Memoria, testimonianze e ritratti di giuristi italiani del Novecento - a cura di Vincenzo Antonio Poso
Cecilia Assanti e il diritto del lavoro triestino
Sommario: 1. Introduzione - 2. Infanzia, giovinezza e studi universitari - 3. Renato Balzarini, le sue creazioni scientifico-istituzionali e l’introduzione di Cecilia Assanti allo studio del Diritto del lavoro – 4. Le monografie, la libera docenza, la cattedra e l’ordinariato - 5. Una nuova stagione: diritto del lavoro e impegno politico – 6. La produzione scientifica degli anni ’70 e ’80 – 7. Le delusioni della fine degli anni ’80 e l’isolamento dalla comunità dei giuslavoristi - 8. La produzione scientifica degli anni ’90 - 9. L’ultimo periodo e ulteriori ringraziamenti.
1. Introduzione
Cecilia Assanti si era spenta il 4 giugno del 2000, dopo una brevissima malattia, e Giuseppe Pera, da tempo suo grande amico, mi aveva chiesto di mandargli uno scritto, destinato alla Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, che testimoniasse la sua complessa attività scientifica (L. Menghini, Cecilia Assanti e il diritto del lavoro italiano, RIDL, 2000, I, 341 ss.).
Ora riprendo volentieri il ricordo della mia Maestra, considerando anche il profilo della sua collocazione nell’ambito del diritto del lavoro triestino e quello dei rapporti che ho avuto con lei nei decenni in cui sono stato suo allievo. Cecilia Assanti è stata la seconda donna a diventare ordinario di Diritto del lavoro, dopo Luisa Riva Sanseverino, di cui aveva una grande ammirazione. Anche se ha dedicato molte delle sue capacità scientifiche alla condizione femminile, non ha mai voluto limitarsi ad essa, spendendosi, invece, sui temi più generali della materia. Il suo ruolo nel diritto del lavoro italiano della seconda metà del ‘900 è stato importante, anche se, per vari motivi, non compiutamente attuato secondo le sue aspirazioni.
2. Infanzia, giovinezza e studi universitari
Era nata a Grottaminarda, in provincia di Avellino, l’8 gennaio del 1928 ma, quando era ancora in tenera età, la famiglia era salita al Nord, prima in un paesino dell’attuale Slovenia e poi a Trieste. Il papà era medico pediatra della sanità pubblica e questi spostamenti dipendevano dal fatto che aveva vinto dei concorsi relativi alla sua attività. In famiglia c’erano altri medici e dei magistrati.
Cecilia era una bambina e poi una ragazza precoce: ha iniziato la scuola a cinque anni e poi ha saltato la seconda classe del liceo classico, conseguendo il diploma nell’estate del 1945, a 17 anni. Di questo periodo mi ha raccontato solo che era una grande lettrice e che per non farsi vedere dai genitori (che forse non le avrebbero permesso certe letture) leggeva sotto le coperte con una pila.
Mi ha anche confidato che la sua particolare velocità nella lettura era dovuta al fatto che i suoi occhi non si fermavano sulle parole di ogni riga, ma coglievano le parole di tre righe in tre righe.
Gli anni del liceo devono essere stati difficili e anche traumatici, perché erano gli anni dell’occupazione tedesca della città, dal settembre ‘43 all’aprile del 1945, e poi di quella dell’esercito jugoslavo, più breve, ma ugualmente tragica. Nella sua mente era rimasta impressa la visione dei cadaveri dei prigionieri impiccati appesi alla scalinata interna del Conservatorio di musica Tartini, ben visibili dalle finestre dell’edificio; le era capitato di passare in autobus proprio davanti. Si trattava di una rappresaglia tedesca contro italiani e sloveni in seguito ad un attentato partigiano del 23 aprile 1944 (v. M. Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Il Mulino, Bologna, rist. 2023, p. 256).
All’Università avrebbe voluto studiare Medicina, ma ad una famiglia di medio-alta borghesia non pareva una scelta adatta ad una donna. Ripiegò, quindi, su Lettere, che frequentò solo nell’a.a. 1945-46, per passare, poi, a Giurisprudenza nell’a.a. 1946-47 e concludere gli studi in soli tre anni, laureandosi in Diritto commerciale nel novembre del 1949, quando aveva solo 21 anni.
3. Renato Balzarini, le sue creazioni scientifico-istituzionali e l’introduzione di Cecilia Assanti allo studio del Diritto del lavoro
Non so se l’A. abbia seguito il corso di Diritto del lavoro nell’a.a. 1947-48, quando era affidato a Virgilio Andrioli, oppure nel 1948-49, quando fu ripreso da Renato Balzarini, che aveva tenuto il corso di diritto corporativo sin dall’istituzione della Facoltà di Giurisprudenza, negli anni dal 1938 al 1941, per essere poi trasferito all’Università di Roma, dove si era laureato nel 1927, con una tesi in diritto pubblico, conseguendo la libera docenza in Istituzioni di diritto pubblico nel 1933-34 e vincendo poi il concorso a cattedra, nel 1938, con due monografie sul diritto corporativo e conseguendo, infine, l’ordinariato, nel 1941, con un volume su Gli enti sindacali (per queste notizie v. C. Assanti, Renato Balzarini, RIDL, 1988, I, p. 389).
Renato Balzarini, malgrado la sua partecipazione attiva al regime fascista come membro della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, superò i problemi delle epurazioni e insegnò per moltissimi anni Diritto del lavoro nella facoltà triestina di Giurisprudenza, ricoprendo il ruolo di direttore dell’Istituto di Diritto del lavoro, delle Scuole che fondò e di preside della Facoltà. A metà degli anni ’60 fu protagonista della nascita della Libera Università Abruzzese degli Studi, con sede a Teramo, di cui fu rettore sino al 1978.
Nel ricordarne, con affetto, la prestigiosa figura, l’A. lo considera uno dei Maestri “della generazione dei giuristi del lavoro che iniziarono la loro opera dando corpo e sistemazione al diritto corporativo con occhio attento anche alle dimensioni trascendenti i suoi caratteri specifici”, potendo testimoniare, per i molti anni in cui aveva studiato con lui, che il Maestro “conservò sempre vivace, pronto, attento, il suo interesse multiforme per gli studi, la sua disponibilità più ampia verso gli altri, a cominciare dai giovani” (op.cit., p. 389).
Ciò che mi preme più rilevare, peraltro, è che Renato Balzarini, nella sua seconda parte di vita accademica, partecipò, in modo del tutto particolare, alla rifondazione del diritto del lavoro del dopo guerra, aprendo l’Università, proprio nella Trieste non ancora italiana e quindi lacerata da profonde divisioni, agli studi del diritto internazionale e comparato del lavoro, con innumerevoli iniziative, con la creazione di varie istituzioni e con la collaborazione con realtà nazionali e internazionali.
L’A. evidenzia, in particolare, come il Maestro motivasse la sua predilezione per gli studi comparatistici con la convinzione che, per molta parte, agli sviluppi del diritto del lavoro e alla sua armonizzazione nelle legislazioni nazionali fosse affidata l’attuazione della pace dei popoli e tra i popoli (Id., op.cit., p. 391).
Io, naturalmente, già da studente era venuto a conoscenza di questa complessa attività, ma piuttosto superficialmente. Anche in seguito l’A. me ne ha parlato molto poco.
Dobbiamo, invece, all’entusiasmo, alla curiosità e alla tenacia di una giurista napoletana trapiantata a Trieste, Maria Dolores Ferrara, la riscoperta e la diffusione dei “tesori” del diritto del lavoro triestino degli anni ’50 e ’60 (v. Il diritto del lavoro a Trieste nel secondo dopoguerra, RIDL, 2016, I, p. 115 ss. Lo studio è ripreso nel par. 3 dello scritto mio, di Roberta Nunin e della stessa Ferrara L’insegnamento del Diritto del lavoro e la Facoltà di Giurisprudenza, in Giuristi a Trieste. Per una storia della facoltà di Giurisprudenza. 1938-2012), a cura di P. Ferretti, P. Giangaspero e D. Rossi, Giappichelli, Torino, 2022, p. 74 ss.).
Balzarini già nel 1951 organizzò a Trieste il primo Congresso internazionale di diritto del lavoro, con la partecipazione di illustri studiosi italiani e stranieri. Dal congresso triestino nacque la Rivista di diritto internazionale e comparato del lavoro, diretta da Balzarini, che a Trieste poi fondò, nel 1961, l’Istituto europeo per la unificazione del diritto del lavoro e, nel 1963, la Scuola internazionale di diritto comparato del lavoro, quale sorta di filiale della Facoltà internazionale per l’insegnamento del diritto comparato di Strasburgo; a Trieste si svolsero dieci sessioni estive dell’Ecole, con la partecipazione di giuristi di tutto il mondo. Innumerevoli, infine, sono state le iniziative di studio condotte in collaborazione con l’Università di Lubiana. (v. M.D. Ferrara, Il diritto del lavoro a Trieste cit., p. 120 ss.).
Creature di Balzarini furono anche, dal 1953, la Scuola di perfezionamento e specializzazione in diritto del lavoro e della sicurezza sociale e, dal 1954, il suo Bollettino, rivista in cui hanno scritto giovani, ma anche illustri giuristi e che ha dato luogo ad importanti contatti scientifici. Alla fine degli anni ’60 Balzarini, su richiesta di CGIL, CISL e UIL, diede vita anche ad un Corso biennale di preparazione e di aggiornamento per dirigenti sindacali, i cui docenti erano i più noti giuslavoristi: Cecilia mi ha ricordato il fascino delle lezioni di Federico Mancini.
Nel corso degli anni ’50 e ’60 Balzarini proseguì anche la sua attività di studioso, pubblicando numerosi contributi, specie di diritto sindacale; quello più menzionato attiene ai limiti alla facoltà di recesso ad nutum (su questa produzione v. L. Menghini, L’Insegnamento del diritto del lavoro cit., in Giuristi a Trieste, cit., p. 73 ss.).
È in questo contesto di larghe aperture e di ampie possibilità di contatti e relazioni che Cecilia Assanti fu introdotta negli anni ’50 allo studio del diritto del lavoro. Poté conoscere illustri giuristi coetanei di Balzarini (ad es. Giuliano Mazzoni, Luisa Riva Sanseverino, Francesco Santoro Passarelli), rapportarsi con gli studiosi stranieri e stringere amicizie con i giovani professori che venivano a Trieste ad iniziare la loro carriera, come Vezio Crisafulli, Alfredo Fedele, Luigi Mengoni, Rodolfo Sacco, Francesco Galgano, Elio Casetta e Vittorio Bachelet.
Si è rimarcato come in quegli anni nella facoltà di Giurisprudenza si provvedesse a coprire le cattedre con i migliori docenti italiani, il quali non consideravano il soggiorno a Trieste come un esilio, ma come una tappa del cursus honorum accademico (M. Barberis, Come si diventa quel che si è. La filosofia del diritto a Trieste, in Giuristi a Trieste, cit., p. 259). In una pausa di un convegno veneziano, nell’Isola di S. Giorgio, Luigi Mengoni ha ricordato a noi triestini i bei anni che aveva passato nella nostra Università (dal 1951 al 1954) in compagnia degli altri colleghi provenienti da lontano: un gruppo che studiava e discuteva molto, ma che non disdegnava cene e svaghi innocenti, al punto che un giorno furono convocati dal preside di facoltà, che li rimproverò di essere andati a vedere il film Susanna tutta panna.
L’A. in quegli anni ha studiato molto. Mi diceva che passava giorni interi all’Università, portandosi pranzo e cena e un fiasco di vino in compagnia di un suo grande amico, Giampaolo De Ferra, quasi coetaneo, che in quegli stessi anni pubblicava le prime opere in diritto commerciale, anch’egli conseguendo la libera docenza nel 1959 e la cattedra nel 1963; fu poi rettore dal 1971 al 1982 e sempre amico di Cecilia. (v. M. Bianca, L’insegnamento del diritto commerciale, in Giuristi a Trieste, cit., p. 45). In quel periodo, poi, si deve essere avvalsa delle “creature” di Balzarini prima per studiare e poi per esprimere tutte le sue capacità di ricerca e docenza.
4. Le monografie, la libera docenza, la cattedra e l’ordinariato
Cecilia Assanti ha pubblicato i suoi primi lavori scientifici nel Bollettino della Scuola ed è divenuta assistente di ruolo; del 1957 e 1958 sono le sue prime due monografie, che le hanno fatto conseguire nel 1959 la libera docenza (insieme, se ricordo bene, a Giuseppe Pera e Carlo Smuraglia). Altre due monografie risalgono al 1961 e al 1963, anno in cui ha vinto il concorso a cattedra, risultando “ternata” insieme con Gino Giugni e Giampaolo Novara.
Si è sostenuto che l’esito di questo concorso era dovuto al sopravvento, nell’ambito della componente dominante dell’accademia italiana, di un atteggiamento marcatamente liberale e pluralista, che avrebbe consentito la promozione alla cattedra sia di Cecilia Assanti, e cioè dell’allieva triestina dell’”istituzionalista” Renato Balzarini, sia del fautore della teoria, del tutto minoritaria, del contratto aziendale come stipulato dalla comunità d’impresa, Giampaolo Novara; la commissione era formata, oltre che da Balzarini, da Luigi Mengoni, Gustavo Minervini, Giuliano Mazzoni e Cesare Grassetti; i “grandi esclusi” erano stati Aldo Cessari e Giorgio Ghezzi, destinati a vincere il concorso successivo insieme con Giuseppe Pera (così. P. Ichino, I primi due decenni del Diritto del lavoro repubblicano: dalla liberazione alla legge sui licenziamenti, in AA.VV., Il Diritto del lavoro nell’Italia repubblicana, Giuffrè, Milano, 2008, pp. 38 e 53).
Le quattro monografie che la portarono alla cattedra (Il contratto di lavoro a prova, del 1957; Il termine finale nel contratto di lavoro, del 1958; Autonomia negoziale e prestazioni di lavoro, del 1961; Le sanzioni disciplinari nel rapporto di lavoro, del 1963), tutte pubblicate da Giuffrè, piuttosto brevi e concentrate nel tempo, dimostrano un robusto impianto civilistico e una rara capacità di cimentarsi in modo rigoroso con la dogmatica giuridica, nulla concedono alle teorie comunitarie (v. amplius L. Menghini, Cecilia Assanti, cit., p. 343 ss.). In varie occasioni colleghi più anziani di me mi hanno riferito che la monografia sulle sanzioni disciplinari era stata accolta con molto favore.
Il 1°febbraio del 1964 l’Assanti è stata chiamata all’insegnamento di Diritto del lavoro nella Facoltà triestina di Economia, dove è rimasta sino al 1973-74, passando alla facoltà di Giurisprudenza nell’a.a. 1974-75.
In vista dell’ordinariato ha scritto una quinta monografia, dal titolo Rilevanza e tipicità del contratto collettivo nella vigente legislazione italiana, Giuffrè, 1967.
Il saggio è del tutto particolare nell’ambito degli studi di diritto sindacale degli anni ’60, laddove mira all’esaltazione dei principi costituzionali attraverso l’assimilazione dei contratti collettivi corporativi, o comunque ad efficacia soggettiva generale, a quelli postcorporativi, con il recupero di tutte le norme sulla contrattazione collettiva, antecedenti e successive alla caduta del regime fascista, che fossero compatibili con i principi costituzionali.
Riteneva, infatti, che i due contratti collettivi considerati costituissero due tipi di una fattispecie unitaria, potendo di conseguenza essere regolati da un’unica disciplina per tutto ciò che non concerneva la diversa sfera degli effetti, comprese le norme previste per i contratti corporativi diverse da quelle relative all’efficacia soggettiva ed alla struttura organizzativa delle associazioni sindacali.
Questa concezione del contratto collettivo, mantenuta anche nei decenni successivi e forse favorita dagli studi di Renato Balzarini, segna l’ultima tappa di una intensa attività di ricerca svincolata dall’impegno civile e politico. Si era infatti alla vigilia del “tuono a sinistra” del 1968-69 e gli scritti dell’A. erano ancora piuttosto asettici.
5. Una nuova stagione: diritto del lavoro e impegno politico
Ho conosciuto Cecilia Assanti tra il 1972 e il 1973, quando ha cominciato a seguire la mia tesi di laurea sulle strutture sindacali in azienda, che porta ancora il nome di Balzarini quale relatore, ma che ho ultimato e discusso con lei. Nel 1970-71 avevo seguito le lezioni di Diritto del lavoro tenute da Michele Zanetti, assistente di Balzarini, democristiano progressista, noto a Trieste per aver chiamato e difeso, da Presidente della Provincia, Franco Basaglia e la sua nuova psichiatria.
Zanetti mi ha avviato alla tesi, facendomi innanzitutto leggere la relazione di Federico Mancini al Convegno di Perugia del 1970 e poi il famoso libro di Giovanni Tarello. Mi sono laureato il 30 ottobre 1973 ed ho subito cominciato a frequentare, sotto la guida dell’A., l’Istituto di Diritto del lavoro, come giovane “fatturista”, “assegnista” e dalla fine del 1979 assistente di ruolo.
Sin dall’inizio Michele Zanetti, Luigi Rovelli, Tullio Renzi e gli altri assistenti e “giovani” dell’Istituto mi chiamavano, per scherzo, “Mengoni” e non Menghini, aiutandomi, però, molto nei primi anni di studio. Appena conosciuta, l’A. mi è apparsa come una intellettuale di sinistra ortodossa, dotata di una vastissima cultura e poco incline a valorizzare lo spontaneismo del ‘68, come invece facevo io. Lo vedevo dalle osservazioni che con estrema cura e precisione mi scriveva sulle pagine della tesi.
E di fatti, dagli anni ’70, non so in base a quali processi, l’A. ha cominciato a coniugare l’attività accademica con l’impegno civile e politico, iscrivendosi al Partito comunista, divenendo consigliere comunale nel comune di Trieste all’epoca in cui lo erano anche Giorgio Almirante e Marco Pannella e nel 1981 venendo eletta dal Parlamento come membro del Consiglio Superiore della Magistratura, dove è rimasta sino al marzo 1986. Si è trattato di un grande impegno che le ha chiesto molta forza e lucidità nei terribili anni delle Brigate Rosse, costringendola a girare con la scorta armata e a partecipare con il Presidente Pertini a varie onoranze funebri di magistrati.
Questo, peraltro è stato il periodo che, a mio avviso, le ha dato le maggiori soddisfazioni quanto ai rapporti il mondo politico nazionale, accademico e della magistratura. Mi confidava di trovarsi benissimo con i colleghi magistrati, che stimava molto.
Va anche detto che nel corso degli anni ’70 l’A. ha lasciato morire le “creature” di Balzarini, Ecole e riviste comprese, di cui, come ho già detto, mi ha sempre parlato molto poco. Avevano, probabilmente, fatto il loro tempo, concentrandosi ora l’attenzione dei giuslavoristi (in primis dell’Assanti) sul diritto comunitario.
Balzarini veniva poco a Trieste ed io non l’ho mai conosciuto di persona. L’A. mi diceva che era meglio che scrivessimo e collaborassimo con le riviste di rango nazionale e organizzava frequenti seminari per dirigenti sindacali e membri dei consigli di fabbrica. Tutti ricordiamo le “letture collettive” delle monografie dei giovani, ma già affermati, giuslavoristi e le cene a casa sua. Ci faceva andare con lei a numerosi convegni nazionali, in cui abbiamo imparato molto e fatto importanti conoscenze.
La Scuola di Specializzazione è proseguita stancamente per vari anni, ma era una realtà morente, con l’unica eccezione di Roberta Nunin che, laureatasi a Padova in Diritto internazionale, ha preso tanto sul serio la Scuola da laurearsi con la sua direttrice e continuando sotto la sua guida negli studi giuslavoristici sino a divenire ricercatrice, associata e poi ordinaria nella nostra Facoltà.
In questi anni al gruppo dei giuristi triestini si è aggiunto Michele Miscione, che ha insegnato per vari decenni Diritto del lavoro nella Facoltà di Economia, prima come incaricato e poi come associato e ordinario, facendo anche crescere la sua allieva Marina Brollo, poi passata come associata e ordinaria all’Università di Udine, fondatrice dell’attuale vivace gruppo di lavoristi di quella Università. Quando l’A. stava al CSM, era Michele Miscione ad aggiornarmi sulle vicende del diritto del lavoro nazionale: gli sono sempre grato per le discussioni e gli insegnamenti nel corso della nostra vita comune di “fuori sede”.
Di frequente invitavamo a pranzo nelle trattorie vicine all’Università anche la nostra preziosissima bibliotecaria (Gabriella Ziboni, di grande aiuto nelle nostre ricerche), che accettava solo a patto che non parlassimo di diritto del lavoro: noi promettevamo, ma dopo pochi minuti violavamo la promessa.
La stessa gratitudine voglio esprimerla anche per l’amicizia, la solidarietà e i consigli di Carlo Cester, lavorista della scuola padovana diretta da Giuseppe Suppiej, che si è aggiunto al gruppo di noi triestini una decina d’anni dopo, da quando, nel 1986, è stato chiamato come straordinario di Diritto del lavoro nella Facoltà di Economia, ove ha insegnato per molti anni quale ordinario, per passare poi a Giurisprudenza nel 1997-98 e 1998-1999, per tornare infine alla sua Università di origine. Con lui e Miscione si discuteva continuamente e solo una volta all’anno ci concedevamo due passi al mare di Barcola. Insieme, e con Cecilia, ci siamo dati molto da fare per il diritto del lavoro triestino.
6. La produzione scientifica degli anni ’70 e ’80
All’inizio degli anni ‘70 risale la produzione scientifica a mio avviso più importante dell’Assanti. Va innanzitutto menzionato il Commento allo Statuto dei Diritti dei lavoratori, Cedam, Padova, 1972, scritto insieme a Giuseppe Pera, che avrebbe dovuto essere un’opera comune, ma che alla fine è stata ben suddivisa tra i due autori per la distanza delle loro opinioni.
Il nuovo impegno politico, tuttavia, non ha mutato il tipico modo di argomentare dell’A. né ha attenuato il suo rigore nell’interpretare le norme secondo i consueti canoni ermeneutici.
Sintetizzando gli spunti più caratteristici od originali, l’A. riteneva, quanto agli artt. 4 e 6, che la contrattazione collettiva da essi menzionata non ponesse una questione di efficacia generale in senso proprio, dato che la materia regolata è per sua natura indivisibile; quanto all’13, che fosse vietata l’assegnazione continuativa di un lavoratore alla sostituzione di compagni assenti; quanto all’art. 14, che fosse esteso all’attività sindacale svolta all’interno dei luoghi di lavoro il limite costituito dal “normale svolgimento dell’attività aziendale” previsto dall’art. 26 per le azioni di proselitismo, con la conseguenza che l’attività sindacale può essere svolta nelle pause e comunque al di fuori dell’orario di lavoro, avendo così i lavoratori un interesse tutelato ad essere presenti nell’unità lavorativa oltre i tempi dell’adempimento dell’obbligo di eseguire la prestazione di lavoro; quanto all’art. 17, che per costituire sostegno vietato gli interventi datoriali diversi dalla costituzione del sindacato e dal suo finanziamento devono evidenziare in concreto una zona di influenza, non essendo configurabile una parità di trattamento tra sindacati.
Quanto al testo originario dell’art. l’art. 19, difendeva la legittimità costituzionale della disposizione di cui alla lett. a), richiedendo comunque la rappresentatività a livello aziendale e difendendo, come sempre ha fatto, l’uso del criterio selettivo della maggiore rappresentatività delle confederazioni, i cui criteri avrebbero dovuto essere costituiti, da un lato, dalla previsione statutaria e dall’effettivo esercizio di poteri di mediazione tra le categorie e di decisione delle compatibilità per l’intero movimento dei lavoratori e, dall’altro, dall’effettiva diffusione su un ampio arco di categorie e nel territorio, mentre per i sindacati di cui alla lett. b) richiedeva il requisito di essere contraenti in senso proprio (in proposito v. anche La maggiore rappresentatività del sindacato tra difficoltà vecchie e nuove, RGL, 1988, I, pag. 319 ss.).
Molto pro labor era la sua interpretazione dell’art. 20: le assemblee potevano aver corso anche se il datore di lavoro non poteva utilizzare la prestazione di chi non vi partecipava e pur se la riunione provocava l’arresto dell’attività; le assemblee potevano essere convocate anche dai sindacati, trattandosi di un’attività fungibile, senza obbligo di comunicare l’ordine del giorno al datore di lavoro, il quale non aveva diritto a parteciparvi.
Cauta, invece, era l’interpretazione dell’art. 22, che la portava a negare la possibilità di estensione analogica o estensiva della norma a tutti i membri del consiglio di fabbrica. Il Commento di Assanti e Pera ha avuto un importante rilievo nazionale, affiancandosi al coevo Commentario dei giuslavoristi bolognesi.
Al 1977 risale il primo studio dell’A. sul tema su cui ha profuso il suo maggior impegno scientifico ed ha dato il contributo più rilevante al diritto del lavoro italiano: il lavoro femminile e la condizione giuridica della donna.
Si tratta della relazione svolta al Convegno dell’Aidlass dell’aprile di quell’anno (La disciplina del lavoro femminile, RGL, 1977, I, p. 13 ss.), che precedeva di qualche mese l’approvazione della legge di parità.
A mio avviso, il punto più interessante della relazione era quello in cui si studiavano i riflessi dei principi di uguaglianza formale e sostanziale di cui all’art. 3 Cost. sulla parità tra lavoratore e lavoratrice, che considerava non meccanica e generalizzata, ammettendo regole differenziate in base al sesso se rivolte ad eliminare gli ostacoli di cui al 2° comma dell’art. 3.
L’A. era poi diffidente sull’ipotesi di attribuire alle associazioni femminili, per reagire a pratiche discriminatorie, compiti simili a quelli attribuiti ai sindacati dall’art. 28 dello Statuto. I nessi tra l’art. 37 ed i primi articoli della Costituzione sono stati ripresi e approfonditi in molte successive occasioni (ad es. Il lavoro e la Costituzione nella condizione complessiva della donna, RGL, 1989, I, p.167 ss.). I punti più interessanti sono quello in cui motiva la prevalenza della funzione dei sindacati, volti a tutelare lavoratori e lavoratrici, rispetto a quella delle associazioni femminili; quello in cui nega fondamento alle ipotesi di modifiche costituzionali per assicurare presenze paritarie a uomini e donne nelle assemblee elettive; quello in cui contesta la pretesa di parificare il lavoro nella famiglia a quello svolto nel mercato; quello, infine, in cui interpreta il limite al principio di parità tra lavoratore e lavoratrice, di cui all’art. 37, 1°comma, Cost., costituito dall’esigenza che le condizioni di lavoro consentano alla donna di adempiere la sua essenziale funzione familiare, nel senso che si debba salvaguardare soltanto la sua funzione infungibile, e cioè legata alla gravidanza e alla maternità.
Il suo impegno politico nell’ambito della sinistra tradizionale è evidente, da un lato, nella difesa della legislazione lavoristica della seconda parte degli anni ’70, frutto del compromesso storico: usava sempre l’espressione “diritto del lavoro nell’emergenza” e non “dell’emergenza”, perché riteneva che questo complesso di norme non fosse esclusivamente legato a quel periodo storico e destinato a cadere alla sua fine, ma avesse elementi positivi destinati a permanere nel tempo (v. la relazione tenuta a Cadenabbia nell’ottobre del 1979, pubblicata col titolo L’economia sommersa: i problemi giuridici del secondo mercato del lavoro, RGL, 1980, I, p. 179 ss.); dall’altro, nelle censure di illegittimità costituzionale formulate nei confronti del decreto craxiano che nel febbraio 1984 tagliava la scala mobile (v. Il taglio della scala mobile. Un decreto che colpisce la contrattazione, DD, 1984, 1-2, p. 19 ss.).
7. Le delusioni della fine degli anni ’80 e l’isolamento dalla comunità dei giuslavoristi
Cecilia Assanti era una persona molto forte e combattiva, ma anche chiusa e riservata. Passavamo diverso tempo insieme, ma se lei non mi raccontava le sue vicende, io capivo che non gliele dovevo chiedere, pensando che secondo lei i giovani allievi dovevano solo studiare e scrivere, mentre ai maestri competevano le scelte strategiche, le relazioni e le prese di posizione.
So poco, quindi, della vicenda relativa al suo ritorno a Trieste, alla fine della Consigliatura, da lei vissuta molto male. Penso che aspirasse a rimanere a Roma, alla Sapienza, come era già capitato a molti suoi colleghi, ma non è riuscita in questo intento. Mentre si era organizzata anche la vita familiare a Roma, ha dovuto rientrare a Trieste al suo insegnamento a Giurisprudenza, pur continuando a sentirsi parte della sinistra, partecipando alle iniziative del Centro per la Riforma dello Stato, dell’Associazione Enrico Berlinguer, della CGIL, dei gruppi femminili, delle espressioni del territorio e della Rivista giuridica del lavoro.
Ma anche una successiva delusione l’ha segnata a fondo: la sua mancata elezione nella commissione giudicatrice del concorso a cattedra del 1989. Da quel momento non ha voluto far parte di alcun gruppo di giuslavoristi accademici, non è più andata ai convegni dell’Aidlass, pur continuando ad organizzare e a partecipare a molte iniziative scientifiche. Forse avrebbe voluto dar vita ad una scuola ampia di triestini per incidere in modo più forte nel diritto del lavoro italiano e per guidare in senso democratico anche la nostra Facoltà. Non c’è riuscita nella misura voluta o avrebbe dovuto attendere troppo.
8. La produzione scientifica degli anni ’90
Malgrado questi insuccessi, l’A. ha proseguito la sua produzione scientifica nel corso di tutti gli anni ’90. Rinviando a ciò che ho scritto nel lontano 2000 per un quadro più articolato, qui voglio solo osservare che in questo ultimo periodo i temi prescelti hanno spesso carattere molto alto e impegnativo, come, ad es., i rapporti tra le fonti interne, specie costituzionali, e quelle comunitarie ed i nessi tra i principi dell’uguaglianza formale e sostanziale e quello di parità tra lavoratore e lavoratrice (v. la relazione pubblicata in GI, 1992, IV, c. 140 ss.; Azioni positive: confini giuridici e problemi attuali dell’uguaglianza di opportunità, RIDL, 1996, I, p. 375 ss.; Pari opportunità: privato e pubblico a confronto. I principi di eguaglianza nel diritto comunitario, RGL, 1997, I, pag. 451 ss.).
Spiccato, in questo periodo, è il suo interesse per lo sviluppo del diritto del lavoro nella sua dimensione europea, interesse non ancora tanto diffuso nella dottrina italiana dell’epoca e legato al vecchio filone degli studi giuridici triestini particolarmente sensibile al diritto sovranazionale e comparato (così R.Nunin, nel par. 4 di L’insegnamento del Diritto del lavoro, in Giuristi a Trieste, cit., p. 81).
L’A. si è inserita anche nel dibattito sulla crisi della nozione di subordinazione e sull’esigenza di una nuova articolazione delle tutele, ridimensionando gli aspetti economici e sociali della nuova era postindustriale e criticando le tesi che ritenevano superata la distinzione tra subordinazione e autonomia ed estendevano norme protettive del lavoro dipendente a quello autonomo e parasubordinato (v. La subordinazione. Riflessioni da tre libri e da una relazione recenti, RIDL, 1990, I, p. 158 ss. e Autonomia e assetto dei poteri (impresa e lavori), RGL, 1991, I, p. 152 ss.). Quest’ultimo scritto costituisce una sorta di testamento scientifico anticipato sui caratteri fondamentali del diritto del lavoro passato, presente e futuro.
Qui riprendo solo la valutazione positiva sulle innovazioni degli anni ’70 e quella negativa degli anni ’80, quest’ultima motivata con il fatto che la promozione del sindacato non aveva fatto avanzare alcuna ipotesi di governo dell’economia, che la flessibilità affidata alla contrattazione aveva dato risultati modesti, come del resto il sostegno alle nuove istituzioni del mercato del lavoro; criticava, infine, la scarsità di strumenti per favorire l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro e proponeva varie misure, specie sul versante delle retribuzioni e del tempo di lavoro.
9. L’ultimo periodo e ulteriori ringraziamenti
Cecilia Assanti ha cessato l’attività accademica nell’ottobre del 1997, prima della scadenza naturale. Si era probabilmente stancata della sua Facoltà e voleva passare qualche anno in pace. In effetti ha vissuto l’ultimo periodo della vita molto serenamente, lontana dai problemi dell’Università, dell’accademia e dei concorsi e dedita allo studio e alla ricerca secondo i suoi ritmi e le sue preferenze.
Dal 1990-1991 al 2001-2002 nella Facoltà di Giurisprudenza diritto del lavoro era insegnato anche da Antonio Vallebona, con il quale ho subito instaurato un bel rapporto di amicizia, di cui gli sono ancora molto grato, come sono grato a Franco Carinci per la fiducia e gli spazi che mi ha dato nelle sue riviste, trattati e commentari. Anche Carlo Pisani ha insegnato Diritto del lavoro a Trieste (dal 2002-2003 al 2008-2009). Dopo la scomparsa dell’A., Miscione, Vallebona ed io nell’ottobre del 2001 abbiamo organizzato un convegno a Trieste in sua memoria e poi abbiamo curato una raccolta di suoi scritti (C. Assanti, Scritti di Diritto del lavoro, Giuffrè, Milano, 2003).
Tra la fine del vecchio millennio e l’inizio di quello nuovo siamo diventati professori di prima fascia anche Miscione ed io e così il Diritto del lavoro triestino ha continuato il suo corso. Seguendo le tracce di Cecilia, mi sembra di aver fatto bene due cose: ho creato un Master in Diritto del lavoro che ha valorizzato la Facoltà di Trieste e la città, riuscendo a farvi partecipare come docenti molti colleghi ed amici, vicini e lontani, che mi hanno regalato bellissimi rapporti personali e professionali; ho sostenuto i lavoristi più giovani di me, tanto che Roberta Nunin ha da anni preso servizio come professore di prima fascia e tra pochi mesi dovrebbe farlo anche Maria Dolores Ferrara; ora possono serenamente occuparsi di una nuova leva di lavoristi e ulteriormente sviluppare la materia nella nostra città.
Tutto ciò non sarebbe potuto avvenire senza l’intelligenza, la passione e la disponibilità nei miei confronti di Cecilia, a cui devo, insieme con la mia prima moglie Annamaria, un dono immenso: avermi fatto fare per decenni l’unico mestiere che sapevo fare e che mi piaceva tantissimo.