“Non ci vuole passione ma compassione, capacità cioè di estrarre dall’altro la radice prima del suo dolore e di farla propria senza esitazione.”
Dostoevskij, L’idiota
S. è entrato in carcere a San Vittore un pomeriggio del luglio 2024 per il tentato furto di un motorino.
Non parlava e ha affrontato il colloquio per i nuovi giunti con lo psicologo disegnando. Aveva solo una scarpa, i capelli lunghi ed era vestito con indumenti evidentemente recuperati in strada.
Cercava di uscire da San Vittore in tutti i modi, convinto che si fossero sbagliati a portarlo lì. Al collo si era messo un cartello che mostrava a chiunque gli si avvicinasse con scritto: “Ho bisogno di aiuto urgente; devo uscire da San Vittore. Mi hanno portato qui per sbaglio. Colpa di due carabinieri.”
Gli operatori decisero di metterlo in un reparto ad alta osservazione, con videocamere e agenti preparati a lavorare con persone fragili. La prima notte S. aveva così paura da infilarsi nella branda del concellino; girava con lo sguardo spaventato e perso.
S. ha 21 anni è nato in Brasile ed è stato adottato a 4 anni da una coppia della provincia di Milano che aveva già un figlio naturale, entrambi musicisti. Anche S. ha la passione per la musica e un notevole talento: suona il pianoforte, compone e, insieme al padre, insegnava ai bambini.
Sembrava essere il figlio modello e a 17 anni i genitori avevano deciso per dargli più spazio di prendergli una casa in affitto. Ha vissuto da solo per tutto il periodo del Covid, prima vicino ai genitori e poi in una casa in Milano; per un po’ sembrava cavarsela, ma poi sono incominciati gli atteggiamenti bizzarri: vita senza orari, frequentazione di gente che vive in strada e distruzione di oggetti in casa. Il padrone di casa lo ha sfrattato e lui ha incominciato a vivere in strada: la mamma lo ha visto poche volte tentando di farlo ricoverare nella convinzione che avesse un problema con le sostanze. In effetti era vero, e risulterà dopo, che S. aveva cominciato ad usare THC e alcol.
Una sera ha cercato di rubare un motorino (lui sosterrà che voleva solo i guanti) ed è stato arrestato e portato a San Vittore.
Dopo qualche giorno S. decise di raccontarsi, di fidarsi della operatrice che si occupa dei fragili e degli ultimi e di fornire agli operatori attenti del carcere il numero della madre per informarla che era stato arrestato e per chiederle di mandargli dei soldi per le sigarette e altro.
Anche i medici riuscirono a mettersi in relazione con S. che incominciò una terapia antipsicotica e cercarono di riannodare i fili della relazione con i genitori.
La mamma è una donna molto fragile; appena ha saputo la notizia si è allarmata e ha spiegato agli operatori di non riuscire più ad aiutare il figlio e che sarebbe partita di lì a poco per un ritiro spirituale. Ha raccontato della sua separazione dal marito e ha riferito agli operatori di domandare a lui i soldi necessari per il ragazzo in carcere.
Dentro San Vittore emergeva tutta la fragilità di S.: la sua paura del contesto, degli altri detenuti e una particolare e spiccata sofferenza per la chiusura delle celle per 22 ore al giorno. Lui che era abituato a girare per la citta. Ma emergeva anche una grande sensibilità e un gran bisogno di affidarsi a chi lo ascolta: riusciva ad instaurare presto un buon rapporto sia con l’educatrice che con la psichiatra e il medico di reparto.
S. in Tribunale in quel giorno di luglio per la convalida dell’arresto si presentò scompensato non capendo esattamente dove si trovava e per quale motivo fosse in quel luogo. Arrivò senza una scarpa e direttamente dalla strada. Il giudice convalidava l’arresto e rinviava per disporre una perizia, apparentemente comprendendo il suo disagio mentale e la sofferenza. Passarono 3 mesi prima che il tribunale nominasse il perito.
La madre ricominciava a venire a trovarlo e a ricevere le telefonate, mentre il padre esplicitava di non essere disponibile ad avere alcun contatto con lui e neanche con i curanti.
Frattanto nei mesi a seguire, S. incominciava a prendere con regolarità la terapia ed era più lucido e coerente nei discorsi. Aveva sempre paura, ma lo verbalizzava e cercava di trovare delle strategie.
L’equipe della psichiatria lavorava in stretto contatto con l’avvocato che lui vedeva settimanalmente e che cercava di preparare il territorio e, soprattutto, il centro di salute mentale di riferimento al rientro di S., proponendo di inserirlo in una struttura comunitaria.
La perizia verrà depositata alcuni mesi dopo riconoscendo S. totalmente incapace di intendere e volere al momento del fatto e suggerendo proprio una comunità a doppia diagnosi (tossicodipendente e paziente psichiatrico). Frattanto però il servizio delle dipendenze del carcere non aveva trovato tracce di sostanze nelle urine e nel capello, ritenendo perciò impossibile rilasciare la certificazione, che costituisce il presupposto imprescindibile per l’inserimento in una comunità a doppia diagnosi.
Incominciava di lì a poco un palleggio di competenze tra il centro di salute mentale e quello per le dipendenze; a leggere la corrispondenza oggi, sembra inverosimile che si parlasse della cura di una persona. Anche l’avvocato è stato fortemente osteggiato dal servizio; la comunità che viene individuata è bocciata perché fuori regione e il servizio di salute mentale non è disposto a pagarla.
Pur a fronte di quell’esito di perizia che diceva a chiare lettere che non avrebbe dovuto rimanere in carcere, S. ha continuato a restare a San Vittore; la mamma non era disponibile ad accoglierlo; il padre non voleva essere contattato, il centro di salute mentale non trovava una comunità e il serd non lo riteneva un paziente da prendere in carico.
S. non era in grado di andare in un dormitorio e i servizi del terzo settore erano pieni. Era stata trovata una disponibilità presso un progetto di accoglienza per persone con fragilità psichica ma aveva un posto libero solo dopo un mese.
Insieme, gli operatori del carcere e l’avvocato, finalmente trovavano dopo qualche giorno un'associazione con un posto letto libero, pur senza assistenza educativa e a quel punto furono coinvolti volontari e cappellani per garantire una visita al giorno a S.
Il giudice applicava a S. quindi la misura di sicurezza della libertà vigilata in sostituzione della custodia cautelare invitando il centro di salute mentale ad una presa in carico efficace e seria del paziente, di fatto, molto solo.
S. usciva finalmente dal carcere dopo 8 mesi lucido, con due scarpe e rivestito. Pronto per ricominciare.
L’educatrice passava tutte le mattine a vedere come stava e a controllare che prendesse regolarmente la terapia; lo accompagnava ai servizi e gli presentava anche un assistente sociale della Casa della Carità che si occuperà di tenere le fila dei vari attori e di supervisionare l’andamento di S.
Quella collocazione non durerà molto perché in un momento di crisi dovuta anche a solitudine S. metterà in atto un tentativo di suicidio. S. è stato immediatamente dimesso dal luogo ove era ospitato che faceva parte di progetto regionale per l’accoglienza delle persone fragili, perché considerato troppo grave.
S. risulterà invece troppo poco grave per l’ospedale ove era trasportato nella medesima giornata; dopo la visita e la suturazione è stato dimesso per assenza di bisogni, come se una persona con queste caratteristiche e questa solitudine e fragilità possa ritenersi dimissibile così in fretta. E così S. quella notte dormirà su una panchina fuori dall’ospedale; non ha più un letto e il centro di salute mentale che avrebbe dovuto trovare un luogo ancora lo sta cercando.
Ripartiva la rete facente capo alla Casa della Carità, unico ente che non si è mai voltato dall’altra parte. S. ha di nuovo un luogo dove dormire, ha ripreso a suonare, fa un corso di teatro e arte terapia; ha incominciato ad andare anche in un altro centro due volte alla settimana e, accompagnato dalla mamma, fa colloqui al centro di salute mentale.
Ha trovato un pianoforte, dei volontari che gli fanno compagnia e, soprattutto, una psichiatra che settimanalmente lo incontra.
Alcune settimane dopo la scarcerazione si chiudeva anche il processo: il giudice a dispetto delle conclusioni della perizia condanna S. a 8 mesi per il tentato furto; pena precisamente corrispondente a quella carcerazione sofferta. È pacifico che un giudice si possa discostare dalle conclusioni del perito, ma meritano di essere trascritte le parole utilizzate per negare addirittura le attenuanti generiche: “Preliminarmente, tenuto conto della personalità dell’imputato (gravato da precedenti penali della stessa indole e a matrice violenta), delle modalità dell’azione e del riprovevole comportamento processuale manifestato durante l’udienza di convalida (tale da rendere difficoltosa la celebrazione dell’interrogatorio), non vi sono ragioni per riconoscere le circostanze attenuanti generiche".
Il giudice, che pure aveva visto la triste condizione di scompenso di S. arrivato in udienza senza una scarpa e confuso, tanto da ritenere indispensabile un accertamento sulle sue condizioni mentali, ha ritenuto “riprovevole” quella condotta e ha applicato una pena che appare incomprensibile a chiunque abbia avuto a che fare con S.: alla educatrice, alla psichiatra e al medico del carcere di San Vittore, ai periti e all’avvocato. E soprattutto resterà incomprensibile a S. che era stato definito dai perito in stato di totale scompenso per una patologia psichiatrica.
S. è stato arrestato ed è restato in carcere 8 mesi a dispetto della sua totale incapacità di intendere e volere; è rimasto mesi in attesa di un percorso di cura intanto che i servizi decidevano chi doveva fare cosa e chi doveva pagare; è stato ‘dimesso’ da famiglia, luoghi di accoglienza e ospedale, per alcuni perché troppo complesso, per altri perché non troppo grave. Gli sono state negate le attenuanti generiche perché irriguardoso nei confronti dell’autorità giudiziaria.
È una storia finita bene grazie a chi ci ha messo impegno e forza per non abbandonare S.
Forse è utile che S. sia stato arrestato perché la sua vita ha ripreso un po' di organizzazione e perché ha incontrato alcune persone umane che lo hanno guardato e poi supportato.
Il resto non merita commenti. È una storia che vale la pena di essere raccontata[1] perché accanto a persone che non guardano la sofferenza, ce ne sono tante altre che non voltano la faccia.
[1] Anna Viola è educatrice professionale in carcere. Antonella Calcaterra è avvocata in Milano.
Immagine: particolare da Amedeo Modigliani, Madame Kisling, 1917, olio su tela, National Gallery of Art. Immagine di dominio pubblico.