“Art. 0. (…) Scriviamo con le mani sporche, con le schiene curve di attesa, con gli occhi pieni di futuro.
Art. 1. Basta mura opache! La prigione sia una città dell’anima, uno spazio vivibile, un’architettura che cura, non che annulla. Muri porosi, sezioni luminose, aria che respira.
(…)
Art. 3 Scuola! Scuola! Scuola! Alfabeti come chiavi, lezioni come <<evasione buona>>. Scuola dentro il carcere uguale futuro innescato. Ogni banco è una finestra, ogni libro una crescita.
Art. 4. Il trattamento è cammino”! Ogni pena è un progetto, ogni detenuto è biografia, non numero. Il trattamento è un sentiero di ritorno migliorati, non un corridoio chiuso.
(…)”
dal Manifesto per un carcere futurista della Compagnia SineNOmine

“Senza Titolo” è andato in scena il 2 ed il 3 luglio nella Casa Reclusione di Spoleto, parte ormai tradizionale del programma del Festival dei Due Mondi. Centinaia gli spettatori che, anche quest’anno, hanno varcato le porte del carcere per assistere allo spettacolo realizzato dalla Compagnia Sine Nomine di attori detenuti e liberi. Un impegno grande per l’istituzione, ma insieme un orizzonte di senso che coinvolge tutta la comunità penitenziaria in una attività di preparazione che riempie l’intero anno. Non intrattenimento, ma vero impegno risocializzante.
Quest’anno il testo è un omaggio dichiarato al futurismo, che ad ogni frammento sostituisce i contenuti storici del movimento, con quelli di una ricerca attiva di speranza e di prospettiva, qui e ora, proprio nel carcere del sovraffollamento e della conseguente spersonalizzazione. Senza titolo è allora titolo, e insieme provocazione che, nel lessico penitenziario, richiama una detenzione priva della stessa ragione legale che la giustifichi.
Nella rivista “Lacerba” si leggeva che “nella carne dell’uomo dormono le ali” e questo scrivono gli attori detenuti, su grandi muri bianchi, mentre il pubblico si accomoda nello spazio dell’intercinta, accolto da una scenografia che già parla della genialità di Giorgio Flamini, come sempre deus ex machina della serata.
A sinistra il bianco quasi splendente di tre celle, con insensate aperture geometriche, e insensate chiusure. A destra cinque sedie, nere ed enormi, ognuna un patibolo, ognuna una cattedra, per altrettanti attori. In mezzo un orologio enorme, che ovviamente gira al contrario.
Urlano onomatopee, gli attori, tra il pubblico, ma tra i suoni della velocità, tipici del futurismo, tra le sillabe insensate e bambine, anche tante parole. Insensate, ma non per il luogo in cui siamo: Cellante, Aria, 9999, Appuntà…
Dove siamo? È un carcere, e quindi le regole di senso: “aperti, poi chiusi, poi cancellati…” hanno logiche tutte loro. Se ci facciamo accompagnare capiamo tutto. Cosa ci offrono gli attori detenuti? “Piatti di libertà immaginata”, intelletti “affamati di futuro”, “ottimismo a luci spente”.
Si incontrano i dialoghi, dolorosi e umanissimi, di uomini che sognano l’esterno e non si abbandonano ad essere uomini in scatola, anche se qui le loro membra sono letteralmente inscatolate in scena, e gli scambi arguti, e artisticamente difficilissimi, dei cinque attori sul ring o in cattedra, che restituiscono in una dimensione di sogno tutto il non sense in cui è immersa la nostra realtà.
A fine spettacolo sapremo che è un autore detenuto, Rinnegato, che molti applausi giustamente raccoglie, ad aver immaginato la parte dei testi per il Ring, come sempre poi rielaborati in un lavoro di gruppo della Compagnia SIne NOmine. Nel resto si alternano frammenti che riprendono Giardina e Marinetti, e poi ricordano Sergio Lenci, l’architetto che fu vittima del terrorismo, per aver immaginato un carcere, proprio a Spoleto, che dialogasse con il mondo. Un carcere che ancora oggi, con le parole di “Senza Titolo”, deve “disimparare a chiudere”.
I regali però non sono terminati. A inizio spettacolo ci è consegnata la tessera di un domino. È stata dipinta a mano, e non ce n’è una uguale all’altra, ma il gioco si potrebbe fare solo mettendole tutte insieme. Non c’è bisogno di dire di più su individualizzazione dei percorsi e benefici per la collettività.
Lo slancio futurista tocca il culmine con un vero e proprio manifesto, manco a dirlo lanciato sul pubblico, e poi distribuito. Vi si parla di un carcere mirabile, che fa della persona e della dignità il suo centro. Utopia? Le parole scritte dalla Compagnia sono splendide, cariche di una poesia visionaria, ma i contenuti sono in definitiva solo Costituzione.
“Voglio vivere così, col sole in fronte…” cantano tutti, sulla registrazione storica di Carlo Buti, e anche il meraviglioso coro diretto dal Maestro Francesco Corrias, che ha accompagnato il cammino del pubblico, si unisce festosamente. “Voglio vivere così, col sole in fronte…” Può esserci paradosso più grande che cantare così in un carcere?
Nel tempo dello schianto del cuore e del pensiero, di fronte ai suicidi, alle carenze di risorse, che affliggono ogni luogo, è questo il gesto rivoluzionario che ci è offerto, non per coprire il dramma, ma per metterlo a nudo.
Si tratta di continuare a immaginare un futuro e a immaginarci nel futuro.
È corale un ringraziamento agli attori detenuti, a Giorgio Flamini, a Pina Segoni e Sara Ragni, impegnate con lui nella ideazione, nella regia e nell’adattamento dei testi, al Festival dei Due Mondi che di nuovo entra in carcere e mette nel suo programma lo spettacolo, a fianco di quelli della migliore produzione internazionale, alla Casa Reclusione che non spegne i riflettori sull’arte. Andando via, nell’intercinta, mentre le luci delle camere detentive sono tutte spente, e il caldo della notte (figurarsi il giorno!) è soffocante, è ancora illuminata una grande installazione in cui la parola “ARTE” campeggia.
L’auspicio è che resti sempre accesa. perché “la legge deve tendere alla bellezza” (art. 17 del manifesto) e il teatro in carcere è detonatore (art. 18) di energie di cambiamento, gesto politico e umano fondamentale.