1. Sono molteplici i profili problematici del decreto-legge sulla sicurezza pubblica del Governo presieduto da Giorgia Meloni (d.l. n. 48/2025). Si può dire che esso sfida irrimediabilmente le caratteristiche essenziali del sistema delle fonti, dell’equilibrio dei poteri del governo parlamentare, e della dialettica tra “autorità” e “libertà” disegnati dalla Costituzione. C’è una stretta connessione tra le tre dimensioni: l’una è legata all’altra, sicché le critiche che riguardano un aspetto si riverberano sugli altri in maniera necessaria e inscindibile, aumentando il tasso di problematicità di scelte legislative che, singolarmente assunte, potrebbero anche avere una ragione politica di sostegno, ma che, tutte insieme, non ne manifestano alcuna se guardate con le lenti della Costituzione. La politica, quella nobile arte del governo di una società, non può sfuggire alle maglie della “Repubblica”, che assicura tutte le manifestazioni concrete della sovranità popolare alle “forme” e ai “limiti” stabiliti dalla Costituzione.
Titolo e Preambolo del d.l. denunciano un contenuto plurimo ed eterogeno: sicurezza pubblica, tutela del personale in servizio, vittime dell’usura, ordinamento penitenziario da un lato; misure di prevenzione e contrasto al terrorismo e criminalità organizzata, beni sequestrati e confiscati e controlli di polizia (capo I); sicurezza urbana (capo II); tutela personale delle Forze di Polizia, Forze Armate, Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco, organismi dei servizi segreti (capo III); vittime dell’usura (capo IV); ordinamento penitenziario (capo V) dall’altro.
Si può obiettare che la giurisprudenza costituzionale ha fino ad ora permesso anche una decretazione d’urgenza dal contenuto non omogeneo e “connotata da notevole latitudine” (sent. n. 146/2024), se – questo l’aspetto che emerge – tra le diverse disposizioni sussiste un legame teleologico, una “omogeneità di scopo”, dando luogo a una “normativa unitaria sotto il profilo della finalità perseguita” (sent. n. 151/2023). Questa precisazione esprime tutte le difficoltà del giudizio di legittimità costituzionale sulla politicità irrelata alla decretazione d’urgenza e, quindi, le contraddizioni che lo stesso giudice delle leggi non riesce a oltrepassare. Resta da dimostrare, tuttavia, che, nel nostro caso, quella condizione sia stata soddisfatta. Quale sarebbe questa ratio? Potrebbe esserlo il cappello, bon à tout faire, della “sicurezza pubblica”?
È stato sostenuto, molto efficacemente, che questo d.l. sarebbe manifestazione di una “ossessione securitaria” del governo e della sua maggioranza parlamentare (V. Manes). Si tratta di un giudizio senza appello. Ma questa lettura, politologica, non può valere a condannare il d.l. in punto di illegittimità. Anzi, rischia di conseguire un esito opposto, contribuendo ad assolverlo, proprio perché potrebbe rappresentare l’alibi politico e la trama unitaria per giustificare le molteplici disposizioni che ne costituiscono l’ossatura.
Nondimeno, nella Relazione di accompagnamento si legge che l’obiettivo è quello di colmare “lacune e criticità” delle normative in materia di politica della pubblica sicurezza coerenti con gli indirizzi del governo “in ambito securitario”. Il ricorso al d.l. serve per “una immeditata e più incisiva risposta sanzionatoria e dissuasiva nei confronti di gravi fenomeni delinquenziali che rappresentano una minaccia per l’ordine e la sicurezza pubblica, determinano una crescente percezione di insicurezza tra i cittadini ed espongono, inevitabilmente, a grave pericolo l’incolumità fisica delle Forze di polizia”.
Una simile giustificazione, se ha un senso sul piano soggettivo dei motivi, non può risolvere la questione della ricerca di una ratio obiettiva alla decretazione d’urgenza e alle disposizioni di carattere ordinamentale che essa introduce. Solo guardando alle nuove fattispecie in materia penale, sono stati contati 11 nuovi reati e 11 nuove circostanze aggravanti. Non era mai accaduto che con un d.l. si modificasse in modo così generoso il nostro sistema sanzionatorio criminale. Se in passato, in questo e in quel precedente, non sono mancati d.l. in materia penale e con disposizioni che, come stavolta, sono entrate in vigore immediatamente, il d.l. n. 48/2025 rappresenta certamente un unicum per la latitudine e l’intensità punitiva esercitati in sol colpo.
2. Sulla sussistenza dei presupposti costituzionali va notato che nel Preambolo – senza alcuna motivazione specifica, come esigerebbe l’art. 15 della legge n. 400/1988 – si gioca con le parole, a volte ritenendo (solo) la “necessità ed urgenza” (riferita alle materie dei capi 1, 2 e 5), a volte considerando la “straordinaria necessità ed urgenza” (in ordine ai contenuti dei capi 3 e 4). Le opposizioni parlamentari hanno denunciato l’assenza dei presupposti, per il fatto di avere, il governo, trasferito i contenuti di un progetto di legge (AC n. 1660, di iniziativa dello stesso esecutivo) in un d.l. prima che quello fosse approvato in via definitiva, “scippando” il Parlamento dei suoi poteri legislativi (la “trasposizione” è avvenuta in passato altre due volte: d.l. n. 149/2013, d.l. n. 238/2000).
Si è realizzata, di nuovo, quella trasformazione del d.l. in un “improprio disegno di legge ad urgenza garantita”, stigmatizzato dalla giurisprudenza perché “sacrifica in modo costituzionalmente intollerabile il ruolo attribuito al Parlamento nel procedimento legislativo” (sent. n. 146/2024).
La contraddizione tra le due vie (legge o decreto) non giustifica la decretazione d’urgenza. A maggior ragione per la gravità delle conseguenze derivanti dall’applicazione immediata delle nuove fattispecie penali. La disomogeneità dei procedimenti sostiene – e, aggiungo, a fortiori – la tesi delle opposizioni parlamentari. Se rapportiamo questo d.l. n. 48/2025 alla prassi delle ultime legislature, emergono le fratture, sempre più larghe, tra il modello costituzionale e la realtà. La decretazione d’urgenza è lo strumento privilegiato di legislazione (oltre il 39% del totale sono leggi di conversione), portato ad effetto mediante votazione di questioni di fiducia (oltre il 59% delle conversioni), sfruttando la scorciatoia del “monocameralismo alternato” (nella XIX Legislatura ha riguardato la totalità dei d.l. approvati dal governo, in tutto 93 casi). Da questo punto di vista, il d.l. n. 48 è solo l’ultimo, e il più grave, in ordine di tempo, di una serie ormai lunghissima di violazioni della Costituzione scritta e performativa.
Le forze di resistenza effettiva sono state, finora, totalmente insufficienti. La giurisprudenza costituzionale, nel campo dei vizi di forma, ha manifestato un atteggiamento di self restraint che non si rinviene nella medesima misura in altre circostanze, nelle quali, di fronte a esigenze sostanziali di protezione dei diritti, viceversa, il “suprematismo giudiziario” ha mostrato i suoi muscoli, ai limiti dello sconfinamento. La politicità della valutazione sui presupposti ha condotto a rendere effettivi i “limiti” costituzionali più volte richiamati solo in situazioni marginali e a fronte di violazioni abnormi: il divieto di reiterazione, la caducazione di singole disposizioni (di d.l. o della legge di conversione) per “evidente” mancanza dei presupposti, la necessaria “omogeneità” tra la causa e il contenuto della decretazione. Ciò nonostante, resta lo sfondo costituzionale che quella giurisprudenza lascia intravvedere, senza riuscire a osservarlo e a giustiziarlo fino in fondo.
3. La pretesa “equiparazione” tra legge ordinaria e decreto-legge è il frutto di una lettura che fraintende il testo della Costituzione, finendo per giustificare la prassi, con il richiamo alla stessa Costituzione, ridotta, però, ad un “pezzo di carta” avente solo valore “riflessivo” della realtà.
Il rapporto tra legge ordinaria e decretazione “avente forza di legge” è quello che corre tra una regola e la sua eccezione. Fin dall’incipit, infatti, l’art. 77 Cost. ricorda che il “governo non può senza delegazione delle camere adottare decreti aventi forza di legge”. La disciplina della decretazione d’urgenza, da questo punto di vista, rappresenta un’eccezione all’eccezione. Non c’è bisogno di ricordare che questo rapporto riflette le caratteristiche del governo parlamentare, che affida alle Camere la funzione legislativa (art. 70 Cost.), e al governo, in situazioni particolari, l’esercizio di poteri di normazione primaria comunque subordinati alla o condizionati dalla legge del Parlamento (artt. 76 e 77 Cost.). Il Parlamento, cioè, come luogo di rappresentanza di tutti gli interessi della Nazione (sent. n. 192/2024), e non solo quelli della maggioranza parlamentare – che, comunque, non è mai il mero riflesso della volontà del governo (anche se taluno risolve la fusione tra la maggioranza parlamentare e il governo in un atteggiamento di servile genuflessione della prima verso il secondo) – nel quale tutte le forze politiche e, soprattutto, le minoranze e l’opposizione devono essere dotate di poteri e strumenti in grado di contrastare le decisioni dell’indirizzo politico governativo.
Le caratteristiche “formali” del d.l., del resto, contraddicono una normazione primaria avente le caratteristiche di quella di cui qui discutiamo. Il d.l. è fonte di “provvedimenti provvisori”, ossia non di norme generali ed astratte, ma, all’opposto di ben diverse “misure concrete” di immediata applicazione senza intermediazione normativa, la cui efficacia è in ragione di un caso straordinario e nei limiti di esso e, perciò, naturalmente “provvisoria”. I decreti-legge non sono adeguati a sostenere normazioni destinate a durare stabilmente. La loro forza deve essere, comunque, necessariamente proporzionata e sufficiente all’emergenza che si tratta di fronteggiare. Su questo punto, la Corte costituzionale ha fatto davvero poco: l’unico caso è stata l’illegittimità della riforma delle province mediante un d.l. annullato proprio per l’insostenibilità costituzionale di introdurre norme stabili con un atto precario (sent. n. 230/2013). Un caso unico? Non è altrettanto eclatante un d.l., come il n. 48/2025, che riscrive – addirittura – molte norme penali che limitano le libertà fondamentali della persona umana?
4. La prassi dell’abuso della decretazione d’urgenza, del monocameralismo alternato e di fatto, delle questioni di fiducia sistematiche, trasforma il governo parlamentare in una forma di “tirannia della maggioranza” contro la quale la Costituzione deve (tornare ad) essere un baluardo insormontabile e, soprattutto, effettivo. Il common (non)sense delle forze politico-parlamentari su questi elementari principi di diritto costituzionale che, quando sono al governo inopinatamente se ne dimenticano e quando all’opposizione altrettanto improvvisamente se ne rammentano, dimostra la “forza negativa” di una convenzione materiale del tutto contra Constitutionem, diventata, per quell’accordo tacito dei partiti, difficilmente sovvertibile. Contro la quale, però, non solo dobbiamo resistere come cittadini, ma come giuristi dobbiamo lottare in nome del “diritto”, l’etica della nostra professione.
Se la Corte costituzionale dichiara la sua impotenza, appare difficile pretendere che a tale situazione supplisca il Presidente della Repubblica. Nessuno può escludere che, in concreto, non siano occorsi interventi (non pubblici, come di consueto) di moral suasion. Ciò che il Presidente della Repubblica fa o non fa è comunque molto, anche se non è sufficiente. Nondimeno, rebus sic stantibus, è credibile che il ruolo politico-costituzionale del Capo dello Stato possa spingersi fino alla soglia di alterare gli equilibri raggiunti, su questi problemi, dalle forze politiche, dal Parlamento e dal governo? Come potrebbe un Capo dello Stato di una Repubblica parlamentare invertire una prassi su cui la classe politica e le stesse istituzioni rappresentative hanno vedute sostanzialmente convergenti? È la “forza normativa” del fatto, lo ripeto, che sta avendo il sopravvento sulla Costituzione scritta e performativa. Il problema, uno dei tanti, è come invertire questo paradosso.
5. L’altro grave vulnus di questo e di tanti altri d.l. è la scrittura di norme materialmente penali. La critica, ovvia e scontata, è che così facendo si viola la riserva di legge assoluta stabilita dall’art. 25.2 Cost. Anche questa argomentazione mostra l’usura alla luce di una prassi istituzionale di segno diametralmente opposto.
S’è certificato (dal Comitato per la legislazione) che, solo in questa Legislatura, sono stati 6 (su 94 emanati) i d.l. contenenti disposizioni penali (nella precedente erano 12 su 146). La latitudine del d.l. n. 48/2025 non è stata finora mai raggiunta, come ho ricordato. La contro obiezione, ora come ieri, da parte dell’attuale maggioranza e del suo governo e di quelli precedenti, è che l’equiparazione tra legge ordinaria e decreto-legge permette di rispettare la riserva di legge.
Nella giurisprudenza Corte costituzionale convivono due argomenti. In uno dei suoi precedenti più impegnativi si può leggere che “non si può affermare, in linea di principio, che i decreti-legge non possano toccare fattispecie e sanzioni penali”. Altrimenti “verrebbe introdotto un limite al contenuto dei decreti-legge non previsto dall’art. 77”, un limite, si aggiunge, “che non può essere desunto dal principio di riserva di legge in materia penale”, perché tale riserva è “osservata anche da atti aventi forza di legge (cfr. sent. n. 194 del 1974), purché nel rigoroso rispetto dei presupposti costituzionali inerenti” (sent. n. 330/1996, p. n. 3.1). In un altro caso, invece, l’art. 25 Cost. è interpretato come un “principio che, secondo quanto reiteratamente puntualizzato da questa Corte, demanda il potere di normazione in materia penale – in quanto incidente sui diritti fondamentali dell’individuo, e segnatamente sulla libertà personale – all’istituzione che costituisce la massima espressione della rappresentanza politica: vale a dire al Parlamento, eletto a suffragio universale dall’intera collettività nazionale (sentenze n. 394 del 2006 e n. 487 del 1989), il quale esprime, altresì, le sue determinazioni all’esito di un procedimento – quello legislativo – che implica un preventivo confronto dialettico tra tutte le forze politiche, incluse quelle di minoranza, e, sia pure indirettamente, con la pubblica opinione” (sent. n. 230/2012, p. n. 7).
Ancora una volta siamo al cospetto di una contraddizione retorica che “nol consente”. Dal punto di vista del giudice delle leggi, però, sarebbe opportuno scegliere in via definitiva quale delle due letture è quella più aderente alla ratio della Costituzione. Una strada da seguire è quella di ribaltare il ragionamento svolto fino ad ora. Non si deve partire dal rapporto tra riserva di legge e decretazione d’urgenza, ma proprio dalla cornice costituzionale di quest’ultimo. Solo riconoscendo che il d.l. è un’eccezione alla legislazione parlamentare si può contestare credibilmente la non assimilabilità tra l’una e l’altra al fine di ricorrere alla sanzione penale. Del resto, il discorso non può essere limitato, esclusivamente, all’interno di un ragionamento intorno alle fonti del diritto, alle riserve di legge, al rapporto tra atti normativi. La “forma” delle fonti presuppone, ancora una volta, determinati rapporti tra i poteri di governo e, cosa per nulla trascurabile come dirò tra poco, una specifica dialettica tra autorità e libertà.
Se la Corte volesse davvero ergersi a “custode della Costituzione” dovrebbe sfruttare l’occasione che le si presenterà a breve per dichiarare, anziché di questa o di quella disposizione, l’illegittimità radicale di un decreto-legge che altera tutti i postulati che sorreggono l’esercizio di questo potere eccezionale, in sé, e in un ambito come quello delle norme incriminatrici.
La forma repubblicana e democratica esige il primato dei valori della persona umana e la determinazione di limiti ai diritti fondamentali mediante atti legislativi che siano il riflesso di tutte le forze politiche e non solo espressione dell’arbitrio di una maggioranza politica e del suo governo. Per questo le riserve di legge sono, innanzitutto, il riconoscimento della funzione legislativa esercitata collettivamente dalle due Camere (art. 70), che solo previa delega legislativa (con determinazione di “principi e criteri direttivi”, per un “tempo limitato” e “oggetti definiti”) o in “casi straordinari di necessità ed urgenza” possono essere affidate a decisioni del governo. La responsabilità di quest’ultimo, nel definire i presupposti della decretazione, non fa venire meno la forza prescrittiva dei principi costituzionali. Mette in moto, per un verso, i meccanismi del controllo politico, della maggioranza e dell’opposizione. Non impedisce, non può farlo, di sottoporre ad uno scrutinio stretto di costituzionalità il rispetto del quadro costituzionale dei valori sostanziali e formali della Repubblica democratica.
Si aggiunge, ad esempio nella Relazione del Comitato per la legislazione, che l’immediata entrata in vigore delle nuove fattispecie penali finirebbe per violare il criterio della previa conoscibilità delle regole, integrando un’ipotesi di “ignoranza inescusabile”, secondo la notissima sent. n. 364/1988 sull’imputabilità penale.
È un argomento serio, ma spuntato. Ancora una volta è la prassi che “nol consente”. Tutti i decreti-legge in materia penale del passato hanno dato luogo a nuovi reati (o aggravanti) di immediata applicazione (come le altre disposizioni). L’argomento, inoltre, determina un cortocircuito. Se la conoscibilità delle norme penali sfavorevoli giustifica l’esistenza di un ragionevole lasso di tempo tra la previsione e la sua efficacia (anche al fine, va aggiunto, di rendere edotte le forze dell’ordine delle nuove fattispecie e per consentire al mondo giudiziario di adeguarsi), come rendere compatibile una simile finalità con l’immediata entrata in vigore del decreto-legge? È evidente che le due esigenze non possono essere conciliate ricorrendo all’art. 77 Cost. Il problema vero, quindi, è un d.l. in materia penale. Proprio le caratteristiche costituzionali di questo mezzo eccezionale di produzione del diritto, la cui forza sta proprio nell’immediatezza della risposta normativa di fronte a casi straordinari di necessità ed urgenza, ne provano la radicale inadeguatezza per offrire risposte sanzionatorie penali a problemi sociali ritenuti cruciali.
Va aggiunto, sviluppando questo ragionamento, che l’imputabilità di un reato è l’altra faccia della sussidiarietà tipica del diritto penale sostanziale: come si può ritenere logicamente compatibile un d.l. (che non abbia le caratteristiche di cui all’art. 77 Cost.) con la concezione che considera la sanzione penale l’extrema ratio cui l’ordinamento ricorre per proteggere la società?
6. Una questione sulla quale, ciò nonostante, non si è adeguatamente riflettuto è la causa su cui il d.l. n. 48/2025 si regge. Quella che dovrebbe rappresentare la ragion d’essere della disciplina, che – secondo il governo – potrebbe mettere al riparo la decretazione da eventuali censure di legittimità costituzionale. Mi riferisco al significato da dare alla “sicurezza pubblica” quale presupposto giustificativo. Questo è il nodo di tutta la vicenda.
Non c’è dubbio che la valutazione sia una questione squisitamente politica, rimessa agli organi titolari dell’indirizzo di maggioranza. Il problema è il senso costituzionale della sicurezza pubblica. Stanno ritornando al pettine, con questo d.l., alcune questioni fondamentali, che vanno alle radici del costituzionalismo. Non c’è bisogno di scomodare Thomas Hobbes per ricordare che la safety of the people è la stessa ragion d’essere dello stato moderno. Fatto si è che la sicurezza è un concetto vago, indeterminato, polisemico, che si presta a qualsiasi utilizzo. Già questo profilo dovrebbe giustificarne un uso molto osservato, ben lontano da quella “ossessione sicuritaria” sventolata come un vessillo dell’insicurezza collettiva da parte del principe di turno.
Se dagli usi impropri e politicamente orientati si passa al diritto costituzionale vigente si può notare che la sicurezza pubblica ha uno statuto giuridico definito, che non corrisponde affatto ad una sorta di “trump card” che può essere calata in qualsiasi occasione, a discrezione di chi è stato scelto dal popolo per governare. È ancora il valore costituzionale della “Repubblica democratica” che non lo permette.
La sicurezza è certamente uno dei valori costituzionali. Ma il suo “peso” in rapporto agli altri valori è quello proprio dei “concetti-limite”. Una dottrina della Costituzione come tavola di valori o di principi “equipollenti”, in cui tutti sono bilanciabili, non consente risposte soddisfacenti a questo proposito. È un tema su cui insisto ma, temo, senza troppo seguito. Eppure.
Se nel linguaggio comune sicurezza equivale, in negativo, ad assenza di pericolo e, in positivo, a certezza, in quello giuridico il concetto assume un senso differente se riferito alla sfera privata o alla sfera pubblica. Nella Costituzione essa si trova codificata in entrambe le dimensioni.
Nella sfera pubblica la sicurezza può significare “sicurezza della Repubblica” e “ordine e incolumità pubblica” (non mi occupo della nozione nuova e per certi versi ambigua di “sicurezza urbana”, il cui significato è talora fatto coincidere con quello di ordine pubblico e sicurezza, talora con il più duttile concetto di “governo di prossimità”). Nella prima accezione, la nozione indica un’esigenza di protezione dell’unità e dell’integrità della Repubblica democratica, sia all’esterno, sia all’interno, quale precondizione per l’esistenza di una comunità politica, di uno stato, di una Costituzione. Nella seconda, sicurezza equivale ad uno stato di pacifica e ordinata convivenza. Secondo un’interpretazione che può ritenersi ius receptum in dottrina e nella giurisprudenza – con riferimento all’ambigua nozione di “ordine pubblico” che ha finito per assorbirne le manifestazioni – l’unico modo di rendere costituzionalmente conforme il concetto è quello di tradurlo in senso “materiale” e non “ideale”. La ragion d’essere di norme sulla sicurezza come incolumità pubblica è quella di vietare azioni che possano ledere in concreto beni fondamentali (vita, libertà, proprietà). In questa accezione stretta, la sicurezza pubblica non solo rileva come uno dei compiti dello stato e del diritto (art. 117.2, lett. h), ma è specificatamente assunta dalla stessa Costituzione quando se ne serve per individuare i “limiti” che possono essere legittimamente e in casi limite posti ad alcuni diritti di libertà. Così, l’art. 14.3 quando prevede che “gli accertamenti e le ispezioni” nel domicilio privato possono essere disposti “per motivi (…) di incolumità pubblica” purché “regolati da leggi speciali”; l’art. 16 quando dice che “Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salve le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi (…) di sicurezza (…), aggiungendo che “nessuna restrizione può essere determinata per ragioni politiche”; l’art. 17, in materia di libertà di riunione, quando esplicita che per quelle “in luogo pubblico deve essere dato preavviso alla autorità, che possono vietarle solo per comprovati motivi di sicurezza o incolumità pubblica”; infine quanto alla libertà di impresa economica privata l’art. 41.2 allorché impone che non possa svolgersi “in modo da recare danno alla sicurezza”. Solo la riduzione semantica del “limite implicito” del cosiddetto ordine pubblico al suo significato materiale e non ideale può giustificare restrizioni della fondamentalissima libertà di manifestazione del pensiero, la cui piena garanzia è il termometro di una democrazia effettiva.
Nella dimensione “privata”, la sicurezza va connotata diversamente, a seconda che riguardi la persona umana oppure le sue azioni. Nel primo caso il concetto coincide con la sfera della sicurezza personale, presidiata dalla garanzia dei diritti di libertà personale, domicilio, circolazione e soggiorno, libertà e segretezza delle comunicazioni private. Nel secondo, essa riguarda la sicurezza nello svolgimento di attività umane, come quella sportiva, lavorativa, di istruzione, formazione e ricerca, di intrapresa economica ecc.
7. A quali di questi significati si rivolge il d.l. n. 48/2025? Si parla genericamente di “sicurezza pubblica”: secondo l’intentio, essa concernerebbe la prima delle due dimensioni.
Il punto chiave, però, di là della qualificazione e della latitudine, è che l’interpretazione-attuazione che ne viene data con questo provvedimento è esattamente rovesciata rispetto alle traiettorie della Costituzione. Per essere chiari. In base alla nostra Carta non solo il rapporto tra libertà e sicurezza va inteso in termini di regola a eccezione, ma la sua soluzione va risolta, caso per caso, in maniera proporzionalmente adeguata, nel senso che quanto maggiore è il limite che la sicurezza pubblica richiede nei confronti della sfera della libertà (individuale, sociale, politica), tanto maggiore deve essere la ragione obiettiva che la sorregge. Viceversa, in molte fattispecie del d.l. è la sicurezza pubblica la norma, e l’eccezione è la garanzia dei diritti della persona. Il solo fatto, poi, di evocare una qualsiasi motivazione in termini di sicurezza pubblica viene ritenuta necessaria, sufficiente, e proporzionata a restringere fondamentali diritti della persona. È la più plateale vittoria della forza sulla forma del potere.
Lasciamo ai sociologi e ai criminologi la dimostrazione circa la corrispondenza (astratta o effettiva) tra l’allarme sociale evocato dal governo e la risposta securitaria offerta dal d.l. Quel che mi interessa sottolineare è che in molte delle nuove fattispecie penali la dialettica sicurezza-libertà sia proprio in quei termini invertiti rispetto a quelli di cui la Costituzione ci parla.
I nuovi reati “antiterrorismo” (art. 1) sono la punizione del “terrorismo della parola o dello scritto”: colpiscono chi si procura o detiene o divulga scritti contenenti informazioni su armi, esplosivi et similia. Potrebbe essere perseguito anche uno studente o uno studioso che sta svolgendo ricerche. Si puniscono penalmente, al pari di atti di violenza, fatti di mera disobbedienza civile: come i sit-in contro la costruzione della “tav” (sostituendo la sanzione amministrativa con la reclusione sino a un mese e la multa fino a 300 euro: art. 14), o come le proteste pacifiche negli istituti penitenziari, accomunando alle “rivolte violente” le “condotte di resistenza passiva”, anche quoad poenam ma del tutto irragionevolmente e sproporzionatamente (art. 26). Lo stesso può dirsi per l’assimilazione circa la partecipazione ad “una rivolta” di gruppi di stranieri nei centri di trattenimento (che non sono carceri!) tra “atti di violenza”, “minaccia” e, ancora, “resistenza passiva” (art. 27). Superando lo stesso Codice Rocco si prevede la possibilità di disporre la detenzione (in istituti di custodia attenuata) di donne incinte e madri con prole fino a un anno senza nessun riguardo per i valori della maternità e della neonatalità (art. 15). Gli altri reati e le aggravanti, che portano ad inasprimenti sanzionatori davvero importanti, hanno il senso di restringere i margini delle libertà costituzionali di soggetti vulnerabili, in maniera ingiustificata e sproporzionata se si applicano, caso per caso, oltre al buon senso, i criteri della giurisprudenza costituzionale. Per non parlare della misura di prevenzione del “Daspo Urbano”, oltre che a prostitute, accattoni, ubriachi estesa ai soggetti denunciati o condannati anche con sentenza non definitiva nel corso dei 5 anni precedenti (art. 13).
Le norme, poi, che si riferiscono a speciali forme di tutela nei confronti delle forze di polizia, delle forze armate, dei vigili del fuoco, si presentano del tutto ingiustificate se, per farlo, si assume la categoria della sicurezza pubblica come incolumità dei cives. Il nuovo reato di “lesioni semplici” ai danni di ufficiali e agenti (art. 20), gli incrementi sanzionatori e le sanzioni pecuniarie per il depauperamento e l’imbrattamento di beni mobili e immobili adibiti all’esercizio di funzioni pubbliche (art. 24), la tutela economico-legale per agenti e militari (estesa al coniuge o al convivente del dipendente deceduto, artt. 22 e 23), la tutela delle funzioni istituzionali della Guardia di finanza e delle Forze di polizia che partecipano a missioni internazionali (art. 29 e 30), l’ampliamento delle condotte scriminabili per gli agenti dei servizi di intelligence mediante l’ampliamento dei reati per i quali non è opponibile il segreto di Stato (art. 31), l’autorizzazione al porto d’armi “senza licenza” per gli agenti di pubblica sicurezza quando non in servizio (art. 28), mirano all’incolumità pubblica o alla protezione dei titolari della “forza pubblica”? Dov’è finita quella cultura liberale che aveva ispirato i fondamenti del diritto penale europeo a partire dal nostro Cesare Beccaria?
8. Il fondo del d.l. n. 48/2025 è disvelato. La ratio che ne sorregge la disciplina positiva non è la garanzia dell’incolumità pubblica nel senso costituzionale, ma la “sicurezza dell’autorità” e l’ “insicurezza” di emarginati, fragili, donne, minorenni, migranti, resistenti e oppositori, innalzando limiti arbitrari e sproporzionati all’esercizio di alcune libertà fondamentali, da quella di manifestare liberamente il proprio pensiero, alla libertà di riunione in tutte le sue forme, alla libertà di impresa economica privata (vedi la norma che vieta qualsiasi attività dedicata alla produzione della canapa: art. 18). Un vulnus all’essenza di una democrazia, che proprio le minoranze e le opposizioni dovrebbe presidiare. Se la Costituzione fosse stata considerata, nessuna o quasi delle disposizioni approvate e convertite in legge sarebbe stata scritta così. Ma la prassi politico-parlamentare e il clima complessivo del Paese non lo consentono.
È stato detto che, in molti casi, si tratta di disposizioni prive di effetto, di difficile se non impossibile applicazione. Che però determineranno – va aggiunto – un ulteriore incremento del contenzioso, e aumenteranno, anziché ridurre, l’annoso problema del sovraffollamento carcerario. È del pari chiaro che molte delle previsioni, specie quelle in materia penale, per evidenti ragioni di (non) offensività, indeterminatezza e (non) proporzionalità sanzionatoria saranno destinate a cadere di fronte alla giurisprudenza costituzionale sull’individualizzazione della responsabilità penale.
Il vero problema di questo testo è che rappresenta una minaccia tutt’altro che astratta ma molto concreta nei confronti dello stato di diritto e della garanzia dei diritti di libertà, Uno schiaffo alla Repubblica democratica e alla sua Costituzione. E, quindi, una violenza esercitata nei confronti dei cittadini, cui si promette, in cambio di una minore libertà, una protezione niente affatto rassicurante mediante “il braccio violento di un decreto-legge”.
Sul tema si veda anche: Sul Pacchetto sicurezza varato con decreto-legge, La “speciale” causa di giustificazione per gli agenti dei Servizi di informazione. Note critiche a partire dal D.d.l. “Sicurezza” di Antonio Fabio Vigneri, Il DDL Sicurezza e il carcere di Fabio Gianfilippi, Il diritto penale italiano verso una pericolosa svolta securitaria, È compito della Repubblica. Note sul DDL Sicurezza di Enrico Grosso.
Contributo già apparso qui https://www.associazionedeicostituzionalisti.it/it/la-lettera/04-2025-il-decreto-legge-sicurezza/rovesciare-la-costituzione-performativa-sicurezza-in-cambio-della-liberta.