ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Pubblichiamo, a puntate domenicali, la storia di Al Masri, Il cittadino libico destinatario del mandato di arresto della Corte dell'Aja, arresto dalla polizia italiana a Torino e poi riaccompagnato a casa con il volo di Stato.
La prima puntata racconta di Mitiga e degli orrori che vi si svolgono e si può leggere qui.
Io, Osama Elmasry “Njeem” – Seconda puntata: RADAA
Le azioni e il brutale contesto in cui opera l’uomo che la Corte Penale Internazionale ha sottoposto a mandato di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità. Prosegue il racconto su una realtà che non possiamo ignorare.
Sommario: 1. Da un quartiere di periferia - 2. La milizia e il suo generale - 3. Le prigioni di RADAA - 4. L’oppressione attraverso l’illegalità e la violenza.
1. Da un quartiere di periferia
Uno dei tanti gruppi di miliziani che spadroneggia all’accendersi della miccia dell’insurrezione contro Mu’ammar Mohammed Abu Minyar Qadhahafi (per tutti, ma soprattutto per gli italiani, Gheddafi). Questa è l’origine delle Forze Speciali di Deterrenza, Al-Radaa o, più semplicemente, RADAA. Vale la pena parlarne, perché è in questo gruppo armato che si afferma il ruolo dell’uomo che la Corte penale internazionale voleva fosse arrestato: Osama Elmasry Njeem.
La trasposizione in lingua occidentale di nomi appartenenti a idiomi per noi ostici e l’avvicendarsi continuo di sigle che designano apparati non necessariamente differenti aumenta la difficoltà di comprendere le dinamiche più turbolente degli scenari nel mondo arabo. Si procede quindi per approssimazioni terminologica che concorrono a rendere ancora più approssimati i riquadri bellici e politici.
Tra febbraio e marzo 2011 la Libia transita in poche settimane dalla sua primavera araba al conflitto civile. Tra i rivoltosi riuniti nel Consiglio nazionale di transizione, si segnalano a Tripoli il gruppo indipendente di combattenti formatosi nel quartiere nel quartiere Souk al Juma e condotto da Abdel Raouf Kara.
Souk al Juma era stato in passato un centro amministrativo autonomo, a est della capitale, dalla cui area urbana viene inglobato alla fine del secolo scorso. È nelle sue strade che tra il 1925 e il 1933 si svolge il gran premio automobilistico di Tripoli. Nel 1930 vi perde la vita l’asso del volante, Gastone Brilli-Peri – le cui gesta saranno evocate dal cinema e dalla canzone del nostro tempo[1] – schiantandosi contro il muricciolo di un giardino con l’Alfa Romeo lanciata a 180 chilometri orari. Era stato campione mondiale e aveva vinto il gran premio di Tripoli appena l’anno prima.
La tragedia suscita tale scalpore da indurre il regime coloniale fascista a costruire nei pressi un autodromo non cittadino. L’area prescelta è nella vicina oasi di Tagiura, nei pressi del lago di Mellaha, dove viene realizzato anche una base militare, che assumerà col tempo il nome di Mitiga.
Nell’insurrezione contro Gheddafi l’aeroporto, adibito da una quindicina d’anni al trasporto civile, diventerà un obiettivo militare fondamentale. Le milizie di Kara sono stanziate a pochi chilometri di distanza. Anche dal punto di vista logistico l’attacco all’esercito governativo è strategicamente favorevole e ha successo nell’arco di poche settimane. Kara è ormai un signore della guerra; ha raccolto circa 700 combattenti, che costituiscono un’unità appetita dal costituendo Governo di accordo nazionale (GNA), che nel tempo entra a fare parte dell’amministrazione dell’interno.
2. La milizia e il suo generale
Mitiga è diventata il quartiere generale della RADAA, che conta oggi 1.500 componenti. Il dato è formale. Kara si vantava già diversi anni fa di essere in grado di radunare fino a diecimila combattenti, “se venissero chiamate le mie riserve”[2]. È la terza milizia più numerosa a Tripoli e una delle più potenti della Libia occidentale[3], se si pensa che nel solo anno 2022 il Ministero dell’interno le ha destinato quasi trenta milioni di dollari americani.
Nel frattempo, RADAA è divenuta Apparato di deterrenza per la lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo (DACTO). Ora la sua posizione di vantaggio è doppia: come dipartimento statale, ha compiti ufficiali di polizia militare, finanziato e riconosciuto dal Governo; come milizia facente capo a un signore della guerra, continua a godere di autonomia operativa. La maggior part dei suoi componenti sono inquadrati formalmente nella polizia libanese. In questa veste, essi sono abilitati a compiere indagini, arresti, perquisizioni, posti di blocco, ad eseguire confische.
La forza di RADAA sta nell’avere radunato dall’inizio tutti i combattenti appartenenti alla tribù Thuwar, fedele ai principi della Sharia. Di qui la sua compattezza etnica e religiosa, che tuttora ne rappresenta un fattore di coesione. All’osservatore occidentale sembra difficile concepire un’articolazione statale legittimata a ingerirsi nei diritti fondamentali dei propri cittadini, ma autonoma e guidata al contempo dalla legge islamica, che ha regole proprie e differenti. In Libia – e non solo – sono distorsioni come queste a generare il caos amministrativo dando vigore alla sola legge possibile, quella della forza.
Da quando è entrato a fare parte della nomenclatura del GNA, Kara, che oggi ha 46 anni, agisce con accortezza. È un personaggio temuto, ma agli interlocutori si propone come persona pacata, che pondera le parole. Non rilascia volentieri interviste e il suo profilo è quasi sparito dal web. Osserva con rigore le regole della sua fede (digiuna ogni lunedì e giovedì), ma anche su questo aspetto con gli ospiti sa mostrarsi aperto e tollerante.
Kara rivendica con disinvoltura in prima persona la propria autonomia dalle scelte governative (“a volte devo prendere decisioni perché nessuno vuole assumersi la responsabilità di proteggere la popolazione e le istituzioni”) e giustifica con cinico pragmatismo il regime imposto ai “suoi” detenuti ella prigione di Mitiga: “se esistesse un sistema giudiziario equo, sarebbero processati. Ma il sistema giudiziario attuale non esiste”[4]. Peccato che a non fare funzionare il sistema giudiziario attuale contribuisca lui stesso, come vedremo.
Mitiga, intanto. All’interno dell’aeroporto, struttura amministrativa e zona detentiva si confondono, diventano un tutt’uno nel via vai di uniformi, miliziani senza divisa, guardie carcerarie, detenuti o prigionieri rapiti: un corpo unico che è l’allegoria terribile del disordine che domina nel Paese intero.
3. Le prigioni di RADAA
Mitiga non è l’unico centro di detenzione affidato a (o comunque controllata) da RADAA in Libia. Ne è però la principale: per numero di detenuti, per vicinanza alla capitale e per fama.
Qui a comandare è un luogotenente di Kara, Osama Elmasry Njeem. “Al Masri”, come lo chiamiamo in Italia, o “Njeem”, secondo la dizione impiegata dalla Corte penale internazionale, non è un generale, per quanto comunemente lo si definisca tale. È piuttosto un capo militare, che risponde a Kara. Gli è stata affidata la struttura detentiva di Mitiga e a Mitiga fa ciò che vuole.
Secondo autorevoli commentatori “è solo un sadico che tortura le persone”[5]. Il profilo psichico ha il suo peso. Ciò che conta, però, è che i miliziani di RADAA eseguono i suoi ordini con brutale meticolosità. Mitiga non è la sola prigione libica denunciata pubblicamente per le torture che vi vengono commesse[6]; è però quella che nel tempo ha acquisito la nomea più cruenta. Le Nazioni Unite hanno radunato un gruppo di esperti che ha raccolto un numero di testimonianze elevato, ma imprecisato (per tutelare l’incolumità degli intervistati). Alle 299 pagine della relazione finale sono allegati documenti, fotografie, filmati, registrazioni che ricostruiscono l’intera filiale del traffico di esseri umani, che vede coinvolti 17 boss libici, tutti in divisa da militare o in grisaglia da funzionari pubblici[7].
Ad alcuni detenuti, specialmente subsahariani, è offerta una chance per sottrarsi alla tortura: arruolarsi alla RADAA e partecipare in prima linea alle azioni contro la Libyan National Army (LNA) di Khalifa Belkasim Haftar, il nemico che occupa la parte orientale della Libia. Basta questa sola circostanza a fare comprendere quanto la milizia del generale Kara sia screditata, ma al tempo stesso temibile per le sue violenze incontrollate.
Mitiga non è un carcere per migranti. Ma i migranti vi arrivano comunque, perché da loro RADAA trae risorse: prima ancora che quelle umane, quelle in denaro, estorto ai loro familiari una volta che ricevono le telefonate e li ascoltano implorare il pagamento di migliaia di dollari mentre vengono picchiati dai secondini.
I nomi dei collaboratori di Njeem a Mitiga sono noti: Khalid al-Hishri Abuti, Moadh Eshabat, Hamza al-Bouti Edhaoui, Ziad Najim, Nazih Ahmed Tabtaba. Sono tutti considerati ufficiali della milizia, con ruoli anche superiori a Njeeem, ma non a Mitiga. Nel carcere comanda lui. Mitiga è RADAA e RADAA a Mitiga è Njeem. Questa è la sintesi fattuale che si trae dalle molte testimonianze raccolte da missioni internazionali[8] e compiuta pure dalla camera preliminare che ha trattato della vicenda per la Corte penale internazionale[9].
Perciò le condotte dei miliziani a Mitiga sono riconducibili ai voleri di Njeem, il quale del resto conosce bene la loro attitudine alla violenza e alla sopraffazione, resa più cieca dal culto religioso che intimamente le motiva. La tolleranza governativa per quanto vi accade ha fatto di Mitiga un modello da esportare nella Libia occidentale.
Si ha infatti notizia di soprusi analoghi nella vicina prigione di Judaydah, anch’essa controllata da RADAA. Sono stati accertati crimini contro l’umanità commessi nelle carceri di al-Kwaifiya e di Germada, gestite dalle Forze armate arabe libiche, e nei centri di detenzione che sono dirette dal cosiddetto Apparato di sostegno alla stabilità (SSA), dall’Agenzia per la sicurezza interna (ISA), dalla Direzione per la lotta alla migrazione illegale (DCIM)[10].
La miriade di sigle e satelliti che popolano la nebulosa libica dà la misura della disgregazione estrema dei centri di potere e, con questa, del suo esercizio inevitabilmente incontrollato; di qui l’assenza di un livello minimale di legalità all’interno delle strutture di detenzione.
4. L’oppressione attraverso l’illegalità e la violenza
I ristretti diventano quindi materiale utile alla causa delle milizie. Non solo soldi e arruolamenti forzati. Vi sono le donne e i giovani vittime di abusi sessuali sistematici, maschi in salute impiegati come schiavi e nei lavori forzati o costretti a subire prelievi di sangue destinato ai soldati feriti in combattimento[11].
Si ripete inoltre ciò che la storia ci ha fatto apprendere dall’orrore dei lager. Per sopravvivere, alcuni detenuti accettano di essere investiti delle forme di collaborazione più sgradevoli. Gli vengono così affidati i compiti di trasportare e perquisire altri carcerati all’arrivo nel carcere, di abusare fisicamente di loro in segno di spregio, di partecipare alle violenze più impegnative: sospenderli in posizione di stress, rinchiuderli in una “bara” in posizione verticale, collocarli proni con le piante dei piedi rivolte verso l’alto per subire le percosse secondo il metodo falqa[12].
Inutile dire che la scelta delle vittime di queste atrocità deriva soprattutto dall’orientamento della milizia che gestisce il carcere. Nel caso della RADAA, i detenuti vengono discriminati in ragione della posizione politica effettiva o percepita, dell’appartenenza a talune etnie, delle accuse per fatti che maggiormente contrastano il suo credo religioso. Vi sono pertanto persone maltrattate in quanto sospettate di omosessualità e costrette a frequentare corsi di religione tenuti a Mitiga.
La Libia non conosce sistemi di protezione per le vittime di violenza sessuale e di genere. La loro vulnerabilità è la conseguenza anche di una combinazione di norme patriarcali pervasive che ammettono, quando non impongono, la disuguaglianza di genere. Non esistono inoltre istituzioni, nemmeno di carattere giudiziario, che garantiscano forme di tutela per chi denuncia violenze di questo tipo.
Secondo il Ministero della giustizia libico a fine 2022 Mitiga ospitava 2.315 persone. Osservatori indipendenti affermano invece che RADAA ve ne tenesse rinchiuse allora più di 4.000[13]. Il divario di cifre è spiegabile con la propensione della milizia all’arresto illegale, al sequestro di persona, alla restrizione illecita dei migranti in transito dalle regioni subsahariane. Le denunce pubbliche internazionali non hanno finora condotto le autorità governative della Libia occidentale a intentare alcuna indagine effettiva sui crimini contro l’umanità commessi nelle sue strutture di detenzione.
RADAA del resto agisce fuori controllo. Lo dimostra l’impunità con cui i suoi elementi hanno potuto compiere pubblicamente alcune azioni violente. Nell’agosto 2022 un avvocato è stato aggredito davanti ai giudici, percosso e infine prelevato a forza dall’aula del tribunale dove stava esercitando; dopo essere stato trattenuto a Mitiga per otto ore, è stato rilasciato a seguito di pressioni su Njeem da parte di altre autorità non ufficiali[14]. Non risulta che il legale abbia denunciato l’accaduto.
Una giornalista libica ha invece denunciato gli abusi e le torture subiti durante la propria detenzione. È stata subito minacciata di arresto da parte della RADAA con l’accusa di essere una prostituta e una donna dedita al “vizio” se avesse insistito e affermato, in particolare, di essere stata violentata. Per verificare il proprio sospetto di essere incinta, ha dovuto fingere di avere necessità di salute per sottoporsi ad esami del sangue; una volta accertata la propria gravidanza, si è autosomministrata dei farmaci. In Libia l’aborto è reato; il concepimento causato da uno stupro non sempre è scriminato, poiché di fatto vi sono frequenti casi di denunce delle vittime per avere avuto rapporti sessuali extra coniugali[15].
[1] In Cronache di poveri amanti, di Carlo Lizzani e in Nuvolari, di Lucio Dalla.
[2] O. Heshri, SSC still necessary – Abdel Raouk Kara, in Security assistance monitor, 13 settembre 2013.
[3] A quick guide to Libya’, main players, in Analysis dell’European Council of foreign relations, in www.ecfr.ue, consultato il 13 marzo 2025.
[4] O. Heshri, cit.
[5] I. Magdud, Almasri è un pesce piccolo, ecco perché l’Italia lo ha riportato indietro, in il sussidiario.net, 1 febbraio 2025.
[6] Si legga, ad esempio, Urgent call: Libyan Arab Armed Forces must be held accountable for torture crimes committed in Garnada, a cura della World organization against torture (OMCT) e del Libyan antitorture Network (LAN), 20 gennaio 2025, Tunisi.
[7] N. Scavo, Il dossier. Già a dicembre 2024 anche l’Onu accusava Almasri di crimini e abusi, in Avvenire, 4 febbraio 2025.
[8] Consiglio per i diritti umani ONU, Rapporto della missione d’inchiesta indipendente sulla Libia, 20 marzo 2023, p. 10-12.
[9] Corte penale internazionale, mandato di arresto per Osama Elmasry/almasri Njeem, n° ICC-01/11, 18 gennaio 2025, p. 27.
[10] Cfr. Rapporto 2023-2024 su Medio oriente e Africa del nord. Libia, in amnesty.it, consultato il 7 marzo 2025, nonché Consiglio per i diritti umani ONU, Rapporto della missione d’inchiesta indipendente sulla Libia, 20 marzo 2023, p. 11.
[11] Corte penale internazionale, mandato di arresto per Osama Elmasry/almasri Njeem, n° ICC-01/11, 18 gennaio 2025, p. 26 e 28.
[12] Per una spiegazione di questo metodo di tortura si rimanda alla prima parte di questo scritto.
[13] Cfr. Urgent Action: military prosecutor forcibly disappeared, in amnesty org, 24 luglio 2023, e Report of Indipendent fact-finding mission on Libya (FFM), marzo 2023.
[14] Consiglio per i diritti umani ONU, Rapporto della missione d’inchiesta indipendente sulla Libia, 20 marzo 2023, p. 17.
[15] Consiglio per i diritti umani ONU, Rapporto della missione d’inchiesta indipendente sulla Libia, 20 marzo 2023, p. 15.
Dopo la morte improvvisa di papa Gregorio XVII, i cardinali si riuniscono in conclave sotto la guida del decano Thomas Lawrence per eleggere il nuovo pontefice.
Ritualità solenne e senza tempo, una forma che assume i connotati della sostanza, in un cerimoniale rimasto immutato nei secoli: dalla rimozione dell’anello piscatorio dal dito papale, con un attrito sulla carne volutamente disturbante, all’ufficializzazione del decesso, con la sede che si fa vacante. La solennità stride con il corpo morto dell’uomo-papa, prelevato dal letto nella Domus Sanctae Marthae, racchiuso in un sacco al pari di chiunque altro e sballottato su un carrello e poi su un’ambulanza, con suoni e luci asettici e dissacranti.
Conclave di Edward Berger (premio Oscar per Niente di nuovo sul fronte occidentale) è un thriller nutrito di intrighi e giochi di potere, che tutti immaginiamo esistenti in Vaticano. Ma prima ancora è una storia resa cinematografica dal Vaticano stesso. Un’elezione che nulla ha di diverso da quella di un – altro – sovrano-presidente, se non fosse per la suggestione insita nelle immagini tipiche della Chiesa cattolica, nettare per la cinepresa statunitense, arricchita dalle interpretazioni impeccabili di un cast eccellente: Ralph Fiennes nel ruolo del decano protagonista; Stanley Tucci, il liberale cardinale Bellini, ambizioso, ma fedele Segretario di Stato; John Lithgow nei panni dell’ambiguo canadese Tremblay; Lucian Msamati, il nigeriano cardinal Adeyemi, che porta con sé irrisolte zone d’ombra; uno straordinario Sergio Castellitto, che ruba la scena nel ruolo del reazionario cardinale Tedesco; e l’iconica Isabella Rossellini, suor Agnes, a lungo in silenzio, ma che saprà parlare al momento consono, gridando accuse per poi inchinarsi educatamente prima di uscire di scena. Azzeccatissimo il riconoscimento per il miglior cast ai SAG Awards 2025, così come calzanti appaiono le numerose candidature agli Oscar (tra le quali miglior film, miglior attore protagonista e migliore attrice non protagonista per la Rossellini).
Ma è anche un film che parla di dubbio, quest’ultima opera del tedesco Berger, tratto dall’omonimo bestseller di Robert Harris. Il dubbio dell’uomo, oltreché dell’uomo di fede, il dubbio del tormentato e vacillante decano Thomas Lawrence che magnificamente interpreta e invoca la ricerca ininterrotta dell’umano nell’uomo cara a Vasilij Grossman. Il dubbio che inevitabilmente la Storia porta con sé, contaminando dall’esterno la segretezza della dimensione vissuta dai cardinali sottochiave.
Il regista e amministratore del conclave è lui, il riflessivo decano Lawrence, sofferente per aver assunto un ruolo di amministratore al quale di spirituale è lasciato ben poco (dimensione che trova la sua controparte femminile impersonificata in maniera magnificente da suor Agnes, Isabella Rossellini, attenta superiora dello stuolo di suore, inservienti pressoché invisibili, chiamate da tutto il mondo a gestire gli ingombranti candidati). Lawrence di questo compito manageriale si era lamentato anche con il defunto Papa, che aveva rifiutato le sue dimissioni dal ruolo, come se avesse avuto modo di intuire anzitempo che soltanto lui avrebbe potuto traghettare la Chiesa fuori dalle sabbie mobili del suo pantano istituzionale, riallineandola con una Storia sempre troppo veloce e complessa per un organismo che deve fare i conti con così contrapposte istanze.
La capacità di dubitare diviene, quindi, il punto più alto della ricerca (anche spirituale), tra inciampi, sconfitte e vanità, la debolezza che anche il Gesù della Passione ha attraversato, mostrando in quella fragilità la radice più intima dell’umanità insita nella cristianità. Il ruolo di protagonista è ricoperto proprio da questa fragilità, un dubbio che è indecisione sulla propria natura, talvolta estranea a un sentire più profondo, come quello della tartaruga che fu del santo padre, incapace di adattarsi al destino scelto per lei e, ancora, quello del cardinale in pectore Benitez (Carlos Diehz), arcivescovo di Kabul, che ha assaporato il gusto amaro della guerra e della vita degli ultimi. Questo elevatissimo afflato non esce scalfito dall’incedere della spy-story che contraddistingue il climax della pellicola, nel corso del quale le certezze si sgretolano come un sigillo di ceralacca violato.
Nel mirino della cinepresa, i vani inaccessibili del Vaticano appaiono come un bunker segreto quanto plumbeo, la cui aria immaginiamo resa irrespirabile dal potere e dalle sue lotte peggiori, fatte di torti, sgambetti e soffiate nell’agguerrita disputa sulla scelta per il successore al trono di Pietro, materia nella quale si muove a proprio agio lo sceneggiatore Peter Straughan. Immagini che tendono alla perfezione sono il punto di forza del film, tra ricostruzioni magistrali (gli studi romani di Cinecittà) e ambientazioni prese in prestito (la Reggia di Caserta). Su di esse vale la pena di soffermarsi un attimo più di quanto strettamente necessario per la riuscita della trama, come abilmente fa la macchina da presa e con lei l’occhio dello spettatore, al quale è concessa una riflessione sulla preghiera come lente sull’anima, che mette a fuoco i tentennamenti dell’uomo ontologicamente obliquo (sovviene la vicinanza prossima tra attenzione e preghiera in Simone Weil).
Unica pecca del film realizzato con maestria da Berger è un approccio che rasenta in più parti il didascalico, come nella scena della finestra che esplode con un tempismo a dir poco singolare e della luce – la Storia – lasciata fuori, che prepotentemente entra nella cappella chiusa, sbaragliandola. Una metafora fin troppo esplicata, che tenta di far scivolare il film in una platealità tipicamente hollywoodiana, un passaggio che serve alla trama per avviarla alla piega conclusiva (non rivelabile), che invero poteva essere raggiunta in modo più raffinato e sottile, senza sminuire l’attualità dirompente sbattuta in faccia ai cardinali e al mondo, capace di sgretolare in un istante i sotterfugi preparati con dovizia di cesellatori dalle ambizioni dei candidati al soglio pontificio. Una sorta di apparizione cristologica, foriera di una necessaria modernizzazione culturale, che rende inservibile la vetusta e immobile dicotomia tra progressisti e reazionari.
Questa improvvisa accelerazione, seppur tipica del thriller, rischia, peraltro, di distogliere dal tema che, in quella fase del film aveva assunto la sua centralità, racchiusa nello sguardo – finalmente – frontale del decano Lawrence: appare sollevato e dunque soddisfatto? Oppure la sua vanità esce frustrata da una lotta che aveva finito per scalfire la sua riluttanza?
Dello scompiglio di quello smantellamento radicale resta la polvere volutamente non spazzolata dalle vesti purpuree. Le macerie di un’istituzione? Più che altro i calcinacci delle certezze sgretolate, nemiche della fede e talvolta nemiche anche delle battaglie di palazzo.
Ricordo di una voce indimenticabile
«Signori all’ascolto, buonasera, queste immagini vi giungono da Stoccarda, città natale di Hegel, padre dell’idealismo tedesco.»
Il giovane telecronista italiano, chiamato a raccontare una sfida di coppa europea tra una squadra di calcio italiana e una tedesca, laureato in giurisprudenza, aveva vinto contemporaneamente il concorso per giornalisti sportivi della RAI e quello per professore di storia e filosofia al liceo di Monfalcone del Friuli.
A città del Messico, nel 1986, dopo aver commentato la finale mondiale vinta dall'Argentina di Maradona, quello stesso telecronista, ormai esperto giornalista sportivo, si congedò dal pubblico a cui aveva parlato per un mese raccontando la sua trasferta latino-americana come in un libro di Gabriel Garcia Marquez, non senza salutare, citando un poeta italiano e uno scrittore messicano, in un umanesimo di colta e affettuosa cortesia, il collega più grande che lo aveva preceduto nelle telecronache azzurre.
Era anche questo Bruno Pizzul, giurista convertito alle lettere, letterato prestato al calcio e mai più restituito.
Aveva giocato ad alti livelli, poi per un infortunio al ginocchio aveva dovuto abbandonare lo sport agonistico.
Nel suo Friuli, quasi a ridosso dei dolorosi confini non ancora del tutto redenti all'Italia, aveva insegnato l’italiano ai ragazzi della scuola media.
Quell’italiano prezioso, oggi quasi dimenticato, che ci regalava nelle sue telecronache: quando commentava un fraseggio di Rivera e Prati a centrocampo: «tutto molto bello!»; una giocata di Causio: «dribbling secco sul disorientato avversario!»; un colpo di testa di Bettega: «stacco imperioso del nostro numero 11, la palla accarezza la parte bassa della traversa e cade nell’angolino»; una punizione di Antognoni: «leggero taglio esterno del pallone, che sorvola la barriera e muore all’incrocio. Nulla da fare per il pur bravo portiere!»; un gol di Baggio: «Roberto… la palla è sul destro… sontuoso gol di Roberto Baggio!»; una rete entusiasmante di Gianluca: «Vialli… Vialli in area… Vialli tiro… Ed è gol!».
«Ed è gol!»: nella sua spoglia eleganza questa espressione sublima lo scopo del bel gioco del calcio («c'est le “but”», dicono i nostri cugini d’oltralpe); è una espressione conclusiva, esaudente, che trova il suo pendant in quella, promettente, con cui Bruno Pizzul iniziava ogni sua telecronaca: «Signori all’ascolto, buonasera!».
L’inizio di ogni partita era una promessa. La promessa di un’avventura bellissima. Raccontata da una voce indimenticabile.
Le Sezioni unite, i migranti e il diritto al risarcimento del danno
(nota a Cass., sez. un. 6 marzo 2025 n. 5992)
Sommario: 1. La vicenda processuale - 2. L’ordinanza delle Sezioni unite in punto di giurisdizione - 3. La giurisdizione tra atto politico e atto amministrativo - 4. La sussistenza della giurisdizione quando siano in gioco diritti fondamentali - 5. La sussistenza della giurisdizione quando una parte faccia valere in giudizio un diritto che abbia (anche solo) astratta tutela giuridica - 6. L’ordinanza delle Sezioni unite in punto di legittimazione ad agire - 7. L’ordinanza delle Sezioni unite in ordine al merito dell’azione di risarcimento del danno. Sintesi dei punti principali - 8. Tre osservazioni: la relatività nell’interpretazione delle norme che regolano la materia - 9. Segue: la pronuncia sembra caduta in ambiti nei quali normalmente il ricorso per Cassazione è inammissibile - 10. Segue: le questioni che le Sezioni unite hanno rimesso al giudice del rinvio - 11. Brevissime conclusioni.
1. La vicenda processuale
La vicenda è nota.
Lo Stato italiano precludeva a dei cittadini eritrei, dal 16 al 25 agosto 2018, l’esercizio della loro libertà personale, impedendo, nei primi quattro giorni, che la nave nella quale si trovavano, U. Diciotti, potesse attraccare nei porti italiani, e rifiutando, nei successivi cinque giorni, una volta permesso l’attracco, di concedere loro il consenso allo sbarco a terra.
Alcuni tra loro si rivolgevano così al giudice ordinario italiano per ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale subito.
Costituendosi in giudizio, il Ministero dell’Interno e la Presidenza del Consiglio dei Ministri eccepivano in via preliminare il difetto assoluto di giurisdizione, trattandosi a loro dire, nel caso di specie, di un atto c.d. “politico”, e come tale sottratto al controllo giurisdizionale.
Il Tribunale di Roma accoglieva questa eccezione e dichiarava il difetto assoluto di giurisdizione.
Impugnata la sentenza, la Corte di Appello di Roma riformava la decisione del primo giudice, e dichiarava al contrario sussistente la giurisdizione del giudice, in quanto il fatto non poteva, a suo parere, ricondursi ad un atto politico bensì ad uno amministrativo (e come tale, quindi, perfettamente, soggetto al controllo del giudice); tuttavia nel merito riteneva infondate le domande risarcitorie, in quanto non ravvisava nei comportamenti in oggetto alcuna colpa della pubblica amministrazione.
Avverso tale sentenza una sola parte, Kefela Mulugeta Gebru, proponeva ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo di ricorso.
Nel giudizio in Cassazione si costituivano di nuovo la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero dell’Interno depositando un controricorso contenente due motivi di impugnazione incidentale condizionata: uno, ancora, attenente alla sussistenza o meno della giurisdizione, l’altro relativo al difetto di legittimazione ad agire della parte attrice, e quindi del ricorrente per Cassazione, trattandosi entrambe di questioni assorbite per il giudice di appello che aveva considerato infondata la domanda di risarcimento del danno.
Il ricorso veniva così trasmesso alle Sezioni Unite, dovendosi giudicare una questione di giurisdizione.
Il Procuratore Generale depositava memoria, concludendo per il rigetto del ricorso principale, assorbita la questione di giurisdizione.
Ciò premesso, è opportuno affrontare preliminarmente le questioni processuali di giurisdizione e legittimazione ad agire, e solo dopo esaminare la decisione di merito.
2. L’ordinanza delle Sezioni unite in punto di giurisdizione
Nell’affrontare la questione di giurisdizione le Sezioni unite asseriscono (contrariamente a quanto aveva statuito il Tribunale di Roma ma conformemente alla posizione della Corte di Appello di Roma) che: “Deve escludersi che nei comportamenti indicati a fondamento della pretesa risarcitoria possano ravvisarsi i tratti tipologici dell'atto politico, come tale sottratto al sindacato giurisdizionale”.
Al riguardo, per qualificare un atto come politico, le Sezioni Unite ricordano che sono necessari alcuni specifici e inderogabili requisiti, fissati peraltro dallo stesso Consiglio di Stato (si richiama la pronuncia Cons. Stato, Sez. IV, 7 giugno 2022 n. 4636; ma si veda anche, precedentemente, Cons. Stato 11 giugno 2018 n. 3550 e Cass. sez. un. 22 settembre 2023 n. 27177):
─ sotto il profilo soggettivo, l'atto deve provenire da un organo preposto all'indirizzo e alla direzione della cosa pubblica al massimo livello;
─ sotto il profilo oggettivo, l'atto deve essere libero nel fine perché riconducibile a scelte supreme dettate da criteri politici, deve concernere, cioè, la costituzione, la salvaguardia o il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione.
Le Sezioni unite hanno poi la premura di sottolineare che: “La nozione di atto politico ha carattere eccezionale, perché altrimenti si svuoterebbe di contenuto la garanzia della tutela giurisdizionale, che la Costituzione assicura come indefettibile e con i caratteri della effettività e della accessibilità”.
Si precisa, infatti, che: “l’impugnabilità dell’atto è la regola”, poiché, ove non fosse così, il potere politico godrebbe di un arbitrio che non è immaginabile in uno Stato di diritto.
E quindi, ancora: “L'esistenza di aree sottratte al sindacato giurisdizionale è confinata entro limiti rigorosi (Cass. Sez. U. 02/05/2019, n. 11588, cit.). Non è, quindi, soggetto a controllo giurisdizionale solo un numero estremamente ristretto di atti in cui si realizzano scelte di specifico rilievo costituzionale e politico; atti che non sarebbe corretto qualificare come amministrativi e in ordine ai quali l'intervento del giudice determinerebbe un'interferenza del potere giudiziario nell’ambito di altri poteri (Cons. Stato, Sez. V, 27 luglio 2011, n. 4502)”.
In concreto, poi, per le Sezioni unite fondamentale è verificare se l’atto in questione si inserisce in un contesto: “di interessi giuridicamente rilevanti”, o, al contrario: “si è in presenza di interessi di mero fatto”; e ciò perché: “L'insindacabilità è il predicato di un atto non sottoposto dall'ordinamento a vincoli di natura giuridica. Ove, viceversa, vi sia predeterminazione dei canoni di legalità, quello stesso sindacato si appalesa doveroso”.
Lo afferma, per le Sezioni unite, anche la Corte Costituzionale con la sentenza 2 aprile 2012 n. 81: “Quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto”; cosicché: “L’azione del Governo, ancorché motivata da ragioni politiche, non può mai ritenersi sottratta al sindacato giurisdizionale quando si ponga al di fuori dei limiti che la Costituzione e la legge gli impongono, soprattutto quando siano in gioco i diritti fondamentali dei cittadini (o stranieri), costituzionalmente tutelati”.
Sulla base di queste premesse, concludono le Sezioni unite: “va certamente escluso che il rifiuto dell’autorizzazione allo sbarco dei migranti soccorsi in mare protratto per dieci giorni possa considerarsi quale atto politico sottratto al controllo giurisdizionale”.
Si riporta il passo motivazionale finale contenuto nell’ordinanza: “Non lo è perché non rappresenta un atto libero nel fine, come tale riconducibile a scelte supreme dettate da criteri politici concernenti la costituzione, la salvaguardia o il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura e nella loro coordinata applicazione. Non si è di fronte, cioè, ad un atto che attiene alla direzione suprema generale dello Stato considerato nella sua unità e nelle sue istituzioni fondamentali. Si è in presenza, piuttosto, di un atto che esprime una funzione amministrativa da svolgere, sia pure in attuazione di un indirizzo politico, al fine di contemperare gli interessi in gioco e che proprio per questo si innesta su una regolamentazione che a vari livelli, internazionale e nazionale, ne segna i confini. Le motivazioni politiche alla base della condotta non ne snaturano la qualificazione, non rendono, cioè, politico un atto che è, e resta, ontologicamente amministrativo”.
3. La giurisdizione tra atto politico e atto amministrativo
Che dire?
Premetto che, anche a mio avviso, la giurisdizione nel caso di specie andava ritenuta esistente.
Tuttavia, par evidente, che la distinzione tra un atto politico e un atto amministrativo con motivazioni politiche è assai labile, e certo si basa su una esegesi che non può considerarsi solo tecnica, o meramente giuridica.
Non si può negare, infatti, che il giudice, nel momento in cui deve qualificare un atto in un senso o nell’altro, possiede un’ampia discrezionalità, che lo può condurre ad una decisione oppure alla sua contraria senza per questo incorrere in gravi vizi logici o in conclusioni contra legem.
Se vogliamo offrire una dimostrazione di ciò, possiamo infatti asserire che, pur muovendo dalle stesse premesse dalle quali le Sezioni unite si sono mosse, si poteva benissimo giungere a contrapposte conclusioni con poche varianti di ragionamento.
Se infatti è politico, secondo lo stesso orientamento del Consiglio di Stato richiamato dalle Sezioni unite, un atto che proviene da un organo preposto alla direzione della cosa pubblica al massimo livello, allora lì facilmente si sarebbe potuto concludere che l’atto/comportamento in oggetto era da considerare politico in quanto posto in essere dal Ministro dell’interno e dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, ovvero da organi dello Stato al massimo livello; e parimenti se è politico l’atto che attiene alla direzione suprema generale dello Stato quando è finalizzato a la costituzione, la salvaguardia o il funzionamento dei pubblici poteri nella loro organica struttura, allora lì egualmente si sarebbe potuto concludere che l’atto, in quanto finalizzato alla salvaguardia del territorio nazionale e alla determinazione politico/governativa della gestione dei flussi migratori, era di nuovo da considerare politico, e non semplicemente amministrativo, poiché appunto avente finalità e determinazioni politiche.
Le Sezioni unite, invece, con le medesime premesse, arrivano all’opposta conclusione, e considerano che il rifiuto dell’autorizzazione allo sbarco dei migranti soccorsi in mare costituisce atto amministrativo e non politico: “perché non rappresenta un atto libero nel fine, come tale riconducibile a scelte supreme dettate da criteri politici”.
Il Tribunale di Roma era andato di contrario avviso ed aveva considerato politico l’atto posto in essere, perché finalizzato al: “perseguimento del preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo ai sensi dell’articolo 9, comma 3 della Legge costituzionale n. 1 del 1989”.
Il discorso crediamo sia chiaro.
Non si tratta in questa sede di stabilire se l’atto in questione ha natura amministrativa oppure politica; si tratta di constatare come la qualificazione dell’atto/comportamento in un senso o nell’altro ha, essa stessa, connotati politici, e ciò nel senso che l’esegesi della fattispecie può indurre, senza errori di percorso logico, a diverse conclusioni, cosicché l’esito dell’attività esegetica, più che essere dipendente dalla realtà obiettiva del sistema giuridico, dipende indiscutibilmente da scelte discrezionali; e la scelta discrezionale delle Sezioni unite è stata quella di considerare l’atto amministrativo e non politico.
4. La sussistenza della giurisdizione quando siano in gioco diritti fondamentali
Le Sezioni unite sono però pienamente condivisibili laddove asseriscono che: “L’azione del Governo, ancorché motivata da ragioni politiche, non può mai ritenersi sottratta al sindacato giurisdizionale quando si ponga al di fuori dei limiti che la Costituzione e la legge gli impongono, soprattutto quando siano in gioco i diritti fondamentali dei cittadini (o stranieri), costituzionalmente tutelati”.
Questo è, a mio parere, un punto centrale.
Poiché, infatti, in uno Stato di diritto, nemmeno gli atti politici possono porsi in violazione dei diritti fondamentali dell’uomo; cosicché, se un atto infrange un diritto fondamentale, esso, a prescindere dalla sua natura, deve in ogni caso sottostare al controllo dell’autorità giudiziaria, in quanto la soluzione contraria attribuirebbe al potere esecutivo una libertà da ancien régime inaccettabile in una democrazia (in questo senso, se si vuole, anche il Consiglio di Stato, 27 luglio 2011 n. 4502).
Ed anzi, in un sistema democratico, la natura politica di una infrazione dei diritti fondamentali e/o costituzionali, costituisce aggravante, e non esimente, del comportamento tenuto, considerato che purtroppo, se volgiamo lo sguardo fuori dall’Italia, vediamo che in più parti del mondo, ancor oggi, vengono commesse le più aberranti ignominie proprio in ragione della politica.
Correttamente quindi le Sezioni unite hanno asserito che: “quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi in ossequio ai fondamentali principi dello Stato di diritto”; peraltro richiamando sul punto la sentenza della Corte Cost. 2 aprile 2012 n. 81.
Le Sezioni unite sono state poi chiare nell’attribuire alla libertà personale il valore di diritto primo inalienabile: “Giova rammentare che la libertà personale, oltre ad essere tutelata dall’art. 13 Cost. quale diritto inviolabile della persona, presidiato dalla riserva di giurisdizione e dalla riserva assoluta di legge, è riconosciuta quale garanzia minima ed imprescindibile di ogni individuo ai sensi dell’art. 3 della Dichiarazione Universale dei Diritti umani del 1948, ha trovato una dettagliata tutela, sul piano regionale in seno al Consiglio d’Europa, ai sensi dell’art. 5 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950, e successivamente, a livello internazionale in seno alle Nazioni Unite, ai sensi dell’art. 9 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966. Da ultimo, l’art. 6 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea sancisce il diritto «alla libertà e alla sicurezza» di «ogni individuo”.
E a fronte della violazione di un diritto inalienabile quale quello della libertà personale la giurisdizione deve quindi necessariamente sussistere, e non è pensabile che il diritto alla libertà personale possa essere bilanciato, e quindi compresso, con altre esigenze o altri diritti, ancorché pubblici o diffusi.
Le Sezioni unite hanno scritto al riguardo che non può darsi: “un criterio di bilanciamento tra gli opposti interessi (quello dell’interesse pubblico sottostante alla condotta e quello individuale che ne risulta leso)” poiché: “i diritti della persona (sono) inviolabili e come tali non comprimibili né suscettibili di minorata tutela di compromesso”.
5. La sussistenza della giurisdizione quando una parte faccia valere in giudizio un diritto che abbia (anche solo) astratta tutela giuridica
Direi, inoltre, che l’assunto secondo il quale “quando il legislatore predetermina canoni di legalità, ad essi la politica deve attenersi”, apre poi ad un altro rilievo confermativo della giurisdizione, ovvero a quello secondo il quale il difetto di giurisdizione non può mai darsi quando chi si rivolge al giudice fa valere dinanzi a lui un interesse giuridicamente protetto.
Mi sembra, infatti, che se il legislatore determina dei canoni di legalità, lì non soltanto l’atto soggiace al controllo di conformità alla legge da parte dell’autorità giudiziaria, ma anche l’attore che si rivolge al giudice fa valere in giudizio un diritto soggettivo, o comunque un interesse giuridicamente protetto.
Qui il tema si innesca con gli argomenti che da sempre i processualisti adottano per delimitare i confini del difetto di giurisdizione.
La dottrina ne dà la seguente nozione: “Il difetto assoluto di giurisdizione (o improponibilità assoluta della domanda) nei confronti della pubblica amministrazione, si ha ogni qual volta sia dedotto in giudizio un interesse di fatto, cioè giuridicamente non protetto dal nostro ordinamento né come diritto soggettivo né come interesse legittimo.” (Proto Pisani, Lezioni di diritto processuale civile, Napoli, 2023, 241).
Il difetto assoluto di giurisdizione si ha, così, nelle ipotesi nelle quali la posizione dedotta in giudizio non trova tutela nell’ordinamento, o, detto in modo analogo, “si tratta in definitiva di ipotesi in cui vengono dedotte dinanzi al giudice situazioni soggettive (interessi semplici) che non sono tutelabili in via giurisdizionale, non avendo la consistenza né di diritti né di interessi legittimi” (così Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, Bari, 2019, I, 116).
Questa posizione è anche quella della Corte di Cassazione, sia meno recente (Cass. sez. un. 30 marzo 2005 n. 6635) sia più recente (Cass. sez. un. 1° giugno 2023 n. 15601; Cass. sez. un. 29 maggio 2023 n. 15058); dal che, ai fini della giurisdizione, si tratta di verificare se la pretesa fatta valere in giudizio abbia natura di interesse semplice oppure la consistenza di un diritto tutelato dall’ordinamento; e la valutazione dell’esistenza o meno di questo diritto va fatta in astratto e non in concreto, ovvero si tratta solo di valutare se vi sono, o non vi sono, nell’ordinamento interno e comunitario, norme di protezione, in quanto in concreto la questione cessa di essere di giurisdizione e diventa di merito.
Ora, nel nostro caso relativo al rifiuto del Governo a dare l’autorizzazione allo sbarco dei migranti soccorsi in mare, la giurisdizione sussiste non solo perché il potere esecutivo non può violare i diritti inalienabili della persona, ma anche perché, per converso, chi abbia subito un tale trattamento e si rivolge al giudice, proprio in forza di quel sistema giuridico che l’ordinanza tratta tra le pagine 14 e 34, fa valere in giudizio una posizione soggettiva che afferma essere di diritto, e ai fini della giurisdizione è sufficiente che la parte affermi l’esistenza della (anche astratta) violazione di un diritto soggettivo perché la giurisdizione debba positivamente affermarsi.
Di fronte alla domanda: “sono stato privato della mia libertà personale e chiedo il risarcimento del danno”, il giudice può ritenere fondata o infondata la domanda nel merito, ma non potrà ritenere che non vi sia giurisdizione, poiché ciò può accadere solo dinanzi ad: “un interesse di fatto, cioè giuridicamente non protetto dal nostro ordinamento”.
Dunque, non ho dubbi nell’affermare che nel caso di specie la giurisdizione sussisteva e che quindi sul punto la decisione delle Sezioni unite è pienamente condivisibile.
6. L’ordinanza delle Sezioni unite in punto di legittimazione ad agire
L’avvocatura dello Stato ha poi sollevato una seconda questione processuale, che è quella della legittimazione ad agire.
La questione era posta in questi termini: “non è dato sapere se gli odierni ricorrenti siano o meno realmente i naufraghi coinvolti nella vicenda della U. Diciotti non essendo stata allegata e prodotta alcuna documentazione da cui poter evincere tale circostanza”.
Le Sezioni unite rilevavano immediatamente che: “l’eccezione poneva a ben vedere una questione non di legittimazione attiva, ma di titolarità, dal lato attivo, del dedotto credito risarcitorio”; e a tal fine ricordavano i principi già fissati da Cass. 16 febbraio 2016 n. 2951: “La legittimazione ad agire attiene al diritto di azione, che spetta a chiunque faccia valere in giudizio un diritto assumendo di esserne titolare; cosa diversa dalla titolarità del diritto ad agire è la titolarità della posizione soggettiva, attiva o passiva, vantata in giudizio; quest’ultima è un elemento costitutivo della domanda ed attiene al merito della decisione, sicché spetta all'attore allegarla e provarla, salvo il riconoscimento, o lo svolgimento di difese incompatibili con la negazione, da parte del convenuto”.
Dunque, nel caso di specie non si poneva in verità alcuna questione di legittimazione ad agire, poiché la legittimazione ad agire, anche ai sensi dell’art. 81 c.p.c., si basa sulla sola affermazione della parte attrice, e la parte attrice, ricorrente in Cassazione, aveva affermato di essere titolare del diritto fatto valere in giudizio.
La questione si poneva solo con riguardo alla titolarità della posizione soggettiva, ovvero il giudice doveva accertare se chi agiva in giudizio era veramente colui che era stato privato per nove giorni della libertà personale sulla nave U. Diciotti.
La Corte di Appello di Roma non aveva affrontato la questione in quanto aveva ritenuta la richiesta risarcitoria infondata per altri motivi, cosicché il problema della titolarità della posizione soggettiva era stata considerata assorbita.
Al contrario le Sezioni unite, ritenendo invece fondata la richiesta risarcitoria, dovevano pronunciarsi sull’eccezione dell’Avvocatura dello Stato.
Qui le Sezioni unite si sono liberate della questione argomentando sui limiti delle impugnazioni incidentali condizionate.
Esattamente si legge nell’ordinanza: “nel giudizio di cassazione, è inammissibile il ricorso incidentale condizionato con il quale la parte vittoriosa nel giudizio di merito sollevi questioni che siano rimaste assorbite, ancorché in virtù del principio cd. della ragione più liquida, non essendo ravvisabile alcun rigetto implicito, in quanto tali questioni, in caso di accoglimento del ricorso principale, possono essere riproposte davanti al giudice di rinvio (Cass. 23/07/2018, n. 19503, Rv. 650157 – 01; 06/06/2023, n. 15893, Rv. 668115 – 01; in termini convergenti v. anche Cass. 02/07/2021, n. 18832; 03/02/2020, n. 2334; 12/11/2018, n. 28995”.
Direi che la decisione è ineccepibile: la questione di legittimazione attiva non sussiste mentre quella della titolarità della posizione soggettiva spetta al giudice di merito.
Infine, l’eccezione di difetto di legittimazione ha avuto altresì una coda relativa alla validità della procura.
L’Avvocatura dello Stato aveva eccepito che, stante la mancanza della prova della titolarità del rapporto giuridico dedotto in giudizio, anche la procura alle liti andava considerata nulla.
Le Sezioni unite si sono liberate della questione asserendo che si trattasse di questione processuale assorbita, e come tale inammissibile in Cassazione.
Così si legge nell’ordinanza: “Secondo pacifico indirizzo, infatti, che va qui ribadito, il mancato esame da parte del giudice, di una questione puramente processuale non può dar luogo al vizio di omessa pronunzia, il quale è configurabile con riferimento alle sole domande di merito, e non può assurgere quindi a causa autonoma di nullità della sentenza”.
Da aggiungere che l’eccezione di nullità della procura sembra ultronea, perché la procura era stata correttamente rilasciata dal ricorrente, e solo il tema che si poneva era quello della titolarità o meno del rapporto giuridico; se questa titolarità vi è, allora anche la procura è valida; se non vi è, non è la procura che non è valida, ma è l’assenza della titolarità del rapporto giuridico che inficia il processo.
7. L’ordinanza delle Sezioni unite in ordine al merito dell’azione di risarcimento del danno. Sintesi dei punti principali
Si tratta, a questo punto, di analizzare la decisione di merito.
Nel merito le Sezioni unite riconoscono il diritto del ricorrente ad ottenere il risarcimento del danno, e su questo aspetto decidono in senso contrario alla Corte di Appello di Roma e in modo difforme dalle conclusioni della Procura Generale, che aveva infatti chiesto il rigetto del ricorso.
Esattamente, i punti essenziali ci sembrano i seguenti:
a) la Corte di Appello di Roma aveva ritenuto che il ricorrente non avesse allegato sufficienti profili di colpa dell’amministrazione.
Le Sezioni unite ritengono che le allegazioni siano invece sufficienti.
La Corte di Appello di Roma, al fine di escludere la colpa della pubblica amministrazione, nello stesso passo richiamato dall’ordinanza delle Sezioni unite, aveva infatti rilevato che: “Le Autorità nazionali hanno agito in una situazione di opinabilità idonea quantomeno ad escludere o a ritenere del tutto insufficiente la sussistenza della colpa; la condotta lesiva, risoltasi essenzialmente nel ritardo di dieci giorni nella indicazione del POS (Place of Safety) e nel conseguente diniego della autorizzazione allo sbarco si inserisce in un quadro di forte incertezza delle norme internazionali che regolano la materia dello sbarco a seguito di operazioni di soccorso marittimo: incertezza che ha generato un vero e proprio “conflitto” di attribuzioni, specie tra i paesi rivieraschi, ed ha portato all’emersione di vere e proprie controversie internazionali, come quella avvenuta tra Malta e Italia; mancano in particolare regole chiare circa l’individuazione dello Stato che, dopo il primo soccorso, deve farsi carico dei soggetti tratti in salvo”.
Le Sezioni unite vanno di contrario avviso e ritengono che la normativa sia invece chiara e affatto opinabile; ciò viene spiegato nelle pagg. 17 e ss. dell’ordinanza, ove poi a pag. 21 si precisa: “Alla stregua di tali univoche indicazioni si rivela destituita di fondamento già la premessa da cui muove la Corte d’appello, circa l’«assenza di regole chiare circa l’individuazione dello Stato che, dopo il primo soccorso, deve farsi carico dei soggetti tratti in salvo”. E ancora: “Non può dubitarsi allora che la mancata tempestiva indicazione del POS, unitamente alla decisione di non far scendere i 177 migranti per cinque giorni sebbene la nave fosse già ormeggiata nel porto di Catania, costituisca una chiara violazione della predetta normativa internazionale”.
b) La Corte di Appello di Roma, inoltre, precisava che una cosa è il salvataggio in mare nell’imminenza di un pericolo di vita, altra cosa il diritto di attraccare una nave in porto in una fase nel quale non v’è, per i passeggeri, pericolo di vita.
Scriveva infatti la Corte di Appello di Roma: “Un obbligo giuridico direttamente coercibile può ravvisarsi solo con riferimento all’attività di salvataggio in mare, venendo in rilievo il diritto fondamentale alla vita; l’operazione di soccorso in mare non crea un vero e proprio “diritto di ingresso al porto” o di “diritto di sbarco”; le Convenzioni internazionali SAR e SOLAS e le Linee guida IMO, non impongono agli Stati di consentire illimitatamente l’accesso ai propri porti per imbarcazioni soccorse in mare, mantenendo gli stessi il potere di regolare l’ingresso nei territori su cui esercitano la sovranità”.
Anche questo punto non è condiviso dalle Sezioni unite, che precisano: “La Risoluzione MSC.167(78) del 20 maggio 2004 (Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare) esclude che la nave stessa possa esser considerata un POS, se non temporaneamente (par. 6.13: «Una nave di soccorso non dovrebbe essere considerata un luogo sicuro basandosi unicamente sul fatto che i sopravvissuti non sono più in pericolo immediato una volta a bordo della nave. Una nave di soccorso potrebbe non avere strutture e attrezzature adeguate per supportare altre persone a bordo senza mettere a repentaglio la propria sicurezza o prendersi cura adeguatamente dei sopravvissuti. Anche se la nave è in grado di accogliere in sicurezza i sopravvissuti e può fungere da luogo sicuro temporaneo, dovrebbe essere sollevata da questa responsabilità non appena possono essere prese disposizioni alternative») (v. in tal senso Cass. pen. 16/01/2020, n. 6626, relativa al “caso Rackete”; v. anche Cons. Stato n. 1615 del 2025, in motivazione, par. 35)”.
c) Infine la Corte di Appello di Roma aveva ritenuto infondate le domande anche sotto il profilo della prova del c.d. danno-conseguenza.
Le Sezioni unite non negano che la risarcibilità attiene al danno-conseguenza e non alla lesione dell’interesse giuridicamente protetto; tuttavia asseriscono che: “È anche vero però che tale prova ben può essere offerta anche a mezzo di presunzioni gravi, precise e concordanti”.
Ed inoltre: “In ipotesi, quale quella di specie, di restrizione della libertà personale, i margini di un ragionamento probatorio di tipo presuntivo, ferma restando la non predicabilità di un danno in re ipsa, risultano particolarmente forti, tanto più per una vicenda dai contorni fattuali chiari come quelli di cui si tratta”.
Concludono così le Sezioni unite che: “L’affermazione della Corte (di Appello di Roma) circa la mancanza di allegazione e prova del danno, non dando conto di tali margini di valutazione, appare pertanto applicare un paradigma in contrasto da quello dettato dal ricordato principio”.
8. Tre osservazioni: la relatività nell’interpretazione delle norme che regolano la materia
Siano consentite talune osservazioni anche in ordine alla decisione di merito.
La prima è che, con riferimento ad essa, io credo si possa affermare quanto ho già rilevato con riguardo alla contrapposizione tra atto politico e atto amministrativo in punto di giurisdizione, ovvero ritengo che il sistema giuridico consenta, in questa materia più che in altre, di porre in essere attività esegetiche che, con pari logicità e correttezza, possano portare ora ad una conclusione ed ora ad un'altra; cosicché la questione è tale da non riuscire ad avere una corretta soluzione giuridica senza che questa non sia anche, al contempo, una soluzione discrezionale.
Di nuovo, alcuni esempi.
a) Le Sezioni unite, in primo luogo, a dimostrazione degli errori nei quali sarebbe caduta la Corte di Appello di Roma, richiamano ampia normativa relativa all’obbligo di soccorso in mare, che si trova disciplinato nel: “c.d. Convenzione SOLAS, acronimo di Safety Of Life At Sea, del 1974, ratificata dall’Italia con legge 23 maggio 1980, n. 313), nella Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso in mare (c.d. Convenzione SAR, acronimo per Search And Rescue, anche nota come Convenzione di Amburgo: ratificata dall’Italia con legge 3 aprile 1989, n. 147, ha trovato concreta attuazione con il d.P.R. n. 662 del 1994, che ha attribuito il servizio di ricerca e soccorso alla competenza primaria del Ministero delle infrastrutture e trasporti che, all’uopo, si avvale del Corpo delle Capitanerie di Porto/Guardia costiera), nonché nella Convenzione delle Nazioni Unite di Montego Bay sul Diritto del Mare del 1982 (c.d. Convenzione UNCLOS, acronimo per United Nations Convention on the Law of the Sea, ratificata dall’Italia con legge 2 dicembre 1994, n. 689”.
Queste Convenzioni, tuttavia, sono affermative di principi generali relativi all’obbligo di soccorso in mare; ma restava da vedere se esse potevano applicarsi, e fino a che punto, al caso di specie.
Le domande potevano essere queste:
- i migranti si trovavano in mare, trovandosi in verità in una nave militare italiana dal 16 al 20 agosto e poi nel porto di Catania dal 20 al 25 agosto? Cosa significa trovarsi in mare?
– Erano in pericolo di vita, trovandosi, di nuovo, in una nave militare dal 16 al 20 agosto e nel porto di Catania dal 20 al 25 agosto?
– E ancora, trovandosi in detta situazione, i migranti non erano in un luogo sicuro, c.d. POS?
Dunque la domanda conclusiva poteva essere: la disciplina di quelle convenzioni era interamente applicabile al caso di specie?
Probabilmente sì, è bene hanno fatto le Sezioni unite a ritenerlo, ma è chiaro che, volendo, le Convenzioni potevano essere interpretate diversamente.
Di nuovo la Corte di Appello di Roma aveva invece sostenuto che: “Un obbligo giuridico direttamente coercibile può ravvisarsi solo con riferimento all’attività di salvataggio in mare, venendo in rilievo il diritto fondamentale alla vita; l’operazione di soccorso in mare non crea un vero e proprio “diritto di ingresso al porto” o di “diritto di sbarco”; le Convenzioni internazionali SAR e SOLAS e le Linee guida IMO, non impongono agli Stati di consentire illimitatamente l’accesso ai propri porti per imbarcazioni soccorse in mare, mantenendo gli stessi il potere di regolare l’ingresso nei territori su cui esercitano la sovranità”.
Qualcosa di simile era stata affermata anche dalla Procura Generale: “La Corte di Appello ha correttamente ricostruito i profili giuridici della vicenda in oggetto, non ultimo ha dato atto della insussistenza, in termini di certezza, di un obbligo giuridico – in capo allo Stato competente – di rilasciare il POS ovvero di rilasciarlo entro un determinato termine e secondo determinate modalità”.
b) Le Sezioni unite precisano però che: “la Risoluzione MSC.167(78) del 20 maggio 2004 (Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare) esclude che la nave stessa possa esser considerata un POS, se non temporaneamente”
Ma cosa significa temporaneamente?
I migranti sono stati nella nave nel porto di Catania cinque giorni, dal 20 al 25 agosto 2018.
Cinque giorni, considerata la complessità della situazione, nemmeno negata dalle Sezioni unite, possono essere considerati un tempo superiore a quello che si immagina con l’avverbio temporaneamente?
Le Sezioni unite al riguardo, hanno categoricamente affermato che: “Non può dubitarsi allora che la mancata tempestiva indicazione del POS, unitamente alla decisione di non far scendere i 177 migranti per cinque giorni sebbene la nave fosse già ormeggiata nel porto di Catania, costituisca una chiara violazione della predetta normativa internazionale”.
Tuttavia, si comprende, che a qualcun altro, e nei limiti di quella che è una semplice esegesi delle norme, potrebbe sembrare eccessivo questo giudizio, e potrebbe viceversa ritenere che cinque giorni non siano affatto una chiara violazione della predetta normativa internazionale, soprattutto in considerazione della circostanza che i migranti non si trovavano in mare ma nel porto di Catania, e che non era immaginabile per loro un pericolo di vita.
c) Le Sezioni unite, a conferma delle loro tesi, hanno ricordato la corretta interpretazione che deve darsi dell’art. 5, par. 1, lett f) CEDU, il quale espressamente ammette che la privazione della libertà personale è consentita: “se si tratta dell'arresto o della detenzione regolari di una persona per impedirle di entrare irregolarmente nel territorio, o di una persona contro la quale è in corso un procedimento d'espulsione o d'estradizione”.
Le Sezioni unite, per esclude che tale norma possa giustificare il comportamento tenuto dal Governo italiano in quei giorni, ricorda la sentenza Corte EDU Khlaifia and Others v. Italy, la quale aveva affermato che il nostro sistema giuridico “impone che qualsiasi arresto o detenzione abbia una base legale nel diritto interno e, in via prioritaria, nella Costituzione, essendo necessario, in ossequio al principio di certezza del diritto, che le condizioni limitative della libertà personale siano chiaramente intellegibili e che la legge risulti precisa e prevedibile nella sua applicazione nei confronti dei consociati”.
Sulla base di quella pronuncia le Sezioni unite concludevano che: “L’insussistenza di un provvedimento giudiziario o di una successiva convalida delle scelte governative è di per sé sufficiente ad affermare l’arbitrarietà del trattenimento dei migranti ai sensi dell’art. 5 CEDU, atteso che l’art. 13 della Costituzione prescrive il cumulativo soddisfacimento di entrambe le riserve, di giurisdizione e di legge, affinché possa dirsi integrata una legittima restrizione della libertà personale”.
Ora, è evidente, che a qualcuno questa deduzione delle Sezioni unite potrebbe apparire eccessiva, poiché, letta al contrario, significherebbe che a nessun migrante può essere impedito di (liberamente) entrare nel territorio dello Stato se contro di lui non vi è uno specifico provvedimento giudiziario di restrizione della libertà personale ai sensi dell’art. 13 Cost.
d) In breve, non abbiamo nessuna intenzione di entrare nel merito di queste delicate questioni; rileviamo semplicemente che l’esegesi dei combinati disposti di queste norme e dei suoi orientamenti della giurisprudenza, da adottare ai singoli casi concreti, lasciano all’esegeta ampi margini interpretativi; e in seno a detta discrezionalità interpretativa le Sezioni unite hanno scelto di adottare una soluzione diversa da quella che altri giudici avevano precedentemente adottato.
9. Segue: la pronuncia sembra caduta in ambiti nei quali normalmente il ricorso per Cassazione è inammissibile
Mi sembra, poi, se non erro, che le Sezioni unite, in questa occasione, si siano attribuite dei margini di intervento normalmente considerati preclusi, ovvero mi sembra che le Sezioni unite abbiano pronunciato in ambiti nei quali normalmente il ricorso per Cassazione è inammissibile.
Ciò è quanto meno avvenuto, a mio sommesso parere, in punto di danno-conseguenza e in punto di colpa della pubblica amministrazione.
Esattamente mi sia consentito rilevare quanto segue.
a) Sul danno-conseguenza, se da una parte è vero che la prova poteva esser data anche con presunzioni, dall’altra parte però la decisione sembra non aver tenuto conto dei limiti circa il controllo in Cassazione della valutazione delle prove posta in essere dal giudice di merito.
Basti ricordare che la recente Cass. 22 maggio 2024 n. 14207, nel riaffermare che la valutazione della prova è insindacabile in Cassazione, ha fatto il lungo richiamo di tutti i precedenti conformi, così scrivendo: “Non è consentita in sede di legittimità una valutazione delle prove ulteriore e diversa rispetto a quella compiuta dal giudice di merito, a nulla rilevando che quelle prove potessero essere valutate anche in modo differente rispetto a quanto ritenuto dal giudice di merito (ex permultis, Sez. L, Sentenza n. 7394 del 26/03/2010, Rv. 612747; Sez. 3, Sentenza n. 13954 del 14/06/2007, Rv. 598004; Sez. L, Sentenza n. 12052 del 23/05/2007, Rv. 597230; Sez. 1, Sentenza n. 7972 del 30/03/2007, Rv. 596019; Sez. 1, Sentenza n. 5274 del 07/03/2007, Rv. 595448; Sez. L, Sentenza n. 2577 del 06/02/2007, Rv. 594677; Sez. L, Sentenza n. 27197 del 20/12/2006, Rv. 594021; Sez. 1, Sentenza n. 14267 del 20/06/2006, Rv. 589557; Sez. L, Sentenza n. 12446 del 25/05/2006, Rv. 589229; Sez. 3, Sentenza n. 9368 del 21/04/2006, Rv. 588706; Sez. L, Sentenza n. 9233 del 20/04/2006, Rv. 588486; Sez. L, Sentenza n. 3881 del 22/02/2006, Rv. 587214; e così via, sino a risalire a Sez. 3, Sentenza n. 1674 del 22/06/1963, Rv. 262523, la quale affermò il principio in esame, poi ritenuto per sessant'anni: e cioè che "la valutazione e la interpretazione delle prove in senso difforme da quello sostenuto dalla parte è incensurabile in Cassazione").
E, con più stretto riferimento alle presunzioni, la Corte di Cassazione ha altresì recentemente statuito che: “la valutazione degli indizi compiuta dal giudice di merito è incensurabile non solo quando sia l’unica possibile ma anche quando sia solo una tra le tante plausibili” (così Cass. 22 maggio 2024 n. 14207).
Inoltre nella recentissima Cass. 16 gennaio 2025 n. 1033 si legge: “Il sindacato della Corte di Cassazione sull'attività valutativa delle prove svolta dal giudice di merito è configurabile solo nei casi in cui si applichi il libero apprezzamento in riferimento a una prova, che per legge sia vincolata a determinati criteri di valutazione, o si dichiari di applicare un parametro legale a una prova invece liberamente apprezzabile, senza poter comportare una diversa valutazione della prova da parte del giudice di legittimità”.
Dunque, è pur possibile che la Corte di Appello di Roma abbia errato nel valutare inesistente la prova del danno-conseguenza, ma è parimenti vero, però, se non ci sfugge qualcosa, che la decisione, attenendo alla valutazione della prova, non poteva esser oggetto di controllo in Cassazione.
b) Qualcosa di analogo è successo, sempre a mio sommesso parere, con riguardo alle censure relative alla colpa (o meno) della pubblica amministrazione.
Le critiche che le Sezioni unite muovono alla Corte di Appello di Roma, e che sono contenute nelle pagg. 14/30 dell’ordinanza, sono in gran parte aventi ad oggetto le Convenzioni internazionali in materia, e quindi sono questioni di diritto, ma v’è altresì una parte relativa alla sussistenza o meno della colpa della pubblica amministrazione, che al contrario a me sembra abbia ad oggetto omessi esami di fatti e/o errata motivazione.
Normalmente, la valutazione della colpa è incensurabile in Cassazione, e ricordo genericamente la pronuncia Cass. 7 ottobre 2022 n. 29183: “Ove il giudice di merito, investito da una domanda di risarcimento del danno aquiliano, la rigetti affermando non esservi prova del dolo o della colpa, deve ritenersi inammissibile il motivo di ricorso per cassazione” (conformi, mi sembrano, Cass. 23 luglio 2003 n. 11453; 20 febbraio 2015 n. 3458).
Come spesso avviene, nei ricorsi per Cassazione lo spartiacque tra fatto e diritto è incerto e confuso, e proprio per ciò, in molti casi, la Corte di Cassazione dichiara inammissibili i ricorsi che, sotto l’apparenza della violazione di legge, in verità tendono a chiedere una revisione dei giudizi di fatto.
In questo caso, però, le Sezioni unite non hanno ritenuto inammissibili le questioni, e sono intervenute su aspetti che attenevano alla motivazione.
Si legge infatti nell’ordinanza: “Non appare condivisibile sul punto la motivazione addotta dalla Corte territoriale”; oppure si legge: “È proprio sotto tale profilo che la valutazione di merito appare monca”; oppure ancora sull’errore scusabile, che le stesse Sezioni unite qualificano come accertamento fattuale: “Su tale piano la valutazione della Corte di merito si appalesa del tutto inadeguata e contraddittoria”, ecc…
Dopo la pronuncia a Sezioni unite Cass. sez. un. 7 aprile 2014 n. 8053 è noto che il controllo della motivazione in Cassazione è limitato alla: "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile"; ovvero è limitato ad aspetti che difficilmente potevano ritenersi presenti nella pronuncia della Corte di Appello di Roma.
E dunque, sia consentito affermare, che in questo caso mi sembra si sia andati oltre questi limiti.
10. Segue: le questioni che le Sezioni unite hanno rimesso al giudice del rinvio.
Infine, sia consentito precisare le questioni che le Sezioni unite hanno rimesso al giudice del rinvio.
Non è secondario ricordarle, e a mio parere sono tre, e non sono di poco conto.
Esattamente:
a) la prima è quella del controllo della titolarità del diritto dedotto in giudizio in capo al ricorrente e della conseguenziale regolarità della procura alle liti che è stata rilasciata al difensore.
Posta la distinzione tra legittimazione ad agire e titolarità del diritto, le Sezioni unite hanno rigettata la prima questione e rimessa la seconda al giudice del rinvio: “possono essere riproposte davanti al giudice di rinvio”.
Il giudice del rinvio dovrà quindi accertare che il ricorrente sia effettivamente uno dei migranti presenti nella nave U. Diciotti nei giorni compresi tra il 16 e il 25 agosto 2018, e dovrà parimenti verificare se la procura rilasciata al difensore sia effettivamente attribuibile ad una parte titolare del diritto fatto valere in giudizio.
b) La seconda questione rimessa al giudice del rinvio è quella relativa al c.d. danno-conseguenza.
La Corte di Appello di Roma aveva ritenuto che sul punto non fosse stata fornita la prova.
Le Sezioni unite hanno invece statuito che tale prova “ben può essere offerta anche a mezzo di presunzioni gravi, precise e concordanti”.
Il giudice del rinvio dovrà quindi accertare se questi elementi presuntivi finalizzati alla prova del danno-conseguenza vi sono agli atti oppure no.
c) Ma, direi, il giudice del rinvio, fermo l’accertamento della violazione delle Convenzioni internazionali già acclarata dalla Sezioni unite, dovrà anche valutare in concreto la sussistenza o meno della colpa della pubblica amministrazione, che mi sembra questione, seppur con tutte le precisazioni contenute nell’ordinanza 6 marzo 2025 n. 5992, da ritenere parimenti rimessa al giudice del rinvio.
Ciò si ricava da quanto le Sezioni unite scrivono nelle pagg. 29 e 30 di detto provvedimento.
Esattamente si legge che: “È proprio sotto tale profilo che la valutazione di merito appare monca, non avendo la Corte territoriale in alcun modo valutato se, al netto della discrezionalità attribuita alla P.A. e della flessibilità delle procedure di sbarco, potesse considerarsi comunque ragionevole il forzato trattenimento a bordo della nave (dapprima per effetto del mancato consenso all’attracco in un porto italiano e quindi per il mancato consenso allo sbarco, una volta attraccata la nave al porto di Catania) protratto per dieci giorni, anche in considerazione delle condizioni logistiche legate alle caratteristiche della nave stessa, al numero degli occupanti, alle condizioni di salute degli stessi, alle fasi pregresse della loro drammatica esperienza, alle condizioni climatiche.”
Poi le Sezioni unite hanno aggiunto: “Correlativamente, sotto il profilo della colpa attribuibile all’amministrazione come apparato, si trattava di valutare -e non è stato fatto- se potesse considerarsi oppure no ascrivibile a criteri di normale prudenza e diligenza, specie in considerazione della natura dei diritti in gioco, il convincimento della tollerabilità di un tale prolungamento del trattenimento dei migranti soccorsi a bordo della nave”.
Dunque, a me sembra che le Sezioni unite, a fronte di una valutazione monca del giudice di appello, impongano al giudice di rinvio di accertare se poteva essere ragionevole o no, alla luce di quanto fissato nelle pagine precedente, e al netto della discrezionalità attribuita alla pubblica amministrazione e alla flessibilità delle procedure di sbarco, il forzato trattenimento a bordo della nave protratto per dieci giorni; ed inoltre il giudice del rinvio dovrà accertare se tale comportamento possa ascriversi a normali criteri di prudenza e diligenza oppure no.
11. Brevissime conclusioni
Che dire in due parole conclusive?
Direi che non sono marginali le questioni che il giudice del rinvio dovrà accertare, cosicché non può dirsi che le Sezioni unite abbiano riconosciuto ai migranti, puramente e semplicemente, il diritto al risarcimento del danno.
Mi sembra infatti vi siano ancora elementi non secondari da chiarire.
Mi è sembrato poi singolare che le Sezioni unite si siano pronunciate su questa vicenda prescindendo dalla decisione assunta in sede penale contro Matteo Salvini dal Tribunale di Palermo.
Il Tribunale di Palermo ha letto il dispositivo, con il quale ha ritenuto che il fatto non sussiste, il 20 dicembre 2024; il Tribunale si è dato 90 giorni per il deposito della motivazione; quindi la motivazione è attesa per la data del 20 marzo 2025.
Non so se era il caso di aspettare qualche giorno per depositare questa decisione, al fine di meglio coordinarla con la sentenza penale, che in gran parte attiene ai medesimi fatti e concerne analoghe questioni di diritto.
Decisione vincolata e garanzie procedimentali.
Riflessioni sul rapporto tra garanzie partecipative e natura vincolata del provvedimento amministrativo impugnato (nota a Cons. Stato, sez. III, 7 novembre 2024, n. 8908)
di Ilaria Genuessi
Sommario: 1. Il caso concreto in esame. – 2. La ricostruzione operata dal Consiglio di Stato nella fattispecie in questione. – 3. Cenni in chiave diacronica all’odierno sistema di garanzie partecipative in relazione al procedimento amministrativo. – 4. La disciplina di cui all’art. 21-octies, comma secondo: un inquadramento della previsione normativa – 5. La natura sostanziale, ovvero processuale, della norma. – 6. La portata dell’articolo in relazione alla natura vincolata del provvedimento. – 7. Alcune riflessioni conclusive: la rilevanza dell’apporto partecipativo del privato.
1. Il caso concreto in esame.
La fattispecie concreta in esame vede quale ricorrente una società a responsabilità limitata avente quale attività principale la produzione ed il commercio di prodotti e insaccati a base di carne, la quale otteneva dall’Istituto nazionale di previdenza sociale, per alcuni periodi tra il 2014 e il 2015, l’autorizzazione alla Cassa integrazione guadagni ordinaria in ragione della crisi temporanea di impresa ingenerata dal sequestro giudiziario di un macchinario disposto dall’autorità in conseguenza di un gravissimo incidente sul lavoro occorso ad un dipendente, oltre che della più generale crisi del settore produttivo e della contrazione delle commesse.
Di seguito, nel 2019, tuttavia, la Direzione provinciale dell’I.N.P.S. di Lecce, disponeva la revoca delle autorizzazioni ritenendo fossero «venuti meno i presupposti previsti dalle disposizioni vigenti per la concessione degli ammortizzatori sociali», in particolar modo fondandosi sulle risultanze delle indagini di polizia economico-finanziaria svolte presso il Salumificio medesimo ad opera della Guardia di finanza.
I militari, in dettaglio, ponevano l’accento su di un accordo commerciale sottoscritto dalla società in questione con altra società polacca al fine del trasferimento della produzione all’estero, peraltro contestuale rispetto al periodo di avvio delle procedure per l’accesso ai suddetti ammortizzatori sociali, con il paventato intento di perseguire un significativo abbattimento dei costi di produzione.
A giudizio della Guardia di finanza, in particolare, tale accordo, non sarebbe stato reso noto agli Organi delle procedure, poiché diversamente avrebbe palesato la reale intenzione della società di non riprendere affatto l’attività di produzione in Italia bensì di procedere ad una effettiva delocalizzazione della produzione medesima, mediante il licenziamento di 55 dipendenti dopo aver avuto accesso a tutte le possibili forme di integrazione di integrazione salariale vigenti.
La società ricorrente, pertanto, impugnava la predetta nota di revoca emanata dall’I.N.P.S. innanzi al T.A.R. Puglia – Sezione staccata di Lecce, estendendo poi le medesime censure, mediante motivi aggiunti, avverso la stessa nota informativa della Guardia di finanza a fondamento del provvedimento dell’I.N.P.S.
In primo grado, in particolare, il ricorrente fondava le proprie censure su di una centrale argomentazione avente ad oggetto la frustrazione delle garanzie partecipative ed il difetto istruttorio e motivazionale della nota, rilevando altresì la violazione dell’art. 21-nonies della legge n. 241/1990 per l’inosservanza del termine ivi previsto per l’esercizio del potere di annullamento di ufficio.
Il Giudice di primo grado concludeva, tuttavia, respingendo il predetto gravame sull’assunto per cui, a dispetto dell’allegata inosservanza delle prerogative partecipative, l’impugnato provvedimento di annullamento d’ufficio presentava carattere vincolato, tenuto conto anche delle significative circostanze fattuali riscontrate dalla Guardia di Finanza. Le risultanze de qua, in particolare, venivano poste dall’Ente previdenziale alla base del provvedimento impugnato, nella forma della motivazione per relationem.
Il Giudice di primo grado riteneva che gli esiti dell’attività di indagine – di seguito altresì posti al vaglio della stessa magistratura penale per le gravi ipotesi di reato ipotizzate (art. 640-bis c.p.) – fossero stati adeguatamente valutati sul piano amministrativo dall’Ente previdenziale, nei loro elementi di fatto, palesando nella fattispecie l’evidente insussistenza dei requisiti di legge per l’ottenimento della C.I.G.O.
Rispetto alla specifica censura concernente l’inosservanza del termine di diciotto mesi per l’esercizio dell’annullamento d’ufficio, il T.A.R. riteneva inoltre dovesse ravvisarsi, nel caso di specie, l’ipotesi della falsità rappresentativa, con la conseguenza per cui si potesse prescindere dal termine disposto dal secondo comma dell’art. 21-nonies l. n. 241/1990.
Insorgeva pertanto la società in sede di appello denunciando l’error in iudicando del primo giudice consistente proprio nel non aver ravvisato la violazione delle garanzie partecipative in sede di procedimento di riesame esitato nel suddetto provvedimento di secondo grado.
In particolar modo, la società rilevava l’assenza della comunicazione di avvio del procedimento, così come del contraddittorio endoprocedimentale, lamentando altresì come la motivazione per relationem, nella fattispecie concreta, non sarebbe apparsa soddisfacente; rimarcava, in aggiunta, la violazione del termine invalicabile di diciotto mesi per l’esercizio del potere di riesame in autotutela.
Nel dettaglio, l’appellante palesava la non condivisibilità della tesi per cui il provvedimento avrebbe avuto contenuto vincolato e conseguentemente l’esito dell’attività di riesame sarebbe stato necessitato (e immune da censure) in applicazione dell’art. 21-octies, comma secondo, della legge n. 241/1990.
2. La ricostruzione operata dal Consiglio di Stato nella fattispecie in questione.
Così ricostruita la vicenda in termini di statuizioni di primo e successiva impugnazione in appello, occorre porre in evidenza come il giudizio innanzi al Consiglio di Stato si sia concluso, nel caso di specie, con una declaratoria di fondatezza dell’appello e, dunque, di accoglimento del medesimo, alla luce di una ricostruzione della fattispecie procedimentale ampiamente difforme rispetto a quella operata in prime cure.
In particolar modo, il Supremo Consesso dissente dall’argomentazione centrale esposta dal Giudice di primo grado per cui, nella fattispecie in esame, la comunicazione di avvio del procedimento di secondo grado in questione, in concreto, sarebbe risultata irrilevante, in applicazione del disposto dell’art. 21-octies, comma 2 l. 241/90, assumendo il provvedimento di annullamento d’ufficio un carattere vincolato per l’I.N.P.S. in correlazione alle significative circostanze fattuali riscontrate dalla Guardia di Finanza e di seguito comunicate all’Ente previdenziale.
In altri termini e semplificando – a giudizio del T.A.R. adito – il provvedimento dell’Istituto nel caso in esame avrebbe assunto carattere vincolato sottraendosi per l’effetto alle garanzie partecipative previste dalla legge sul procedimento amministrativo.
Ecco che, proprio in relazione a tale specifica questione, il Collegio in sede di appello rileva una fallacia ricostruttiva nel ragionamento operato dal Giudice di prime cure: infatti, se è vero che l’esito del riesame in autotutela è la decadenza[i]dal regime di integrazione salariale, all’acclarata insussistenza dei presupposti legalmente previsti e tale esito deve necessariamente considerarsi “vincolato” non essendovi spazio utile per il contraddittorio con la parte interessata, ciò non può parimenti dirsi nell’ipotesi in cui sia revocata in dubbio la sussistenza stessa dei presupposti legittimanti, postulante accertamenti in fatto, rispetto ai quali può risultare utile, o meglio necessario, l’apporto partecipativo del destinatario medesimo del provvedimento.
In tal senso, il Collegio giunge ad affermare nella pronuncia in commento che, laddove l’accertamento dei presupposti di fatto del provvedimento richieda un’istruttoria ad hoc, l’apporto partecipativo – a partire dalla comunicazione di avvio del procedimento – deve essere ritenuto rilevante e doveroso, anche laddove si tratti di provvedimenti vincolati, consentendo il confronto procedimentale una più ponderata valutazione dei presupposti sui quali si fonda la determinazione dell’amministrazione.
Ebbene, proprio tale tesi ricostruttiva sostenuta dal Giudice di appello, parimenti adottata in antecedenti pronunce del giudice amministrativo peraltro riprese nella sentenza in commento[ii], consente al medesimo di analizzare la medesima fattispecie concreta oggetto della controversia da altro angolo visuale.
Così, in dettaglio, l’accertamento della carenza dei presupposti per l’accesso al regime di integrazione salariale sarebbe derivato, nel caso di specie, dalla complessa e articolata ricostruzione fattuale operata, in esito alle attività investigative svolte dai militari della Guardia di finanza, di seguito recepita dalla Direzione provinciale dell’I.N.P.S. di Lecce in assenza di qualsiasi ulteriore approfondimento e, soprattutto, di un confronto partecipativo con la società interessata.
In particolare, nell’ambito della nota informativa del Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza di Lecce – sottoposta altresì all’attenzione della magistratura inquirente in sede penale per l’ipotesi di reato di truffa aggravata ex art. 640-bis c.p. – si opera una precisa ricostruzione dei fatti per la quale la paventata crisi temporanea di impresa, addotta dalla Società a fondamento dell’accesso al regime di integrazione salariale e riconducibile asseritamente al sequestro penale della macchina impastatrice, sarebbe stata invero orientata a dissimulare il reale intento di delocalizzazione dell’intera produzione in Polonia, come sarebbe poi avvenuto in virtù dell’accordo commerciale concluso dalla società con una ditta polacca.
Conseguentemente, l’Istituto appellato si sarebbe poi determinato alla revoca delle autorizzazioni alla cassa integrazione guadagni ordinaria sulla scorta della suddetta circostanziata nota informativa della Guardia di finanza, di fatto, dunque, mediante un provvedimento adottato in assenza di qualsivoglia partecipazione del privato e motivato unicamente per relationem[iii].
In sede processuale, tuttavia, la tesi sopra esposta e prospettata dagli investigatori, pur profilandosi dettagliata e doviziosamente corroborata da supporti documentali, veniva sconfessata negli esiti, alla luce della discrasia fattuale emersa grazie alle controdeduzioni ed alla ricostruzione degli eventi offerta dalla società, addotte in giudizio proprio al fine di smentire la tesi degli investigatori (la quale peraltro – occorre precisare – non ha avuto alcun seguito in sede penale)[iv].
In definitiva, proprio tale difformità sul piano fattuale, a giudizio del Collegio, avrebbe posto in evidenza come l’omissione delle garanzie partecipative, e così in primis la mancata comunicazione di avvio del procedimento, nel caso di specie, non sarebbe stata scriminabile in virtù della peculiare disciplina sui vizi non invalidanti, per la precipua ragione per cui l’accertamento dei presupposti di fatto del provvedimento impugnato – nella fattispecie, in particolare, l’assenza di crisi temporanea di impresa e l’intento fraudolento della Società – si sarebbe palesato come lungi dall’essere di agevole esperimento e, al contrario, si sarebbe manifestata l’ipotesi delle “situazioni peculiari e giuridicamente complesse”, al ricorrere delle quali la stessa giurisprudenza amministrativa pretende la piena osservanza delle garanzie partecipative dell’interessato[v].
Pertanto, il Consiglio di Stato, sulla base della dirimente argomentazione predetta, conclude nel senso che la censura che fa leva sull’omissione della comunicazione di avvio del procedimento, nonché sulla frustrazione delle prerogative partecipative, debba ritenersi, nel caso concreto, fondata e assorbente.
A dispetto della disciplina sui vizi non invalidanti, infatti, nella fattispecie in esame il contenuto dispositivo del provvedimento avrebbe potuto (e dovuto) beneficiare dell’apporto partecipativo della società interessata, in particolar modo al fine di chiarire le premesse fattuali strumentali all’accertamento dei presupposti per l’accesso al regime di integrazione salariale (rectius, alla connessa revoca o decadenza dallo stesso)[vi].
In concreto, pertanto, la pronuncia in esame, in riforma dell’impugnata sentenza, accoglie il ricorso introduttivo di primo grado, con conseguente annullamento del provvedimento impugnato, fatta salva l’eventuale riedizione del potere, nel rispetto proprio delle summenzionate garanzie partecipative.
3. Cenni in chiave diacronica all’odierno sistema di garanzie partecipative in relazione al procedimento amministrativo.
Come noto, l’agire della pubblica amministrazione si è tradizionalmente concretizzato nell’emanazione di determinazioni unilateralmente incidenti sulla sfera del cittadino, secondo una logica evidentemente di tipo autoritativo in virtù della finalizzazione dell’azione pubblica al perseguimento dell’interesse pubblico.
Il medesimo potere imperativo e autoritativo concretizzato nel provvedimento amministrativo disvelava, del resto, la posizione di supremazia dell’amministrazione sul cittadino, avente uno status, di fatto, di soggetto “amministrato”, in quanto tale titolare di una posizione giuridica soggettiva di interesse legittimo di tipo oppositivo, inteso come interesse ad opporsi alla validità del provvedimento amministrativo lesivo della sua sfera giuridica[vii].
Di conseguenza, alla luce di tale rapporto vigente tra l’autorità amministrativa ed il soggetto amministrato, non risultava evidentemente nemmeno possibile concepire la sussistenza di un interesse del cittadino alla partecipazione al procedimento amministrativo. Quest’ultimo, peraltro, era inteso quale sequenza di atti strumentali rispetto al provvedimento, unico atto fondamentale dotato di rilevanza esterna, ossia idoneo a cagionare lesioni di posizioni soggettive: si assisteva cioè, in altri termini, ad una sostanziale prevalenza del momento provvedimentale rispetto a quello procedimentale[viii]. In tal senso, gli stessi vizi inficianti gli atti prodromici al provvedimento finale assumevano una rilevanza solamente nel caso di idoneità a compromettere la validità stessa del provvedimento: l’impugnativa del provvedimento necessitava, in altri termini, in tale ipotesi, anche della contestazione dell’atto antecedente, determinante l’invalidità derivata del provvedimento medesimo.
In tale contesto, pertanto, il rapporto tra cittadino e pubblica amministrazione muta in maniera radicale con l’avvento della legge sul procedimento amministrativo: in dettaglio, il Capo III della l. 241/1990, infatti, introduce una disciplina concernente la partecipazione al procedimento da parte dei soggetti interessati[ix]. Ai sensi dell’art. 10 della suddetta legge, in particolare, è finalmente consentito al cittadino, portatore di interessi connessi al procedimento, di sottoporre all’amministrazione competente circostanze, fatti e, in termini generali, documenti e memorie che lo riguardano e, soprattutto, che l’amministrazione è obbligata a prendere in considerazione nell’ambito dell’istruttoria condotta al fine di addivenire alla determinazione finale e conclusiva del procedimento[x].
Ecco che, in tal senso, si riconosce una duplice valenza dell’istituto della partecipazione. Da un lato e in primo luogo, il medesimo realizza una funzione di garanzia per l’amministrato, assicurando tutela e considerazione agli interessi dei cittadini, i quali possono far valere nell’ambito del procedimento interessi diversamente posti in luce nell’ambito di un eventuale successivo processo amministrativo avverso il provvedimento.
Dall’altro lato, inoltre, l’istituto della partecipazione e gli strumenti al medesimo riconducibili e disciplinati nell’ambito della l. n. 241/1990, si pongono quali strumenti di collaborazione del privato rispetto all’attività dell’amministrazione funzionalizzata alla decisione amministrativa, consentendo peraltro, anche in ottica deflativa del contenzioso, di considerare, ponderare e valutare adeguatamente tutti gli interessi implicati nell’emanazione di un provvedimento, limitando altresì eventuali vizi ed errori.
In tal senso, dunque, il procedimento amministrativo stesso viene ad essere inteso come la sede della comparazione e ponderazione dei diversi interessi coinvolti e non assolve più unicamente – come sopra esposto – una funzione meramente strumentale rispetto al provvedimento finale.
D’altra parte, come posto in evidenza anche dalla dottrina[xi], la partecipazione al procedimento è oggi intesa anche quale strumento di democraticità che ha contributo alla transizione da un’amministrazione intesa quale autorità che impone unilateralmente le decisioni al cittadino, ad una connotata da partecipazione, talvolta financo condivisione e collaborazione, oltre che trasparenza in relazione all’esercizio dell’azione amministrativa[xii].
Peraltro, il diritto alla partecipazione si è concretizzato, in primo luogo, nella figura del responsabile del procedimento e nella connessa previsione circa l’obbligo stesso per il responsabile, nell’ambito delle sue funzioni, di dare comunicazione in relazione all’avvio del procedimento ai soggetti destinatari (artt. 6 e 7 l. n. 241/1990) ossia ai soggetti rispetto ai quali il provvedimento avrà effetti diretti, coloro che per legge devono intervenire nel procedimento e che siano quindi identificati o identificabili. L’art 8, di seguito, declina contenuto e modalità di invio della comunicazione di avvio del procedimento[xiii].
Ciò posto, un aspetto al centro del dibattito è stato certamente quello concernente le conseguenze della omessa comunicazione di avvio del procedimento, la quale di norma si concretizzerebbe in una violazione di legge determinante potenziale annullamento del provvedimento per violazione di legge.
È, di seguito, mediante la riforma disposta dalla legge 11 febbraio 2005, n. 15, recante “Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241, concernenti norme generali sull'azione amministrativa” che la previsione di cui all’art. 21-octies della medesima legge sul procedimento di fatto introduce un limite rispetto alla suddetta annullabilità del provvedimento, con uno spostamento del focus dall’illegittimità formale del provvedimento ad una di ordine sostanziale, con l’affermazione di quello che è stato pertanto definito un «principio di prevalenza della correttezza sostanziale dell’atto sulla illegittimità formale»[xiv].
4. La disciplina di cui all’art. 21-octies, comma secondo: un inquadramento della previsione normativa.
Come noto, la sopra menzionata disciplina dei vizi non invalidanti, di cui all’art. 21-octies, comma secondo, della legge n. 241 del 1990[xv], esclude l’annullabilità dei provvedimenti adottati in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, risulti palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato e aggiunge che, indipendentemente dalla sua natura vincolata, il provvedimento non sarebbe annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento sarebbe stato ad ogni modo corrispondente rispetto a quanto concretamente disposto[xvi].
In sostanza, dunque, la norma in oggetto esclude l’annullabilità, in primo luogo, del provvedimento amministrativo vincolato affetto da vizi formali, oltre che di qualsiasi provvedimento viziato da omessa comunicazione dell’avvio del procedimento.
La disposizione pertanto si suddivide in due parti, che occorre prendere in esame singolarmente: la prima a carattere generale e avente ad oggetto qualsiasi violazione delle norme sul procedimento amministrativo e sulla forma degli atti, mentre la seconda più specifica e unicamente riferita alla violazione del disposto di cui all’art. 7 della l. n. 241/90.
La prima parte opera, inoltre, un espresso riferimento ai provvedimenti vincolati; di contro, implicitamente, la seconda parte si rivolge ai provvedimenti discrezionali.
Ancora, occorre rilevare come nella prima ipotesi semplicemente debba risultare palese che il contenuto dispositivo del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, mentre nella seconda incombe altresì sull’amministrazione l’onere di provare l’ininfluenza del vizio.
La portata della norma in questione, pertanto, è apparsa di particolare rilievo considerando, nell’ambito della teoria generale del diritto amministrativo, l’assioma centrale per la materia concernente l’inderogabilità degli effetti delle norme volte a regolare l’attività delle pubbliche amministrazioni, la cui violazione determina automaticamente l’annullabilità del provvedimento amministrativo, in presenza di una seppur minima difformità tra l’atto concretamente adottato ed il relativo modello legale.
Peraltro, occorre precisare come il predetto postulato sia stato, di seguito, posto in dubbio ad opera della stessa più recente dottrina, così come dalla giurisprudenza nella misura in cui si è messo in evidenza come non si ravviserebbe invalidità del provvedimento amministrativo in ipotesi di vizi caratterizzati da uno scarso rilievo della norma violata rispetto agli interessi pubblici implicati nella decisione amministrativa[xvii].
Dovendo brevemente inquadrare l’istituto di cui trattasi in chiave storica si può, in aggiunta, rilevare come in ossequio al principio di legalità, a lungo, il potere amministrativo sia stato riconosciuto in capo all’amministrazione pubblica fintantoché il medesimo si esplicasse nella stretta corrispondenza tra provvedimenti dell’autorità amministrativa e predeterminate previsioni di legge. In particolare, una seppur minima violazione della norma di legge comportava l’illegittimità dell’atto, in assenza, dunque, di una distinzione tra violazione formale e sostanziale delle disposizioni di legge legittimanti l’esercizio del potere amministrativo, considerate in quanto tali vere e proprie norme di ordine pubblico con conseguente sanzione occorrente nel caso di violazione delle stesse.
Con il tempo, tuttavia, si è anche affermata una concezione volta a distinguere l’entità delle violazioni normative e, dunque, tesa a valorizzare un’interpretazione delle norme in senso teleologico; contestualmente si è accentuato il valore di principi quali quello di buon andamento, così come si è sempre più attribuito rilievo al c.d. modello di amministrazione di risultato[xviii].
A tale riforma sul piano normativo concernente l’azione dell’amministrazione, si è peraltro accompagnata una rivoluzione anche sul fronte giurisdizionale implicante un sostanziale spostamento del sindacato del giudice verso il risultato dell’azione amministrativa e nel senso dell’affermazione di una giurisdizione di risultato. Così, in particolare, la medesima dovrebbe essere, da un lato, effettivamente in grado di garantire alla parte tutto quanto spettante sulla base del diritto sostanziale e, dall’altro lato, chiamata a ricomprendere nell’oggetto della cognizione, nel rispetto del principio della domanda, non soltanto l’atto impugnato, bensì la stessa pretesa al bene della vita che il ricorrente mira a conseguire o a conservare e ciò anche al di là della sequenza di atti impugnati.
Ecco dunque che, nell’ambito di tale evoluzione – nella presente sede evidentemente delineata per cenni – l’art. 21-octiescomma 2 può essere letto quale approdo anche nel senso del passaggio da un giudizio sull’atto amministrativo ad un giudizio inerente al rapporto, con l’attribuzione al giudice amministrativo in sede di scrutinio della prerogativa volta a vagliare la funzione amministrativa al di là dell’atto formalmente adottato, potendo il medesimo non procedere all’annullamento, nella misura in cui al ricorrere di determinati presupposti, sia accertata la conformità tra l’atto e la funzione in capo all’autorità amministrativa in senso sostanziale.
In altri termini, in tal senso, si è approdati ad una riconfigurazione del sindacato di legittimità del giudice amministrativo non limitato al singolo provvedimento bensì riferito al potere ed alla complessiva attività dell’amministrazione in riferimento agli interessi perseguiti. D’altra parte, tale concezione consente di evitare che all’annullamento in sede giurisdizionale di un provvedimento per vizio formale consegua una riedizione del potere amministrativo mediante l’adozione di un nuovo atto del medesimo tenore.
Alla base della specifica previsione, del resto, può ravvisarsi il principio – di rilevanza costituzionale – di buon andamento, il quale ulteriormente e più specificamente può declinarsi, con ricadute in ambito sostanziale, bensì anche processuale, nei principi – tra gli altri – di efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa, di conservazione degli effetti giuridici e di raggiungimento dello scopo[xix].
In particolare, sul piano strettamente sostanziale, la previsione di cui trattasi può essere intesa quale norma che di fatto conduce ad una prevalenza del principio di buon andamento stesso su quello di legalità, oltre che di consolidamento della legalità sostanziale, rispetto a quella formale[xx].
Ancora, la norma, sempre in ottica di diritto sostanziale, comporta una rilettura del rapporto tra fattispecie legale ed astratta e provvedimento, quale fattispecie concreta, e conduce pertanto ad una rimeditazione del medesimo schema norma-potere-effetto[xxi], laddove è stabilito che una violazione di una norma di azione non determina l’invalidità del provvedimento adottato.
5. La natura sostanziale, ovvero processuale, della norma.
Ebbene, nella presente sede mette conto rilevare altresì come, nel corso del tempo, si sia originato un vivace dibattito in dottrina, oltre che in giurisprudenza, circa la natura sostanziale, ovvero processuale del suddetto comma secondo dell’art. 21-octies l. n. 241/90.
In primo luogo, ponendo l’attenzione sulla disposizione di cui al primo periodo del secondo comma, occorre notare come la norma non tratti espressamente di illegittimità, bensì di non annullabilità dell’atto. Ne è conseguita, pertanto, un’interpretazione della previsione in senso processuale, secondo la quale il provvedimento sarebbe ad ogni modo illegittimo, sebbene al giudice amministrativo sarebbe precluso annullarlo, con contestuale possibilità pertanto di accordare al privato la tutela risarcitoria.
Secondo tale orientamento giurisprudenziale, in particolare, la norma – in ossequio al principio di legalità inteso in accezione sostanziale e conformemente ai principi di efficacia ed economicità dell’azione amministrativa, così come al più generale principio costituzionale di buon andamento – sarebbe orientata a favorire l’interesse pubblico alla conservazione degli atti amministrativi, dando prevalenza al suddetto interesse, rispetto a quello dell’annullamento di provvedimenti dell’amministrazione pubblica non conformi al relativo modello legale[xxii].
I sostenitori di tale tesi, ancora, hanno posto in rilievo come la volontà del legislatore in rapporto alla norma de qua fosse quella di limitare il potere di annullamento del giudice, pur in presenza di un atto adottato in violazione di norme, nello specifico procedimentali.
Il suddetto orientamento, tuttavia, è stato di seguito superato da una successiva ricostruzione adottata dal giudice amministrativo[xxiii], di stampo sostanzialista a proposito dell’invalidità dell’atto amministrativo, tesa a valorizzare la novella del 2005, quale riforma sistematica del compendio normativo in tema di procedimento amministrativo[xxiv]. Tale impostazione sostanzialista risulterebbe poi ulteriormente supportata dalle innovazioni introdotte dal legislatore sul tema nel 2014, nel senso dell’espressa limitazione del rinvio recato dall’art. 21-nonies al solo primo comma del 21-octies[xxv].
In tal senso, in dettaglio, il secondo comma dell’art. 21-octies è stato interpretato quale espressione di vizi non incidenti sul contenuto dell’atto e, pertanto, non determinanti l’invalidità del medesimo.
Così, il provvedimento amministrativo adottato in violazione di norme relative alla forma (come nell’ipotesi di mancata comunicazione di avvio), ovvero al procedimento, risulterebbe processualmente non annullabile e legittimo sul piano sostanziale.
Tale effetto è stato fondato da taluni basandosi sull’argomentazione della “dequotazione” del vizio di legittimità a mera irregolarità[xxvi]; mentre altri autori, sempre nell’ambito del filone “sostanzialista”, hanno fatto riferimento al meccanismo della c.d. sanatoria ex lege, secondo la quale la disposizione di cui all’art. 21-octies, comma secondo, farebbe discendere dal dato della sostanziale correttezza del provvedimento l’effetto sanante dell’illegittimità procedimentale, così in qualche maniera privilegiando il momento provvedimentale rispetto all’iter procedimentale[xxvii].
In dottrina, pertanto, considerando proprio la disciplina delle invalidità e le relative novità introdotte in proposito dalla menzionata l. n. 15/2005, ci si è domandati se non siano state poste dal legislatore le basi per un ripensamento dell’impostazione propria della l. 241/90 evidentemente fondata sulla centralità del momento procedimentale rispetto a quello provvedimentale, anche in ottica di trasparenza, partecipazione e democraticità. In relazione alle modifiche disposte dalla novella del 2005 – si pensi ad esempio alla specifica ipotesi della mancata comunicazione di avvio al procedimento – sarebbe cioè sorto il dubbio circa la sussistenza o meno di una tendenza volta a riconoscere la prevalenza del momento provvedimentale, della validità del provvedimento e della tutela del suo contenuto, a discapito delle garanzie partecipative in relazione al procedimento[xxviii].
Non si può inoltre non considerare che aderire ad una o all’altra delle tesi sopra prospettate determina poi conseguenze non certo trascurabili anche sul fronte giurisdizionale in termini di pronunce, di merito o di rito, che il giudice amministrativo potrà essere chiamato a rendere per definire il relativo giudizio.
6. La portata dell’articolo in relazione alla natura vincolata del provvedimento.
La stessa questione della natura e della portata della norma in oggetto appare anche strettamente legata a quella dell’ampiezza degli effetti della previsione, in relazione all’esercizio del potere dell’amministrazione che si esplichi in attività vincolata, ovvero discrezionale.
Ecco che, in quest’ottica, l’approdo fondamentale della pronuncia in commento pare in particolare legato alla questione della rilevanza del confronto procedimentale con l’interessato, giudicato in tal senso necessario e imprescindibile, agli effetti della legittimità del provvedimento, anche laddove si tratti di provvedimenti vincolati, nella misura in cui l’apporto partecipativo sia utile per giungere ad un accertamento dei presupposti di fatto del provvedimento stesso che richieda un’istruttoria specifica.
La sentenza, in altri termini, esplicita come la natura vincolata del provvedimento amministrativo non valga ad esimere dall’osservanza delle garanzie partecipative, a partire proprio dalla comunicazione di avvio del procedimento, nell’ipotesi di situazioni peculiari e giuridicamente complesse[xxix].
L’obbligo dell’inoltro della comunicazione dell’avvio del procedimento opererebbe anche nell'ipotesi di provvedimenti a contenuto totalmente vincolato, posto che la pretesa partecipativa del privato riguarderebbe l’accertamento e la valutazione dei presupposti fattuali sui quali si deve comunque fondare la determinazione amministrativa[xxx].
Si consideri inoltre che a tale approdo giurisprudenziale si è evidentemente pervenuti, anche sulla scia del menzionato filone interpretativo[xxxi], considerando in particolare la portata dell’art. 21-octies, comma secondo, della l. sul procedimento amministrativo.
Nel dettaglio, il primo periodo del comma secondo del suddetto articolo in commento opera un riferimento ad una fattispecie generale, con riguardo ad ogni tipologia di vizio che rientri nella categoria delle norme sul procedimento o sulla forma degli atti, fondata, in particolare, sui tre elementi seguenti: la natura formale della norma violata («norme sul procedimento o sulla forma degli atti»); l’ininfluenza del vizio sul contenuto dispositivo del provvedimento e la natura vincolata del provvedimento medesimo.
Rispetto a quest’ultimo profilo, in particolare, occorre precisare se la natura vincolata dell’atto debba essere intesa in senso totale e assoluto, quale provvedimento privo di alternative, in fatto oltre che in diritto, ovvero in senso solo parziale (quale atto vincolato solo nell’an o solo nel quid) e relativo (quale provvedimento con margini di scelta in fatto o in diritto).
In tal senso, al fine di evitare una sproporzionata applicazione della norma de qua, parte della dottrina ha adottato una ricostruzione nel senso predetto maggiormente restrittivo. Così, si è ricondotta la formulazione «natura vincolata del provvedimento» alle fattispecie di provvedimento vincolato nell’emanazione e nel contenuto, nonché a quelli discrezionali quanto ad emanazione, sebbene vincolati in relazione al contenuto. La natura vincolata del provvedimento, in particolare, si riferirebbe all’assenza di alternative giuridiche al provvedimento stesso.
La stessa giurisprudenza amministrativa ha inquadrato in tal senso i provvedimenti vincolati quali atti emanati dall’autorità amministrativa in presenza di presupposti dettati dalla legge, sottratti alla disponibilità delle parti e aventi natura dichiarativa di un effetto direttamente scaturente dalla legge. Tipicamente, tali provvedimenti sarebbero riconducibili a procedimenti: di espulsione di cittadini extracomunitari dal territorio nazionale; di repressione di abusi edilizi; relativi al collocamento a risposo di pubblici dipendenti per raggiunti limiti di età; di inquadramento dei pubblici dipendenti[xxxii].
In giurisprudenza si è posto in evidenza come di fatto tale specifica parte del comma 2 dell’articolo 21-octies avrebbe codificato il depotenziamento dei vizi formali e procedimentali: in tal senso, l’illegittimità non invalidante del provvedimento risulta specificamente subordinata alla sussistenza dei due aspetti della natura vincolata del provvedimento, oltre all’evidenza che il suo contenuto dispositivo non poteva essere difforme da quello adottato, tuttavia, tali elementi possono essere considerati in senso non eccessivamente restrittivo.
Gli stessi provvedimenti vincolati presentano un apprezzamento discrezionale rispetto al quando e al quomodo, con la conseguenza per cui il concetto medesimo di provvedimento vincolato parrebbe flessibile e tale aspetto andrebbe considerato in relazione all’applicazione della disciplina della c.d. illegittimità non invalidante.
In aggiunta, l’ulteriore presupposto individuato dalla norma di cui trattasi, corrispondente all’essere palese che la determinazione adottata non avrebbe potuto essere diversa, implicherebbe un giudizio che non potrebbe che essere emesso a posteriori, peraltro sulla base di una valutazione connotata da evidente opinabilità.
Dalla disposizione, in altri termini, emergerebbe un asservimento delle norme di natura procedimentale rispetto al concreto perseguimento dell’interesse di cui è portatore il privato, connesso al bene della vita che intende conservare od acquisire: in altri termini, laddove nel caso concreto la norma di natura formale o procedimentale non palesi un’efficacia rispetto al raggiungimento del peculiare interesse fatto valere, non vi sarebbe conseguentemente ragione per procedere all’annullamento dell’atto viziato.
In sede giurisdizionale il giudice è pertanto chiamato, in primo luogo ad accertare l’esistenza del vizio di legittimità, qualificando il medesimo come violazione di legge sul procedimento, ovvero sulla forma; di seguito, ad identificare il tipo di funzione e, perciò, la natura vincolata del provvedimento e quale ultimo passaggio occorre valuti se la predetta acclarata violazione abbia interessato il contenuto sostanziale dell’atto impugnato. L’applicazione della norma, dunque, si svolge d’ufficio, nella misura in cui ricompresa tra i motivi del ricorso avverso un provvedimento di natura vincolata una censura formale dell’ordine di quelle esplicitate, al fine di valutare se accoglierla, il giudice amministrativo è chiamato a verificare la concreta incidenza della violazione formale o procedimentale di cui trattasi sul contenuto del provvedimento.
Il secondo periodo del comma 2 dell’articolo 21-octies, invece, individua un’ipotesi specifica, concernente il peculiare vizio della mancata comunicazione dell’avvio del procedimento, fondata su tre presupposti: la mancata comunicazione di avvio e, dunque, la tipicità della norma violata; l’onere della prova in capo all’amministrazione pubblica e l’irrilevanza del vizio rispetto al contenuto del provvedimento.
Certamente, in quest’ultimo caso si tratta di una previsione speciale rispetto a quella di cui al primo periodo del comma, posto che evidentemente l’obbligo di comunicazione di avvio si inserisce tale altre disposizioni normative sul procedimento, prevista in generale all’art. 7 e rientrante nel genus delle violazioni di legge di cui all’art. 21-octies, comma secondo, prima parte[xxxiii].
Tuttavia, i due periodi potrebbero essere inquadrati nel senso di una specialità reciproca: la prima parte del comma poc’anzi presa in esame, infatti, sarebbe a sua volta speciale proprio in ragione dello specifico riferimento ai provvedimenti amministrativi vincolati, mentre la seconda parte ricomprenderebbe anche i provvedimenti discrezionali. Di conseguenza, nel caso di omessa comunicazione di avvio del procedimento, laddove il medesimo presenti natura vincolata, si applicherebbe la prima parte del 2° comma dell’art. 21-octies e non sarebbe disposto l’annullamento dell’atto qualora sia palese che il suo contenuto (sostanziale) non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente adottato; mentre, ove il procedimento abbia natura discrezionale, si procederebbe ad applicare la seconda parte del predetto comma e l’atto non risulterebbe annullabile se l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello concretamente adottato.
7. Alcune riflessioni conclusive: la rilevanza dell’apporto partecipativo del privato.
In definitiva, mediante la specifica previsione di cui all’art. 21-octies della l. 241/90 il legislatore non avrebbe inciso sull’art. 7 della medesima legge esentando dall’obbligo di comunicazione di avvio l’amministrazione pubblica laddove vengano in rilievo provvedimenti vincolati, in altri termini, rendendo legittimi gli atti vincolati non preceduti dalla suddetta comunicazione, ma avrebbe invece escluso la possibilità di annullamento dei predetti provvedimenti, ad opera del giudice, nel caso in cui il contenuto dispositivo «non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato», ponendo in evidenza peraltro la necessità di una specifica valutazione sul punto.
Nel caso di attività vincolata il giudizio è vero che potrebbe presentarsi agevole: alla luce di un quadro normativo di riferimento chiaro e riscontrato l’espletamento di un’istruttoria sui fatti completa, infatti, parrebbe ragionevole desumere che la partecipazione del privato non avrebbe comunque potuto influire sull’esito del procedimento e dunque sul contenuto del provvedimento stesso.
Tuttavia, si ritiene opportuno porre in evidenza anche che, nel caso di attività vincolata, ragionevolmente, l’apporto partecipativo del privato non avrebbe rilevanza sull’esito del procedimento qualora la valutazione dei presupposti di fatto e di diritto sia stata compiuta in maniera completa e corretta dall’amministrazione, così come peraltro direttamente desumibile dalla stessa motivazione dell’atto impugnato.
In tal senso, rileva proprio quanto espresso sul punto dal Collegio nel caso concreto in esame, ovverosia che l’apporto partecipativo del privato – a partire dalla comunicazione di avvio del procedimento – dovrebbe essere ritenuto rilevante e doveroso, anche laddove si tratti di provvedimenti vincolati, consentendo il confronto procedimentale una più ponderata valutazione dei presupposti sui quali si fonda la determinazione dell’amministrazione.
Nel caso di specie – come posto in evidenza nell’apparato motivazionale della pronuncia in commento – il contenuto dispositivo del provvedimento, infatti, avrebbe potuto (rectius, dovuto) beneficiare dell’apporto partecipativo del privato interessato, in particolar modo al fine di chiarire le premesse fattuali necessarie per giungere ad una ponderata determinazione e ciò a maggior ragione ove, come nella fattispecie in questione, il provvedimento sia stato, non soltanto adottato in assenza di qualsivoglia partecipazione del privato, ma altresì motivato unicamente per relationem rispetto alle risultanze dell’attività investigativa svolta.
Così, rispetto allo specifico profilo della comunicazione di avvio[xxxiv], quale istituto ricompreso tra le altre garanzie partecipative annoverate dalla legge sul procedimento, si ritiene condivisibile quanto affermato dalla pronuncia in esame e dal filone giurisprudenziale nell’ambito del quale si inserisce, per cui sussisterebbe l’obbligo di invio della comunicazione di avvio anche nelle ipotesi di provvedimenti a contenuto totalmente vincolato, sulla scorta della considerazione che la pretesa partecipativa del privato riguarda anche l’accertamento e la valutazione dei presupposti sui quali si deve comunque fondare la determinazione amministrativa[xxxv]. In tal senso, come rilevato, non sarebbe rinvenibile alcun principio di ordine logico o giuridico che possa impedire al privato, destinatario di un atto vincolato, di rappresentare all’amministrazione l’inesistenza dei presupposti ipotizzati dalla norma, esercitando preventivamente sul piano amministrativo quella difesa delle proprie ragioni che altrimenti sarebbe costretto a svolgere unicamente in sede giudiziaria[xxxvi].
In definitiva, non si pone in dubbio la rilevanza del principio generale di buon andamento, oltre che dell’art. 21-octies, comma secondo, della l. 241/90 che, nel dettare una disciplina circa i c.d. vizi non invalidanti – come esposto sopra – afferma chiaramente la necessità di dare prevalenza allo scopo ed al risultato, laddove in caso di attività vincolata, il provvedimento adottato non avrebbe potuto essere differente rispetto a quello emesso in violazione di norme sulla partecipazione al procedimento.
Inoltre, si intende altresì porre in evidenza il valore del – parimenti generale – principio di non aggravamento del procedimento correlato alla inevitabile garanzia dei principi di efficienza dell’azione amministrativa e del risultato, cui la questione in oggetto – dell’omissione di garanzie partecipative nell’ipotesi di attività amministrativa vincolata – potrebbe essere ricondotta[xxxvii].
Rammentati i fondamentali principi cardine, essenzialmente finalizzati allo svolgimento di un efficace procedimento amministrativo, tuttavia, si intende sottolineare come la recente pronuncia in oggetto, collocandosi nel solco di un coerente orientamento della giurisprudenza sul punto, assume un particolare valore ed appare condivisibile nella misura in cui, adottando un approccio che conferisce preminenza alla forma, ma soprattutto nel senso della tutela delle istanze del privato, attribuisce alle garanzie partecipative un’importanza determinante nell’adozione di un provvedimento esente da errori dell’amministrazione nella valutazione dei presupposti di fatto, specialmente ove si versi in fattispecie concrete connotate da particolare complessità e con specifico riguardo all’accertamento dei presupposti fattuali[xxxviii].
Come a dire che, nella valorizzazione dei principi suddetti, non pare si possa espandere la portata dalla dell’art. 21-octies, comma secondo, prescindendo dalla natura derogatoria del meccanismo di dequotazione previsto dalla norma rispetto alla regola generale per la quale l’azione amministrativa, orientata alla cura concreta dell’interesse pubblico, deve comunque espletarsi all’interno del perimetro legislativo individuato dalle norme di azione[xxxix]. Con la conseguenza per cui le ipotesi in cui il principio del raggiungimento del risultato venga elevato a canone guida avente prevalenza rispetto alle anzidette norme si ritiene debbano risultare casi limitati, rispetto ai quali si possa sostenere che l’effettività della tutela del privato non venga sacrificata in ragione della prevalenza accordata alla conservazione dell’attività amministrativa compiuta[xl]. La portata di tale tesi interpretativa si ritiene, del resto, potrebbe e dovrebbe essere estesa a tutte le tipologie di procedimento anche particolarmente complesse e delicate[xli].
[i] Rectius, più che di revoca si tratterebbe di annullamento d’ufficio, secondo la configurazione accolta nel giudizio di prime cure e non censurata in appello.
[ii] Si v. specialmente: Cons. Stato, sez. V, 22 dicembre 2014, n. 6235; sez. III, 14 settembre 2021, n. 6288; sez. VI, 23 aprile 2024, n. 3710.
[iii] Sul punto si v. la giurisprudenza, e così tra le altre Cons. Stato, sez. II, 6 maggio 2020 n. 2860, che ha precisato come la motivazione rappresenti contenuto insostituibile della decisione amministrativa, anche in ipotesi di attività vincolata, risultando pertanto in tal senso «inammissibile un’integrazione postuma effettuata in sede di giudizio, mediante atti processuali, o comunque scritti difensivi». Tra le pronunce più recenti sul tema v. Cons. Stato, sez. IV, 1° ottobre 2024, n.7880; sez. V, 25 ottobre 2024, n. 8527. In senso contrario, tra le altre, Cons. Stato, sez. II, 29 aprile 2024, n.3873; sez. V, 20 giugno 2024, n. 5520; sez. V, 23 settembre 2024, n.7724.
[iv] In tal senso, la società ha sconfessato la tesi per cui l’intento sarebbe stato maliziosamente quello di delocalizzare stabilmente l’intera produzione in Polonia avvantaggiandosi, nelle more, del conveniente regime di integrazione salariale: in tal caso, infatti, non si spiegherebbe, a dispetto di quanto rilevato nella nota dalla Guardia di finanza, il dato dei livelli occupazionali della società, tornati agli stessi livelli del 2014, se non superiori, una volta che l’accordo commerciale con la società polacca era giunto alla naturale scadenza, senza esser stato peraltro prorogato.
[v] Per un’analisi di tale orientamento giurisprudenziale si v., in partic., Cons. Stato n. 396 del 2004. Nell’ambito della sentenza, in particolare, conformemente a quanto statuito nella stessa pronuncia in esame, si ritiene fondata ed assorbente la doglianza relativa alla violazione dell’art. 7 della L. n. 241/90 per mancato avviso dell’avvio del procedimento finalizzato alla irrogazione della sanzione nel caso di specie. In particolare, sul punto, i giudici precisano che «Non vi sono, infatti, ragioni per escludere l’applicabilità della norma generale sul procedimento amministrativo di cui all’art.7 della legge n.241/1990 che prevede la comunicazione dell’inizio del procedimento, con le modalità del successivo art. 8, ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti; siffatto onere è escluso nella sola ipotesi di esigenze di particolare celerità di cui va, comunque, dato atto (e nel caso insussistenti atteso che il nulla osta paesaggistico risale al 1994). La norma stessa è inoltre applicabile anche agli vincolati (fra le tante, C.d.S., Sez. V°, 23/2/2000 n.948) in quanto la partecipazione del privato agli accertamenti che precedono siffatto genere di atti può far emergere circostanze ed elementi tali da indurre la P.A. a recedere dall’emanazione del provvedimento finale ovvero a modificarne il contenuto. (…) detta fase procedimentale potrebbe diventare superflua solo quando l’adozione del provvedimento finale sia doverosa per l’amministrazione (oltre che vincolata), quando i presupposti fattuali risultino assolutamente incontestati dalle parti, quando il quadro normativo di riferimento non presenti margini di incertezza sufficientemente apprezzabili, oppure nel caso in cui l’eventuale annullamento del provvedimento finale, per accertata violazione dell’obbligo formale di comunicazione, non privi l’Amministrazione del potere (o addirittura del dovere) di adottare un nuovo provvedimento di identico contenuto (anche in relazione alla decorrenza dei suoi effetti giuridici). E nella specie vanno considerati anche il lungo tempo trascorso dal momento iniziale dell’illecito e la complessità del procedimento, nel corso del quale è anche prevista una perizia per la valutazione del danno; e non vi è dubbio, quindi, che la partecipazione del destinatario della sanzione al relativo procedimento avrebbe potuto, in ipotesi, inserire nella valutazione fatta dall’Amministrazione elementi tali da determinare un suo diverso contenuto, quanto meno sotto il profilo del quantum».
[vi] In un caso analogo lo stesso Consiglio di Stato si è espresso nel senso della necessità di assicurare le garanzie partecipative al procedimento, tenuto conto, in particolare, della complessità della situazione e della gravità degli effetti derivanti dal provvedimento di decadenza. Nella fattispecie il Collegio, in particolare, ha posto in evidenza come l’appellante abbia fornito in giudizio elementi che avrebbero dovuto essere valutati dall’Amministrazione nel corso del corretto procedimento, prima di addivenire all’adozione del provvedimento di decadenza. Tra le garanzie partecipative, in particolare, si pone in luce come dovesse essere rispettata la comunicazione dell’avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della l. 241/90, così come le medesime garanzie partecipative dovessero essere osservate ed assicurate prima del diniego di autorizzazione, quale provvedimento implicato nel caso di specie. In aggiunta, il Collegio giudicante esplicita che la natura vincolata degli atti impugnati non costituisce valido motivo per omettere il rispetto delle garanzie partecipative in situazioni peculiari e giuridicamente complesse come quella analizzata (cfr. Cons. Stato n. 6288/2021).
Si collocano nel medesimo filone interpretativo anche, tra le altre: Cons. Stato, sez. VI, 20 aprile 2000 n. 2443; n. 2953/2004 e n. 2307/2004.
[vii] In argomento, a fronte della sterminata dottrina sull’argomento si v. i fondamentali contributi di: E. Cannada Bartoli, Interesse, in Enc. dir., XXII, Milano, 1972, p. 9; M. Nigro, Ma che cos’è questo interesse legittimo? Interrogativi vecchi e nuovi spunti di riflessione, in Foro it., 1987, p. 478; A. Romano Tassone, Situazioni giuridiche soggettive (diritto amministrativo), in Enc. dir., Aggiorn., II, Milano, 1998, p. 978; A. Travi,Introduzione a un colloquio sull’interesse legittimo, in Dir. amm., 2013, 1-2, pp. 1 ss.; F.G. Scoca, L’interesse legittimo. Storia e teoria, Torino, 2017; N. Paolantonio, Centralità del cittadino ed interesse legittimo (oltre le categorie, per una tutela effettiva: l’insegnamento di Franco Gaetano Scoca), in Dir. proc. amm., 2018, 4, p. 1536.
[viii] Su tale aspetto cfr.; F.G. Scoca, La teoria del provvedimento dalla sua formulazione alla legge sul procedimento, Dir. amm., 1995, 1 ss., 33.
[ix] Per un’analisi della tematica a partire dal pensiero dei padri fondatori si v. senza pretesa di esaustività: A.M. Sandulli, Il procedimento amministrativo, Milano, 1940; M.S. Giannini, Il potere discrezionale della pubblica amministrazione, Milano, 1939; F. Benvenuti, Funzione amministrativa, procedimento, processo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1952, II, pp. 118 ss.; M.S. Giannini, Discorso generale sulla giustizia amministrativa, in Riv. trim. dir. proc., 1963, pp. 1 ss. e pp. 522 ss. con particolare riferimento all’emersione dei cc.dd. interessi procedimentali; M. Nigro, Procedimento amministrativo e tutela giurisdizionale contro la pubblica amministrazione (il problema di una legge generale sul procedimento amministrativo), in Riv. dir. proc., 1980, pp. 261-262; G. Pastori, La disciplina generale del procedimento amministrativo, in Atti del convegno di Varenna, Milano, 1986.
Si v., inoltre, E. Cardi, Procedimento amministrativo, in Enc. giur. Treccani, XXIV, Roma, 1991, pp. 3 e ss.; M. Cartabia, La tutela dei diritti nel procedimento amministrativo: la legge n. 241 del 1990 alla luce dei principi comunitari, Milano, 1991, pp. 51 ss.; F. Fracchia, Manifestazioni di interesse del privato e procedimento amministrativo, in Dir. amm., 1996, 11 ss.; M.A. Sandulli, (a cura di), Codice dell'azione amministrativa, Milano, 2017.
[x] Sull’art. 10 l. 241/90 v. F. Ledda, La partecipazione all'azione amministrativa, in G. Berti - G.C. De Martin (a cura di), Gli istituti della democrazia amministrativa, Milano, 1996, 29 ss. Sempre in tema di partecipazione v., ex multis, S. Cognetti, Quantità e qualità della partecipazione, Milano, 2000; A. Zito, Le pretese partecipative del privato nel procedimento amministrativo, Milano, 1996; per una completa panoramica sugli istituti concretizzanti la partecipazione, anche in ottica comparata, cfr. M. D’Alberti, La 'visione' e la 'voce': le garanzie di partecipazione ai procedimenti amministrativi, in Riv. trim. dir. pubbl., 1, 2000, p. 1.
Sulla partecipazione al procedimento in senso più generale si v. inoltre R. Ferrara, La partecipazione al procedimento amministrativo: un profilo critico, in Dir. amm., 2, 2017, pp. 209 ss.
[xi] Cfr. in merito F. Benvenuti, Il nuovo cittadino, Venezia, 1994; si v. anche sul tema, A. Luce, Il procedimento amministrativo ed il «diritto di partecipazione» nella legge n. 241/90, in Dir. proc. amm., 3, 1996, pp. 552 ss.; L.R. Perfetti, Pretese procedimentali come diritti fondamentali. Oltre la contrapposizione tra diritto soggettivo ed interesse legittimo, in Dir. proc. amm., 2012, 3, pp. 850 ss.
[xii] In argomento si v. tra i contributi più recenti M. Dell'Omarino, La funzione democratica della partecipazione al procedimento: alcune considerazioni a partire dalle recenti riforme in materia di dibattito pubblico, in federalismi.it, 11/2024, pp. 1-23. Per un’analisi circa il dibattito originatosi sul tema della partecipazione del cittadino ai procedimenti amministrativi, già prima dell’entrata in vigore della l. 241/1990, si v., inoltre: G. Pastori, La procedura amministrativa, Milano, 1964; U. Allegretti, L'imparzialità amministrativa, Padova, 1965; S. Cassese, Il privato e il procedimento amministrativo, in Arch. Giur., 1970, 25; M. Chiti, Partecipazione popolare e pubblica amministrazione, Pisa, 1977; M. Nigro, Il nodo della partecipazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1980, 225; E. Cardi, La manifestazione di interessi nei procedimenti amministrativi, Rimini, 1984; S. Cassese, Il cittadino e l'amministrazione pubblica, in Riv. trim. dir. pubbl., 1998, 1015 ss.; C.E. Gallo, voce Soggetti e posizioni soggettive nei confronti della p.a., in Dig. disc. pubbl., Torino, 1999.
[xiii] Per una disamina sul sistema di garanzie partecipative, con riferimento ai diversi ambiti di operatività dell’amministrazione, cfr. tra gli altri: A. Sandulli, La comunicazione di avvio nei procedimenti di tutela del patrimonio storico-artistico, commento a Cons. Stato, sez. VI, 3 gennaio 2000, n. 29, in Giorn. dir. amm., 6, 2000, pp. 583 ss.; F. Saitta, Garanzie partecipative ed 'ansia' di provvedere, Intervento al convegno sul tema: 'Il ruolo dei privati nelle nuove amministrazioni: verso l'emersione di una cittadinanza amministrativa?', Torino, 14-15 giugno 2002, in Nuove autonomie, 3, 2002 pp. 319-336; N. Paolantonio, Autotutela e garanzie partecipative, Nota a Cons. Stato sez. V 3 marzo 2004, n. 1018, in Giust. amm., 2, 2004, pp. 395 ss.; D. Chinello, Adozione del P.R.G. e garanzie partecipative dei privati: quando l'accoglimento di un'osservazione impone la ripubblicazione del piano, in Riv. giur. edilizia, 1, 2004, pp. 195-211; M. Poto, Autorità amministrative indipendenti e garanzie partecipative, in Resp. civ. e prev., 5, 2007, pp. 1143 ss.; F. Castiello, Trasferimento di militari, garanzie partecipative e obbligo di motivazione, in Rivista amministrativa della Repubblica Italiana, 1-2 2008, pp. 63-91; A. Lupo, L'annullabilità del provvedimento amministrativo tra tutela dell'efficenza dell'azione amministrativa e rispetto delle garanzie partecipative, nota a Cons. St., sez. VI, 4 febbraio 2010 n. 520, in Il Foro amm. – CdS, 3, 2010, pp. 667-694; E. Maschietto, Consiglio di Stato e T.A.R. Campania unanimi nella conferma della pienezza delle garanzie partecipative in materia di ordinanze di rimozione rifiuti: i Sindaci sono avvertiti, nota a Cons. Stato, sez. IV, 1 aprile 2016, n. 1301; TAR Salerno, sez. I, 2 aprile 2016, n. 488, in Riv. giur. dell'ambiente, 2, 2016, pp. 299-303; E. Frediani, Le garanzie partecipative nella valutazione di impatto ambientale: strumenti tradizionali e dibattito pubblico, in Le istituzioni del federalismo, 3, 2020, pp. 657-677.
[xiv] Così, in partic., R. Garofoli, Manuale di diritto amministrativo, 2017.
[xv] La norma, come noto, testualmente dispone che «Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l’amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato».
[xvi] Sull’art. 21-octies v., ex multis, F. Luciani, Il vizio formale nella teoria dell’invalidità amministrativa, Torino, 2003; G. Bergonzini, Art. 21-octies della legge n. 241 del 1990 e annullamento d’ufficio dei provvedimenti amministrativi, in Dir. amm., 2007, 2, pp. 231 ss.; R. Ferrara, La partecipazione tra «illegittimità» e «illegalità». Considerazioni sulla disciplina dell’annullamento non pronunciabile, in Dir. amm., 2008, 103 ss.; P. Lazzara, Contributo alla discussione sui vizi di forma e di procedimento di cui all’art. 21-octies, l. 241 del 1990, in Foro amm.-CdS, 2009, 190 ss.; F. Trimarchi, Rilevanza condizionata dei vizi di legittimità, in Dir. proc. amm., 2010, 1117 ss.
[xvii] Si fa riferimento, in particolare, alla teoria della c.d. «irregolarità per minimalità». In dottrina v. sul punto F. G. Scoca, I vizi formali nel sistema delle invalidità dei provvedimenti amministrativi, in V. Parisio (a cura di), Vizi formali, procedimento e processo, Milano, 2004, laddove si è posto in evidenza che «La garanzia della posizione giuridica del privato non poteva essere più affidata alla regolarità formale dell’azione amministrativa»; V. Cerulli Irelli, Innovazioni del diritto amministrativo e riforma dell’amministrazione. Introduzione”, in Annuario 2002, Milano 2003, p. 14.
Nella giurisprudenza cfr. Cons. Stato, sez. V, 5 luglio 1991, n. 999, per cui «le violazioni delle norme che disciplinano il procedimento per l’emanazione di un certo provvedimento producono l’illegittimità del provvedimento finale solo se ledono gli interessi sostanziali alla tutela dei quali, la disciplina del procedimento è preordinata; pertanto, non sono ammissibili motivi di censura del provvedimento con i quali si alleghino mere irregolarità procedurali, senza alcuna derivata lesione della normativa sostanziale del settore».
[xviii] In proposito si v. la rilevanza che ad oggi ha assunto il principio del risultato rispetto all’azione amministrativa, anche in specifici settori e ambiti nei quali il medesimo è stato particolarmente valorizzato e codificato: così nel recente d.lgs. 36/2023 e s.m.i. recante “Codice dei contratti pubblici in attuazione dell'articolo 1 della legge 21 giugno 2022, n. 78, recante delega al Governo in materia di contratti pubblici”, ove all’art.1, nella prima parte specificamente dedicata ai principi ed in senso innovativo anche rispetto al Codice previgente, si dispone al comma 1 che «Le stazioni appaltanti e gli enti concedenti perseguono il risultato dell’affidamento del contratto e della sua esecuzione con la massima tempestività e il migliore rapporto possibile tra qualità e prezzo, nel rispetto dei principi di legalità, trasparenza e concorrenza». Inoltre, è esplicitato che «Il principio del risultato costituisce attuazione, nel settore dei contratti pubblici, del principio del buon andamento e dei correlati principi di efficienza, efficacia ed economicità. Esso è perseguito nell’interesse della comunità e per il raggiungimento degli obiettivi dell’Unione europea» (comma 3). Ancora, «il principio del risultato costituisce criterio prioritario per l’esercizio del potere discrezionale e per l’individuazione della regola del caso concreto, nonché per: a) valutare la responsabilità del personale che svolge funzioni amministrative o tecniche nelle fasi di programmazione, progettazione, affidamento ed esecuzione dei contratti; b) attribuire gli incentivi secondo le modalità previste dalla contrattazione collettiva» (comma 4).
[xix] Su cui cfr., a titolo esemplificativo, Cons. Stato, sez. II, 2 novembre 2023, n. 9407, con specifico riferimento, nel caso di specie, al procedimento elettorale.
[xx] In argomento cfr. F. Francario, Garanzia degli interessi protetti e della legalità dell’azione amministrativa, Napoli, 2019, 317 ss.
[xxi] Per un’analisi della relativa teoria generale sul punto si v. E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, a cura di F. Fracchia, 2024, pp. 339 ss.
[xxii] Cfr. in dottrina sul tema M.R. Spasiano, Il principio di buon andamento: dal metagiuridico alla logica del risultato in senso giuridico, inwww.ius-publicum.com, 2011, p. 33.
[xxiii] V. tra le altre pronunce in merito Cons. Stato n. 1307/2007.
[xxiv] Si fa riferimento alla legge 11 febbraio 2005, n. 15. In proposito si v., nell’ambito della sterminata dottrina sulla questione, tra gli altri: R. Chieppa, Il nuovo regime dell’invalidità del provvedimento amministrativo, in www.giustamm.it; F. Fracchia- M. Occhiena, Teoria dell'invalidità dell'atto amministrativo e art. 21 octies l. 241/1990: quando il legislatore non può e non deve, in www.giustamm.it, 2005, p. 1 ss; E. Follieri, L’annullabilità dell’atto amministrativo, in Urb. e app., n. 6/2005, 625 e ss; D.U. Galetta, Notazioni critiche sul nuovo art. 21-octies della l. n. 241/90, in www.giustamm.it, 2005, p. 4 ss.; C. Giacchetti - S. Giacchetti, Una novità nel settore degli OGM: l’illegittimità invalidante/non invalidante creata dall’art. 21 octies della legge n. 241/1990, in Cons. Stato, 9/2005, II, P. 1627; M. Ramajoli, Lo statuto del provvedimento amministrativo a vent’anni dall’approvazione della legge n. 241/90, ovvero del nesso di strumentalità triangolare tra procedimento, atto e processo, in Dir. proc. amm., 2010, 2, pp. 459 ss.
[xxv] Così l’art. 25, comma 2, lett. b) quater del d.l. 12 settembre 2014, n. 133, conv. con modif. dalla l. 11 novembre 2014, n. 164, mediante il quale si è stabilito che il potere di autotutela riconosciuto ai sensi dell’art. 21-nonies della l. 241/90 possa essere esercitato esclusivamente nei confronti dei provvedimenti amministrativi illegittimi ai sensi del primo comma dell’art. 21-octies, dovendo pertanto ritenersi esclusa la possibilità di adottare provvedimenti in autotutela in relazione ad un atto rientrante nelle ipotesi di cui al successivo comma secondo.
[xxvi] Sia la dottrina, che la giurisprudenza, nel momento di entrata in vigore della novella del 2005, si sono interrogate circa la reale portata innovativa della medesima, ovvero se la legge del 2005 di riforma della l. 241 del 1990 sul punto avesse di fatto unicamente codificato la distinzione, già invalsa nella prassi da tempo, tra vizi del provvedimento e mere irregolarità. La posizione prevalente ha inteso le statuizioni in senso innovativo, alla luce della distinzione operata tra mere irregolarità e vizi non invalidanti: così, infatti, nell’ipotesi di irregolarità verrebbe in evidenza, ex ante, la rilevanza marginale delle stesse, in quanto tali non inficianti la validità dell’atto, mentre nel caso dei vizi non invalidanti, la difformità rispetto al paradigma legale di riferimento sarebbe valutabile unicamente ex post, potendo l’attività essere considerata non illegittimità soltanto ove risulti palese che il risultato raggiunto non avrebbe potuto essere differente.
V., inoltre, in dottrina, G. Corso, voce Validità (diritto amministrativo), in Enc. dir., vol. XLVI, Milano, 1993, pp. 103-105, il quale esplicita che «L’interesse del privato, le ragioni della sua tutela vengono (....) richiamati per delimitare la rilevanza del vizio: non l’astratto scostamento dal modello normativo determina l’illegittimità dell’atto, ma solo la difformità che danneggia la parte che lo denunci. La giurisprudenza utilizza in questo caso la nozione di irregolarità o mera irregolarità per escludere che il vizio comporti annullabilità dell’atto».
[xxvii] Cfr. in partic. sulla questione della possibilità di assimilare il difetto di motivazione ad un vizio formale, sanabile ex art. 21-octies, V. Parisio, Motivazione postuma, qualità dell’azione amministrativa e vizi formali, in Foro amm. Tar, 2006, 9, pp. 3087 ss. V., inoltre, in giurisprudenza Cons. Stato, sez III, 30 aprile 2014, n. 2247; T.A.R. Basilicata, I, 23 aprile 2016, n. 431; T.A.R. Sicilia, Catania, III, 5 aprile 2017, n. 711; T.A.R. Puglia, Lecce, III, 23 ottobre 2017, n. 1674.
[xxviii] Così G. Bernardi, Partecipazione al procedimento amministrativo e vizi non invalidanti, in salvisjuribus.it, 2019.
[xxix] Cfr. Cons. giust. amm. Sicilia sez. giurisd., 26 agosto 2020, n. 750, nell’ambito della quale si è precisato che «sarebbe illegittimo il provvedimento vincolato emesso senza che sia stata offerta al destinatario dello stesso provvedimento la preventiva “comunicazione di avvio del procedimento”, ai sensi dell’art. 7 l. n. 241/1990, ove dal giudizio emerga che l'omessa comunicazione del procedimento avrebbe consentito al privato di dedurre le proprie argomentazioni, idonee a determinare l'emanazione di un provvedimento con contenuto diverso».
[xxx] In merito, si v. tra le antecedenti pronunce sul punto del Supremo consesso: Cons. Stato, sez. VI, 23 aprile 2024, n. 3710; sez. III, 14 settembre 2021, n. 6288; sez. V, 22 dicembre 2014, n. 6235. V. altresì T.A.R. Campania, Napoli, sez. II, 19 ottobre 2006, n. 8683, ove in senso non dissimile da quanto affermato dalla sentenza in commento, si è esplicitato come non sarebbe rinvenibile alcun principio di ordine logico o giuridico che possa impedire al privato, destinatario di un atto vincolato, di rappresentare all'amministrazione l'inesistenza dei presupposti ipotizzati dalla norma, esercitando preventivamente sul piano amministrativo quella difesa delle proprie ragioni che altrimenti sarebbe costretto a svolgere unicamente in sede giudiziaria.
[xxxi] In tal senso si v. già Cons. Stato n. 396/2004, ove si è palesato come la natura vincolata degli atti impugnati non rappresenti, ad ogni modo, valido motivo per omettere il rispetto delle garanzie partecipative in situazioni peculiari e giuridicamente complesse. Così, del pari, si è rammentato come la giurisprudenza ammetta la sussistenza dell’obbligo di invio della comunicazione di avvio anche nella ipotesi di provvedimenti a contenuto totalmente vincolato, sulla scorta della condivisibile considerazione che la pretesa partecipativa del privato riguarda anche l’accertamento e la valutazione dei presupposti sui quali si deve comunque fondare la determinazione amministrativa.
Occorre del resto dar conto anche di un opposto orientamento, facente capo ad una sezione del Consiglio di Stato, volta a sostenere che, nel caso di attività vincolata non renderebbe necessaria la formalizzazione di garanzie partecipative, quale la comunicazione di avvio del medesimo procedimento, considerando altresì che la stessa partecipazione del privato non contribuirebbe a determinare un esito differente. In tale ottica si v., tra le altre, Cons. Stato n. 2707/2022 ove si è evidenziato che «l’attività di repressione degli abusi edilizi, mediante l'ordinanza di demolizione, avendo natura vincolata, non necessita della previa comunicazione di avvio del procedimento ai soggetti interessati, ai sensi dell'art. 7 l. n. 241/1990, considerando che la partecipazione del privato al procedimento comunque non potrebbe determinare alcun esito diverso».
Nello stesso senso, tra le pronunce più recenti, T.A.R. Napoli, Campania, sez. IV, 21 marzo 2024, n.1847; T.A.R. Trieste, Friuli-Venezia Giulia, sez. I, 24 luglio 2024, n.244; si segnala, inoltre, come nell’ambito del medesimo filone interpretativo si siano pronunciate di recente le stesse sezioni unite (Cass. civ., sez. un., 13 dicembre 2023, n. 34961) rilevando – rispetto ad un provvedimento con il quale il Consiglio dell'Ordine degli avvocati aveva respinto l'iscrizione all'albo ordinario, previa dispensa dalla prova attitudinale, in quanto l'istante non aveva dimostrato il possesso dei requisiti all'uopo richiesti dalla legge per ottenere l'esonero dalla suindicata prova – che «un provvedimento si ritiene vincolato allorché, non soltanto la scelta dell'emanazione o meno dell'atto, ma anche il suo contenuto, siano rigidamente predisposti da una norma o da altro provvedimento sovraordinato, sicché all'Amministrazione non residui alcuna facoltà di scelta tra determinazioni diverse, non essendo invece ravvisabile nel caso in cui l'emanazione del provvedimento sia collegata ad un atto negoziale proveniente da soggetti privati estranei all'apparato amministrativo, avente forza di legge esclusivamente tra le parti che lo hanno stipulato».
[xxxii] Cfr. a titolo esemplificativo: Cons. Stato, sez. V, 16 novembre 1998, n. 1615; sez. IV, 12 marzo 2001, n. 1382; T.A.R. Lazio, sez. II, 31 gennaio 2001, n. 782.
[xxxiii] V. in partic., tra le altre, T.A.R. Lazio Roma, sez. I, 1° agosto 2006, n. 6693.
[xxxiv] Su cui si v. in dottrina Di Nitto, La partecipazione al procedimento amministrativo, in Riv. trim. dir. pubbl., 1999, III, 731 ss.
[xxxv] In senso conforme, nella giurisprudenza più recente v. anche Cons. giust. amm. Sicilia sez. giurisd., 8 agosto 2024 n. 649. In senso contrario nella dottrina si segnala la posizione di M. Ramajoli, Sulla non occorrenza della comunicazione di avvio del procedimento in caso di adozione di provvedimenti vincolati (nel caso di specie provvedimento sanzionatorio di sospensione immediata della attività di carpenteria), in Giust. amm., 2/2008, pp. 274-279.
[xxxvi] V. in merito, oltre alla pronuncia in commento, T.A.R. Campania Napoli, sez. II, 19 ottobre 2006, n. 8683, ove si è posto in luce che «la necessità della comunicazione di avvio del procedimento ai destinatari dell’atto finale è stata prevista in generale dall’art. 7, l. n. 241 del 1990 non soltanto per i procedimenti complessi che si articolano in più fasi (preparatoria, costitutiva ed integrativa dell’efficacia), ma anche per i procedimenti semplici che si esauriscono direttamente con l’adozione dell’atto finale, i quali comunque comportano una fase istruttoria da parte della stessa autorità emanante. La suddetta fase procedimentale, pertanto, non può essere omessa o compressa per il fatto che si sia in presenza di un provvedimento a contenuto vincolato».
[xxxvii] In una prospettiva sostanzialistica, fondata sulla necessità di mediare tra esigenze di garanzia e di risultato nella prospettiva di un'efficienza pubblica si v. nella giurisprudenza Cons. Stato, sez. V, 22 maggio 2001, n. 2823. In dottrina cfr. M. R. Spasiano, La partecipazione al procedimento amministrativo quale fonte di legittimazione dell'esercizio del potere: un'ipotesi ricostruttiva, in Dir. amm., 2, 2002, p. 283, ove in senso parzialmente contrastante rispetto a quanto posto in evidenza nella pronuncia in commento, si ritiene la suddetta ricostruzione giurisprudenziale in grado di raggiungere un equilibrato «punto di raccordo tra le differenti esigenze indicate, muovendosi in una direzione decisamente sostanzialistica, fondata su una concreta rappresentazione sia delle possibili fattispecie sia delle relative e differenziate problematiche configurabili nell'ipotesi di mancata comunicazione dell'avvio del procedimento amministrativo, sia, infine, delle conseguenze che a ciascuna di esse può riconnettersi. Tutto ciò evidentemente, si fonda su un non comune sforzo ermeneutico, chiaramente ispirato dalla preoccupazione dell'esigenza di ricerca di soluzioni giuste e adeguate, ossia conformi ai principi di cui alla l. 241 del 1990 ed alla successiva evoluzione legislativa di efficacia ed efficienza dell'azione amministrativa, di semplificazione dell'istruttoria, di divieto di aggravio del procedimento, di valorizzazione del risultato concreto perseguito dal titolare della potestà pubblica, di tutela effettiva della posizione sostanziale del soggetto interessato».
Il medesimo A. nell’ambito del contributo rileva del pari come la partecipazione ad ogni modo «non può certo essere considerata come elemento di intralcio ad una presunta efficienza, costituendo invece essa un'esigenza prioritaria di qualificazione della volontà preposta all'esercizio di una funzione pubblica. Ciò che occorre è dunque non solo semplificare, ma rendere più efficaci e moderne le regole partecipative, evitando una loro eccessiva formalizzazione. (…) Pare dunque opportuno sia spostare la partecipazione procedimentale alle fasi che precedono l'adozione di provvedimenti aventi natura esecutiva, sia probabilmente non articolarla in forme normativamente predefinite in modo rigido e molte volte inadeguato, ma riconoscere la libertà delle forme, magari con il rispetto di standard minimi che si pongano, anche a tutela delle responsabilità dei funzionari pubblici e in particolare dei responsabili del procedimento. Libertà di forme naturalmente non implica che le stesse non debbano poi essere passibili di verifica atteso che esse comunque debbono garantire il rispetto sostanziale delle prerogative delle parti e dei principi che regolano l'esercizio dell'attività amministrativa. Occorre peraltro considerare che il rapporto di necessaria presupposizione tra procedimento e partecipazione è soltanto quello che risulta dal Capo III della l. 241 del 1990. Più ampia è la gamma delle possibili forme partecipative e soprattutto (…) sempre più diversificate sono le modalità attraverso le quali un'amministrazione democratica può ricevere il necessario contributo partecipativo e di codeterminazione proveniente dalla comunità sottostante o dall'utenza».
[xxxviii] Sul tema in senso generale si v. le osservazioni di A. Romano, Il cittadino e la pubblica amministrazione, in Studi in memoria di V. Bachelet, I, Milano, 1987, 557 ss.
[xxxix] Di diverso avviso un filone giurisprudenziale recente, nell’ambito del quale si sostiene che la dequotazione dei vizi formali, cristallizzata nell’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990, consenta, in un’ottica di efficienza dell’azione amministrativa, la non annullabilità del provvedimento per vizi formali ininfluenti sulla sua legittimità sostanziale, laddove il riesercizio del potere non avrebbe comunque condotto all’attribuzione del bene della vita richiesto dall’interessato. In tal senso si v. anche Cons. Stato, sez. II, 12 febbraio 2020, n. 1081, che pone in evidenza come le norme in materia di partecipazione procedimentale, non debbano essere lette in senso formalistico, bensì avendo riguardo all’effettivo e oggettivo pregiudizio che la sua inosservanza abbia causato alle ragioni del soggetto privato nello specifico rapporto con la pubblica amministrazione e Cons. Stato, sez. IV, 16 marzo 2023, n. 2757, ove si rileva che le norme in materia di partecipazione procedimentale andrebbero interpretate in chiave sostanzialistica e non formalistica.
[xl] V. in merito D. Profili, Vizi non invalidanti del provvedimento amministrativo e discrezionalità tecnica: un connubio plausibile?, in ildirittoamministrativo.it.
[xli] Così, a titolo esemplificativo, nell’ambito dei procedimenti antimafia, laddove le garanzie partecipative ad oggi risultano sostanzialmente assenti.
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