ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Procedimento: aprire il Regio Decreto n. 267/1942 e sfogliarlo fino ad arrivare al comma secondo, numero 1) dell’art. 219 [oggi art. 326, comma 2, lett. a) del Decreto Legislativo n. 14/2019], travisare le Sezioni Unite della Cassazione, aggiungere un pizzico di circostanze attenuanti generiche e bilanciarle in equivalenza con più fatti di bancarotta… ed ecco servito il perfetto pasticcio giuridico.
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L’articolo 219 del Regio Decreto n. 267/1942 (c.d. Legge Fallimentare), rubricato «circostanze aggravanti e circostanza attenuante», prevede, al comma 2, n. 1), che le pene stabilite nei precedenti articoli 216, 217 e 218 (rispettivamente, «bancarotta fraudolenta», «bancarotta semplice» e «ricorso abusivo al credito») «sono aumentate… se il colpevole ha commesso più fatti tra quelli previsti in ciascuno degli articoli indicati» (tale disposizione è oggi pedissequamente confluita nell’art. 326, comma 2, lett. a) del D.Lgs. n. 14/2019, meglio noto come “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”, introdotto nel nostro ordinamento in attuazione della Legge n. 155/2017 ed entrato in vigore in data 15.7.2022, giusto D.L. n. 36/2022[1]): si tratta della c.d. continuazione fallimentare, che – secondo un’ormai consolidata dottrina e giurisprudenza – comporta una deroga ex lege, in un’ottica di maggior favore per l’imputato, rispetto alla generale disciplina del reato continuato, di cui al capoverso dell’art. 81 c.p.[2], per l’ipotesi in cui il reo commetta, per l’appunto, più reati fallimentari (ad es., una bancarotta semplice e una fraudolenta oppure una bancarotta fraudolenta documentale e una per distrazione) ovvero più condotte illecite tali da integrare il medesimo reato fallimentare (ad es., più condotte distrattive).
Tale deroga opera senz’altro sul piano sanzionatorio, in quanto – come sopra accennato – determina un aumento di pena per la «violazione più grave» fino a un terzo, in luogo dell’aumento «sino al triplo» previsto dall’art. 81 cpv c.p.: in altri termini, anche l’art. 219 L.F., così come l’art. 81 cpv c.p., sostituisce al criterio del cumulo materiale, comportante la mera somma algebrica delle pene irrogate per i vari reati commessi, quello del c.d. cumulo giuridico, ma l’entità della pena da irrogare è sensibilmente ridotta.
Inoltre, la dottrina e la giurisprudenza maggioritarie ritengono che la continuazione fallimentare deroghi alla disciplina “ordinaria” dettata dalla disposizione normativa da ultimo citata anche sotto un altro profilo (che pure ha dei risvolti sul piano del trattamento sanzionatorio, come si dirà meglio infra): l’assoggettamento al giudizio di bilanciamento – ex art. 69 c.p. – con le circostanze attenuanti, ivi comprese quelle di cui all’art. 62 bis c.p.
E invero, alla stregua di questo indirizzo ermeneutico, avallato anche dalla giurisprudenza di legittimità, l’art. 219 L.F. configura – quantomeno sul piano formale – una circostanza aggravante, il che, come anzidetto, «ne comporta l'assoggettabilità al giudizio di bilanciamento con le eventuali attenuanti (Fattispecie in cui vi era stata in altra sentenza irrevocabile un giudizio di equivalenza tra l'aggravante di cui all'art. 219 legge fall. e le circostanze attenuanti generiche, e la Corte ha ritenuto illegale l'aumento della pena in continuazione per un'ulteriore autonoma condotta di bancarotta)» (cfr., ex plurimis, Cass. Pen., Sez. V, n. 48361/2018 e da ultimo, in senso analogo, Cass. Pen., Sez. V, n. 34216/2024).
Tuttavia, questo approdo esegetico già prima facie non convince, perché genera un “monstrum” (nel senso etimologico del termine), nella misura in cui trasforma degli accidentalia delicti come le circostanze attenuanti (ivi comprese le generiche) in un “fatto giuridico” che impedisce in concreto, per una o più ipotesi di bancarotta, l’applicazione della relativa pena.
Ipotizziamo infatti che, dopo aver commesso nello stesso contesto spazio-temporale due bancarotte fraudolente per distrazione, l’una dell’importo di euro 10.000,00 e l’altra del valore di euro 5.000,00, Tizio venga ritenuto meritevole delle circostanze attenuanti generiche: ebbene, avallando questo orientamento interpretativo, le circostanze di cui all’art. 62 bis c.p. andrebbero in bilanciamento con la continuazione fallimentare (in quanto ritenuta, per l’appunto, una circostanza aggravante) e, in caso di equivalenza tra le ritenute circostanze ovvero di prevalenza delle generiche, il predetto risponderebbe della sola violazione più grave, ossia la distrazione di 10.000,00 euro, senza subire alcun aumento di pena per effetto dell’ulteriore condotta delittuosa (la distrazione meno grave), sostanzialmente eliminata con un colpo di spugna all’esito del giudizio di bilanciamento.
Detto altrimenti, lungi dall’assolvere una funzione mitigatrice del trattamento sanzionatorio, le circostanze attenuanti generiche finirebbero col caducare, sul piano del trattamento sanzionatorio, intere fattispecie di reato: il che costituirebbe all’evidenza di un unicum nel nostro panorama giuridico.
Ciò, inoltre, potrebbe dispiegare un effetto potenzialmente criminogeno, in considerazione della maggiore “convenienza” a commettere più fatti di bancarotta.
Torniamo al nostro esempio e immaginiamo che Tizio abbia commesso la bancarotta fraudolenta distrattiva dell’importo di 10.000,00 in concorso con Caio; immaginiamo altresì che, alla luce dei criteri di cui all’art. 133 c.p., il Decidente decida di irrogare ad entrambi gli imputati il minimo della pena e di concedere loro le circostanze attenuanti generiche.
In questo caso:
§ ipotizzando una riduzione ex art. 62 bis c.p. nella massima estensione possibile, per la bancarotta distrattiva commessa in concorso con Tizio Caio verrebbe condannato alla pena finale di anni due di reclusione (= pena base anni tre di reclusione, ridotta di 1/3, nella misura definitiva, per le circostanze attenuanti generiche);
§ a fronte di due condotte distrattive, del valore complessivo di 15.000,00 euro (di cui una – quella di 10.000,00 euro – commessa in concorso con Caio), Tizio verrebbe condannato:
- in caso di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche sulla continuazione fallimentare, alla medesima pena di anni due di reclusione (= pena base anni tre di reclusione, ridotta di 1/3, nella misura definitiva, per le circostanze attenuanti generiche);
- in caso di equivalenza tra le circostanze attenuanti generiche e la continuazione fallimentare, alla pena – di poco superiore – di anni tre di reclusione (pari al minimo edittale).
E lo stesso varrebbe se, invece di commettere due distrazioni del valore complessivo di 15.000,00 euro, il nostro Tizio decidessero di commetterne tre, quattro, dieci, per migliaia e migliaia di euro: per assurdo, dunque, sarebbe più vantaggioso per il reo commettere più condotte distrattive e sperare nell’applicazione delle circostanze attenuanti generiche.
Certo, si potrebbe obiettare che tali considerazioni (più di tipo “pratico” che “dogmatico”) a nulla rileverebbero, fatti salvi eventuali profili di illegittimità costituzionalità, di fronte all’insindacabile volontà del Legislatore – com’è noto, “libero nei fini” – di configurare la continuazione fallimentare come una circostanza aggravante.
E, in tal senso, l’orientamento ermeneutico in commento sembrerebbe godere dell’autorevole avallo delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione: basta infatti consultare una qualunque banca dati per appurare che tra i “precedenti conformi” figura Cass. Pen., Sez. Un., n. 21039/2011.
E giù il sipario sulla questione in esame!
Ma ecco il coup de théâtre che non ti aspetti: per il Giudice della nomofilachia la continuazione fallimentare non costituisce una circostanza aggravante, se non sul piano squisitamente formale.
È sufficiente, invero, leggere la “massima” della pronuncia da ultimo citata per comprendere che, secondo le Sezioni Unite della Suprema Corte, «In tema di reati fallimentari, nel caso di consumazione di una pluralità di condotte tipiche di bancarotta nell'ambito del medesimo fallimento, le stesse mantengono la propria autonomia ontologica, dando luogo ad un concorso di reati, unificati, ai soli fini sanzionatori, nel cumulo giuridico previsto dall'art. 219, comma secondo, n. 1, legge fall., disposizione che pertanto non prevede, sotto il profilo strutturale, una circostanza aggravante, ma detta per i reati fallimentari una peculiare disciplina della continuazione derogatoria di quella ordinaria di cui all'art. 81 cod. pen.».
In termini maggiormente esplicativi, l’Organo nomofilattico – come meglio chiarito nella parte motiva della sentenza, alle pp. 10 e ss. – ha sposato l’indirizzo interpretativo alla stregua del quale l’art. 219, co. 2, n. 1) L.F. prevede esclusivamente una fittizia unificazione quod poenam di plurimi e autonomi fatti di bancarotta commessi dal reo in un contesto spazio-temporale unitario, nella prospettiva di contenere – in modo ancor più pregante rispetto alla disciplina di cui al capoverso dell’art. 81 c.p. – la risposta punitiva dello Stato («Tale scelta appare chiaramente ispirata dall’esigenza, avvertita dal legislatore, di mitigare le conseguenze sanzionatorie e di non pervenire a forme di repressione draconiana dei reati di bancarotta, la cui pluralità in un fallimento è evenienza fisiologica»: cfr. p. 16). Tanto più che – come rammentato dalla stessa Suprema Corte – al momento dell’entrata in vigore dell’art. 219 L.F., l’ambito operativo dell’art. 81 cpv c.p. era circoscritto alle sole ipotesi di «più violazioni della stessa disposizione di legge», sicché la disciplina derogatoria in commento si caratterizzava, oltre che per un più mite trattamento sanzionatorio, anche per una più ampia portata applicativa (trovando applicazione, come anzidetto, pure nelle ipotesi di commissione di più reati fallimentari).
Ma procediamo con ordine.
La pronuncia delle Sezioni Unite prende l’abbrivio da una vicenda processuale che dà plasticamente contezza delle “storture” derivanti dall’indirizzo esegetico dell’“unitarietà della bancarotta”, in quanto – come evidenziato nell’ordinanza di remissione della Quinta Sezione Penale del 7.19.2010 – «riconducendo ad unità fatti ontologicamente diversi, ne preclud[e] il completo accertamento ed eventualmente la punizione, ponendosi in definitiva in contrasto con la logica del sistema penale e con gli articoli 3 e 112 della Costituzione» (cfr. p. 2 della sentenza delle Sezioni Unite): all’imputato, infatti, era stato contestato il delitto di cui all’art. 216, co. 1, n. 1) L.F., per avere dissipato, distratto, occultato e dissimulato attività della società di cui lo stesso era legale rappresentante, prelevando in più occasioni somme di danaro dai conti correnti sociali, sennonché, avendo patteggiato la pena – ex art. 444 c.p.p. – per i reati, relativi al medesimo fallimento, di bancarotta semplice e bancarotta preferenziale, il Giudice della cognizione aveva pronunciato nei suoi confronti sentenza di non doversi procedere per bis in idem, ritenendo nello specifico che, per quanto non sovrapponibili naturalisticamente, i delitti oggetto del secondo giudizio dovessero cionondimeno ritenersi assorbiti nel disvalore dell’unitario delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale già giudicato con la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti.
Quindi, dopo avere esaminato – anche in una prospettiva storica e comparatistica (avuto riguardo al codice di commercio del 1882 e al codice di commercio francese del 1807) – il «principio della c.d. unitarietà della bancarotta, secondo il quale il reato resta unico anche se realizzato attraverso una molteplicità di fatti» (cfr. p. 11), le Sezioni Unite hanno chiarito che gli articoli 216 e 217 L.F. sono inquadrabili nella categoria dogmatica delle “disposizioni a più nome” (o nome miste cumulative), in quanto prevedono diverse ed autonome ipotesi incriminatrici (ad es., con riferimento all’art. 216 L.F., bancarotta fraudolenta patrimoniale, documentale e preferenziale), per poi concludere nel senso che «con l’abbandono della concezione del fallimento come evento e in considerazione del fatto che i comportamenti dell’imprenditore insolvente possono essere estremamente eterogenei per tipologia o offensività, deve ritenersi che i plurimi fatti di bancarotta nell’ambito del medesimo dissesto fallimentare, pure unificati normativamente nella previsione dell’art. 219, comma 2, n. 1, legge fall., rimangono naturalisticamente apprezzabili, se riconducibili a distinte azioni criminose, e sono da considerare e da trattare come fatti autonomi, ciascuno dei quali costituisce un autonomo illecito penale» (cfr. p. 15).
Prima di addivenire a tale conclusione, il Giudice della nomofilachia ha passato in rassegna i diversi argomenti a sostegno delle due diverse opzioni ermeneutiche, come di seguito compendiati.
Militano a sostegno della “tesi della circostanza aggravante” due (validi) argomenti:
§ quello letterale (come dianzi detto, nella rubrica dell’art. 219 L.F. il Legislatore ha adoperato il nomen iuris «circostanze»);
§ quello della “tecnica normativa” impiegata nella disposizione di legge in commento, che prevede genericamente un aumento di pena per l’ipotesi in cui il reo commetta più fatti di bancarotta, con un rinvio implicito, quindi, alla disciplina di cui all’art. 64 c.p.
Tuttavia, «il riferimento formale e anche quello funzionale a tale categoria giuridica non sono coerenti – prosegue la Cassazione a Sezioni Unite – con la connotazione strutturale della stessa», difettando nella specie «il rapporto tra un fatto-base, cioè il fatto del reato, e un fatto accessorio, cioè il fatto della circostanza» (cfr. p. 16): e invero, la «circostanza» (dal latino “circum stans”, “che sta attorno”) “accede” sempre ad un fatto di reato, del quale costituisce un elemento (non essenziale, bensì) accidentale, in quanto può esserci o non esserci senza che il reato stesso venga meno.
Inoltre, considerato che ciascuno dei fatti previsti dall’art. 219 L.F. costituisce un’autonoma ipotesi delittuosa, avente la medesima “dignità giuridica”, non coglie nel segno – prosegue la sentenza in esame – l’assunto secondo cui «il legislatore avrebbe considerato proprio la pluralità dei fatti di bancarotta come una circostanza aggravante», non ravvisandosi «alcuna ragione logica per assegnare ad uno o più di essi la funzione di circostanza, declassando così condotte tipiche di determine fattispecie incriminatrici ad accadimento eventuale di altra fattispecie incriminatrice» (cfr. p. 16).
Aderendo alla “tesi della circostanza aggravante”, invero, si finirebbe col sostenere che il Legislatore ha inteso punire, in caso di commissione di plurimi fatti di bancarotta, la sola violazione più grave, prevedendo poi un aumento di pena per il fatto in sé – quale elemento circostanziante della fattispecie – dell’avere il reo commesso più reati di tale tipologia (indipendentemente dal loro numero).
E ancora, dopo avere esplicitato le ragioni per cui la disposizione normativa in commento non delinea né un «un reato unico nella forma del reato complesso» né un «reato abituale» (cfr. pp. 16 e 17), la Cassazione a Sezioni Unite ha statuito nel senso che «L’art. 219, comma secondo, n. 1, legge fall. disciplina, nella sostanza un’ipotesi di concorso di reati autonomi e indipendenti, che il legislatore unifica fittiziamente agli effetti della individuazione del regime sanzionatorio nel cumulo giuridico, facendo ricorso formalmente allo strumento tecnico della circostanza aggravante» (cfr. p. 16).
In altri termini, l’art. 219, co. 2, n. 1 L.F. veste l’abito giuridico della «circostanza aggravante», ma, nella sostanza, integra un’ipotesi speciale di “continuazione”.
Del resto, come rammentato dallo stesso Consesso nomofilattico, non si tratterebbe di una novità assoluta nel nostro ordinamento, atteso che anche l’ultimo comma dell’art. 589 c.p. («omicidio colposo»), «pur atteggiandosi apparentemente come circostanza aggravante, non è tale e non costituisce neppure un’autonoma figura di reato complesso, ma configura, secondo la prevalente giurisprudenza di questa Suprema Corte, un’ipotesi di concorso formale di reati, nella quale l’unificazione rileva solo quoad poenam, con la conseguenza che, ad ogni altro effetto, anche processuale, ciascun reato rimane distinto e autonomo» (cfr. p. 17): analoghe considerazioni, poi, valgono oggi – come si dirà meglio nel prosieguo della trattazione – per l’ottavo comma dell’art. 589 bis c.p. («omicidio stradale»), introdotto nel nostro ordinamento dalla Legge n. 41/2016.
Infine, prima di esplicitare le ragioni per cui «L’art. 219, comma secondo, n. 1, legge fall. opera sia nel caso di reiterazione di fatti riconducibili alla medesima ipotesi di bancarotta che in quello di commissione di più fatti tra quelli previsti indifferentemente dai precedenti artt. 216 e 217» e 218 L.F. (cfr. p. 18), nonché nelle ipotesi di «bancarotta impropria» (cfr. p. 19), la Cassazione a Sezioni Unite non ha omesso di evidenziare le «conseguenze paradossali» potenzialmente derivanti dall’applicazione dell’indirizzo ermeneutico dell’“unitarietà della bancarotta”: «esemplificativamente, una condanna per bancarotta preferenziale di scarso rilievo condurrebbe all’impunità di altri e più gravi fatti di bancarotta fraudolenta commessi dallo stesso soggetto nell’ambito dello stesso fallimento ed emersi solo successivamente al fatto giudicato» (cfr. p. 18).
Sennonché, prendendo le mosse dalla medesima premessa epistemologica del Giudice della nomofilachia («È indubbio che, sul piano formale, si è di fronte a una circostanza aggravante»: cfr. p. 16 della pronuncia in commento), la giurisprudenza di legittimità successiva è pervenuta alla conclusione che «la configurazione, sotto il profilo formale, della c.d. continuazione fallimentare, di cui all'art. 219, co.2 n.1, legge fall., quale circostanza aggravante, ne comporta l'assoggettabilità al giudizio di bilanciamento con le circostanze attenuanti (Sez. 5, n. 21036 del 17/04/2013 Rv. 255146; Sez. 5, n. 51194 del 12/11/2013 Rv. 258675)» (cfr., ex multis, la summenzionata Cass. Pen., Sez. V, n. 48361/2018, a pag. 2 della parte motiva), talvolta avendo anche cura di precisare che «tale conclusione è perfettamente in linea con la sentenza Sez. U, n. 21039 del 27/01/2011 Rv. 249665 che ha affrontato il complesso tema della pluralità di fatti di bancarotta e del metodo di determinazione della pena» (cfr. ibidem).
A parere di chi scrive, invece, affermare che l’art. 219, comma 2, n. 1) L.F. costituisce una circostanza aggravante, in quanto tale soggetta al giudizio di bilanciamento con le circostanze attenuanti, significa travisare il dictum e le motivazioni delle Sezioni Unite, secondo cui – lo si ribadisce – il Legislatore ha soltanto fatto «ricorso formalmente allo strumento tecnico della circostanza aggravante» per unificare fittiziamente nel cumulo giuridico plurimi e autonomi fatti di reato, difettando nella specie proprio il “substrato giuridico” della «circostanza», vale a dire «il rapporto tra un fatto-base, cioè il fatto del reato, e un fatto accessorio, cioè il fatto della circostanza» (cfr. p. 16 della pronuncia delle SS.UU.).
Innanzitutto, non si comprende come una “circostanza attenuante” possa concretamente determinare, per effetto del giudizio di bilanciamento con una o più aggravanti, l’obliterazione sul piano sanzionatorio di uno o più fatti di bancarotta: e qui torniamo – in una sorta di Ringkomposition – alle “considerazioni pratiche” rassegnate all’inizio della trattazione.
Per definizione, infatti, le «circostanze attenuanti» hanno l’effetto di “circostanziare” il fatto di reato cui accedono, mitigandone – in ragione della minore gravità – il relativo trattamento sanzionatorio, non già quello di impedire in radice, per quella specifica ipotesi di reato, l’applicazione della pena.
Del resto, il “favor rei” non può e non deve trasmodare in “privilegium rei”, perché – come ci ricordano le stesse Sezioni Unite, sia pure sotto un diverso angolo prospettico – caducare intere fattispecie di reato «si pone in contrasto con la logica del sistema penale e con gli artt. 3 e 112 Cost.» (cfr. p. 18).
E ciò non può che valere a fortiori per una “circostanza” che tale è nella forma, ma non nella sostanza.
Tali considerazioni giuridiche, poi, trovano un rassicurante riscontro nella giurisprudenza di legittimità in materia di «omicidio stradale» colposo, secondo cui «il disposto di cui all'art. 589-bis, comma ottavo, cod. pen., relativo al caso di morte di più persone ovvero a quello di morte di una o più persone e di lesioni in danno di una o più persone, non configura né un'autonoma ipotesi di reato complesso, né una specifica aggravante, ma disciplina un caso di concorso formale di reati, unificati solo "quoad poenam", sicché ciascuno di essi conserva la propria autonomia» (cfr., ex plurimis, Cass. Pen., Sez. IV, n. 12328/2024, nonché Cass. Pen., IV Sez., n. 14069/2024; in senso analogo, ma con riferimento al delitto di «omicidio colposo» di cui all’art. 589 c.p., cfr. Tribunale di Sondrio - Sezioni Ufficio Indagini Preliminari del 10.3.2005, secondo cui «La fattispecie di cui all'art. 589 comma 3 c.p. non dà luogo ad una circostanza aggravante, bensì ad un concorso formale omogeneo di reati, per il che esso non può essere posto in bilanciamento con le circostanze attenuanti generiche»).
In particolare, in alcune di tali pronunce – perfettamente sovrapponibili a quella delle Sezioni Unite del 2011 in materia di continuazione fallimentare [come anzidetto, infatti, è stato lo stesso Giudice della nomofilachia ad equiparare, sul piano dogmatico, l’art. 219, co. 2, n. 1) L.F. e l’ultimo comma dell’art. 589 c.p.] – la Suprema Corte ha altresì avuto modo di precisare che l’ottavo comma dell’art. 589 bis c.p. non va posto in bilanciamento con eventuali circostanze, sicché, in presenza di esse, il Giudice dovrà dapprima individuare la pena da irrogare, già tenuto conto dell’aumento di cui all’ottavo comma, e solo successivamente effettuare le riduzioni o gli aumenti di pena in relazione alle sussistenti circostanze attenuanti o aggravanti.
Ebbene, applicato tale criterio di calcolo – mutatis mutandis – all’ipotesi di cui all’art. 219, co. 2, n. 1) L.F., al nostro Tizio dovrebbe applicarsi la seguente pena:
§ “pena base” per la bancarotta fraudolenta per distrazione dell’importo di 10.000,00 euro, anni tre di reclusione (pari al minimo edittale);
§ aumentata di 1/3 per la c.d. continuazione fallimentare con la meno grave bancarotta distrattiva (ipotizzando un aumento nella misura massima consentita) alla pena di anni quattro di reclusione;
§ infine, ridotta di 1/3 per le circostanze attenuanti generiche (ipotizzando una riduzione nella massima estensione) alla pena di anni due e mesi otto di reclusione.
E dal momento che “la matematica non è un’opinione”, è interessante osservare come l’opzione ermeneutica della “circostanza aggravante” comporterebbe, nel caso di cui all’esempio, l’irrogazione di una pena più aspra (anni tre di reclusione, previo bilanciamento con giudizio di equivalenza tra le circostanze attenuanti generiche e la continuazione fallimentare) rispetto a quella che si infliggerebbe a Tizio qualificando correttamente l’art. 219 co. 2, n. 1) L.F. – in ossequio al dettato delle Sezioni Unite – come un’ipotesi di concorso formale di reati unificati quod poenam nel cumulo giuridico (come appena detto, anni due e mesi otto di reclusione).
In definitiva, l’assoggettamento della continuazione fallimentare al giudizio di bilanciamento con le circostanze attenuanti generiche costituirebbe, nel caso di specie, un “error in procedendo” in senso più sfavorevole per l’imputato: e allora sì che questo “pasticcio giuridico” sarebbe davvero completo.
[1] Si osservi, per completezza espositiva, che gli articoli 216, 217 e 218 del R.D. n. 267/1942 (rispettivamente, «bancarotta fraudolenta», «bancarotta semplice» e «ricorso abusivo al credito») sono stati trasposti, con alcune modifiche marginali, negli artt. 322, 323 e 325 del “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”.
[2] A tenore del quale «È punito con la pena che dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata sino al triplo … chi con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno criminoso, commette anche in tempi diversi più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge».
Immagine: Sandro Taurisani, Il caos n. 3.
Il diritto di accesso di fronte all’esercizio di poteri speciali: limiti e prospettive (nota a Cons. Stato, n. 171 del 13 gennaio 2025)
di Raffaella Dagostino
Sommario: 1. La vicenda. – 2. La disciplina dell’accesso agli atti dei consiglieri regionali. – 3. Esercizio del golden power e impenetrabilità di tale potere. – 4. Proporzionalità, pertinenza, riservatezza, tutela del terzo e altre disquisizioni giuridiche a giustificazione dei limiti alla conoscibilità di tali atti… solo uno specchio per le allodole. – 5. Uno sguardo oltre confine per qualche ulteriore riflessione critica.
1. La vicenda.
In una recente sentenza, la n. 171 del 13 gennaio 2025, il Consiglio di Stato si è pronunciato sul diritto di accesso, da parte di un consigliere regionale, agli atti relativi alla decisione del Consiglio dei Ministri di non esercitare il golden power in una operazione di cessione di quote societarie di una azienda sanitaria del Molise, escludendolo.
Più in particolare, il Consiglio di Stato, confermando la sentenza di prime cure del T.A.R. per il Lazio, sez. I, 12 luglio 2024, n. 14158, ha ritenuto legittima la nota della Presidenza del Consiglio dei Ministri con cui si era negata l’ostensione della decisione del Consiglio dei ministri di non esercitare il golden power nella cessione delle quote di Gemelli Molise s.p.a. (poi acquisite da Responsible s.p.a.), trattandosi di documentazione sottratta al diritto di accesso, ai sensi dell’articolo 24, comma 2, della legge 7 agosto 1990, n. 241 e dell’art. 13 del d.P.C.M. 1° agosto 2022, n.133, se non per l’ipotesi di accesso difensivo, ex articolo 24, comma 7, della l. n. 241/1990, non ricorrente però nella fattispecie oggetto di controversia.
Pertanto, il consigliere regionale della regione Molise ha visto soccombere il proprio diritto di conoscere tali atti, sul presupposto per cui «la dialettica tra il diritto/dovere di un consigliere regionale di conoscere atti in possesso dell’amministrazione, nell’ambito dell’esercizio del suo fondamentale ruolo di controllo politico dell’attività della pubblica amministrazione, in un contesto di democrazia partecipata e partecipativa, e la riservatezza che la legge impone di osservare rispetto a documentazione in relazione alla quale entrano in gioco interessi contrapposti, si risolve in favore della seconda nelle ipotesi in cui il sindacato (cui rimanda la richiesta di accesso) non sia relativo ad atti dell’ente di appartenenza dell’istante e laddove, in ogni caso, le disposizioni primarie e secondarie consentono di negare l’accesso per la tutela di contrapposti (e superiori) interessi dell’amministrazione e di soggetti terzi. Deve infatti assicurarsi una ragionevole proporzione e un equilibrio tra gli opposti e meritevoli interessi, coinvolti dall’accesso a documenti amministrativi, nelle ipotesi in cui non ricorrano esigenze di accesso difensivo ai sensi dell'art. 24, comma 7, della legge 7 agosto 1990, n. 241»[i].
2. La disciplina dell’accesso agli atti dei consiglieri regionali.
La pronuncia che si commenta pone l’attenzione sulla delicata questione dei limiti all’accessibilità di alcuni documenti amministrativi, per via della necessità di assicurare un equilibrato e bilanciato contemperamento fra gli interessi contrapposti che specificatamente vengono in gioco.
Una tematica, questa, che assume particolare rilievo nell’attuale contesto storico posto che, da più di una decina di anni, l’ordinamento pubblicistico ha visto notevolmente rafforzare i principi di pubblicità e trasparenza[ii] degli atti amministrativi, al fine di assicurare la piena accessibilità dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, così come stabilisce il d.lgs. n. 33 del 2013.
Già prima dell’affermazione e del riconoscimento del principio di trasparenza come piena accessibilità dei dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni da parte del cittadino, nella prospettiva di garantire un controllo generale e diffuso sull’operato di queste ultime, ossia sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche, nonchè per promuovere la partecipazione al dibattito pubblico, il nostro ordinamento conosceva forme di accesso ai documenti amministrativi speciali rispetto alla disciplina generale di cui alla l. n. 241/1990.
Fra le discipline di settore, derogatorie rispetto a quella generale di cui alla l. n. 241/1990, certamente vi è l’istituto del diritto di accesso previsto nell’ordinamento locale, che ancora oggi disciplina due differenti ipotesi.
Un primo riferimento normativo si rinviene nell’art. 10 d.lgs. n. 267/2000 (Testo unico degli enti locali o T.U.E.L.) che titola: «diritto di accesso e di informazione». Tale norma, come noto, sancisce la pubblicità di tutti gli atti dell’amministrazione comunale e provinciale, ad eccezione di quelli riservati per espressa previsione di legge o per motivata e temporanea decisione del sindaco o del presidente della provincia, in ragione della necessità di tutela della riservatezza di persone, gruppi o imprese.
Tale disposizione normativa, oggi da coordinarsi con la disciplina di cui al d.lgs. n. 33/2013[iii], già in passato assicurava a tutti i cittadini residenti nel comune o nella provincia di riferimento, singoli o associati, il diritto di accedere a tali atti amministrativi, nonché di avere informazione sullo stato degli atti o delle procedure pendenti dinanzi all’amministrazione stessa.
Seconda ipotesi di accesso prevista nella normativa degli enti locali è quella di cui all’art. 43 T.U.E.L., che più direttamente ci interessa. Tale norma disciplina l’accesso dei consiglieri comunali e provinciali a tutte le notizie e informazioni utili all’espletamento del proprio mandato. Un accesso, dunque, funzionale all’efficace ed efficiente svolgimento dell’incarico consiliare.
È noto, che tale norma sia espressione del principio di democrazia partecipativa e di rappresentanza esponenziale tanto che tale istanza di accesso non si collega solo all’interesse precipuo del singolo consigliere a conoscere questa o quella informazione, piuttosto alla cura del più generale interesse pubblico connesso all’espletamento del mandato[iv].
Tale istanza di accesso, infatti, mira a consentire al singolo consigliere di avere piena cognizione dell’operato consiliare, così da poter esprimere in maniera consapevole il proprio voto su tutte le questioni di competenza del consiglio comunale ed eventualmente di promuovere ulteriori iniziative o proposte. Pertanto, il bisogno di conoscenza del titolare di una carica elettiva si pone in rapporto di strumentalità con la funzione di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, di cui è investito, nell’ordinamento dell’ente locale, il consiglio comunale.
La stessa ratio sottesa alla fattispecie normativa appena richiamata, ossia di garantire il principio democratico dell’autonomia territoriale e della rappresentanza esponenziale, regge la disciplina posta dalle specifiche leggi regionali, volta a regolamentare l’accesso agli atti da parte dei consiglieri regionali.
Così come per i consiglieri comunali e provinciali, il diritto di accesso riconosciuto ai consiglieri regionali non richiede una motivazione dettagliata, né una puntuale dimostrazione delle attività consiliari che si andranno a svolgere e neppure la dimostrazione di un eventuale pregiudizio che dalla mancata ostensione dei documenti richiesti potrebbe derivare.
Il diritto di accesso del consigliere regionale è infatti funzionale non tanto all’interesse del Consigliere regionale, ma alla cura dell’interesse pubblico connesso al mandato conferito, essendo strumentale a garantire un controllo “qualificato” sul comportamento degli organi decisionali dell’ente di riferimento[v].
Pertanto, l’esercizio di tale diritto di accesso non richiede particolari vincoli motivazionali, ciò al fine di garantire che il consigliere possa svolgere il proprio mandato scevro da condizionamenti.
Tuttavia, questo non significa che lo stesso possa esercitarsi incondizionatamente.
È pacifico che l’esercizio del diritto di accesso – che sia quello documentale di cui alla l. n. 241/1990, o quello civico generalizzato ai sensi dell’art. 5-bis del d.lgs n. 33/2013, o quello di cui alla particolare fattispecie in esame – incontri sempre dei limiti o comunque un contemperamento, più o meno incisivo a seconda della disciplina di riferimento, nel bisogno di assicurare la tutela di interessi contrapposti rispetto a quelli sottesi alla istanza di accesso. Ne sono esempi: il rispetto del segreto d’ufficio, della riservatezza altrui, dei dati commerciali o industriali di terzi coperti da segreto o comunque riservati.
La tutela di interessi antagonisti, pertanto, salvo che non si traduca, per legge, in un limite assoluto alla conoscibilità degli atti o documenti amministrativi – come ad esempio accade in materia di segreto di Stato[vi] – necessitano di un bilanciamento in concreto, in ossequio e nel rispetto del principio di proporzionalità[vii] che costituisce, insieme al principio di trasparenza, uno dei valori fondanti il nostro ordinamento democratico[viii].
3. Esercizio del golden power e l’impenetrabilità di tale potere.
Nella vicenda in esame, il documento fatto oggetto di istanza da parte di un consigliere regionale del Molise, atteneva alla decisione del Consiglio dei ministri di non esercitare il golden power nella operazione di cessione di quote societarie di una azienda sanitaria, il Gemelli Molise s.p.a. Tali quote sarebbero poi state acquisite da altra società, la Responsible s.p.a. società benefit.
Prima di soffermarci sulle ragioni del diniego, così come dispiegate in sentenza, la peculiarità del provvedimento fatto oggetto di istanza, richiede di ripercorrere – seppur succintamente – la disciplina del golden power[ix].
Siamo di fronte, infatti, a una normativa che regolamenta l’esercizio di un potere speciale del Governo, con cui si è inteso assicurare la tutela di interessi strategici nazionali nei confronti di operazioni di investimento estere, extra-europee ma anche intra-europee.
Un potere particolarmente ampio e penetrante, capace di incidere su operazioni societarie ed economiche per salvaguardare asset ritenuti strategici per la cura di interessi nazionali, dalla dottrina e dalla giurisprudenza prevalente qualificato come atto di alta amministrazione[x] – non già come atto politico – per consentirne, sebbene con tutti i limiti che tale tipologia di provvedimento pone, un sindacato per lo meno in termini di manifesta illogicità o irragionevolezza, ma anche di proporzionalità[xi].
Conferme sulla natura amministrativa di tale provvedimento si traggono dalla stessa disciplina normativa sul golden power che consente di sostenere che, per quanto si tratti di poteri speciali che si muovono su un terreno ibrido[xii], non siano poteri liberi nel fine (essendo circoscritti e disciplinati dagli artt. 1 e 2 del d.l. n. 21/2012) e che l’esercizio dei medesimi si snodi nel rispetto di un iter procedimentale precipuo, in cui è possibile individuare – alla stregua della legge generale sul procedimento amministrativo – una pluralità di fasi (iniziativa, istruttoria e decisoria) che dovrebbero assicurare quelle garanzie minime di partecipazione al destinatario del provvedimento, sebbene sul punto la dottrina non abbia mancato di evidenziare alcune zone grigie.
Si tratta di un potere, dunque, connotato da amplissima discrezionalità, tanto da far ritenere – e su questo la dottrina è molto critica[xiii] – che non sia nemmeno necessario che tale decisione venga supportata da una approfondita e congrua motivazione, essendo sufficiente una motivazione limitata, trattandosi di atti governativi adottati per la cura di interessi pubblici di carattere assolutamente generale.
Tale potere si sostanzia essenzialmente nella facoltà di porre il veto rispetto all’adozione di determinate delibere, atti e operazioni delle imprese che gestiscono attività strategiche in specifici settori, di dettare impegni e condizioni in caso di acquisito di partecipazioni in tali imprese, ovvero di opporsi all’acquisto delle medesime partecipazioni.
Le emergenze che hanno attraversato l’ordinamento negli ultimi anni, dalla pandemia da Covid-19 alla recente guerra fra Russia e Ucraina, hanno portato il legislatore ad ampliare notevolmente l’ambito oggettivo di applicazione di tali poteri speciali, estendendo la disciplina a settori diversi da quelli per i quali era stato originariamente previsto, come la difesa e la sicurezza nazionale, e a riscrivere più volte la disciplina di cui al d.l. del 15 maggio 2012, n. 21[xiv].
Fra i nuovi settori strategici, oltre quello dell’energia, dei trasporti e delle comunicazioni, anche nel settore della comunicazione elettronica a banda larga basata sulla tecnologia di quinta generazione (5G) e cloud, è stato fatto rientrare il settore sanitario e farmaceutico, dapprima solo in via provvisoria – a ridosso del periodo pandemico, con il d.l. n. 23/2020 – e poi, in maniera stabile. Con il decreto legge n. 21/2022, infatti, si è modificato l’art. 2, comma 5, del d.l. n. 21/2012, stabilizzando quello che era il regime temporaneo e allineando la disciplina nazionale a quella europea di cui all’art. 4, comma 1, del Regolamento (UE) 2019/452 che, a sua volta, individua fra i fattori che possono essere presi in considerazione dagli Stati membri perché in grado di incidere sulla sicurezza o sull’ordine pubblico, quelli inerenti infrastrutture critiche, tra cui è menzionata la sanità.
Il caso oggetto di esame rientra proprio in questo ambito, sebbene il governo nazionale abbia poi deciso di non esercitare tale potere. E proprio tale decisione è stata fatta oggetto di istanza da parte del consigliere regionale.
Sia il T.A.R. per il Lazio che il Consiglio di Stato, confermando la pronuncia del giudice di prime cure, hanno ritenuto legittimo il diniego all’istanza di accesso per diversi ordini di ragioni.
La prima ragione, quella per vero assorbente, come meglio si dirà, è che la decisione del Consiglio dei ministri di non esercitare il golden power fosse inaccessibile ai sensi dell’art. 9 del d.P.R. 25 marzo 2014, n. 86, rientrando, tale atto, nella documentazione sottratta al diritto di accesso, ai sensi dell’articolo 24, comma 2, della legge 7 agosto 1990, n. 241 e dell’art. 13 del d.P.C.M. 1° agosto 2022, n.133, se non per la sola ipotesi di accesso difensivo, ex articolo 24, comma 7, della l. n. 241/1990, non sussistente nel caso di specie.
Seconda ragione, che pur volendo valorizzare il fatto che il consigliere avesse presentato tale istanza in forza delle prerogative sottese al proprio mandato istituzionale, il medesimo avrebbe dovuto chiedere l’accesso limitatamente agli atti in possesso della regione Molise o di enti pubblici ad essa riferibili, sempre nel rispetto dei limiti generali fissati dalla normativa primaria.
Terza e ultima ragione, valutata in via gradata, che anche qualora l’istanza del consigliere regionale fosse stata formulata non già nell’esercizio delle sue prerogative politiche, bensì come comune cittadino – pertanto, ai sensi della disciplina dell’accesso civico generalizzato di cui al d.lgs. n. 33/2013 – l’esito sarebbe stato il medesimo posto che l’art. 5-bis, comma 2, del suddetto decreto richiede un contemperamento in concreto fra contrapposti interessi, escludendo l’ostensione degli atti e documenti amministrativi ogniqualvolta sia necessario assicurare la libertà e segretezza della corrispondenza, nonché interessi economici e commerciali di una persona fisica o giuridica, compresa l’ipotesi di segreto commerciale, industriale o la tutela della proprietà intellettuale d’autore.
4. Proporzionalità, pertinenza, riservatezza, tutela del terzo e altre disquisizioni giuridiche a giustificazione dei limiti alla conoscibilità di tali atti… solo uno specchio per le allodole.
Le ragioni espresse in sentenza e poste alla base del diniego sono tenute fra loro ben salde. Il consiglio di Stato, però, si sofferma un po’ più dettagliatamente proprio sull’ultimo aspetto, ovvero sul sindacato, in termini di proporzionalità, fra interessi fra loro confliggenti, quello alla trasparenza di cui al d.lgs. n. 33/2013, da un lato, e quello della riservatezza o segretezza individuale dall’altro.
È noto, infatti, che nel corso degli ultimi anni il principio di trasparenza[xv] sia stato notevolmente rafforzato, così contribuendo a consacrare il passaggio da una amministrazione burocratica verso un’amministrazione sempre più al servizio dei cittadini, sempre più aperta e trasparente.
Il principio di trasparenza, declinato in forma di accessibilità totale agli atti e documenti dell’amministrazione, ha contribuito da un lato, a portare a compimento il processo di democratizzazione dell’amministrazione pubblica, dall’altro, a implementare forme di democrazia partecipata da parte dei singoli cittadini. Una trasparenza amministrativa, dunque, che non si declina più semplicemente in termini di diritto di accesso, bensì anche come vero e proprio diritto all’informazione.
Nonostante l’affermazione del principio di trasparenza come condizione di garanzia delle libertà individuali e collettive, nonché dei diritti civili, politici e sociali, bensì anche dell’imparzialità, della qualità, dell’efficienza dell’azione amministrativa nella prospettiva del riconoscimento di un vero e proprio diritto ad una buona amministrazione[xvi], il medesimo principio necessita pur sempre di una corretta e consapevole applicazione, non potendo travalicarsi surrettiziamente i limiti dell’altrui riservatezza o del segreto, individuale o pubblico che sia[xvii].
E infatti, richiamando consolidata giurisprudenza, il Consiglio di Stato evidenzia la necessità di garantire una «ragionevole proporzione e un equilibrio fra gli opposti e meritevoli interessi coinvolti dall’accesso ai documenti amministrativi»[xviii].
A dire del Consiglio di Stato, la dialettica tra il diritto/dovere di un consigliere regionale di conoscere atti in possesso dell’amministrazione, pur nell’ambito dell’esercizio del suo fondamentale ruolo di controllo politico dell’attività della pubblica amministrazione, in un contesto di democrazia partecipata e partecipativa, e la riservatezza che la legge impone di osservare rispetto a una documentazione in relazione alla quale entrano in gioco interessi contrapposti, si risolve in favore della seconda nelle ipotesi in cui il sindacato (cui rimanda la richiesta di accesso) non sia relativo ad atti dell’ente di appartenenza dell’istante e laddove, in ogni caso, le disposizioni primarie e secondarie consentono di negare l’accesso per la tutela di contrapposti (e superiori) interessi dell’amministrazione e di soggetti terzi.
L’esito non sarebbe stato diverso se l’istanza d’accesso fosse stata formulata ai sensi dell’art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 33/2013.
Orbene, stando alla motivazione del giudice amministrativo, nel caso di specie, il diritto di conoscere, sia che fosse stato giustificato in ragione di un precipuo ruolo istituzionale – quello di consigliere regionale – che ha nella democrazia partecipata il proprio fondamento, sia che fosse stato manifestato quale espressione più generale del principio di trasparenza, intesa come accessibilità totale agli atti e ai documenti dell’amministrazione, legittimamente deve farsi retrocedere dinanzi a preminenti interessi di terzi e dell’amministrazione, a maggior ragione perché trattasi di atti di amministrazione diversa rispetto a quella cui il cittadino e/o il cittadino qualificato, qual è il consigliere regionale, appartiene.
Ebbene, nella motivazione a sostegno della legittimità del diniego, il giudice amministrativo fa leva sull’esigenza di veder tutelati i diritti dei terzi e dell’amministrazione, senza distinguere (o meglio uniformemente considerando) l’ipotesi di accesso dispiegata in qualità di consigliere, per l’assolvimento del proprio ruolo istituzionale, nonché l’ipotesi gradata di esercizio d’accesso nella forma – meno vincolata nei presupposti – dell’accesso civico generalizzato.
È pacifico[xix], oramai, che le diverse forme di accesso possano anche fra loro cumularsi e che le relative istanze possano proporsi in via gradata, così come è pacifico che l’accesso qualificato dalla presenza di specifici presupposti (che sia l’accesso documentale cui alla legge generale sul procedimento amministrativo o le forme speciali di accesso che si rinvengono nelle discipline di settore, come quella oggetto di esame) e l’accesso civico generalizzato divergano non solo per finalità e requisiti (si pensi alle differenze relative all’ambito soggettivo e oggettivo di applicazione) bensì anche – e soprattutto – per il diverso grado di profondità di conoscenza consentito.
Nel caso di specie, l’assimilazione nell’esito sembra essere giustificata dalla similare finalità che contraddistingue l’accesso civico generalizzato e l’accesso di un consigliere, ossia l’esercizio di un controllo democratico sul corretto esplicarsi dell’attività amministrativa.
Ciò non toglie però che quello del consigliere regionale sia un controllo qualificato, un controllo politico sull’esercizio dell’attività amministrativa da parte dell’organo di appartenenza, certamente – ove consentito – di portata ben più ampia dell’altro, giustificandosi nella necessità di un efficace espletamento del proprio mandato.
Per cui, a parità di condizioni, sussistendo tutti i presupposti di legittimazione, sarebbe questa l’istanza capace di fornire maggiori garanzie di accesso.
Restando, però, per il momento, al dato della sussistenza di interessi confliggenti, appartenenti a terzi e all’amministrazione, non può non evidenziarsi la fragilità e l’apoditticità della motivazione del giudice amministrativo – evidentemente posta più a corredo che a fondamento motivazionale.
Non può non ricordarsi che nell’era della trasparenza amministrativa, la definizione dei limiti e delle eccezioni al diritto di accesso ai documenti e alle informazioni della amministrazione non si invera sempre in preclusioni assolute, implicando un concreto bilanciamento fra accessibilità, da un lato, e riservatezza e/o segreto[xx], dall’altro, cosa che non sempre porta a un diniego, potendosi valutare strumenti diversi qual è il differimento oppure, l’oscuramento di dati sensibili ma anche semplicemente la pubblicazione per estratto delle decisioni finali di specifici procedimenti di pubblico interesse, oppure ancora il rilascio di informazioni di pubblico interesse per la sola parte del documento o delle informazioni non oggetto di “censura”.
Ciò varrebbe tanto per l’ipotesi di istanza di accesso qualificata (ossia esperita facendo valere il ruolo di consigliere regionale, dovendo questi poter avere accesso anche solo a notizie o informazioni utili per l’espletamento del proprio mandato) sia per l’istanza formulata in termini di accesso civico generalizzato, altrimenti depotenziandosi e vanificandosi le esigenze di controllo democratico sottese al principio di trasparenza.
Il diritto di accesso, infatti, costituisce un principio generale del nostro ordinamento democratico, ragion per cui i limiti e le eccezioni al medesimo debbono interpretarsi rigorosamente e restrittivamente, dovendo valutarsi anche ipotesi alternative al mero diniego.
Ma vi è un secondo dato che porta il giudice amministrativo ad appaiare, nell’esito, le due paventate forme d’istanza d’accesso: il fatto che il documento che si chiede di conoscere non sia riconducibile all’amministrazione di appartenenza del consigliere regionale. Quest’ultimo – si legge in sentenza – avrebbe dovuto chiedere l’accesso limitatamente agli atti in possesso della regione Molise o di enti pubblici ad essa riferibili, sempre nel rispetto dei limiti generali fissati dalla normativa primaria.
Orbene, il requisito della pertinenza – come limite intrinseco per l’esercizio di questa speciale istanza di accesso – si spiega in ragione del fatto che il bisogno di conoscenza del titolare di una carica elettiva si ponga in rapporto di strumentalità con la funzione di indirizzo e di controllo politico-amministrativo, di cui è investito, nell’ordinamento dell’ente locale, l’organo di appartenenza.
Questo limite oggettivo – ossia della accessibilità ai soli documenti dell’amministrazione di riferimento – risponde alla finalità di garantire il rispetto del principio della separazione dei poteri. Pertanto, si esclude in una interpretazione estensiva della normativa di riferimento volta a ricomprendere fra gli atti dell’amministrazione di appartenenza tutti quegli atti, anche posti da organi differenti, aventi però ricadute sul territorio.
Ciò vale a maggior ragione nel caso di specie, in cui il documento di cui si chiede l’ostensione è un atto di alta amministrazione, una decisione presa dal Consiglio dei Ministri.
È evidente, dunque, che la ragione sottesa è di evitare un controllo democratico multilivello (o decentrato, se si preferisce) su tali atti amministrativi. Se si ammettesse, il fondato timore è che si creerebbe probabilmente un cortocircuito democratico inaccettabile, non potendo consentirsi un sindacato politico da parte di organi espressione della democrazia territoriale, locale, su un potere del governo centrale a sua volta frutto di scelte ampiamente discrezionali giustificate dall’esigenza di veder tutelati interessi nazionali strategici, pur avendo ricadute territoriali, producendo cioè i loro effetti su scelte e decisioni che impattano poi sul territorio regionale.
Purtuttavia, tale rischio, sebbene fondato, non giustifica di per sé l’esclusione del diritto di accesso. Resta, ad esempio, ancor oggi emblematico il caso di avvenuto riconoscimento – in sede giurisdizionale a seguito d’impugnazione del diniego – della legittimità del diritto di accesso agli atti e documenti del procedimento di approvazione di un progetto definitivo del DIPE (Dipartimento programmazione e Coordinamento della Politica Economica), relativo al collegamento viario Ragusa – Catania, da parte degli enti locali interessati alla realizzazione dell’opera[xxi].
La verità è che, fondamentalmente, la ragione dell’esclusione dell’accesso la si fa risalire alla voluntas legis, ossia nel richiamo ai limiti di cui all’art. 24, comma 2, l. n. 241/1990.
Purtuttavia, anche su questo limite è necessario qualche chiarimento.
Come noto, il limite di cui all’art. 24, comma 2, l. n. 241/1990 trova applicazione sia per le ipotesi di accesso documentale, sia disciplinato dalla legge generale sul procedimento amministrativo, sia che si tratti di fattispecie c.d. speciali (come quella in esame dell’accesso del consigliere), sia nell’ipotesi di accesso civico generalizzato, sebbene per quest’ultimo il rinvio al comma 2 dell’art. 24, l. n. 241/1990 abbiano sollevato non pochi dubbi nella definizione delle modalità di attuazione [xxii].
L’art. art. 24, comma 2, della l. n. 241 del 1990 consente alle amministrazioni di precisare le fattispecie di esclusione dell’accesso già individuate dal legislatore nell’art. 24, comma 1, l. n. 241 del 1990, esplicitando i casi di segreto o di divieto di divulgazione per gli atti rientranti nella propria disponibilità. Diversamente, l’art 24, comma 2, non dovrebbe consentire alle amministrazioni di disciplinare autonomamente ipotesi di esclusione rientranti nella disciplina regolamentare di cui al comma 6 del medesimo articolo, diversamente ampliandosi oltremodo il loro potere discrezionale, perché così facendo si assegnerebbe loro una discrezionalità regolatoria incompatibile con il principio generale di accessibilità e trasparenza.
Nel caso di specie, la legittimazione a disciplinare, o meglio, a esplicitare le ipotesi di esclusione del diritto di accesso è data dal fatto che, ai sensi del combinato disposto dei commi 1 e 2 dell’art. 24 richiamato, la fattispecie in esame rientri in quelle ipotesi in cui il divieto di divulgazione è espressamente previsto dalla legge, in particolare ai sensi del combinato disposto di cui all’art. 2, comma 5, del d.l. n. 21/2012, dell’art. 9, d.p.r. n. 86/2014 e art. 13, d.p.c.m. n. 133/2022. Queste disposizioni normative trovano, fra l’altro, un conforto nei vincoli di riservatezza comunque imposti dalla disciplina europea (si vedano in particolare gli artt. 10 e 3, comma 4 del Reg. UE 2019/452).
Queste norme interne cui si è fatto riferimento, sebbene non classifichino espressamente come segreto o riservato il documento di cui si chiede l’ostensione, escludono genericamente che le informazioni, i dati e le notizie contenute nei documenti originati dalle pubbliche amministrazioni per le finalità di cui è questione siano accessibili, se non per il caso di accesso difensivo.
Orbene, ci si rende conto che vi è innanzitutto una volontà politica di mantenere sostanzialmente oscurate determinate decisioni.
D’altra parte, si evince anche che, pur a fronte di pregevoli disquisizioni sui limiti di proporzionalità e adeguatezza ai fini della tutela della riservatezza dei terzi o dell’amministrazione, la stessa giurisprudenza si rifugia dietro la preclusione ope legis, che come detto lascia margini di apertura limitatamente alle sole ipotesi di accesso difensivo.
Va altresì ricordato, però, che in via generale, il limite di cui all’art. 24, comma 2, è stato interpretato nel senso di non implicare, per le ipotesi di istanze di accesso civico generalizzato, una preclusione assoluta all’accesso, dovendosi compiere un bilanciamento nel caso concreto.
Purtuttavia, come dimostrato, nel caso di specie, trattandosi di decisioni giustificate per la cura e la tutela di interessi strategici nazionali, ogni disquisizione in termini di proporzionalità e ragionevolezza[xxiii], fuori dall’ipotesi di accesso difensivo, diviene velleitaria.
In definitiva ciò che emerge è che il golden power, anche con l’avvallo di una deferente giurisprudenza nazionale, si manifesti come un potere tendenzialmente segreto, che consente margini di accessibilità nella limitata ipotesi di accesso difensivo, anche in questo caso, inverati tutti i presupposti di legge, come noto stringenti (ex art. 24, comma 7, l. n. 241/1990).
Le ragioni, evidentemente politiche, sono da ricercarsi nella volontà di tutelare interessi pubblici ritenuti strategici.
Possiamo ritenere, dunque, che ancora oggi, nell’era della trasparenza, in alcune ipotesi, come quella in esame, il segreto resti lo strumento per preservare l’esercizio di funzioni sovrane, dispiegate in nome di superiori interessi pubblici che, evidentemente, necessitano di essere tutelati anche a garanzia dell’unitarietà dell’ordinamento giuridico.
Ciò non toglie però che dovrebbe essere necessario circoscrivere o individuare più specificatamente, già a livello normativo, le ipotesi in cui sia legittimo ricorrere all’esercizio di tali poteri, altrimenti gli stessi non potrebbero dirsi “speciali”, e poi, che la logica del segreto dovrebbe sempre considerarsi come extrema ratio.
Meritano, in particolare, di essere segnalate quelle voci in dottrina[xxiv] che, al fine di rendere un po' meno opachi i vetri dell’amministrazione centrale, specie nel caso di esercizio di questi poteri speciali, auspicano, in linea con la maggiore democraticità che il principio di trasparenza vorrebbe assicurare, per lo meno una conoscibilità postuma di tali decisioni, ossia a procedimento concluso, da assicurarsi anche solo con la pubblicazione per estratto del provvedimento o, eventualmente, fornendo una nota riepilogativa, che offra maggiori dettagli, all’intero della relazione annuale che viene presentata al Parlamento ex art 3-bis del decreto n. 21/2012.
5. Uno sguardo oltre confine per qualche ulteriore riflessione critica.
A sostegno dell’analisi sin qui svolta, pare opportuno richiamare recente giurisprudenza europea che ci consente di guardare oltre la specifica questione, però per trarre utili spunti per qualche altra considerazione critica.
E invero, in una prospettiva meno garantista per l’esercizio di questi poteri sovrani speciali sembra porsi la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea che pare, in qualche modo, intenzionata proprio a ridimensionare l’ampiezza dell’esercizio dei poteri di golden power da parte degli Stati membri.
Emblematico il caso Xella Magyarorzág, con cui la Corte di Giustizia EU, seconda sessione, 13 luglio 2023, Causa 106/22, ha fornito una interpretazione formalistica e restrittiva del regolamento (Ue) 2019/452, che istituisce un quadro per il controllo degli investimenti esteri diretti nell’Unione, ridimensionandone il perimetro di applicazione della disciplina, con evidenti ricadute in materia di esercizio del golden power da parte degli Stati membri[xxv].
In particolare, in questa pronuncia la Corte di Giustizia ha evidenziato che l’esercizio di un potere di veto da parte del Governo di uno Stato membro all’acquisizione di partecipazioni societarie (nel caso di specie trattavasi poteri esercitati dal Governo ungherese in merito all’acquisizione di una società da parte di un’altra, con particolare riferimento al settore edile) può incidere sull’esercizio di una libertà fondamentale: la libertà di stabilimento.
Di conseguenza, a dire della Corte, una restrizione di una libertà fondamentale garantita dal Trattato può essere ammessa unicamente a condizione che la misura nazionale sia giustificata da un motivo imperativo di interesse generale (quali motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, difesa e di sanità pubblica) e che la stessa sia idonea a garantire il raggiungimento dell’obiettivo da essa perseguito senza andar al di là di quanto necessario per ottenerlo, non potendo tali misure essere giustificate da motivi di natura puramente economica, connessi alla promozione dell’economia nazionale o al buon funzionamento di quest’ultima[xxvi].
Pertanto, è evidente che prima ancora delle ragioni (recte: delle motivazioni) a sostegno della misura adottata, al fine di valutarne la legittimità in termini di proporzionalità, rilevano i motivi sottesi all’esercizio di tali poteri, dovendo questi essere interpretati restrittivamente, non potendo la loro portata essere determinata unilateralmente da ciascuno Stato membro senza il controllo delle istituzioni dell’Unione.
E infatti, precisa ancora la Corte, ferma la libertà politica riconosciuta a ciascuno Stato membro di determinare, conformemente alle necessità nazionali, le esigenze dell’ordine pubblico e della pubblica sicurezza a fondamento dell’esercizio del golden power, tali motivi possono essere invocati solamente in caso di minaccia effettiva e sufficientemente grave ad uno degli interessi fondamentali della collettività, non potendo gli stessi essere piegati per il perseguimento di fini puramente economici[xxvii].
La pronuncia, pertanto, si rivela particolarmente importante perché dilata le maglie del sindacato del giudice sull’esercizio del golden power, al contempo, circoscrivendo i limiti soggettivi e oggettivi che legittimano l’esercizio del medesimo da parte degli Stati membri.
E infatti, l’esercizio del sindacato del giudice non solo potrebbe dirigersi verso il provvedimento frutto dell’esercizio del potere speciale, bensì anche sull’atto regolamentare che ne regola i presupposti, il quale o potrebbe essere disapplicato oppure essere oggetto, assieme al provvedimento, di doppia impugnativa da parte del ricorrente. Ancora, se si volessero valorizzare le esigenze sociali sottese all’esercizio di tali poteri, potrebbe non escludersi un ampliamento della legittimazione e dell’interesse a ricorrere a nuovi attori, come associazioni di categoria, sindacati, imprese concorrenti[xxviii].
Ad ogni modo, al di là del tipo di tutela esperibile, ciò che realmente rileva è assicurare l’effettività della tutela giurisdizionale e del sindacato del giudice su tali poteri, pur nei limiti dell’ampia discrezionalità che li connota.
Infatti, il rischio che si corre a lasciar incondizionato e incontestato (recte: privo di sindacato) tale potere, nascondendosi dietro il velo dell’amplissima discrezionalità, è che il golden power si trasformi in un facile strumento di politica dirigista[xxix].
Ragion per cui, se la decisione resta nella sostanza inaccessibile e impenetrabile – se non scalfita in alcuni limitatissimi casi, attraverso un impervio sindacato di proporzionalità (come si è detto per il caso dell’istanza di accesso difensivo), pare opportuno assicurare un crisma di legalità all’esercizio di tale potere anche attraverso un rafforzamento degli addentellati normativi legittimanti il medesimo.
Il che porterebbe a valorizzare, fra le possibili patologie del provvedimento, sintomatiche di vizi di legittimità sostanziale, anche quella tradizionale figura nota come sviamento di potere. Cosa che probabilmente consentirebbe di allargare le maglie del sindacato giurisdizionale valorizzando più efficacemente la correlazione esistente fra fatto – fattispecie – potere – atto (ossia: fatto – norma – potere – effetto), cogliendo più da vicino quella relazione intercorrente fra presupposti normativi, fatti accertati in sede istruttoria, motivazione del provvedimento e interessi pubblici effettivamente perseguiti.
Questa prospettiva sembra emergere dalle posizioni difensive del ricorrente, in una recente questione oggetto di pronuncia del T.A.R. del Lazio[xxx], espressasi sul delicato caso Unicredit/Banco BPM, successiva alla sentenza che si commenta. In particolare, la questione oggetto del giudizio richiamato verte su un ricorsopromosso da UniCredit S.p.A. per l’annullamento – per difetto di presupposti richiesti dalla disciplina di legge – del DPCM del 18 aprile 2025, con il quale, in relazione all’offerta di scambio volontaria di UniCredit, avente ad oggetto la totalità delle azioni di Banco BPM S.p.A., sono stati esercitati, da parte del Governo, i poteri speciali di cui al decreto legge 15 marzo 2012, n. 21. Sulla questione certamente non è possibile indugiare nella presente sede.
Ciò che preme rilevare in questa sede è che, a fronte di un tentativo demolitorio del provvedimento in questione, operato dalla Unicredit s.p.a. proprio attraverso la valorizzazione del difetto dei presupposti normativi legittimanti l’esercizio del potere sovrano di golden power, la giurisprudenza amministrativa finisce per limitarsi a un tiepido sindacato sull’esercizio del medesimo.
Anche quest’ultima decisione cela un atteggiamento se non protezionistico per lo meno deferente dei giudici nei confronti del governo, tanto che in questa pronuncia il T.A.R. Lazio, attraverso un abile esercizio di erudizione normativa, si pone in posizione sostanzialmente antitetica rispetto all’indirizzo della giurisprudenza europea, arrivando a declinare la nozione di «sicurezza economica» come species del più ampio genus della «sicurezza nazionale», in virtù tanto della normativa nazionale, quanto di quella europea.
Non si può non sottolineare però che una strumentalizzazione dell’uso di tali poteri da parte del governo potrebbe anche esporre il nostro paese a una procedura di infrazione.
Orbene, è evidente che la complessità della materia ci porta molto lontano nei ragionamenti giuridici.
Tornando alle questioni che più da vicino ci hanno interessato, pare opportuno evidenziare che le diverse esigenze, così emerse, di valorizzazione di istituti partecipativi o di implementazione delle garanzie procedimentali o ancora, di demarcazione, in via interpretativa, degli indeterminati confini di suddetta materia, sono tutte manifestazioni della necessità di assicurare il rispetto di un livello minimo di democrazia partecipativa.
La valorizzazione delle istanze di accesso civico generalizzato o di istanze di accesso da parte dei rappresentanti degli enti locali a tali documenti, ad esempio, risponde al bisogno di assicurare un controllo democratico su decisioni che sono certamente il frutto di una visione politica nazionale strategica ma che, in alcuni specifici casi, potrebbero avere ricadute dirette o mediate anche in ambito locale e, eventualmente, avere come effetto latente quello di implementare divari territoriali di cittadinanza[xxxi].
Favorire forme di democraticità partecipativa a supporto di scelte di rilevanza strategica nazionale, potrebbe tornare utile proprio in materie, come quella della sanità, oppure delle infrastrutture[xxxii], che si presentano complesse, non avendo una disciplina uniforme, ma che hanno grande e rilevante impatto sui territori.
Circoscrivere l’esercizio di tali poteri speciali, attraverso una interpretazione restrittiva dei presupposti normativi e, al contempo, valorizzare l’esistenza di garanzie procedimentali, nonché di strumenti espressione di istanze partecipative, come le forme di accesso di cui si è detto, risponde a esigenze di democraticità che uno Stato di diritto è tenuto ad assicurare nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali dei cittadini.
Purtuttavia, non si può non evidenziare che queste esigenze non possono essere lasciate al buon senso o alla sensibilità giuridica o all’interpretatio di questo o di quell’altro giudice, ponendo il creazionismo giurisprudenziale[xxxiii] un grave vulnus alla certezza del diritto e di conseguenza al diritto di uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge.
Pertanto, concludendo, per evitare che un potere camaleontico[xxxiv] come il golden power, possa di fatto tradursi in uno oscuro strumento di politica dirigista capace, da un lato, di creare Stati competitor[xxxv], dall’altro, di comprimere indebitamente diritti o libertà fondamentali dei cittadini, bensì anche di recare pesanti disallineamenti fra politiche centrali e realtà territoriali, così finanche esacerbando i già gravi e radicati divari territoriali di cittadinanza, sarebbe forse opportuno un ripensamento della normativa in questione a garanzia della legalità e della certezza del diritto, espressione primaria della democraticità di uno Stato di diritto.
[i] Così in motivazione lo stesso il Consiglio di Stato, 13 gennaio 2025, n. 171.
[ii] R. Villata, La trasparenza dell’azione amministrativa, in Dir. proc. Amm., 1987, 529 ss.; G. Arena, Trasparenza amministrativa e democrazia, in G. Berti, G.C. de Martin, Gli istituti di democrazia amministrativa, Milano, 1996, 22 ss.; A. Sandulli, L’accesso ai documenti amministrativi, in Giorn. dir. amm., 5/2005; 494; M.A. Sandulli, Accesso alle notizie e ai documenti amministrativi, (voce) Enc. Dir., appendice di aggiornamento IV, Milano, 2000, 1 ss.; M. Ciammolo, La legittimazione ad accedere ai documenti amministrativi (prima e dopo la l. 11 febbraio 2005 n. 15, Foro amm. T.a.r., 2007, 1198 ss.; C. Marzuoli, La trasparenza come diritto civico alla pubblicità, in F. Merloni, Trasparenza delle istituzioni e principio democratico, Milano, 2008, 45 ss.; F. Merloni, La trasparenza come strumento di lotta alla corruzione tra legge n. 190 del 2012 e d. lgs. n. 33 del 2013, in B. Ponti (a cura di), La trasparenza amministrativa dopo il d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, Rimini, 2013, 18 ss.; M. Cocconi, L’acquisizione di documenti da parte di soggetti pubblici: diritto d’accesso o principio di leale cooperazione istituzionale?, in Giorn. dir. amm., 2012, 1, 58; M.C. Cavallaro, Garanzie della trasparenza amministrativa e tutela dei privati, in Dir. Amm. 2015, 121, ss.; F. Manganaro, Evoluzione del principio di trasparenza, in Studi in memoria di Roberto Marrama, Napoli, 2012, 639; Id., Trasparenza e obblighi di pubblicazione, in Nuove autonomie, 2014, 553 ss.; Id., Trasparenza e digitalizzazione, in Dir. e proc. amm., 1/2019, 25 ss; I.M. Marino, Sulla funzione statutaria e regolamentare degli enti locali, ora in A. Barone (a cura di), Scritti Giuridici, tomo II, Napoli, 2015, pag. 1294-1316; D.U. Galetta, Trasparenza e contrasto della corruzione nella pubblica amministrazione, fra realtà e falsi miti, Relazione al congresso annuale dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto amministrativo, Antidoti alla cattiva amministrazione: una sfida per le riforme, Roma, 7-8 ottobre 2016; A.G. Orofino, La trasparenza oltre la crisi. Accesso, informatizzazione, controllo civico, Bari, 2020; M.R. Spasiano, I principi di pubblicità, trasparenza e imparzialità, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2011, 83; M.A. Sandulli - L. Droghini, La trasparenza amministrativa nel FOIA italiano. Il principio di conoscibilità generalizzata e la sua difficile attuazione, in federalismi, 2019, 401 ss.; M. Savino, The Right to Open Public Administrations in Europe: Emerging Legal Standards, Parigi, OECD-OCSE, Sigma Paper n. 46, 2010, 1-41; Id., Il FOIA italiano e i suoi critici: per un dibattito scientifico meno platonico, in Dir. amm., 3/2019, 453 ss.; F. Fracchia, E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2020, 55; A. Barone, La trasparenza amministrativa, in Aa.Vv., Diritto pubblico per l’economia e gli studi sociali, A. Barone - C. Colapietro - G. Seges, Torino, 2024; A. Corrado, Il principio di trasparenza e i suoi strumenti di attuazione, in M.A. Sandulli (a cura di), Principi e regole dell’azione amministrativa, Milano, 2024, 187 – 220.
[iii] Si veda come esempio recente: ANAC, delibera n. 797 del 6 dicembre 2021 sull’istanza di accesso al piano di riequilibrio finanziario pluriennale e relativi limiti.
[iv] Cfr. fra le sentenze recenti: Cons. Stato, sez. V, 10 ottobre 2022, n. 8667; Cons. Stato, sez. IV, 22 giugno 2021, n. 4792.
[v] Cons. di Stato, sez. IV, n. 846/2013; T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. I, sent. n. 656/2017.
[vi] P. Barile, Democrazia e segreto, in Quad. cost., 1, 1987, 32; T. F. Giupponi, Segreto di Stato (diritto costituzionale), in Enc. Dir., Annali X, Milano, 2017, 856 ss.; S. Perongini, Introduzione a Il segreto di Stato. Un’indagine multidisciplinare sull’equo bilanciamento di ragioni politiche e giuridiche, Torino, 2022, XIV; R. Bifulco, Segreto e potere politico, in Enc. Dir., I Tematici, V, Milano, 2023, 1096 ss.; S. Tranquilli, Il segreto in giudizio. Contributo allo studio del rapporto tra diritto di difesa e tutela della segretezza nel processo amministrativo, Napoli, 2023.
[vii] In generale, sul principio di proporzionalità: A. Sandulli, La proporzionalità dell’azione amministrativa, Cedam, Padova, 1998; V. Fanti, Dimensioni della proporzionalità. Profili ricostruttivi tra attività e processo amministrativo, Torino, 2012; D.U. Galetta, Il principio di proporzionalità fra diritto nazionale e diritto europeo (e con uno sguardo anche al di là dei confini dell'unione europea), in Riv. it. dir. pubbl. com., 6/2019, 907 ss.
[viii] V. Fanti, Segreto di Stato e attività di intelligence: tutela dei diritti dei cittadini tra proporzionalità e trasparenza, manoscritto, di prossima pubblicazione su Dir. e proc. amm. 3/2025.
[ix] L. Belviso, Golden power. Profili di diritto amministrativo, Torino, 2023; G. Della Cananea-L. Fiorentino (a cura di), I “poteri speciali” del Governo nei settori strategici, Napoli, 2020; G. Napolitano, L’irresistibile ascesa del golden power e la rinascita dello Stato doganiere, in Giorn. dir. amm., 2019, 549 ss.; A. Sandulli, La febbre del golden power, in Riv. trim. dir. pubbl., 2022, 743 ss.; R. Chieppa, La nuova disciplina del golden power dopo le modifiche del decreto-legge n. 21 del 2022 e della legge di conversione 20 maggio 2022, n. 51, in Federalismi, 2022, 1-28; M. Clarich, La disciplina del golden power tra Stato, mercato ed equilibri geopolitici, in Giur. Comm., 2024, 702 ss.; S. De Nitto, I golden power nei settori rilevanti della difesa e della sicurezza nazionale, in Dir. amm., 2022, 553-58; L. Masotto, Il golden power alla prova del procedimento e del processo amministrativo, in Giorn. dir. amm., 2022, 663 ss.; R. Angelini, Stato dell’arte e profili evolutivi dei poteri speciali: al crocevia del golden power, in Rivista di dir. soc, 3, 2018, 706 ss. Per un rapido inquadramento generale della disciplina si veda anche il sito: https://temi.camera.it/leg19/post/19_la-salvaguardia-degli-assetti-strategici-inquadramento-generale.html.
[x] Sia sufficiente richiamare: L. Belviso, Golden power. Profili di diritto amministrativo, op. cit.; A. Sandulli, La febbre del golden power, op. cit; R. Chieppa, La nuova disciplina del golden power dopo le modifiche del decreto-legge n. 21 del 2022 e della legge di conversione 20 maggio 2022, n. 51, op. cit. In generale, poi, sull’atto politico e sugli atti di alta amministrazione si veda: A. Contieri - F. Francario - M. Immordino - A. Zito, L’interesse pubblico tra politica e amministrazione, Napoli, 2010.
[xi] Sui temi, anche criticamente: F. Cintioli, La natura amministrativa della decisione sull’esercizio dei poteri speciali e la sua sottoposizione al sindacato del giudice amministrativo, in Aa.Vv., Golden power, R. Chieppa - C.D. Piro - R. Tuccillo (a cura di), Il Foro Italiano, La tribuna, 2023; E.M. Tepedino, Golden powers: i poteri speciali del governo al vaglio del giudice amministrativo, in Amministrazione in cammino, giugno 2022, 11 ss.; D. Ielo, Riflessioni sul sindacato del giudice amministrativo sui cosiddetti “Golden powers”, in Riv. interdisciplinare sul diritto delle amministrazioni pubbliche, 4/2021, 62 ss.
[xii] Così: A Sandulli, La febbre del golden power, op.cit., 753.
[xiii] M. Trimarchi, Potere dorato, potere segreto, relazione tenuta a Convegno su “Segreto, sicurezza dello Stato e discovery delle informazioni di intelligence, svoltosi presso l’Università degli studi di Foggia, Dipartimento di Giurisprudenza, in data 26 settembre 2024 e di prossima pubblicazione su Dir. e proc. amm. 3/2025.
[xiv] Per ripercorrere rapidamente l’evoluzione normativa che ha interessato la disciplina in esame sia sufficiente consultare il sito: https://temi.camera.it/leg19/post/19_la-salvaguardia-degli-assetti-strategici-inquadramento-generale.html.
[xv] Per la bibliografia sul principio di trasparenza si rinvia alla nota 2.
[xvi] R. Resta, L’onere di buona amministrazione, in Annali Macerata, 1938, poi in Scritti giuridici in onore di Santi Romano, vol. II, Padova, Cedam,1940, 104 ss. U. Allegretti, Corte Costituzionale e Pubblica Amministrazione, in Le Regioni, 1982, 1186; A. Andreani, Il principio costituzionale di buon andamento della pubblica amministrazione, Padova, 1979; P. Barile, Il dovere di imparzialità della P.A., in Scritti in onore di P. Calamandrei, Padova, 1958, IV, 136; G. Berti, Il principio organizzativo nel diritto pubblico, Padova, 1986, 160; P. Calandra, Il buon andamento dell’amministrazione pubblica, in Studi in memoria di V. Bachelet, Milano, 1987; G. Falzone, Il dovere di buona amministrazione, Milano, 1953; N. Speranza, Il principio di buon andamento – imparzialità nell’art. 97 Cost., FA, 1972, II, 86; R. Ferrara, L’interesse pubblico al buon andamento delle pubbliche amministrazioni: tra forma e sostanza, in Dir. e proc. amm, 2010, 31 ss.; A. Massera, I criteri di economicità, efficacia ed efficienza, in Codice dell’azione amministrativa, M.A. Sandulli (a cura di), Milano, 2011, 22 ss.; M.R. Spasiano, L’organizzazione comunale. Paradigmi di efficienza pubblica e buona amministrazione, Napoli, 1995; Id., Profili di organizzazione della pubblica amministrazione in cinquanta anni di giurisprudenza della Corte Costituzionale, in Diritto Amministrativo e Corte Costituzionale,G. Della Cananea - M. Dugato (a cura di), Napoli, 2006, 163 ss.; Id, Trasparenza e qualità dell’amministrazione, in Studi in onore di Spagnuolo Vigorita, Napoli, 2007, III, 1435; Id, Il principio di buon andamento, in Principi e regole dell’azione amministrativa, M.A. Sandulli (a cura di), Milano, 2023.
[xvii] G.P. Cirillo, Diritto all’accesso e diritto alla riservatezza: un difficile equilibrio mobile, 2004, in www.giustizia-amministrativa.it; M. Clarich, Trasparenza e diritti della personalità nell’attività amministrativa, convegno su “Trasparenza e protezione dei dati personali nell’azione amministrativa”, Roma, 11 febbraio 2004, consultabile al sito www.giustizia-amministrativa.it; C. Colapietro, Il complesso bilanciamento fra principio di trasparenza e il diritto alla privacy: la disciplina delle diverse forme di accesso e degli obblighi di pubblicazione, in www.federalismi.it, 2020, 64 ss.; V. Fanti, La trasparenza amministrativa tra principi costituzionali e valori dell’ordinamento europeo: a margine di una recente sentenza della Corte costituzionale (n. 20/2019), in www.federalismi.it, 4 marzo 2020; O. Pollicino – F. Resta, Visibilità del potere, riservatezza individuale e tecnologia digitale. Il bilanciamento delineato dalla Corte, in Il diritto dell'informazione e dell'informatica, 2019, 110 ss.
[xviii] Consiglio di Stato, sez. V, 26 maggio 2020, n. 3345; Consiglio di Stato, sez. II, 28 marzo 2023, n. 3160; T.A.R. Lazio, sez. I, sentenza 11 maggio 2024, n. 9314.
[xix] Cfr. Cons. stato, Ad. Pl., n. 10/2020.
[xx] Sia sufficiente rinviare ai chiarimenti dell’ANAC (delibera 29 dicembre 2016, n. 1309) alla disciplina dei limiti all’accesso civico generalizzato di cui all’art. 5-bis d.lgs. n. 33/2013 e alle circolari della Presidenza del Consiglio dei Ministri n. 2/2017 e 1/2019. Sui temi: C. Deodato, La difficile convivenza dell’accesso civico generalizzato (FOIA) con la tutela della privacy: un conflitto insanabile?, www.giustizia-amministrativa.it, 20 dicembre 2017; M. Lipari, Il diritto di accesso e la sua frammentazione dalla legge n. 241/1990 all’accesso civico: il problema delle esclusioni e delle limitazioni oggettiva, www.federalismi.it, 2019.
[xxi] Cons. Stato, 20 dicembre 2019, n. 1468.
[xxii] C. Deodato, La difficile convivenza dell’accesso civico generalizzato (FOIA) con la tutela della privacy: un conflitto insanabile?, op. cit.; M. Lipari, Il diritto di accesso e la sua frammentazione dalla legge n. 241/1990 all’accesso civico: il problema delle esclusioni e delle limitazioni oggettiva, www.federalismi.it, 2019; A. Berti, Il dedalo delle limitazioni assolute dell’accesso civico generalizzato, al sito www.giustizia-amministrativa.it, 2021
[xxiii] M.P. Vipiana, Introduzione allo studio del principio di ragionevolezza nel diritto pubblico, Cedam, 1993.
[xxiv] G. Napolitano, L’irresistibile ascesa del golden power e la rinascita dello Stato doganiere, op. cit.; S. De Nitto, I golden power nei settori rilevanti della difesa e della sicurezza nazionale, op. cit.
[xxv] Sul tema, approfonditamente: A. Sandulli, Corte di Giustizia dell’Unione Europea, libertà di stabilimento, limiti al Golden power, in Riv. regolazione dei mercati, 2/2023. Si v. altresì: D. Gallo, La questione della compatibilità dei golden powers in Italia, oggi, con il diritto dell’Unione europea: il caso delle banche, in Riv. regolazione dei mercati, 1/2021; nonché: E. Zampetti, Infrastrutture e golden power, in Dir. amm., 1/2025, 177 - 205.
[xxvi] Cfr. sentenza del 27 febbraio 2019, Associação Peço a Palavra e a., C-563/17, EU:C:2019:144, punto 70 e giurisprudenza ivi citata; sentenze del 22 ottobre 2013, Essent e a., da C-105/12 a C-107/12, EU:C:2013:677.
[xxvii] V. anche, sentenza del 14 marzo 2000, Église de scientologie, C-54/99, EU:C:2000:124, punto 17 e giurisprudenza citata
[xxviii] Così: H. Simonetti, Il sindacato giurisdizionale sull’esercizio dei golden powers, reperibile al sito www.giustizia-amministrativa.it.
[xxix] Così M. Clarich, Il golden power rischia di trasformarsi in uno strumento di politica dirigista, in Milano Finanza, 2022.
[xxx] T.A.R. Lazio, sez. I, 12 luglio 2025, n. 13748
[xxxi] Sul tema, complesso, dei divari di cittadinanza: Aa.Vv., Le diseguaglianze sostenibili nei sistemi autonomistici multilivello, Atti del Convegno di Copanello 2005, F. Astone, M. Caldarera, F. Manganaro, A. Romano Tassone, F. Saitta (a cura di), Torino, 2006; A. Police, L’organizzazione delle pubbliche amministrazioni tra Stato nazionale e attribuzioni regionali: la parabola dell’eguaglianza, in Aa.Vv.,L’organizzazione delle pubbliche amministrazioni tra Stato nazionale e integrazione europea, R. Cavallo Perin - A. Police - F. Saitta (a cura di), vol. I, Firenze, 2016, 67 ss.; A. Barone, Il tempo della perequazione: il Mezzogiorno nel PNRR, in P.A. Persona e Amministrazione, 2/2021, 7-11; A. Barone - F. Manganaro, PNRR e Mezzogiorno, in Quaderni costituzionali, 1/2022, 148-152; F. Manganaro, Osservazioni sulla questione meridionale alla luce del PNRR e del regionalismo differenziato, in Nuove Autonomie, 2/2022, 387- 404; Id., Dalla cittadinanza alle cittadinanze. Questioni su un concetto polimorfico, in ambientediritto.it, 4/2022, 323-334; Id, Politiche di coesione (voce), in Enc. Dir., Funzioni Amministrative, III, Milano 2022, 839 ss. Infine, sia consentito rinviare a: R. Dagostino, Sistema delle autonomie e divari territoriali di cittadinanza, in Dir e soc., 3/2023, 455-483.
[xxxii] Sul tema delle infrastrutture si v.: E. Zampetti, Infrastrutture e golden power, op.cit.
[xxxiii] Sul tema, in generale, anche in riferimento ad altri rami dell’ordinamento giuridico: L. Ferrajoli, Contro il creazionismo giudiziario, Modena, 2018; Id., Contro il creazionismo giurisprudenziale. Una proposta di revisione dell'approccio ermeneutico alla legalità penale, in Ars Interpretandi, 2/2016, 23-43; D. Dalfino, Creatività e creazionismo, prevedibilità e predittività, in Il Foro italiano, 12/2018, 5, 385-393. Con particolare riferimento alla dottrina amministrativistica: P. Portaruli, La cambiale di Forsthoff. Creazionismo giurisprudenziale e diritto al giudice amministrativo, Napoli, 2021; A. Cassatella, Separazione dei poteri, ruolo della scienza giuridica, significato del diritto amministrativo e del suo giudice. Osservazioni a margine di “Ogni cosa al suo posto. Restaurare l'ordine costituzionale dei poteri” di Massimo Luciani, F. Saitta, Regole processuali, indeterminatezza e creazionismo giudiziario, in Dir. proc. amm., 2/2024, 263 - 343. Sia consentito altresì il rinvio a: R. Dagostino, Le corti nel diritto del rischio, Bari, 2020.
[xxxiv] L’espressione è di H. Simonetti, Il sindacato giurisdizionale sull’esercizio dei golden powers, op. cit.
[xxxv] Così, specificatamente: E. Zampetti, Infrastrutture e golden power, op.cit.
Sommario: 1. Introduzione. – 2. Il lavoro tramite piattaforma: genesi, modelli e criticità. – 3. La Direttiva (UE) 2024/2831. – 3.1. Ambito di applicazione e presunzione di subordinazione. – 3.2. La gestione algoritmica e la tutela dei dati personali. – 4. Considerazioni conclusive.
1. Introduzione
Parafrasando Sergio Ortino si può dire che la pervasività della digitalizzazione nelle società contemporanee ci pone innanzi a un’“appropriazione microcosmica delle nostre vite”[1]: la sfera privata degli individui viene trasferita e frammentata all’interno di piattaforme che raccolgono dati, condizionano le decisioni e, in ultima analisi, influenzano la formazione della volontà politica.
Dal punto di vista del diritto, questa transizione pone il problema della discrasia tra l’utilizzo quotidiano delle piattaforme digitali e una loro ancora scarna regolazione, che induce a riflettere sulla tenuta dei modelli di tutela dei diritti fondamentali. Nell’ambito di questo fenomeno, il presente studio intende concentrare l’attenzione sulla tutela del lavoratore digitale nel contesto del cosiddetto lavoro tramite piattaforma[2].
In particolare, obiettivo di questo contributo è analizzare la Direttiva (UE) 2024/2831 del Parlamento europeo e del Consiglio, relativa al miglioramento delle condizioni di lavoro nel lavoro mediante piattaforme digitali, valutandone la portata innovativa e il suo potenziale armonizzatore rispetto ai diversi ordinamenti degli Stati membri. In questa prospettiva, si è scelto di non affrontare le più ampie e complesse questioni relative alle politiche sociali dell’Unione, che da sempre incontrano la resistenza degli Stati membri, in ragione della natura di competenza concorrente della materia ai sensi dell’articolo 4 TFUE[3]. Tale delimitazione metodologica risponde all’esigenza di focalizzare l’attenzione sulla costruzione giuridica e sistematica della direttiva[4], considerata come tappa significativa nel percorso di affermazione di un diritto europeo del lavoro digitale.
2. Il lavoro tramite piattaforma: genesi, modelli e criticità
Nel contesto dell’attuale rivoluzione digitale, il progressivo cambiamento del lavoro umano nell’interazione con la macchina esprime una domanda di tutela rinnovata, in un contesto storicamente assimilabile al passaggio alla società industriale nella seconda metà dell’Ottocento. Quella trasmigrazione dalle botteghe artigianali e dalle campagne al lavoro in fabbrica, che, offrendo una risposta più ampia alla domanda di occupazione, aveva visto costituirsi una classe operaia esposta a condizioni e rischi diversi da quelli conosciuti prima, è concettualmente assimilabile al peso che il lavoro digitale viene assumendo nel tempo presente[5], creando forme di impiego diverse rispetto a quelle tradizionali e conseguente incertezza sulla protezione sociale e i diritti dei lavoratori interessati.
Il punto di scansione storica fondamentale può considerarsi la crisi economico-finanziaria del 2008. È in risposta ad essa che invero è venuto consolidandosi il modello della c.d. gig economy, un sistema di libero mercato nato dall’intuizione di sfruttare le piattaforme digitali per mettere in comunicazione domanda e offerta di lavoro, così creando una nuova modalità di scambio di beni e servizi: il lavoro tramite piattaforma, mediante la quale un utente che richiede un bene o un servizio viene connesso in tempo reale con un altro in grado di fornirlo[6].
Il modello si declina principalmente in due forme: il crowdwork e il lavoro on-demand tramite app. Nel primo caso, reclutamento, gestione e prestazione lavorativa avvengono interamente online, attraverso piattaforme che connettono un numero indeterminato di committenti e prestatori. Nel secondo, invece, solo la fase di reclutamento e gestione si svolge digitalmente, mentre la prestazione è fisica e personale, come accade per i ciclofattorini del settore del food delivery[7].
Tale sistema presenta innegabili vantaggi. La tecnologia riduce drasticamente i costi di intermediazione tra datore e lavoratore, facilita la selezione e l’incontro tra domanda e offerta e consente ai consumatori di soddisfare più rapidamente i propri bisogni. La sua diffusione capillare è inoltre favorita da una marcata flessibilità, che permette di integrare tali attività con altri impieghi, offrendo nuove opportunità di guadagno, contribuendo, almeno in parte, alla riduzione della disoccupazione e incidendo altresì positivamente sul lavoro scoraggiato[8].
Queste nuove forme di lavoro, tuttavia, presentano il problema di impiegare i lavoratori solo su base saltuaria, come del resto indica la stessa locuzione gig economy, tradotta in italiano con “economia dei lavoretti”. Il termine “gig”, infatti, contrazione di “engagement”, richiama uno slang utilizzato nel mondo della musica, coniato dai jazzisti statunitensi nei primi decenni del secolo scorso, e traducibile in italiano col significato di “serata”, “esibizione”, “ingaggio”. Il riferimento è alle prestazioni occasionali che vedono i musicisti scritturati per eventi che non richiedono particolari competenze, essendo piuttosto basati sulla capacità di improvvisazione nell’eseguire i brani. Il musicista, quindi, ingaggiato senza molte formalità e con compensi esigui, potrebbe essere reimpiegato o meno senza poterlo predeterminare, proprio come avviene per i gig workers, impiegati e retribuiti per ogni singolo incarico, che viene loro assegnato senza bisogno di specifiche competenze per eseguirlo, trattandosi invero di mansioni mediamente comuni, come l’attività di consegna.
L’altro lato della medaglia del lavoro tramite piattaforma, quindi, è la sostanziale mancanza di protezione sociale[9], oltre all’aumento della precarizzazione che esso produce in ragione dell’instabilità dei contratti di lavoro[10].
A ciò si aggiunge il problema della gestione algoritmica del rapporto di impiego[11]. Sebbene le piattaforme facciano capo a grandi realtà industriali del calibro di Foodora, Uber, Glovo, Deliveroo, tutte le scelte inerenti alle carriere dei gig workers sono assunte dagli algoritmi alla base del funzionamento della piattaforma, che decidono processando dati.
Dati che, da un lato, vengono inseriti nei software in sede di programmazione a opera degli addetti incaricati dalle imprese. E questo pone elementi di criticità, poiché senza adeguati sistemi di controllo che verifichino l’obiettività e la non discriminatorietà di quanto inserito, le scelte dell’algoritmo rischiano di rivelarsi a loro volta discriminatorie e non obiettive[12].
Dall’altro, si tratta di dati ricavati da informazioni come la presenza del lavoratore sulla piattaforma, misurata dal tempo trascorso on-line collegato ad essa, o le recensioni espresse dai fruitori (il c.d. rating reputazionale). Senza una supervisione umana, tuttavia, l’algoritmo è chiaramente inabile a distinguere tra le diverse sfumature di queste informazioni[13]. Peraltro, siccome la decisione algoritmica gestisce il rapporto a cominciare dall’assegnazione degli impieghi fino alle sanzioni, incluso il licenziamento che avviene cancellando il profilo del lavoratore dalla piattaforma[14], il rischio di non individualizzare i dati a seconda delle singole situazioni è altresì quello di vanificare gli effetti positivi sull’occupazione, poiché la rigidità degli standard richiesti può tradursi in un’ulteriore barriera all’entrata[15].
Tale scenario pone in evidenza la necessità di un rinnovato sforzo regolativo volto a ricomprendere il lavoro tramite piattaforma entro una cornice giuridica capace di coniugare innovazione tecnologica e garanzie fondamentali, evitando che la flessibilità economica si traduca in deregolazione sociale.
3. La Direttiva (UE) 2024/2831
Con l’adozione della Direttiva (UE) 2024/2831, approvata dal Parlamento europeo e dal Consiglio il 23 ottobre 2024 ed entrata in vigore il primo dicembre dello stesso anno, l’Unione europea compie un passo di importante rilevanza sistemica nel tentativo, per la prima volta, di disciplinare il lavoro digitale[16]. L’atto, che sarà applicabile a partire dal 2 dicembre 2026 anche ai rapporti contrattuali già in corso, rappresenta il frutto di un lungo e complesso negoziato, durato oltre due anni e mezzo, che testimonia la difficoltà di coniugare le esigenze di tutela sociale con la flessibilità economica che costituisce la cifra del capitalismo digitale.
Il compromesso raggiunto, pur distanziandosi in più punti dalla proposta originaria della Commissione[17], segna un progresso normativo significativo. La direttiva, articolata in sei capi, affronta in modo sistematico i profili relativi alla qualificazione del rapporto di lavoro, alla gestione algoritmica e all’effettività delle tutele.
Gli obiettivi principali sono due: migliorare le condizioni di lavoro delle persone impiegate mediante piattaforme e garantire la protezione dei loro dati personali, nel rispetto dei principi di trasparenza, proporzionalità e non discriminazione, ponendo la questione della dignità del lavoratore non più solo in termini di garanzia sociale, ma come questione di potere informativo e di controllo dei processi decisionali automatizzati.
Tale articolazione teleologica trova espressione in due basi giuridiche distinte: da un lato, l’art. 153, par. 1, lett. b) e par. 2, lett. b) TFUE, che fondano la competenza dell’Unione in materia di politica sociale e condizioni di lavoro; dall’altro, l’art. 16, par. 2 TFUE, relativo alla protezione dei dati personali, segnalando così la propria natura ibrida, a cavallo tra diritto del lavoro e diritto della persona nella dimensione digitale.
3.1. Ambito di applicazione e presunzione di subordinazione
L’ambito di applicazione della direttiva è deliberatamente ampio. Essa include “tutte le persone che svolgono un lavoro mediante piattaforme digitali che hanno, o che sulla base di una valutazione dei fatti si ritiene abbiano, un contratto o un rapporto di lavoro” (art. 1), richiamando esplicitamente la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea[18]. L’art. 2, in particolare, supera la distinzione formale tra lavoratore subordinato e autonomo, facendo prevalere la sostanza del rapporto sul nomen iuris attribuito dalle parti o dalle prassi nazionali[19]. È un punto di svolta concettuale: la direttiva abbandona il paradigma dell’autonomia contrattuale come criterio esclusivo di qualificazione, riconoscendo che nel contesto digitale l’asimmetria di potere economico e informativo tra piattaforma e lavoratore può produrre situazioni di dipendenza di fatto, a prescindere dal titolo formale del rapporto.
In tale prospettiva, l’art. 5 introduce la presunzione iuris tantum di subordinazione: qualora emergano elementi fattuali indicativi di direzione o controllo – secondo il diritto nazionale, i contratti collettivi o le prassi in vigore – si presume che il rapporto sia di lavoro subordinato, salvo prova contraria da parte della piattaforma. Si determina così un’inversione dell’onere della prova che costituisce una delle innovazioni più significative dell’intero impianto normativo. Essa sposta il baricentro dell’accertamento giuridico dal dato formale al dato sostanziale, attuando il principio del “primato della realtà” già affermato dall’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) nella Raccomandazione n. 198 del 2006 sul rapporto di lavoro.
In chiave comparatistica, tale soluzione appare coerente con una tendenza che, pur con intensità diverse, attraversa gli ordinamenti nazionali: quella di valorizzare l’effettività delle condizioni lavorative rispetto alla forma giuridica del contratto. Tuttavia, la direttiva si spinge oltre, trasformando un orientamento giurisprudenziale in una regola generale di diritto positivo, comune a tutti gli Stati membri. È questo uno dei passaggi in cui la normativa europea mostra la sua vocazione di armonizzazione ascendente, orientata a garantire un livello minimo uniforme di tutela anche nei sistemi tradizionalmente più liberali o meno inclini all’intervento regolativo.
3.2. La gestione algoritmica e la tutela dei dati personali
Il secondo asse portante della direttiva è rappresentato dal Capo III, dedicato alla “gestione algoritmica”. Qui l’Unione affronta la questione del rapporto tra automazione decisionale e diritti fondamentali della persona. L’algoritmo, che governa il reclutamento, la valutazione delle performance e la cessazione dei rapporti di lavoro, assume le vesti di un nuovo soggetto regolatore, un potere che, pur non umano, incide sulla libertà e sull’eguaglianza dei lavoratori.
La direttiva interviene per ricondurre tale potere entro i confini della trasparenza e della responsabilità giuridica, imponendo ai datori di lavoro – e dunque alle piattaforme – obblighi specifici di informazione, valutazione e supervisione umana[20]. Viene anzitutto previsto l’obbligo di informare in modo chiaro e comprensibile i lavoratori circa l’utilizzo di sistemi automatizzati di monitoraggio e di decisione (art. 9). Inoltre, il datore deve condurre regolarmente, e in ogni caso ogni due anni, una valutazione d’impatto sul trattamento dei dati personali e sugli effetti che tali sistemi producono sulle condizioni di lavoro (art. 10). Tale valutazione, ispirata al modello della data protection impact assessment del Regolamento (UE) 2016/679 (GDPR), assume però qui una funzione più ampia: non solo prevenire abusi, ma garantire la parità di trattamento e impedire che l’algoritmo divenga strumento di discriminazione indiretta.
Particolarmente significativa è l’introduzione del principio della supervisione umana sulle decisioni algoritmiche, che segna il tentativo di riaffermare la centralità della persona in un contesto produttivo dominato dall’automazione (art. 11)[21]. L’idea che la decisione – in particolare quella che incide sulla posizione lavorativa di un individuo – non possa essere interamente delegata a un sistema automatizzato, costituisce una riaffermazione del principio personalistico e del nucleo etico del diritto del lavoro europeo.
In tal senso, la direttiva 2024/2831 dialoga con il GDPR ma ne supera i limiti, ponendo la tutela dei dati personali non come fine in sé, ma come strumento di garanzia di diritti sociali e di dignità professionale. Il dato personale, qui, non è più solo elemento di privacy, ma componente costitutiva della soggettività lavorativa: la gestione del dato diventa parte integrante della gestione del lavoro[22].
4. Considerazioni conclusive
La Direttiva (UE) 2024/2831 rappresenta, nel quadro del diritto dell’Unione, un passo significativo verso la costruzione di un ordinamento del lavoro capace di misurarsi con le trasformazioni strutturali introdotte dalla digitalizzazione dei processi produttivi. Essa traduce in termini giuridici l’esigenza, ormai matura, di ricondurre entro il perimetro del diritto del lavoro fenomeni che, per anni, si sono collocati in una zona grigia tra autonomia e subordinazione, tra libertà contrattuale e dipendenza economica.
L’innovazione principale della direttiva consiste nel riconoscimento del ruolo ordinante del diritto anche nei confronti di forme di organizzazione del lavoro fondate sull’intermediazione tecnologica. In tal senso, la presunzione iuris tantum di subordinazione segna un punto di svolta concettuale: essa ricolloca l’attenzione sul dato sostanziale del rapporto, riaffermando che il criterio di qualificazione giuridica deve fondarsi non sull’etichetta formale, ma sulla concreta modalità di svolgimento della prestazione.
Non meno rilevante è la parte della direttiva dedicata alla gestione algoritmica. L’introduzione di obblighi specifici in materia di trasparenza, valutazione d’impatto e supervisione umana mira a ricomporre il nesso tra efficienza tecnologica e garanzia dei diritti fondamentali. L’approccio seguito dal legislatore europeo riflette una concezione del potere datoriale che si evolve, ma non si dissolve: il potere si sposta dal comando diretto alla mediazione algoritmica, ma resta giuridicamente imputabile e, dunque, suscettibile di controllo.
In questa prospettiva, la direttiva non istituisce un sistema normativo autonomo, bensì integra il diritto del lavoro tradizionale, adattandone categorie e strumenti all’ambiente digitale. La disciplina delle piattaforme non è, in tal senso, un corpo estraneo, ma un banco di prova per la capacità del diritto del lavoro europeo di conservare la propria funzione di tutela anche in contesti radicalmente mutati.
Un segnale concreto di tale progresso è offerto dal Capo V della direttiva, dedicato all’effettività delle tutele. Esso impone agli Stati membri di garantire ai lavoratori, anche dopo la cessazione del rapporto, l’accesso a procedure di risoluzione delle controversie tempestive, efficaci e imparziali, nonché il diritto di ricorso con risarcimento adeguato in caso di violazione dei diritti derivanti dalla direttiva, mostrando la consapevolezza che la costruzione di un diritto europeo del lavoro non si realizza solo attraverso l’affermazione di principi, ma anche attraverso la creazione di meccanismi effettivi di enforcement, capaci di tradurre la tutela formale in protezione sostanziale.
Resta aperta, tuttavia, la questione dell’armonizzazione reale tra gli ordinamenti nazionali. È invero la qualità del recepimento nazionale che determinerà in larga misura l’effettività delle tutele introdotte. Sotto il profilo comparato, alcuni ordinamenti hanno già avviato percorsi di recepimento che confermano la funzione armonizzatrice dell’intervento europeo. In Italia, ad esempio, la Legge di delegazione europea 2024[23], entrata in vigore il 10 luglio 2025, recepisce la direttiva 2024/2831 e persegue due obiettivi principali: da un lato, migliorare le condizioni di lavoro introducendo la presunzione di subordinazione quale criterio di qualificazione del rapporto; dall’altro, rafforzare la protezione dei dati personali dei lavoratori, estendendo le garanzie previste dal GDPR al contesto dell’occupazione digitale.
In questo senso, la direttiva 2024/2831 segna una tappa fondamentale nella costruzione del diritto europeo del lavoro digitale, delineando un equilibrio possibile tra innovazione e tutela, mercato e persona. Essa non chiude il dibattito, ma lo inaugura, collocandosi in una posizione intermedia tra uniformazione e coordinamento, tra hard e soft law: la sua forza non risiede soltanto nella normazione, ma nella funzione di orientamento, imponendo agli Stati di confrontarsi con un nuovo paradigma del lavoro e di ripensare i confini tra impresa e persona, tra decisione tecnica e responsabilità umana.
[1] S. Ortino, Il nomos della Terra, il Mulino, 2000, p. 25.
[2] Sul legame tra storia e diritto al lavoro si v. M. D’Antona, Il diritto al lavoro nella Costituzione e nell’ordinamento comunitario [1999], in Id., Opere, vol. I, Scritti sul metodo e sulla evoluzione del diritto del lavoro. Scritti sul diritto del lavoro comparato e comunitario, a cura di B. Caruso, S. Sciarra, Milano, 2000, p. 265; S. Sciarra, Lavoro, ad vocem, in Enciclopedia italiana. X Appendice – Parole del XXI secolo, vol. II, Treccani, 2021. Più in generale, sulla storicità dei diritti sociali “connessi allo sviluppo storico dei singoli Paesi” si v. S. Cassese, La cittadinanza europea e le prospettive di sviluppo nell’Europa, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 1996, p. 872.
[3] Su cui si v., almeno, G. Amato, La Convenzione sul futuro dell’Europa e la Carta di Nizza, in Quaderni costituzionali, n. 3/2020, pp. 629 e ss.; P. Bilancia, La dimensione europea dei diritti sociali, in Federalismi.it, n. 4/2018; S. Giubboni, Modelli sociali nazionali, mercato unico europeo e governo delle differenze. Appunti sulle trasformazioni della costituzione economica comunitaria, in https://www.astrid-online.it/static/upload/protected/Giub/Giubboni-S_Governare-le-differenze_28_08_09.pdf; C. Pinelli, Diritti e politiche sociali nel progetto di trattato costituzionale europeo, in Id., Lavoro e Costituzione, Editoriale Scientifica, 2021, p. 166.
[4] Dal punto di vista del metodo, cfr. A. Pegoraro, A. Rinella, Introduzione al diritto pubblico comparato. Metodologie di ricerca, Padova, Cedam, 2002, p. 3, che sottolineano l’importanza, per un’analisi giuridica, di fissare in primo luogo la domanda cui la ricerca intende dare risposta, o il problema che si intende studiare.
[5] Per i dati, si v. Inps, XXIV Rapporto annuale, 16 luglio 2025, consultabile on line al seguente indirizzo https://www.inps.it/it/it/dati-e-bilanci/rapporti-annuali/xxiv-rapporto-annuale.html; T. Boeri, G. Giupponi, A. B. Krueger, S. J. Machin, Social protection for independent workers in the digital age, XX Conferenza europea della fondazione Rodolfo Debenedetti, 2018.
Come peraltro evidenziato nel rapporto INPS, è bene tuttavia sottolineare l’approssimazione di questi dati, che mostrano una tendenza crescente, ma che incontrano importanti difficoltà nel “realizzare una mappatura attendibile (…) in ragione della discontinuità di molti profili, ma anche e soprattutto per via della scarsa rendicontazione e della totale assenza di trasparenza”, cfr. A. Aloisi, V. De Stefano, Il tuo capo è un algoritmo. Contro il lavoro disumano, Laterza, 2020, p. 100.
[6] Sul punto si v. S. Kessler, Gigged: the gig economy, the end of the job and the future of the work, Random House, 2018.
[7] Per approfondire si v., ex aliis, V. De Stefano, The rise of the “just-in-time workforce”: On-demand work, crowdwork and labour protection, in ILO C.W.E.S., 2016; Id., Lavoro “su piattaforma” e lavoro non-standard in prospettiva internazionale e comparata, reperibile al seguente indirizzo web https://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/---europe/---ro-geneva/---ilo-rome/documents/publication/wcms_552802.pdf; M. Faioli (a cura di), Il lavoro nella gig-economy, Quaderni del Cnel, 2018, 3. Sul crowdwork, cfr. in part. A. Consiglio, L’assorbimento dei rapporti di lavoro della gig economy nel diritto privato, in Lavoro Diritti Europa, n. 2/2018; R. Krause, “Always-on” – The collapse of the work-life separation, in www.fmb.unimore.it, 2017. Sul lavoro on-demand tramite app, M. Biasi, L’inquadramento giuridico dei riders alla prova della giurisprudenza, in Lavoro Diritti Europa, n. 2/2018, pp. 5 e ss.; C. Lazzari, Gig economy, tutela della salute e sicurezza sul lavoro, in Riv. dir. sic. Soc., n. 3/2018, p. 456.
Per completezza, anche se non tutti concordano circa la sua inerenza al lavoro tramite piattaforma, è opportuno menzionare il cd. asset rental, che consiste nell’affitto o noleggio di beni e proprietà, secondo i principi della sharing economy. In questi casi la prestazione lavorativa, se c’è, è accessoria, si pensi ad esempio al proprietario di un appartamento in affitto su AirBnb che cura anche l’accoglienza e le pulizie finali.
[8] B. Fabo, J. Karanovic, K. Dukova, In search of an adequate European policy response to the platform economy, in Transfer: European Review of Labour and Research, 2017.
[9] Cfr. M. Faioli, Jobs “app”, gig economy e sindacato, in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, n. 2/2017, pp. 291 e ss.; nonché lo studio del Parlamento europeo “The platform economy and precarious work”, reperibile online in https://www.europarl.europa.eu/RegData/etudes/STUD/2020/652734/IPOL_STU(2020)652734_EN.pdf.
[10] Su tali condizioni lavorative si v. EU-OSHA, Digital platform work and occupational safety and health: overview of regulation, policies, practices and research, report disponibile online al seguente indirizzo https://op.europa.eu/en/publication-detail/-/publication/49a265d4-b0a3-11ec-83e1-01aa75ed71a1/language-en.
[11] Sul punto si v. J. Prassl, Humans as a service. The promise and perils of work in the gig economy, Oxford, 2018.
[12] Sul punto si v. C. O’Neil, Weapons of math destruction: how big data increases inequality and threatens democracy, Crown, 2016; B. Saetta, Il potere degli algoritmi sulle nostre vite, in Valigia Blu, 9 marzo 2019.
[13] Cfr. A. Aloisi, V. De Stefano, Il tuo capo, cit., p. 52.
[14] Per approfondire si v. A. Aloisi, V. De Stefano, Testa bassa e pedalare? No, i lavoratori di Foodora meritano rispetto, in Linkiesta, 11 ottobre 2016; G. Pacella, Il lavoro nella gig economy e le recensioni on line: come si ripercuote sui e sulle dipendenti il gradimento dell’utenza?, in Labour & Law Issues, vol. 3, n. 1/2017, pp. 3 e ss.
[15] J. Healy, D. Nicholson, A. Pekarek, Should we take the gig economy seriously?, in Labour & Industry: a journal of the social and economic relations of work, vol. 27, n. 3/2017.
[16] Cfr. F. Zorzi Giustiniani, La direttiva (UE) 2024/2831 relativa al miglioramento delle condizioni di lavoro mediante piattaforme digitali e la dichiarazione dell’unione europea relativa a un’intesa comune sull’applicazione del diritto internazionale nel cyberspazio, in Nomos. Le attualità nel diritto, n. 3/2024, p. 1.
[17] Cfr. la proposta della Commissione del 9 dicembre 2021, COM(2021) 762 final 2021/0414(COD), su cui si v. T. Orrù, Brevi osservazioni sulla proposta di direttiva relativa al miglioramento delle condizioni di lavoro nel lavoro mediante piattaforme digitali, in Giustizia Insieme, 8 febbraio 2022.
[18] Sul punto, I. Cendret, Progetto di Direttiva Ue per la tutela dei lavoratori tramite piattaforma digitale: la necessaria revisione per raggiungere un compromesso tra gli Stati membri, in ius.giuffrefl.it, 2 maggio 2024. Amplius, sulla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea, si v. da ultimo C. Hießl, Case Law on Algorithmic Management at the Workplace: Cross-European Comparative Analysis and Tentative Conclusions, in SSRN, 16 aprile 2025, disponibile online al seguente indirizzo https://ssrn.com/abstract=3982735 or http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.3982735.
[19] Si v. G. Bergamaschi, H. Bisonni, Rider: primo sguardo alla Direttiva europea di prossima pubblicazione e stato dell’arte, in Lavoro Diritti Europa, n.4/2024, p. 5.
[20] Cfr. F. Zorzi Giustiniani, La direttiva…, cit., p. 3.
[21] Si v. D.T. Kahale Carrillo, La mejora de las condiciones de trabajo sobre las plataformas en la Uniòn Europea: consideraciones a la gestion algoritmica (salud y prevencion), in Revista de Investigacion de la Catedra Internacional Conjunta Inocencio III, n. 17/2023, p. 38.
[22] Cfr. EU-OSHA, The EU Directive on platform work: improvements and remaining challenges related to occupational safety and health, 24 ottobre 2024, disponibile online al seguente indirizzo https://healthy-workplaces.osha.europa.eu/en/publications/eu-directive-platform-work-improvements-and-remaining-challenges-related-occupational-safety-and-health.
[23] Legge 13 giugno 2025, n. 91 “Delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l'attuazione di altri atti normativi dell'Unione europea - Legge di delegazione europea 2024”, che ha delineato i principi e i criteri per il recepimento della direttiva (UE) 2024/2831.
Foto di Javier Perez Montes via Wikimedia Commons.
Sommario: 1. Il nuovo comma 5-bis dell’art. 7 del d.lgs. n. 546/1992 – 2. La prova nel processo tributario: l’equivoco interpretativo della Corte di Cassazione - 3. Il comma 5-bis tra interpretazione conservativa e prime aperture giurisprudenziali - 4. Considerazioni conclusive.
1. Il nuovo comma 5-bis dell’art. 7 del d.lgs. n. 546/1992
In questa mia relazione mi soffermerò sulla legge n. 130 del 31 agosto 2022 e sui decreti attuativi della successiva legge delega n. 111 del 9 agosto 2023 che costituiscono, almeno ad avviso della maggioranza della dottrina, un’importante svolta nella disciplina della prova nel processo tributario. Qui voglio intrattenermi soprattutto sul disposto centrale dell’art. 6 della suddetta legge n. 130 che, introducendo nell’art. 7 del d.lgs. n. 546/1992 un nuovo comma 5-bis, ha stabilito, da una parte, che «l’amministrazione deve provare in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato» e, dall’altra, che «il giudice deve fondare la (sua) decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annullare l’atto impositivo se la prova della fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa e l’irrogazione delle sanzioni».
Dico subito che, almeno a livello dottrinario, si è tutti d’accordo che la nuova norma può costituire un primo decisivo passo avanti verso un processo tributario maturo e, soprattutto, “giusto” ex art. 111 Cost. sotto il profilo del contraddittorio e della parità delle parti. Pur non stravolgendo “a monte” il tradizionale assetto del sistema in tema di distribuzione dell’onere della prova ai sensi dell’art. 2697 c.c.[1], essa esprime infatti quantomeno la positiva volontà del legislatore di chiarire le regole con cui questo onere deve funzionare in concreto[2]. Anche se, forse esagerando, è stata considerata da una parte della dottrina[3] “una mistura di parole prive di sorveglianza anche stilistica”, mi pare che la previsione da essa introdotta sia comunque importante, perché pone in capo all’Amministrazione finanziaria il più rigoroso dovere di dare in giudizio una prova esatta, circostanziata, puntuale e specifica dei fondamenti di fatto della pretesa impositiva e delle relative sanzioni. Una prova, cioè, basata non più su un qualunque elemento argomentativo, bensì solo su elementi dotati di uno specifico rango dimostrativo in grado di avvalorare in modo compiuto e completo la pretesa a giudizio; con la conseguenza che gli atti tributari che dovessero risultare privi di “ragioni oggettive” perché non adeguatamente provati dall’Amministrazione sarebbero considerati illegittimi[4].
Sono, quindi, d’accordo con quegli studiosi che hanno ritenuto che con tale disposizione il legislatore abbia inteso imprimere al giudizio tributario la stessa impronta garantista che caratterizza il processo penale. In effetti, così come nel processo penale l’imputato deve essere assolto «quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova…» (art. 530 c.p.p.), allo stesso modo nel processo tributario l’atto deve essere annullato «quando la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o […] è comunque insufficiente…». Sotto questo aspetto sono, in particolare, apprezzabili quelle linee di pensiero (Viotto, Golisano[5]) che, muovendo dal menzionato parallelismo, non hanno mancato di osservare come la nuova norma, sostituendo alla regola della “preponderance of evidence” di derivazione civilistica la regola della “clear and convincing evidence” assai prossima al modello penale, abbia inteso “spazzare via” ogni retaggio della regola in dubio pro fisco e, conseguentemente, sancire la regola opposta dell’in dubio pro contribuente, da “declinare” nel senso che la prova, che l’Amministrazione produce in giudizio, deve condurre a ritenere la pretesa fondata al di là di ogni ragionevole dubbio.
È proprio in ciò che risiede il pregio della riforma[6]. Non deve infatti dimenticarsi che, nel porre a carico dell’Amministrazione finanziaria un onere probatorio dotato di quel “livello” di robustezza che consente al Giudicante di formarsi il convincimento della fondatezza del credito erariale al di là di ogni ragionevole dubbio, il legislatore ha voluto finalmente alleggerire (direi “riequilibrare”) la posizione del contribuente, frapponendo rigidi paletti in termini di qualità e valutazione delle prove (specie dello strumento presuntivo) ed evitando così di scaricare su di esso oneri probatori difficili se non addirittura impossibili da soddisfare. Non posso, perciò, non condividere quelle osservazioni di Pasquale Russo[7] che evidenziano letteralmente come il nuovo comma 5-bis abbia, a ben vedere, inteso “metter un argine alla deriva giurisprudenziale nel ricorrere con frequenza a presunzioni semplici a carico del contribuente che o sono […] prive di valore inferenziale, o rilevano quali meri indizi come tali da soli non [idonei ad] assurgere a dignità di prova”.
Ovviamente ciò non significa che le presunzioni semplici non possano continuare a trovare ingresso nel processo tributario quali prove “per induzione” [8]. Esse non si differenziano infatti, per funzione e struttura, da quelle disciplinate dagli artt. 2727 e 2729 c.c., costituendo una prova in senso proprio e, più precisamente, una prova piena, indiretta e critica. Significa solo che esse, perché si rivelino idonee a fondare la pretesa a giudizio, “debbano possedere in sé – come dice Alessandro Giovannini[9] – il tratto della più alta approssimazione possibile del fatto ignorato alla storicità degli accadimenti”. Il che è come dire che, come nel processo penale ai sensi dell’art. 192, comma 2 c.p.p. gli “indizi” assurgono a mezzo di prova a condizione che essi determinino nell’organo giudicante “un’elevata intensità persuasiva di ogni singolo strumento gnoseologico”, così nel processo tributario il giudice ben potrà – alla luce del nuovo comma 5-bis – ammettere la presunzione fondata su un “quadro indiziario”, sempre che esso non si riduca a un semplice principio di prova, ossia a una base meramente congetturale, dalla quale discenda poi, in modo improprio e distorto, l’inversione dell’onere della prova in capo al contribuente, chiamato a dimostrare con pienezza e rigore l’insussistenza della pretesa impositiva. Sarà, perciò, una prerogativa del Giudice tributario verificare in concreto che gli elementi indiziari non si arrestino ad una prova “prima facie”, “non si contraddicano o si elidano vicendevolmente, dovendo tutti concorrere a favore di una ricostruzione possibile” tale per cui non residuino significativi margini di dubbio circa la fondatezza della pretesa portata a giudizio [10].
2. La prova nel processo tributario: l’equivoco interpretativo della Corte di Cassazione
Si deve però constatare con rammarico che, a fronte di una lodevole giurisprudenza delle Corti di merito nel senso di cui ho finora detto[11], la Corte di Cassazione ha invece optato per una lettura del tutto svalutativa della nuova previsione, affermando – richiamo qui di seguito i passaggi cruciali – che “il comma 5 bis dell’art. 7 d.lgs. n. 546/1992”:
1) non ha comportato “alcuna inversione della normale ripartizione dell’onere probatorio”, né ha precluso “il ricorso alle presunzioni semplici […] ossia agli indizi che, se gravi, precisi e concordanti, integrano ex artt. 2727 e 2729 cod. civ. la prova richiesta dall’art. 2697 c.c.”;
2) ha, viceversa, soltanto formalizzato “una regola generale già ricavabile dal sistema” (ossia quella secondo cui “spetta all’Amministrazione dimostrare il fondamento della pretesa avanzata nei confronti del contribuente”) in coerenza “con le…modifiche legislative in tema di prova, che assegnano all’istruttoria dibattimentale un ruolo centrale”.
Tale ricostruzione – che ha condotto a pronunce sempre confermative della sostanziale legittimità degli atti fondati sull’esclusivo utilizzo di presunzioni pro-fisco[12] – non è, a mio avviso, condivisibile nella misura in cui essa, muovendo dai suddetti assunti, perviene alla (inaccettabile) conclusione che la nuova previsione normativa non ha stabilito “un onere probatorio diverso o più gravoso rispetto ai principi già vigenti in materia” e, conseguentemente, non “ha fissato limiti di sorta al modo in cui la [prova] deve essere fornita” e, quindi, valutata dal giudice.
Che invece l’Amministrazione sia ora tenuta a dimostrare “a 360 gradi” la pretesa a giudizio, senza potersi “appiattire” su un isolato corredo indiziario, è a mio avviso un caposaldo sorretto da almeno tre ordini di ragioni.
In primo luogo, ricordo come già nel contesto delle diverse sedute parlamentari che hanno condotto all’approvazione del novellato comma 5-bis, si sia a più riprese evidenziata l’esistenza di “un principio nel nostro ordinamento, grazie a questo intervento legislativo, che pone a carico dell'amministrazione tributaria l'onere della prova della sua pretesa impositiva e non […] lo scarica tutto a carico del contribuente come finora è stato, tanto per sottolineare il valore profondamente riformatore dell'intervento” [13].
In secondo luogo, non si può sottacere come la lettura offerta dalla Cassazione sia destinata ad assumere una connotazione sostanzialmente apodittica a seguito delle modifiche legislative in tema di motivazione apportate allo Statuto dei diritti del contribuente. Va infatti osservato che la legge delega n. 111/2023 per la riforma fiscale ha fissato - in linea con quanto avevo prospettato sin dal 2001[14] - il preciso obiettivo di “rafforzare l’obbligo di motivazione degli atti impositivi, anche mediante l’indicazione delle prove su cui si fonda la pretesa”, ponendo espressamente in capo all’Amministrazione finanziaria il dovere di indicare in maniera circostanziata, nella parte motivazionale degli atti impositivi e sanzionatori, anche le prove raccolte a supporto della tesi accertativa, dovendosi - in loro mancanza - procedere all’annullamento di essi (cfr. art. 7, co. 1 dello Statuto, come modificato dall’art. 1, co. 1, lett. f), del d.lgs. n. 219/2023). E poiché per effetto di tali modifiche normative la “prova” – la stessa che l’Amministrazione finanziaria deve produrre in giudizio “in modo circostanziato e puntuale” – è adesso anticipata ed esplicitamente “relegata” al momento del “confezionamento” dell’atto impositivo o sanzionatorio, non può non ritenersi che è venuto conseguentemente meno anche l’unico già debole argomento a sostegno dell’interpretazione “svalutativa” adottata finora dalla giurisprudenza di legittimità. Non è più corretto, cioè, ritenere – come ha ritenuto finora la Cassazione – che… “la norma in commento non ha fatto altro che confermare un principio immanente nell’ordinamento tributario” in coerenza “con le […] modifiche legislative in tema di prova, che assegnano all’istruttoria dibattimentale un ruolo centrale”. Quell’“istruttoria dibattimentale” richiamata dalla Suprema Corte a fondamento del proprio convincimento assume, infatti, un ruolo ormai marginale e non più “centrale” se si considera che, in aggiunta a quanto appena ricordato circa il momento di “formazione” della prova in una fase anticipata al giudizio:
– da una parte, il giudice tributario nell’esercizio dei propri poteri istruttori non potrà più “sostituirsi” alle parti, essendo il suo potere esercitabile soltanto in funzione integrativa “nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, quando gli elementi…già in atti o acquisiti non siano sufficienti per pronunziare una sentenza ragionevolmente motivata” (così Cass. n. 12383/2021);
– dall’altra parte, a seguito dell’introduzione del nuovo comma 1-bis nell’art. 7 dello Statuto, è ormai preclusa all’Amministrazione finanziaria la possibilità di introdurre nel processo nuovi mezzi di prova non espressamente indicati nell’atto impositivo/sanzionatorio. Così, infatti, tale comma dispone: “I fatti e i mezzi di prova a fondamento dell'atto non possono essere successivamente modificati, integrati o sostituiti se non attraverso l'adozione di un ulteriore atto, ove ne ricorrano i presupposti e non siano maturate decadenze”.
Ne consegue che la tesi della Cassazione, secondo cui il nuovo comma 5-bis non stabilirebbe “un onere diverso o più gravoso rispetto ai principi già vigenti in materia”, è in via di principio smentita nei suoi stessi presupposti, divenendo ora avulsa dall’attuale assetto legislativo[15] [16].
Vi è infine una terza ragione, di ordine soprattutto sistematico, che a mio avviso indebolisce ulteriormente la tesi propugnata dalla Suprema Corte. Come noto, l’art. 21-bis del d.lgs. n. 74/2000, introdotto dall’art. 1, lett. m), del d.lgs. n. 87/2024 (rubricato “Efficacia delle sentenze penali nel processo tributario e nel processo di Cassazione”), recepisce i principi e i criteri direttivi della richiamata legge delega n. 111/2023 e stabilisce che, qualora a seguito di dibattimento sia pronunciata una sentenza penale definitiva di assoluzione con la formula (piena) “il fatto non sussiste” o “l’imputato non lo ha commesso”, il giudice tributario deve attenersi a tale accertamento, che assume efficacia di giudicato per i fatti materiali riconosciuti in sede penale.
In tale contesto, se si accogliesse l’impostazione “svalutativa” fatta propria dalla Cassazione, si determinerebbe una situazione che definirei paradossale. Infatti, come osserva Loris Tosi[17], a fronte di una medesima contestazione recata dall’Amministrazione finanziaria, vi sarebbero, da un lato, contribuenti chiamati a concorrere alle spese pubbliche sulla base di un reddito accertato in sede penale (e, conseguentemente, trasfuso con efficacia di giudicato nel processo tributario), dall’altro, contribuenti obbligati a farlo in base a un reddito ricostruito direttamente dal giudice tributario secondo una logica e un apparato probatorio assolutamente diversi. L’accertamento sarebbe fondato, nel primo caso, su criteri più rigorosi e dimostrazioni pienamente convincenti; nel secondo caso sulla base, invece, di presunzioni o ricostruzioni probabilistiche: pervenendosi, così, a decisioni fondate su standard probatori eterogenei, in manifesta violazione dei canoni di eguaglianza, ragionevolezza e capacità contributiva di cui agli artt. 3 e 53 Cost. [18]
È evidente che, un’interpretazione del co. 5-bis che ne valorizzi, invece, il tenore letterale e la ratio, come emergente dai lavori preparatori, ridurrebbe sensibilmente il rischio di simili distorsioni, allineando il giudizio tributario a quello penale e rafforzando la tutela del contribuente in termini di coerenza e uniformità del sistema. Appare chiaro, allora, che la nuova norma non ha soltanto formalizzato “una regola generale già ricavabile dal sistema”. Al contrario, ha previsto un criterio probatorio “rafforzato”, che evidenzia un sostanziale avvicinamento tra due ambiti giurisdizionali tale per cui, in conformità al modello probatorio proprio del processo penale, anche nel giudizio tributario l’onere della prova non può dirsi assolto tramite semplici elementi di verosimiglianza, ma deve poggiare su un impianto probatorio solido e ben strutturato.
3. Il comma 5-bis tra interpretazione conservativa e prime aperture giurisprudenziali
Insomma, mi sembra si possa dire che con le richiamate sentenze la Corte di Cassazione non solo ha finora completamente ignorato l’intento “chiarificatore” della riforma, ma – in un’ottica più generale e di sistema – ha anche un po’ troppo frettolosamente trascurato i canoni fondamentali di ermeneutica giuridica non tenendo nel dovuto conto che è compito dell’interprete attribuire alle nuove disposizioni normative un significato effettivo, che modifichi o integri l’assetto precedente[19]. Voglio dire cioè che, prima di concludere che una norma non produce alcun effetto, limitandosi a ribadire regole già vigenti, sarebbe necessario verificarne con attenzione la portata e la funzione, al fine di evitare che la stessa sia considerata inutiliter data o, addirittura, tamquam non esset. Una lettura che annulli o svuoti il contenuto precettivo di una disposizione approvata dal Parlamento finisce, infatti, per mortificare il ruolo stesso del legislatore, riducendone l’attività a un esercizio privo di utilità concreta[20].
In tale prospettiva, qualora si ritenga che una norma sia ingiusta o in contrasto con i principi costituzionali e/o sovranazionali, esistono strumenti istituzionali idonei a contestarne la legittimità: dal giudizio di costituzionalità fino alla disapplicazione per contrasto con il diritto unionale. Ma ciò che non è mai ammissibile è un’interpretazione che svuoti il significato normativo della disposizione, come se essa non esistesse[21]. Tanto più quando ci si trova di fronte, come nel caso del comma 5-bis dell’art. 7 del d.lgs. n. 546/1992, a un testo chiaro e reiterato nei suoi contenuti, espressamente finalizzato – come emerge dai lavori parlamentari – a correggere prassi non conformi ad un “modello di fisco moderno ed equo”.
Mi auguro che nel prosieguo la Corte di Cassazione addivenga alla corretta applicazione di tali principi nel senso che ho appena indicato. E forse un primo “passo avanti” essa lo ha fatto prendendo atto (seppur timidamente) che “l'art. 7, comma 5 bis, del D.Lgs. n. 546 del 1992 […] sembrerebbe porre limiti più stringenti all'Amministrazione finanziaria […] all'utilizzazione delle presunzioni […] giurisprudenziali, richiedendo al giudice un penetrante controllo di coerenza normativa e di idoneità dimostrativa della presunzione utilizzata” (così Cass. n. 21401 del 30 luglio 2024 e, in senso conforme Cass. n. 21398/2024 e Cass. n. 21183/2024).
Non si dimentichi comunque che, ancor più incisivamente, la stessa Suprema Corte, muovendosi su questo fronte, non ha mancato di evidenziare che “la necessità di una valutazione complessiva delle presunzioni offerte dall'Ufficio è oggi specificamente richiesta dall'art. 7, comma 5 bis, del D.Lgs. 31 dicembre 1992 […]. Detta disposizione va infatti, interpretata nel senso per il quale le cd. presunzioni giurisprudenziali (diverse da quelle conseguenti ad espresse previsioni di legge) devono essere sufficienti e circostanziate e, come tali, oggetto di opportuna valutazione da parte del giudice di merito” (così Cass. n. 16629 del 14 giugno 2024). Ciò nel presupposto che la nuova disposizione “detta al giudice tributario le regole di valutazione della prova, stabilendo che se questa, anche presuntiva, fornita dall’amministrazione, quando ne è onerata, è contraddittoria o insufficiente, allora il giudice deve annullare l’atto impositivo” (così Cass. civ., n. 16493 del 2024).
Queste decisioni aprono un seppur timido varco verso l’interpretazione che ho appena indicato. Ma la strada da percorrere è ancora lunga.
4. Considerazioni conclusive
Quanto finora detto mi porta a dire che, allo stato, la riforma in materia di onere della prova su cui ci siamo oggi soffermati, pur essendo un apprezzabile punto di partenza per una disciplina razionale e organica del processo tributario, difficilmente potrà esplicare appieno i propri frutti nell’immediato.
La giurisprudenza di legittimità dovrebbe, infatti, giungere ad una “apertura” – che per ora, si è visto, non c’è[22] – tale da imporre definitivamente all’Amministrazione di dimostrare con pienezza e rigore la sussistenza della pretesa impositiva e, parallelamente, ai giudici di valutare con grande cura, attenzione e precisione il materiale probatorio versato in giudizio e la prova raggiunta.
Una tale “presa di posizione” non dovrebbe essere “scansata” dalla Suprema Corte per timore di compromettere i suoi orientamenti ormai consolidati. Come ho detto sin dall’inizio, infatti, la modifica legislativa in questione non intende affatto escludere la perdurante operatività della regola generale dell’onere della prova nel giudizio tributario (art. 2697 c.c.) [23] quanto piuttosto precisarne le modalità applicative, adattandole alla specificità di tale processo. Il che significa che per il tramite della riforma non viene meno – ma anzi si rafforza definitivamente – la validità di quelle massime giurisprudenziali sempre più frequentemente richiamate dalla stessa Corte, secondo cui “nel processo tributario l’amministrazione finanziaria è attore in senso sostanziale e quindi su di essa grava l’onere della prova della pretesa adottata con l’accertamento, mentre l’onere del contribuente di provare elementi in senso contrario scatta solo quando dall’ufficio siano stati forniti indizi sufficienti per affermare la sussistenza dell’obbligazione tributaria” (per tutte, Cass. n. 905/2006). Con la sola, ma significativa, precisazione – aggiungerei io – che questi “indizi sufficienti”, perché rispondano al nuovo dettato normativo, dovranno in futuro condurre all’emersione di una vera e propria prova “circostanziata e puntuale” che consenta di affermare al di là di ogni ragionevole dubbio “la sussistenza dell’obbligazione tributaria”.
Tirando le somme, la lettura che qui intendo proporre (coerente, per quanto fin qui esposto, con i tradizionali canoni giurisprudenziali) è, per certi versi, avvicinabile a quella di alcuni commentatori, per i quali il comma 5-bis dell’art. 7 d.lgs. n. 546/1992, attribuendo – come si è visto – all’Amministrazione finanziaria l’onere di fornire una prova specifica dei presupposti di fatto della pretesa impositiva, costituisce una norma di interpretazione autentica dell’art. 2697 c.c.[24], con ciò intendendosi che l’espressione “Chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento” recata da quest’ultima disposizione (tuttora applicabile[25]) deve oggi essere letta, in ambito tributario, in senso più rigoroso e garantista per il contribuente, imponendo all’Amministrazione di dimostrare i “fatti” a “fondamento” della propria pretesa non più con isolati indizi, bensì attraverso elementi dotati di effettivo valore dimostrativo, idonei a sostenere in modo completo e coerente la legittimità del recupero impositivo [26].
Non va poi trascurato che, dalla possibile qualificazione del comma 5-bis come norma di interpretazione autentica, discenderebbe un’ulteriore importante conseguenza anche sul piano del diritto intertemporale. In tal senso, la norma dovrebbe ritenersi applicabile pure ai giudizi instaurati prima della sua entrata in vigore (16 settembre 2022), in quanto diretta a precisare il significato di una disposizione già presente nell’ordinamento[27]. Si tratta, è bene chiarirlo, di un’interpretazione che si contrappone a quella attualmente accolta dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha qualificato il comma 5-bis come norma “sostanziale” e non retroattiva, escludendone l’applicazione ai processi pendenti alla data della sua introduzione[28]. Sarebbe, dunque, opportuno che la Suprema Corte affrontasse con maggiore chiarezza anche tale profilo, pervenendo nel complesso a una riconsiderazione sistematica del comma 5-bis coerente con la lettura che si è fin qui proposto. Del resto, anche quella parte della dottrina che nega la retroattività della norma evidenzia correttamente l’intrinseca contraddizione dell’impostazione finora adottata dalla Cassazione. Se, infatti, come afferma la Corte, la disposizione “ha effetti sostanziali e […] non [è] applicabile ai giudizi in corso”, allora – proprio in ragione di tale affermazione e in contrasto con quanto la stessa Corte sostiene – “se ne dovrebbe affermare una portata […] innovativa” [29].
Né una tale auspicata complessiva “rivisitazione” – è il caso di aggiungere in via conclusiva – troverebbe ostacolo nel solo fatto che essa, nel ricordato progressivo avvicinamento del processo tributario al modello penale - possa apparire, a prima vista, in contrasto con l’impostazione delineata dall’art. 1, co. 2 del d.lgs. n. 546/1992, il quale individua nel c.p.c. lo schema processuale di riferimento per il processo tributario [30]. Tale disposizione prevede, infatti, l’applicazione delle regole processual-civilistiche solo in quanto “compatibili” con le norme del contenzioso tributario. Conseguentemente, non può dirsi in antitesi né con i principi che informano tale processo né tantomeno con l’impianto ordinamentale nel suo complesso il fatto che il comma 5-bis, rievocando la logica probatoria sottesa all’art. 530 c.p.p., orienti chiaramente – in punto di onus probandi e, dunque, di concreta applicazione della regola generale di cui all’art. 2697 c.c. nel contenzioso tributario – verso il modello penale, con le implicazioni che ho sopra evidenziate.
Questo testo riporta la relazione svolta dall’Autore al convegno su “La prova nel diritto tributario”, organizzato dalla Fondazione Antonio e Victor Uckmar, svoltosi a Roma il 24-25 ottobre 2025.
[1] Sul carattere ricognitivo della nuova norma rispetto alla disposizione civilistica si veda A. GIOVANNINI, L’onere della prova, in A. Giovannini (a cura di), La riforma fiscale. I diritti e i procedimenti, II, Pisa, 2024, p. 267. In senso conforme v. anche P. RUSSO, Problemi in tema di prova nel processo tributario dopo la riforma della giustizia tributaria, in Riv. tel. dir. trib., Editoriale del 7 dicembre 2022, nonché A. Carinci, La riforma dell’onere della prova nel processo tributario, in Memento fiscale, 26 settembre 2023.
[2] Sul punto, oltre al richiamato A. Carinci, op. cit., v. C. Glendi, La nuovissima stagione della giustizia tributaria riformata, in Dir. prat. trib., 2022, p. 1140; S. Muleo, Onere della prova, disponibilità e valutazione delle prove nel processo tributario rivisitato, in AA.VV., La riforma della giustizia e del processo tributario, a cura di A. Carinci e F. Pistolesi, Milano, 2023, p. 83 ss.
[3] A. GIOVANNINI, Sulla presunzione di onestà del contribuente e sulle prove, in Rivista Trimestrale di Diritto Tributario, Fasc. 2/2023.
[4] E ciò sia che si controverta di maggiori ricavi, sia che si tratti di minori costi nell’ambito del reddito d’impresa. Si è osservato in dottrina che il nuovo comma 5-bis segna il definitivo superamento della consolidata tesi giurisprudenziale (v. per tutte Cass. n. 12127/2022) secondo la quale spetterebbe, da un lato, all’Amministrazione finanziaria l’onere di provare i fatti “costitutivi” della pretesa fiscale (i.e. l’esistenza di maggiori ricavi sottratti a tassazione) e, dall’altro, al contribuente l’onere di provare i fatti “impeditivi”, “modificativi” o “estintivi” di quella medesima pretesa (i.e. l’esistenza di maggiori costi). Ciò non solo perché “nel reddito di impresa (ma anche di lavoro autonomo) i costi non sono elementi impeditivi, modificativi o estintivi di un’obbligazione riconducibile ai ricavi, ma sono elementi che, al pari dei ricavi, concorrono a far sorgere l’obbligazione tributaria e a determinarne il contenuto […]. Quindi, i costi sono componenti del reddito (“formanti” potremmo dire con altro linguaggio) e non fatti impeditivi; e tanto meno fatti modificativi o estintivi” (cfr. VANZ, Genesi, struttura e ricadute sull’interpretazione della nuova disposizione sull’onere della prova nel processo tributario, in Riv. dir. trib. del 13 marzo 2025, p. 9 e Autori ivi citati), ma anche e soprattutto perché, alla luce del nuovo assetto legislativo: “sembra sostenibile che tutti i fatti posti a fondamento del provvedimento impugnato debbano qualificarsi come “fatti costitutivi” della pretesa in considerazione dell’evidenza che gli stessi confluiscono nel provvedimento che trova oggetto di impugnazione, gravando, in tal modo, l’onere della prova sempre sulla parte pubblica a tutela dello status libertatis”; con la conseguenza che “non appare più sostenibile una differente qualificazione, in relazione alla regola di giudizio fondata sul riparto dell’onere della prova, delle componenti (positive o negative) di reddito, confluendo le stesse […] nei fatti costitutivi della pretesa e, in conseguenza della predeterminazione soggettiva enunciata dalla novella, gravanti, come onere soggettivo, sull’Ente impositore” (così V. DE BONIS, Il “terrapiattismo” e l’onere della prova nel processo tributario: i cento frisoni e la retorica Galileiana, in Dir. prat. trib., 3, 2025, p. 914). In senso conforme, si veda S. MULEO, Onere della prova, disponibilità e valutazione delle prove nel processo tributario rivisitato, in A. Carinci – F. Pistolesi (a cura di), La riforma della giustizia e del processo tributario. Commentario alla legge 31 agosto 2022, n. 130, Milano, 2023, p. 94. Nello stesso senso, si vedano S. DONATELLI, L’onere della prova nella riforma del processo tributario, in Rass. trib., 1, 2023, pp. 28 e 41; N. SARTORI, I limiti probatori nel processo tributario, Torino, 2023, p. 80; G. G. SCANU, Motivazione e onere della prova nel processo tributario riformato, in Riv. trim. dir. trib., 4, 2023, p. 923. Contra la singolare posizione di M. CATALDI (La norma generale sull’onere della prova, in Il diritto tributario nella stagione delle riforme, Giustizia insieme, 2024, 71 ss.), il quale, muovendo dal presupposto secondo cui il nuovo comma 5-bis “appare […] sostanzialmente ribadire la regola generale ricavabile dallo stesso art. 2697 c.c.”, giunge all’inaccettabile conclusione (fatta inopinatamente propria, come dirò infra, dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione) che la disposizione in commento nulla innoverebbe, né introdurrebbe un’interpretazione diversa rispetto al passato; con la conseguenza che essa, da un lato, non renderebbe “irrilevante la scomposizione della fattispecie da giudicare in fatti costitutivi, estintivi e modificativi”, non sposterebbe “sull’Amministrazione, creditrice sostanziale, […] l’onere di provare ogni elemento della fattispecie” né, tantomeno, “escluderebbe ogni rilevanza del principio di vicinanza nella materia tributaria”.
[5] Cfr. A. Viotto, Prime riflessioni sulla riforma dell’onere della prova nel giudizio tributario, in Rass. trib., 2, 2023, p. 336. In senso analogo, M. Golisano, Riflessioni in ordine all’impatto del nuovo comma 5-bis, art. 7, D.Lgs. n. 546/1992 in riferimento alle imposte indirette, in Riv. tel. dir. trib., 15 giugno 2023, p. 4.
[6] La dottrina è quasi all’unisono concorde nel ritenere che l’introduzione del nuovo co. 5-bis imporrà al giudice una valutazione molto più rigorosa e stringente del materiale probatorio prodotto dall’Amministrazione finanziaria: si vedano, oltre agli autori indicati nelle precedenti note, C. Caimi-N. Pardini, Nuova disciplina dell’onere della prova: la riscoperta del passato per un futuro più giusto, in Corr. trib., 1, 2023, p. 66; A. Marcheselli, Onere della prova, orecchio assoluto, riforma della giustizia tributaria e auspicabile de profundis per le c.d. presunzioni giurisprudenziali, in Riv. tel. dir. trib., 2, 2022, p. 1059 ss.; E. De Mita, Il giusto processo fiscale sposta l’onere della prova verso l’Amministrazione, in Il Sole 24 Ore, 27 settembre 2022; F. Pistolesi, Onere della prova al Fisco in nome di efficienza e trasparenza, in Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2022; G. Moschetti, Il comma 5-bis dell’art. 7 D.Lgs. n. 546/1992: un quadro istruttorio per ora solo abbozzato, tra riaffermato principio dispositivo e diritto pretorio acquisitivo, in Riv. tel. dir. trib., 28 gennaio 2023, p. 8; A. Lovisolo, Sull’onere della prova e sulla prova testimoniale nel processo tributario: prime osservazioni in merito alle recenti modifiche ed integrazioni apportate all’art. 7 D.Lgs. n. 546 del 1992, in Dir. prat. trib., 2023, p. 49; P. Coppola, Prova e valutazione del relativo onere nel processo, in Dir. prat. trib., 1, 2023, p. 168.
[7] P. Russo, Problemi in tema di prova nel processo tributario dopo la riforma della giustizia tributaria, in Riv. tel. dir. trib., 2, 2022.
[8] Confermerebbe, tra l’altro, quanto sopra l’inciso “comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale” presente all’interno della norma. In questo senso v. L. TOSI, La nuova norma sull’onere della prova nel processo tributario, in Riv. trim. dir. trib., Supplemento online del 20 dicembre 2024.
[9] A. Giovannini, op. cit., p. 1208.
[10] Contra la richiamata, isolata, posizione di M. CATALDI, La norma generale sull’onere della prova, cit., il quale sostiene che il nuovo comma 5-bis, “quando si riferisce alla dimostrazione “circostanziata e puntuale”, [non] pare sufficiente ad esigere che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, bastando che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo criterio di normalità, visto che la deduzione logica è una valutazione che, in quanto tale, deve essere probabilmente convincente, non oggettivamente inconfutabile. Ciò che richiede la legge per l’impiego di prove critiche è che la presunzione sia prova, non già mero indizio. Il che si potrà stabilire avendo riguardo al grado di probabilismo logico sotteso al collegamento induttivo fatto noto/fatto ignoto, senza che tuttavia il risultato della prova presuntiva debba essere unico, essendo sufficiente che sia quello più attendibile rispetto ad altri possibili collegamenti inferenziali tratti dallo stesso fatto noto”.
[11] Si vedano, senza pretesa di completezza, CGT I Milano, n. 2969/2023 e CGT I Reggio Emilia n. 281/2022, in tema di società a ristretta base azionaria; CGT I Reggio Emilia, n. 107/1/2023, in tema di accertamenti catastali; CGT I Milano, n. 2005/3/2023, in tema di accertamenti parziali; CGT II Emilia Romagna, n. 499/04/2023 e CGT I Siracusa, n. 3856/2022, in tema di deducibilità di costi; CGT II Puglia n. 506/4/2023, in tema di accertamenti induttivi; CGT I Reggio Emilia, n. 33/1/2023 e CGT I Caserta n. 1866/12/2023, in tema di operazioni soggettivamente inesistenti; CGT II Emilia Romagna, n. 294/8/2023 e CGT I Reggio Emilia n. 293/1/2022, in tema di fatture oggettivamente inesistenti; CGT II Emilia Romagna, n. 90/8/2023 e CGT II Puglia n. 3633/4/2022, in tema di accertamento analitico-induttivo.
[12] Cass. n. 31878/2022 e giurisprudenza di legittimità successiva, tra cui Cass. n. 37985/2022, Cass. n. 34029/2023, Cass. n. 6772/2023, Cass. n. 17423/2023, Cass. n. 534/2024, Cass. n. 10823/2024, Cass. n. 18764/2024, Cass. n. 19993/2024, Cass. n. 20816/2024, Cass. n. 24082/2024, Cass. n.19993/2024, Cass. nn. 23921/2024 e 18781/2024, Cass. n. 1466/2025.
[13] Cfr. Camera dei deputati, Resoconto stenografico dell’Assemblea Seduta n. 739 del 9 agosto 2022. In tale resoconto si legge, in particolare, che: «Un…punto importante è il principio dell'inversione dell'onere della prova; un principio delicato sul quale abbiamo discusso e sul quale ci siamo ritrovati tutti a cercare una condivisione attraverso la formulazione di un emendamento che è stato accolto, e ciò a vantaggio non di qualche parte politica, ma in questo caso del contribuente: sarà quindi lo Stato a dover provare maggiormente - e questo deve essere anche specificato e sottolineato - la sua pretesa nei confronti del cittadino» (Senato della Repubblica – XVIII Legislatura – Fascicolo Iter DDL S. 2636 – Resoconto stenografico, Seduta n. 460 del 4 agosto 2022, 476). Ed ancora: «si deve e si può riformare il sistema Italia. Un… aspetto fondamentale di questo cambiamento si basa sulla visione del rapporto tra Stato e contribuente. Con questa riforma finalmente si inserisce il principio dell'inversione dell'onere della prova: non più un contribuente che deve necessariamente dimostrare lui stesso la propria innocenza o non responsabilità, ma un'amministrazione che deve provare in giudizio le violazioni contestate con l'atto impugnato, così come avviene in ogni nazione civile o nel nostro processo penale. …Un cambio di passo… da sempre auspicato per raggiungere un modello di fisco moderno ed equo» (Senato della Repubblica, cit., 487). In definitiva, dunque: «Tra le modifiche apportate vi è… l'annullamento dell'atto impositivo nel caso di vizi della prova circa la relativa fondatezza che serve a superare tutte quelle inversioni probatorie via via elaborate nel tempo dalla giurisprudenza, quali eccezioni al generale onere della prova gravante in capo al fisco per porlo invece in capo al contribuente» (Senato della Repubblica, cit., 481).
[14] V. il mio scritto Motivazione e prova nell’accertamento tributario, in Rass. trib., 2001, n. 4, pp. 1088 ss., dove sottolineo in via generale l’inopportunità di distinguere il piano motivazionale da quello probatorio, muovendo dal presupposto che all’Amministrazione finanziaria “compete […] l’obbligo, prima di emettere l’atto di accertamento, di raccogliere e valutare le prove dei fatti su cui l'accertamento si fonda, nonché l'obbligo, in sede di emissione dell'atto stesso, di dare conto di tali prove”. L’enunciazione della prova nella fase motivazionale trova, invero, “la sua ratio non solo nella funzione oggettiva di elemento giustificativo della pretesa, ma anche nell'esigenza di informazione del contribuente ai fini dell'esercizio del diritto di difesa (art. 24 della Costituzione)”.
[15] Per lo sviluppo di tali considerazioni, rinvio a G. Melis, Una visione d’insieme delle modifiche allo Statuto dei diritti del contribuente: i principi del procedimento tributario, in il fisco, 3, 2024, p. 221; L’onere della prova nel diritto tributario dopo la legge n. 130 del 2022 e il D.Lgs. n. 219 del 2023, relazione al convegno organizzato dal Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria su “Profili processuali della riforma tributaria”, Corte di Cassazione, 15 aprile 2024.
[16] Né si dica che tale lettura sia destinata a venir meno a seguito della recente sentenza n. 30051 del 21 novembre 2024, con la quale le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno sancito che l’autotutela “sostitutiva” non incontra nessun limite, se non l’intervenuta decadenza e/o la formazione del giudicato. Ed infatti, se è vero che – come ha affermato la Cassazione – l’inciso contenuto nel sopra citato art. 7 comma 1-bis dello Statuto legittima l’Amministrazione finanziaria a sostituire un proprio precedente atto per qualsiasi ragione (ossia per vizi tanto formali che sostanziali, che possono altresì coinvolgere “i fatti e mezzi di prova” posti a fondamento della pretesa), nondimeno una tale “attività” sostitutiva “non può che avvenire mediante l’adozione di un nuovo atto” all’esito di “un procedimento di secondo grado avente ad oggetto il precedente atto impositivo viziato, che viene posto nel nulla”. Resta, così, confermata la connotazione oramai “marginale” di quella sopra richiamata “istruttoria dibattimentale” posto che – anche laddove avvenga tramite la sostituzione del precedente atto e, dunque, in via di autotutela – l’integrazione dei “mezzi di prova” (con altrettante prove circostanziate, precise e puntuali) deve necessariamente conseguire al “confezionamento” di un nuovo atto impositivo (sia pure “successivo” a quello che ha dato vita all’originaria pretesa) e non, viceversa, alla mera allegazione in sede processuale.
[17] L. TOSI, La nuova norma sull’onere della prova nel processo tributario, cit.
[18] Tali considerazioni sono, naturalmente, basate sull’assunto, a mio avviso pienamente condivisibile, secondo cui il giudicato penale di assoluzione ha diretta efficacia anche sull’accertamento dell’imposta (cfr. Cass. n. 23570/2024, Cass. n. 23609/2024, Cass. 21584/2024, Cass. n. 30675/2024, Cass. n. 30814/2024 e, più recentemente, Cass. n. 936/2025 e n. 1021/2025) e non è, viceversa, circoscritto alle sole sanzioni tributarie (cfr. Cass. n. 3800/2025 e Cass. n. 4924/2025). In seno a tale contrasto giurisprudenziale, con ord. n. 5714 del 4 marzo 2025 la Sezione Tributaria della Suprema Corte ha disposto, ai sensi dell’articolo 374, comma 2, c.p.c., la trasmissione del ricorso alla Prima Presidente per l’eventuale assegnazione alle SS.UU. delle questioni concernenti l’ambito di efficacia dell’art. 21-bis del d.lgs. 74/2000. Per un’ampia analisi della questione, rinvio a A.F. URICCHIO, L. PETRUZZELLA, Sentenza penale assolutoria nel processo tributario: l’art. 21-bis del d.lgs. 74/2000 tra giudicato e valore probatorio, in Dialoghi con la giurisprudenza, Il Processo - 1/2025, 293 ss., i quali evidenziano come l’interpretazione “restrittiva” accolta da alcune pronunce della Cassazione, oltre a vulnerare il principio di coerenza e di capacità contributiva sancito dall’art. 53 Cost., rischi di determinare un’irragionevole disparità di trattamento (art. 3 Cost.) e di comprimere il diritto di difesa del contribuente (art. 24 Cost.), privandolo degli effetti favorevoli derivanti da un accertamento penale di assoluzione.
[19] Cfr. Cass. SS.UU. n. 12644/2014 secondo cui in presenza di una disposizione sopravvenuta, non è possibile svuotarne la portata precettiva, dovendosi tenere conto “della generale regola ermeneutica c.d. ‘di conservazione degli atti’, espressamente codificata dall’art. 1367 c.c. in materia contrattuale, ma da ritenersi operante, in quanto espressione di un sovraordinato principio generale insito nel sistema, anche e soprattutto in tema di interpretazione della legge, sulla scorta della quale, tra le diverse accezioni possibili di una disposizione (normativa, amministrativa o negoziale), deve propendersi per quella secondo cui la stessa potrebbe aver qualche effetto, anziché nessuno”.
[20] Per lo sviluppo di tali considerazioni, si veda G. VANZ, Genesi, struttura e ricadute sull’interpretazione della nuova disposizione sull’onere della prova nel processo tributario, cit., pp. 12-13. Nello stesso senso, A. CONTRINO, Irragionevolezze ordinamentali e innovazioni processuali (rilevanti) della recente riforma della giustizia tributaria, cit., p. 315, secondo il quale è inaccettabile una tesi che “assume l’esistenza di un legislatore che perde tempo a riprodurre norme già esistenti e pacificamente applicabili anche in materia tributaria”.
[21] Sulla non conformità, nel nostro ordinamento, dell’adozione di interpretazioni “abroganti” di disposizioni approvate dal Parlamento, si veda Corte Cost., sent. n. 158/2020, par. 5.2.
[22] Ciò è del resto rilevato anche nell’ultimo Tax Justice DGT Update del MEF pubblicato il 3 settembre u.s. sul sito della Giustizia tributaria.
[23] L’applicabilità nel giudizio tributario dei principi ricavabili dall’art. 2697 c.c. era già pacifica nella giurisprudenza di legittimità, sin dalla sentenza del 23 maggio 1979, n. 2990, con cui la Suprema Corte escluse definitivamente la c.d. “presunzione di legittimità degli atti” tributari. Tale orientamento ha trovato poi conferma anche nella sentenza n. 109 del 2007 della Corte cost., ove si legge che: “Il presidio dell’essenziale funzione del processo e della terzietà del giudice è costituito dal principio dell’onere della prova, la cui ripartizione tra le parti del processo non può essere ancorata alla posizione formale (di attore o convenuto) da esse assunto in ragione della struttura del processo, ma deve modellarsi sulla struttura del rapporto giuridico formalizzato, in esito al procedimento amministrativo, nel provvedimento impositivo […] l’onere della prova grava sull’Amministrazione finanziaria, in qualità di attrice in senso sostanziale, e si trasferisce a carico del contribuente soltanto quando l’Ufficio abbia fornito indizi sufficienti per affermare la sussistenza dell’obbligazione tributaria […] È in questo contesto che si colloca l’abrogazione – volta, si è detto (Cass. 11 gennaio 2006 n. 366), ad eliminare qualsiasi ostacolo alla piena applicabilità nel processo tributario dell’art. 2697 cod. civ. – dell’art. 7, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992”.
[24] Per lo sviluppo di tale impostazione, cfr. tra gli altri G. VANZ, Genesi, struttura e ricadute sull’interpretazione della nuova disposizione sull’onere della prova nel processo tributario, cit., p. 8 e ss.; V. FICARI, Modifiche normative ed onere della prova tra procedimento e processo tributario, in Riv. dir. trib., I, 2023, p. 605; F. PISTOLESI, Il processo tributario, III ed., Torino, 2024, p. 128; N. SARTORI, I limiti probatori nel processo tributario, Torino, 2023, p. 77 ss.
[25] Contra S. DONATELLI, L’onere della prova nella riforma del processo tributario, cit., p. 106; S. MULEO, Onere della prova, disponibilità e valutazione delle prove nel processo tributario rivisitato, cit., p. 85.
[26] Non pare decisivo, in questo contesto, il fatto che il comma 5-bis – contrariamente a quanto stabilito dall’art. 1, comma 2 della legge n. 212/2000 (Statuto dei diritti del contribuente) – non si qualifichi espressamente come norma di interpretazione autentica. Invero, la veste letterale non è l’unico criterio interpretativo, dovendo essa essere integrata da quelli logico-sistematici, che possono anche escludere la natura autentica di norme che pure si autodefiniscono tali (cfr. Corte cost. n. 73/2017). A contrariis, un esempio è offerto dalla disciplina sull’imposta di registro, in cui una norma (i.e. l’art. 1, comma 87 della legge n. 205/2017) non qualificata formalmente come d’interpretazione autentica dell’art. 20 del d.P.R. n. 131/1986 (TUR) è stata poi riconosciuta tale da una legge successiva (i.e. l’art. 1, comma 1084 della legge n. 145/2018) e dichiarata conforme a Costituzione (Corte cost. nn. 158/2020 e 39/2021). La giurisprudenza costituzionale ha, del resto, più volte ribadito che lo strumento dell’interpretazione autentica ben può essere «usato dal legislatore per rimediare ad un’opzione interpretativa consolidata nella giurisprudenza in un senso divergente dalla linea del diritto da lui giudicata più opportuna» (Corte cost. n. 480/1992 e, in senso conforme, Corte Cost. n. 402/1993 e n. 39/2021, cit.).
[27] Favorevole alla retroattività della norma di cui all’art. 7, comma 5-bis, del d.lgs. n. 546 del 1992, C. GLENDI, Applicabilità ai giudizi pendenti della nuova norma sull’onus probandi nel processo tributario – Primi esperimenti applicativi delle Corti di merito sulla regola finale del fatto incerto nel processo tributario riformato, in GT – Riv. giur. trib., 6, 2023, p. 247. Così egli, infatti, ragiona: “la vera ragione dell’applicabilità dell’art. 6 della Legge n. 130/2022 anche alle pronunce deliberate e depositate dopo il 16 settembre 2022 in giudizi instaurati ancor prima, sta propriamente nel costituire questo disposto normativo, comunque lo s’intenda, la regola finale del fatto incerto per il processo tributario e nell’operare siffatta regola, per sua natura, essenzialmente al momento in cui la decisione viene assunta, essendo proprio solo questo, e non altro, il momento in cui il giudice può ritrovarsi e ritenersi allocato in una situazione finale di ritenuta incertezza probatoria sui fatti posti a fondamento di quanto forma oggetto del giudizio”. Sostengono la natura retroattiva della novella anche S. DONATELLI, L’onere della prova nella riforma del processo tributario, in Rass. trib., 1, 2023, p. 28; A. LOVISOLO, Osservazioni sull’utilizzo delle presunzioni “non legali” nella recente giurisprudenza della Suprema Corte, in Dir. prat. trib., 4, 2024, p. 1432.
[28] V. tra tutte Cass. n. 16493/2024, la quale afferma che: “…tale disposizione ha chiaramente natura sostanziale posto che, in base al consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità, sono tali le norme che, come quella in esame, consistono in regole di giudizio la cui applicazione comporta una decisione di merito, di accoglimento o di rigetto della domanda, mentre hanno carattere processuale le disposizioni che disciplinano i modi di deduzione, ammissione e assunzione delle prove (cfr. Cass., Sez. 5, sentenza n. 18912 del 17/07/2018, Rv. 649717 – 01). Ne consegue che la disposizione in esame, di natura sostanziale e senza alcuna valenza interpretativa di altre disposizioni in tema di valutazione delle risultanze probatorie, non ha efficacia retroattiva e, quindi, si applica, ai giudizi introdotti successivamente al 16 settembre 2022, data di entrata in vigore dell’art. 6 della Legge n. 130 del 2022 che l’ha introdotta, per la quale il successivo art. 8, dettato in materia di ‘disposizioni transitorie e finali’, non prevede una diversa decorrenza”.
[29] Così M. BASILAVECCHIA, L’onere della prova nell’applicazione giurisprudenziale, in Il Processo n. 2/2025, 771; nello stesso senso, si veda A. MARCHESELLI, La prova nel nuovo processo tributario, Milano, 2024). Quanto detto sopra porta anche a prendere atto che, indipendentemente dalla qualificazione del comma 5-bis come disposizione “interpretativa” (e dunque retroattiva) oppure “innovativa” (e quindi priva di efficacia retroattiva), vi sia comunque in dottrina un condiviso convincimento circa la debolezza argomentativa della lettura “svalutativa” propugnata dalla Cassazione nella parte in cui afferma che la nuova norma non avrebbe “fissato limiti al modo in cui la prova deve essere fornita” dall’Amministrazione finanziaria e, conseguentemente, valutata dal giudice. Al di là delle diverse prospettazioni teoriche è infatti evidente che la disposizione incide in modo significativo sulla struttura del processo tributario, imponendo - come si è visto - alla parte erariale un onere probatorio ben più rigoroso rispetto al passato.
[30] Per tale impostazione, cfr. anche M. CATALDI, La norma generale sull’onere della prova, cit., pag. 77.
Immagine: Pieter Brueghel il Giovane, L'avvocato del villaggio, olio su tavola, 1620-40.
Memoria, testimonianze e ritratti di giuristi italiani del Novecento - a cura di Vincenzo Antonio Poso
Lorenza Carlassare: contro la logica del potere
di Giuditta Brunelli
Sommario: 1. Pensiero e metodo di una Maestra del diritto costituzionale – 2. La rilettura del concetto mortatiano di “costituzione materiale” e il passaggio dall’ordinamento liberale al regime fascista – 3. Sovranità popolare e rifiuto della democrazia d’investitura – 4. La riflessione sulle trasformazioni del sistema delle fonti – 5. Forma di Stato, effettività dei diritti sociali e ruolo della Corte costituzionale – 6. Nel segno della Costituzione.
1. Pensiero e metodo di una Maestra del diritto costituzionale
Quando penso a Lorenza Carlassare, all’originalità e all’attualità del suo pensiero, non posso fare a meno di ricordare ciò che per Virginia Woolf caratterizzava la grande letteratura, il «grande libro»: la capacità di aggiungere qualcosa alla nostra visione della vita (V. Woolf, Diario di una scrittrice, Roma, minimumfax, 2005, p. 142). Qualcosa che sarà destinato a restare. Molto di ciò che Lorenza Carlassare ha scritto presenta questa natura: si colloca in una posizione di singolare coerenza e rigore nel panorama del costituzionalismo italiano contemporaneo, quasi sempre offrendo un punto di vista innovativo, talora in aperta polemica con tesi comunemente (e acriticamente) accettate, e dunque capace di proporre punti di vista inediti. La sua opera, tanto nell’insegnamento quanto nella ricerca, si è sempre mossa entro un orizzonte nel quale la Costituzione rappresenta la forma vivente dell’esperienza giuridica e politica. L’idea che attraversa tutta la sua produzione è quella di un diritto costituzionale come pratica di libertà, capace di limitare il potere, di restituire senso e misura all’agire politico e di valorizzare la partecipazione consapevole dei cittadini.
Questa prospettiva si radica in una concezione della scienza giuridica che rifiuta ogni neutralità apparente. Il costituzionalista, per Carlassare, non è un tecnico del diritto, ma un interprete critico dei rapporti di potere che si inscrivono nelle norme. Tale impostazione emerge con particolare chiarezza nelle Conversazioni sulla Costituzione (nelle diverse edizioni Cedam, a partire dal 1996 fino al 2020), testo che può essere considerato la chiave di volta del suo pensiero: un punto di incontro fra didattica e ricerca, dove la riflessione teorica si intreccia con l’esperienza pedagogica e con l’impegno civile. L’opera, nata con intento formativo, aspira a fornire allo studente una «chiave di lettura del diritto costituzionale» che metta in luce «i legami tra il diritto e la realtà», rifiutando la frammentazione della materia e riportando ogni concetto al suo sfondo politico e ideologico. «La Costituzione non è un testo come gli altri: è carica delle ideologie che provengono dalla Storia. Occorre trasmettere i suoi valori, che assumono la forma di principi, perché essi sono il portato del costituzionalismo» (Carlassare su Carlassare: conversazione con una costituzionalista, di G. Brunelli, A. Pugiotto, P. Veronesi, in Nel segno di Lorenza Carlassare. Testimonianze e ricordi, a cura di G. Brunelli, A. Pugiotto, P. Veronesi, Ferrara, Volta la carta, 2023, p. 26). E, in effetti, nelle[u1] varie edizioni delle Conversazioni sulla Costituzione, nel corso del tempo integrate e arricchite di nuovi argomenti, resta inalterato l’impianto di fondo: un’attenzione particolare a determinati concetti (i princìpi fondamentali e i diritti, lo Stato di diritto, la sovranità popolare, la rigidità costituzionale), principi e istituti (il principio di legalità, la riserva di legge) e per la storia costituzionale (con una particolare rilettura, come vedremo, della costituzione materiale in senso mortatiano, utilizzata per riflettere sul problema della continuità o rottura dell’ordinamento giuridico).
Da tutto questo emerge il nucleo metodologico della riflessione carlassariana: la convinzione che lo studio del diritto costituzionale coincida con la ricerca dei suoi principi, e che soltanto a partire da essi si possa comprendere la struttura complessiva dell’ordinamento. In realtà, Carlassare diffidava delle enunciazioni astratte sul “metodo”. Eppure, come spesso accade ai grandi Maestri, la sua prassi didattica e scientifica finisce per configurarne uno, preciso e riconoscibile. «Non esiste un metodo ideale», afferma, «ma un modo serio di studiare», che consiste nel riconoscere i fili rossi della materia e nel collegare i concetti alla realtà che li genera (Carlassare su Carlassare, cit., p. 29). L’insegnamento si traduce così in un esercizio di libertà critica. «Detesto l’idea di nozione», scrive; «mi interessa il sapere. Il sapere si regge su principi; lo studente deve avere chiara la fisionomia di questi principi e maneggiare il legame che li collega gli uni agli altri». I principi, aggiunge, «sono come attaccapanni ai quali puoi appendere le nozioni; ma se non possiedi i principi ti esponi all’anarchia delle parole» (Carlassare su Carlassare, cit., p. 27).
Del metodo di ricerca giuridica di Carlassare, come ho avuto modo di sottolineare in altra sede (G. Brunelli, La storia costituzionale come metodo: la lezione di Lorenza Carlassare, in Democrazia e costituzionalismo. In ricordo di Lorenza Carlassare, a cura di R.E. Kostoris e G. Rivosecchi, Torino, Giappichelli, p. 81 ss.), fa parte la centralità attribuita alla storia costituzionale e ai giuristi del passato, le cui tesi riemergono sovente nei suoi scritti (cito soltanto Giuseppe Compagnoni, Gaetano Arangio-Ruiz, Federico Cammeo), nella convinzione, più volte ribadita, che soltanto volgendo lo sguardo al passato sia possibile comprendere come sono nati i concetti e gli istituti e spiegarne le successive evoluzioni. La padronanza della storia, e della storia costituzionale in particolare, è dunque essenziale in sede scientifica. Basti pensare, per fare un solo esempio, al commento all’art. 88, sullo scioglimento delle Camere, nel Commentario della Costituzione a cura di Giuseppe Branca, nel quale una parte ampia e analitica dello studio è dedicata ad una attenta ricostruzione della prassi statutaria e della dottrina coeva, usate poi come termini di raffronto per l’esperienza di epoca repubblicana (Art. 88, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Tomo II, Bologna-Roma, Zanichelli-Il Foro italiano, 1983, spec. p. 16 ss.).
Ma quella della storia è una conoscenza altrettanto decisiva in ambito didattico (ulteriore conferma che i due aspetti non sono scindibili nel pensiero carlassariano). Penso di nuovo alle Conversazioni sulla Costituzione, manuale di ridotte dimensioni nel quale tuttavia non poche pagine sono dedicate alla storia costituzionale, con una particolare attenzione per il passaggio dal regime liberale al regime fascista, e poi al regime democratico costituzionale. Interrogata sul punto dagli allievi ferraresi nell’intervista – già citata – con cui si aprono gli Scritti in suo onore pubblicati da Jovene nel 2009, Carlassare rispondeva di voler spiegare agli studenti, in maniera molto semplice ma essenziale, alcuni passaggi che riteneva fondamentali nella nascita del fascismo. E aggiungeva: «Quelle sono pagine che avrei sviluppato molto volentieri» (Carlassare su Carlassare, cit., p. 28). Del resto, il tema dell’avvento del fascismo e della continuità o rottura dell’ordinamento è sempre stato al centro dei suoi interessi, con un punto di vista molto originale di cui dirò subito.
2. La rilettura del concetto mortatiano di “costituzione materiale” e il passaggio dall’ordinamento liberale al regime fascista
Tra i temi più interessanti della sua riflessione vi è quello della costituzione materiale, di cui propone una lettura peculiare e di indubbia utilità nella valutazione dei c.d. passaggi di regime. La Studiosa ha posto in rilievo in modo esplicito la centralità nella propria formazione giuridica del volume di Costantino Mortati (La costituzione in senso materiale, Milano, Giuffrè, 1940), uno di quegli scritti «che vanno sempre alla ricerca di ciò che sta dietro alle cose» (Carlassare su Carlassare, cit., p. 15). E in uno dei suoi saggi di maggiore rilievo (La “rivoluzione” fascista e l’ordinamento statutario, in Diritto pubblico, 1996, fasc. 1, p. 43 ss.) è proprio la tesi mortatiana che, opportunamente ricalibrata, le consente di individuare in modo efficace il momento in cui si è prodotta la rottura dell’ordinamento. Nel saggio l’Autrice – dopo aver sottolineato l’incertezza delle diverse interpretazioni al riguardo – passa in rassegna una serie di mutamenti (il ripudio dichiarato dello Stato di diritto, della sovranità popolare e della democrazia, la soppressione dei diritti di libertà, la rottura del principio di eguaglianza e, sul piano degli atti formali, il diniego di firma dello stato d’assedio da parte del sovrano, l’incarico irregolare dato a Mussolini e poi sanato dal conferimento della fiducia parlamentare), considerandoli «anticipazioni, segnali, di quella che sarà nella sostanza un’investitura di potere costituente: la legge “Acerbo”» (La “rivoluzione” fascista, cit., p. 49). Per Carlassare, infatti, la legge elettorale Acerbo del 1923, che assicurava i due terzi dei seggi alla lista di maggioranza relativa, rappresentò una trasformazione formale e insieme sostanziale, compiuta attraverso vie legalmente corrette. L’apparente continuità normativa celava la continuità delle forze sociali dominanti, il permanere degli stessi interessi e valori sotto principi mutati. «Il vecchio ha legittimato il nuovo», scrive, «anzi, lo ha generato».
La teoria della costituzione materiale viene in tal modo accolta ed applicata con una «significativa variante»: le forze che plasmano la costituzione non si identificano necessariamente con i partiti politici, ma con le forze sociali dominanti, i cui interessi attraversano i regimi e sopravvivono al loro mutamento. Da ciò deriva la distinzione, cruciale, tra principi travolti e interessi conservati, che consente di parlare di continuità materiale anche laddove i principi giuridici sono stati distrutti.
3. Sovranità popolare e rifiuto della democrazia d’investitura
Il tema della sovranità popolare appartiene per Carlassare al nucleo stesso dello Stato democratico di diritto. Essa ne difende una nozione estesa, che non coincide con il semplice esercizio del voto. Sarebbe riduttivo «pensare che in una democrazia le forme della partecipazione si risolvano nell’esercizio dei diritti politici in senso stretto. Anche attraverso l’esercizio di altri diritti – in particolare la manifestazione del pensiero, dell’opinione minoritaria, del dissenso e della critica politica – è possibile a ciascuno esercitare influenza e su coloro che andranno a votare e su coloro che saranno eletti» (Conversazioni sulla Costituzione, Padova, Cedam, 2020, p. 40). Ciò comporta il rifiuto dell’idea che “popolo” sia solo il “corpo elettorale”: di esso fanno parte anche i minori, che possono «iscriversi ai partiti, far propaganda, manifestare nelle riunioni, esercitare la critica politica» (Conversazioni sulla Costituzione, edizione del 2002, pp. 80-81). E oggi ne fanno parte anche gli immigrati, che possono esprimere le loro esigenze e attivarsi per ottenere provvedimenti e garanzie, sia attraverso l’esercizio della libera manifestazione del pensiero sia attraverso manifestazioni o cortei. In definitiva, appartengono al demo «tutti coloro i quali esercitano la loro influenza sul governo dello Stato attraverso l’esercizio delle libertà» (Conversazioni sulla Costituzione, edizione del 2002, pp. 28-29).
Da una simile concezione discende il rifiuto radicale della democrazia d’investitura e del sistema elettorale maggioritario (abbiamo del resto appena ricordato come proprio nell’approvazione della legge elettorale ipermaggioritaria del 1923 Carlassare avesse ravvisato un esercizio di potere costituente, tale da comportare la distruzione dell’ordinamento liberale e la sua sostituzione con un regime di tipo autoritario). In uno dei suoi scritti a cui teneva in modo particolare, intitolato appunto Maggioritario (in Costituzionalismo.it, fasc. 1, 2008), Lorenza Carlassare conduce una critica serrata ai sistemi elettorali maggioritari a partire da uno scritto di Edoardo Ruffini del 1927, Il principio maggioritario (ripubblicato da Adelphi nel 1976). Ruffini segnalava il rischio che, in determinati contesti, il principio maggioritario si trasformasse nel suo assurdo inverso, il principio minoritario. Quell’assurdo inverso, nel pensiero della nostra Autrice, si manifesta proprio in sede elettorale. Riferito, infatti, all’elezione di una o più persone, il principio maggioritario si snatura: «eletto è chi ottiene più voti rispetto agli altri candidati, anche se si tratti di una minoranza di voti entro il collegio, purché sia la minoranza più alta. In materia elettorale, “maggioritario” assume un significato specifico, contrapposto a “proporzionale”: un sistema che nel tradurre i voti in seggi consente ad una lista di ottenere più seggi di quanti gliene spetterebbero in base al criterio proporzionale, falsando la rappresentanza e travolgendo il senso profondo del sistema rappresentativo» (Maggioritario, cit., par. 1).
Vi è dunque un’idea assai precisa della democrazia rappresentativa: essa vive solo nella misura in cui il Parlamento sia in grado di esprimere il pluralismo politico e sociale (inclusivo della rappresentanza declinata dal punto di vista del genere: vedi B. Pezzini, Lorenza Carlassare, un anno dopo: sulla rappresentanza politica, in Rivista AIC, n.1/2024, spec. p. 151 ss.) in assenza di meccanismi (quali il premio di maggioranza) talmente distorsivi dei risultati elettorali da porre in discussione il principio stesso di eguaglianza del voto (come ha del resto riconosciuto la Corte costituzionale con la sentenza n. 1/2014). In un altro saggio di grande importanza, Sovranità popolare e Stato di diritto (in Valori e principi del regime repubblicano, a cura di S. Labriola, I, 1, Roma-Bari, Laterza, 2006, p. 163 ss.), Carlassare censura con forza la peculiare interpretazione italiana del sistema maggioritario, che si traduce nel prevalente richiamo all’esigenza «di riferirsi sempre e comunque alla maggioranza uscita dalle elezioni. Quasi che queste fissassero un punto fermo e immodificabile, congelando nel tempo la volontà popolare, senza considerazione alcuna per le situazioni reali e il dinamismo della politica». È invece necessario, nel corso della legislatura, «consentire mutamenti di indirizzo politico in corrispondenza di eventuali spostamenti di indirizzo dei cittadini». Il che esclude in radice «l’idea dell’elezione come “delega” e dunque la “democrazia d’investitura”» (Sovranità popolare, cit., p. 178). La democrazia, per Carlassare, è un processo continuo di controllo e revisione del potere.
4. La riflessione sulle trasformazioni del sistema delle fonti
Sovranità popolare e Stato di diritto sono strettamente intrecciati al discorso sulle fonti del diritto, come discorso che verte essenzialmente sulle relative procedure. Se «la democrazia si è sempre caratterizzata per esigere l’attribuzione in esclusiva al popolo, dapprima, e ai suoi rappresentanti poi, di una sola funzione, la creazione del diritto», ne deriva che «chi dispone delle fonti è il padrone del sistema» (Sovranità popolare, cit., 194). Per questo, lo studio delle fonti del diritto viene sempre condotto in rapporto alla forma di governo, al rapporto tra organi. Da qui la lettura rigorosa della riserva di legge come limite posto dalla Costituzione allo stesso legislatore, che nelle materie ad esso riservate non può spogliarsi dei propri poteri normativi a favore di fonti governative secondarie, ed anche primarie (decreti legislativi, decreti legge) ove si tratti delle riserve assolute proprie dei diritti fondamentali. Da qui anche l’interpretazione in senso sostanziale del principio di legalità, che esige una previa norma a disciplina del potere della pubblica amministrazione, per garantire ai singoli il diritto al ricorso contro l’atto eventualmente lesivo dei loro diritti o interessi legittimi.
Davvero troppo ampio sarebbe il discorso sull’importanza della concezione di Lorenza Carlassare in questa materia, a partire almeno dalla notissima ed esemplare monografia Regolamenti dell’esecutivo e principio di legalità (Padova, Cedam, 1966), in cui viene denunciata la sopravvivenza di ideologie non compatibili con il disegno costituzionale delle fonti del diritto, e ancor prima con il principio democratico e lo Stato di diritto, respingendo con nettezza la tesi tradizionale del primato dell’esecutivo e dell’originarietà dei suoi poteri. Tesi che non cesserà mai di contestare, anche negli studi successivi. Il vero nodo – scrive nella voce Legalità - «è sempre il medesimo che si celava dietro la finzione dell’interesse nazionale, dell’interesse pubblico come dato obiettivo, e, quindi, direttamente rilevabile dagli organi amministrativi senza bisogno della mediazione degli organi (politici) rappresentativi: chi sceglie quale dei molteplici interessi e sovente contrapposti sia da privilegiare, con quali criteri ne va operata la selezione, comparazione, composizione». Nei sistemi democratici la risposta non può che essere una: «il popolo o, per esso, gli organi che ne sono diretta espressione» (Legalità (principio di), in Enc. giur. it., XVIII, Roma, Treccani, 1990, p. 3).
Mi limito qui a sottolineare l’estrema modernità della voce Fonti del diritto pubblicata nell’Enciclopedia del diritto nel 2008. Nel primo paragrafo (intitolato Le trasformazioni del sistema delle fonti) compare un vero e proprio catalogo ragionato delle molte e complesse novità, con le quali la Studiosa non esita a confrontarsi, immaginando anche soluzioni inconsuete, ma pur sempre orientate dal rispetto rigoroso del dettato della Costituzione (essendo scontata la critica alle molte e gravi deviazioni dal modello costituzionale, che come tali vanno trattate). Al catalogo si affianca un discorso sul metodo, su cui è utile soffermarsi. Anche se tutto sembra da ripensare, ciò non significa affatto mettere in causa le costruzioni teoriche generali: «Da esse, anzi, ogni indagine deve necessariamente partire per tentare la comprensione e la sistemazione del “nuovo”, cercando di discernere la parte “stabile” da quella in movimento. Su alcune questioni classiche, dunque, non è necessario tornare; basta darne conto. È sulla parte ancora magmatica che la dottrina deve ora impegnarsi, e non è compito lieve» (Fonti del diritto (diritto costituzionale), in Enc.dir., Annali II-2, Milano, Giuffrè, 2008, p. 537). Così, affrontando l’interrogativo se possa oggi parlarsi di un diritto giurisprudenziale, giunge alla conclusione che il contributo della giurisprudenza alla conformazione stessa del sistema induca «a considerarla fonte nel senso improprio in cui lo è la consuetudine, dove fatto e norma coincidono, pur nelle diversità evidenti. Costante nel tempo il diritto consuetudinario (…), in continua evoluzione il diritto giurisprudenziale, essenzialmente dinamico, che spesso precede il diritto legislativo». E ricorda come su questioni di grande rilievo la giurisprudenza ordinaria sia stata «modello e spinta per il legislatore»: basti pensare al danno biologico o alla tutela dell’ambiente salubre (Fonti del diritto, cit., p. 545).
Altrettanto rilevante e non privo di aspetti innovativi è il ragionamento sul nuovo assetto delle fonti nell’art. 117 Cost., sia con riguardo al mutato rapporto fra leggi statali e regionali sia con riferimento ai profili internazionali e sovranazionali (in argomento rinvio a M. D’Amico, Le fonti del diritto tra ieri e oggi: il pensiero di Lorenza Carlassare, in Rivista AIC, 1/2024, p. 211 ss., spec. p. 228 ss.).
5. Forma di Stato, effettività dei diritti sociali e ruolo della Corte costituzionale
Un altro asse portante della riflessione di Carlassare riguarda la connessione ineludibile tra forma di Stato e diritti fondamentali e l’effettività dell’esercizio e della tutela di questi ultimi, al di là della proclamazione costituzionale. I diritti fondamentali «qualificano la forma di Stato, sono parte ineliminabile della Costituzione repubblicana che, ripudiata la priorità dello Stato sulla persona, già negata dalla Rivoluzione ma subito ripresa dalla reazione e poi esaltata dal fascismo, riaffermato il carattere servente dello Stato, strumento attraverso il quale i membri del popolo sovrano esercitano la sovranità, ha dato vita ad un sistema di democrazia pluralista, in cui, finalmente, i diritti formalmente proclamati potessero essere effettivi per tutti: gli artt. 2 e 3 Cost., in entrambi i loro commi, danno un senso all’intero sistema» (Forma di Stato e diritti fondamentali, in Quaderni costituzionali, 1995, p. 56). Il discorso si completa con la considerazione che la tripartizione tradizionale fra diritti civili, politici e sociali, probabilmente ancora utile a livello didattico-descrittivo, deve in realtà ritenersi superata dal condizionamento reciproco e dalla inscindibilità degli uni dagli altri. Il che comporta che l’effettività della tutela valga anche per i diritti sociali: il loro depotenziamento cambierebbe la forma della democrazia sociale delineata dalla Carta costituzionale e una loro eventuale reformatio in peius porterebbe ad uno stravolgimento della forma di Stato, perché intaccherebbe la stessa essenza della liberal-democrazia (Forma di Stato, cit., p. 44).
Lo Stato sociale, insomma, altro non è che il necessario modo di essere di uno Stato di diritto che (a differenza di quello ottocentesco) sia anche democratico. «Se la caratteristica saliente sta nell’esistenza di diritti sociali accanto ai diritti di libertà, e dunque nell’erogazione di prestazioni da parte dello Stato (o di enti pubblici) a favore dei cittadini, l’unica conclusione che se ne può trarre è che esso non sia altro che lo Stato democratico finalmente realizzato» (Conversazioni sulla Costituzione, edizione del 2002, cit., p. 21). Queste premesse teoriche la condurranno nel 2013 e nel 2015 all’elaborazione di due saggi di estremo rilievo, dei cui contenuti non mancano echi nella giurisprudenza costituzionale successiva (in particolare nelle sentenze n. 275/2016 e n. 195/2024): Priorità costituzionali e controllo sulla destinazione delle risorse, in Costituzionalismo.it, fasc. 1/2013 e Diritti di prestazione e vincoli di bilancio, ivi, fasc. 3/2015, p. 136 ss. Di fronte alla scarsità di risorse e alla costante evocazione della questione dei costi in funzione di ridimensionamento dei diritti a prestazione, Carlassare afferma: «La Costituzione non è cambiata. Le difficoltà economiche non ne cancellano norme, principi, valori. Restando questi immutati, la crisi può produrre un unico effetto importante: rendere più grave e rigoroso l’obbligo di un oculato impiego delle risorse e l’obbligo di destinarle innanzitutto ai bisogni primari, alla realizzazione delle priorità costituzionali, lasciando ad altri obbiettivi ciò che eventualmente rimane». Essa distingue così destinazioni di fondi costituzionalmente doverose, destinazioni consentite e destinazioni addirittura vietate. E il controllo sulla destinazione delle risorse è affidato alla Corte costituzionale, intesa (secondo l’insegnamento di Crisafulli, ripreso poi da Paladin) come correttivo della forma di governo parlamentare e come limite all’indirizzo politico espresso dal raccordo governo-parlamento: «Già la Costituzione rigida è un limite alla maggioranza, e la Corte ne è il presidio: l’indirizzo politico non può svolgersi del tutto liberamente, perché incontra nei princìpi costituzionali un ostacolo che la Corte rende effettivo» (L’influenza della Corte costituzionale, come giudice delle leggi, sull’ordinamento italiano, in Associazione per gli studi e le ricerche parlamentari, Quaderno n. 11, Seminario 2000, Torino, Giappichelli, p. pp. 80-81. Vedi anche E. Lamarque, Lorenza Carlassare: un anno dopo: il ruolo della Corte costituzionale, in Rivista AIC, n. 1/2014, p. 177 ss.). « Si tratta – scrive Carlassare – di chiarire i percorsi processuali, e di indurre la Corte a passare più spesso e con maggior forza dalle affermazioni teoriche alla loro applicazione: da tempo le sentenze costituzionali hanno precisato in modo corretto e chiaro la direzione imposta dalla Costituzione; da tempo hanno sottolineato il legame stretto fra esercizio effettivo dei diritti civili e politici e realizzazione dei diritti sociali: non è di oggi l’affermazione dell’ “interesse della collettività alla liberazione di ogni cittadino dal bisogno ed alla garanzia di quelle minime condizioni economiche e sociali che consentono l’effettivo godimento dei diritti civili e politici” [sent. n. 286/1987]» (Priorità costituzionali, cit., par. 4). E non manca di indicare anche la tecnica interpretativa che il giudice delle leggi potrebbe utilizzare: se la discrezionalità del legislatore non è assoluta e la ragionevolezza non ha da intendersi soltanto come “coerenza” a livello legislativo, ma in primo luogo come coerenza ai principi costituzionali, «lo schema trilatero – costruito da Livio Paladin per non lasciare al giudizio della Corte margini troppo indefiniti – potrebbe essere utilmente applicato mettendo in relazione i principi costituzionali, la norma che toglie risorse indispensabili a un obiettivo prioritario, la norma che destina risorse a un obiettivo ignorato o vietato dalla Costituzione. Agganciando il controllo sulle scelte a un riferimento sicuro – le priorità costituzionali – i limiti giuridici alla discrezionalità del legislatore (o al suo arbitrio) si precisano meglio e possono, attraverso la Corte, divenire effettivi» (Diritti di prestazione, cit., p. 154). (Sulle potenzialità e i limiti dell’applicazione in quest’ambito dello schema trilatero teorizzato da Paladin vedi G. Rivosecchi, Rapporti economici, equilibrio di bilancio e diritti a prestazione nella Costituzione. In ricordo di Lorenza Carlassare in Rivista AIC, n. 3/2025, p. 173 s. Sul tema dei diritti sociali, i vincoli di bilancio e le priorità costituzionali nel pensiero di Lorenza Carlassare vedi C. Salazar, Sui diritti sociali e il principio di solidarietà, in Rivista AIC, n. 1/2024, spec. p. 198 ss.).
6. Nel segno della Costituzione
Lorenza Carlassare aveva un’esigenza profonda di trasmettere il sapere con grande chiarezza e lucidità di pensiero, non solo agli studenti universitari, ma più in generale ai cittadini, come dimostra anche l’intervista raccolta da Roberto Conti in questa stessa Rivista il 2 gennaio 2021 (La Costituzione gode di ottima salute, ma occorre ancora pienamente attuarla!). Ne è testimonianza il volume Nel segno della Costituzione. La nostra Carta per il futuro, edito da Feltrinelli nel 2012. Si tratta di un volume di alta divulgazione, che nasce da un’urgenza: quella di sottolineare l’attitudine della Costituzione repubblicana a porsi ancora oggi come un progetto di società, un programma per il futuro, un programma umano, contro la società disumana, discriminatoria e diseguale che sempre più drammaticamente si sta delineando. Si tratta di un testo appassionato ed appassionante, che trasmette il senso profondo della Carta come documento unitario, intessuto di principi fondamentali (eguaglianza, dignità della persona, diritti inviolabili, democrazia, laicità, pace) tra loro intimamente integrati, in un disegno organico e coerente. In esso si mette in luce la grave manipolazione che subiscono, nel dibattito pubblico, le parole stesse della Costituzione: «Persino parole come libertà, eguaglianza, legalità, costituzionalismo, imparzialità, onore, diritti e doveri, dignità della persona e riservatezza possono essere usate in modo da neutralizzarne il valore o addirittura servirsene in direzione inversa, alterandone il senso. Come avviene oggi, in particolare, con democrazia, concetto impropriamente inteso come dominio della maggioranza, ignorando volutamente l’aggettivo che la qualifica: democrazia “costituzionale”. Il costituzionalismo, si sa, non piace al potere che non vuole essere sottoposto a regole e limiti» (p. 13). Il diritto costituzionale, dunque, come un’arte civile, che esige da chi la studia e la insegna non soltanto competenza, ma coraggio.
Lorenza Carlassare aveva un’esigenza profonda di trasmettere il sapere con grande chiarezza e lucidità di pensiero, non solo agli studenti universitari, ma più in generale ai cittadini, come dimostra anche l’intervista raccolta da Roberto Conti in questa stessa Rivista il 2 gennaio 2021 (La Costituzione gode di ottima salute, ma occorre ancora pienamente attuarla!). Né è testimonianza
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