ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Pubblichiamo, a puntate domenicali, la storia di Al Masri, Il cittadino libico destinatario del mandato di arresto della Corte dell'Aja, arresto dalla polizia italiana a Torino e poi riaccompagnato a casa con il volo di Stato.
La prima puntata racconta di Mitiga e degli orrori che vi si svolgono.
A Mitiga anche in questo momento ci sono persone private di ogni dignità, corpi in balia di torture e vessazioni, che si stanno domandando «ma nessuno si accorge di noi?»
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Prima puntata: Mitiga
Le azioni e il brutale contesto in cui opera l’uomo che la Corte Penale Internazionale ha sottoposto a mandato di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità. Inizia qui un racconto su una realtà che non possiamo ignorare.
Sommario: 1. Presentazione – 2. Senza pace - 3. L’Apparato di deterrenza contro il terrorismo - 4. Bolidi tra sabbia e palme - 5. Carcerati tra aerei e passeggeri - 6. L’inferno in terra.
1. Presentazione
Il “palo”, la “gabbia della Falqa”, la “stanza del telefono” sono nomi o espressioni che ai più dicono nulla, ma che per i prigionieri di Osama Elmasry Njeem suonano come spaventosi. La figura dell’uomo che la prima camera della Corte penale internazionale dell’Aja ha chiesto di arrestare nel gennaio scorso è diventata famigerata dopo il suo discusso e veloce reimpatrio in Libia da parte del nostro Governo.
Di lui, del mondo in cui si muove e agisce sappiamo però poco o nulla. Ne tracciamo dunque un quadro, affinché siano noti il contesto illegale, i gesti criminali della sua milizia, le ragioni della fama acquisita nel suo Paese. Per i media italiani è “Al Masri”. Noi preferiamo chiamarlo “Njeem”, in aderenza ai testi giuridici internazionali.
2. Senza pace
La Libia di oggi è un Paese ancora spaccato in due. L’inizio delle violenze coincide con le proteste, sfociate nella rivolta del 2011 contro il regime di Muammar Mohammed Abu Minyar Gheddafi. Da allora non si sono più placate, anche se i protagonisti (spesso solo i loro nomi) sono cambiati. Gheddafi viene ucciso il 20 ottobre 2011, quando già da almeno sei mesi si era insediato un governo di transizione riconosciuto da molti Stati. Gli scontri tra miliziani riconducibili a diverse fazioni tribali, tuttavia, non si placano fino al colpo di Stato da parte del gruppo armato Libyan National Army (LNA) guidato da Khalifa Belkasim Haftar, il 18 maggio 2014.
È questa la data che segna la rottura permanente – pur con le alterne vicende che caratterizzano i conflitti interni dominati da matrici religiose e alleanze mobili – tra i due blocchi: l’est e alcune parti meridionali, sostanzialmente la Cirenaica, sono sotto il controllo di Haftar; la parte restante della Libia è invece dominata del Governo di accordo nazionale (GNA) di Fayez Al Serraj. Di fatto si tratta di due governi rivali, aventi sede a Tobruk e Tripoli, rispettivamente.
Il 10 marzo 2021 il parlamento libico a Sirte vota la fiducia a un governo di unità nazionale, con sede a Tripoli e riconosciuto dall’ONU. Primo ministro è nominato Abdul Hamid Mohammed Dbeibeh, che s’insedia detronizzando formalmente i due regimi rivali. Nei fatti la Cirenaica, dove nel marzo 2022 si è costituito un governo parallelo con a capo Fathi Bashagha, rimane sotto il controllo di Haftar[1].
Entrambi i governi, privi di vera legittimazione popolare, si reggono sulla forza delle rispettive milizie armate e sull’appoggio di gruppi islamisti integralisti. Gli scontri ripetuti tra gli esponenti delle due fazioni, spesso diretti al controllo di singole infrastrutture energetiche, creano una costante instabilità.
All’esplodere della rivoluzione, nel 2011, un gruppo militare nato a Tripoli nel quartiere Souk al Juma si era schierato subito contro Gheddafi. Il quartiere è nella zona orientale della capitale. Non lontano c’è la base aerea di Mitiga e il gruppo partecipa alla sua presa di controllo. A guidarli è Abdel Raouf Kara.
3. L’Apparato di deterrenza contro il terrorismo
Aumenta così il prestigio dei miliziani rivoluzionari del Souk al Juma. Essi si schierano col Governo di accordo nazionale dopo avere dimostrato il proprio peso militare: si fanno chiamare Forze Speciali di Deterrenza e il relativo acronimo (Al-Radaa o RADAA) conferisce loro un alone di ufficialità in una vera e propria guerra tra bande. Nel 2016 RADAA ottiene il riconoscimento formale da parte del GNA[2].
Si completano così l’ascesa al potere del gruppo di combattenti e l’autorità del suo capo, Abdel Raouf Kara. Si consolida anche la fama del potente generale di Kara, Osama Elmasry Njeem.
Nel 2018 RADAA cambia ancora nome. Diventa l’Apparato di deterrenza per la lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo (DACTO). La nuova qualifica serve a inquadrare la milizia nella struttura del Ministero dell’interno del GNA[3] o forse anche a rimuovere dalla memoria della popolazione qualche traccia dei soprusi commessi durante la rivoluzione. Non basta però l’ufficialità a cancellare la propensione alla brutalità.
Nel 2020 il GNA accorda al DACTO poteri integrativi per assicurare lo stato di polizia locale, combattere il crimine organizzato e il terrorismo e arrestare gli individui sospetti[4]. Nel solo anno 2022 il Ministero dell’interno stanzierà in suo favore 29,5 milioni di dollari USA. DACTO è ormai una milizia potentissima, con un nulla osta, di fatto, per continuare impunemente in azioni illecite e violente per conto del Governo di accordo nazionale[5]. Molta strada si è percorsa da quando, meno di dieci anni prima, si combatteva per conquistare la base di Mitiga con le armi di fortuna affluite dall’estero malgrado l’embargo dell’ONU[6].
4. Bolidi tra sabbia e palme
6 maggio 1933. Sua Eccellenza il Governatore della Libia, Italo Balbo in persona, inaugura il circuito della Mellaha[7]: sono 13 chilometri di asfalto realizzati spianando palme e scavando sabbia di un’oasi, a pochi passi dal lago salato che dà il nome al villaggio.
Finalmente l’Italia fascista ha il circuito per ospitare il Gran premio automobilistico della Libia italiana. Per otto anni ci si era accontentati delle strade della capitale, 71 chilometri dove le prodezze dei piloti mettevano a rischio la pelle dei coloni. Ma ora si può gareggiare in un vero autodromo.
L’evento è passatempo, occasione mondana per il bel mondo coloniale. Peccato solo per quelle macchine tedesche, Auto Union e Mercedes-benz, che dal ’35 prendono a vincere sistematicamente.
Siamo a un quarto d’ora da Tripoli, ma a pochi minuti dal mare. La pista corre intorno alle saline e a un aeroporto.
L’evento è di richiamo. Un passatempo per il bel mondo coloniale ristretto tra mare e dune di sabbia. Non basta la toponomastica (lì accanto c’è la tonnara Piacentini, proprio a ovest del capo Ancona) né le divise candide del governatore o del duca di Spoleto, le grisaglie indosso ai signori o le cloche che sporgono dalle tribune sui capi delle signore a ricreare l’ambiente della Patria sull’altro versante del Mediterraneo. Neppure l’emozione dei milioni distribuiti dalla lotteria abbinata al Gran premio dura più di un giorno.
Il tempo è breve. Di lì a poco provvederà la guerra a porre fine al prestigioso avvenimento sportivo. La sabbia tornerà a ricoprire l’asfalto del circuito costruito intorno all’aeroporto, intitolato dal fascismo al sottotenente Manzini, precipitato col suo aereo il 25 agosto 1912 davanti a Tripoli.
Già, come ogni aeroporto anche questo diventerà punto strategico per trasporti e rifornimenti. L’aveva costruito il Corpo aeronautico militare del Regio Esercito, ma la parabola bellica lo affiderà al controllo inglese.
Solo a fine secolo, 1995, l’aeroporto di Mellaha – nel frattempo denominato Mitiga – viene dedicato a scopi non più solo militari, ma anche civili. Oggi è l’hub delle compagnie statali libiche, Libyan Airlines e Afriqiyah Airways, e di una società maltese, Medavia.
Forse la vita di un’infrastruttura non è mai comune. Ciascuna nasconde misteri o almeno racconta episodi inaspettati. A Mellaha o, meglio, a Mitiga la storia è oggi ed è la storia delle brutalità peggiori di questo scorcio di secolo.
5. Carcerati tra aerei e passeggeri
Tra le basse palazzine dell’aerostazione, dove sbarcano passeggeri diretti a Tripoli, cinque chilometri a ponente da qui, c’è oggi il carcere di Mitiga. Nella Libia moderna questo nome suscita sgomento; ed è il nome del regno incontrastato di Njeem.
Sono stati gli stessi miliziani di RADAA, assumendo il controllo dell’aeroporto, a costruirvi il carcere, oggi la più grande struttura di detenzione della Libia occidentale. Comprende un edificio principale, diviso in dodici sezioni, con celle multiple e celle di isolamento, e un secondo edificio, formalmente dedicato all’amministrazione. Si chiama Naqliah: ospita uffici e altre stanze, alcune di queste molto grandi, per uso “non ufficiale”[8].
È qui che vengono commessi gli orrori peggiori.
È qui che comanda Njeem.
Non è dato sapere quante persone abbia ospitato Mitiga da quando è stato costruito. Del resto, non esistono cifre ufficiali sul numero di detenuti presenti nelle prigioni libiche. Per certo nell’ultimo decennio a Mitiga sono transitati in non meno di 5.000.
In Libia tuttora i cittadini spariscono senza lasciare traccia, per non parlare dei migranti in transito dall’Africa subsahariana. Si viene incarcerati perché dissidenti o avversari politici o sospettati di appartenere a fazioni avversarie o catturati durante gli scontri armati. Ma si viene incarcerati anche perché si è omosessuali o adulteri o semplicemente perché si vuole raggiungere l’Europa: se hai attraversato il deserto e sei sopravvissuto, vuol dire che sei disposto a pagare per trovare un imbarco; già questo basta per entrare a Mitiga o in uno degli altri centri di detenzione.
In Libia esistono “prigioni segrete”. Mitiga non è tra queste. Ciò malgrado è considerata la prigione dove si consumano la maggiore parte e le più crudeli violazioni dei diritti umani.[9]
A Mitiga si entra con l’accusa di essere cristiani o atei, di avere tenuto condotte immorali o di essere affiliati all’ISIS o di combattere per Haftar. Talvolta queste accuse si cumulano, altre volte una imputazione è solo formale, celando la vera ragione dell’imprigionamento[10].
Non di rado i detenuti non vengono informati delle ragioni del loro trattenimento. Vengono arrestati da persone mascherate e senza mandato. Una volta detenuti vengono costretti a consegnare il proprio telefono cellulare, così che i carcerieri possano accedere ai loro contatti, o a fissare appuntamenti all’esterno con qualcuno di questi contatti, così che anche questi vengano catturati.
I migranti vengono portati a Mitiga dalle bande che li hanno sorpresi ai limiti del deserto oppure dagli emissari della guardia costiera libica che li ha ricondotti sulla terraferma mentre tentavano di fuggire via mare.
6. L’inferno in terra
Quando si entra nella prigione si viene perquisiti nudi, anche nelle parti intime. Alla consegna del telefono cellulare seguono subito i primi interrogatori brutali, per estorcere informazioni da chi ne è ritenuto depositario o per indurre sottomissione totale in tutti gli altri. Deve essere subito chiaro che non esistono regole cui appellarsi né avvocati difensori, salvo che per alcuni tra coloro che siano stati arrestati dietro notifica di un mandato di trattenimento. Non esistono diritti, insomma.
Vi sono celle di isolamento e celle comuni, sovraffollate, i detenuti ammassati al punto che non tutti possono sdraiarsi. Vi si dorme a turno. C’è una sezione femminile, dove i bambini sono tenuti insieme con le madri o con chi si dichiara di essere la loro accompagnatrice. Esistono anche box di rete metallica, dove sono rinchiusi uno o più detenuti.
Le violenze vengono esercitate percuotendo le persone con pugni, manganelli e tubi di plastica, noti come PRR. Ve sono anche metodi più sofisticati: si spara fingendo di volere uccidere la vittima, si pratica l’elettrocuzione, si tiene la persona appesa a testa in giù col cosiddetto balanco o la si sottopone alla falqa. Questa è una tortura praticata da secoli nell’estremo e nel medio oriente, che consiste nell’infliggere percosse ripetute alle piante dei piedi, tenute rivolte verso l’alto, con verghe o manganelli; si provocano così lesioni a tendini e nervi o microfratture alle ossa dei piedi, così da rendere impossibile alla vittima mantenere la postura eretta e costringendola a muoversi carponi.
Si infierisce sui detenuti per ottenere informazioni o una confessione, per punizione o per lo svago delle guardie[11].
Secondo una testimonianza raccolta dal Consiglio ONU per i diritti umani, uno degli stanzoni ospitati nell’area amministrativa del carcere “assomiglia a un ospedale per pazzi, dove le percosse sono obbligatorie... e il sangue vi scorre”[12].
Un’altra vittima, sparita e trattenuta a Mitiga per circa sette anni sino al 2022, ha raccontato di essere stata incatenata e sottoposta al balanco mentre gli aguzzini gli bruciavano i capelli con un accendino e con pinze gli schiacciavano pene e testicoli. Ha potuto avvisare la famiglia della propria detenzione solo dopo un anno e dieci mesi. Ha parlato così col padre, che a suo tempo aveva denunciato invano la sua scomparsa. È stato, quello, il loro ultimo colloquio, perché il padre è morto prima del suo rilascio[13].
I carcerieri si rendono protagonisti anche di violenze sessuali, soprattutto nei confronti di donne e minori. Tra le vittime, secondo la Corte penale internazionale, v’è stato anche un bambino di cinque anni[14]. La condizione di abbruttimento e di totale promiscuità in cui vengono ridotti e lasciati i detenuti ne annienta inevitabilmente la dignità. Si registrano casi di minori violentati anche da altri carcerati.
Per tutto ciò, per le condizioni antigieniche delle celle (alle donne sono negate le cure mestruali di base), per la denutrizione, a Mitiga si muore[15]. Alcuni muoiono perché costretti a dormire nel cortile nonostante la temperatura gelida. I migranti vengono anche uccisi quando, sebbene torturati, rifiutano o si rivelano impossibilitati a pagare il proprio riscatto in denaro. I più fortunati tra loro vengono consegnati a proprietari terrieri o imprenditori locali e costretti a lavorare per loro finché non potranno pagare.
Ai migranti si estorce denaro costringendoli a chiederlo ai familiari. Condotti nella sala del telefono, vengono messi in contatto con un genitore o con un fratello. La liberazione costa alcune migliaia di dollari americani. Mentre parla al telefono, il detenuto viene battuto da un carceriere col PRR, così che le sue urla vengano udite dal familiare e le sue richieste risultino più convincenti. Il metodo è ferocemente efficace. Per RADAA una delle entrate principali viene dalle rimesse bancarie dei parenti dei migranti.
[1] F. Petronella, Libia: dallo stallo alla crisi?, in www.ispionline, 22 agosto 2024. Più di recente anche F. Manfredi, Libia: calano le tensioni tra est e ovest, in www.ispionline, 29 gennaio 2025.
[2] Corte penale internazionale, mandato di arresto per Osama Elmasry/almasri Njeem, n° ICC-I1/11, 18.1.2025, p. 6.
[3] Decreto del Consiglio presidenziale del GNA n. 555/2018.
[4] Decreto del Consiglio presidenziale del GNA n. 578/2020.
[5] Urgent Action: military prosecutor forcibly disappeared, in amnesty.org, 24 luglio 2023.
[6] Risoluzione Consiglio di sicurezza ONU 1970 (2011), del 26 febbraio 2011.
[7] Il nuovo autodromo di Tripoli, in Architettura, 1935, fasc. II.
[8] Corte penale internazionale, mandato cit., p. 27.
[9] Consiglio per i diritti umani ONU, Rapporto della missione d’inchiesta indipendente sulla Libia, 20 marzo 2023, p. 11.
[10] Corte penale internazionale, mandato cit., p. 13.
[11] Corte penale internazionale, mandato cit., p. 16.
[12] Consiglio per i diritti umani ONU, Rapporto cit., p. 11.
[13] Consiglio per i diritti umani ONU, Rapporto cit., p. 10.
[14] Corte penale internazionale, mandato cit., p. 19.
[15] Corte penale internazionale, mandato cit., p. 22-24.
Sulla responsabilità civile dell’avvocato.
Audizione tenuta alla Commissione Giustizia del Senato della Repubblica in data 25 febbraio 2025.
“Se la forza della matematica è quella di non essere un’opinione, la forza del diritto è invece proprio quella di essere un’opinione”.
Salvatore Satta
Sommario: 1. Il disegno di legge che limita la responsabilità civile dell’avvocato alle ipotesi di dolo e colpa grave escludendo parimenti ogni responsabilità per l’attività di interpretazione di norme di diritto. 2. Le ragioni condivisibili di questo progetto di riforma. 3. La rilettura, nei limiti della colpa grave, degli orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità civile dell’avvocato. 4. La rilettura, nei limiti della colpa grave, delle sentenze che chiudono i processi in rito. 5. Conclusioni: l’esigenza che l’avvocato abbia la libertà di difendere i clienti piuttosto che sé stesso per timore della responsabilità professionale.
1. Il disegno di legge che limita la responsabilità civile dell’avvocato alle ipotesi di dolo e colpa grave escludendo parimenti ogni responsabilità per l’attività di interpretazione di norme di diritto
È stato comunicato alla Presidenza del Senato in data 5 giugno 2023 al n. 745 un disegno di legge avente ad oggetto la “Modifica all’art. 3 della legge 31 dicembre 2012 n. 247 in materia di responsabilità per dolo o colpa grave nell’esercizio della professione forense”.
La proposta, composta di un solo articolo, mira ad aggiungere all’articolo 3, comma 2 della legge 31 dicembre 2012 n. 247, in fine, il seguente periodo: “Per gli atti e i comportamenti posti in essere nell’esercizio della professione l’avvocato risponde dei danni arrecati con dolo o colpa grave; non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto”.
Devo dire, in primo luogo, che condivido questa proposta e quindi auspico che essa si trasformi quanto prima in legge.
La legge professionale forense, infatti, al momento attuale, non fornisce una disciplina specifica della responsabilità civile dell’avvocato, e questa carenza ha consentito in questi anni il formarsi di una giurisprudenza che, in taluni momenti, ha ritenuto gli avvocati, in quanto professionisti, responsabili anche solo per colpa lieve (v. già Cass. 4 novembre 2002 n. 15404), con un orientamento che è sembrato in verità superare, sotto un certo profilo, la stessa dizione dell’art. 2236 c.c., per il quale, se la prestazione professionale implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà: “il prestatore d’opera non risponde dei danni se non in caso di dolo o di colpa grave”.
Al riguardo, credo sia infatti necessario ricordare che l’attività difensiva si esplica in un contesto di scontro qual è il processo, e impone agli avvocati delle scelte che si determinano tra l’esigenza di difesa del cliente, l’incertezza del diritto e delle liti, e il dovere del rispetto della legge e della deontologia professionale; proprio per ciò essa è da considerare, quasi sempre, un’attività di speciale difficoltà, o comunque un’attività che, per queste caratteristiche, si differenzia da quelle delle altre professioni intellettuali.
È dunque giustificato che la responsabilità civile degli avvocati trovi una disciplina specifica e differenziata rispetto a quella che genericamente si trova nel codice civile, ed è altresì giustificato che tale responsabilità trovi i suoi presupposti nelle sole ipotesi di dolo o colpa grave.
Ciò, evidentemente, non esclude che l’avvocato sia tenuto ad adempiere il mandato con “la diligenza del buon padre di famiglia” ex art. 1176 c.c., e non esclude che l’avvocato negligente o imperito debba risarcire il cliente dei danni che gli provoca; esclude, però, che la responsabilità dell’avvocato possa discendere da fatti dovuti alla complessità, alla relatività e all’incertezza del diritto e delle decisioni giudiziarie.
E sotto questo profilo non potrà mai costituire fonte di responsabilità civile per il difensore l’interpretazione della legge.
Ed anzi, così come l’interpretazione della legge non costituisce fonte di responsabilità per il giudice ai sensi dell’art. 2 della legge 13 aprile 1988 n. 117, la stessa attività non deve parimenti costituire presupposto di responsabilità per l’avvocato.
Questa riforma, in questo modo, e così come si è scritto nella sua presentazione, è anche finalizzata a: “uniformare il regime della responsabilità civile, quanto meno sotto il profilo dei presupposti, delle due principali categorie di operatori del diritto”.
2. Le ragioni condivisibili di questo progetto di riforma
Sulla base di queste prime osservazioni aggiungerei poi:
a) che questa riforma non può considerarsi inutile in quanto il diritto vivente in materia non sempre risponde ai criteri della colpa grave e/o della libertà della sua interpretazione.
È necessario, così, delineare per legge i limiti della responsabilità civile dell’esercizio della professione forense, creando, se si vuole, una sorte di insindacabilità delle scelte difensive nell’attività giudiziaria.
b) Inoltre aggiungerei che sarebbe semplicistico considerare questa riforma un vantaggio offerto alla classe forense; tutto al contrario essa mira ad assicurare al difensore quella tranquillità e quella indipendenza che è necessaria per esercitare il mandato in modo effettivo e conforme al diritto di azione e di difesa garantiti dall’art. 24 Cost. e dall’art. 3 della legge professionale 31 dicembre 2012 n. 247.
Come, infatti, tutti i cittadini hanno diritto di accesso al giudice e diritto di difendersi in giudizio, allo stesso modo l’avvocato deve avere la possibilità di concretizzare questo diritto costituzionale senza il rischio di risponderne per danni fuori dai casi di comportamenti gravi.
c) Egualmente scorretto sarebbe considerare questa riforma un qualcosa che lega le mani al giudice in ordine all’individuazione delle ipotesi di responsabilità civile per l’avvocato.
La gravità della colpa è un concetto elastico, e come tale consentirà al giudice di discernere in concreto i comportamenti gravi, dei quali l’avvocato debba rispondere, rispetto a quelli non gravi, che non avranno invece rilevanza sul piano della responsabilità civile.
Parimenti, se la legge affermerà che l’interpretazione del diritto non può mai costituire presupposto di responsabilità civile per l’avvocato, al giudice non sarà impedita la possibilità di valutare quando in concreto questa attività rientri veramente nel concetto di interpretazione e quando piuttosto non costituisca comportamento semplicemente e banalmente contra ius.
Restano, dunque, ampi margini di discrezionalità del giudice in relazione alle varie fattispecie.
È tuttavia necessario, e questa proposta di riforma mira infatti a ciò, che la prima fissazione dei limiti di responsabilità per l’attività forense sia però data dalla legge e non rimessa interamente agli orientamenti della giurisprudenza come oggi; e la scelta che questi limiti siano quelli di fissare in modo chiaro che l’avvocato risponde solo per colpa grave e mai per l’attività di interpretazione di norme di diritto, a me sembra condivisibile e corrispondente alle esigenze della funzione giurisdizionale.
3. La rilettura, nei limiti della colpa grave, degli orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità civile dell’avvocato
Dicevo, questa riforma non è inutile perché è finalizzata a contenere nei limiti della colpa grave un diritto vivente che viceversa, in taluni momenti (e ciò, se si vuole, anche diversamente rispetto al passato, v. Cass. 18 novembre 1996 n. 10068), responsabilizza l’avvocato oltre tale barriera, o addirittura lo penalizza per scelte attinenti alla gestione dell’esercizio del diritto di azione e di difesa.
Indico qualche caso:
a) v’è in primo luogo un orientamento della Corte di Cassazione (v. Cass. 30 luglio 2004 n. 14597; Cass. 20 ottobre 2023 n. 29182; Cass. 17 novembre 2021 n. 34993; Cass. 19 luglio 2019 n. 19520), secondo il quale: “Nell'adempimento dell'incarico professionale conferitogli, l'obbligo di diligenza impone all'avvocato di assolvere ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, essendo tenuto a rappresentare a quest'ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di richiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; a sconsigliarlo dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole. A tal fine incombe su di lui l'onere di fornire la prova della condotta mantenuta, insufficiente al riguardo peraltro essendo il rilascio da parte del cliente delle procure necessarie all'esercizio dello ius postulandi”.
Si tratta di un orientamento difficilmente condivisibile, in quanto, se certamente sussiste per l’avvocato il dovere di informazione, non sembra però sussiste il dovere di dissuasione.
Peraltro è immaginario che l’avvocato possa rappresentare al cliente tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, poiché il “tutto” è qualcosa che non esiste nelle dinamiche del processo e, al più, l’avvocato potrà far presente al cliente le questioni che in un dato affare rientrano nell’ambito del id quod plerumque accidit.
Egualmente, e nei limiti del possibile, l’avvocato può e deve rappresentare al cliente i rischi di soccombenza che una lite ha o può avere, ma deve poi lasciare piena libertà al cliente di scegliere come determinarsi e non rientra probabilmente nei suoi doveri di difensore quello di sconsigliarlo dall'intraprendere o proseguire un giudizio, soprattutto quando si tratti di difendersi da un’iniziativa giudiziaria altrui.
Non conforme ai rapporti che devono darsi tra cliente ed avvocato, infine, e ciò anche in base alla legge professionale 31 dicembre 2012 n. 247, è quello di immaginare che in questi casi l’onere della prova circa l’adempimento di questi doveri spetti al difensore (“incombe su di lui l'onere di fornire la prova della condotta mantenuta”), in quanto il rapporto tra cliente ed avvocato è necessariamente un rapporto basato sulla reciproca fiducia, e la fiducia impedisce, o rende difficoltoso, all’avvocato di fornire al cliente sempre ogni informazione in forma scritta per averne la prova.
È evidente che ove passasse la riforma qui immaginata questi orientamenti non potrebbero più darsi, o comunque potrebbero darsi nei limiti di fatti specifici costituenti colpa grave.
Nel caso di Cass. 19 luglio 2019 n. 19520 si è arrivati addirittura ad immaginare una responsabilità dell’avvocato penalista che non abbia consigliato al cliente che aveva subito dei protesti cambiari di rivolgersi ad un avvocato civilista per la cancellazione dei protesti e le relative azioni in ambito civile.
Niente, evidentemente, a che vedere con la colpa grave.
b) V’è poi giurisprudenza per la quale l’avvocato può rispondere civilmente quando non si attenga, nell’intraprendere o proseguire una lite, agli orientamenti consolidati della Corte di Cassazione.
In questo ambito possono essere ricordate le pronunce Cass. 21 luglio 2023 n. 21953; Cass. 27 febbraio 2019 n. 5725; ed anche Cass. 14 ottobre 2021 n. 28226, che immagina addirittura una ipotesi di responsabilità aggravata da lite temeraria quando le tesi giuridiche fatte valere in giudizio si distanziano da quelle della Corte di Cassazione.
Si deve al contrario ritenere che, fermo il dovere di informativa, è diritto costituzionale della parte e del suo difensore quello di intraprendere controversie che non si allineino agli orientamenti della giurisprudenza della Corte di Cassazione, poiché gli orientamenti della giurisprudenza possono mutare nel tempo e i giudici di merito non necessariamente sono tenuti ad uniformarsi ad essi.
Immaginare che la soluzione di una controversia debba invece sempre e comunque darsi sulla base dell’orientamento giurisprudenziale, per quanto consolidato, comporterebbe l’abbandono della nostra civil law, poiché renderebbe (in gran parte) fonte di diritto quello che invece è solamente un indirizzo; in più sottometterebbe gli avvocati ai giudici, perché i primi non avrebbero più né la libertà né l’indipendenza di mettere in discussione il precedente giurisprudenziale, e tenderebbe infine a minare lo stesso principio costituzionale del giusto processo, che deve infatti concretizzarsi nella dialettica e nella libertà delle iniziative.
Con questo, certo, non dobbiamo dimenticare l’insegnamento di Piero Calamandrei, per il quale è buona regola per gli avvocati stroncare: “con saggi consigli di transazione i litigi all’inizio e facendo tutto il possibile affinché essi non raggiungano quel parossismo morboso che rende indispensabile il ricovero nella clinica giudiziaria”; però questa buona regola non può trasformarsi in dovere giuridico se nel comportamento tenuto dall’avvocato non siano riscontrabili gravi e comprovate violazioni della legge o della deontologia.
c) Parimenti vi sono orientamenti della giurisprudenza (per tutti la recente Cass. 17 settembre 2024 n. 25023), in base ai quali: “per garantire il diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale è predisposto un complesso apparato organizzativo (il c.d. servizio giustizia), con un costo per la collettività, la cui attivazione, impegnando una risorsa limitata, non può essere rimessa ad iniziative meramente esplorative, dilatorie o, a maggior ragione, emulative, che non potrebbero dunque essere sorrette da un interesse meritevole di tutela”.
Tutto al contrario, a mio sommesso parere, non può esservi responsabilità dell’avvocato o del cittadino se questi tralascino che il servizio giustizia costituisce una risorsa limitata.
In verità, rendere giustizia è il primo dovere dello Stato se solo si pensa che già prima dell’unità d’Italia, un giurista quale Pasquale Stanislao Mancini, nel Commentario del Codice di procedura civile degli Stati sardi, scriveva che: “l’amministrazione giudiziale e la garanzia dei diritti è il primo e più sacro debito dell’autorità sociale”.
Lo Stato ha così il preciso e contrario compito, rispetto a questo orientamento della giurisprudenza, di evitare che l’apparato organizzativo del servizio giustizia si presenti insufficiente a fronte delle domande che i cittadini rivolgono ai giudici.
Ciò è tanto più doveroso per lo Stato quanto più si pensi che per consentire allo Stato di adempiere a questo suo dovere i cittadini pagano in generale le imposte, e nello specifico pagano altresì elevate tasse, quali il contributo unificato, le marche, e soprattutto l’imposta di registro sui provvedimenti giudiziali.
Pagato tutto ciò, i cittadini hanno il diritto di non sentirsi dire che la giustizia è una risorsa limitata.
d) V’è infine un ulteriore orientamento della Corte di Cassazione per il quale l’avvocato è responsabile se non offre al cliente la soluzione più protettiva dei suoi interessi.
Sono espressione di questo orientamento, da ultimo, Cass. 11 novembre 2024 n. 28903, e precedentemente: Cass. 21 luglio 2023 n. 21953; Cass. 6 giugno 2020 n. 8494; Cass. 19 marzo 2014 n. 6347; Cass. 28 febbraio 2014 n. 4790; Cass. 5 agosto 2013 n. 18612; Cass. 12 aprile 2013 n. 8940; Cass. 18 luglio 2002 n. 10454. La massima è la seguente: “L'avvocato è tenuto ad operare con diligenza e perizia adeguate alla contingenza, così da assicurare che la scelta professionale cada sulla soluzione che meglio tuteli il cliente”.
Certamente questo è auspicabile, ed è compito e dovere dell’avvocato trovare infatti la soluzione che meglio tuteli il cliente; che però questo, quando non si verifichi, possa comportare la responsabilità civile dell’avvocato, appare opinabile.
Di nuovo, l’avvocato ha un dovere di informativa nei confronti del cliente; tuttavia le scelte in concreto e le soluzioni da adottare possono sfuggire al id quod plerumque accidit, e non possono comportare per l’avvocato una responsabilità, poiché questa, altrimenti, si ancorerebbe, prima ancora che nella responsabilità lieve, in una sorta (quasi) di responsabilità oggettiva.
E va invece ribadito, anche sotto questo profilo, che solo comportamenti di colpa grave possono far discendere una responsabilità civile per l’avvocato, non altro.
4. La rilettura, nei limiti della colpa grave, delle sentenze che chiudono i processi in rito
In questo contesto, inoltre, devono sottolinearsi le differenze che, nell’interpretazione e nell’applicazione della legge, corrono fra il diritto sostanziale e il diritto processuale.
Infatti, una errata applicazione e/o interpretazione del diritto sostanziale difficilmente ha conseguenze in punto di responsabilità civile per l’avvocato.
Al contrario, una errata applicazione e/o interpretazione del diritto processuale, attenendo al comportamento che l’avvocato deve tenere nel processo, e riguardano spesso preclusioni, decadenze, improcedibilità, inammissibilità, ecc… avrà invece come normale conseguenza proprio una responsabilità per l’avvocato.
Se la legge non fissa il limite secondo il quale l’avvocato è responsabile solo per colpa grave e non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione della legge, l’avvocato si troverà esposto, per ogni soccombenza relativa al processo, a doverne rispondere.
Questa constatazione è oggi aggravata da due considerazioni:
a) una prima è che il processo, sia civile che penale, si è trasformato in processo telematico, cosicché oggi alle regole proprie della procedura se ne sono addizionate molte altre riguardanti la digitalizzazione delle attività processuali.
Questa svolta costringe gli avvocati ad essere esperti non solo di diritto bensì anche di sistemi informatici, e ha attribuito parimenti agli avvocati compiti che in precedenza erano dei cancellieri e degli ufficiali giudiziari, quali il deposito degli atti e le loro notificazioni.
b) Inoltre, in questi anni sono aumentati considerevolmente i processi che si chiudono con pronunce di rito anziché di merito; e questo fenomeno è del tutto palpabile in Cassazione, dove un numero assai elevato di ricorsi vengono dichiarati inammissibili, e dove ormai non può negarsi che l’oggetto del giudizio di Cassazione cade in gran parte, più che sulla legittimità (o meno) della sentenza di appello impugnata, sulla regolarità formale (o meno) del ricorso con il quale quella sentenza è impugnata.
Dunque: vertiginoso aumento delle cause che si chiudono in rito, aumento dei compiti processuali degli avvocati e digitalizzazione della giustizia costituiscono oggi per gli avvocati fattori di rischio assai consistenti.
E così necessario non solo che la legge prescriva in modo chiaro che gli avvocati rispondono di errori processuali sono se questi abbiano il crisma della gravità, ma anche, tornando ai principi dei nostri padri e all’impostazione del codice di procedura civile del ’40, che: “Le norme processuali, e la loro interpretazione, non devono (non dovrebbero) mai impedire al giudice la pronuncia di merito, se non nei casi di grave violazione del contraddittorio non recuperabile”.
È questa una ulteriore norma che, a mio sommesso parere, andrebbe recepita oltre quella già proposta nel disegno presentato al Senato al n. 745 e qui oggetto di commento.
Virgilio Andrioli, sugli insegnamenti di Giuseppe Chiovenda, scriveva che: “Il processo di cognizione mira a concludersi con pronunce di merito, mentre eccezionali sono le ipotesi in cui la violazione di norme disciplinatrici del processo impone che questo si concluda mediante sentenze assolutrici dell’osservanza del giudizio”.
Oggi, purtroppo, non è affatto così, e l’aumento considerevole di chiusure in rito dei processi non può riversarsi negativamente sugli avvocati in punto di loro responsabilità civile.
5. Conclusioni: l’esigenza che l’avvocato abbia la libertà di difendere i clienti piuttosto che sé stesso per timore della responsabilità professionale
In sostanza, e in estrema sintesi, è bene che la legge limiti la responsabilità degli avvocati alla sola colpa grave, escludendo al tempo stesso ogni responsabilità per l’attività di interpretazione del diritto.
Ciò significherà, contemporaneamente, che in nessun caso un avvocato potrà essere responsabile delle scelte e/o dei comportamenti professionali tenuti se questi rientrino in ipotesi di colpa lieve o addirittura di responsabilità oggettiva; queste ipotesi saranno sempre esclude in base al dettato del nuovo 2° comma dell’art. 3 della legge 31 dicembre 2012 n. 247 se sarà approvato.
Inoltre, sempre il nuovo art. 3, 2° comma, l. 31 dicembre 2012 n. 247 escluderà ogni responsabilità dell’avvocato con riferimento a tutto ciò che è opinabile.
E ancora, la libertà che deve avere l’avvocato nell’interpretazione della legge, e quindi, direi soprattutto, della legge processuale, significherà altresì, a contrario, che nessuna altra diversa interpretazione della legge processuale da parte del giudice, e nessun altra fissazione di comportamenti processuali assunti dal giudice, potranno mai implicare responsabilità civile per l’avvocato, e ciò almeno che, ancora una volta, il comportamento tenuto dal difensore non sia gravemente e palesemente in contrasto con il dettato di legge, tanto che non possa considerarsi come interpretazione ma solo come evidente errore professionale.
In tutti questi ambiti sarà comunque la giurisprudenza a determinare i casi di responsabilità dell’avvocato; ma, nel farlo, dovrà, differentemente da oggi, muoversi entro ben determinati confini.
Altrimenti il rischio, così come si è verificato con riferimento alla responsabilità medica, è quello di creare una giustizia difensiva, dopo una medicina difensiva.
Va evitato che, al fine di scongiurare rischi professionali, l’avvocato sia infatti più improntato a difendere sé stesso che gli interessi dei clienti; ciò costituirebbe grave danno al giusto processo di cui agli artt. 3, 24 e 111 Cost.
Immagine: particolare da Honoré Daumier, Trois avocats causant, olio su tela, 1843-1848.
Sulla responsabilità civile dell’avvocato.
Audizione tenuta alla Commissione Giustizia del Senato della Repubblica in data 25 febbraio 2025.
“Se la forza della matematica è quella di non essere un’opinione, la forza del diritto è invece proprio quella di essere un’opinione”.
Salvatore Satta
Sommario: 1. Il disegno di legge che limita la responsabilità civile dell’avvocato alle ipotesi di dolo e colpa grave escludendo parimenti ogni responsabilità per l’attività di interpretazione di norme di diritto. 2. Le ragioni condivisibili di questo progetto di riforma. 3. La rilettura, nei limiti della colpa grave, degli orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità civile dell’avvocato. 4. La rilettura, nei limiti della colpa grave, delle sentenze che chiudono i processi in rito. 5. Conclusioni: l’esigenza che l’avvocato abbia la libertà di difendere i clienti piuttosto che sé stesso per timore della responsabilità professionale.
1. Il disegno di legge che limita la responsabilità civile dell’avvocato alle ipotesi di dolo e colpa grave escludendo parimenti ogni responsabilità per l’attività di interpretazione di norme di diritto
È stato comunicato alla Presidenza del Senato in data 5 giugno 2023 al n. 745 un disegno di legge avente ad oggetto la “Modifica all’art. 3 della legge 31 dicembre 2012 n. 247 in materia di responsabilità per dolo o colpa grave nell’esercizio della professione forense”.
La proposta, composta di un solo articolo, mira ad aggiungere all’articolo 3, comma 2 della legge 31 dicembre 2012 n. 247, in fine, il seguente periodo: “Per gli atti e i comportamenti posti in essere nell’esercizio della professione l’avvocato risponde dei danni arrecati con dolo o colpa grave; non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto”.
Devo dire, in primo luogo, che condivido questa proposta e quindi auspico che essa si trasformi quanto prima in legge.
La legge professionale forense, infatti, al momento attuale, non fornisce una disciplina specifica della responsabilità civile dell’avvocato, e questa carenza ha consentito in questi anni il formarsi di una giurisprudenza che, in taluni momenti, ha ritenuto gli avvocati, in quanto professionisti, responsabili anche solo per colpa lieve (v. già Cass. 4 novembre 2002 n. 15404), con un orientamento che è sembrato in verità superare, sotto un certo profilo, la stessa dizione dell’art. 2236 c.c., per il quale, se la prestazione professionale implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà: “il prestatore d’opera non risponde dei danni se non in caso di dolo o di colpa grave”.
Al riguardo, credo sia infatti necessario ricordare che l’attività difensiva si esplica in un contesto di scontro qual è il processo, e impone agli avvocati delle scelte che si determinano tra l’esigenza di difesa del cliente, l’incertezza del diritto e delle liti, e il dovere del rispetto della legge e della deontologia professionale; proprio per ciò essa è da considerare, quasi sempre, un’attività di speciale difficoltà, o comunque un’attività che, per queste caratteristiche, si differenzia da quelle delle altre professioni intellettuali.
È dunque giustificato che la responsabilità civile degli avvocati trovi una disciplina specifica e differenziata rispetto a quella che genericamente si trova nel codice civile, ed è altresì giustificato che tale responsabilità trovi i suoi presupposti nelle sole ipotesi di dolo o colpa grave.
Ciò, evidentemente, non esclude che l’avvocato sia tenuto ad adempiere il mandato con “la diligenza del buon padre di famiglia” ex art. 1176 c.c., e non esclude che l’avvocato negligente o imperito debba risarcire il cliente dei danni che gli provoca; esclude, però, che la responsabilità dell’avvocato possa discendere da fatti dovuti alla complessità, alla relatività e all’incertezza del diritto e delle decisioni giudiziarie.
E sotto questo profilo non potrà mai costituire fonte di responsabilità civile per il difensore l’interpretazione della legge.
Ed anzi, così come l’interpretazione della legge non costituisce fonte di responsabilità per il giudice ai sensi dell’art. 2 della legge 13 aprile 1988 n. 117, la stessa attività non deve parimenti costituire presupposto di responsabilità per l’avvocato.
Questa riforma, in questo modo, e così come si è scritto nella sua presentazione, è anche finalizzata a: “uniformare il regime della responsabilità civile, quanto meno sotto il profilo dei presupposti, delle due principali categorie di operatori del diritto”.
2. Le ragioni condivisibili di questo progetto di riforma
Sulla base di queste prime osservazioni aggiungerei poi:
a) che questa riforma non può considerarsi inutile in quanto il diritto vivente in materia non sempre risponde ai criteri della colpa grave e/o della libertà della sua interpretazione.
È necessario, così, delineare per legge i limiti della responsabilità civile dell’esercizio della professione forense, creando, se si vuole, una sorte di insindacabilità delle scelte difensive nell’attività giudiziaria.
b) Inoltre aggiungerei che sarebbe semplicistico considerare questa riforma un vantaggio offerto alla classe forense; tutto al contrario essa mira ad assicurare al difensore quella tranquillità e quella indipendenza che è necessaria per esercitare il mandato in modo effettivo e conforme al diritto di azione e di difesa garantiti dall’art. 24 Cost. e dall’art. 3 della legge professionale 31 dicembre 2012 n. 247.
Come, infatti, tutti i cittadini hanno diritto di accesso al giudice e diritto di difendersi in giudizio, allo stesso modo l’avvocato deve avere la possibilità di concretizzare questo diritto costituzionale senza il rischio di risponderne per danni fuori dai casi di comportamenti gravi.
c) Egualmente scorretto sarebbe considerare questa riforma un qualcosa che lega le mani al giudice in ordine all’individuazione delle ipotesi di responsabilità civile per l’avvocato.
La gravità della colpa è un concetto elastico, e come tale consentirà al giudice di discernere in concreto i comportamenti gravi, dei quali l’avvocato debba rispondere, rispetto a quelli non gravi, che non avranno invece rilevanza sul piano della responsabilità civile.
Parimenti, se la legge affermerà che l’interpretazione del diritto non può mai costituire presupposto di responsabilità civile per l’avvocato, al giudice non sarà impedita la possibilità di valutare quando in concreto questa attività rientri veramente nel concetto di interpretazione e quando piuttosto non costituisca comportamento semplicemente e banalmente contra ius.
Restano, dunque, ampi margini di discrezionalità del giudice in relazione alle varie fattispecie.
È tuttavia necessario, e questa proposta di riforma mira infatti a ciò, che la prima fissazione dei limiti di responsabilità per l’attività forense sia però data dalla legge e non rimessa interamente agli orientamenti della giurisprudenza come oggi; e la scelta che questi limiti siano quelli di fissare in modo chiaro che l’avvocato risponde solo per colpa grave e mai per l’attività di interpretazione di norme di diritto, a me sembra condivisibile e corrispondente alle esigenze della funzione giurisdizionale.
3. La rilettura, nei limiti della colpa grave, degli orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità civile dell’avvocato
Dicevo, questa riforma non è inutile perché è finalizzata a contenere nei limiti della colpa grave un diritto vivente che viceversa, in taluni momenti (e ciò, se si vuole, anche diversamente rispetto al passato, v. Cass. 18 novembre 1996 n. 10068), responsabilizza l’avvocato oltre tale barriera, o addirittura lo penalizza per scelte attinenti alla gestione dell’esercizio del diritto di azione e di difesa.
Indico qualche caso:
a) v’è in primo luogo un orientamento della Corte di Cassazione (v. Cass. 30 luglio 2004 n. 14597; Cass. 20 ottobre 2023 n. 29182; Cass. 17 novembre 2021 n. 34993; Cass. 19 luglio 2019 n. 19520), secondo il quale: “Nell'adempimento dell'incarico professionale conferitogli, l'obbligo di diligenza impone all'avvocato di assolvere ai doveri di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, essendo tenuto a rappresentare a quest'ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di richiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; a sconsigliarlo dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole. A tal fine incombe su di lui l'onere di fornire la prova della condotta mantenuta, insufficiente al riguardo peraltro essendo il rilascio da parte del cliente delle procure necessarie all'esercizio dello ius postulandi”.
Si tratta di un orientamento difficilmente condivisibile, in quanto, se certamente sussiste per l’avvocato il dovere di informazione, non sembra però sussiste il dovere di dissuasione.
Peraltro è immaginario che l’avvocato possa rappresentare al cliente tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, poiché il “tutto” è qualcosa che non esiste nelle dinamiche del processo e, al più, l’avvocato potrà far presente al cliente le questioni che in un dato affare rientrano nell’ambito del id quod plerumque accidit.
Egualmente, e nei limiti del possibile, l’avvocato può e deve rappresentare al cliente i rischi di soccombenza che una lite ha o può avere, ma deve poi lasciare piena libertà al cliente di scegliere come determinarsi e non rientra probabilmente nei suoi doveri di difensore quello di sconsigliarlo dall'intraprendere o proseguire un giudizio, soprattutto quando si tratti di difendersi da un’iniziativa giudiziaria altrui.
Non conforme ai rapporti che devono darsi tra cliente ed avvocato, infine, e ciò anche in base alla legge professionale 31 dicembre 2012 n. 247, è quello di immaginare che in questi casi l’onere della prova circa l’adempimento di questi doveri spetti al difensore (“incombe su di lui l'onere di fornire la prova della condotta mantenuta”), in quanto il rapporto tra cliente ed avvocato è necessariamente un rapporto basato sulla reciproca fiducia, e la fiducia impedisce, o rende difficoltoso, all’avvocato di fornire al cliente sempre ogni informazione in forma scritta per averne la prova.
È evidente che ove passasse la riforma qui immaginata questi orientamenti non potrebbero più darsi, o comunque potrebbero darsi nei limiti di fatti specifici costituenti colpa grave.
Nel caso di Cass. 19 luglio 2019 n. 19520 si è arrivati addirittura ad immaginare una responsabilità dell’avvocato penalista che non abbia consigliato al cliente che aveva subito dei protesti cambiari di rivolgersi ad un avvocato civilista per la cancellazione dei protesti e le relative azioni in ambito civile.
Niente, evidentemente, a che vedere con la colpa grave.
b) V’è poi giurisprudenza per la quale l’avvocato può rispondere civilmente quando non si attenga, nell’intraprendere o proseguire una lite, agli orientamenti consolidati della Corte di Cassazione.
In questo ambito possono essere ricordate le pronunce Cass. 21 luglio 2023 n. 21953; Cass. 27 febbraio 2019 n. 5725; ed anche Cass. 14 ottobre 2021 n. 28226, che immagina addirittura una ipotesi di responsabilità aggravata da lite temeraria quando le tesi giuridiche fatte valere in giudizio si distanziano da quelle della Corte di Cassazione.
Si deve al contrario ritenere che, fermo il dovere di informativa, è diritto costituzionale della parte e del suo difensore quello di intraprendere controversie che non si allineino agli orientamenti della giurisprudenza della Corte di Cassazione, poiché gli orientamenti della giurisprudenza possono mutare nel tempo e i giudici di merito non necessariamente sono tenuti ad uniformarsi ad essi.
Immaginare che la soluzione di una controversia debba invece sempre e comunque darsi sulla base dell’orientamento giurisprudenziale, per quanto consolidato, comporterebbe l’abbandono della nostra civil law, poiché renderebbe (in gran parte) fonte di diritto quello che invece è solamente un indirizzo; in più sottometterebbe gli avvocati ai giudici, perché i primi non avrebbero più né la libertà né l’indipendenza di mettere in discussione il precedente giurisprudenziale, e tenderebbe infine a minare lo stesso principio costituzionale del giusto processo, che deve infatti concretizzarsi nella dialettica e nella libertà delle iniziative.
Con questo, certo, non dobbiamo dimenticare l’insegnamento di Piero Calamandrei, per il quale è buona regola per gli avvocati stroncare: “con saggi consigli di transazione i litigi all’inizio e facendo tutto il possibile affinché essi non raggiungano quel parossismo morboso che rende indispensabile il ricovero nella clinica giudiziaria”; però questa buona regola non può trasformarsi in dovere giuridico se nel comportamento tenuto dall’avvocato non siano riscontrabili gravi e comprovate violazioni della legge o della deontologia.
c) Parimenti vi sono orientamenti della giurisprudenza (per tutti la recente Cass. 17 settembre 2024 n. 25023), in base ai quali: “per garantire il diritto fondamentale alla tutela giurisdizionale è predisposto un complesso apparato organizzativo (il c.d. servizio giustizia), con un costo per la collettività, la cui attivazione, impegnando una risorsa limitata, non può essere rimessa ad iniziative meramente esplorative, dilatorie o, a maggior ragione, emulative, che non potrebbero dunque essere sorrette da un interesse meritevole di tutela”.
Tutto al contrario, a mio sommesso parere, non può esservi responsabilità dell’avvocato o del cittadino se questi tralascino che il servizio giustizia costituisce una risorsa limitata.
In verità, rendere giustizia è il primo dovere dello Stato se solo si pensa che già prima dell’unità d’Italia, un giurista quale Pasquale Stanislao Mancini, nel Commentario del Codice di procedura civile degli Stati sardi, scriveva che: “l’amministrazione giudiziale e la garanzia dei diritti è il primo e più sacro debito dell’autorità sociale”.
Lo Stato ha così il preciso e contrario compito, rispetto a questo orientamento della giurisprudenza, di evitare che l’apparato organizzativo del servizio giustizia si presenti insufficiente a fronte delle domande che i cittadini rivolgono ai giudici.
Ciò è tanto più doveroso per lo Stato quanto più si pensi che per consentire allo Stato di adempiere a questo suo dovere i cittadini pagano in generale le imposte, e nello specifico pagano altresì elevate tasse, quali il contributo unificato, le marche, e soprattutto l’imposta di registro sui provvedimenti giudiziali.
Pagato tutto ciò, i cittadini hanno il diritto di non sentirsi dire che la giustizia è una risorsa limitata.
d) V’è infine un ulteriore orientamento della Corte di Cassazione per il quale l’avvocato è responsabile se non offre al cliente la soluzione più protettiva dei suoi interessi.
Sono espressione di questo orientamento, da ultimo, Cass. 11 novembre 2024 n. 28903, e precedentemente: Cass. 21 luglio 2023 n. 21953; Cass. 6 giugno 2020 n. 8494; Cass. 19 marzo 2014 n. 6347; Cass. 28 febbraio 2014 n. 4790; Cass. 5 agosto 2013 n. 18612; Cass. 12 aprile 2013 n. 8940; Cass. 18 luglio 2002 n. 10454. La massima è la seguente: “L'avvocato è tenuto ad operare con diligenza e perizia adeguate alla contingenza, così da assicurare che la scelta professionale cada sulla soluzione che meglio tuteli il cliente”.
Certamente questo è auspicabile, ed è compito e dovere dell’avvocato trovare infatti la soluzione che meglio tuteli il cliente; che però questo, quando non si verifichi, possa comportare la responsabilità civile dell’avvocato, appare opinabile.
Di nuovo, l’avvocato ha un dovere di informativa nei confronti del cliente; tuttavia le scelte in concreto e le soluzioni da adottare possono sfuggire al id quod plerumque accidit, e non possono comportare per l’avvocato una responsabilità, poiché questa, altrimenti, si ancorerebbe, prima ancora che nella responsabilità lieve, in una sorta (quasi) di responsabilità oggettiva.
E va invece ribadito, anche sotto questo profilo, che solo comportamenti di colpa grave possono far discendere una responsabilità civile per l’avvocato, non altro.
4. La rilettura, nei limiti della colpa grave, delle sentenze che chiudono i processi in rito
In questo contesto, inoltre, devono sottolinearsi le differenze che, nell’interpretazione e nell’applicazione della legge, corrono fra il diritto sostanziale e il diritto processuale.
Infatti, una errata applicazione e/o interpretazione del diritto sostanziale difficilmente ha conseguenze in punto di responsabilità civile per l’avvocato.
Al contrario, una errata applicazione e/o interpretazione del diritto processuale, attenendo al comportamento che l’avvocato deve tenere nel processo, e riguardano spesso preclusioni, decadenze, improcedibilità, inammissibilità, ecc… avrà invece come normale conseguenza proprio una responsabilità per l’avvocato.
Se la legge non fissa il limite secondo il quale l’avvocato è responsabile solo per colpa grave e non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione della legge, l’avvocato si troverà esposto, per ogni soccombenza relativa al processo, a doverne rispondere.
Questa constatazione è oggi aggravata da due considerazioni:
a) una prima è che il processo, sia civile che penale, si è trasformato in processo telematico, cosicché oggi alle regole proprie della procedura se ne sono addizionate molte altre riguardanti la digitalizzazione delle attività processuali.
Questa svolta costringe gli avvocati ad essere esperti non solo di diritto bensì anche di sistemi informatici, e ha attribuito parimenti agli avvocati compiti che in precedenza erano dei cancellieri e degli ufficiali giudiziari, quali il deposito degli atti e le loro notificazioni.
b) Inoltre, in questi anni sono aumentati considerevolmente i processi che si chiudono con pronunce di rito anziché di merito; e questo fenomeno è del tutto palpabile in Cassazione, dove un numero assai elevato di ricorsi vengono dichiarati inammissibili, e dove ormai non può negarsi che l’oggetto del giudizio di Cassazione cade in gran parte, più che sulla legittimità (o meno) della sentenza di appello impugnata, sulla regolarità formale (o meno) del ricorso con il quale quella sentenza è impugnata.
Dunque: vertiginoso aumento delle cause che si chiudono in rito, aumento dei compiti processuali degli avvocati e digitalizzazione della giustizia costituiscono oggi per gli avvocati fattori di rischio assai consistenti.
E così necessario non solo che la legge prescriva in modo chiaro che gli avvocati rispondono di errori processuali sono se questi abbiano il crisma della gravità, ma anche, tornando ai principi dei nostri padri e all’impostazione del codice di procedura civile del ’40, che: “Le norme processuali, e la loro interpretazione, non devono (non dovrebbero) mai impedire al giudice la pronuncia di merito, se non nei casi di grave violazione del contraddittorio non recuperabile”.
È questa una ulteriore norma che, a mio sommesso parere, andrebbe recepita oltre quella già proposta nel disegno presentato al Senato al n. 745 e qui oggetto di commento.
Virgilio Andrioli, sugli insegnamenti di Giuseppe Chiovenda, scriveva che: “Il processo di cognizione mira a concludersi con pronunce di merito, mentre eccezionali sono le ipotesi in cui la violazione di norme disciplinatrici del processo impone che questo si concluda mediante sentenze assolutrici dell’osservanza del giudizio”.
Oggi, purtroppo, non è affatto così, e l’aumento considerevole di chiusure in rito dei processi non può riversarsi negativamente sugli avvocati in punto di loro responsabilità civile.
5. Conclusioni: l’esigenza che l’avvocato abbia la libertà di difendere i clienti piuttosto che sé stesso per timore della responsabilità professionale
In sostanza, e in estrema sintesi, è bene che la legge limiti la responsabilità degli avvocati alla sola colpa grave, escludendo al tempo stesso ogni responsabilità per l’attività di interpretazione del diritto.
Ciò significherà, contemporaneamente, che in nessun caso un avvocato potrà essere responsabile delle scelte e/o dei comportamenti professionali tenuti se questi rientrino in ipotesi di colpa lieve o addirittura di responsabilità oggettiva; queste ipotesi saranno sempre esclude in base al dettato del nuovo 2° comma dell’art. 3 della legge 31 dicembre 2012 n. 247 se sarà approvato.
Inoltre, sempre il nuovo art. 3, 2° comma, l. 31 dicembre 2012 n. 247 escluderà ogni responsabilità dell’avvocato con riferimento a tutto ciò che è opinabile.
E ancora, la libertà che deve avere l’avvocato nell’interpretazione della legge, e quindi, direi soprattutto, della legge processuale, significherà altresì, a contrario, che nessuna altra diversa interpretazione della legge processuale da parte del giudice, e nessun altra fissazione di comportamenti processuali assunti dal giudice, potranno mai implicare responsabilità civile per l’avvocato, e ciò almeno che, ancora una volta, il comportamento tenuto dal difensore non sia gravemente e palesemente in contrasto con il dettato di legge, tanto che non possa considerarsi come interpretazione ma solo come evidente errore professionale.
In tutti questi ambiti sarà comunque la giurisprudenza a determinare i casi di responsabilità dell’avvocato; ma, nel farlo, dovrà, differentemente da oggi, muoversi entro ben determinati confini.
Altrimenti il rischio, così come si è verificato con riferimento alla responsabilità medica, è quello di creare una giustizia difensiva, dopo una medicina difensiva.
Va evitato che, al fine di scongiurare rischi professionali, l’avvocato sia infatti più improntato a difendere sé stesso che gli interessi dei clienti; ciò costituirebbe grave danno al giusto processo di cui agli artt. 3, 24 e 111 Cost.
Immagine: particolare da Honoré Daumier, Trois avocats causant, olio su tela, 1843-1848.
È dall’8 marzo 1946 che il rametto di mimosa è stato associato, per iniziativa delle parlamentari comuniste Teresa Mattei e Rita Montagnana, alla Giornata Internazionale della Donna.
La scelta cadde sulla mimosa perché fiorisce nei primi giorni del mese di marzo e, secondo i nativi americani, i fiori della mimosa significano forza e femminilità.
L’Unione delle Donne Italiane scartò prima le anemoni e poi i garofani, perché la mimosa, con i suoi fiori gialli luminosi e profumati, era anche un fiore molto economico e rappresentava la speranza e la vitalità in un momento di rinascita e cambiamento.
Ed è proprio un cambiamento che vogliamo annunciare.
Oggi, in occasione della Giornata internazionale in cui si celebra la forza delle donne, Giustizia Insieme vuole omaggiare tutte le donne protagoniste della Rivista non con un ramoscello di mimosa, ma con una riscrittura al femminile di tutte le biografie delle autrici e delle componenti del comitato scientifico e di redazione
A pensarci bene non si tratta di un regalo o di un omaggio, ma di un dovere culturale, perché non è mai solo una questione di parole: nominare le donne, soprattutto le donne professioniste, può contribuire anche a cambiare la percezione nei loro confronti.
Non si può negare che sia pervasiva e trasversale, anche nel mondo delle donne, una certa resistenza e ritrosia all’uso del femminile.
Lo spiega bene Cecilia Robustelli nel Tema di discussione dal titolo “Infermiera sì, Ingegnera no”, pubblicato nel 2021 sul sito dell’Accademia della Crusca.
«Qual è la ragione di questo atteggiamento linguistico? Le risposte più frequenti adducono all’incertezza di fronte all’uso di forme femminili nuove rispetto a quelle tradizionali maschili (è il caso di ingegnera), la presunta bruttezza delle nuove forme (ministra proprio non piace!), o la convinzione che la forma maschile possa essere usata tranquillamente anche in riferimento alle donne. Ma non è vero perché maestra, infermiera, modella, cuoca, nuotatrice ecc. non suscitano alcuna obiezione: anzi, nessuno definirebbe mai Federica Pellegrini nuotatore.
Le resistenze all’uso del genere grammaticale femminile per molti titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne sembrano poggiare su ragioni di tipo linguistico, ma in realtà sono celatamente, di tipo culturale; mentre le ragioni di chi lo sostiene sono apertamente culturali e, al tempo stesso, fortemente linguistiche.»
L’attenzione alle discriminazioni linguistiche e al coretto uso dei femminili professionali è solo il primo passo verso un diverso approccio culturale al tema; il linguaggio è lo specchio del pensiero e tradisce pregiudizi, paure e anche convinzioni spesso nascoste nei meandri del nostro conformismo culturale.
E allora smettiamo di nasconderci dietro al dito della cacofonia, evitiamo la ricerca spasmodica del neutro impossibile e non esaltiamo la polisemia dei termini.
Care lettrici, cari lettori sappiamo bene che qualcuno di voi storcerà il naso quando leggerà le nostre biografie, ma crediamo che abbia ragione Vera Gheno, in Femminili singolari. Il femminismo è nelle parole, quando ci invita a riflettere in questo senso: «succede che ciò che non viene nominato tende ad essere meno visibile agli occhi delle persone. In questo senso chiamare le donne che fanno un certo lavoro con un sostantivo femminile non è un semplice capriccio, ma il riconoscimento della loro esistenza: dalla camionista alla minatrice, dalla commessa alla direttrice di filiale, dalla revisora dei conti alla giudice, dalla giardiniera alla sindaca. E pazienza se ad alcuni le parole suonano male: ci si può abituare.»
Immagine: Federico Zandomeneghi (1841-1917), Ragazza che scrive, s.d., olio su tela, cm 46×38, collezione privata.
Rappresento la Fondazione Vittorio Occorsio. Oggi è qui con noi Vittorio, che del nonno porta il nome.
Vengo da una generazione di magistrati che ha dovuto confrontarsi con sfide drammatiche. Vittorio Occorsio e Mario Amato, magistrati della Procura della Repubblica di Roma, affrontarono consapevolmente l'impegno gravoso che imponeva loro la funzione di pubblico ministero, che essi svolsero con grande coraggio e dignità, nonostante i violenti attacchi anche personali e l'isolamento, in alcuni momenti persino tra i colleghi e nel Foro.
La Fondazione Vittorio Occorsio, voluta dai suoi familiari, persegue la memoria di quel sacrificio. Una memoria attiva, che vive nel confronto, aperto ma non neutro. È per questa ragione che oggi sono qui, perché l’ANM è anch’essa aperta e oggi ha invitato i cittadini e le loro rappresentanze a condividere preoccupazioni e proposte.
Essere magistrati richiede coraggio. Oggi anche per decidere sulla richiesta di riconoscimento della protezione internazionale o sull’affidamento di un minore.
È per questo che la soggezione del giudice soltanto alla legge e l'imparzialità del pubblico ministero, rafforzata dal principio di obbligatorietà dell’azione, sono tutelati dalla Costituzione. Quando si mette in discussione pubblicamente e senza fondamento l'imparzialità della decisione del giudice o dell’azione del pubblico ministero, si mettono in crisi i principi costituzionali nel loro reale funzionamento e dunque la Costituzione in atto.
Certo, un così grande potere deve essere bilanciato dalla piena consapevolezza delle conseguenze del proprio agire sulla vita delle persone e quindi da una altrettanto grande professionalità e da responsabilità, in forme compatibili con l’indipendenza.
Per questo la magistratura italiana ha un sistema disciplinare così efficace. Questa affermazione è divenuta controintuitiva perché in contrasto con la falsità continuamente ripetuta, che la definisce spregiativamente come domestica per dire addomesticata (la disciplina è per sua natura domestica, interna al corpo). I dati sono ben diversi e non assimilabili, neppure lontanamente, a quelli assai minori delle altre magistrature o delle professioni a ordinamento pubblicistico. Basti leggere le relazioni del procuratore generale per l'anno 2024 e degli anni precedenti, tra cui anche quelle di chi parla. In esse vi è un’analisi documentata, nella quale si dà conto della gravità delle sanzioni irrogate e delle dimissioni volontarie dall'ordine giudiziario, assai frequenti quando il magistrato si trova a fronteggiare gravi contestazioni disciplinari.
Eppure, sulla falsa costruzione tante volte declamata e per questo solo divenuta vera, si vorrebbe fondare una riforma costituzionale, l'Alta Corte, che rischia di sottrarre il tema della disciplina alla continua elaborazione dei pari, alla piena comprensione del percorso professionale in cui la violazione ipotizzata si inserisce. La giustizia disciplinare è, e deve restare, diversa da un processo penale.
Se vi è da riformare, e la materia non manca, si parta però da un'attenta ricostruzione delle effettive esigenze.
Si parta, e parta anche la ANM, come mi sembra oggi stia facendo con il coinvolgere altri soggetti e interlocutori nel confronto su una riforma considerata rischiosa per gli interessi della collettività, della collettività, non della corporazione - dalla necessità di restituire alla giurisdizione effettività, anche nelle aree apparentemente minori ma che riguardano la vita quotidiana delle persone.
È positivo che finalmente, dopo mesi di chiusura, si avvii oggi il dialogo sulle riforme. Se è possibile che oggi il governo si apra al dialogo non è perché vi è un mutamento nella compagine che regge l'associazione: dopo Santalucia, straordinario presidente, oggi Parodi che con altrettanta determinazione saprà rappresentarla: è per il mandato unitario che oltre l'ottanta per cento dei magistrati, recandosi a votare e votando sulla convergenza nei principi fondamentali, ha dato alla sua dirigenza. In questi tempi difficili si potrebbe dire, con un po’ di esagerazione nell’autostima, che gli elettori dell’Associazione e della Germania tengono alta la rappresentanza elettorale, con percentuali di votanti superiori all’80%…
Un mandato che conferma che l'unità della magistratura non è rivendicazione corporativa, ma interesse della collettività.
Testo del discorso pronunciato da Giovanni Salvi al Cinema Adriano di Roma in occasione dello sciopero dei magistrati in difesa della Costituzione indetto dall'ANM il 27 febbraio 2025.
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