ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
1. Sono molteplici i profili problematici del decreto-legge sulla sicurezza pubblica del Governo presieduto da Giorgia Meloni (d.l. n. 48/2025). Si può dire che esso sfida irrimediabilmente le caratteristiche essenziali del sistema delle fonti, dell’equilibrio dei poteri del governo parlamentare, e della dialettica tra “autorità” e “libertà” disegnati dalla Costituzione. C’è una stretta connessione tra le tre dimensioni: l’una è legata all’altra, sicché le critiche che riguardano un aspetto si riverberano sugli altri in maniera necessaria e inscindibile, aumentando il tasso di problematicità di scelte legislative che, singolarmente assunte, potrebbero anche avere una ragione politica di sostegno, ma che, tutte insieme, non ne manifestano alcuna se guardate con le lenti della Costituzione. La politica, quella nobile arte del governo di una società, non può sfuggire alle maglie della “Repubblica”, che assicura tutte le manifestazioni concrete della sovranità popolare alle “forme” e ai “limiti” stabiliti dalla Costituzione.
Titolo e Preambolo del d.l. denunciano un contenuto plurimo ed eterogeno: sicurezza pubblica, tutela del personale in servizio, vittime dell’usura, ordinamento penitenziario da un lato; misure di prevenzione e contrasto al terrorismo e criminalità organizzata, beni sequestrati e confiscati e controlli di polizia (capo I); sicurezza urbana (capo II); tutela personale delle Forze di Polizia, Forze Armate, Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, organismi dei servizi segreti (capo III); vittime dell’usura (capo IV); ordinamento penitenziario (capo V) dall’altro.
Si può obiettare che la giurisprudenza costituzionale ha fino ad ora permesso anche una decretazione d’urgenza dal contenuto non omogeneo e “connotata da notevole latitudine” (sent. n. 146/2024), se – questo l’aspetto che emerge – tra le diverse disposizioni sussiste un legame teleologico, una “omogeneità di scopo”, dando luogo a una “normativa unitaria sotto il profilo della finalità perseguita” (sent. n. 151/2023). Questa precisazione esprime tutte le difficoltà del giudizio di legittimità costituzionale sulla politicità irrelata alla decretazione d’urgenza e, quindi, le contraddizioni che lo stesso giudice delle leggi non riesce a oltrepassare. Resta da dimostrare, tuttavia, che, nel nostro caso, quella condizione sia stata soddisfatta. Quale sarebbe questa ratio? Potrebbe esserlo il cappello, bon à tout faire, della “sicurezza pubblica”?
È stato sostenuto, molto efficacemente, che questo d.l. sarebbe manifestazione di una “ossessione securitaria” del governo e della sua maggioranza parlamentare (V. Manes). Si tratta di un giudizio senza appello. Ma questa lettura, politologica, non può valere a condannare il d.l. in punto di illegittimità. Anzi, rischia di conseguire un esito opposto, contribuendo ad assolverlo, proprio perché potrebbe rappresentare l’alibi politico e la trama unitaria per giustificare le molteplici disposizioni che ne costituiscono l’ossatura.
Nondimeno, nella Relazione di accompagnamento si legge che l’obiettivo è quello di colmare “lacune e criticità” delle normative in materia di politica della pubblica sicurezza coerenti con gli indirizzi del governo “in ambito securitario”. Il ricorso al d.l. serve per “una immeditata e più incisiva risposta sanzionatoria e dissuasiva nei confronti di gravi fenomeni delinquenziali che rappresentano una minaccia per l’ordine e la sicurezza pubblica, determinano una crescente percezione di insicurezza tra i cittadini ed espongono, inevitabilmente, a grave pericolo l’incolumità fisica delle Forze di polizia”.
Una simile giustificazione, se ha un senso sul piano soggettivo dei motivi, non può risolvere la questione della ricerca di una ratio obiettiva alla decretazione d’urgenza e alle disposizioni di carattere ordinamentale che essa introduce. Solo guardando alle nuove fattispecie in materia penale, sono stati contati 11 nuovi reati e 11 nuove circostanze aggravanti. Non era mai accaduto che con un d.l. si modificasse in modo così generoso il nostro sistema sanzionatorio criminale. Se in passato, in questo e in quel precedente, non sono mancati d.l. in materia penale e con disposizioni che, come stavolta, sono entrate in vigore immediatamente, il d.l. n. 48/2025 rappresenta certamente un unicum per la latitudine e l’intensità punitiva esercitati in sol colpo.
2. Sulla sussistenza dei presupposti costituzionali va notato che nel Preambolo – senza alcuna motivazione specifica, come esigerebbe l’art. 15 della legge n. 400/1988 – si gioca con le parole, a volte ritenendo (solo) la “necessità ed urgenza” (riferita alle materie dei capi 1, 2 e 5), a volte considerando la “straordinaria necessità ed urgenza” (in ordine ai contenuti dei capi 3 e 4). Le opposizioni parlamentari hanno denunciato l’assenza dei presupposti, per il fatto di avere, il governo, trasferito i contenuti di un progetto di legge (AC n. 1660, di iniziativa dello stesso esecutivo) in un d.l. prima che quello fosse approvato in via definitiva, “scippando” il Parlamento dei suoi poteri legislativi (la “trasposizione” è avvenuta in passato altre due volte: d.l. n. 149/2013, d.l. n. 238/2000).
Si è realizzata, di nuovo, quella trasformazione del d.l. in un “improprio disegno di legge ad urgenza garantita”, stigmatizzato dalla giurisprudenza perché “sacrifica in modo costituzionalmente intollerabile il ruolo attribuito al Parlamento nel procedimento legislativo” (sent. n. 146/2024).
La contraddizione tra le due vie (legge o decreto) non giustifica la decretazione d’urgenza. A maggior ragione per la gravità delle conseguenze derivanti dall’applicazione immediata delle nuove fattispecie penali. La disomogeneità dei procedimenti sostiene – e, aggiungo, a fortiori – la tesi delle opposizioni parlamentari. Se rapportiamo questo d.l. n. 48/2025 alla prassi delle ultime legislature, emergono le fratture, sempre più larghe, tra il modello costituzionale e la realtà. La decretazione d’urgenza è lo strumento privilegiato di legislazione (oltre il 39% del totale sono leggi di conversione), portato ad effetto mediante votazione di questioni di fiducia (oltre il 59% delle conversioni), sfruttando la scorciatoia del “monocameralismo alternato” (nella XIX Legislatura ha riguardato la totalità dei d.l. approvati dal governo, in tutto 93 casi). Da questo punto di vista, il d.l. n. 48 è solo l’ultimo, e il più grave, in ordine di tempo, di una serie ormai lunghissima di violazioni della Costituzione scritta e performativa.
Le forze di resistenza effettiva sono state, finora, totalmente insufficienti. La giurisprudenza costituzionale, nel campo dei vizi di forma, ha manifestato un atteggiamento di self restraint che non si rinviene nella medesima misura in altre circostanze, nelle quali, di fronte a esigenze sostanziali di protezione dei diritti, viceversa, il “suprematismo giudiziario” ha mostrato i suoi muscoli, ai limiti dello sconfinamento. La politicità della valutazione sui presupposti ha condotto a rendere effettivi i “limiti” costituzionali più volte richiamati solo in situazioni marginali e a fronte di violazioni abnormi: il divieto di reiterazione, la caducazione di singole disposizioni (di d.l. o della legge di conversione) per “evidente” mancanza dei presupposti, la necessaria “omogeneità” tra la causa e il contenuto della decretazione. Ciò nonostante, resta lo sfondo costituzionale che quella giurisprudenza lascia intravvedere, senza riuscire a osservarlo e a giustiziarlo fino in fondo.
3. La pretesa “equiparazione” tra legge ordinaria e decreto-legge è il frutto di una lettura che fraintende il testo della Costituzione, finendo per giustificare la prassi, con il richiamo alla stessa Costituzione, ridotta, però, ad un “pezzo di carta” avente solo valore “riflessivo” della realtà.
Il rapporto tra legge ordinaria e decretazione “avente forza di legge” è quello che corre tra una regola e la sua eccezione. Fin dall’incipit, infatti, l’art. 77 Cost. ricorda che il “governo non può senza delegazione delle camere adottare decreti aventi forza di legge”. La disciplina della decretazione d’urgenza, da questo punto di vista, rappresenta un’eccezione all’eccezione. Non c’è bisogno di ricordare che questo rapporto riflette le caratteristiche del governo parlamentare, che affida alle Camere la funzione legislativa (art. 70 Cost.), e al governo, in situazioni particolari, l’esercizio di poteri di normazione primaria comunque subordinati alla o condizionati dalla legge del Parlamento (artt. 76 e 77 Cost.). Il Parlamento, cioè, come luogo di rappresentanza di tutti gli interessi della Nazione (sent. n. 192/2024), e non solo quelli della maggioranza parlamentare – che, comunque, non è mai il mero riflesso della volontà del governo (anche se taluno risolve la fusione tra la maggioranza parlamentare e il governo in un atteggiamento di servile genuflessione della prima verso il secondo) – nel quale tutte le forze politiche e, soprattutto, le minoranze e l’opposizione devono essere dotate di poteri e strumenti in grado di contrastare le decisioni dell’indirizzo politico governativo.
Le caratteristiche “formali” del d.l., del resto, contraddicono una normazione primaria avente le caratteristiche di quella di cui qui discutiamo. Il d.l. è fonte di “provvedimenti provvisori”, ossia non di norme generali ed astratte, ma, all’opposto di ben diverse “misure concrete” di immediata applicazione senza intermediazione normativa, la cui efficacia è in ragione di un caso straordinario e nei limiti di esso e, perciò, naturalmente “provvisoria”. I decreti-legge non sono adeguati a sostenere normazioni destinate a durare stabilmente. La loro forza deve essere, comunque, necessariamente proporzionata e sufficiente all’emergenza che si tratta di fronteggiare. Su questo punto, la Corte costituzionale ha fatto davvero poco: l’unico caso è stata l’illegittimità della riforma delle province mediante un d.l. annullato proprio per l’insostenibilità costituzionale di introdurre norme stabili con un atto precario (sent. n. 230/2013). Un caso unico? Non è altrettanto eclatante un d.l., come il n. 48/2025, che riscrive – addirittura – molte norme penali che limitano le libertà fondamentali della persona umana?
4. La prassi dell’abuso della decretazione d’urgenza, del monocameralismo alternato e di fatto, delle questioni di fiducia sistematiche, trasforma il governo parlamentare in una forma di “tirannia della maggioranza” contro la quale la Costituzione deve (tornare ad) essere un baluardo insormontabile e, soprattutto, effettivo. Il common (non)sense delle forze politico-parlamentari su questi elementari principi di diritto costituzionale che, quando sono al governo inopinatamente se ne dimenticano e quando all’opposizione altrettanto improvvisamente se ne rammentano, dimostra la “forza negativa” di una convenzione materiale del tutto contra Constitutionem, diventata, per quell’accordo tacito dei partiti, difficilmente sovvertibile. Contro la quale, però, non solo dobbiamo resistere come cittadini, ma come giuristi dobbiamo lottare in nome del “diritto”, l’etica della nostra professione.
Se la Corte costituzionale dichiara la sua impotenza, appare difficile pretendere che a tale situazione supplisca il Presidente della Repubblica. Nessuno può escludere che, in concreto, non siano occorsi interventi (non pubblici, come di consueto) di moral suasion. Ciò che il Presidente della Repubblica fa o non fa è comunque molto, anche se non è sufficiente. Nondimeno, rebus sic stantibus, è credibile che il ruolo politico-costituzionale del Capo dello Stato possa spingersi fino alla soglia di alterare gli equilibri raggiunti, su questi problemi, dalle forze politiche, dal Parlamento e dal governo? Come potrebbe un Capo dello Stato di una Repubblica parlamentare invertire una prassi su cui la classe politica e le stesse istituzioni rappresentative hanno vedute sostanzialmente convergenti? È la “forza normativa” del fatto, lo ripeto, che sta avendo il sopravvento sulla Costituzione scritta e performativa. Il problema, uno dei tanti, è come invertire questo paradosso.
5. L’altro grave vulnus di questo e di tanti altri d.l. è la scrittura di norme materialmente penali. La critica, ovvia e scontata, è che così facendo si viola la riserva di legge assoluta stabilita dall’art. 25.2 Cost. Anche questa argomentazione mostra l’usura alla luce di una prassi istituzionale di segno diametralmente opposto.
S’è certificato (dal Comitato per la legislazione) che, solo in questa Legislatura, sono stati 6 (su 94 emanati) i d.l. contenenti disposizioni penali (nella precedente erano 12 su 146). La latitudine del d.l. n. 48/2025 non è stata finora mai raggiunta, come ho ricordato. La contro obiezione, ora come ieri, da parte dell’attuale maggioranza e del suo governo e di quelli precedenti, è che l’equiparazione tra legge ordinaria e decreto-legge permette di rispettare la riserva di legge.
Nella giurisprudenza Corte costituzionale convivono due argomenti. In uno dei suoi precedenti più impegnativi si può leggere che “non si può affermare, in linea di principio, che i decreti-legge non possano toccare fattispecie e sanzioni penali”. Altrimenti “verrebbe introdotto un limite al contenuto dei decreti-legge non previsto dall’art. 77”, un limite, si aggiunge, “che non può essere desunto dal principio di riserva di legge in materia penale”, perché tale riserva è “osservata anche da atti aventi forza di legge (cfr. sent. n. 194 del 1974), purché nel rigoroso rispetto dei presupposti costituzionali inerenti” (sent. n. 330/1996, p. n. 3.1). In un altro caso, invece, l’art. 25 Cost. è interpretato come un “principio che, secondo quanto reiteratamente puntualizzato da questa Corte, demanda il potere di normazione in materia penale – in quanto incidente sui diritti fondamentali dell’individuo, e segnatamente sulla libertà personale – all’istituzione che costituisce la massima espressione della rappresentanza politica: vale a dire al Parlamento, eletto a suffragio universale dall’intera collettività nazionale (sentenze n. 394 del 2006 e n. 487 del 1989), il quale esprime, altresì, le sue determinazioni all’esito di un procedimento – quello legislativo – che implica un preventivo confronto dialettico tra tutte le forze politiche, incluse quelle di minoranza, e, sia pure indirettamente, con la pubblica opinione” (sent. n. 230/2012, p. n. 7).
Ancora una volta siamo al cospetto di una contraddizione retorica che “nol consente”. Dal punto di vista del giudice delle leggi, però, sarebbe opportuno scegliere in via definitiva quale delle due letture è quella più aderente alla ratio della Costituzione. Una strada da seguire è quella di ribaltare il ragionamento svolto fino ad ora. Non si deve partire dal rapporto tra riserva di legge e decretazione d’urgenza, ma proprio dalla cornice costituzionale di quest’ultimo. Solo riconoscendo che il d.l. è un’eccezione alla legislazione parlamentare si può contestare credibilmente la non assimilabilità tra l’una e l’altra al fine di ricorrere alla sanzione penale. Del resto, il discorso non può essere limitato, esclusivamente, all’interno di un ragionamento intorno alle fonti del diritto, alle riserve di legge, al rapporto tra atti normativi. La “forma” delle fonti presuppone, ancora una volta, determinati rapporti tra i poteri di governo e, cosa per nulla trascurabile come dirò tra poco, una specifica dialettica tra autorità e libertà.
Se la Corte volesse davvero ergersi a “custode della Costituzione” dovrebbe sfruttare l’occasione che le si presenterà a breve per dichiarare, anziché di questa o di quella disposizione, l’illegittimità radicale di un decreto-legge che altera tutti i postulati che sorreggono l’esercizio di questo potere eccezionale, in sé, e in un ambito come quello delle norme incriminatrici.
La forma repubblicana e democratica esige il primato dei valori della persona umana e la determinazione di limiti ai diritti fondamentali mediante atti legislativi che siano il riflesso di tutte le forze politiche e non solo espressione dell’arbitrio di una maggioranza politica e del suo governo. Per questo le riserve di legge sono, innanzitutto, il riconoscimento della funzione legislativa esercitata collettivamente dalle due Camere (art. 70), che solo previa delega legislativa (con determinazione di “principi e criteri direttivi”, per un “tempo limitato” e “oggetti definiti”) o in “casi straordinari di necessità ed urgenza” possono essere affidate a decisioni del governo. La responsabilità di quest’ultimo, nel definire i presupposti della decretazione, non fa venire meno la forza prescrittiva dei principi costituzionali. Mette in moto, per un verso, i meccanismi del controllo politico, della maggioranza e dell’opposizione. Non impedisce, non può farlo, di sottoporre ad uno scrutinio stretto di costituzionalità il rispetto del quadro costituzionale dei valori sostanziali e formali della Repubblica democratica.
Si aggiunge, ad esempio nella Relazione del Comitato per la legislazione, che l’immediata entrata in vigore delle nuove fattispecie penali finirebbe per violare il criterio della previa conoscibilità delle regole, integrando un’ipotesi di “ignoranza inescusabile”, secondo la notissima sent. n. 364/1988 sull’imputabilità penale.
È un argomento serio, ma spuntato. Ancora una volta è la prassi che “nol consente”. Tutti i decreti-legge in materia penale del passato hanno dato luogo a nuovi reati (o aggravanti) di immediata applicazione (come le altre disposizioni). L’argomento, inoltre, determina un cortocircuito. Se la conoscibilità delle norme penali sfavorevoli giustifica l’esistenza di un ragionevole lasso di tempo tra la previsione e la sua efficacia (anche al fine, va aggiunto, di rendere edotte le forze dell’ordine delle nuove fattispecie e per consentire al mondo giudiziario di adeguarsi), come rendere compatibile una simile finalità con l’immediata entrata in vigore del decreto-legge? È evidente che le due esigenze non possono essere conciliate ricorrendo all’art. 77 Cost. Il problema vero, quindi, è un d.l. in materia penale. Proprio le caratteristiche costituzionali di questo mezzo eccezionale di produzione del diritto, la cui forza sta proprio nell’immediatezza della risposta normativa di fronte a casi straordinari di necessità ed urgenza, ne provano la radicale inadeguatezza per offrire risposte sanzionatorie penali a problemi sociali ritenuti cruciali.
Va aggiunto, sviluppando questo ragionamento, che l’imputabilità di un reato è l’altra faccia della sussidiarietà tipica del diritto penale sostanziale: come si può ritenere logicamente compatibile un d.l. (che non abbia le caratteristiche di cui all’art. 77 Cost.) con la concezione che considera la sanzione penale l’extrema ratio cui l’ordinamento ricorre per proteggere la società?
6. Una questione sulla quale, ciò nonostante, non si è adeguatamente riflettuto è la causa su cui il d.l. n. 48/2025 si regge. Quella che dovrebbe rappresentare la ragion d’essere della disciplina, che – secondo il governo – potrebbe mettere al riparo la decretazione da eventuali censure di legittimità costituzionale. Mi riferisco al significato da dare alla “sicurezza pubblica” quale presupposto giustificativo. Questo è il nodo di tutta la vicenda.
Non c’è dubbio che la valutazione sia una questione squisitamente politica, rimessa agli organi titolari dell’indirizzo di maggioranza. Il problema è il senso costituzionale della sicurezza pubblica. Stanno ritornando al pettine, con questo d.l., alcune questioni fondamentali, che vanno alle radici del costituzionalismo. Non c’è bisogno di scomodare Thomas Hobbes per ricordare che la safety of the people è la stessa ragion d’essere dello stato moderno. Fatto si è che la sicurezza è un concetto vago, indeterminato, polisemico, che si presta a qualsiasi utilizzo. Già questo profilo dovrebbe giustificarne un uso molto osservato, ben lontano da quella “ossessione sicuritaria” sventolata come un vessillo dell’insicurezza collettiva da parte del principe di turno.
Se dagli usi impropri e politicamente orientati si passa al diritto costituzionale vigente si può notare che la sicurezza pubblica ha uno statuto giuridico definito, che non corrisponde affatto ad una sorta di “trump card” che può essere calata in qualsiasi occasione, a discrezione di chi è stato scelto dal popolo per governare. È ancora il valore costituzionale della “Repubblica democratica” che non lo permette.
La sicurezza è certamente uno dei valori costituzionali. Ma il suo “peso” in rapporto agli altri valori è quello proprio dei “concetti-limite”. Una dottrina della Costituzione come tavola di valori o di principi “equipollenti”, in cui tutti sono bilanciabili, non consente risposte soddisfacenti a questo proposito. È un tema su cui insisto ma, temo, senza troppo seguito. Eppure.
Se nel linguaggio comune sicurezza equivale, in negativo, ad assenza di pericolo e, in positivo, a certezza, in quello giuridico il concetto assume un senso differente se riferito alla sfera privata o alla sfera pubblica. Nella Costituzione essa si trova codificata in entrambe le dimensioni.
Nella sfera pubblica la sicurezza può significare “sicurezza della Repubblica” e “ordine e incolumità pubblica” (non mi occupo della nozione nuova e per certi versi ambigua di “sicurezza urbana”, il cui significato è talora fatto coincidere con quello di ordine pubblico e sicurezza, talora con il più duttile concetto di “governo di prossimità”). Nella prima accezione, la nozione indica un’esigenza di protezione dell’unità e dell’integrità della Repubblica democratica, sia all’esterno, sia all’interno, quale precondizione per l’esistenza di una comunità politica, di uno stato, di una Costituzione. Nella seconda, sicurezza equivale ad uno stato di pacifica e ordinata convivenza. Secondo un’interpretazione che può ritenersi ius receptum in dottrina e nella giurisprudenza – con riferimento all’ambigua nozione di “ordine pubblico” che ha finito per assorbirne le manifestazioni – l’unico modo di rendere costituzionalmente conforme il concetto è quello di tradurlo in senso “materiale” e non “ideale”. La ragion d’essere di norme sulla sicurezza come incolumità pubblica è quella di vietare azioni che possano ledere in concreto beni fondamentali (vita, libertà, proprietà). In questa accezione stretta, la sicurezza pubblica non solo rileva come uno dei compiti dello stato e del diritto (art. 117.2, lett. h), ma è specificatamente assunta dalla stessa Costituzione quando se ne serve per individuare i “limiti” che possono essere legittimamente e in casi limite posti ad alcuni diritti di libertà. Così, l’art. 14.3 quando prevede che “gli accertamenti e le ispezioni” nel domicilio privato possono essere disposti “per motivi (…) di incolumità pubblica” purché “regolati da leggi speciali”; l’art. 16 quando dice che “Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salve le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi (…) di sicurezza (…), aggiungendo che “nessuna restrizione può essere determinata per ragioni politiche”; l’art. 17, in materia di libertà di riunione, quando esplicita che per quelle “in luogo pubblico deve essere dato preavviso alla autorità, che possono vietarle solo per comprovati motivi di sicurezza o incolumità pubblica”; infine quanto alla libertà di impresa economica privata l’art. 41.2 allorché impone che non possa svolgersi “in modo da recare danno alla sicurezza”. Solo la riduzione semantica del “limite implicito” del cosiddetto ordine pubblico al suo significato materiale e non ideale può giustificare restrizioni della fondamentalissima libertà di manifestazione del pensiero, la cui piena garanzia è il termometro di una democrazia effettiva.
Nella dimensione “privata”, la sicurezza va connotata diversamente, a seconda che riguardi la persona umana oppure le sue azioni. Nel primo caso il concetto coincide con la sfera della sicurezza personale, presidiata dalla garanzia dei diritti di libertà personale, domicilio, circolazione e soggiorno, libertà e segretezza delle comunicazioni private. Nel secondo, essa riguarda la sicurezza nello svolgimento di attività umane, come quella sportiva, lavorativa, di istruzione, formazione e ricerca, di intrapresa economica ecc.
7. A quali di questi significati si rivolge il d.l. n. 48/2025? Si parla genericamente di “sicurezza pubblica”: secondo l’intentio, essa concernerebbe la prima delle due dimensioni.
Il punto chiave, però, di là della qualificazione e della latitudine, è che l’interpretazione-attuazione che ne viene data con questo provvedimento è esattamente rovesciata rispetto alle traiettorie della Costituzione. Per essere chiari. In base alla nostra Carta non solo il rapporto tra libertà e sicurezza va inteso in termini di regola a eccezione, ma la sua soluzione va risolta, caso per caso, in maniera proporzionalmente adeguata, nel senso che quanto maggiore è il limite che la sicurezza pubblica richiede nei confronti della sfera della libertà (individuale, sociale, politica), tanto maggiore deve essere la ragione obiettiva che la sorregge. Viceversa, in molte fattispecie del d.l. è la sicurezza pubblica la norma, e l’eccezione è la garanzia dei diritti della persona. Il solo fatto, poi, di evocare una qualsiasi motivazione in termini di sicurezza pubblica viene ritenuta necessaria, sufficiente, e proporzionata a restringere fondamentali diritti della persona. È la più plateale vittoria della forza sulla forma del potere.
Lasciamo ai sociologi e ai criminologi la dimostrazione circa la corrispondenza (astratta o effettiva) tra l’allarme sociale evocato dal governo e la risposta securitaria offerta dal d.l. Quel che mi interessa sottolineare è che in molte delle nuove fattispecie penali la dialettica sicurezza-libertà sia proprio in quei termini invertiti rispetto a quelli di cui la Costituzione ci parla.
I nuovi reati “antiterrorismo” (art. 1) sono la punizione del “terrorismo della parola o dello scritto”: colpiscono chi si procura o detiene o divulga scritti contenenti informazioni su armi, esplosivi et similia. Potrebbe essere perseguito anche uno studente o uno studioso che sta svolgendo ricerche. Si puniscono penalmente, al pari di atti di violenza, fatti di mera disobbedienza civile: come i sit-in contro la costruzione della “tav” (sostituendo la sanzione amministrativa con la reclusione sino a un mese e la multa fino a 300 euro: art. 14), o come le proteste pacifiche negli istituti penitenziari, accomunando alle “rivolte violente” le “condotte di resistenza passiva”, anche quoad poenam ma del tutto irragionevolmente e sproporzionatamente (art. 26). Lo stesso può dirsi per l’assimilazione circa la partecipazione ad “una rivolta” di gruppi di stranieri nei centri di trattenimento (che non sono carceri!) tra “atti di violenza”, “minaccia” e, ancora, “resistenza passiva” (art. 27). Superando lo stesso Codice Rocco si prevede la possibilità di disporre la detenzione (in istituti di custodia attenuata) di donne incinte e madri con prole fino a un anno senza nessun riguardo per i valori della maternità e della neonatalità (art. 15). Gli altri reati e le aggravanti, che portano ad inasprimenti sanzionatori davvero importanti, hanno il senso di restringere i margini delle libertà costituzionali di soggetti vulnerabili, in maniera ingiustificata e sproporzionata se si applicano, caso per caso, oltre al buon senso, i criteri della giurisprudenza costituzionale. Per non parlare della misura di prevenzione del “Daspo Urbano”, oltre che a prostitute, accattoni, ubriachi estesa ai soggetti denunciati o condannati anche con sentenza non definitiva nel corso dei 5 anni precedenti (art. 13).
Le norme, poi, che si riferiscono a speciali forme di tutela nei confronti delle forze di polizia, delle forze armate, dei vigili del fuoco, si presentano del tutto ingiustificate se, per farlo, si assume la categoria della sicurezza pubblica come incolumità dei cives. Il nuovo reato di “lesioni semplici” ai danni di ufficiali e agenti (art. 20), gli incrementi sanzionatori e le sanzioni pecuniarie per il depauperamento e l’imbrattamento di beni mobili e immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche (art. 24), la tutela economico-legale per agenti e militari (estesa al coniuge o al convivente del dipendente deceduto, artt. 22 e 23), la tutela delle funzioni istituzionali della Guardia di finanza e delle Forze di polizia che partecipano a missioni internazionali (art. 29 e 30), l’ampliamento delle condotte scriminabili per gli agenti dei servizi di intelligence mediante l’ampliamento dei reati per i quali non è opponibile il segreto di Stato (art. 31), l’autorizzazione al porto d’armi “senza licenza” per gli agenti di pubblica sicurezza quando non in servizio (art. 28), mirano all’incolumità pubblica o alla protezione dei titolari della “forza pubblica”? Dov’è finita quella cultura liberale che aveva ispirato i fondamenti del diritto penale europeo a partire dal nostro Cesare Beccaria?
8. Il fondo del d.l. n. 48/2025 è disvelato. La ratio che ne sorregge la disciplina positiva non è la garanzia dell’incolumità pubblica nel senso costituzionale, ma la “sicurezza dell’autorità” e l’ “insicurezza” di emarginati, fragili, donne, minorenni, migranti, resistenti e oppositori, innalzando limiti arbitrari e sproporzionati all’esercizio di alcune libertà fondamentali, da quella di manifestare liberamente il proprio pensiero, alla libertà di riunione in tutte le sue forme, alla libertà di impresa economica privata (vedi la norma che vieta qualsiasi attività dedicata alla produzione della canapa: art. 18). Un vulnus all’essenza di una democrazia, che proprio le minoranze e le opposizioni dovrebbe presidiare. Se la Costituzione fosse stata considerata, nessuna o quasi delle disposizioni approvate e convertite in legge sarebbe stata scritta così. Ma la prassi politico-parlamentare e il clima complessivo del Paese non lo consentono.
È stato detto che, in molti casi, si tratta di disposizioni prive di effetto, di difficile se non impossibile applicazione. Che però determineranno – va aggiunto – un ulteriore incremento del contenzioso, e aumenteranno, anziché ridurre, l’annoso problema del sovraffollamento carcerario. È del pari chiaro che molte delle previsioni, specie quelle in materia penale, per evidenti ragioni di (non) offensività, indeterminatezza e (non) proporzionalità sanzionatoria saranno destinate a cadere di fronte alla giurisprudenza costituzionale sull’individualizzazione della responsabilità penale.
Il vero problema di questo testo è che rappresenta una minaccia tutt’altro che astratta ma molto concreta nei confronti dello stato di diritto e della garanzia dei diritti di libertà, Uno schiaffo alla Repubblica democratica e alla sua Costituzione. E, quindi, una violenza esercitata nei confronti dei cittadini, cui si promette, in cambio di una minore libertà, una protezione niente affatto rassicurante mediante “il braccio violento di un decreto-legge”.
Sul tema si veda anche: Sul Pacchetto sicurezza varato con decreto-legge, La “speciale” causa di giustificazione per gli agenti dei Servizi di informazione. Note critiche a partire dal D.d.l. “Sicurezza” di Antonio Fabio Vigneri, Il DDL Sicurezza e il carcere di Fabio Gianfilippi, Il diritto penale italiano verso una pericolosa svolta securitaria, È compito della Repubblica. Note sul DDL Sicurezza di Enrico Grosso.
Contributo già apparso qui https://www.associazionedeicostituzionalisti.it/it/la-lettera/04-2025-il-decreto-legge-sicurezza/rovesciare-la-costituzione-performativa-sicurezza-in-cambio-della-liberta.
QUESITO n. 1
Il primo dei quattro referendum sul lavoro si propone di ottenere la abrogazione della disciplina sui licenziamenti del contratto a tutele crescenti introdotta con il decreto legislativo n. 23 del 2015.
Con questa riforma è stato istituito il cosiddetto contratto a tutele crescenti che si applica ai dipendenti assunti dopo il 7 marzo 2015. Il contratto a tutele crescenti è un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato che non ha alcuna differenza sostanziale con il normale rapporto di lavoro dipendente: l’unica differenza è rappresentata dalla disciplina sul licenziamento illegittimo.
Sul punto occorre chiarire subito un dettaglio non insignificante: quando si discute di tutela contro il licenziamento, non ci si riferisce a un qualunque recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro, ma solo all’espulsione illegittima del lavoratore. Il licenziamento motivato e legittimo non dà luogo a reintegrazioni o risarcimenti. Il licenziamento contro il quale sono previste tutele è solo quello nullo o illegittimo.
Attualmente ai dipendenti assunti dalle imprese con più di 15 dipendenti prima del 7 marzo 2015 si applica l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, così come modificato dalla riforma Fornero nel 2012, mentre ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 si applica la normativa che il referendum intende abrogare.
Nella sua versione originaria, l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori sanciva una regola molto semplice: in caso di licenziamento illegittimo sia per motivi formali che per motivi sostanziali il lavoratore aveva sempre diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, oltre al risarcimento del danno patito pari alle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento sino alla reintegrazione effettiva.
In sostanza si tratta di una forma di risarcimento in forma specifica o tutela reale che ripristina la situazione di fatto precedente all’atto illecito. Il ripristino della situazione precedente all’illecito non esclude comunque il risarcimento dell’ulteriore danno patrimoniale o non patrimoniale eventualmente subito. Con la tutela per equivalente, invece, si rimedia al pregiudizio subito dal lavoratore solo attraverso la elargizione di una somma di denaro.
La riforma Fornero del 2012 prima ed il Jobs act successivamente nel 2015 hanno marginalizzato la reintegrazione, configurando il risarcimento del danno (la c.d. tutela per equivalente) come ipotesi generale di rimedio al licenziamento invalido: la reintegrazione è stata prevista infatti solo in casi eccezionali. Tale capovolgimento di prospettiva è stato fortemente ridimensionato a seguito di numerose sentenze della Corte costituzionale.
Attualmente, dunque, la normativa del 2015 applicabile ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 prevede:
a) per tutti i casi di licenziamenti discriminatori e nulli per le varie ipotesi di violazione di norme imperative prevista dalla legge la reintegrazione ed il pagamento delle retribuzioni e dei contributi dalla data del licenziamento alla data della effettiva riammissione in servizio (norma applicabile anche nella ipotesi di datori di lavoro con meno di 15 dipendenti);
b) per i licenziamenti illegittimi intimati per motivi disciplinari (giustificato motivo soggettivo e giusta causa) la reintegrazione ed il pagamento delle retribuzioni e dei contributi sino ad un massimo di 12 mensilità nel caso in cui il giudice accerti l’insussistenza del fatto contestato al lavoratore e nella ipotesi in cui la contrattazione collettiva preveda per quel determinato illecito contestato in modo specifico una sanzione conservativa (tale ipotesi è stata aggiunta per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 129/2024): in sostanza nei casi in cui il datore di lavoro licenzia il lavoratore per una condotta per la quale il codice disciplinare prevede espressamente una sanzione conservativa, la conseguenza sanzionatoria è la reintegrazione, mentre per tutte le altre ipotesi residue è previsto un indennizzo tra un limite minimo di 6 ed un limite massimo di 36 mensilità di retribuzione quantificato sulla base dell’anzianità di servizio e di altri criteri;
c) nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (il c.d. licenziamento per motivi economici ed organizzativi) è prevista, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 128/2024, la reintegrazione con il pagamento delle retribuzioni e dei contributi sino ad un limite massimo di 12 mensilità nella ipotesi in cui sia dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, mentre negli altri casi, come ad esempio nella ipotesi di mancata ricollocazione del lavoratore in mansioni equivalenti oppure in mansioni inferiori, al lavoratore spetta solo l’indennizzo sempre con i limiti tra 6 e 36 mensilità;
d) per i licenziamenti collettivi (ossia i licenziamenti previsti per le ristrutturazioni aziendali e le riorganizzazioni del lavoro) il solo indennizzo (sempre con il limite minimo di 6 ed il limite massimo di 36 mensilità) sia per i casi di violazione delle procedure sindacali che per i casi di violazione dei criteri di scelta.
Nel caso in cui il referendum raggiungesse il quorum e avesse esito positivo, anche ai dipendenti assunti a partire dal 7 marzo 2015 si applicherebbero le misure sanzionatorie disciplinate dall’art. 18 Stat. Lav., così come modificato dalla “Legge Fornero” del 2012 che si applicano attualmente ai lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015.
Ebbene la c.d. riforma Fornero, così come rimodulata a seguito di alcune sentenze della Corte Costituzionale, ha previsto
e) per tutti i casi di licenziamenti discriminatori e nulli per violazione di norme imperative previste dalla legge la reintegrazione ed il pagamento delle retribuzioni e dei contributi dalla data del licenziamento sino alla data della effettiva reintegrazione (norma applicabile anche nella ipotesi di datori di lavoro con meno di 15 dipendenti);
a) per i licenziamenti soggettivi e per giusta causa la reintegrazione ed il pagamento delle retribuzioni e dei contributi con un limite massimo di 12 mensilità, quando viene accertata l’insussistenza del fatto contestato al lavoratore o quando il Giudice rileva la applicabilità al fatto contestato di una sanzione conservativa, anche nella ipotesi in cui l’addebito contestato non sia tipizzato in modo specifico dal contratto collettivo applicato, nonché il solo indennizzo con un limite minimo di 12 ed un limite massimo di 24 mensilità nelle ipotesi residue;
b) per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo la reintegrazione ed il pagamento delle retribuzioni e dei contributi sino ad un massimo di 12 mensilità, quando viene accertata l’insussistenza delle ragioni addotte dal datore di lavoro o la violazione dell’obbligo di ricollocazione in azienda, mentre l’indennizzo con un limite minimo di 12 ed un limite massimo di 24 mensilità di retribuzione per tutte le altre ipotesi;
c) per i licenziamenti collettivi per ristrutturazione e riduzione del personale la reintegrazione per i soli casi di violazione dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare e l’indennizzo da 12 a 24 mensilità di retribuzione per i casi di violazione delle procedure sindacali.
Ebbene sussistono ancora differenze di trattamento a seconda che si applichi l’art. 18, così come modificato dalla riforma Fornero oppure il D.Lgs. n. 23 del 2015.
Infatti il decreto n. 23 del 2015, a seguito dell’intervento della Corte costituzionale (sentenza n. 129 del 2024), prevede la reintegrazione nella ipotesi in cui il fatto contestato sia insussistente o il contratto collettivo preveda per quella specifica condotta in modo espresso una sanzione diversa dal licenziamento, come il rimprovero scritto, la multa o la sospensione dal lavoro: ciò significa che per un inadempimento lieve, non specificatamente contemplato dal contratto collettivo tra le sanzioni conservative (e ciò accade frequentemente, in quanto le clausole dei contratti collettivi sono spesso generiche), il licenziamento, pur essendo illegittimo, può non comportare la reintegrazione, ma un semplice indennizzo.
Ad esempio il lavoratore, assunto dopo il 7 marzo 2015 e licenziato per un ritardo anche minimo nell’inizio della attività lavorativa, se il ritardo non è contemplato in modo espresso dal contratto collettivo applicato come ipotesi di illecito disciplinare cui applicare una sanzione conservativa come la multa o la sospensione dal lavoro, può ottenere giudizialmente un semplice indennizzo, mentre nella stessa ipotesi il lavoratore, assunto prima del 7 marzo 2015 cui si applica l’art. 18, può ottenere la reintegrazione sul posto di lavoro ed il pagamento delle retribuzioni.
Inoltre con il Jobs Act spetta al lavoratore il semplice indennizzo e non la reintegrazione nella ipotesi di licenziamento per motivi economici o organizzativi, ad esempio per soppressione del posto di lavoro o riorganizzazione della struttura, anche quando viene provato in giudizio che il datore di lavoro avrebbe potuto collocare il dipendente in altro posto disponibile (cd. violazione dell’obbligo di repechage).
Ugualmente al lavoratore assunto dopo il 7 marzo 2015 spetta il solo indennizzo e non la reintegrazione nel caso di un licenziamento collettivo in cui vengono violati i criteri di scelta previsti dalla legge, come l’anzianità di servizio o i carichi di famiglia.
Non è pertanto corretto affermare che, con l’eventuale successo del referendum ed il conseguente ritorno alla disciplina Fornero, i lavoratori nella ipotesi di licenziamento illegittimo otterrebbero sempre e comunque solo un indennizzo tra le 12 e le 24 mensilità, ossia una tutela deteriore rispetto all’importo previsto dal Jobs Act a titolo di indennizzo tra un limite minimo di 6 ed un limite massimo di 36 mensilità. Come è stato rilevato, il rimedio dell’indennizzo è divenuto un rimedio assolutamente residuale, in quanto, a seguito delle numerose sentenze della Corte Costituzionale che si sono succedute negli ultimi anni, lo schema che prevedeva l’indennizzo come rimedio generale e la reintegrazione come ipotesi sanzionatoria eccezionale è stato integralmente capovolto: la reintegrazione rappresenta attualmente il rimedio tendenzialmente generale sia con riferimento all’impianto normativo previsto dalla riforma Fornero che in relazione al Jobs Act.
A tal proposito occorre anche ricordare che il lavoratore, a seguito della sentenza del Giudice che dispone la reintegrazione, preferisce nella maggioranza dei casi non rientrare in azienda ed esercitare la c.d. opzione alternativa, sostitutiva della reintegrazione, che prevede a carico dell’ex datore di lavoro il versamento di 15 mensilità di retribuzione, oltre il pagamento delle retribuzioni con i versamenti contributivi.
È evidente, dunque, che se vi sono più possibilità normative di ottenere la reintegrazione (nella disciplina della riforma Fornero le possibilità di ottenere la reintegrazione sono più accentuate rispetto al c.d. Jobs act), più alta è la possibilità per il lavoratore illegittimamente licenziato di ottenere con la opzione sostitutiva un ristoro economico più corposo.
QUESITO n. 2
La norma interessata dal quesito è l’art. 8 della L. 604/1966: “Quando risulti accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo, il datore di lavoro è tenuto a riassumere il prestatore di lavoro entro il termine di tre giorni o, in mancanza, a risarcire il danno versandogli un'indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 6 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti. La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro.”
La norma citata disciplina le sanzioni del licenziamento disciplinare ed economico dichiarato illegittimo applicabili ai datori di lavoro con un numero di dipendenti inferiore a 15 assunti prima del 7 marzo 2015 e che, se avesse successo il referendum di cui al quesito n. 1, si applicherebbe anche ai dipendenti assunti dal 7 marzo 2015
Orbene la norma in questione prevede esclusivamente un indennizzo con un limite minimo di 2,5 ed un limite massimo di 6 mensilità di retribuzione. La norma prevede la possibilità dell’innalzamento del limite massimo a 10 e 14 mensilità, ma tale ipotesi può verificarsi solo in alcuni casi, ossia quando il lavoratore ha un’anzianità di servizio di 10 anni per elevare il tetto a 10 mensilità e di 20 anni per elevare il tetto a 14 mensilità e che sia dipendente di un datore di lavoro che occupa più di 15 prestatori di lavoro se distribuiti su più unità produttive collocate in comuni diversi e nel complesso fino a 60 dipendenti.
Nel caso in cui il referendum raggiungesse il quorum e avesse esito positivo, il Giudice che ritenesse illegittimo il licenziamento potrebbe condannare il datore di lavoro a un risarcimento a partire da 2,5 mensilità senza un tetto massimo. In sostanza il Giudice in questa ipotesi accerterebbe il danno effettivo che il licenziamento provoca in capo al lavoratore.
Sicuramente un tetto massimo di sei mensilità per lavoratori che hanno una anzianità di servizio notevole è ben poca cosa, dal momento che molto spesso le imprese con meno di 15 dipendenti hanno una caratura economica e finanziaria superiore alle imprese con più di 15 dipendenti.
Il rischio paventato da alcuni secondo cui il Giudice del lavoro, nella ipotesi di superamento del quorum e vittoria del sì, possa riconoscere un risarcimento sproporzionato ed eccessivo appare infondato, in quanto la norma che residuerebbe dalla abrogazione imporrebbe comunque al lavoratore l’onere di provare il danno in concreto effettivamente subito. È evidente che il datore di lavoro avrebbe sempre l’onere di provare il c.d “aliunde perceptum”, ovvero la riduzione del danno derivante dalla circostanza che il lavoratore ha percepito altri redditi dopo la cessazione del rapporto di lavoro.
Inoltre va ricordato che il giudice è sempre tenuto a spiegare con la motivazione le ragioni per le quali ha deciso di optare per quella determinata quantificazione, tenendo conto della anzianità di servizio del lavoratore, delle dimensioni dell’impresa e del numero dei dipendenti della stessa.
Peraltro la stessa Corte costituzionale ha affermato che, anche per i lavoratori delle imprese con meno di 15 dipendenti, il risarcimento deve essere effettivo e dissuasivo verso la tenuta di condotte illecite.
Ed allora non si comprende per quale ragione alla ipotesi del danno derivante dal licenziamento illegittimo non debba applicarsi lo stesso principio che si applica in ogni ipotesi di danno provocato da un terzo. Se infatti il proprietario di un fondo che subisce un danno ad un immobile di proprietà da parte di un terzo che ha attraversato il fondo ha il diritto di pretendere dal soggetto danneggiante il risarcimento integrale del danno effettivamente subito, lo stesso principio civilistico di copertura integrale del danno effettivamente subito deve valere anche per il rapporto di lavoro.
QUESITO n. 3
La norma interessata dal terzo quesito referendario è l’art. 19, primo comma, del d.lgs. n. 81 del 2015 “Apposizione del termine e durata massima”: “1. Al contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine di durata non superiore a dodici mesi. Il contratto può avere una durata superiore, ma comunque non eccedente i ventiquattro mesi, solo in presenza di almeno una delle seguenti condizioni: a) nei casi previsti dai contratti collettivi di cui all'articolo 51; b) in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il ((31 dicembre 2025)), per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti; b-bis) in sostituzione di altri lavoratori.”
Il terzo quesito è finalizzato ad ottenere l’abrogazione di alcune porzioni di disposizioni dell’articolo 19 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, ossia la norma che stabilisce le condizioni alle quali è possibile assumere un lavoratore con un contratto a termine.
In base alla disciplina vigente più volte modificata nel 2023 e nel 2024 l’assunzione a termine può avvenire senza la necessità di specificare alcuna motivazione o giustificazione per i primi 12 mesi. Una volta superato tale termine, e comunque nel rispetto del limite massimo di 24 mesi, è possibile per un datore di lavoro assumere con un contratto a termine solo al fine di sostituire lavoratori assenti e nei casi previsti dalla contrattazione collettiva, oppure ancora sino alla fine dell’anno 2025 per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle singole parti.
In sostanza, con il superamento del quorum e l’eventuale vittoria dei sì, l’utilizzo del contratto a termine sarebbe sempre subordinato alla esplicitazione di motivi specifici indicati dalla legge, ossia ragioni sostitutive di altri lavoratori assenti ad esempio per maternità, ferie, infortuni, aspettative o altro e nei casi previsti dagli accordi sindacali stipulati con le associazioni sindacali più rappresentative.
La novità della eventuale abrogazione sarebbe il venir meno della possibilità di assumere a termine senza alcuna motivazione per il periodo di 12 mesi. Attualmente infatti tali assunzioni non devono essere motivate.
Non vi è alcun dubbio che nel nostro ordinamento giuridico il contratto a tempo indeterminato rappresenti la forma comune dei rapporti di lavoro ed il contratto a termine una eccezione: è chiaro l’intento perseguito dai promotori del referendum di limitare il più possibile il ricorso da parte dei datori di lavoro al lavoro precario. Tuttavia la possibilità di ricorrere al contratto a termine per un anno senza l’onere di addurre motivazione appare un giusto compromesso tra le esigenze di tendenziale stabilità del posto del lavoro di lavoro del lavoratore e le esigenze di flessibilità perseguite dal datore di lavoro.
QUESITO n. 4
La norma interessata dal referendum è l’art. 26, comma 4, del d.lgs 81/2008: “Ferme restando le disposizioni di legge vigenti in materia di responsabilità solidale per il mancato pagamento delle retribuzioni e dei contributi previdenziali e assicurativi, l'imprenditore committente risponde in solido con l'appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori, per tutti i danni per i quali il lavoratore, dipendente dall'appaltatore o dal subappaltatore, non risulti indennizzato ad opera dell'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) o dell'Istituto di previdenza per il settore marittimo (IPSEMA). Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell'attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici”.
L’art. 26 del Testo Unico sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro è la norma che si occupa dei problemi di sicurezza che si pongono in caso di affidamento in appalto o subappalto di lavori, servizi e forniture all'interno dell’azienda o nell'ambito dell'intero ciclo produttivo della committente: il presupposto della applicazione della norma è che il committente abbia la disponibilità dei luoghi in cui si svolge la attività appaltata.
Il comma 4 prevede che il committente degli appalti, ossia la società che sceglie l’impresa appaltatrice risponda, insieme all’appaltatore o subappaltatore, dei danni alla salute con riferimento agli importi non coperti dalle indennità previdenziali ai dipendenti che operano nell’ambito dei lavori appaltati e che subiscano infortuni o contraggano malattie professionali in tale contesto ambientale: si pensi al danno alla salute permanente, al danno alla salute temporaneo, oppure al danno patrimoniale da perdita di capacità lavorativa.
In sostanza questa disposizione esclude la responsabilità solidale del committente in caso di infortunio subito da un lavoratore dipendente di impresa appaltatrice o subappaltatrice, quando l’infortunio derivi da rischi specifici propri dell’attività dell’impresa esecutrice. Se l’evento lesivo è imputabile esclusivamente a un rischio tipico dell’appalto, il committente non ne risponde.
Ad esempio se una società della grande distribuzione affida la ristrutturazione di un proprio supermercato ad una impresa edile e un muratore dipendente di quest’ultima subisce un infortunio o muore durante la fase della demolizione o della costruzione, in base alla normativa attualmente vigente la società in questione non è tenuta a risarcire i danni all’operaio infortunato o alla sua famiglia in caso di decesso.
Con il successo del referendum la responsabilità si estenderebbe anche ai danni da violazione delle misure di sicurezza su tali rischi specifici ovviamente sempre in relazione a quelle attività che si svolgono nei luoghi a disposizione del committente.
L’idea che il committente debba rispondere, insieme all’appaltatore, dei danni subiti dal lavoratore, anche quando non ha una responsabilità diretta, potrebbe non essere ritenuta giusta, anche se occorre ricordare che la responsabilità risarcitoria solidale rappresenta anche uno strumento di tutela del lavoratore che non ha alcuna possibilità di intervenire sulla scelta dell’appaltatore e sull’organizzazione dell’appalto.
La responsabilità solidale può anche costituire uno stimolo per le società committenti a selezionare le imprese più affidabili ed a non utilizzare l’appalto come uno strumento per perseguire solo risparmi sul costo del lavoro. Per i lavoratori la estensione della responsabilità solidale comporterebbe anche una maggiore possibilità di tutela in quei casi di infortuni o malattie professionali non indennizzati perché l’appaltatore o il subappaltatore è insolvente (ipotesi non infrequente).
Tutti i contributi sui referendum dell'8 e del 9 giugno 2025 apparsi sulla nostra rivista si possono trovare qui.
Immagine: Diego Velázquez, Filatrici (La favola di Aracne), 1655, olio su tela, Museo del Prado, Madrid.
Sommario: 1. Il quesito referendario – 2. La normativa interessata dall’intervento abrogativo: la legge n. 91/1992 e i requisiti d’accesso alla cittadinanza per naturalizzazione – 3. La normativa di risulta in caso di approvazione del referendum – 4. Per un esercizio consapevole del diritto di voto: le effettive tempistiche di concessione della cittadinanza e il contesto europeo.
1. Il quesito referendario
Con più decreti del Presidente della Repubblica pubblicati in Gazzetta Ufficiale n. 75 del 31 marzo 2025, sono stati indetti cinque referendum abrogativi. Ai primi quattro, omogenei per materia in quanto tutti attinenti a norme in materia di diritto del lavoro e volti ad un ampliamento delle tutele dei lavoratori, se ne affianca un quinto che riguarda il diverso tema, da anni in discussione nel dibattito pubblico italiano, della modifica dei requisiti di accesso alla cittadinanza italiana per gli stranieri residenti sul territorio.
Il titolo del quesito assegnato dall’Ufficio Centrale per il Referendum della Corte di Cassazione[1], che ha dichiarato conforme a legge la richiesta di referendum abrogativo, è il seguente: “Cittadinanza italiana: Dimezzamento da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia dello straniero maggiorenne extracomunitario per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana”.
Questo il testo del quesito referendario, dichiarato ammissibile dalla Corte Costituzionale con la sentenza nr. 11/2025: «“Volete voi abrogare l’art. 9, comma 1, lettera b), limitatamente alle parole "adottato da cittadino italiano" e "successivamente alla adozione"; nonché la lettera f), recante la seguente disposizione: "f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica.", della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza"?».[2]
2. La normativa interessata dall’intervento abrogativo: la legge n. 91/1992 e i requisiti d’accesso alla cittadinanza per naturalizzazione
Le disposizioni interessate dalla proposta di referendum abrogativo sono dunque quelle di cui alle lettere b) ed f) dell’art. 9, comma 1 della legge n. 91/1992, intitolata “Nuove norme sulla cittadinanza”.
La legge n. 91/1992 è un testo normativo fondamentale nell’ordinamento italiano, in quanto deputata alla disciplina dei criteri di acquisto della cittadinanza. Il principale tra questi criteri è il cosiddetto “ius sanguinis”, per cui è cittadino italiano il soggetto nato da un cittadino italiano[3]; il nostro sistema privilegia dunque l’acquisto della cittadinanza per discendenza, in contrapposizione con quegli ordinamenti che al contrario associano l’acquisizione della cittadinanza al fatto della nascita nel territorio dello stato (cosiddetto “ius soli”), al di là di ogni considerazione della cittadinanza dei genitori[4]. Si possono poi richiamare, quali ipotesi di maggior rilievo ed applicazione concreta, l’acquisto della cittadinanza dello straniero per matrimonio o unione civile con cittadino italiano[5] e del minore straniero per adozione da parte di cittadini italiani[6]. È poi prevista anche una forma di acquisto della cittadinanza per nascita sul territorio italiano, ma solo per il caso in cui i genitori siano ignoti, apolidi o non in grado di trasmettere la propria cittadinanza (diversa da quella italiana) ai figli sulla base delle leggi dello Stato di cui sono cittadini[7] (si può parlare, pertanto, di una forma di ius soli “marginale”[8]).
L’articolo 9 della legge 91/1992 disciplina invece le modalità di acquisto della cittadinanza per “naturalizzazione”; di seguito si riporta il testo del primo comma dell’articolo, interessato dal quesito referendario:
“1. La cittadinanza italiana può essere concessa con decreto del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, su proposta del Ministro dell'interno:
a) allo straniero del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono stati cittadini per nascita, o che è nato nel territorio della Repubblica e, in entrambi i casi, vi risiede legalmente da almeno tre anni, comunque fatto salvo quanto previsto dall'articolo 4, comma 1, lettera c);
b) allo straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano che risiede legalmente nel territorio della Repubblica da almeno cinque anni successivamente alla adozione;
c) allo straniero che ha prestato servizio, anche all'estero, per almeno cinque anni alle dipendenze dello Stato;
d) al cittadino di uno Stato membro delle Comunità europee se risiede legalmente da almeno quattro anni nel territorio della Repubblica;
e) all'apolide che risiede legalmente da almeno cinque anni nel territorio della Repubblica;
f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica.”
L’articolo in questione è chiaro nel riconoscere la natura discrezionale del potere dello Stato di riconoscimento della cittadinanza allo straniero (come si evince dall’espressione “La cittadinanza italiana può essere concessa”): anche nel caso in cui questi sia in possesso dei requisiti delineati, in via alternativa, dalle lettere da a) ad f), non acquisisce automaticamente il diritto alla cittadinanza; lo straniero si troverà “solo” nelle condizioni di poter presentare una richiesta di concessione della cittadinanza per naturalizzazione, e la sua pretesa in tal senso nei confronti dell’autorità amministrativa viene qualificata in termini di interesse legittimo.[9] Nelle ipotesi delineate da ciascuna di queste disposizioni, infatti, come valorizzato dalla giurisprudenza di legittimità, resta in capo all’autorità amministrativa una valutazione di opportunità del riconoscimento della cittadinanza, che tiene conto di tutti gli aspetti da cui si può desumere che il richiedente sia effettivamente integrato nella comunità nazionale, sotto molteplici profili: conoscenza e osservanza delle regole giuridiche, assimilazione dei valori costituzionali e della cultura.[10]
In punto di requisiti di ammissibilità della richiesta di cittadinanza, poi, occorre effettuare alcune precisazioni. Innanzitutto, ove l’articolo 9 della legge 91/1992 richiede la “residenza legale sul territorio”, si riferisce non al periodo di soggiorno regolare dello straniero sul territorio, ovverosia alla mera titolarità di un permesso di soggiorno, essendo infatti necessario che lo straniero sia altresì iscritto all’anagrafe della popolazione residente. Nonostante la disposizione non lo espliciti, è poi ulteriormente necessario che la residenza legale sul territorio non sia interrotta, ad esempio a causa di un periodo di residenza all’estero.[11]
Un ulteriore requisito per la naturalizzazione è stato poi introdotto con il c.d. “Decreto Sicurezza” (D.L. n. 113/2018, convertito in legge n. 132/2018) ed è oggi previsto all’art. 9.1 L.91/1992, che subordina la concessione “al possesso, da parte dell'interessato, di un'adeguata conoscenza della lingua italiana, non inferiore al livello B1 del Quadro comune europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue (QCER)”.
Nonostante la legge non contempli espressamente ulteriori presupposti di ammissibilità della richiesta di cittadinanza per naturalizzazione, in realtà la valutazione amministrativa tiene conto anche dell’adeguatezza del reddito dello straniero richiedente, in quanto con l’acquisto della cittadinanza lo straniero diventa destinatario degli obblighi di solidarietà economica e di partecipazione alla spesa pubblica in ragione della propria capacità contributiva di cui rispettivamente agli artt. 2 e 53 Cost. Nello specifico, la capacità contributiva del richiedente è valutata sulla base dei parametri di cui all’art. 3 del D.L. n. 382/1989, convertito in L. 8/1990 (in tema di esenzione dalla partecipazione alla spesa sanitaria da parte dei titolari di pensione di vecchiaia). La giurisprudenza[12]ritiene poi applicabile anche alle domande di cittadinanza per naturalizzazione anche l’art. 6 della legge 91/1992, dettata in materia di domande di cittadinanza per matrimonio, per cui l’accesso alla cittadinanza è precluso in presenza di precedenti penali per uno o più dei delitti individuati al primo comma dell’art. 6 o di “comprovati motivi inerenti alla sicurezza della Repubblica”[13], ovverosia di valutazione di pericolosità sociale del richiedente.[14]
3. La normativa di risulta in caso di approvazione del referendum
Il referendum sulla cittadinanza propone l’abrogazione di due norme del comma 1 dell’art. 9 legge n. 91/1992: la lettera f), di cui si richiede la totale eliminazione, e alcune parole della lettera b). Per quanto concerne l’intervento sulla lettera b), di seguito si pongono a confronto i testi della disposizione ante e post intervento referendario:
Testo attuale: “1. La cittadinanza italiana può essere concessa con decreto del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, su proposta del Ministro dell'interno: […] b) allo straniero maggiorenne adottato da cittadino italiano che risiede legalmente nel territorio della Repubblica da almeno cinque anni successivamente alla adozione.”
Testo come eventualmente modificato per effetto dell’approvazione del referendum cittadinanza: “1. La cittadinanza italiana può essere concessa con decreto del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, su proposta del Ministro dell'interno: […] b) allo straniero maggiorenne che risiede legalmente nel territorio della Repubblica da almeno cinque anni.”
Obiettivo di strutturare il quesito in tal modo, prevedendo dunque due abrogazioni contestuali, di cui una totale ed una effettuata con la tecnica del “ritaglio”, ovverosia andando a intervenire su di una disposizione eliminandone specifiche parole in modo che essa assuma altro e diverso significato, è ottenere una normativa di risulta omogenea. Si raggiunge infatti al contempo il duplice risultato:
-dell’eliminazione del requisito di 10 anni di residenza legale sul territorio italiano per la concessione della cittadinanza allo straniero proveniente da uno Stato non appartenente all’Unione Europea;
- dell’estensione anche a questa categoria di stranieri del diverso presupposto per la concessione della cittadinanza della residenza legale sul territorio ininterrotta per 5 anni, previsto con riferimento a ben tre categorie di stranieri nella legge 91/1992: oltre ai cittadini di Stati extraeuropei maggiorenni adottati da cittadino italiano (l’ipotesi di cui all’art. 9 comma 1 lettera b), la disposizione su cui incide il “ritaglio” dell’abrogazione referendaria), anche gli apolidi (art. 9, comma 1, lett. E) e i cittadini di Stati extraeuropei cui è riconosciuto lo stato di rifugiato (art. 16, comma 2)[15]
Tale modifica non va in alcun modo ad incidere sulla caratterizzazione della concessione della cittadinanza come potere discrezionale dello Stato nei termini già chiariti: non è introdotto alcun diritto soggettivo dello straniero legalmente residente per cinque anni sul territorio all’acquisizione della cittadinanza italiana. Permangono altresì gli ulteriori requisiti di ammissibilità della richiesta di naturalizzazione già esaminati: residenza legale ininterrotta, reddito adeguato, conoscenza della lingua italiana, assenza di precedenti penali e di pericolosità sociale.
L’abrogazione referendaria, pertanto, ha quale unico effetto di dimezzare il periodo di tempo trascorso il quale lo straniero proveniente da paesi extra europei e legalmente residente in Italia può richiedere la concessione della cittadinanza.
4. Per un esercizio consapevole del diritto di voto: le effettive tempistiche di concessione della cittadinanza e il contesto europeo
Un importante aspetto di cui occorre tener conto, ai fini di comprendere l’effettivo potenziale impatto dell’approvazione del referendum sulla cittadinanza, è rappresentato dalle tempistiche attualmente necessarie per il riconoscimento della cittadinanza per naturalizzazione. Decorso il termine di 10 anni di residenza legale, dalla data di presentazione della domanda decorre poi il termine per la conclusione del procedimento previsto dall’art. 9 -ter della legge 91/1992, come modificato da ultimo dal D.L. 21 ottobre 2020, n. 130 (convertito con modificazioni dalla L. 18 dicembre 2020, n. 173), e fissato in ventiquattro mesi prorogabili fino al massimo di trentasei mesi (nel caso in cui l’istruttoria sulla sussistenza dei requisiti richieda tempi più tempo per la sua conclusione), dunque un termine particolarmente lungo. Peraltro, per le domande presentate prima dell’entrata in vigore della modifica dell’art. 9-ter di cui al D.L. 130/2020, il termine si estende a quarantotto mesi (quattro anni), in forza della disciplina precedentemente vigente.[16]
Tali tempistiche non subirebbero alcuna modifica in forza dell’approvazione del referendum, che non incide sull’art. 9-ter.: anche in caso di effettivo dimezzamento del tempo di residenza minima sul territorio, l’effettivo riconoscimento della cittadinanza per lo straniero extracomunitario non interverrebbe, di fatto, che dopo sette o financo otto anni di residenza regolare sul territorio.[17]
Si deve ulteriormente tener conto del fatto che la previsione di un requisito di residenza minima di 10 anni per l’accesso alla cittadinanza colloca l’ordinamento italiano tra i Paesi europei con la legislazione più restrittiva in materia di naturalizzazione, accanto ad Austria, Lituania, Slovenia e Spagna; peraltro, significativa è la recente innovazione normativa operata dalla Germania, che ha ridotto il requisito della residenza da 8 a 5 anni.[18]
In relazione a tale contesto, lo strumento referendario, per quanto per sua natura affatto adatto a realizzare una riforma organica della disciplina della cittadinanza, riforma di cui peraltro è evidentemente sentita la necessità nel dibattito pubblico e politico (ne può essere ritenuta segnale la recentissima approvazione del d.l. 28 marzo 2025, n. 36, pubblicato nella G.U. n. 73 del 28 marzo 2025, che introduce “disposizioni urgenti in materia di cittadinanza” e in particolare di trasmissione della cittadinanza iure sanguinis[19]), rappresenta tuttavia un importante mezzo, nell’inerzia del legislatore, per rinnovare l’ordinamento nazionale nella direzione di un adeguamento della disciplina agli standard europei, oltre che ad un contesto culturale e sociale nazionale profondamente mutato rispetto agli anni di approvazione della legge 91/1992.
[1] V. Ordinanza nr. 12/2024
[2] V. GU Serie Generale n.75 del 31-03-2025
[3] V. Legge 5 febbraio 1992, n. 91, art. 1 comma 1 lett. a
[4] Cf. C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, I, Padova 19759, 125 s
[5] V. Legge 5 febbraio 1992, n. 91, art. 5
[6] V. Legge 5 febbraio 1992, n. 91, art. 3 comma 1
[7] V. Legge 5 febbraio 1992, n. 91, art. 1 comma 1 lett. b
[8] Sul tema delle possibili declinazioni del requisito dello ius soli per l’acquisto della cittadinanza, v. ALESSIO RAUTI, Lo ius soli in Italia: alla vigilia di una possibile svolta?, in Rivista AIC, 2017, n. 3
[9] Cfr. CHIARA CUDIA, Acquisto della cittadinanza per naturalizzazione e questioni di giurisdizione: alla ricerca della legalità sopita”, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 2022, n. 2
[10] Come chiarito da Cass. civ., SU, 21 ottobre 2021, n. 29297
[11] Cfr. IRENE MARCONI, Cosa significa cittadinanza per naturalizzazione in Italia, https://www.altalex.com/, 15/10/2019
[12] Ex multis, Cons. St., sez. III, 14 maggio 2019, n. 3121
[13] V. Legge 5 febbraio 1992, n. 91, art. 6 comma 1 lett. c)
[14] Cfr. IRENE MARCONI, Cosa significa cittadinanza per naturalizzazione in Italia, cit.
[15] Cfr. PAOLO BONETTI, Il referendum popolare abrogativo in materia di cittadinanza italiana: ammissibilità e significato costituzionali, in Osservatorio Costituzionale, 2025, n. 3
[16] Cfr. http://www.libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it/it
[17] Cfr. ALBERTO GUARISO, Il referendum sulla cittadinanza, https://www.questionegiustizia.it/, 24/04/2025
[18] Cfr. LORENZO PICCOLI e altri, Il referendum sulla cittadinanza in Italia: un’opportunità per allinearsi all’Europa, https://firenze.repubblica.it/, 27/05/2025
[19] Cfr. VINCENZO ANTONIO POSO, Il referendum sulla cittadinanza. Intervista di Vincenzo Antonio Poso a Francesca Biondi Dal Monte e Giacomo D’Amico, 22/05/2025.
Tutti i contributi sul referendum del 8-9 giugno 2025 si possono trovare qui.
Volete voi l’abrogazione… ?
Così iniziano i 5 quesiti per l’abrogazione di norme che ostacolano il diritto alla dignità del lavoro e della persona.
Sono quesiti semplici?
Tecnicamente rispondono a domande complesse che però sono facilmente comprensibili perché unificati da un unico intento: aumentare il livello di sicurezza personale e sociale dei lavoratori, diminuire le disuguaglianze e la precarietà, aumentare il livello di democrazia e di libertà del nostro Paese.
Allora è importante andare a votare?
È fondamentale non restare indifferenti e votare SÌ.
I quesiti referendari hanno ad oggetto, in estrema sintesi, l’abrogazione: a) di alcune norme sulla cittadinanza; b) del decreto delegato attuativo del Jobs Act in materia di licenziamenti illegittimi (d.lgs. n. 23 del 4 marzo 2015); c) della disposizione normativa sulla misura massima dell’indennità da licenziamento illegittimo nelle piccole imprese; d) di alcune norme che hanno liberalizzato i contratti a termine; e) della disposizione normativa che esonera l’impresa committente dalla responsabilità in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali.
Questi i nostri approfondimenti.
Lavoro, cittadinanza, democrazia. Cinque referendum abrogativi alla prova del voto popolare
Il referendum su infortuni e appalti: intervista di Vincenzo A. Poso a Claudio Scognamiglio, Patrizia Tullini e Andrea Morrone
Il referendum sui contratti a termine. Intervista di Vincenzo Antonio Poso a Valerio Speziale, Silvia Ciucciovino e Andrea Morrone
Il referendum sul Jobs Act: intervista di Vincenzo Antonio Poso a Maria Teresa Carinci, Bruno Caruso e Andrea Morrone
Il referendum sui licenziamenti nelle piccole imprese. Intervista di Vincenzo Antonio Poso a Orsola Razzolini, Lorenzo Zoppoli e Corrado Caruso
Referendum sul lavoro: luci, ombre e ricadute applicative. Convegno 5 giugno 2025, Roma
Il referendum sulla cittadinanza. Intervista di Vincenzo Antonio Poso a Francesca Biondi Dal Monte e Giacomo D’Amico
Il referendum sulla cittadinanza. L’oggetto del quesito e l’impatto dell’intervento abrogativo di Clara Borré
Il 16 settembre 1935, all’interno della facoltà di giurisprudenza dell’Università di Palermo, vennero rinvenuti i corpi di “Cetti” Zerilli (una ventenne palermitana) e di un milite fascista, uccisi da più colpi di pistola, rinvenuta vicino ai cadaveri, insieme ad alcuni biglietti che attestavano una relazione sentimentale tra i due.
La notizia del fatto venne completamente oscurata dalla cronaca locale e le indagini, nonostante la solerzia di un giudice istruttore e di un funzionario di polizia, velocemente archiviate qualificando l’accaduto come caso di omicidio-suicidio.
Qualcosa non convinse un bravo cronista del Giornale di Sicilia: la versione ufficiale confliggeva con la dinamica dei fatti (l’omicida si era suicidato esplodendo più di un colpo di pistola ed aveva spento la luce della stanza prima del delitto).
Troppe incongruenze, tra cui l’inibizione ai familiari della vittima di partecipare all’autopsia, nonché la mancanza di elementi comprovanti una relazione della giovane con il (presunto) omicida.
Plurimi riscontri evidenziavano invece un legame di Cetti con un'altra e più autorevole figura emergente nei quadri locali del partito nazionale fascista.
Ma soprattutto: perché impedire la divulgazione di un fatto caratterizzato da tutti gli ingredienti per destare interesse? Possibile che il silenzio potesse essere esclusivamente ricondotto alla volontà del regime di attutire le vicende di cronaca nera, per accreditare la percezione di sicurezza di una nazione ostentata come tranquilla e ordinata e rassicurare l’opinione pubblica?
Troppe omissioni, troppi silenzi in una Palermo in camicia nera in cui si pretende una verità di regime, in cui “ogni notizia non data è già una sconfitta”, in cui si delinea uno sfondo fatto di un reticolo di collusioni e pavidità, perché se la verità trionfa da sola, la menzogna ha invece sempre bisogno di complici.
Salvo Palazzolo, inviato speciale del quotidiano “La Repubblica”, autore tra l’altro di saggi scritti in collaborazione con pubblici ministeri palermitani (“Collusi” con Nino di Matteo e “La cattura. I misteri di Matteo Messina Denaro e la mafia che cambia” con Maurizio De Lucia), si cimenta nel suo primo romanzo raccontando la storia della morte violenta di Cetti Zerilli in “L’amore in questa città” (ed. Rizzoli).
Raccogliendo un ideale testimone tramandato dal primo reporter dell’epoca ad uno successivo, e quindi trasmesso a lui, in una suggestiva staffetta di tre generazioni di cronisti che tratteggia una sorta di romanzo nel romanzo, Palazzolo diventa investigatore per raccogliere i brandelli, scoloriti dal tempo, di una storia vera ma taciuta, riempiendo con il suo libro la pagina bianca dell’omicidio della giovane Zerilli.
Con la meticolosa attenzione che caratterizza un buon giornalista di inchiesta, dà corpo ad una “storia” frugando in archivi, emeroteche, atti giudiziari e di polizia, raccogliendo ricordi privati, finendo per dar corpo ad una vicenda che assume tutte le caratteristiche di un cold case.
Emergono così le accorate lettere del padre di Cetti che invoca approfondimenti e giustizia, le testimonianze che delineano una possibile verità alternativa a quella imposta dal regime, il coinvolgimento di gerarchi intesi ad accreditarla, finendo addirittura per disporre l’arresto del “molesto” genitore, incautamente tenace nella sua ricerca di un colpevole.
Cetti Zerilli rivive nelle sue lettere appassionate, in cui la scoperta dell’amore si intreccia con la cronaca del quotidiano, con tutte le difficoltà derivanti, nel contesto storico e meridionale, dal declinare una vita al femminile.
Missive in cui le frasi più ingenue e fervide della giovane innamorata vengono sottolineate dall’organo inquirente per accreditarne una fantomatica “licenziosità” in una inveterata (e inaccettabile) inversione dei ruoli esclusiva dei reati di genere (ma solo se la vittima è una donna).
Ma “L’amore in questa città” non è solo la storia di un femminicidio di regime, quant’anche il racconto del rapporto della sinergia tra potere e censura (che si alimentano a vicenda), della faticosa strada verso la verità (troppo spesso in salita nella storia recente della nostra Italia).
L’omicidio di Cetti Zerilli, mediante l’attività di ricerca storica di Palazzolo, ci consegna un ennesimo caso insoluto, fatto di silenzi, omissioni, insabbiamenti.
Una vicenda certamente minore rispetto alle tante che hanno caratterizzato la Sicilia, ma di portata emblematica, perché in questa affannosa ricerca del cronista palermitano vengono in rilievo temi importanti: la risposta delle istituzioni (qui inerti se non depistanti…), la solitudine dell’investigatore, il pericolo cui proprio l’isolamento inevitabilmente lo espone.
Un rischio personale che deborda dalla storia descritta nelle pagine del libro, finendo per inverarsi in una realtà che vede Salvo Palazzolo attualmente oggetto di tutela con vigilanza rafforzata, per le minacce subite a causa delle sue attuali inchieste sulla mafia.
Palermo fa da sfondo alla storia raccontata nel libro, con le sue “vibrazioni” e i suoi “baratri”, “…buchi neri dove scompaiono parole, prove, testimoni, accuse, ma anche persone”.
L’amore non a caso viene contestualizzato nel titolo del libro: amore “in questa” città, evidenziando anche l’attaccamento per un contesto territoriale difficile, dove l’autore ha maturato una fervida esperienza iniziata nella F.U.C.I. di cui era assistente spirituale don Pino Puglisi.
L’esergo del volume riporta una frase di Lucia Borsellino “Il diritto alla verità non va in prescrizione”: non si può smettere di cercare la verità, che viene a galla solo quando si va a fondo.
La cronaca investigativa di Palazzolo, che avvince il lettore al punto da impedire una lettura rapsodica del testo, conduce ad un finale forse meno appagante rispetto alle aspettative di certezza (impossibile per il decorso del tempo), ma rispettoso della verità, prefigurando la concreta probabilità di una ricostruzione diversa (e cancellata) rispetto a quella imposta dalle circostanze storiche dell’epoca.
Con tutti gli inevitabili limiti offerti da una cronaca postuma, qui come altrove viene professata una religione laica di grande importanza “il culto della memoria”, un vero e proprio “vizio” secondo l’icastica denominazione di Gherardo Colombo.
Memoria di quello che è accaduto, del martirio di alcuni; un atto dovuto per il loro sacrificio e per i loro congiunti (cui residua una sedia vuota e l’ergastolo del dolore), ma anche per gli ideali che spesso sono stati causa del sacrificio della vita.
Cetti Zerilli non assurge certo a rango di eroina civile, ma tocca il cuore del lettore per i semplici valori che ne connotano la sua breve esistenza: il desiderio di indipendenza e di libertà di una ragazza che ci offre i suoi sentimenti con le sue lettere, innamorata dell’amore e che viene uccisa per il suo grande desiderio di vivere.
Le parole che Palazzolo attribuisce all’anziano cronista protagonista del romanzo scalfiscono l’oggi: “…l’amore è libertà, e dunque di per sé viene considerato un ostacolo in certi contesti politici. L’amore sconveniente di chi non si rassegna, anzi di chi guarda avanti. Ecco cosa non vuole il regime”.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.