. 10869-25)
Sommario: 1. La vittima vulnerabile. 2. Le conseguenze del riconoscimento della vulnerabilità della vittima: in particolare, l’escussione mediante incidente probatorio. 3. La richiesta di incidente probatorio e la decisione del Giudice. 4. Le ragioni dell’orientamento finora maggioritario: la discrezionalità del giudice sull’ammissione dell’incidente probatorio. 5. L’orientamento opposto: automatismo decisionale e abnormità del rigetto. 6. La decisione della Corte di Cassazione a Sezioni Unite.
1. La vittima vulnerabile
La nozione di vittima vulnerabile è di recente acquisizione nel nostro codice di rito.
Le norme che ne disciplinano lo statuto sono il prodotto di un processo di crescente attenzione al ruolo della persona offesa nel procedimento penale, consacrato in due provvedimenti legislativi che a distanza di poco tempo, nel 2013 e nel 2015, hanno sensibilmente rimodellato la disciplina delle parti private nel processo e introdotto formalmente il concetto di vittima, fino ad allora assente.
In special modo il secondo dei due provvedimenti menzionati, adottato con d.l. numero 212 del 2015[1], ha per la prima volta introdotto sia il concetto di vittima del reato che quello specifico di vittima vulnerabile, con l’introduzione dell’articolo 90 quater del codice di rito, ricollegando a tale condizione l’adozione di specifiche norme a tutela della sua particolare fragilità.
Come è noto, le norme di nuovo conio hanno previsto due categorie di vittime vulnerabili:
La figura del c.d. “vulnerabile atipico” è dunque individuata in base alla contestazione effettuata dal Pubblico Ministero e recepita dal Giudice, dal momento che è dalla qualificazione giuridica per la quale il fatto di reato è iscritto che discendono rilevanti conseguenze: prima fra tutte il binario privilegiato per la raccolta della testimonianza sia nella fase delle indagini che attraverso il ricorso all’incidente probatorio.
Sulla categoria concettuale della vulnerabilità presunta si sono da subito appuntate le critiche di parte della dottrina (in particolare, Bouchard) che hanno stigmatizzato l’automatismo previsto dalla legge.
Si era infatti sin da principio rilevata la pericolosità di far desumere l'esigenza di protezione della vittima da caratteristiche “specifiche” astrattamente predeterminate anziché accertarla, in concreto, di volta in volta, a prescindere da quelle caratteristiche che qualificano una particolare situazione di vittimizzazione.
Tali argomenti, come si vedrà di qui a breve, sono stati recepiti dalla giurisprudenza di legittimità in tema di accesso all’incidente probatorio, con un orientamento rimasto per lungo tempo maggioritario, fino all’odierno intervento della Corte di cassazione a Sezioni Unite che qui si commenta.
2. Le conseguenze del riconoscimento della vulnerabilità della vittima: in particolare, l’escussione mediante incidente probatorio
Il concetto di vulnerabilità della vittima nasce dalla constatazione, implicita nelle norme ma ben chiara nella mente di tutti gli operatori del diritto, della necessaria “cattiveria” del processo penale, simbolica arena in cui una delle parti – il difensore dell’imputato - ha lo specifico compito di demolire la credibilità del testimone/persona offesa, in adempimento del suo mandato di ottenere una pronuncia assolutoria per il suo assistito.
Dal successo di questa opera legale di decostruzione del racconto testimoniale della vittima, che nei processi per abuso o per quelli connotati da violenza di genere è molto spesso l’unica fonte di prova, discende la neutralizzazione dell’assunto accusatorio e quindi l’assoluzione dell’imputato.
Due interessi in gioco, egualmente meritevoli di tutela, confliggono dunque irrimediabilmente: quello dell’imputato di difendersi e quello della vittima di non subire nuovi traumi, tra cui quello noto come “trauma del processo”.
È noto infatti che, soprattutto nei processi per abuso, l’escussione testimoniale della vittima provoca un fenomeno di vittimizzazione secondaria: il trauma di rivivere in pubblico lo shock subìto provoca un nuovo shock indotto dal processo.
Secondo una definizione della Corte Costituzionale, la vittimizzazione secondaria “è quel processo che porta il testimone persona offesa a rivivere i sentimenti di paura, di ansia e di dolore provati al momento della commissione del fatto” (Corte Cost., n. 92 del 2018).
Per tale motivo, sin dalla prima stesura della Carta di Noto è stata raccomandato di evitare di sottoporre le vittime a reiterate escussioni, anche perché, come recentemente ricordato dalla Corte di Cassazione, “la pluralità delle sue audizioni ne determina necessariamente l'usura” (Cass. Pen., sez. III, n. 32764 dell’11.7.24, rv. 286705).
Proprio con riferimento a questa esigenza il menzionato d.l. 212 del 2015 ha inserito nell’articolo 392 c.p.p. una nuova ipotesi di incidente probatorio, prevedendo che il pubblico ministero – anche su richiesta della persona offesa – o l'accusato possano chiedere che si proceda con tale strumento processuale all'assunzione della testimonianza dell'offeso (art. 1, comma 1, lett. h), d.lgs. n. 212 del 2015 che ha novellato l'art. 392 comma 1-bis cod. proc. pen.).
In questo modo si ottiene il risultato di assumere l’atto in contraddittorio e con valore di piena prova nei confronti di tutti coloro che vi hanno partecipato, in tempi compatibili con la necessaria urgenza della vittima di “andare oltre” lo shock vissuto.
Inoltre, si evita che il trauma di dover ripercorrere in pubblico e davanti ad estranei l’esperienza vissuta sia reiterato nelle diverse fasi del procedimento penale, come normalmente è imposto alle persone offese dal principio fondamentale del processo penale della separazione delle fasi, secondo cui tutti gli atti compiuti nella fase delle indagini preliminari non hanno valore di prova e devono dunque essere ripetuti, davanti al giudice che decide ed in contraddittorio delle parti.
All’anticipazione della prova viene infatti associata la irrepetibilità della stessa sancita dall’articolo 190 bis c.p.p..
Conseguentemente, un nuovo esame della persona escussa sarà ammesso “solo se riguarda fatti o circostanze diverse da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni ovvero se il giudice o taluna delle parti lo ritengano necessario sulla base di specifiche esigenze”.
3. La richiesta di incidente probatorio e la discrezionalità del Giudice
Sin dall’entrata in vigore della nuova previsione di incidente probatorio per i processi con vittime vulnerabili, in giurisprudenza si è creato un contrasto interpretativo simile a quello visto nel precedente paragrafo a proposito dell’automaticità dell’attribuzione dello stigma di vulnerabilità alla vittima.
Ci si è chiesti infatti se, a fronte della richiesta avanzata dal Pubblico Ministero di procedere ai sensi dell’articolo 392 c.p.p., il Giudice sia obbligato ad attivare lo strumento processuale invocato o se conservi un margine di discrezionalità nell’apprezzare sia la effettiva vulnerabilità della vittima che la concreta indifferibilità dell’atto.
Dalla ritenuta necessità di dirimere l’annoso contrasto scaturisce la rimessione alle Sezioni Unite del caso che ha dato origine alla sentenza in commento.
In particolare, nel caso di specie il G.I.P. aveva rigettato la richiesta sulla scorta della considerazione che la presunta vittima, che aveva denunciato un delitto di maltrattamenti in famiglia (reato rientrante nell’elenco di quelli per i quali la vulnerabilità è presunta dalla legge), non potesse in concreto essere definita vulnerabile sia perché maggiorenne, sia perché aveva in precedenza presentato plurime denunce.
Inoltre, paradossalmente, il G.I.P. deduceva la mancanza di vulnerabilità nel caso di specie dalla presenza di plurimi riscontri alla denuncia, in pratica considerando non così indifferibile un’escussione che, seppur fosse stata compromessa dal decorrere del tempo, non avrebbe portato all’assoluzione dell’imputato perché la prova della sua colpevolezza era desumibile da altri elementi in atti.
Avverso il provvedimento di rigetto, il Pubblico Ministero ha proposto ricorso sostenendo l’abnormità del provvedimento, in adesione ad uno dei due orientamenti formatisi in giurisprudenza e fino alla odierna decisione delle Sezioni Unite minoritario.
La Sesta Sezione della Corte, rilevando il contrasto di cui si è detto, ha rimesso la decisione alle Sezioni Unite.
4. Le ragioni dell’orientamento finora maggioritario: la discrezionalità del giudice sull’ammissione dell’incidente probatorio
Secondo l’orientamento finora maggioritario, la nuova previsione dell’articolo 392 c.p.p., prevedendo la possibilità per il Pubblico Ministero di chiedere l’incidente probatorio non in base ai tradizionali caratteri di indifferibilità ed urgenza della prova da assumere ma per la condizione di fragilità della vittima del reato non ha introdotto alcun automatismo, poiché il giudice mantiene la discrezionalità nel decidere se accogliere o meno la richiesta del Pubblico Ministero e gli è anzi demandato un vaglio non solo di ammissibilità della stessa ma di fondatezza delle ragioni addotte.
Il rigetto della richiesta non può essere dunque considerato atto abnorme, sia perché non si pone al di fuori dell’ordinamento processuale, sia perché non determina alcuna stasi del processo, ben potendo l’escussione della vittima essere assunta in un momento successivo, costituito dall’ordinaria fase dibattimentale.
5. L’orientamento opposto: automatismo decisionale e abnormità del rigetto
Di diverso avviso, come si è detto, altre pronunce di merito e di legittimità, secondo cui dalla presunzione di vulnerabilità della vittima, ricollegata alla pendenza di un procedimento per uno dei reati contenuti nelle norme degli articoli 351 e 392 c.p.p., discende l’obbligo di procedere con incidente probatorio quale unico mezzo per evitare la vittimizzazione secondaria.
Proprio perché la vulnerabilità è presunta, non vi è spazio per il giudice per stabilire che nel caso concreto tale condizione non vi sia e dunque vi è l’obbligo di scongiurare la vittimizzazione secondaria anticipando l’escussione della prova alla fase delle indagini preliminari.
Tale orientamento porta alla conseguenza che «è illegittima l’ordinanza che rigetta la richiesta di incidente probatorio sul presupposto che manca l’urgenza e l’atto è rinviabile al dibattimento perché così si trascura il rischio di vittimizzazione secondaria» (tra le plurime pronunce di legittimità che si sono espresse in questo senso, cfr. Cass. Pen., sez. III, n. 34091 del 16.5.19).
Tuttavia, non basta stabilire l’illegittimità di un provvedimento se a tale declaratoria non consegue alcun effetto; e perché si produca qualche effetto occorra, ancor prima, che vi sia la possibilità di impugnare il provvedimento illegittimo.
Poiché, come noto, il nostro sistema processuale prevede la tassatività delle impugnazioni e non è previsto alcun rimedio avverso le ordinanze di rigetto pur essendo queste, secondo la ricostruzione ora riassunta, illegittime, i sostenitori della tesi in esame sono ricorsi alla categoria concettuale dell’abnormità.
Il rigetto sarebbe abnorme, in particolare, perché espressione di un potere astrattamente previsto dal codice di rito, ma in concreto estraneo al sistema processuale, in quanto manifestazione dell’esercizio arbitrario di un sindacato non consentito.
Dal contrasto tra i due orientamenti descritti è scaturita dunque la necessità di un intervento delle Sezioni Unite della Cassazione.
6. La decisione della Corte di Cassazione a Sezioni Unite
Superando il precedente orientamento maggioritario di cui si è detto, la Corte ha stabilito che non vi sono margini di discrezionalità del Giudice, che è dunque obbligato a procedere con incidente probatorio nel caso di richiesta riguardante vittime vulnerabili.
Completamente recepita anche la ricostruzione che ricollega l’illegittimità del provvedimento alla categoria dell’abnormità.
La massima estratta dalla pronuncia in esame non potrebbe essere più chiara sul punto: «è viziato da abnormità ed è, quindi, ricorribile per cassazione il provvedimento con il quale il giudice rigetti la richiesta di incidente probatorio, avente ad oggetto la testimonianza della persona offesa di uno dei reati compresi nell’elenco di cui all’art. 392, comma 1-bis, primo periodo, cod. proc. pen., motivato con riferimento alla non vulnerabilità della persona offesa e alla rinviabilità della prova, trattandosi di presupposti presunti per legge».
La Corte giunge a questa conclusione facendo leva in primo luogo sul dato testuale della norma esaminata: laddove il comma 1 bis dell’articolo 392 c.p.p. prevede l’adozione dello strumento dell’incidente probatorio, nei reati a vittima vulnerabile, “anche al d i fuori delle ipotesi di cui al comma 1” non può che intendere che vi si deve procedere anche in mancanza dei presupposti ivi previsti, che sono appunto quelli dell’indifferibilità ed urgenza.
Conseguentemente, non spetta al giudice sindacare se nel caso di specie l’atto sia indifferibile o meno.
Si tratta, argomenta la Corte, di presunzione juris et de jure, sicché il sindacato del giudice è escluso per legge.
Dopo un articolato richiamo alle pronunce della Corte Costituzionale in tema di vittima vulnerabile ed alle fonti sovranazionali (Convenzione di Lanzarote e pronunce della CEDU), la Corte affronta infine lo spinoso problema, di cui si è detto in precedenza, della mancanza di una previsione espressa di impugnabilità del rigetto della richiesta per il caso di specie.
Ripercorso l’excursus pretorio attraverso cui si è nel tempo affinata la categoria dell’abnormità e la sua distinzione ormai recepita tra “abnormità strutturale” e “abnormità funzionale”, la Corte conclude che nel caso di rigetto della richiesta di incidente probatorio avente ad oggetto la testimonianza della persona offesa di uno dei reati ricompresi nel catalogo di cui all’articolo 392 comma 1 bis del codice di procedura penale, laddove il rigetto sia fondato su valutazioni che attengono alla vulnerabilità della persona offesa ovvero alla non rinviabilità dell’assunzione della prova si rientri nella categoria dei provvedimenti viziati da abnormità strutturale per carenza del potere in concreto.
La scelta di campo operata dalla Corte di Cassazione nella sua espressione massima è dunque quella di garantire la piena tutela della vittima vulnerabile, al punto da comprimere al minimo il sindacato del giudice, ridotto alla sola verifica delle condizioni di ammissibilità.
L’interpretazione consacra dunque e completa il percorso di affermazione del ruolo della vittima nel procedimento penale, compiendo un decisivo passo nel percorso tracciato negli ultimi anni dal legislatore sulla spinta delle fonti sovranazionali.
[1] Si deve invece al d.l. 93 del 2013 l’introduzione degli avvisi alla persona offesa dell’instaurazione del procedimento penale con la modifica dell’articolo 101 c.p.p., la gestione delle misure cautelari (art. 299 c.p.p.) e l’introduzione dell’obbligo di notifica alla persona offesa dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari.
L'immagine è un'opera di Igor Mitoraj.
Cade quest'anno il settantacinquesimo anniversario della CEDU, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre del 1950.
Un anniversario certamente difficile per questo trattato che a buon diritto si considera uno dei sistemi più avanzati al mondo sotto il profilo dei meccanismi di controllo giurisdizionale esercitato attraverso la Corte europea dei diritti dell'uomo la quale grazie a una rigorosa interpretazione delle sue norme e a una coraggiosa giurisprudenza ha stabilito nel corso di decenni alcuni principi che rappresentano riferimenti di immenso valore per tutti i cittadini[1].
Questi ultimi anni hanno visto aggiungersi ai conflitti già in atto, in Africa se ne contano più di una decina, due sanguinose guerre dove il diritto umanitario internazionale è stato sistematicamente violato e dove sono stati commessi efferati crimini di guerra e contro l'umanità.
Il prodotto di tutto questo - o forse la causa - è che i diritti della persona non sembrano avere più alcun ruolo e spazio così come le istituzioni preposte a tutelarli, oggetto di una predicazione sempre più evidentemente volta a denigrarli e a depotenziarli.
Il cammino intrapreso con la Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1948 in realtà non si è mai sostanziato in norme positive tali da consentire ai diritti di essere immediatamente esigibili e da rendere immediatamente sanzionabili le loro violazioni, anche ove poste in essere dai governanti, così lasciando spazio a possibili derive in cui quei diritti restano irrilevanti nell’ambito delle dinamiche dei rapporti di forza e di potere, vulnerando il concetto stesso di democrazia.
La stretta connessione tra diritti umani, stato di diritto e principi democratici sembra essere sempre più misconosciuta sia a livello internazionale che all’interno degli Stati.
Negli ultimi anni gli attacchi al multilateralismo e alle convenzioni internazionali si sono susseguiti portando a intaccare la stessa legittimità del diritto internazionale, come plasticamente rappresentato dall'aggressione e dalla progressiva erosione dei confini dell'Ucraina e da ultimo anche dalle prospettazioni di annessioni della Groenlandia o addirittura del Canada ventilate dal presidente degli Stati Uniti.
Il diritto internazionale, anche venendo a casa nostra e all’onda trumpiana che ormai ci connota, è visto sempre più come un intralcio, come dimostrano le richieste di fuoriuscita da organizzazioni internazionali come l’OMS o di messa in stato d'accusa di altre come la Corte Penale Internazionale.
Ma la lesione dei diritti e una certa insofferenza per qualunque istituzione che pretenda di tutelarli sta assumendo contorni preoccupanti anche a livello interno degli Stati creando preoccupazioni per la stessa tenuta della democrazia
Il segretario di Stato americano Marco Rubio ha diffuso sui social il commento irridente del presidente salvadoregno Bukele (Too Late!) alla notizia che un giudice degli Stati Uniti aveva bloccato l'espulsione di 260 immigrati venezuelani e salvadoregni dagli Stati Uniti, accompagnato dal post dell’immagine dei deportati rasati e ammanettati mani e piedi a bordo di un aereo americano, schernendo il divieto sancito della Corte di Washington che si era pronunciata contro l’espulsione.
Il Presidente USA, rincarando la dose, ha chiesto, con un post violentissimo sul suo social network Truth Social, l'impeachment di James Boasberg, il giudice federale che ha cercato di bloccare l'espulsione dei 260 immigrati accusati dall'amministrazione Trump di essere parte di gang criminali, dichiarando illegale la loro deportazione poiché avvenuta senza il rispetto delle procedure previste dalla legge.
«Questo giudice pazzo della sinistra radicale è un piantagrane e un agitatore, è stato tristemente nominato da Barack Obama ma non è stato eletto presidente, non ha vinto il voto popolare, non ha vinto nulla…. questo giudice, come molti dei giudici corrotti davanti ai quali sono costretto a comparire, dovrebbe essere messo sotto impeachment.»[2]
La questione per cui un giudice ha il peccato d'origine di non essere stato eletto dal popolo, più volte agitata anche dalle parti di casa nostra, oltre ad essere una manifestazione di incultura giuridica e politica, nasconde in realtà un ben più allarmante pensiero.
E cioè che chiunque sia chiamato ad esercitare un potere lo debba derivare dalla elezione popolare e che comunque lo debba esercitare all'ombra e sotto la direzione del potere esecutivo che quel voto ha ricevuto.
Lo scontro tra l'amministrazione di Donald Trump e il potere giudiziario ha raggiunto nuovi e accesi toni con la nota della Corte Suprema degli Stati Uniti, intervenuta in risposta all'attacco specifico a Boasberg ma anche ai vari tentativi del Dipartimento della giustizia e di altri funzionari dell'esecutivo che hanno cercato in vario modo di aggirare o contestare i provvedimenti emessi da diverse Corti che hanno bloccato atti dell'amministrazione Trump ritenuti illegali, tra i quali i licenziamenti in tronco di funzionari pubblici ritenuti non graditi.
Il presidente della Corte Suprema John Roberts ha diffuso una dichiarazione nella quale rappresenta che «da oltre due secoli è stato chiarito che l'impeachment non è una risposta appropriata a un disaccordo su una decisione giudiziaria. Esiste il normale processo di ricorso in appello proprio per questo.»
È, al momento, l'ultimo atto di uno scontro che vede l'amministrazione del neo eletto presidente USA entrare in una pericolosa rotta di collisione con gli organi che rappresentano a vari livelli la giustizia del Paese, davanti alla quale sono stati impugnati gran parte degli ordini esecutivi emessi dalla nuova amministrazione la quale, in risposta, mette in discussione i poteri dei giudici e se ne arroga di nuovi, spesso revocando diritti consolidati[3] e insinuando il dubbio, neanche tanto peregrino, che possa arrivarsi addirittura all'aperto rifiuto di dare esecuzione a sentenze che annullano i suoi provvedimenti
Formalmente questo non è (ancora) accaduto.
Nella vicenda dei migranti deportati la Casa Bianca nega di aver formalmente violato un ordine del tribunale affermando che l'aereo a bordo del quale viaggiavano sarebbe atterrato in Salvador ben prima del pronunciamento dei giudici e che l’azione effettuata risponde ad una competenza assegnata al presidente dall'Alien Enemies Act, una legge del 1798 che attribuisce al capo di Stato poteri straordinari sull'espulsione di cittadini provenienti da paesi in guerra con gli Stati Uniti[4].
E tuttavia la vicenda segna un nuovo momento di scontro dell'amministrazione con le altre istituzioni e, al di là dei suoi aspetti legali, mette in luce la rivendicazione da parte del governo di un'autorità che sembra sempre più intaccare il sistema dei pesi contrappesi che garantisce la democrazia.
A rincarare la dose la portavoce della Casa Bianca Karoline Leavitt ha dichiarato in una nota che le corti federali non hanno giurisdizione sulle decisioni che riguardano la politica estera e tra questi l'espulsione degli stranieri.
La questione, ipotizza il New York Times, finirà probabilmente sul tavolo della Corte Suprema, così come probabilmente avverrà per i provvedimenti adottati per la repressione delle proteste filopalestinesi in diversi Campus universitari, che involgono il diritto costituzionale della libertà di parola e di manifestazione del pensiero; o per quelli di chiusura di servizi di informazione[5] o di definanziamento[6], tutti atti adottati esercitando un potere sempre più personalizzato ed alimentando la contrapposizione tra le posizioni MAGA e un apparato istituzionale sul quale sempre più chiaramente viene scaricata la colpa dei problemi del paese.
E dunque, mentre gli esperti osservano con preoccupazione il profilarsi di una crisi costituzionale che rischia di condurre il paese in un territorio inesplorato con un presidente che sfida apertamente il sistema di pesi e contrappesi con cui la costituzione - come quelle di tutti i Paesi democratici - stabilisce e perimetra raggio d'azione e confini tra i principali poteri dello Stato, sembrerebbe che alla magistratura sia rimesso il compito di ripristinare legalità e tutela dei diritti.
E di verificare di quali anticorpi sia munita la democrazia di quel Paese e della democrazia in generale.
Colpisce nei recenti fatti francesi che la stampa non abbia registrato alcuna corretta e legittima critica alla sentenza, posto che l’unica accusa al provvedimento è stata quella di essere espressione della politicizzazione della magistratura, colpevole di privare il popolo di giuste future elezioni, ledendo i diritti della democrazia.
Accuse che hanno ricevuto il plauso del presidente Putin.
E dunque il compito collettivo di ripristinare la legalità, e anche un buon galateo istituzionale, non è facile.
Anche perché anche la magistratura è gravata dalle fratture interne e dai problemi di immagine che affliggono tutte le istituzioni statali, comprese quelle politiche.
E tuttavia può dirsi, a voler essere ottimisti, che i segnali che arrivano dal contesto internazionale in questi giorni possono essere letti positivamente.
Basta guardare a quanto sta accadendo in Turchia, dove nonostante la conferma della misura custodiale, la magistratura ha prosciolto Imamoglu dalle accuse di terrorismo; o in Israele dove si susseguono, mentre la folla protesta nelle strade, le impugnazioni del licenziamento in tronco del capo dello Shin Bet Ronald Bar; e, per quanto riguarda il ruolo della magistratura, disprezzata e umiliata da una pessima riforma della giustizia, il ruolo che sta svolgendo la Procuratrice Generale Ghali Baharav-Miara e le dichiarazioni pubbliche del presidente Herzog che in un video rilanciato da Times of Israel afferma che nessun governo può ignorare le sentenze dei giudici senza apportare una ferita mortale alla democrazia: «gli eletti ubbidiscano alle decisioni dei tribunali, gli israeliani potrebbero arrivare a smantellare il nostro paese.»
La massima potrebbe essere questa: se la Magistratura è l’istituzione alla quale gli atti fondanti delle democrazie hanno affidato il controllo della legalità in tutti gli aspetti della vita del paese, attaccarle, denigrarle ed affondarle non giova al bene della democrazia e alla fiducia che in esse i cittadini devono nutrire, fiducia senza la quale le democrazie sono in pericolo.
È questo il messaggio che trasmette il Global Democracy Index 2024 pubblicato a fine febbraio di quest’anno e che valuta 167 paesi e territori, su una scala che prende in considerazione il processo elettorale, il pluralismo, il funzionamento del governo, la partecipazione politica, la cultura politica e le libertà civili.
Secondo l'indice dell’Economist, ormai da 10 anni il livello di democratizzazione degli Stati del mondo è in continuo declino, la media globale dell'indice di democrazia è sceso al minimo storico, in calo rispetto al 2015, prospettando un quadro secondo cui, mentre le autocrazie sembrano guadagnare forza, le democrazie mondiali stanno faticando, sotto il peso sempre più forte del sentimento generale di disillusione per le istituzioni democratiche che contribuisce a far crescere populismo disimpegno politico e polarizzazione.
Nel ranking internazionale il nostro Paese ha un trend negativo rispetto allo scorso anno perché, pur migliorando sul criterio della funzionalità del governo, registra un declino dovuto principalmente all'andamento al ribasso di due dei 5 criteri dell'indice ovvero la cultura politica e le libertà civili.
Dati che impongono una seria riflessione da parte di tutti, nessuno escluso, prima che sia troppo tardi.
[1] CeSPI – Futura Network - F. De Robilant, Marzo 2025.
[2] Riportato da Il Sole 24 Ore – Mondo, 18.3.2025.
[3] Così i provvedimenti di espulsione di residenti in regola con il visto e possessori di green card nonché l'arresto di Mahmoud Kahlil anche lui possessore di green card consolidata, le cui condotte sono state considerate un rischio per la sicurezza nazionale per aver animato le proteste nel campus della Columbia University in sostegno alla causa palestinese contro la guerra a Gaza.
[4] L’Atto è stato azionato durante la Seconda guerra mondiale per espellere i cittadini italiani e giapponesi mentre il conflitto era in corso.
[5] Voice of America, Radio Free Europe, Radio Liberty.
[6] Alla Columbia University sono stati tagliati tout court ingenti fondi federali perché l'istituzione viene accusata di non aver fatto abbastanza per proteggere gli studenti ebrei da quella che è stata definita “violenza antisemita” dimenticando che alla protesta partecipavano anche studenti israeliani.
Immagine: Joe Ravi, Panorama of the west facade of United States Supreme Court Building at dusk in Washington, D.C., United States of America, via Wikimedia Commons, CC-BY-SA 3.0.
Sulla dichiarazione di ripudio del fascismo nella richiesta di concessione di spazi pubblici (nota a Cons. Stato, Sez. II, 19 settembre 2024, n. 7687)
di Alice Cauduro
Sommario: 1. Il caso di specie. – 2. L’attuazione del divieto della “riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista” nella concessione di spazi pubblici: la ricostruzione della giurisprudenza amministrativa. 3 – Cenni conclusivi sulla pubblica amministrazione nella ‘ispirazione antifascista nella nostra Costituzione’.
1. Il caso di specie.
Con la sentenza del Consiglio di Stato qui commentata il giudice amministrativo torna ad affrontare il tema dell’applicazione da parte della pubblica amministrazione della XII Disposizione transitoria e finale della Costituzione della Repubblica italiana secondo cui “È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista” (comma 1).
La vicenda da cui origina il ricorso riguarda la contestata legittimità della delibera n. 781 del 19 dicembre 2017 della Giunta del Comune di Brescia, avente ad oggetto “Indirizzi in merito alla concessione di spazi ed aree pubbliche, sale ed altri luoghi di riunione di proprietà comunale”, per la previsione in essa contenuta dell’obbligo di allegare alla richiesta di concessione di spazi pubblici anche una esplicita dichiarazione di ripudio del fascismo.
Con la suddetta delibera il Comune di Brescia ha stabilito “l'obbligo di allegare alla domanda di concessione per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche e l’utilizzo di sale ed altri luoghi di riunione di proprietà comunale [anche] una dichiarazione esplicita di adesione ai principi della Costituzione” (pp. 3-4). La deliberazione prevede che alla richiesta si alleghi una dichiarazione “che contenga i seguenti impegni del richiedente: di riconoscersi nei principi e nelle norme della Costituzione; di non professare e non fare propaganda di ideologie neofasciste e neonaziste, in contrasto con la Costituzione e la normativa nazionale di attuazione della stessa; di non perseguire finalità antidemocratiche, esaltando, propagandando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione o denigrando la Costituzione e i suoi valori democratici fondanti” (pp. 2-3).
Trattasi di indirizzi espressamente finalizzati alla concreta attuazione del citato comma 1 della XII Disposizione transitoria e finale della Costituzione italiana, nonché della relativa normativa attuativa[1].
Dalla deliberazione emerge che l’esigenza del Comune di Brescia di adottare tali indirizzi è sorta a seguito di episodi di manifestazioni di ideologia nazista e fascista ed è avvertita anche in altri Comuni tanto da portare gli stessi all’adozione di analoghi atti[2]; in effetti, tra gli altri, anche i Comuni di Pavia, Siena, Prato, Firenze, Torino, di recente si sono mossi in tal senso[3]. Una deliberazione dal contenuto simile a quella impugnata davanti al Tar Lombardia è stata approvata anche dal Comune di Rivoli e ha dato origine ad analogo contenzioso innanzi al Tar Piemonte, richiamato nella pronuncia che qui si commenta (sul punto infra § 2).
Nel caso qui esaminato l’associazione CasaPound, tramite il suo legale rappresentante, lamentava l’imposizione dell’obbligo previsto dalla delibera comunale, in quanto asseritamente lesivo della libertà di manifestazione del pensiero dell’associazione e dei suoi aderenti, nella parte in cui si chiede di allegare alla domanda una dichiarazione – ad avviso dell’associazione ricorrente – in grado di “compromettere le proprie convinzioni” con condividendo l’associazione stessa i “presunti valori dell’antifascismo”, senza che ciò significhi che essa non rispetti la Costituzione italiana e il metodo democratico da essa individuato[4].
Nella ricostruzione del fatto il giudice di prime cure (Tar Lombardia, sez. II, Brescia, 26 gennaio 2020, n. 166) riportava gli argomenti della ricorrente a sostegno del ricorso per l’annullamento della delibera, specie laddove sosteneva che la deliberazione di indirizzo impugnata violasse diversi diritti e libertà fondamentali (artt. 2, 3, 17, 18, 21 e 49 Cost.) e che «l’unico limite opponibile alle libertà costituzionalmente tutelate di cui alle norme ricordate sarebbe quello rappresentato dall’obbligo di rispetto dell’ordine pubblico e, conseguentemente, di tenere riunioni pacifiche e senza armi, di dare il preavviso all’autorità e di rispettare i limiti imposti dalla legge penale»; che «la pretesa di ripudiare il fascismo non avrebbe nulla a che vedere con tali prescrizioni e con il loro rispetto da parte del richiedente. In ogni caso, una tale dichiarazione sarebbe del tutto inutile, in quanto non preserverebbe la società da comportamenti riprovevoli come quelli xenofobi, omofobi, razzisti ecc»; infine, rilevando i vizi di violazione di legge ed eccesso di potere, l’associazione affermava che «la famigerata professione di antifascismo […] perseguirebbe una finalità del tutto estranea a quella che deve perseguire il Comune nella sua azione amministrativa, limitata dalla legge statale ad alcune specifiche materie. Allo stesso modo, quindi, l’utilizzo delle attribuzioni amministrative per subordinare l’accesso dei cittadini alle strutture e agli spazi pubblici a tale aberrante condizione costituirebbe uno sviamento del potere amministrativo, che sarebbe utilizzato per finalità che non sono quelle sue proprie».
In primo grado i giudici amministrativi respingevano il ricorso premettendo anzitutto che il “riconoscersi nei principi e nelle norme della Costituzione italiana” e il “ripudio del fascismo” costituiscono un’endiadi, «nel senso che l’adesione ai principi e alle norme costituzionali non è scindibile rispetto al ripudio del fascismo e del nazismo»[5].
Escludevano poi la violazione del «principio di uguaglianza e dei diritti di riunione e associazione anche in partiti politici» in quanto la «dichiarazione richiesta dal Comune non pregiudica in alcun modo la costituzione dell’associazione, ma solo, eventualmente, la possibilità per la stessa di utilizzare gli spazi pubblici del Comune di Brescia».
Non vi sarebbe neanche violazione della libertà di manifestazione del pensiero in quanto l’amministrazione locale non impone una “proclamazione di pensiero” ma impone «una condizione specifica all’utilizzo da parte dei privati dei beni pubblici, rappresentata dall’impegno a non destinarli a scopi non in contrasto con la Costituzione, quali quelli propri di un soggetto che non prenda le distanze dal pensiero fascista».
Gli stessi giudici ravvisavano altresì il rispetto del principio di ragionevolezza nella scelta di «precludere l’utilizzo di beni pubblici a soggetti che non intendano "respingere decisamente" il fascismo e il nazismo e cioè due ideologie i cui ideali e principi si pongono in reciso contrasto con i valori costituzionali, tra cui, in primo luogo la libertà di pensiero e di parola».
Sarebbe rispettato anche il principio di proporzionalità in quanto la richiesta di dichiarazione è preordinata «all’acquisizione di garanzie atte ad assicurare che l’uso del bene pubblico non sia strumentale all’esercizio di attività non rispettose dei principi costituzionali e, in particolare, del divieto di ricostituzione del partita fascista e di fare propaganda filo-fascista».
Riconoscevano così la legittimità degli indirizzi in tal senso adottati dalle pubbliche amministrazioni, affinché, «nell’esercizio della discrezionalità che gli è propria, abbiano cura di evitare che i beni pubblici possano essere utilizzati per scopi non conformi alla Costituzione, a prescindere dall’innegabile e aggiuntiva possibilità di intervenire, in esito all’esercizio dell’attività di controllo, con provvedimenti dichiarativi della decadenza immediata dalla concessione nel caso di turbativa dell’ordine pubblico legata a condotte del concessionario»[6].
E, in effetti, la pubblica amministrazione ha sempre il potere «di adottare, in caso di inosservanza degli obblighi del concessionario, i provvedimenti sanzionatori previsti dalla legge […], nonché, in particolare, […] la potestà, di carattere generale, di pronunciare la revoca della concessione tutte le volte che ragioni di interesse pubblico, e in particolare ragioni istituzionali per l’ente concedente, in relazione al bene, lo esigano»[7].
Come non può limitarsi «la libertà di pensiero, che peraltro non può giustificare comportamenti contrari alla Costituzione e alla legge, nemmeno può limitarsi il potere dell’ente pubblico di perseguire l’interesse collettivo alla cui tutela è preposto, escludendo da un uso esclusivo dei beni pubblici soggetti che si facciano portatori del pensiero fascista e che per la sua tutela e diffusione potrebbero avvalersi degli stessi beni sottratti all’uso della collettività». E, in effetti, da tempo si è evidenziato che nell’amministrazione dei beni pubblici «è il demanio comunale a spiccare per l’importanza dei suoi collegamenti con i bisogni collettivi della comunità locale»[8].
Di diverso avviso i giudici amministrativi siciliani che in quegli stessi anni si sono trovati a decidere della legittimità di provvedimenti di diniego di occupazione temporanea di suolo pubblico subordinata alla dichiarazione di ripudio del fascismo. In quei casi, infatti, i giudici avevano sostenuto l’illegittimità di tali provvedimenti per lesione del c.d. diritto al silenzio laddove «impone al richiedente la concessione di suolo pubblico di effettuare affermazioni che appaiono, almeno in parte, lesive del diritto inviolabile (ai sensi dell’art. 2 Cost.) alla libertà di manifestazione del pensiero sancita dall’art. 21 Cost. nella parte in cui tutela anche la libertà di pensiero e il diritto al silenzio, cioè a non manifestare le proprie convinzioni», dal momento che «le limitazioni alla libertà di cui all’art. 21 Cost. che discendono dall’ordinamento costituzionale e, in particolare, dalla XII disp. trans. della Cost. non si riverberano sulla libertà di formazione del pensiero nel cosiddetto “foro interno”, […] in disparte ogni considerazione in ordine all’assoluta impossibilità di controllare quest’ultimo, è la connotazione pubblica della manifestazione del pensiero a delineare la rilevanza penale delle condotte tipizzate dalla legge Scelba (n. 645 del 20 giugno 1952) secondo l’interpretazione del giudice costituzionale (Corte cost. 25 novembre 1958 n. 74)»[9]. Tali considerazioni non sono condivise dalla pronuncia del Consiglio di Stato qui commentata.
2. L’attuazione del divieto della “riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista” nella concessione di spazi pubblici: la ricostruzione della giurisprudenza amministrativa
Sulla legittimità della concessione di spazi pubblici condizionata alla dichiarazione esplicita di ripudio del fascismo si era espresso in modo analogo, invece, il Tar Piemonte, Sez. II, 18 aprile 2019, n. 447 l’anno precedente, su ricorso presentato dalla stessa associazione Casa Pound, con riferimento al provvedimento del Comune di Rivoli che aveva rigettato l’istanza di occupazione temporanea di suono pubblico presentata dalla suddetta associazione.
Anche in quel caso la ricorrente aveva sostenuto che l’amministrazione locale «non può imporre ai cittadini di aderire a non meglio identificati “valori dell’antifascismo” che non sono richiamati in alcuna parte del testo costituzionale, né a “ripudiare il fascismo e il nazismo”, atteso che il ripudio attinge alla sfera interna dell’individuo, che non può essere coartata dall’amministrazione in assenza di comportamenti e manifestazioni esteriori che si pongano in contrasto con le norme costituzionali o con le leggi dello Stato»[10].
Il giudice amministrativo in quell’occasione aveva evidenziato che «i valori dell’antifascismo e della resistenza e il ripudio dell’ideologia autoritaria propria del ventennio fascista sono valori fondanti la Costituzione repubblicana del 1948» e che il «limite alla libertà di manifestazione del pensiero, di riunione e di associazione degli individui» non possono esplicarsi «in forme che denotino un concreto tentativo di raccogliere adesioni ad un progetto di ricostituzione del distolto partito fascista».
Anche in quella vicenda il giudice amministrativo aveva ritenuto non irragionevole la richiesta dell’amministrazione, nel valutare la meritevolezza del’interesse dedotto, «della dichiarazione di impegno rispetto dei valori costituzionali e, in particolare dei limiti costituzionali alla libera manifestazione del pensiero connessi al ripudio dell’ideologia autoritaria fascista nell’adesione ai valori fondanti l’assetto democratico della Repubblica italiana, quali quelli dell’antifascismo e della resistenza».
In quel caso l’associazione CasaPound aveva reso una dichiarazione diversa da quella richiesta espressamente dal Comune, omettendo «volutamente, la parte di dichiarazione relativa al ‘ripudio del fascismo e del nazismo’ e all’adesione ‘ai valori dell’antifascismo’». Tuttavia, secondo i giudici, «dichiarare di aderire ai valori della Costituzione, ma nel contempo rifiutarsi di aderire ai valori che alla Costituzione hanno dato origine e che sono ad essa sottesi, implicitamente ed esplicitamente significa vanificare il senso stesso dell’adesione, svuotandola di contenuto e privandola di ogni valenza sostanziale e simbolica». Così, anche in quel caso, il ricorso era stato respinto considerando legittimo il diniego di concessione del Comune che, «a fronte dell’assenza di un effettivo impegno della ricorrente al rispetto dei valori costituzionali dell’antifascismo, ha ritenuto insussistenti i presupposti di interesse pubblico per la concessione di spazi pubblici per finalità private di propaganda politica».
Tale impostazione è ripresa dal Consiglio di Stato nella pronuncia qui commentata che – nel rigettare il ricorso presentato dall’associazione Casa Pound per la riforma della sentenza del Tar Lombardia sopra ampiamente richiamata – ha anzitutto ricordato l’orientamento della giurisprudenza amministrativa secondo cui la concessione di spazi pubblici, in quanto comporta un utilizzo a fini privati di aree o locali che vengono sottratti all’uso comune, «è espressione di una potestà ampiamente discrezionale, sia nell’an, sia nella definizione di tempi, modi e condizioni dell’occupazione»[11].
Sicché – afferma il Consiglio di Stato – nell’esercizio del potere comunale di stabilire i criteri per l’occupazione di spazi pubblici «l’amministrazione ben può perseguire l’obiettivo di evitare che essi vengano utilizzati per il perseguimento delle finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, ovvero per la pubblica esaltazione di esponenti, principi, fatti, metodi e finalità antidemocratiche del fascismo - comprese le idee e i metodi razzisti - o ancora per il compimento di manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste».
Trattasi, secondo i giudici, di un «obiettivo di sicuro interesse pubblico, alla luce di quella che la Corte costituzionale ha definito ‘l’ispirazione antifascista nella nostra Costituzione’[12]». La riconosciuta ‘matrice antifascista’ della Costituzione repubblicana emergerebbe sia dalla sua genesi sia «soprattutto dalla sua struttura e dal contenuto», attesa la discontinuità delle norme e dei principi costituzionali rispetto a quelli del regime precedente[13], in questo senso il primo comma della XII disposizione non è da intendersi come norma meramente “transitoria”, come ampiamente sostenuto dalla dottrina e giurisprudenza[14]. Secondo la ricostruzione argomentativa dei giudici di secondo grado, la XII disposizione – in deroga all’art. 49 cost. che riconosce il diritto di tutti i cittadini di associarsi liberamente in partititi, nonché degli artt. 17 e 21 Cost. che sanciscono la libertà di riunione e di manifestazione del pensiero – è volta a «scongiurare un ritorno ‘sotto qualsiasi forma’ del fascismo, che segnerebbe la fine dell’esperienza democratica con essa iniziata e il disconoscimento dei diritti e delle libertà che le sono proprie». E a tale previsione ha inteso dare attuazione il legislatore anzitutto con la legge del 20 giugno 1952, n. 645 (c.d. legge Scelba), seppure – come già ricordato dal giudice amministrativo – senza voler offrire un’attuazione limitata alla repressione penale, poiché questa «va estesa ad ogni atto fatto che possa favorire la riorganizzazione del partito fascista»[15].
Proprio considerando tale finalità nella pronuncia qui commentata i giudici hanno affermato che «l’obbligo posto dalla giunta del Comune di Brescia non può dirsi sproporzionato» […] e «anche la parte di dichiarazione contestata dall’associazione appellante – lungi dal rappresentare una sorta di ‘professione di fede’ o un giuramento di fedeltà fine a sè stessi – debba intendersi come strettamente correlata all’uso dello spazio pubblico di cui si chiede la concessione, fondandosi sulla presunzione non irragionevole che chi si rifiuti di ripudiare il fascismo, e quindi mantenga un legame con quell’esperienza, possa poi utilizzare quello spazio per perseguire finalità antidemocratiche».
Il ricorso è perciò respinto condividendo gli argomenti dei giudici di prime cure e riportando espressamente quello secondo cui: «se non può essere limitata la libertà di pensiero, che peraltro non può giustificare comportamenti contrari alla Costituzione e alla legge, nemmeno può limitarsi il potere dell’ente pubblico di perseguire l’interesse collettivo alla cui tutela è preposto escludendo da un uso esclusivo dei beni pubblici soggetti che si facciano portatori del pensiero fascista e che per la sua tutela e diffusione potrebbero valersi degli stessi beni sottratti all’uso della collettività».
Proprio con riferimento alla libertà di manifestazione del pensiero si è parlato in dottrina di «limite ideologico del neofascismo» contenuto nella XII Disposizione che sarebbe perciò tesa a «spogliare l’ideologia neofascista dalla garanzia costituzionale delle libertà»; in tal senso, più in generale, la Costituzione «intende chiaramente vietare non solo gli atti conclusivi di ricostituzione del partito fascista, ma anche tutti i comportamenti idonei a porne le premesse, attraverso l’istaurazione di un clima favorevole»[16].
3. Cenni conclusivi sulla pubblica amministrazione nell’‘l’ispirazione antifascista nella nostra Costituzione’.
Con la sentenza qui commentata, il Consiglio di Stato – riprendendo gli argomenti del giudice di prime cure e dei precedenti conformi qui richiamati – offre interessanti spunti di riflessione non solo sull’attuazione del divieto della «riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista» nell’attività amministrativa della concessione di spazi pubblici, ma più in generale sul ruolo della pubblica amministrazione nell’ ‘ispirazione antifascista della nostra Costituzione’.
La pubblica amministrazione è stata messa alla prova dalla matrice antifascista della Costituzione italiana anche in altre occasioni e in ambiti diversi dell’azione amministrativa.
Nelle competizioni elettorali locali, infatti, alcune associazioni politiche sono state escluse dalle commissioni elettorali circondariali in diversi Comuni sul territorio nazionale proprio in ragione della loro ispirazione al disciolto partita fascista. Non a caso il contenzioso sul punto è richiamato nella pronuncia che qui si commenta.
Con rifermento a quelle vicende la giurisprudenza amministrativa ha chiarito che non è ammissibile che «un raggruppamento politico partecipi alla competizione elettorale sotto un contrassegno che si richiama esplicitamente al partito fascista bandito irrevocabilmente dalla Costituzione con norma tanto più grave e severa, in quanto eccezionalmente derogatorio al principio supremo della pluralità, libertà e parità delle tendenze politiche»[17].
Si è affermato che «un movimento politico che si ispira ai principi del disciolto partito fascista deve essere incondizionatamente bandito dalla competizione elettorale, secondo quanto impone la XII esposizione transitoria e finale della Costituzione, il cui precetto sul piano letterale ideologico non può essere applicato solo alla repressione di condotte finalizzate alla ricostruzione di un’associazione vietata […] ma deve essere esteso ad ogni atto o fatto che possa favorire la riorganizzazione del partito fascista, per sua essenza stessa antidemocratico, e quindi anche al riferimento inequivoco ai suoi principi fondanti, ai sensi dell’art. 1 della L. n. 645 del 1952»[18].
Nel tempo si è ribadito che «il diritto di associarsi in un partito politico, sancito dall’arte. 49 Cost., e quello di accesso alle cariche elettive, ex art.51 Cost., trovano un limite nel divieto di riorganizzazione del disciolto partito fascista imposto dalla XII disposizione transitoria finale della Costituzione. Detto precetto costituzionale, fissando un’impossibilità giuridica assoluta e incondizionata, impedisce che un movimento politico formatosi e operante in violazione di tale divieto possa in qualsiasi forma partecipare alla vita politica e condizionarne le libere democratiche dinamiche. […] l’attuazione di tale precetto, sul piano letterale come sul versante teologico, non può essere limitata alla repressione penale delle condotte finalizzata alla ricostituzione di un’associazione vietata, [ma] deve essere estesa ad ogni atto fatto che possa favorire la riorganizzazione del partito fascista»[19]; si riconosce così il potere della commissione di ricusare la lista o i simboli attraverso i quali si persegue il fine originariamente vietato dall’ordinamento.
Sia nel caso della concessione di spazi pubblici, sia nell’ammissione alle competizioni elettorali l’esercizio di libertà e diritti dei privati richiede l’esercizio del potere della pubblica amministrazione. Si tratta di un ambito di applicazione della XII Disposizione costituzionale che si distingue da quello che di recente ha visto l’intervento della giurisprudenza penale con riferimento al divieto di utilizzo di simboli e del cosiddetto saluto romano[20].
La sentenza del Consiglio di Stato qui commentata offre un’articolata e chiara ricostruzione del fondamento e dei contenuti del potere della pubblica amministrazione di prevedere una dichiarazione di ripudio del fascismo nel rilascio della concessione di spazi pubblici con l’obiettivo di evitare che gli stessi siano «utilizzati per il perseguimento delle finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, ovvero per la pubblica esaltazione di esponenti, principi, fatti, metodi e finalità antidemocratiche del fascismo – comprese le idee e i metodi razzisti – o ancora per il compimento di manifestazioni usuali del distorto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste». Sarebbe proprio questo – si è detto – l’«obiettivo di sicuro interesse pubblico, alla luce di quella che la Corte costituzionale ha definito ‘l’ispirazione antifascista della nostra costituzione’»[21].
È qui di interesse ricordare che secondo la Corte costituzionale la XII Disposizione della Costituzione repubblicana «ha conferito in modo tassativo al legislatore non solo la potestà-dovere di fissare sanzioni penali in casi di violazione del divieto costituzionale di ricostituzione del disciolto partito fascista, ma anche di ricercare il modo e le forme più idonei e più incisivi per la realizzazione della pretesa punitiva nella salvaguardia dei diritti fondamentali che la costituzione riconosce a tutti i cittadini, al fine di combattere più efficacemente e sollecitamente possibile quel pericolo che la citata disposizione, in accordo con l’ispirazione antifascista della nostra costituzione è inteso direttamente imperativamente prevenire».
La legislazione penale si è fatta nel tempo interprete dell’obiettivo costituzionale del ripudio del fascismo e «il legislatore ha compreso che la riorganizzazione del partito fascista può anche essere stimolata da manifestazioni pubbliche capaci di impressionare le folle»[22].
In linea con tale orientamento si è in seguito affermato che «non può sostenersi la illegittimità costituzionale di una norma legislativa che attui il disposto della XII disposizione transitoria, la quale, in vista della realizzazione di un ben determinato scopo, pone limiti all’esercizio dei diritti di libertà enunciati dagli evocati precetti costituzionali»[23].
Va detto che il contenuto del comma 1 delle XII Disposizioni fin dal dibattito in Assemblea costituente è stato lungi dall’essere pacificamente interpretato come norma “transitoria”[24].
E il carattere “finale”, e non meramente transitorio, del “divieto di riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista” (comma 1 della XII Disposizione) – oggi generalmente riconosciuto – è riconducibile al suo legame con l’art. 54 comma 1 Cost. secondo cui “tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica “e l’art. 139 Cost. che sottrae alla revisione costituzionale la forma repubblicana[25]. In tale prospettiva la c.d. legge Scelba avrebbe fornito al bene giuridico dell’“ordine pubblico democratico e costituzionale” una tutela anticipata[26]. Sicché l’attuazione di tale precetto – lungi dal limitarsi alla repressione penale che richiede il pericolo concreto d di ricostituzione del partito fascista[27] – come già ricordato dalla giurisprudenza amministrativa, «deve essere estesa ad ogni atto o fatto che possa favorire la riorganizzazione del partito fascista»[28], facendo così della pubblica amministrazione un importante “strumento di attuazione”.
Come ricordato dai giudici di prime cure nella vicenda qui commentata non sarebbe «in questione […] la rilevanza penale di condotte riconducibili alla connotazione pubblica della manifestazione del pensiero, bensì il significato da attribuire al “silenzio” che l’associazione ricorrente vorrebbe serbare sul tema, rifiutandosi di sottoscrivere le dichiarazioni richieste dall’atto di indirizzo del Comune di Brescia. In buona sostanza, con tale provvedimento non si richiedono né abiure, né professioni di fede che non si traducano nella mera riaffermazione dei valori fondanti della Carta costituzionale e del nostro Ordinamento»[29].
Sulla questione dell’attuazione della XII Disposizione, ancora oggi attuale, si è di recente ricordata l’idea che «se la democrazia muore nel cuore del popolo, nessuna forza giuridica potrà farla resuscitare»[30].
Non c’è dubbio che né le leggi (né l’azione dell’amministrazione) possano di per sé sole proteggere la democrazia e, tuttavia, proprio la «perdurante esigenza di garanzia antifascista», che è stata ricondotta a una «sorta di disattuazione strisciante»[31] della XII Disposizione, sembra imporre estrema attenzione alla compiuta attuazione della previsione del divieto della “riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”.
Di interesse sarebbe perciò lo studio del ruolo della pubblica amministrazione, in generale, nell’‘l’ispirazione antifascista nella nostra Costituzione’.
La questione dell’attuazione delle XII disposizioni finali da parte della pubblica amministrazione nella specifica attività di concessione di spazi pubblici assume certo contorni differenti rispetto a quelli della legislazione penale, forse meno “problematici” con riferimento alla limitazione della libertà di manifestazione del pensiero; in tali casi l’obbligo di dichiarare il ripudio del fascismo, imposto come condizione della concessione di spazi pubblici da parte della amministrazione locale, non pone luna imitazione della libertà di manifestazione del pensiero che, in caso di diniego, può essere esercitata su spazi privati entro i limiti della legislazione penale.
Proprio alla luce della ricostruzione offerta dalla giurisprudenza amministrativa richiamata, ci si chiede se non sia ultroneo, se non addirittura fuorviante, considerando ‘l’ispirazione antifascista della nostra Costituzione’, qualificare come ampiamente discrezionale l’esercizio del potere della pubblica amministrazione che si sostanzia nel condizionare la concessione di spazi pubblici alla dichiarazione di ripudio del fascismo.
In tale prospettiva, ragionando sul ruolo della pubblica amministrazione nel garantire l’effettiva attuazione del comma 1 delle XII Disposizioni, subordinare la concessione di spazi pubblici alla dichiarazione di ripudio del fascismo sembra piuttosto espressione di una discrezionalità della pubblica amministrazione necessariamente orientata dall' "ispirazione antifascista della nostra Costituzione".
[1] La delibera richiama espressamente sia la legge 20 giugno 1952, n. 645 (c.d. legge Scelba) sia l’art. 1 del d. l. 26 aprile 1993, n. 122, conv. con mod. in legge 25 giugno 1993.
[2] Nella premessa della deliberazione si rileva che “alcuni Comuni, sulla scorta di recenti episodi e manifestazioni che hanno inneggiato o propagandato ideologie naziste, fasciste e/o razziste, hanno approvato o si stanno attivando per approvare un atto di indirizzo al fine di ottenere uno specifico impegno al rispetto dei principi fondamentali contenuti nella Costituzione italiana per quanto concerne l’utilizzo di spazi ed aree pubbliche”.
[3] Per una ricostruzione della vicenda che ha portato all’ordinanza cautelare del Tar Brescia, 8 febbraio 2018, n. 68 e alle delibere dei Comuni sopra richiamati si rinvia a F. Paruzzo, Il Tar Brescia rigetta il ricorso di CasaPound: l’antifascismo come matrice e fondamento della Costituzione, in Osservatorio costituzionale, AIC, fasc. 2/2018, pp. 2 ss.
[4] Cit. virgolettato estratto dal ricorso, come riportato nel testo del Tar Lombardia, sez. II, Brescia, 26 gennaio 2020, n. 166.
[5] Tar Lombardia, sez. II, Brescia, 26 gennaio 2020, n. 166: «la deliberazione censurata, nella sua formulazione integrale, richiede agli interessati di dichiarare di “riconoscersi nei principi e nelle norme della Costituzione italiana e di ripudiare il fascismo e il nazismo”, facendo ricorso, nella sostanza, a una vera e propria endiadi, nel senso che l’adesione ai principi e alle norme costituzionali non è scindibile rispetto al ripudio del fascismo e del nazismo».
[6] E. Silvestri, voce Concessione, I. Concessione amministrativa, in Enc. dir., vol. VIII, 1961, p. 370, osserva che «le concessioni amministrative sono espressione di una potestà pubblica e tendono quindi al conseguimento di fini pubblici».
[7] Cit. A. M. Sandulli, voce Beni Pubblici, in Enc. dir., vol. V, Milano, 1959, p. 290; in generale, sul rapporto tra “Concessione, potere pubblico e interesse pubblico” F. Fracchia, voce Concessione amministrativa, in Enc. dir., Annali I, 2007, p. 267 ss.
[8] V. Caputi Jambrenghi, I beni pubblici e d’interesse pubblico, in Diritto amministrativo, a cura di L. Mazzarolli, G. Pericu, A. Romano, F. A. Roversi Monaco, F. G. Scoca, Bologna, 1993, II ed., p. 1126.
[9] Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia, sez. giur., ordinanza, 13 dicembre 2019, n. 797; poi anche Tar Sicilia, sez. I, 15 aprile 2021, n. 1241.
[10] Cit. virgolettato estratto dal ricorso, come riportato nel testo del Tar Piemonte, Sez. II, 18 aprile 2019, n. 447.
[11] Ex plurimis, Consiglio di Stato, Sez. V, 2 dicembre 2015, n. 5442; Consiglio di Stato, Sez. quinta, 7 giugno 2022, n. 4660; Consiglio di Stato, Sez. V, 8 maggio 2024, n. 4129. L’occupazione di suolo pubblico da parte di privati comporta la sottrazione di spazi pubblici all’uso comune coinvolgerebbe l’amministrazione non solo nella «mera scelta delle aree da occupare, ma anche nella scelta della dimensione, dei tempi e dei modi dell’occupazione, nonché nella previsione delle restrizioni delle forme di temperamento ritenute, di volta in volta, opportune dal punto di vista viabilistico, urbanistico, architettonico, paesaggistico, al fine di bilanciare la pluralità di interessi coinvolti», cit. Cons. St. n. 4129 del 2024.
[12] In questi termini espressamente Corte cost., sent. n. 254 del 1974.
[13] I giudici amministrativi – nella sentenza commentata – argomentano che «in questo senso il primo comma della XII disposizione – che non è da intendersi come norma meramente “transitoria” – sarebbe legata sia all’art. 54 comma 1 Cost che recita: “tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica”, sia all’articolo 139 Cost. che esclude la possibilità di revisione costituzionale per la “forma repubblicana”». Sula “continuità degli ordinamenti statutario, fascista e repubblicano” dedica interessanti passaggi L. Paladin, voce Fascismo (dir. cost.), in Enc. dir., vol. XVI, 1967, p. 887, 888.
[14] Cfr. Tar Lombardia, sez. II, Brescia, 26 gennaio 2020, n. 166, come ripreso espressamente da Cons. Stato, Sez. II, 19 settembre 2024, n. 7687.
[15] Cons. Stato, sez. V, 6 marzo 2013, n. 1354, così potendo la commissione elettorale circondariale esercitare un potere di ricusazione ed estromissione dalla competizione di quelle liste o simboli che si rifanno specificatamente al partito fascista «bandito irrevocabilmente dalla Costituzione».
[16] Cit. P. Barile, voce Libertà di manifestazione del pensiero, in Enc. dir., vol. XXIII, Milano, 1973, p. 470; sull’art. 21 Cost. M. Manetti, A. Pace, Art. 21. La libertà di manifestazione del pensiero, in G. Branca, A. Pizzorusso (a cura di), Commentario della Costituzione, Bologna, 2006, p. 212; la qualifica come “libertà funzionale” C. Esposito, La libertà di manifestazione del pensiero nell’ordinamento democratico, Milano, 1958, p. 3.
[17] Cfr. Cons. Stato, Sez. I, 23 febbraio 1994, n. 173; Cons. Stato, Sez. V, 6 marzo 2013 n. 1355; Cons. Stato, Sez. III, 29 maggio 2018, n. 3208.
[18] Cfr. Cons. Stato, Sez. III, 29 maggio 2018, n. 3208; già Cons. Stato, sez. V, 6 marzo 2013, n. 1354.
[19] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 6 marzo 2013, n. 1354, dove si dice altresì che la disciplina costituzionale «dettando un requisito originario per la partecipazione alla vita politica, fonda il potere implicito della commissione di ricusare le liste che si pongano in contrasto con diritto precetto».
[20] Cass. Pen. SS. UU., sent. 17 aprile 2024, n. 16153.
[21] In questi termini, Corte cost., sent., n. 254 del 1974, richiamata nella pronuncia qui commentata.
[22] Corte cost., sent. n. 74 del 1958.
[23] Corte cost., sent. n. 15 del 1973. Sulle manifestazioni usuali del disciolto partito fascista, in una prospettiva penalistica, si rinvia a P. Caroli, Il potere di non punire, Uno studio sull’amnistia Togliatti, Napoli, 2020, p. 278 ss.
[24] Alla seduta del 4 marzo 1947 dell’Assemblea costituente l’intervento di Calamandrei aveva già evidenziato il carattere non transitorio di questa disposizione: «Non so perché questa disposizione sia stata messa fra le transitorie: evidentemente può essere transitorio il nome “fascismo”, ma voi capite che non si troveranno certamente partiti che siano così ingenui da adottare di nuovo pubblicamente il nome fascista per farsi sciogliere dalla polizia. Se questa disposizione deve avere un significato, essa deve esser collocata non tra le disposizioni transitorie, e non deve limitarsi a proibire un nome, ma deve definire che cosa c'è sotto quel nome, quali sono i caratteri che un partito deve avere per non cadere sotto quella denominazione e per corrispondere invece ai requisiti che i partiti devono avere in una Costituzione democratica. […]».
[25] La pronuncia qui commentata evidenzia che «il primo comma della XII disposizione, che vieta “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”, non può ritenersi meramente ‘transitoria’, ossia destinata a trovare applicazione per un periodo di tempo determinato (com’è, per esempio, il secondo comma), ma, come osservato anche in letteratura, è norma ‘finale’, in quanto, legandosi all’art. 54, co. 1, Cost. secondo cui “tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica” e all’art. 139 Cost., che sottrae alla revisione costituzionale “la forma repubblicana” (secondo Corte cost., sent. n. 1146 del 1988, da intendersi comprensiva di tutti quei principi che “appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione Italiana” e quindi innanzitutto dei ‘diritti inviolabili’, su cui si v., tra le più recenti, Corte cost., sent. n. 135 del 2024), rifinisce il disegno costituzionale ponendo una clausola di salvaguardia che in deroga all’art. 49 Cost., che riconosce il diritto di tutti i cittadini di associarsi liberamente in partiti, nonché agli artt. 17 e 21 che sanciscono le libertà di riunione e di manifestazione del pensiero (sul punto si v. Corte cost., sentt. n. 74 de 1958 e n. 15 del 1973) – è volta a scongiurare un ritorno “sotto qualsiasi forma” del fascismo, che segnerebbe la fine dell’esperienza democratica con essa iniziata e il disconoscimento dei diritti e delle libertà che le sono propri».
[26] Da ultimo Cass. Pen. SS. UU., sent. 17 aprile 2024, n. 16153.
[27] Cfr. Corte cost., sent. n. 15 del 1973; Cass. Pen. SS. UU., sent. 17 aprile 2024, n. 16153.
[28] Cons. Stato, sez. V, 6 marzo 2013, n. 1354.
[29] In questi termini già Tar Lombardia, sez. II, Brescia, 26 gennaio 2020, n. 166, poi ripresa dal Consiglio di Stato qui commentato.
[30] Cit. P. Barile, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna, 1984, p. 413; di recente richiamato nelle sue osservazioni conclusive da F. Paruzzo, La XII Disposizione transitoria e finale: tra garanzia “antirazzista” della legge Mancino e specificità della matrice antifascista, in Rivista AIC, fasc. 3/2024, p. 131.
[31] B. Pezzini, Attualità e attuazione della XII Disposizione finale: la matrice antifascista della Costituzione repubblicana, in AA. VV., Le frontiere del Diritto costituzionale. Scritti in onore di V. Onida, Milano, 2011, p. 1402. Parla di «poche occasioni pratiche di applicazione» P. Barile, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, cit., 411.
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