ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Spigolando sulle riforme in materia tributaria e sulle proposte della Commissione Della Cananea.
1)Alberto Marcheselli. Aspettando Godot. Note minime e minoritarie a margine della proposta di riforma della Giustizia tributaria.
Giustizia insieme dedica una serie di approfondimenti al tema della riforma tributaria in cantiere nella prospettiva, consueta per la Rivista, di offrire riflessioni plurali dando voce all’Accademia, all’Avvocatura ed alla Magistratura.
Comincia, oggi, Alberto Marcheselli, Avvocato e ordinario di diritto tributario presso il Dipartimento di giurisprudenza dell’Università di Genova sull’assetto della giurisdizione tributaria, al quale si affiancheranno, con cadenza periodica, gli interventi di Francesco Pistolesi, Avvocato e ordinario di diritto tributario nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Siena sulle modifiche di natura processuale, Luigi Salvato, Procuratore generale aggiunto presso la Corte di Cassazione, sul ricorso per Cassazione nell’interesse della legge, Carlo Vittorio Giabardo, Ricercatore “Juan de la Cierva” in Filosofia e Teoria del Diritto presso l’Università di Girona (Spagna) Càtedra de Cultura Juridica e Dottore di Ricerca in Diritto Processuale Civile presso l’Università degli Studi di Torino sul rinvio pregiudiziale alla Corte di Cassazione, Roberto Succio, consigliere di cassazione, già avvocato e professore a contratto di diritto tributario nella Università del Piemonte Orientale sulle misure proposte in tema di giudizio di Cassazione, Claudio Consolo, Avvocato, Ordinario di diritto processuale civile dell’Università degli Studi di Roma, componente del Consiglio direttivo della Scuola della magistratura e Raffaello Lupi, Avvocato e professore ordinario di diritto tributario presso la facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” sul ruolo della Commissione ministeriale e sulle proposte formulate.
“Ci siamo seduti dalla parte del torto
perché dalla parte della ragione i posti erano tutti occupati”
Bertolt Brecht
Aspettando Godot. Note minime e minoritarie a margine della proposta di riforma della Giustizia tributaria.
di Alberto Marcheselli
SOMMARIO: 1 Premessa - 2. Le proposte ordinamentali della Commissione tra conservazione, rivoluzione e proporzionata transizione - 3. La crisi della giustizia tributaria e la crisi del diritto tributario - 4. La speciale cultura finanziaria come bussola per gli interventi di riforma - 5. Il quadro materiale di riferimento: processare meno per processare meglio o processare meglio per processare meno? - 6. Ben conoscere per ben provvedere: cosa fa al giudice tributario? - 7. Piccoli aggiustamenti a legislazione invariata per grandi risultati - 8. (segue) distonie a proposito del giudizio di merito - 9. La via processuale: concentrazione e immediatezza vs. sfilacciamento del processo. Proposte concrete - 10. Exitus.
1. Premessa.
L’oggetto di queste modestissime riflessioni è un inquadramento delle proposte di riforma della giustizia tributaria formulate dalla competente Commissione interministeriale.
La struttura del lavoro sarà la seguente.
Una prima parte sarà dedicata all’analisi e al confronto, sintetico, delle proposte della Commissione, con qualche osservazione critica.
Seguirà poi, per il lettore paziente (o venato di masochismo), una analisi - a mio avviso doverosa - del contesto complessivo in cui la riforma dovrebbe andare a inscriversi. Analisi da cui dipende sia l’adeguatezza delle soluzioni adottate in punto giurisdizione, sia una valutazione realistica circa quanti risultati possano essere ottenuti intervenendo solo sulla giurisdizione.
2. Le proposte ordinamentali della Commissione tra conservazione, rivoluzione e proporzionata transizione.
Le proposte avanzate dalla competente Commissione per la riforma della Giustizia tributaria, oltre ai molti ed evidenti meriti, su cui non mi intrattengo, presentano, entrambe, due significative criticità strutturali, a mio modestissimo avviso.
Trovo, infatti, insoddisfacente il mantenimento della organizzazione della giustizia tributaria nell’ambito del Ministero della Economia.
Non si tratta solo di un reliquato storico, della fase in cui le commissioni completavano, quali organi amministrativi, il lavoro del Fisco, assetto del tutto incompatibile con una giurisdizione. Si tratta, soprattutto, di un fattore che viola il principio di (apparenza di) indipendenza del giudice medesimo. Tale frizione non rimane confinata nella dimensione astratta e simbolica, ma si concretizza materialmente, tra l’altro, con la determinazione dei compensi del giudice a cura dello stesso Ministero, la loro liquidazione da parte della Direzione della Agenzia delle Entrate, la sottrazione della disponibilità dei mezzi materiali e personali al controllo del giudice e l’affidamento alla Amministrazione soggetta a controllo giurisdizionale. Il controllato decide sia il quanto, sia il come dei mezzi che serviranno a controllarlo (se ne è avuta una clamorosa ed esemplare dimostrazione nella recente emergenza pandemica, quanto alla disponibilità di strumenti telematici e informatici e, soprattutto, alla asimmetria delle soluzioni proposte).
Reputo, insomma, inaccettabile che il controllore, sia pure solo quanto all’assegnazione di mezzi materiali e personali, dipenda dal controllato. La cosa non è in alcun modo dissimile, se mi si passa la metafora lieve, dall’ipotesi di una giurisdizione lavoristica gestita, materialmente, da Confindustria, pur mantenuta la indipendenza sostanziale dei giudici, o di una giurisdizione divorzile affidata alla gestione materiale delle… mogli. O, per concludere con un esempio più attinente alla materia, a un contenzioso sulle concessioni di un Comune affidato a un giudice – indipendente ma - retribuito e dotato di mezzi determinati e gestiti dal Sindaco.
Le obiezioni a tale considerazione non mi convincono.
Il fatto che una diversa soluzione implichi una complessa questione di trasferimento di personale (e frizioni politico-sindacali) mi pare, a un tempo, un ostacolo non proporzionato e infondato. Non proporzionato, visti i valori (non economici, ma non per questo meno importanti) in gioco. E non del tutto fondato, atteso che, se il problema è lo status attuale del personale delle segreterie (che ha un regime peculiare), ben si può conservarlo transitoriamente anche dopo il passaggio nei ruoli di un’altra amministrazione.
Né, per dirla brutalmente, mi convince l’argomentazione – sottotraccia - che si tratterebbe di un profilo simbolico. È facile obiettare che, se si trattasse di elementi solo simbolici, non si comprenderebbe né la resistenza del Ministero della Economia a privarsene né, e soprattutto, il fatto che la Commissione li abbia ritenuti, invece, rilevanti per lo status del Consiglio di Presidenza della Giustizia tributaria. In effetti, tale soluzione compromissoria mi pare sistematicamente anche un poco contraddittoria: se si tratta di elementi che impattano sulla indipendenza forse essi vanno attuati prima di tutto (o, almeno, con altrettanta urgenza) con riguardo allo status del giudice e dell’organo giurisdizionale, e poi con riguardo all’organo di autogoverno.
Giudici ordinari, amministrativi e contabili che svolgono le funzioni tributarie mi hanno talvolta cortesemente obiettato che non avvertono alcun condizionamento: a parte che la loro posizione è, comunque, peculiare e particolarmente solida, sia culturalmente che statutariamente, sta il fatto che il punto nodale è la rappresentazione esterna (l’apparenza di indipendenza), e la giurisdizione tributaria, se si intervista un campione rappresentativo di utenti, non viene percepita come strutturalmente indipendente, ancorché venga universalmente riconosciuta l’indipendenza individuale e sostanziale dei bravi giudici.
Questo profilo appare alla modestia dei miei occhi non negoziabile.
Un secondo punto, critico in un senso diverso, perché su di esso, in realtà, la Commissione ha una posizione unanime, ma non si esprime, salvi miei errori, in proposte precise, concerne il compenso del giudice tributario. Questo, in realtà, è uno degli aspetti decisivi, per garantire sia indipendenza, sia professionalità, altrettanto importante che non le scelte sul meccanismo di selezione e ogni altra considerazione ordinamentale. Il punto andrebbe, credo, messo a fuoco molto più puntualmente: è evidente che ottimi meccanismi di selezione possono fallire l’obiettivo, in concreto, senza adeguata cura di tale profilo. Ed è importante che sul punto sia il legislatore a esprimere principi e criteri direttivi chiari e vincolanti (altrimenti ricadendo nel vizio sopra denunciato, di delega al… controllato).
Ciò posto, le due proposte si differenziano, in estrema sintesi, circa diverso grado di “autonomia” da conferire alle riformate commissioni.
Con una metafora urbanistica, direi che una proposta corrisponde a un intervento di manutenzione straordinaria, l’altra a un intervento di ristrutturazione.
Nella prima ipotesi, si tratta di mantenere una giustizia onoraria, rafforzandone parzialmente la professionalità (nel senso del tecnicismo), nella seconda, di introdurre una giustizia professionale (nel senso lavoristico) e, anche per conseguenza di ciò, tecnicamente specializzata, selezionata per concorso.
I fautori della prima tesi assumono l’esistenza di una ragione giuridica, di una ragione pratica e di una ragione culturale, che starebbero a fondamento di tale soluzione e ostacolerebbero la seconda.
È, quindi, opportuno partire da qui.
La prima ragione, quella giuridica, starebbe nel fatto che anche lo strutturale snaturamento del criterio di selezione contrasterebbe con il divieto di istituzione di un giudice speciale. Passare a un reclutamento per concorso realizzerebbe, in tesi, tale evento. Sul punto mi pare di poter dire che, se è vero che la proposta alternativa modificherebbe profondamente le forme del reclutamento, forse non le stravolgerebbe sotto il profilo sostanziale. Mi pare sostenibile che il limite costituzionale stia più nello stravolgimento dei criteri sostanziali per l’accesso alla giurisdizione, che non nei meccanismi formali. Mi pare che tale sarebbe, per fare un esempio di fantasia, per una ipotetica giurisdizione in materia tecnica, prima riservata agli ingegneri, il passaggio a una selezione di soli giuristi. Nel caso di sostanziale mantenimento dei medesimi titoli di accesso, il mutamento del percorso formale di selezione mi pare corrispondere a un concetto di modifica più debole e formale, che riterrei, abbastanza convintamente, compatibile con il disegno costituzionale (che, forse, sarebbe addirittura più compiutamente realizzato).
L’obiezione di ordine pratico, invece, riposa, sostanzialmente, sulla lentezza della attuazione dei concorsi. Si tratta di una obiezione che coglie pienamente nel segno, ma, a ben vedere, non è un ostacolo - in assoluto - alla diversa soluzione, ma solo la giusta sottolineatura di un necessario e articolato meccanismo preparatorio e transitorio.
L’obiezione di ordine culturale, altrettanto interessante, è quella che si fonda sulla, testualmente, possibile “ghettizzazione” del sapere specialistico tributario, oltre che su rischi di autoreferenzialità e corporativismo. Questi ultimi, per vero, sono immanenti a qualsiasi organizzazione, non importa quale sia il meccanismo di selezione: non mi par dubbio che una certa autoreferenzialità e difesa dell’esistente animi, del tutto sanamente e legittimamente, anche le attuali commissioni, che pure non sono professionali. Sotto il profilo della cultura giuridica, in effetti, tenuto presente che, fino a un certo livello, la specializzazione è un fattore positivo e non negativo, e che, per contro, è certamente sacrosanto il richiamo alla centralità della cultura generale della giurisdizione (che è effettivamente la casa del diritto), un adeguato correttivo potrebbe comunque essere rappresentato dal permanere della funzione apicale della Corte di Cassazione, sulla quale interverrei con molta prudenza, evitando eccessivi irrigidimenti.
Sulla Suprema Corte, che è l’edificio più importante e prezioso della città della giurisdizione, in effetti, è molto difficile pensare di intervenire, a maggior ragione per le mie modestissime e del tutto inadeguate conoscenze, senza alternarne le delicate, ragionate e consolidate simmetrie e architetture. Specializzazione e circolazione, dei saperi e delle esperienze, sono, infatti, valori e indirizzi equiordinati, da preservare religiosamente. Più che radicali modifiche statutarie o meccanismi rigidi, sarebbe, forse, meno impraticabile un intervento incentivante e soffice. Mi viene segnalato, ignoro se la circostanza sia ancora attuale, che, nella mobilità interna alla Suprema Corte, non sempre la Sezione tributaria è l’approdo più desiderato, costituendo, talvolta, un necessitato passaggio, auspicabilmente breve, dalle Sezioni penali alla destinazione finale alle Sezioni Civili. La mobilità, oltre che un sacrosanto diritto individuale, è anche una esperienza arricchente sul piano professionale e culturale, pro quota anche utile all’esercizio della giurisdizione. Ci si potrebbe, però, domandare se non si potrebbe prevedere e rafforzare, ispirandosi a quanto suggerito da una delle due proposte della Commissione, forse già a livello di normativa secondaria, il valore della esperienza nelle commissioni di merito, nella determinazione dei punteggi per l’accesso alla V Sezione, favorendo naturalmente la selezione della vocazione tributaria. Più penetrante e opinabile (e a valere solo pro futuro, per i nuovi accessi) sarebbe, invece, a parziale riequilibrio di tale assunto, intervenire legislativamente, non credo sia possibile in forma secondaria, sulla permanenza minima nella Sezione, che potrebbe essere stabilita in un periodo non breve ma pur sempre proporzionato. La cosa potrebbe giustificarsi, forse, attesa la situazione, ma, per ragioni di equità, sconterebbe il limite di dover valere solo per gli accessi futuri ad essa. Ancora, per completezza di disamina, sarebbe da domandarsi, a salire ulteriormente nella scala degli interventi emergenziali e nei margini di opinabilità (che, invero, mi appaiono cospicui), se sarebbe possibile ipotizzare il riconoscimento di una emergenzialità della situazione adattando il meccanismo già utilizzato per le c.d. sedi disagiate, con una correlazione alla permanenza. In questo caso non si tratterebbe, certamente, di una sede disagiata, trovandoci al vertice della Giurisdizione, ma di un intervento temporaneo di ripristino urgente della efficienza del giusto processo: uno strumento alternativo a un meccanismo condonistico. Si tratta, tuttavia, di esperienze controverse e controvertibili, talvolta adottate nella giurisprudenza amministrativa, a fronte di arretrati emergenziali.
Di estremo interesse trovo, poi, la proposta di introduzione del rinvio pregiudiziale alla Suprema Corte, operato d’ufficio dal giudice di merito. Esso, a differenza del ricorso per saltum, che è sostanzialmente irrealistico, è un potenziale meccanismo di razionalizzazione efficiente della giurisprudenza, specie perché sapientemente correlato, nella proposta, a un filtro all’ingresso.
Sul punto, a mio avviso, occorrerebbe raccordare tale modifica processuale con qualche approfondita e ulteriore riflessione, idonea a migliorare l’efficienza del processo tributario, che, per vero, potrebbero trovare attuazione a legislazione invariata.
Si tratta, di veri e propri nodi strutturali e decisivi per l’efficienza del sistema che, non richiedendo tecnicamente interventi di riforma (o non impattando su riforme ordinamentali) tratterò più avanti, nei paragrafi 7 e 8, rinviando poi al § 9 per qualche intervento normativo ulteriore.
Rimanendo in questa sede all’analisi delle proposte ordinamentali e, in particolare, nel solco della proposta più conservativa, credo che essa potrebbe impreziosirsi con la previsione di un giudizio monocratico per le liti minori, idonea a liberare energie per le liti maggiori e il grado di appello (dove si concentra un'altra componente di arretrato significativo).
Mi sembra poi che, sotto il profilo della professionalità, essa potrebbe essere rafforzata ulteriormente. In proposito, credo dovrebbe valutarsi una estensione ben più ampia nel necessario carattere esclusivo o prevalente dello svolgimento della attività giurisdizionale tributaria (retribuita per i componenti laici dal compenso riformato di cui sopra, in un circuito virtuoso in cui prevalenza e decoro economico rafforzano la professionalità). Dovrebbe prevedersi una accurata determinazione dei carichi di lavoro da parte dell’organo di autogoverno, tenuto conto dei flussi e della geografia giudiziaria e prevedere strumenti flessibili di raccordo. Dovrebbe enfatizzarsi l’obbligo di una formazione continua modulare, non negandosi la ricchezza dell’apporto di professionalità diverse, ma rafforzando il percorso di simmetrico progressivo e continuo arricchimento.
Ancora, reputo che dovrebbe forse prevedersi l’accesso alle funzioni di appello (oltre che transitoriamente per chi già svolga tali funzioni) solo dopo lo svolgimento per un adeguato numero di anni delle funzioni di primo grado (eccettuandone, eventualmente, i magistrati ordinari che abbiano già svolto funzioni nella Sezione tributaria della Suprema Corte). Ciò consentirebbe un utile approccio graduale alla materia tributaria per chi vi si avvicini per la prima volta e l’assoggettamento dei newcomers alla saggia esperienza, anche tecnicamente avvertita e specializzata, del giudice di merito di secondo grado.
Quanto alla proposta più ampia, essa mi sembra, in sintesi, rappresentare un obiettivo alto e ambizioso, che, tenuto conto anche delle osservazioni formulate in questo paragrafo, sarebbe certamente compatibile con il quadro e le esigenze sistematiche, e le realizzerebbe in maniera, per certi versi, probabilmente più compiuta.
A ben vedere, in effetti, non ravviso, però, tra le due proposte una reale e inevitabile contraddizione, ragionando in una prospettiva allargata e sincretica: esse partono da impostazioni sì difformi, su alcuni aspetti anche molto, ma, in realtà, sono meno incompatibili di quanto non sembri a prima vista, se collocate in una prospettiva diacronica.
La proposta più conservativa, specie se affiancata al recepimento di quanto precede e, in sede giurisprudenziale, delle riflessioni che saranno svolte più avanti (nei paragrafi 7 e 8) e, magari, anche al recepimento di qualche accorgimento tra quelli più vicini della proposta più avanzata, potrebbe, in effetti, costituire una più che adeguata soluzione-ponte rispetto all’altra, una soluzione idonea non solo a gestire una trasformazione e il delicato periodo transitorio, ma anche a valorizzare adeguatamente tutte le professionalità acquisite e attualmente operanti.
Si potrebbe, insomma, ipotizzare un percorso riformatore graduale e con tempi di attuazione scanditi in un cronoprogramma progressivo, sulla base di un unico disegno, armonioso e proporzionato, complessivamente idoneo a realizzare al meglio tutti gli obiettivi, senza salti nel buio, ma con profondo coraggio riformatore.
3. La crisi della giustizia tributaria e la crisi del diritto tributario.
Tanto premesso, credo che una scelta riformatrice efficace non possa prescindere dalla considerazione di alcuni aspetti di contesto, così come la cura della malattia di non organo non può prescindere dalla conoscenza dello stato di salute dell’organismo nel suo complesso.
La crisi della giustizia tributaria si apprezza, secondo molti operatori, sotto due profili: a) la durata media dei tre gradi di giudizio, dalla più gran parte degli esperti ritenuta eccessiva; b) la qualità delle decisioni, che la più gran parte degli esperti giudica migliorabile tenuto conto: b1) dell’anomala percentuale di annullamenti di decisioni in sede di legittimità; b2) dal “coefficiente di oscillazione” delle giurisprudenza, anch’esso giudicato dalla maggioranza degli esperti anomalo.
Entrambi questi indici di crisi, che io incidentalmente ritengo un po’ meno gravi di quanto non si affermi diffusamente (ci sono, infatti, molti processi e commissioni assai veloci e l’esito delle impugnazioni è talvolta analizzato frettolosamente) sembrano trovare una ragione concorrente e significativa, innanzitutto, in fattori esterni alla giurisdizione. Questi vanno individuati sia perché possono orientare anche il lavoro sul versante giurisdizionale, sia perché danno informazioni realistiche sulla incisività di interventi limitati al solo settore giurisdizionale.
A questo proposito, si può ben dire che la giustizia tributaria è in crisi (anche e soprattutto perché) è in crisi il diritto tributario.
La qualità del diritto finanziario è gravemente deficitaria e questa è la causa prima e fondamentale del problema, anzi, di un problema che “si scarica” nella sede processuale (sismografo e punto di appoggio finale di tutte le spinte che il sistema produce. La crisi giurisdizionale è solo la punta di un iceberg assai più grande: la inadeguatezza dell’ordinamento tributario italiano rispetto alle sfide della attualità, che comporta una nuova idea di economia ma una sempre uguale esigenza di giustizia.
Ciò dipende da molti fattori, uno dei meno trascurabili dei quali è la prevalenza di un ragionare e progettare regole sulla spinta emergenziale, vera o presunta, della sola contingenza economica, e di pressioni sociali ed elettorali, variamente reali e importanti, ma che richiederebbero una ponderazione meditata e tecnicamente accorta.
In un circolo vizioso globale, tale legislazione qualitativamente povera, figlia di una diffusa ingoranza finanziaria (dalla responsabilità per la quale non possiamo certo sottrarci, per primi, noi accademici) crea un periodico stallo da sovraccarico, al quale, in stato di necessità, si è costretti a rispondere con meccanismi condonistici. Essi, da un lato sono necessitati e inevitabili, ma, dall’altro, oltre che iniqui orizzontalmente sono fattori di un feedback perverso. Nella prospettiva che intervengano, in futuro, costituiscono infatti un evidente incentivo alla lite.
4. La speciale cultura finanziaria come bussola per gli interventi di riforma.
Un diritto incerto rinvia alla fase processuale la ricerca di un un – impossibile - punto di stabilità. La prima patologia si registra già nell’accesso alla giustizia: nella fisiologia l’attuazione del tributo dovrebbe esaurirsi nella fase dell’adempimento spontaneo o amministrativa. Degli atti emessi dalle Agenzie fiscali, invece, 1 su 11 circa viene impugnato davanti al giudice.
Vi è pertanto un primo e importante deficit di cultura politica e giuridica.
Sulla prima non è questa la sede di intrattenersi, atteso che non impatta sul lavoro del giudice.
Sulla seconda, invece, si.
Non mi stancherò mai di ripetere in proposito, umilmente ma testardamente, che non è sufficientemente colto il fatto che il diritto tributario sostanziale (e non, come invece spesso si afferma, quello procedimentale o punitivo, che si sovrappongono al diritto amministrativo o penale) richiede una cultura speciale, perché è una materia, sì derivata, ma autonoma.
Tralasciando tutti i sofismi dottrinari e teorici, mi par pacifico che il diritto e il giudizio tributario hanno ad oggetto una obbligazione da accertare in esito a un complesso esercizio di poteri autoritativi, inquadrati in una articolata serie procedimentale. È materia che non coincide e non è neppure assimilabile, allora e innanzitutto, né alla materia civilistica, né a quella amministrativistica, né alla contabilità di Stato.
Non si tratta di relazione tra parti creditorie e debitorie in posizione paritaria (vi è un creditore autoritativo procedente in via amministrativa) e la logica che preesiste e regola l’obbligazione non è quella negoziale e sinallagmatica, ma quella della misurazione della ricchezza, nelle sue svariate forme. Orientarsi nella obbligazione tributaria richiede un articolato complesso di conoscenze che sono completamente estranee alla formazione sia del giurista generalista, sia del civilista, sia dell’amministrativista, sia del cultore della contabilità di Stato. Definire, misurare e gestire l’obbligazione tributaria implica conoscere i fondamenti della economia aziendale, orientarsi con sicurezza nei temi correlati alle tecniche contabili e valutazioni di bilancio, e cogliere una dogmatica estranea alle altre materie (è necessaria la sicura percezione di simmetrie concettuali che non vi sono in nessun altro campo del diritto, si pensi alla sempre fraintesa simmetria costi-ricavi, al principio della continuità dei valori, la neutralità delle operazioni societarie e via enumerando).
La prima indicazione che ne scaturisce è che per disciplinare il diritto tributario e per la decisione delle controversie tributarie occorre, allora, una cultura speciale, che non si esaurisce, a ben vedere, nella cultura giuridica generalista, propria della giurisdizione ordinaria, e nemmeno si può esaurire nel completo e specialistico dominio delle materie amministrative (o della contabilità di Stato), ma non coincide, neppure, con il dominio delle discipline economiche e aziendalistiche, atteso che richiede il dominio dei temi procedimentali e processuali, applicati a materie commerciali e all’impresa e ricchezza private.
Ne consegue una prima, netta e forte indicazione di metodo (anche) per il problema della giurisdizione: come a monte il legislatore, il giudice tributario – speciale o ordinario sul piano ordinamentale, non importa – deve essere culturalmente speciale, altrimenti il sistema non funzionerà mai.
5. Il quadro materiale di riferimento: processare meno per processare meglio o processare meglio per processare meno?
Altro elemento da valutare è poi quello quantitativo, che parte dal rilievo che i processi tributari sono tantissimi.
È, allora, da domandarsi se, pacifico che, se si processa meno, si può processare meglio, la diminuzione dei processi debba essere lo strumento del miglioramento, o solo un sintomo o un effetto.
La restrizione dell’accesso alla giustizia, oltre un certo limite, può infrangersi con limiti di principio invalicabili e appare, per certi versi, contraddittoria: a incentivare la litigiosità concorrono, in un circolo vizioso, per primi una legislazione sostanziale di pessima qualità e di nessuna stabilità e la mala prassi dei condoni periodici, che determinano una giurisprudenza incerta e, a cascata, un incentivo… alla lite. A fronte di ciò, colui che provoca il danno pretenderebbe di limitarlo… razionando l’accesso ai rimedi.
Del resto, a sbarrare tale soluzione stanno i dati numerici: il processo tributario è utile (una quota assai alta di provvedimenti e di sentenze vengono annullate o riformate). Limitarlo equivarrebbe, con una metafora tragicamente attuale, a decidere che, dato che gli ospedali scoppiano di malati cui viene salvata la vita… bisogna rendere più difficile esservi ricoverati. La soluzione è migliorare la salute pubblica e la medicina territoriale: non rompere la spia rossa che segnala che il motore non funziona.
6. Ben conoscere per ben provvedere: cosa fa il giudice tributario?
Giunti a questo punto, occorre domandarsi cosa deve fare il giudice tributario.
Tale domanda è, insieme, trascurata ma decisiva, doppiamente decisiva.
Decisiva in un primo senso, perché per scegliere quale giudice occorre domandarsi prima a cosa dovrà fare.
Decisiva in un secondo senso, perché malintesi e cattive scelte sotto questo profilo, a ben vedere, sono fattori, trascurati ma evidenti, di moltiplicazione del contenzioso (e quindi cause misconosciute del problema che si tenta di risolvere).
Quanto al primo aspetto, e, cioè, quale debba essere la funzione del giudice tributario, va detto quanto segue.
Da una funzione amministrativa il cui compito precipuo era valutare la ricchezza si è passati a una funzione amministrativa il cui compito precipuo è controllare gli adempimenti dei contribuenti, grazie alla attribuzione di sempre maggiori e necessari poteri.
A tale evoluzione è corrisposta, anche se non sempre avvertita, la evoluzione della funzione del giudice. Nell’era delle stime, le Commissioni tributarie erano organi amministrativi, cui ci si rivolgeva per rivedere o completare l’operazione di valutazione. L’intervento del giudice, ordinario, era solo a valle e con una diversa funzione: al giudice erano precluse proprio le questioni di estimazione della ricchezza.
Tralasciando i passaggi intermedi, è divenuto patrimonio comune della giurisprudenza della Suprema Corte la massima secondo cui la funzione della giurisdizione tributaria è il controllo sul corretto esercizio del potere tributario. L’attuazione dell’art. 53 della Costituzione e dei doveri di solidarietà è affidato, in prima battuta a contribuenti e alla Pubblica Amministrazione, con la attribuzione di rilevanti doveri e poteri, e la giurisdizione tributaria è una sovrana giurisdizione di controllo sull’esercizio di tali poteri. In essa si valuta sia la legittimità che il merito, sia la conformità della serie procedimentale e provvedimentale alla legge, sia la fondatezza della pretesa, ma alla luce dell’esercizio amministrativo del potere: l’oggetto del processo è l’accertamento della legittimità della pretesa in quanto avanzata con l’atto impugnato, alla stregua dei presupposti di fatto e di diritto in tale atto indicati.
È appena il caso di notare che tale assetto, oltre che determinato da (e coerente con) l’evoluzione dell’ordinamento, ha anche un valore prezioso in termini sistematici e costituzionali.
Solo una giurisdizione di controllo è in grado di assicurare un corretto e adeguato esercizio della funzione amministrativa: ove un giudice tributario supplente regredisse alla antica funzione delle Commissioni tributarie (completare la determinazione del tributo) non solo mortificherebbe l’evoluzione storica, non solo regredirebbe alla antica funzione amministrativa, di evidente incompatibilità con l’assetto giurisdizionale del giusto processo (che richiede un giudice indipendente e imparziale e non un giudice che completi la funzione amministrativa di una delle parti in giudizio), ma abdicherebbe, anche, al ruolo di guardiano della Amministrazione (e, attraverso tale prisma, del contribuente), con evidente lesione, indiretta, del principio di imparzialità e buon andamento.
Se un provvedimento amministrativo tributario illegittimo o infondato potesse essere salvato perché integrato in giudizio, la funzione amministrativa potrebbe continuare a essere esercitata in forma patologica, grazie all’improprio paracadute giudiziario: un siffatto giudice sarebbe inadeguato all’evoluzione del sistema giuridico, inadeguato rispetto al modello del giusto processo e inadeguato alla sua funzione di propulsore e garante di una sana ed efficiente amministrazione.
7. Piccoli aggiustamenti a legislazione invariata per grandi risultati.
Quanto al secondo aspetto, e cioè alla affermazione secondo cui malintesi e cattive opzioni creano il problema, mi limito a uno statement generale e a due esempi sperimentali, tra i tanti possibili.
L’affermazione di principio è che, se si pensa che il giudizio tributario sia il luogo in cui si accertano i tributi, si creano le basi per un contenzioso enorme e ingestibile (oltre che sistematicamente distonico, per le ragioni sopra viste).
Quanto agli esempi sperimentali, invece, il primo concerne la non sorvegliata gestione del concetto di onere della prova, vero e proprio fattore processuale teratogeno.
Si possono, infatti, osservare alcuni effetti perversi del non corretto utilizzo del concetto, produttivi di incertezze giurisprudenziali e sproporzionato aumento dei carichi di lavoro giurisdizionale.
Onere della prova è la regola da applicarsi per stabilire chi vince in caso di mancata prova. Profilo completamente diverso è se sia stata raggiunta la prova, se le prove siano state adeguatamente valutate, se di tale valutazione sia data adeguata motivazione.
Se Tizio abbia assolto il suo onere della prova non è affatto un problema di applicazione della relativa regola, ma una questione – di fatto – del tutto a valle (o, al limite, un giudizio sulla sufficienza della motivazione).
Si assiste invece, sempre più frequentemente, alla surrettizia ammissione di tale giudizio in Cassazione, attraverso il passepartout dell’inquadramento nell’onere della prova. Motivi nei quali viene censurata, spessissimo anche dalla Avvocatura dello Stato, la valutazione della prova (profilo inammissibile in toto in Cassazione) ovvero la motivazione sulla prova (la cui ammissibilità andrebbe valutata negli stretti limiti di cui all’art. 360 n. 5), vengono travestiti in motivi, di diritto, sulla violazione delle regole sulla distribuzione dell’onere della prova, primario e secondario (o sull’asserita esistenza/inesistenza di un onere della prova contraria).
Ma si tratta di cose evidentemente diverse. Una cosa è dire: in questa causa il giudice ha sbagliato ritenendo che una certa circostanza fosse stata provata. Cosa completamente diversa è dire: mancava la prova ma il giudice ha dato ragione alla parte che ne era “onerata”.
Solo le sentenze che, assunto che la prova manchi, diano ragione alla parte che ne era onerata violano l’onere della prova, e sono sentenze rarissime.
Un atteggiamento non sorvegliato di questo profilo lascia aperta una porta attraverso la quale passano migliaia di cause che potrebbero essere arrestate.
Non solo, in un ulteriore feedback perverso, si tratta di decisioni che, siccome dipendenti dall’esame di circostanze di merito della singola controversia, che sono ovviamente multiformi e infinitamente variabili, attraverso resoconti superficiali nella pubblicistica di bassa qualità, creano una gigantesca massa di decisioni di legittimità apparentemente oscillanti su temi di diritto (quando, invece, non sono altro che decisioni diverse, per fattispecie diverse), che creano una incertezza di ritorno, un “rumore bianco” che funziona da, ulteriore, poderoso moltiplicatore del contenzioso.
8. (segue) distonie teratogene in materia di giudizio di merito
Un altro – a mio umilissimo avviso - fraintendimento tipico è assiso nella trasformazione di una decisione sulla correttezza di un percorso motivazionale in un, completamente diverso, giudizio sull’assetto degli oneri di prova.
Una cosa è dire: nella presente fattispecie la motivazione sulla prova esiste (esempio: poiché la SRL ha evaso e l’utile celato è scomparso e non risulta nessun altro impiego, verosimilmente è stato distribuito ai soci).
Una cosa completamente diversa è dire: se l’ufficio, in qualsiasi causa, porta quel tipo di prova (o, addirittura, afferma certi fatti), è il contribuente a dover dimostrare il contrario, se no il giudice è vincolato.
Operando in tal modo si trasforma – inavvertitatamente ma innegabilmente - un giudizio di fatto sulla singola controversia (il giudice e l’ufficio in questo caso hanno fatto bene) o un giudizio sulla motivazione di una singola controversia (la motivazione è conforme allo standard legale), in una apparente regola di diritto (d’ora in poi tutti i giudici dovranno fare così), che, in effetti, non esiste e a sua volta moltiplica il contenzioso.
Un caso plastico in questo senso lo si ritrova, tra i tanti, a proposito della c.d. presunzione di ripartizione degli utili occulti della società a ristretta base, appena citata. Il ragionamento probatorio secondo cui talvolta, o anche spesso, è irrilevante, dalla natura ristretta della società si possa desumere la ripartizione dell’utile occulto è stato - non correttamente e per effetto di linguaggio non sorvegliato – trasformato, nella prassi, in una apparente regola giuridica, che però non esiste: data la base ristretta, l’utile è distribuito se il contribuente non dimostra il contrario.
Ciò è errato, perché se l’evasione viene provata dal Fisco non è che il contribuente deve provarne l’inesistenza (la mancanza di prova contraria è un di più: si ipotizzi una sentenza che affermi che, se Tizio ha lasciato le sue impronte sul collo della morta e aveva motivo per ucciderla, è colpevole, non risultando nessun altro elemento contrario. In questo caso, si condanna per omicidio perché ci sono movente e impronte, non perché manca …l’alibi).
Ciò è errato e pericoloso, perché trasformare delle sentenze della Cassazione che, semplicemente e correttamente, ritengono le sentenze impugnate adeguatamente fondate (e motivate) sulla prova, in sentenze sulla assenza della prova contraria richiesta da una (inesistente) legge rischia, ponendo troppa enfasi sulla inesistenza della prova contraria, di rovesciare la regola legale (fino all’approdo, assurdo, secondo cui sussiste l’evasione affermata se non se ne prova la insussistenza).
Ciò moltiplica l’arretrato in Cassazione: perché, attraverso il grimaldello della violazione della regola (inesistente) sull’onere di prova contraria, fanno ingresso nel giudizio di legittimità motivi di fatto, che sarebbero inammissibili.
Ciò moltiplica l’arretrato complessivo perché, come sopra si diceva, se si trasformano decisioni diverse di casi diversi in oscillazioni giurisprudenziali, la confusione genera incertezza e l’incertezza alimenta la necessità o propensione alla lite.
9. La via processuale: concentrazione e immediatezza vs. sfilacciamento del processo. Proposte concrete.
Sul piano strettamente processuale, poi, andrebbe sicuramente seguita fino in fondo la strada della concentrazione del processo, codificando il principio dell’onere di avanzare le difese nella prima occasione processuale utile, evitando che tatticismi o inerzie processuali rendano il processo tributario sfilacciato ed inefficiente (due clamorosi difetti, in proposito, sono la ritenuta non perentorietà del termine di costituzione del resistente in primo grado e la facoltà di depositare documenti nuovi in primo grado).
Per favorire la celerità concentrazione e speditezza del processo tributario, per esempio, si potrebbero apportare al Decreto legislativo 31/12/1992 n. 546 anche le seguenti, semplici, modifiche:
a) All'Art. 7 Poteri delle commissioni tributarie, sostituire il comma 1 come segue
1. Oggetto del processo tributario è, nei giudizi di impugnazione di atti impositivi, la pretesa per come delineata, anche quanto ai fatti costitutivi e alle relative prove, nell’atto impugnato e nei limiti dei motivi di impugnazione, senza possibilità di modifica o integrazione successiva in giudizio. Le commissioni tributarie, ai fini istruttori e nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, esercitano tutte le facoltà di accesso, di richiesta di dati, di informazioni e chiarimenti conferite agli uffici tributari ed all' ente locale da ciascuna legge d'imposta soltanto nel caso e nei limiti in cui le parti non abbiano potuto assolvere per ragioni oggettive e cogenti ai propri oneri probatori.
b) all’art. 23 Costituzione in giudizio della parte resistente
sostituire il comma 1 come segue
L'ente impositore, l'agente della riscossione ed i soggetti iscritti all'albo di cui all'articolo 53 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446 nei cui confronti è stato proposto il ricorso si costituiscono in giudizio, a pena di decadenza, entro sessanta giorni dal giorno in cui il ricorso è stato notificato, consegnato o ricevuto a mezzo del servizio postale
sostituire il comma 3 come segue
3. Nelle controdeduzioni la parte resistente espone le sue difese prendendo posizione sui motivi dedotti dal ricorrente in ossequio al principio di contestazione di cui all’art. 115 c.p.c., proponendo altresì, a pena di decadenza, le eccezioni processuali e di merito che non siano rilevabili d' ufficio e instando, se del caso, per la chiamata di terzi in causa .
c) all’art. Art. 24 Produzione di documenti e motivi aggiunti
sostituire il comma 2 come segue
2. L'integrazione dei motivi di ricorso, resa necessaria dal deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine della commissione, nei limiti di cui al comma 1 dell’art. 7, è ammessa entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla data in cui l'interessato ha notizia di tale deposito.
e) all'Art. 58 Nuove prove in appello
Il comma 2 è abrogato
10. Exitus.
Il percorso riformatore, finora, ha avuto un andamento asintotico. La cardinalità della giustizia tributaria, tuttavia, ne richiederebbe la attuazione. Non solo perché, nella economia globale, più che la pressione fiscale è l’incertezza normativa a frenare innovazione e creazione di ricchezza, essenziali al mantenimento di livelli essenziali di benessere. Ma anche perché, vista la traiettoria del debito pubblico, ci attende, appena dietro l’angolo, un doloroso piano di rientro che, se non passerà per traumatici fenomeni inflazionistici, passerà per un ricorso imponente al fenomeno impositivo.
La giustizia tributaria non può farsi trovare impreparata, ne va della tenuta dello Stato di diritto.
Il controllo giudiziario a richiesta dell'impresa e il compito del giudice ordinario
di Vittorio Gaeta
L'introduzione nel nostro ordinamento dell'interdittiva antimafia e, nel 2017, dell'amministrazione giudiziaria e del controllo giudiziario dell'impresa a rischio di condizionamento mafioso ha cambiato profondamente il volto delle misure di prevenzione, ridimensionando la netta alternativa confisca sì/confisca no. Le potenzialità contenute nell'apertura del sistema alla collaborazione dell'impresa al recupero all'economia sana, tuttavia, non sembrano finora esser state sfruttate appieno dalla prassi giudiziaria e forense, anche e soprattutto a causa del mancato approfondimento del rapporto tra la cognizione del giudice amministrativo e quella del giudice della prevenzione.
Sommario: 1. Economia sana e misure di prevenzione patrimoniali - 2. L'amministrazione e il controllo giudiziario: in generale - 3. L'interdittiva antimafia - 3.1. L'interdittiva come massima anticipazione della tutela - 4. Il controllo giudiziario a richiesta dell'impresa - 5. Sulla natura giuridica del controllo a richiesta - 6. Effetti del controllo a richiesta - 7. L'occasionalità e la sua ambivalenza - 8. “Situazione di condizionamento che può essere data per scontata” - 9. Lo stato della giurisprudenza di prevenzione: in generale - 10. Un caso di fraintendimento - 11. Un caso di fraintendimento: segue.
1. Economia sana e misure di prevenzione patrimoniali
Gli articoli 20 e 24 del d.lgs. 159/11 prevedono, ove ne ricorrano i presupposti e in alternativa al sequestro e alla confisca dei beni del soggetto proposto, l'applicazione delle misure di prevenzione dell'amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche e delle aziende, oppure del controllo giudiziario delle aziende.
Raramente adottate dal giudice che decide sul sequestro o sulla confisca, e raramente invocate dai difensori in via subordinata rispetto alle richieste di rigetto/revoca del sequestro o della confisca, tali misure costituiscono “modalità di intervento potenzialmente alternativo rispetto all'ordinario binomio sequestro/confisca dei beni del soggetto portatore di pericolosità”, come le definisce la recente Cass. pen. nr. 24678/21, delle quali - come aggiunge Cass. pen. nr. 21412/21 - “il legislatore, ricorrendone i presupposti, ha inteso privilegiare l'applicazione in attuazione del principio di proporzionalità e in vista del possibile recupero dell'impresa alle fisiologiche regole del mercato, una volta ridotta l'ingerenza dei soggetti portatori di pericolosità”.
Esse presuppongono non l'illecita accumulazione patrimoniale, che dà luogo all'ablazione, ma la contaminazione dell'impresa da parte della criminalità organizzata, che dà luogo al tentativo di recupero. Si può istituire un parallelo tra la rieducazione del condannato, cui tende la pena secondo l'articolo 27 della Costituzione, e il recupero dell'impresa all'economia sana, cui tendono le misure di prevenzione patrimoniali diverse dalla confisca - modo di acquisto a titolo originario di un bene, che lo Stato rivendica con l'azione di prevenzione.
Come ricorda l'ultima relazione al Parlamento della DIA[1], tali misure di prevenzione (pag. 486) realizzano un'anticipazione della soglia di intervento sui patrimoni sospetti. Esse, diversamente dalle ipotesi di anticipazione della punibilità di un delitto, non accrescono ma attenuano l'invasività dell'ordinamento, utilizzando il criterio della proporzionalità.
2. L'amministrazione e il controllo giudiziario: in generale
Con l'amministrazione giudiziaria delle aziende e dei beni del proposto, prevista dall'art. 34 d.lgs. 159/11 se l'impresa risulti sottoposta a intimidazione, oppure assoggettata o comunque in grado di agevolare la criminalità organizzata, l'intera attività di impresa viene svolta per un certo periodo dall'amministratore giudiziario sotto il controllo del giudice delegato: l'esito finale sarà la confisca dei beni che si rivelino oggetto di illecita accumulazione, o al contrario la revoca dell'amministrazione, eventualmente accompagnata dall'applicazione del controllo giudiziario.
Con il controllo giudiziario (che chiameremo ordinario per distinguerlo da quello su richiesta di cui si dirà in seguito), previsto dall'art. 34-bis d.lgs. 159/11 nell'ipotesi di agevolazione solo occasionale della criminalità organizzata accompagnata dal pericolo di infiltrazione e condizionamento, l'impresa è tenuta per un certo periodo a comunicare una serie di attività anche minute al Questore e alla polizia tributaria (art. 34-bis co. 2° lett. a), mentre a riferire periodicamente al giudice delegato e al Pm è un amministratore che ha compiti di controllo - svolti anche avvalendosi dell'adempimento di obblighi informativi e organizzativi da parte dell'impresa -, e non di gestione come nel caso di amministrazione giudiziaria (art. 34-bis co. 2°, lett. b) e co. 3°).
3. L'interdittiva antimafia
Una situazione diversa si ha con l'informazione antimafia interdittiva prevista dagli artt. 84 co. 3°-4° e 94 d.lgs. 159/11, emessa dal Prefetto e impugnabile davanti al giudice amministrativo, che presuppone non la contaminazione ma il mero pericolo di infiltrazione mafiosa, e ha come effetto essenziale di precludere all'impresa di contrattare con la P.A.
Può dubitarsi che si tratti di misura di prevenzione in senso proprio, perché non limita per un tempo determinato le libertà personali, né colpisce il patrimonio per impedire (come la confisca) che sia strumento della pericolosità del proposto oppure per ostacolare (come l'amministrazione giudiziaria e il controllo giudiziario) quella pericolosità per un tempo determinato. L'interdittiva, invece, intende conformare, tendenzialmente in via permanente, l'attività di impresa ai precetti degli articoli 41 secondo comma e 97 della Costituzione[2], impedendo che possa derivarne l'inquinamento o il condizionamento dell'attività della pubblica amministrazione – così come, ad es., le prescrizioni di un piano regolatore hanno effetto conformativo del diritto di proprietà e dello ius aedificandi.
3.1. L'interdittiva come massima anticipazione della tutela
Per la citata relazione della DIA (pag. 480), il provvedimento interdittivo ha natura amministrativa e rappresenta “la massima anticipazione della tutela preventiva dello Stato dal crimine organizzato (...) in quanto comporta l'esclusione di un soggetto, ritenuto potenzialmente infiltrato dalla criminalità organizzata, dalla possibilità di intrattenere rapporti con le pubbliche amministrazioni”. Essa è il frutto di una specifica istruttoria relativa a “condizioni che non costituiscono un numero chiuso e non consistono solo in circostanze desumibili dalle sentenze di condanna per particolari delitti e dalle misure di prevenzione antimafia”, nella quale possono rilevare anche le “motivazioni che lumeggino situazioni di infiltrazione mafiosa da provvedimenti giudiziari non ancora definitivi”, oppure i “rapporti di parentela, amicizia e collaborazione con soggetti controindicati e che indichino un verosimile pericolo di condizionamento criminale per intensità e durata“, o ancora gli “aspetti anomali nella composizione e gestione dell’impresa sintomatici di cointeressenza dell’azienda e dei soci con il fenomeno mafioso”.
Avvalendosi dell'esame della giurisprudenza amministrativa in tema di interdittiva effettuato dall’Osservatorio previsto dall'art. 91 co. 7-bis d.lgs. 159/11, la DIA ha elaborato (pag. 484) specifiche “linee guida” - apprentemente non reperibili in rete, né poste a disposizione dei decisori - per l'individuazione degli elementi sintomatici dei tentativi di infiltrazione mafiosa.
La “massima anticipazione della tutela preventiva” avviene mediante l'esercizio della discrezionalità amministrativa: le ipotesi più frequenti riguardano casi di grande risonanza sociale, oppure sono concomitanti con operazioni antimafia di vasto respiro, sì da colpire imprese a rischio di infiltrazione da parte di persone raggiunte da provvedimenti cautelari del giudice penale. Rischio che ad es. può dipendere anche da fattori come i rapporti di parentela amicizia o collaborazione indicati dalla DIA, oppure (cfr. art. 84 co.4° lett. c) d.lgs. 159/11) l'omessa denuncia di fatti di concussione o estorsione commessi da soggetto attingibile da misura di prevenzione.
E' coerente con il sistema l'impugnabilità dell'interdittiva prefettizia davanti al giudice amministrativo, giudice dell'atto e non del rapporto, il quale già in altri casi si occupa di materie collegate, come l'impugnazione dello scioglimento degli organi elettivi degli enti locali per infiltrazione della criminalità organizzata.
4. Il controllo giudiziario a richiesta dell'impresa
L'impresa che abbia impugnato davanti al giudice amministrativo l'interdittiva prefettizia può richiedere ex art. 34-bis co. 6° al Tribunale di prevenzione il controllo giudiziario nella forma attenuata della lettera b) dell'art. 34-bis, con sottoposizione al solo controllo dell'amministratore giudiziario e non anche agli obblighi di comunicazione indicati alla lettera a).
Da subito i commentatori hanno indicato la finalità del controllo a richiesta nella “messa alla prova” dell'impresa a rischio di infiltrazione, con la quale è coerente il presupposto dell'impugnazione. In assenza del quale, gli effetti dell'interdittiva diventerebbero inoppugnabili, sì che l'impresa potrebbe dedurre l'eliminazione dei fattori di rischio solo richiedendo al Prefetto la revoca dell'interdittiva, previa una nuova complessa istruttoria. Una volta proposta l'impugnazione, invece, e in attesa dell'esito, l'impresa può farsi mettere alla prova per dimostrare l'eliminazione del rischio.
Certo, può accadere che dopo l'ammissione al controllo a richiesta sopravvenga l'annullamento da parte del G.A. dell'interdittiva: in tal caso, il venir meno del presupposto del controllo può essere dedotto dall'impresa con istanza al Tribunale di prevenzione per la revoca della misura, ex art. 34-bis co. 5° cod. antimafia.
5. Sulla natura giuridica del controllo a richiesta
Il dubbio sulla natura dell'interdittiva prefettizia, se di misura di prevenzione in senso proprio o meno, va esteso al controllo a richiesta che ne sospende gli effetti, che col controllo ordinario ha in comune soltanto il nome e la nomina di un amministratore giudiziario.
Sul piano strutturale, va sottolineata l'assenza nel controllo a richiesta degli obblighi di comunicazione di ogni minuta attività al Questore e alla polizia tributaria, previsti per il controllo ordinario. Sul piano funzionale, poi, non è indifferente che il recupero all'economia sana sia chiesto dall'interessato (e poi ammesso dal giudice) anziché a lui imposto: in tal modo, l'atto conformativo della libertà di impresa costituito dall'interdittiva viene attenuato dal controllo giudiziario chiesto da quell'impresa – la quale quindi risulta, al di là del nomen juris, più beneficiaria di un progetto di recupero delle sue piene funzioni che destinataria di una misura di prevenzione della pericolosità.
A tale proposito, si discute se il controllo a richiesta costituisca o meno un beneficio. Rispetto all'affermazione prevalente, che si tratti solo di un'alternativa rispetto all'inibizione di attività economiche derivante dall'interdittiva, si tratta di intendersi sulle parole.
Si consideri l'ipotesi della messa alla prova in senso proprio, prevista per l'imputato minorenne[3] dall'art. 28 D.P.R. 448/88 sulla base del progetto elaborato ai sensi dell'art. 27 d.lgs. 272/89, il cui esito positivo comporta l'estinzione di qualunque reato, anche se astrattamente punibile con l'ergastolo. Un minore accusato ad es. di omicidio premeditato, che si faccia mettere alla prova, sceglie certamente un'alternativa rispetto alla possibilità di condanna a una lunga pena detentiva: ma davvero si può dire che l'eventuale estinzione del reato per esito positivo della messa alla prova non costituisca un beneficio, in vista del quale l'imputato attiva la procedura o vi acconsente?
6. Effetti del controllo a richiesta
L'art. 34-bis co. 7° d.lgs. 159/11 prevede che il controllo giudiziario a richiesta sospenda gli effetti dell'interdittiva prefettizia, e quindi il divieto di contrarre con la P.A[4]. L'impresa richiedente, poi, può coltivare la speranza di far valere in una sede amministrativa l'eventuale ammissione al controllo come elemento favorevole.
Sul punto, la sentenza nr. 319/21 del Consiglio di Stato ha affermato che “il controllo giudiziario presuppone l’adozione dell’informativa, rispetto alla quale rappresenta un post factum” (…) perché inevitabilmente diversi sono gli elementi fattuali considerati anche sul piano diacronico nelle due diverse sedi (…) la valutazione finale del giudice della prevenzione penale si riferisce dunque alla funzione tipica di tale istituto, che è un controllo successivo all’adozione dell’interdittiva, ed ha riguardo alle sopravvenienze rispetto a tale provvedimento”, per concludere che l'esito favorevole del controllo a richiesta e l'eliminazione del rischio di infiltrazione non rilevano nel giudizio amministrativo, che riguarda gli elementi esistenti al momento dell'interdittiva.
Quella sopravvenienza potrebbe però giustificare una richiesta al Prefetto di revoca dell'interdittiva, e se del caso l'impugnazione del relativo diniego davanti al giudice amministrativo.
7. L'occasionalità e la sua ambivalenza
Il punto critico nella ricostruzione dell'istituto è dato indubbiamente dal requisito dell'occasionalità dell'agevolazione della criminalità organizzata.
Nel linguaggio comune, “occasionale” è sinonimo di contingente, non strutturale. La contingenza, tuttavia, si atteggia in modo diverso nel controllo ordinario oppure a richiesta dell'impresa:
a) nel controllo ordinario su richiesta dell'organo proponente o di ufficio, l'occasionalità si riferisce al passato, perché è la pregressa attività di impresa, valutata nel suo insieme dal Tribunale di prevenzione come giudice del rapporto, a risultare a rischio di agevolazione occasionale;
b) nel controllo a richiesta dell'impresa - come ormai pacifico dopo la sentenza delle SU penali nr. 46898/19, Ricchiuto -, l'occasionalità non riguarda esclusivamente o prevalentemente la pregressa attività di impresa (momento diagnostico) ma si riferisce anche alle prospettive di recupero all'economia sana (momento prognostico), guardando alle quali può valutarsi in modo concreto la contingenza o meno del fenomeno di agevolazione.
Di per sé, la sussistenza del pericolo di infiltrazione della criminalità mafiosa è valutata dal Prefetto al momento dell'interdittiva ed è contestabile davanti al giudice amministrativo. E' impensabile che questo giudice dell'atto, che per la citata Cons. St. nr. 319/21 non tiene conto delle sopravvenienze, possa fare, con un giudizio riferibile all'intero rapporto tra l'impresa e le regole del mercato sano, una valutazione di occasionalità. Valutazione che non a caso è svolta dal Tribunale di prevenzione, unico giudice in grado di esaminare quel rapporto.
Sul punto, Cass. 21412/21 ha giustamente affermato (pagg. 7-8) che “con la richiesta ex art. 34-bis comma 6 d.lgs. 159/2011, che l'azienda destinataria dell'interdittiva sceglie di proporre, l'istante è chiamata a (necessariamente) dedurre solo quegli elementi, favorevoli, utili a giudicare recuperabile una situazione di condizionamento che può essere data per scontata, in quanto ritenuta in un diverso provvedimento (amministrativo), che la presuppone. Situazione di condizionamento che dunque, pur potendo essere apprezzata (specie nella sua intensità) dal giudice ordinario, non entra nel fuoco dell'accertamento necessario ai fini dell'ammissione all'istituto in esame (cfr. S.U. Ricchiuto, sopra richiamate), volto piuttosto alla disamina del profilo della recuperabilità dell'azienda all'economia sana”.
8. “Situazione di condizionamento che può essere data per scontata”
Contrariamente a quanto ci si attenderebbe alla luce di quanto detto fin qui, gran parte delle richieste di controllo giudiziario formulate da imprese destinatarie di interdittiva prefettizia si risolvono, in tutto o in gran parte, nella contestazione anche minuta degli elementi sfavorevoli già valutati dal Prefetto, di volta in volta indicati come insussistenti o irrilevanti. Lungi dall'accantonare la contestazione di quegli elementi per indicare la possibilità di superarli mediante un progetto di self-cleaning, tali richieste finiscono per “raddoppiare” l'impugnazione proposta al TAR, laddove tale accantonamento[5] sarebbe il passaggio necessario per rivalutare la situazione dell'impresa sospetta e per giustificare il concorso di giurisdizioni.
In effetti, come l'imputato che risulti innocente non va messo alla prova ma va prosciolto, perché in presenza di elementi a carico rivelatisi insussistenti o irrilevanti il ravvedimento sarebbe privo di oggetto, così l'impresa raggiunta da elementi sintomatici di infiltrazione mafiosa rivelatisi insussistenti o irrilevanti ha diritto di vedersi annullare l'interdittiva e di operare senza limiti, e non di sottoporsi a un self-cleaning privo di oggetto.
Del resto, il concorso di giurisdizioni, amministrativa sull'atto di interdittiva e ordinaria sul rapporto tra impresa a rischio ed economia sana, ha ragion d'essere solo se l'oggetto dei due giudizi è diverso e tale da non comportare un rischio sistemico di contrasto di pronunce, in un ordinamento policentrico che, pur limitando l'efficacia diretta del giudicato in altri giudizi, persegue pur sempre l'obiettivo della tendenziale coerenza e complementarietà degli accertamenti di giudici diversi[6].
9. Lo stato della giurisprudenza di prevenzione: in generale
L'insufficiente comprensione delle finalità dell'istituto non sembra un'esclusiva delle imprese che richiedono il controllo e dei loro difensori. Buona parte della giurisprudenza di prevenzione, infatti, tende a riesaminare la sussistenza e rilevanza degli elementi di infiltrazione, già apprezzati con l'interdittiva e sindacabili dal giudice amministrativo, e, di fatto, in caso di accoglimento risolve il giudizio sull'occasionalità dell'agevolazione in unagenerica valutazione di “non gravità” – a volte affermata in motivazioni che neppure sminuiscono quegli elementi sintomatici, ma radicalmente li negano proprio.
Merita di rilevare come un tale fraintendimento, oltre a frustrare le finalità del controllo a richiesta, rischi di provocare effetti fortemente diseducativi.
Si consideri ad es. il caso ricorrente dell'indice di infiltrazione costituito dal rapporto di parentela tra il titolare dell'impresa interdetta dal Prefetto e l'imputato di reati di mafia, possibile fonte di “influenza reciproca” di comportamenti[7]. In verità, il/la figlio/a del mafioso che nulla abbia a che fare con le attività criminali del padre e abbia creato un'impresa con le sue sole forze ha diritto di vedere rimossa ogni ombra dalla sua attività, senza impetrare il recupero ad un'economia sana a cui già appartiene e senza subire il condizionamento di un nome dalla cui caratura criminale ha preso le distanze; così come quel figlio/a, se ha accettato il condizionamento paterno, non ha diritto di lamentare un inesistente pregiudizio a suo carico per poi accomodarsi, con indubbio vantaggio, nella simulazione di un'attività di self-cleaning neppure indicata nei suoi lineamenti.
La scarsa abitudine del giudice penale al confronto con la giurisprudenza amministrativa[8] non può costituire una giustificazione di tale fraintendimento del rapporto tra giurisdizioni. A meno di non voler accettare soluzioni regressive come quella, ipotizzata nella citata relazione della DIA (pag. 486), di attribuire al Prefetto la valutazione di occasionalità onde emanare in sede amministrativa misure analoghe al controllo a richiesta – che, basato sul complessivo rapporto dell'impresa con l'economia sana, verrebbe sindacato dal giudice amministrativo, che pure è giudice dell'atto –, il giudice della prevenzione deve accettare la sfida per la riqualificazione della propria attività[9].
10. Un caso di fraintendimento
Un esempio di inadeguata individuazione degli ambiti della cognizione è costituito dalla recente pronuncia nr. 24678-21 della Cass. penale.
Dalla sua narrativa si apprende che la Corte d'Appello di Roma aveva negato il controllo giudiziario chiesto da una s.p.a. destinataria di interdittiva prefettizia. Sulla premessa che il giudice della prevenzione deve valutare solo la situazione di fatto esistente al momento dell'interdittiva e non gli accadimenti posteriori, aveva con riferimento a quel momento valorizzato il legame di diversi dipendenti con la “sacra corona unita”, la posteriorità del licenziamento di sei dipendenti pregiudicati rispetto a un accesso ispettivo della Prefettura, la gestione di fatto da parte del padre dell'amministratrice, coinvolto in procedimenti per corruzione collegata alla criminalità politico-mafiosa, e invece non aveva considerato l'assoggettamento a concordato preventivo al momento dell'interdittiva e il successivo totale rinnovamento del consiglio di amministrazione (CdA).
Il giudice di legittimità, investito del ricorso della società, condividendo di fatto la premessa sulla valutabilità della sola situazione esistente al momento dell'interdittiva, ha cassato la decisione richiedendo una più adeguata motivazione sull'effettiva incidenza degli episodi corruttivi sugli assetti aziendali, sulla rilevanza dei licenziamenti comunque anteriori all'interdittiva, sulla compatibilità tra ammissione a concordato preventivo con nomina di apposito commissario e il rischio di infiltrazioni ritenuto dal Prefetto, mentre ha ritenuto corretta la valutazione di irrilevanza del mutamento del CdA posteriore all'interdittiva, precisando che gli elementi da rivalutare riguardano la “prognosi circa l'effettiva volontà dell'impresa di affrancarsi da forme di condizionamento illecito” (pag. 11).
11. Un caso di fraintendimento: segue
La decisione della Cassazione in esame suscita grandi perplessità. All'evidenza, tutti gli elementi che il giudice del rinvio dovrà rivalutare attengono non alla prognosi di futuro affrancamento dal condizionamento criminale, ma alla diagnosi di sussistenza del rischio al momento dell'interdittiva: così l'incidenza degli episodi corruttivi sugli assetti aziendali, come la rilevanza dei licenziamenti pregressi o la possibilità per un'impresa in concordato preventivo di agevolare la mafia. Elementi tutti che verosimilmente l'impresa avrà dedotto davanti al TAR competente, e che alla stregua di questa sentenza possono essere dedotti nuovamente, senza alcun ostacolo, davanti al Tribunale di prevenzione. Il quale invece non dovrebbe valutare proprio l'unico elemento tipizzante della sua cognizione, e cioè il radicale mutamento del CdA dopo l'interdittiva, che sul piano astratto è sicuramente un indice (non si sa quanto veridico e sufficiente in concreto) del self-cleaning tipico del controllo a richiesta.
L'inversione di prospettiva rispetto alla giurisprudenza amministrativa e alla dottrina più avvertita è evidente. Lo sforzo della citata Cons. St. nr. 319/21, di considerare il controllo giudiziario come un post factum rispetto all'interdittiva, basato su elementi fattuali “inevitabilmente diversi” che per loro natura costituiscono sopravvenienze rispetto all'atto prefettizio, viene radicalmente vanificato, senza peraltro essere oggetto di considerazione e confutazione specifica.
Di fatto, seguendo la prospettiva di Cass. pen. nr. 24678/21, la sostanziale identità di oggetto tra impugnativa dell'interdittiva davanti al TAR e richiesta di controllo giudiziario davanti al Tribunale di prevenzione finirebbe per giustificare ampiamente l'idoneità dell'esito favorevole del controllo a richiesta a fondare l'annullamento dell'interdittiva: proprio ciò che la giurisprudenza amministrativa vuole impedire, in uno sforzo di delimitazione degli ambiti delle giurisdizioni che non è foriero di alcuna deminutio per il giudice ordinario.
È certamente tempo per un dialogo più efficace tra le giurisdizioni che si occupano di questa delicata materia. Ma, sia detto sommessamente, è al giudice ordinario che tocca di “recuperare”.
[1] Cfr. https://direzioneinvestigativaantimafia.interno.gov.it/semestrali/sem/2020/1sem2020.pdf
[2] Afferma sul punto la sentenza nr. 565/2017 del Consiglio di Stato: “Lo Stato non riconosce dignità e statuto di operatori economici, e non più soltanto nei rapporti con la pubblica amministrazione, a soggetti condizionati, controllati, infiltrati ed eterodiretti dalle associazioni mafiose. Questa valutazione (…) costituisce un severo limite all’iniziativa economica privata, che tuttavia è giustificato dalla considerazione che il metodo mafioso, per sua stessa ragion di essere, costituisce un «danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» (art. 41, comma secondo, Cost.), già sul piano dei rapporti tra privati (prima ancora che in quello con le pubbliche amministrazioni), oltre a porsi in contrasto, ovviamente, con l’utilità sociale, limite, quest’ultimo, allo stesso esercizio della proprietà privata. Il metodo mafioso è e resta tale, per un essenziale principio di eguaglianza sostanziale prima ancora che di logica giuridica, non solo nelle contrattazioni con la pubblica amministrazione, ma anche tra privati, nello svolgimento della libera iniziativa economica”.
[3] Analogo discorso si potrebbe fare per la più limitata messa alla prova introdotta per l'imputato maggiorenne dagli artt. 168-bis ss. c.p. e 141-bis ss. c.p.p.
[4] Analogo effetto si ha nel caso di amministrazione giudiziaria prevista dall'art. 34 d.lgs. 159/11, perché la presenza di un amministratore con poteri anche gestionali rende superfluo l'intervento prefettizio.
[5] Abitualmente richiesto dalla giurisprudenza penale in tema di messa alla prova: ad es. Cass. Pen. 32125/14: “In sede di giudizio minorile, l'ammissione alla messa alla prova dell'imputato, previa sospensione del processo, richiede da parte dell'interessato la rimeditazione critica del passato e la disponibilità ad un costruttivo reinserimento, le quali, pur non esigendo la confessione degli addebiti, risultano incompatibili con la frontale negazione di ogni responsabilità per gli stessi”. Oppure a contrario Cass. Pen. 43810/17: “ai fini della concedibilità del beneficio della sospensione del processo e messa alla prova, la non contestazione da parte del minore dei fatti oggetto di imputazione, così come la confessione, non rappresenta un elemento sintomatico da cui desumere automaticamente il ravvedimento, necessario per formulare un giudizio prognostico positivo sulla sua rieducazione e sull'evoluzione della personalità verso un costruttivo reinserimento sociale, se accompagnata da altri elementi di fatto che evidenziano come la rimeditazione e la resipiscenza rispetto ai fatti non si siano verificate. (Nella fattispecie, la S.C. ha ritenuto immune da censure la sentenza di merito che ha escluso la concessione della messa alla prova in un caso in cui l'imputato, pur non contestando i fatti storici in sé, nel corso di tutto il procedimento aveva sempre rifiutato i colloqui con i servizi sociali, con la motivazione che riteneva infondate le accuse mossegli)”.
[6] Sul punto, cfr. Rolli e Maggiolini, in https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-e-processo-amministrativo/1728-interdittiva-antimafia-e-giudicato-penale-nota-a-consiglio-di-stato-sez-iii-4-febbraio-2021-n-1049
[7] Sul punto, Cons. St. nr. 2855/19 ha affermato che “una tale influenza può essere desunta non dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e in contrasto con i principi costituzionali) che il parente di un mafioso sia anch’egli mafioso, ma per la doverosa considerazione, per converso, che la complessa organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della ‘famiglia’, sicché in una ‘famiglia’ mafiosa anche il soggetto, che non sia attinto da pregiudizio mafioso, può subire, nolente, l’influenza del ‘capofamiglia’ e dell’associazione. Hanno dunque rilevanza circostanze obiettive (a titolo meramente esemplificativo, ad es., la convivenza, la cointeressenza di interessi economici, il coinvolgimento nei medesimi fatti, che pur non abbiano dato luogo a condanne in sede penale) e rilevano le peculiari realtà locali, ben potendo l’Amministrazione evidenziare come sia stata accertata l’esistenza – su un’area più o meno estesa – del controllo di una ‘famiglia’ e del sostanziale coinvolgimento dei suoi componenti”.
[8] A differenza, ad es., dell'attenzione abituale del giudice di lavoro alla distinzione tra costituzione e svolgimento del rapporto di pubblico impiego privatizzato, oppure del giudice delle espropriazioni per pubblica utilità al rapporto con l'occupazione appropriativa.
[9] Sulla sfida posta in generale dal concorso di giurisdizioni, cfr. il fascicolo nr. 1/2021 di Questione giustizia, in https://www.questionegiustizia.it/rivista/la-giurisdizione-plurale-giudici-e-potere-amministrativo
Il rito abbreviato condizionato ovvero l’ultima chiamata
di Giorgio Spangher
La riforma della giustizia penale che difficilmente sarà quella proposta dalla commissione Lattanzi nasce condizionata dalla finalità deflattiva connessa all’accorciamento della durata dei processi.
Non essendo coinvolte le fattispecie incriminatrici che restano numericamente e qualitativamente invariate si agisce sul processo, sui suoi percorsi, sui suoi tempi.
Attraverso una equazione molto semplice si riducono i tempi riducendo i processi ovvero favorendone gli sviluppi attraverso definizioni intermedie variamente costruite, favorite da un sistema sanzionatorio non necessariamente afflittivo, consensuale, condiviso e comunque con esclusione di restrizione carceraria.
Si spera che a tale proposito si rimedierà al mancato coordinamento con le misure cautelari custodiali soprattutto con la restrizione inframutaria.
Attraverso il consenso o l’adesione alle varie proposte definitorie connesse al materiale dell’accura che si vuole completo, si definiscono i processi i cui esiti trovano difficoltà di confluire nei giudizi di gravame disincentivati anche da offerte premiali.
In questa prospettiva, l’abbreviato condizionato, operante per tutti i reati (delitti e contravvenzioni) con esclusione di quelli puniti con l'ergastolo, si prospetta come l’ultima chiamata anche in considerazione dell’annunciata riforma della prescrizione per il condannato e dalla contestuale restrizione dell’accesso al giudizio di appello nonché ai ricorsi per cassazione.
In altri termini, non essendo state utilizzate le altre alternative alla ipotizzata deflazione, l’accesso premiale al rito abbreviato condizionato si prospetta come una opportunità da valutare con attenzione anche perché non può escludersi, per intuibili ragioni, una certa disponibilità del giudice del dibattimento a concederlo.
Tra i profili che dovranno essere approfonditi, si segnalano senza pretesa di completezza: l’operatività di quanto previsto dall’ultimo comma del art 360 cpp; la sanabilità o meno delle nullità dell’udienza preliminare; le sorti delle indagini difensive prodotte in limine e i poteri dell’accusa; la possibilità di reiterare la domanda per ipotesi progressivamente più ridotte; la controllabilità a seguito di appello della decisione negativa con la conseguente perdita dello sconto per il non appellate; la possibilità in caso di esito negativo di chiedere l’abbreviato secco o il patteggiamento come oggi è possibile in sede di udienza preliminare; la possibilità di chiede il giudizio immediato per evitare la decisione del GIP e poi chiedere l’abbreviato condizionato (possibile solo a dibattimento).
Restano comunque perplessità che dovrebbero essere superate da subito come quella relativa all’entità della riduzione della pena fino ad un terzo in quanto sono incerti i suoi parametri che si aggiungono all’incertezza della soglia di partenza che lascia al giudice troppa discrezionalità con il rischio di un contenzioso che potrebbe essere evitato.
Forse anche per questa ragione, ma il dato con può essere condiviso, si prevede per evitare la prospettiva del concordato in appello un ulteriore sconto di pena per il non appellante.
Va considerata in ogni caso la difficile inquadrabilità della previsione seppur nella progressione dell’economicità del rito contratto.
Le riferite indicazioni sono destinate ad accentuarsi con riferimento al processo davanti al giudice monocratico.
Come noto, questo procedimento, mancando l’udienza preliminare, vedrà la presenza di un’ inedita udienza predibattimentale svolta da un giudice del dibattimento.
Le già segnalate negative implicazioni dei possibili sviluppi del procedimento in punto di incompatibilità, si accentuano nel caso del rito abbreviato condizionato, anche a prescindere dalla presenza di coimputati che si orientino su strategie diverse.
Invero, la difesa discuterà sulla scorta della citazione diretta a giudizio formulata dal pubblico ministero, che non avrà chiesto l’archiviazione, davanti ad un giudice del dibattimento dei possibili sviluppi processuali: sentenza di non luogo ovvero decreto che dispone il giudizio.
Certamente, la difesa potrebbe proporre un abbreviato secco o un patteggiamento o una messa alla prova ma cercherà soprattutto di evitare il dibattimento.
In caso di esito negativo, potrà appunto essere chiesto il giudizio abbreviato condizionato, anche mascherano invero uno secco davanti ad un altro giudice dibattimentale, scelta dopo l’esito negativo da valutare con attenzione configurandosi appunto come ultima chiamata.
Tenuto conto di quanto si è fino ad ora detto, anche sulla scorta delle indicazioni contenute ne documento sottoscritto da un gruppo di magistrati, questo percorso nato anche sulla scorta di alcune prassi e definito abbreviato atipico potrebbe assurgere a rito privilegiato.
LE TABELLE DEGLI UFFICI GIUDIZIARI - prima parte -
Il sistema tabellare di Gianfranco Gilardi
Sommario : 1. Il Consiglio superiore della magistratura come vertice dell’organizzazione giudiziaria. - 2. Organizzazione degli uffici giudiziari e funzione delle direttive del Consiglio superiore della magistratura in materia tabellare. – 3. Le prime circolari in materia tabellare e gli sviluppi successivi. - 4. Il sistema tabellare e la riforma dell’ordinamento giudiziario.
1. Il Consiglio superiore della magistratura come vertice dell’organizzazione giudiziaria
Dell’insieme di norme e garanzie che costituiscono l’assetto costituzionale della magistratura assumono specifico rilievo quelle relative al Consiglio superiore della magistratura, concepito dal Costituente quale barriera contro i rischi di condizionamento che, nell'assetto dello Stato pre-repubblicano, derivavano dalla conformazione gerarchico - burocratica della carriere e dalla sua riconduzione alla sfera del controllo politico attraverso il circuito Ministro/Corte di cassazione/capi degli uffici giudiziari[1]. Sono stati così devoluti al Consiglio superiore della magistratura (art. 105 Cost.) i poteri in tema di assunzioni, assegnazioni e trasferimenti, promozioni e provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati prima spettanti al Ministro, al quale rimangono attribuiti - ferme le competenze del Consiglio superiore della magistratura, ed in una logica di leale cooperazione istituzionale più volte sottolineata dalla stessa Corte Costituzionale – l’organizzazione ed il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia (art. 110 Cost.).
Il sistema “tabellare”[2] è nato dall’intreccio dei due fattori più sopra indicati, e trova fondamento nel principio secondo cui l’organizzazione del lavoro giudiziario deve ispirarsi all’esigenza - comune a ogni ramo della pubblica amministrazione - di garantire il buon funzionamento e l’imparzialità del servizio e, insieme, a quella di assicurare che lo svolgimento delle funzioni giurisdizionali avvenga al riparo da ogni condizionamento non solo esterno, ma anche interno alla magistratura. L’intera trama delle norme costituzionali sull’indipendenza dell’ordine giudiziario è posta a presidio di questa finalità ed è diretta ad evitare che la scelta del giudice nella singola controversia possa essere influenzata dagli interessi in gioco o dalla qualità delle parti. Pertanto, come l’assegnazione di ciascun magistrato a questo o a quel posto dell’organico deve avvenire in base a concorsi interni diretti a garantite la trasparenza delle procedure, l’obiettività delle scelte e la funzionalità del servizio, così i singoli affari debbono essere distribuiti in base a criteri oggettivi, predeterminati e insuscettibili di deroghe che non siano a loro volta obiettivamente motivate.
Per assicurare le indicate finalità, che attingono direttamente ai principi costituzionali del giudice naturale (art. 25 della Costituzione) e del buon andamento e dell’imparzialità dell’amministrazione (art. 97 della Costituzione), il Consiglio Superiore della magistratura emana periodicamente (salvo che non si rendano necessari specifici interventi per far fronte a particolari esigenze) apposite circolari contenenti i criteri cui attenersi nella formazione delle proposte di organizzazione degli uffici giudiziari e, cioè, nella formazione delle c. d. “tabelle”. Come si legge nelle diverse circolari che nel corso del tempo hanno disciplinato la formazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudicanti, il «sistema tabellare» costituisce il cardine della struttura organizzativa degli uffici, configurandosi come il primo essenziale atto organizzatorio degli uffici giurisdizionali, in quanto le tabelle delineano l'organigramma dell'ufficio, la sua ripartizione in sezioni, l'assegnazione alle stesse dei singoli magistrati ed i criteri di assegnazione degli affari giudiziari e, quindi, stabiliscono le linee informatrici dell'attività di organizzazione e ne consentono il controllo. Il procedimento di formazione delle tabelle, ed in particolare l'assegnazione degli affari effettuata secondo criteri obiettivi e predeterminati indicati in via generale, consente l'effettiva precostituzione del giudice naturale così come stabilito dall'art. 25 Costituzione[3], nonché la tendenziale attuazione dei valori di indipendenza interna (nel senso di assenza di ogni condizionamento proveniente dall'interno della stessa struttura giudiziaria), di inamovibilità ed imparzialità del giudice, nella consapevolezza che ogni assetto organizzativo non soltanto condiziona la funzionalità e l’efficienza del servizio, ma è altresì in grado di influenzare gli indirizzi, i modi di svolgimento e gli esiti stessi della giurisdizione: sicché la fisiologica discrezionalità spettante ai magistrati dirigenti nell’organizzazione degli uffici deve esercitarsi all’interno dei binari posti dalla normativa primaria e secondaria, anche allo scopo di garantire il principi per cui i magistrati non si distinguono tra loro se non per funzioni[4].
2. Organizzazione degli uffici giudiziari e funzione delle direttive del Consiglio superiore della magistratura in materia tabellare
I poteri del Csm in materia di organizzazione degli uffici giudiziari, discendenti dall’art. 105 della Costituzione e peraltro inseriti in un complesso sistema di garanzie tutte preordinate a tutelare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, hanno natura amministrativa e sono diretti unicamente ad assicurare continuità ed unitarietà di indirizzo organizzativo. Neppure il Consiglio, infatti, potrebbe incidere sui contenuti della giurisdizione interferendo nell’attività interpretativa dei giudici. Si tratta invece di fare in modo che l’esercizio delle funzioni amministrative strumentali all’esercizio della giurisdizione, quali sono appunto le attività inerenti all’organizzazione degli uffici giudiziari, si svolgono in modo coerente e secondo indirizzi unitari, proprio allo scopo di tutelare l’indipendenza c. d. “interna” e la parità di trattamento dei magistrati contro possibili discriminazioni o arbitri nell’assegnazione dei posti o degli affari e, ad un tempo, di assicurare criteri di buona amministrazione nell’uso degli strumenti e delle risorse. Di qui l’esigenza che il Consiglio si ponga come momento di vertice rispetto ai dirigenti degli uffici giudiziari in capo ai quali (nonostante lo smantellamento del sistema gerarchico - burocratico delle carriere) sono rimasti concentrati per lungo tempo amplissimi poteri amministrativi ed organizzativi (dall'assegnazione dei processi alla sostituzione dei giudici, dalla gestione del personale a quella dei mezzi materiali) esercitabili e di fatto esercitati, in modo assolutamente discrezionale ed al riparo da efficaci controlli[5], e che sia ad esso attribuito il potere di impartire direttive vincolanti. Il Csm, beninteso, non può imporre direttamente moduli organizzativi, sostituendosi al potere di proposta spettante ai singoli dirigenti degli uffici, ma deve verificare che le proposte da questi formulate siano rispettose, oltre che delle norme di legge, delle direttive generali e dei principi di razionalità organizzativa. Le proposte tabellari, infatti, debbono costituire un vero e proprio progetto organizzativo funzionale all’esigenza di fornire una risposta tempestiva alla domanda di giustizia presente in ciascuna realtà territoriale, con l’obiettivo di massima efficienza che i dirigenti degli uffici giudiziari hanno il dovere di perseguire nel rispetto dei principi generali, delle norme sull’ordinamento giudiziario e delle direttive del Consiglio, che a partire dalla circolare relativa all’organizzazione degli uffici giudiziari per il biennio 2002/2003 ha fatto esplicito richiamo, tra l’altro, al principio della ragionevole durata del processo poi anche formalmente enunciato dall’articolo 111 della Costituzione, e con la circolare relativa al biennio 2006 - 2007 ha introdotto le Commissioni per l’analisi dei flussi e delle pendenze, più comunemente denominate “Commissioni Flussi” che, in posizione strumentale rispetto all’operato del Consiglio giudiziario (ma con possibilità anche per il dirigente dell’ufficio di avvalersi del loro contributo), hanno il compito di valutare la correttezza dell’analisi dei flussi posta a base del programma organizzativo e l’idoneità della proposta tabellare al raggiungimento degli obbiettivi fissati[6].
Con delibera del CSM in data 23 luglio 2008 è stata inoltre istituita la Struttura Tecnica per l’Organizzazione (STO) prevista di cui all’art. 18 del Regolamento interno del Consiglio 2008 [7].
A proposito dei poteri regolamentari del Csm (di cui quelli in materia tabellare costituiscono una delle manifestazioni più significative) si è talvolta parlato di attività “paranormativa”, utilizzando un’espressione in qualche modo ambigua in quanto evocatrice di una sorta di sconfinamento del Consiglio dalle sue competenze istituzionali a quelle proprie del legislatore. In realtà tali poteri costituiscono naturale espressione della specifica collocazione istituzionale dell’organo quale vertice della magistratura dal punto di vista delle funzioni amministrative inerenti all’esercizio della giurisdizione e - risolvendosi nella preventiva determinazione dei criteri che il Consiglio intende applicare nell’esercizio dei propri compiti - si manifestano come momenti di autolimitazione della discrezionalità amministrativa e di certezza del comportamenti futuro cui si atterrà il titolare delle suddette competenze[8].
3. Le prime circolari in materia tabellare e gli sviluppi successivi
L'assetto normativo vigente costituisce il risultato di una evoluzione lunga e complessa che ha portato al formale e definitivo riconoscimento dell'esclusiva appartenenza al Consiglio superiore del potere di formazione delle tabelle degli uffici e della disciplina pressoché integrale del relativo procedimento. Il potere del Csm di emettere direttive per l'organizzazione ed il funzionamento degli uffici, oltre che nell’art. 105 della Cost., trova fondamento nelle disposizioni contenute nell'art. 10 bis della legge 195/1958 (introdotto dall’art. 4 d.l. 394/1987 conv., con modificazioni, nella legge 479/1987) e negli artt. 7 bis e ter del r.d. 12/1941, aggiunti dall’art. 3 d.p.r. 449/1988, con le successive modifiche di cui al d. lg. 51/1998, alla legge 63/2001, al d. lg. 106/2006 ed alla legge 111/2007.
L’importanza e la centralità della disciplina tabellare in vista della realizzazione del principio del giudice naturale è stata espressamente affermata dalla Corte costituzionale che nella sentenza 14 gennaio 1986, n. 4 evidenziò il ruolo di “pietra angolare” del Consiglio superiore della magistratura nell’ordinamento giudiziario, posto che, “per espresso dettato della Costituzione (artt. 104 -107) sono riservati al Consiglio superiore tutti i poteri in ordine allo status di tutti i magistrati ordinari, siano giudicanti o requirenti, collegiali o monocratici, professionali od onorari. Ed in coerenza con l'attribuzione della totalità dei poteri sui singoli magistrati si deve riconoscere che spetta ad esso di deliberare anche i provvedimenti riflettenti gli organi giudiziari oltre che il pubblico ministero”[9].
Le funzioni del Csm in materia tabellare hanno avuto una prima, significativa esplicazione con la circolare n. 81 del 1969. Dopo aver ribadito, alla stregua di un’interpretazione sistematica della normativa vigente, la propria competenza a provvedere sulla composizione di tutti gli uffici giudiziari (e, quindi, anche degli allora esistenti uffici della pretura che si volevano sottratti a tale competenza in base ad una lettura restrittiva dell’art. 63, 1° co. d.p.r. 916/1958), il Consiglio dispose che prima di formulare le proposte di assegnazione dei magistrati, i capi degli uffici dovessero interpellare gli interessati invitandoli ad esprimere eventuali rilievi, osservazioni e richieste, e stabilì che copia delle proposte fosse depositata nelle cancellerie delle corti d’appello, dei tribunali e delle preture divise in sezioni per consentire a tutti i magistrati di inoltrare direttamente al Consiglio le proprie richieste ed osservazioni. Con tale circolare venne tra l’altro prescritto che le assegnazioni tabellari, modificabili in corso d’anno solo previa adeguata motivazione, fossero effettuate unicamente in base ad esigenze di servizio, al fine di evitare ingiustificate trasmigrazioni da una sezione all’altra o, peggio, trasferimenti punitivi dei magistrati dal ramo civile a quello penale” in ragione del merito dei provvedimenti da loro adottati o delle opinioni da loro espresse[10] e furono indicati criteri per la salvaguardia di alcune esigenze fondamentali tra cui, in particolare, quella di ridimensionare le (allora) pletoriche sezioni civili nella prospettiva di rivalutazione della giurisdizione penale; quella di distribuire le eventuali carenze dell’organico proporzionalmente su ciascuna sezione e di operare un certo avvicendamento dei magistrati, al fine di evitare specializzazioni limitate a settori circoscritti; di seguire fra le sezioni civili e penali il criterio di un’equa distribuzione qualitativa; di costituire sezioni promiscue nei tribunale e nella preture divise in sezioni, sulla base tuttavia di una attribuzione rigidamente predeterminata e di una composizione precostituita. Di tale circolare meritano di essere segnalati l’esplicito riconoscimento che l’”attività dell’organo di autogoverno risulterà tanto più efficace nella misura in cui ciascun magistrato potrà responsabilmente contribuire all’elaborazione dei fondamentali indirizzi di gestione dell’apparato giudiziario”, e la sottolineatura della stretta connessione intercorrente tra i provvedimenti di organizzazione e le “fondamentali guarentigie dei giudici”, in particolare la garanzia dell’inamovibilità da intendersi tutelata alla stregua dell’art. 107 Cost. – come già precisato dallo stesso Consiglio nella circolare n. 7640 del 1971 – quale garanzia di stabilità nella carica, nella sede e nelle funzioni”. Tale disciplina non subì modifiche nel corso della 4^ consiliatura (1972-1976), caratterizzata dalla composizione non pluralistica dell’organo e dall’assoluta prevalenza che il sistema elettorale allora vigente riuscì ad assicurare ad un gruppo associativo. Mutata, nella successiva consiliatura (1976-1981) la composizione dei componenti elettivi, l’accresciuta e più incisiva consapevolezza del proprio ruolo da parte del Consiglio, la riconduzione del principio di inamovibilità al più complesso sistema dei valori costituzionali che tutelano l’indipendenza, anche interna, della magistratura[11], la tragica emersione del terrorismo nel Paese furono all’origine delle importanti innovazioni introdotte con la circolare 7 ottobre 1977, n. 5520 e della successiva integrazione del 13 febbraio 1979[12].
L’insieme dei principi organizzativi risultanti dalla circolare n. 5520/1977, e dalla sua integrazione del 1979, fu ulteriormente arricchito nel corso della successiva attività consiliare. I più significativi sviluppi si sono avuti lungo quattro direzioni fondamentali: una più dettagliata disciplina della precostituzione dei collegi; una più specifica e garantistica regolamentazione delle procedure relative ai tramutamenti interni dei magistrati, opportunamente estesa ed adattata anche alle assegnazioni degli uditori (ora, magistrati di prima nomina); un’esplicita attuazione del principio del giudice naturale anche con riferimento ai criteri di distribuzione degli affari; l’estensione delle regole tabellari – con i dovuti adattamenti – alla Corte di cassazione ed agli uffici delle Procure.
Il significato della regola relativa alla precostituzione – che aveva suscitato osservazioni da parte di alcuni presidenti di Corte d’appello – fu illustrato dal Csm già in una delibera del 20 luglio 1978 ove si metteva in luce che la precostituzione dei collegi giudicanti ed i criteri subordinati per un avvicendamento precostituito (o sostituzione) dei relativi componenti, trovavano
La mancanza di regole procedimentali chiare ed esplicite sul delicato punto relativo ai tramutamenti interni dei magistrati, aveva consentito il permanere di larghi spazi di discrezionalità nelle scelte dei dirigenti, scelte che venivano non di rado attuate secondo logiche cooptatorie ed in base a criteri personali che variavano a seconda delle circostanze. A partire dalla circolare n. 8745/1984, fu pertanto stabilito che i dirigenti, prima di formulare le proposte di tramutamento, dovessero dare comunicazione dei posti da coprire a tutti i magistrati dell’ufficio, assegnando loro un congruo termine per proporre domanda. Con la stessa circolare venne inoltre precisato che i dirigenti avrebbero provveduto all’assegnazione degli uditori alle sezioni o ai settori di servizio proponendo, non appena il Csm avesse deliberato sulla destinazione alle sedi, le relative variazioni tabellari destinate ad avere effetto con il conferimento delle funzioni in modo tale da consentire un efficace svolgimento del tirocinio mirato, salva diversa destinazione per comprovate esigenze di servizio. Quanto ai parametri di valutazione ad adottare ai fini delle proposte di tramutamento, i congiunti criteri delle attitudini, dell’anzianità di servizio nell’Ufficio e dell’anzianità nel ruolo, su cui le direttive avevano finito per assestarsi fin dal 1981 (circ. n. 7252/1981), vennero precisati, con la circolare n. 7551/1986, nel senso di dare la prevalenza al criterio dell’anzianità nel ruolo, con la specificazione che ove fosse stato preferito il più anziano nel ruolo nel caso di tramutamento a domanda, ovvero il meno anziano nel caso di tramutamento d’ufficio, avrebbero dovuto essere esplicitamente motivate le ragioni per le quali non si fosse ritenuto prevalente un altro criterio. Pur consapevole della inadeguatezza del criterio dell’anzianità come strumento capace di assicurare in ogni caso la scelta più opportuna sotto il profilo del miglior svolgimento del servizio, a tale precisazione il Consiglio era stato indotto dalla considerazione della non manipolabilità del criterio in esame e, quindi, dalla sua funzione garantistica in un contesto caratterizzato dalla radicale insufficienza degli strumenti di formazione e di rilevazione della professionalità dei magistrati[13]. Di qui l’esigenza di specifica motivazione per le proposte di tramutamento fondate su criteri diversi dall’anzianità nel ruolo, con l’ulteriore prescrizione secondo cui “i criteri orientativi delle proposte dei dirigenti avrebbero dovuto essere essenzialmente coerenti e uniformi, e cioè validi per tutti e non modificati da caso a caso in relazione alle singole proposte di variazione tabellare” (circ. n. 7551/1986; n. 6308/1987).
Ma non meno significativi e rilevanti furono gli sviluppi assunti dalle circolari nell’ulteriore, duplice direzione dianzi segnalata. Al graduale emergere, nel dibattito culturale e dottrinario, dei valori racchiusi nel principio del “giudice naturale”, che da norma preordinata a porre la magistratura al riparo da interferenze di poteri esterni e da principio regolatore di un ordinato sistema di competenze, era stato finalmente recepito nel suo significato di garanzia anche contro possibili deviazioni imputabili alla stessa struttura giudiziaria (come espressiva, cioè, dell’esigenza che nessun giudice sia designato successivamente all’insorgere della regiudicanda) fece riscontro nel Consiglio superiore la circolare n. 8745/1984 nella quale venne per la prima volta precisato che, nell’esercizio delle funzioni di loro competenza in materia di distribuzione degli affari tra le sezioni e di assegnazione di essi ai singoli magistrati, i capi di tutti gli uffici dovessero adottare ed indicare nelle proposte tabellari criteri oggettivi e predeterminati, individuati e formulati in modo tale da consentire la successiva verifica della loro osservanza, così come avrebbero dovuto essere analiticamente specificati i criteri correttivi eventualmente previsti in relazione agli inconvenienti che si presume potessero verificarsi nell’applicazione concreta dei criteri di assegnazione.
Anche tali direttive, costituenti lo sbocco di un’evoluzione nella quale il Csm ha saputo esercitare un ruolo più avanzato rispetto a quello svolto sul punto dalla stessa Corte costituzionale, hanno suscitato vivaci reazioni, rimproverandosi da taluni al Consiglio di avere sconfinato in campi estranei alla propria competenza; ma è bene sottolineare che le circolari del Csm si astengono dal prescrivere i criteri che dovranno essere adottati in concreto all’interno dei singoli uffici giudiziari, e si limitano semplicemente a ribadire l’esigenza che l’assegnazione degli affari avvenga nel rispetto dell’art. 25 della Costituzione, il quale costituisce la fonte diretta e primaria degli obblighi imposti in materia ai dirigenti degli uffici. Conseguentemente, le direttive in esame hanno il solo scopo di controllare e assicurare che l’esercizio delle corrispondenti funzioni da parte dei dirigenti si svolga nel rispetto dei principi costituzionali.
Se nell’ottica dell’art. 25 Cost. è in gioco, in definitiva, “la capacità di uno dei fondamentali poteri dello Stato a venir gestito altrettanto pluralisticamente quanto eterogeneo è il novero delle forze sociali che compongono la collettività"[14], e se ai cittadini non è possibile assicurare la certezza del diritto, ma è doveroso garantire la certezza del giudice, l’anomalia del sistema non poteva non emergere a livello di quegli uffici, come la Corte di cassazione e le Procure, che avevano sempre usufruito di una sorta di extraterritorialità rispetto alle funzioni di governo e di controllo del Csm[15] I trasferimenti di tanti processi (dalle vicende di Piazza Fontana alla P2 ai fondi neri dell’IRI[16]) stavano a dimostrare quale sia il valore garantistico del principio del giudice relativo alla precostituzione del giudice. Ed è perciò che il Csm, con una direttiva di grande rilievo politico-istituzionale che incontrò le resistenze del presidente e del procuratore generale della Cassazione, nella circolare n. 6308/1987 sulle tabelle per il 1988 estese la procedura tabellare anche a quest’ultimo ufficio, sebbene la mancanza – sino all’istituzione del gruppo consultivo e, successivamente, del Consiglio direttivo presso la Corte di cassazione: cfr., infra, par. 7 - di un organo consultivo competente ad esprimere pareri in ordine a quell’ufficio, avesse reso inevitabile demandare la funzione consultiva sulle tabelle allo stesso Presidente della Cassazione e, cioè, allo stesso organo che formula le proposte.
Per gli uffici della Procura, più di ogni altro segnati da una concezione gerarchico - burocratica dell’istituzione e dall’ambigua commistione nel Pubblico Ministero (con riguardo alla legislazione allora vigente) della figura di parte e quella di giudice, la sola estensione ritenuta possibile fu quella risultante dall’art. 8 della circolare che apparve nondimeno, anche sul punto, dirompente e innovativa.
4. Il sistema tabellare e la riforma dell’ordinamento giudiziario
Quelle indicate sono le linee fondamentali lungo le quali si sono andate sviluppando le direttive tabellari del Csm, che l’esperienza concreta del governo autonomo, l’apporto dei consigli giudiziari e le osservazioni dei magistrati, gli incontri di formazione professionale hanno consentito nel corso degli anni di precisare e di rendere sempre più articolate e complesse, anche per la necessità di far fronte ad interventi legislativi che hanno influito in vario modo sull’organizzazione degli uffici.
La riforma dell’ordinamento giudiziario di cui alle leggi n. 150/2005 e successive[17], a parte quanto si dirà infra, al par. 11 per gli Uffici di Procura (che il d. lg. 106/2006 voleva caratterizzare nuovamente con un’impronta in senso fortemente gerarchico, non venuta del tutto meno neppure a seguito della legge 269/2007, limitatasi a cancellare solo gli aspetti più pericolosi figuranti nella legge n. 150), non ha alterato nella sostanza il sistema tabellare così come si era venuto delineando nel corso di un’esperienza ormai pluridecennale[18], pur essendo numerosi gli aspetti della riforma che, direttamente o indirettamente, lo hanno interessato: dalle disposizioni che hanno inciso sugli uffici delle Procure e sulla relativa organizzazione, tra cui in particolare l’abrogazione dell’art. 7 ter, terzo comma ord. giud., alla norma che ha elevato a tre anni la durata delle tabelle[19], con effetti anche su quelle relative al biennio 2007/2008[20], dalle modifiche concernenti gli organi ausiliari preposti al sistema dei controlli tabellari (composizione, durata, sistema elettorale, compiti e funzioni dei consigli giudiziari; istituzione del consiglio direttivo presso la Corte di cassazione), a quelle relative alle incompatibilità nei tramutamenti[21], alla temporaneità degli incarichi direttivi e semidirettivi[22] ed ai limiti di permanenza massima nelle medesime funzioni o nel medesimo incarico nell’ambito delle stesse funzioni[23], destinate ad avere ripercussioni immediate, già nella fase transitoria, sugli assetti tabellari; dalle previsioni del d. lg. 240/2006 in tema di c.d. “doppia dirigenza”[24] e di “programma delle attività” che il magistrato capo dell’ufficio giudiziario ed il dirigente amministrativo dovranno redigere annualmente; a quelle sul divieto per i magistrati ordinari al termine del tirocinio di essere destinati a svolgere le funzioni requirenti, giudicanti monocratiche penali o di giudice per le indagini preliminari o di giudice dell’udienza preliminare, anteriormente al conseguimento della prima valutazione di professionalità (ma vedi, già, da ultimo, le indicazioni contenute nell’art. 35 della circolare sulla formazione delle tabelle per il biennio 2006/2007), alle norme sulle valutazioni di professionalità e sui tramutamenti, di cui sono evidenti i possibili risvolti anche nella materia tabellare.
[1] Cfr. in generale, anche con riferimento alla situazione della magistratura negli anni cinquanta ed alla storia dell’associazionismo giudiziario, Storia della magistratura italiana, Il Mulino, Bologna, 2012; id., La storia dell’associazionismo giudiziario: alcune notazioni, in Questione Giustizia, n. 4/2015, http://questionegiustizia.it/rivista/2015/4/la-storia-dell-associazionismo-giudiziario_alcune-notazioni_303.php; Scarpari, I magistrati, il fascismo, la guerra, in Questione Giustizia, 2008, 71 ss.; Scarselli, Ordinamento giudiziario e forense, Milano, 48 ss., 75 ss.; Bruti Liberati, La magistratura dall'attuazione della Costituzione agli anni Novanta, in Storia d’Italia Einaudi in 10 cd - rom, nono cd – rom; Palombarini, Giudici a sinistra, Napoli, 2000, 29 ss.; V. Zagrebelsky, La magistratura ordinaria dalla Costituzione a oggi, in Legge, Diritto, Giustizia, Einaudi, 1998; Bruti Liberati-Pepino, Autogoverno o controllo della magistratura?Il modello italiano del Consiglio superiore, Milano, 1998, 13 ss.; Onida, La posizione costituzionale del Csm e i rapporti con gli altri poteri, in Magistratura, Csm e principi costituzionali, a cura di B. Carovita, Bari 1994; Pizzorusso, L’organizzazione della giustizia in Italia. La magistratura nel sistema politico e istituzionale, Torino 1990 (terza ed.); Bonifacio – Giacobbe, Art. 104 – 107, in Commentario della Costituzione, Bologna - Roma 1986; Treves, Giustizia e giudici nella società italiana, Bari1975; Canosa – Federico, La magistratura in Italia dal 1945 ad oggi, Bologna, 1975; Magistrati o funzionari? (a cura di G. Maranini), Milano 1962. Tra i più recenti cfr. Paciotti, Breve storia della magistratura italiana, ad uso di chi non sa o non ricorda, in Questione Giustizia, 7 marzo 2018; Bruti Liberati, Magistratura e società nell’Italia repubblicana, Edizioni Laterza, 2018; Scarpari, Giustizia politica e magistratura dalla Grande Guerra al fascismo, Il Mulino, 2019; R. Rordorf, Magistratura Giustizia Società, Cacucci Editore, Bari 2020 nonché - anche per ulteriori riferimenti - il mio La crisi dell’associazionismo giudiziario e la necessità di risalire la china, in Questione Giustizia, 30 ottobre 2020 https://www.questionegiustizia.it/articolo/la-crisi-dell-associazionismo-giudiziario-e-la-necessita-di-risalire-la-china
[2] Cfr., in generale,Viazzi, Natura, funzione e principali problematiche del sistema tabellare, Relazione alle giornate di studio del Csm su temi interdisciplinari per uditori giudiziari nominati con D.M. 19.10.2004 (I gruppo), Roma, 17 – 19 ottobre 2005; Garzia, Natura, funzioni e principali problematiche del sistema tabellare, Relazione alle giornate di studio del Csm su temi interdisciplinari per uditori giudiziari nominati con D.M. 19.10.2004 (IV gruppo), Roma, 24 – 26 ottobre 2005; Scarselli, cit., 116 ss.; Galoppi, Il sistema tabellare come strumento di garanzia e di efficienza; diritti e doveri nel procedimento tabellare, Relazione alla prima settimana di studio del Csm relativa al tirocinio ordinario in materia ordinamentale riservata agli uditori giudiziari nominati con D.M. 19.11.2002, Roma, 15 – 17 settembre 2003; Genovese, Storia e funzione del diritto tabellare (dalle previsioni ordinamentali del 1865 all’ordinamento Grandi, dalla Costituzione all’attuale disciplina), Relazione alle giornate di studio del Csm su temi interdisciplinari nell'ambito del tirocinio ordinario per gli uditori giudiziari nominati con D.M. 18.01.2002, Roma, 30 settembre – 3 ottobre 2002; Fantacchiotti, Il sistema tabellare degli uffici giudiziari; il programma Valeria. La mobilità dei giudici: tramutamenti, applicazioni e supplenze, coassegnazione e supplenza infradistrettuale, la pianta organica dei magistrati infradistrettuali, Relazione alle giornate di studio del Csm su temi interdisciplinari per gli uditori giudiziari nominati con D.M. 18.01.2002, Roma, 8 – 11 luglio 2002; Diotallevi, L’immediata esecutività delle variazioni tabellari tra giudice unico e sezioni stralcio, in Dir. pen. proc., 2000, 636.
[3] Cfr. tra gli altri, anche per un’analisi dello sviluppo dottrinario, legislativo e giurisprudenziale sul principio del giudice naturale, Scarselli, Ordinamento giudiziario e forense, cit., 113 ss.; Viazzi, Ordinamento giudiziario, organizzazione degli uffici, distribuzione degli affari, questioni tabellari, Relazione all’incontro di studio del Csm nell’ambito della formazione decentrata, Palermo 20 dicembre 2003; Conti, Sistema tabellare e precostituzione del giudice: una disciplina solo apparentemente innocua, nota a Cass. 11 giugno 1999, in Dir. pen. proc., 1999, 1286; Salvato, L’organizzazione degli uffici giudiziari: il sistema tabellare, in Cass. pen., 1999, 1045; Salmè, Disciplina tabellare e funzionamento della corte di cassazione, in Gazz. Giur., 1999, fasc. 29, 3; Romboli, Giudice naturale, voce dell’Enc. del diritto, Milano, 1998, II, Agg., 365; Id., Teoria e prassi del principio di precostituzione del giudice, in Il principio di precostituzione del giudice, in Quaderni del Csm, 1995, n. 66; Id., Il giudice naturale, Milano, 1981; Nobili, Commentario della Costituzione a cura si G. Branca, Bologna - Roma, 1981, sub. art. 25, 135 ss.; Mattone, Il giudice naturale, in La professione del giudice, Milano, 1986, 23 ss.
[4] Cfr. Gilardi, La gestione degli uffici giudiziari a Milano, in Questione Giustizia, 1986, 331 ss.
[5] Da tempo la dottrina aveva definito il rapporto tra Consiglio superiore della magistratura e dirigenti degli uffici giudiziari in termini di relazione gerarchica: vedi, già, Pizzorusso, Organi giudiziari, in Enc. del diritto, vol. XXXI, Milano, 1981, 83 ss.; Id., L’organizzazione della giustizia in Italia, Torino, 1985, 85- 86; Viazzi, I consigli giudiziari. Natura, poteri e prospettive, in Quaderni della giustizia, n. 52, 31 ss.
[6] Si tratta di organismi ausiliari dei Consigli giudiziari istituiti presso ogni distretto di corte d’appello. La loro composizione (che prevede anche la presenza di avvocati) varia a seconda delle dimensioni del distretto, ed il relativo funzionamento è disciplinato dalla Circolare sulla formazione delle tabelle e dai regolamenti dei singoli Consigli giudiziari.
[7] Si tratta di un organo consiliare permanente composto da dieci magistrati nominati dal Consiglio, previo interpello, tra coloro che abbiano maturato esperienza in tema di organizzazione e informatizzazione degli uffici, di analisi dei flussi, di carichi di lavoro e di pendenze dei procedimenti e dei processi, con i seguenti compiti:
- acquisire ed analizzare informazioni sui carichi di lavoro, sui flussi e sulle pendenze dei procedimenti e dei processi sia a livello nazionale sia provenienti dalle Commissioni flussi distrettuali, al fine di verificare l’efficienza e l’efficacia dei progetti di organizzazione degli uffici giudiziari e di effettuare adeguate comparazioni tra gli stessi;
- promuovere il confronto e la diffusione delle buone prassi metodologiche e operative anche attraverso la sperimentazione e l’utilizzazione di tecniche innovative;
- favorire omogeneità e qualità delle attività e delle strumentazioni anche informatiche a livello nazionale;
- fornire supporto al Consiglio sia per la verifica dei risultati operativi ottenuti attraverso le attività di indirizzo e di regolamentazione, sia per la definizione periodica del fabbisogno informativo e formativo in questo settore, sia per l’interscambio di dati con il Ministero della Giustizia e le sue articolazioni;
offrire servizi di assistenza a specifiche richieste di intervento locale;
- diffondere gli indirizzi e le deliberazioni del Consiglio Superiore della Magistratura a tutti i responsabili di riferimento a livello locale;
- curare i rapporti con il Consiglio direttivo della Corte di cassazione e i Consigli giudiziari e, in particolare, con i rispettivi referenti distrettuali per l'informatica;
- curare, su indicazione della Settima commissione, l'implementazione del portale unico istituzionale con apposite sezioni relative al processo civile telematico, al processo penale telematico e alle buone prassi di organizzazione.
La STO è disciplinata dal Regolamento approvato dal CSM con delibera del 18 luglio 2018, ed divenuta operativa per la prima volta dopo la nomina dei componenti, avvenuta con delibera plenaria del 10 febbraio 2010.
[8] La Commissione Paladin (istituita dall’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga con il compito di indagare, fra l’altro, in ordine al fondamento normativo delle circolari consiliari) e presieduta dal prof. Livio Paladin, nella sua Relazione del 1° gennaio 1991, a proposito delle “circolari indirizzate dal Consiglio…agli altri organi dotati di poteri in tema di amministrazione della giurisdizione” sottolineava la difficoltà di immaginare interventi normativi la cui disciplina fosse “così dettagliata e stringente da annichilire il ruolo che, per una serie di aspetti, compete al Consiglio quale vertice organizzativo della magistratura ordinaria”. Sul testo del messaggio alle Camere del 26 luglio 1990 (pubblicato - insieme al testo del decreto istitutivo della Commissione - in Questione giustizia, 1990, 499 ss.) cfr. Borrè, Csm e presidente. Il messaggio alle camere del 26 luglio 1990, ivi, 548 ss. Amplius, sul potere regolamentare del Csm, Bruti Liberati – Pepino, Autogoverno o controllo della magistratura, cit., 90 ss. ed ivi, ampi richiami di dottrina.
Sul ruolo del CSM quale organo non meramente amministrativo cfr., tra gli altri contributi, quelli richiamati nel mio Magistrati e “carriera”: ritrovare l'orgoglio delle funzioni "ordinarie", in giudicedonna.it, n. 2/2020, nota 16 http://www.giudicedonna.it/ cui adde i pareri del CSM sul disegno di legge AC 2681 richiamati in nota 1 del mio Ancora sulle proposte di riforma dell’ordinamento giudiziario, del funzionamento e della legge elettorale del Consiglio superiore della magistratura, ivi, n. 1/2021. Vedi altresì, tra i più recenti, Guglielmi, Dalla crisi e dalle cadute nel governo della magistratura all’attacco alla Giurisdizione, in Questione Giustizia, 22 marzo 2021 https://www.questionegiustizia.it/articolo/dalla-crisi-e-dalle-cadute-nel-governo-della-magistratura-all-attacco-alla-giurisdizione
[9] Vedi, altresì, la sentenza 23 dicembre 1998, n. 419 ove è stato sottolineato come l’individuazione dell’organo giudicante debba “rispondere a regole e criteri che escludano la possibilità di arbitrio anche nella specificazione dell’articolazione interna dell’ufficio cui sia rimesso il giudizio”, e la sentenza 17 luglio 1998, n. 272 con la quale la Corte costituzionale ha puntualizzato che proprio il sistema tabellare, la definizione dei criteri organizzativi da parte del Consiglio superiore della magistratura ed il conseguente controllo ad esso riservato in ordine alla correttezza delle loro applicazioni concorrono ad assicurare il rispetto della garanzia costituzionale.
[10] In occasione della formazione annuale delle tabelle degli uffici giudiziari, il presidente della corte d’appello di Milano, ad esempio, aveva proposto la rimozione di tre pretori del lavoro ed il procuratore generale di Firenze aveva chiesto la rimozione di quattro giudici dalle funzioni penali (cfr. Pappalardo, Gli iconoclasti. Magistratura Democratica nel quadro dell’Associazione Nazionale Magistrati, Milano, 1987, 286 - 287). Cfr. altresì – per l’uso della sanzione disciplinare come strumento di repressione delle opinioni espresse dai magistrati - Palombarini, cit., 175 ss.
[11] Cfr. Csm, Relazione al Parlamento del 1976 sullo stato della giustizia., 73 - 74.
[12] Nel par. 1 vennero enunciate direttive per razionalizzare e potenziare il settore penale. In particolare, allo scopo di assicurare la sollecita trattazione dei procedimenti relativi alla criminalità organizzata ed ai reati di maggiore allarme sociale, fu stabilito che i dirigenti dovessero assegnare a tale settore almeno la metà dei magistrati in organico, salva la possibilità di una diversa distribuzione sulla base di reali e motivate esigenze di servizio. Nel par. 2 venne inserito il limite del biennio di permanenza nella precedente sezione o settore di servizio come requisito di legittimazione per i tramutamenti interni dei magistrati e furono indicati i criteri di valutazione da seguire per la copertura dei posti vacanti (maggiore anzianità di servizio ed attitudini nel caso di più aspiranti al tramutamento; minore anzianità nel servizio in caso di mancanza di aspiranti). Nei par. 3 e 4 furono dettati i criteri per l’assegnazione dei presidenti di sezione, per la precostituzione dei collegi e la composizione degli Uffici Istruzione specificandosi, rispetto a questi ultimi, che alle esigenze relative avrebbe dovuto provvedersi con l’assegnazione di magistrati aventi almeno un anno di anzianità nell’esercizio delle funzioni (circolare 13 febbraio 1979). Seguiva, quindi, un paragrafo relativo al deposito delle proposte tabellari, al parere dei Consigli giudiziari, utilizzati per la prima volta dal Csm come organi consultivi nella materia in esame ed alle procedure da adottare per i tramutamenti in corso d’anno. Nel par. 6, infine, veniva precisato come il principio del giudice naturale postulasse, per un verso, che i componenti delle singole unità operative fossero individuati in modo stabile e senza alternative lasciate alla discrezionalità del “caso per caso”; per l’altro verso un sistema di distribuzione degli affari capace di non vanificare il principio della naturalità del giudice, ma di rispettarlo e potenziarlo.
La direttiva con la quale, a cominciare dal 1977 in poi, si era stabilito che al settore penale fosse da assegnare, in linea di principio, la metà dei magistrati in organico, era stata da taluni criticata sotto il profilo che il Consiglio, esorbitando dalla propria competenza, aveva assunto un ruolo d’indirizzo suscettibile di interferire sui concreti contenuti delle attività giurisdizionali. In realtà si trattava di interventi pur sempre relativi all’organizzazione del servizio ed alla individuazione delle priorità nell’impiego delle risorse disponibili, quelle priorità che nel 1969 indussero giustamente a privilegiare l’esigenza di definizione delle controversie di lavoro, ed a partire dalla circolare n. 7582 del 1981 anche la sollecita trattazione dei procedimenti a carico dei detenuti. Piuttosto è da osservare che la scelta del Consiglio è stata certamente influenzata da quel clima dell’”emergenza” che nell’ultimo decennio aveva sbilanciato il sistema della giurisdizione in Italia a tutto danno della giustizia civile. Molto opportunamente, pertanto, il Csm, pur ribadendo come prioritaria l’esigenza di assicurare la sollecita trattazione dei procedimenti penali relativi alla criminalità organizzata, ai reati di maggior allarme e di quelli a carico dei detenuti, a partire dalla circolare n. 6308 del 1987 non ha più confermato la direttiva in questione, scegliendo la strada della ripartizione proporzionata tra il settore penale e quello civile, secondo le esigenze determinate dalla qualità e quantità degli affari giudiziari.
[13] Cfr., successivamente, la nuova disciplina regolamentare di cui alla delibera del 21 novembre 2007, integrativa della circolare n.13000/1999 in tema di conferimento di uffici direttivi, adottata dal Consiglio anche sul rilievo che la riforma dell’ord. giud. e, in particolare, l’art. 12 del d lg. 160/2006, come modificato dalla legge 111/2007, avesse configurato l’anzianità fondamentalmente come requisito di legittimazione, e cioè come presupposto per la partecipazione al concorso, restringendone notevolmente la valenza quale criterio di valutazione, nel senso che il fattore “tempo”, o meglio il fattore “durata”, diviene criterio di validazione dei parametri del merito e delle attitudini dei quali attesta la costanza e la persistenza e perciò lo specifico valore.
Per gli incarichi semidirettivi cfr. la circolare n. P11036/08 di cui alla delibera del 30 aprile 2008, con la quale venne modificata la circolare n. 15098 del 30 novembre 1993 e succ. mod. rilevandosi come anche per gli incarichi semidirettivi il valore dell’anzianità quale parametro di valutazione può residuare solo in termini di “indice dell’esperienza professionale acquisita” e che, effettuata la selezione dei candidati in possesso del requisito legittimante costituito dal conseguimento della necessaria valutazione di professionalità, la durata della positiva esperienza professionale potrà rilevare come criterio di validazione dei requisiti delle attitudini e del merito.
Con la Circolare n. P-14858-2015, approvata con deliberazione del 28 luglio 2015 il CSM ha adottato il “Testo Unico sulla dirigenza giudiziaria” che, sostituendo la previgente circolare n. P. 19244 del 3 agosto 2010, ha messo a punto un articolato sistema di “indicatori generali” (artt. 6-13) e di “indicatori specifici” delle attitudini direttive (artt. 14-23), parametrati ai diversi incarichi oggetto di conferimento. Sul T.U. cfr. Campanelli, Il Nuovo Testo unico sulla Dirigenza giudiziaria: possibili effetti sui limiti del sindacato giurisdizionale, in Questione Giustizia, 9 aprile 2016.
Si rinvia - per le ulteriori modificazioni che si prospettano in materia con il ddl di riforma dell’ord. giud. – infra, al contributo di prossima pubblicazione "Le proposte di riforma dell’ordinamento giudiziario".
[15] L’attuazione del Csm (e quella della stessa Corte costituzionale) non è stata immediata ed ha incontrato resistenze anche all’interno del corpo giudiziario, in particolare da parte della Corte di cassazione che, esercitando un rilevante potere di conformazione attraverso il sistema delle carriere, pur dopo la nascita dei Consiglio vi ebbe per molto tempo un peso dominante, anche per effetto del sistema elettorale allora vigente. Amplius, Pepino - Bruti Liberati, cit., 20 ss., 28 ss
Sul tentativo dell’ex Ministro della giustizia Castelli di ristabilire la Corte di cassazione come vertice anche ordinamentale dell’ordine giudiziario cfr., tra gli altri, AA.VV., in Obiettivo: La corte di cassazione tra istanze di riforma e trasformazione del ruolo, Questione Giustizia, 2005, 949 ss.
[16]Cfr. sul punto, Palombarini, cit., 30-31.
[17] Su riforma vedi, tra gli altri, AA.VV., La “riforma della riforma” dell’ordinamento giudiziario, in Foro it., 2008, V, 87; Pepino, Quale giudice dopo la riforma dell’ordinamento giudiziario? in Questione Giustizia, 2008, 651 ss.; Fazio, La sfida dell’ordinamento giudiziario (Considerazioni realistiche sul “progetto Mastella”), in Questione Giustizia, 2007, 217 ss.; Civinini - Proto Pisani – Salmè - Scarselli, La riforma dell’ordinamento giudiziario tra il ministro Castelli e il ministro Mastella, in Foro it., 2007, 12; Corrado, Le principali novità della legge 111/2007, in Guida al dir., 2007, 33, 115; AA.VV., “Restyling” per la progressione in carriera, in Gli speciali di Guida al diritto, 2007, 34, 14; Patarnello, La dirigenza in magistratura, in Questione giustizia, 2007, 475; Piraccini, La temporaneità delle funzioni e degli incarichi direttivi e semidirettivi, Relazione all’incontro di studio del C.S.M. sulla riforma dell’ordinamento giudiziario, Roma 8 – 10 ottobre 2007; Castelli (C.), La progressione in carriera, in La controriforma dell’ordinamento giudiziario alla prova dei decreti delegati (una questione ed uno scontro ancora aperti, in Questione Giustizia, 2006, 72 ss.; Erbani, La giustizia disciplinare, ivi, 128 ss.; Giangiacomo, I consigli giudiziari, ivi, 93 ss.; Gilardi, La Corte di cassazione, ivi, 119 ss; Marini, La dirigenza degli uffici giudiziari e il decentramento del Ministero, ivi, 139 ss.; Menditto, L'organizzazione delle Procure nella stagione della controriforma, ivi, 890 ss.; Morosini, La scuola della magistratura, ivi, 85 ss.; Pepino, Introduzione a La controriforma dell'ordinamento giudiziario alla prova dei decreti delegati (una questione e uno scontro ancora aperti), ivi, 53 ss.; Pepino, La buona politica e l'ordinamento giudiziario (editoriale), ivi, V; Santalucia, L'accesso alla magistratura ordinaria, ivi, 57 ss.; Id., Il pubblico ministero, ivi. 103 ss.; Rossi, Il futuro dell'ordinamento giudiziario, ivi, 2006, 219 ss. Cfr., altresì, La giustizia secondo il ministro Castelli, in Questione Giustizia, 2002, Obiettivo, 781 ss. con scritti di Erbani, Pizzorusso, Rossi, Salmè, Civinini, Proto Pisani.
Sull’ordinamento giudiziario, più in generale, cfr. tra gli altri S. Petralia, Compendio di ordinamento giudiziario, Neldiritto Editore, 2021; Dal Canto, Lezioni di ordinamento giudiziario, Giappichelli, 2020; Pizzorusso, L'ordinamento giudiziario, Vol. 1, Editoriale Scientifica, 2019; Guarnieri-Insolera-Zilletti, Anatomia del potere giudiziario. Nuove concezioni, nuove sfide, Carocci, 2016; Pomodoro – Pretti, Manuale di ordinamento giudiziario, Giappichelli, 2015; Vietti, Codice dell'ordinamento giudiziario, EGEA. 2013; Scarselli, Ordinamento giudiziario e forense, Giuffrè, IV edizione, 2013; M. Cassano, Ordinamento giudiziario: organizzazione e profili processuali, a cura di D. Carcano, Giuffrè, 2009.
[18] Anche in questi giorni, tuttavia, tornano ad agitarsi altri e gravi venti di modifica che vanno dalla separazione delle carriere, di cui costituisce un aspetto specifico la proposta di istituire Consigli superiori distinti per i magistrati giudicanti e per quelli delle procure, ad una Sezione disciplinare collocata al di fuori del Csm, alla discrezionalità dell’azione penale, ed altro ancora. Sula recentissima iniziativa referendaria in tema di giustizia, cfr. Rossi, Referendum sulla giustizia. E’ possibile parlarne nel “merito”? in Questione Giustizia, 9 giugno2021 https://www.questionegiustizia.it/articolo/referendum-sulla-giustizia-e-possibile-parlarne-nel-mer
[19] Richiamato art. 4, 19° co. della legge 111/2007, che ha modificato l’art. 7 bis dell’ordinamento giudiziario di cui al r.d. 12/1941. Con le proposte di riforma dell’ordinamento giudiziario menzionate infra, al par. 13, si intende elevare la durata delle tabelle a quattro anni.
[20] Risoluzione 10 ottobre 2007 del Csm in materia di durata delle tabelle degli uffici giudicanti e dei criteri di organizzazione degli uffici requirenti, ove si precisò che in conseguenza delle nuove disposizioni fosse da considerare prorogata di diritto fino al 31 dicembre 2008 l’efficacia di tutte le tabelle relative al biennio 2006/2007, sia di quelle già approvate dal Consiglio, sia di quelle in corso di approvazione, ferma per i dirigenti degli uffici la possibilità di proporre per le tabelle in vigore (seguendo l’ordinaria procedura prevista dalla vigente circolare in materia) modifiche ed integrazioni rese necessarie o dimostratesi comunque opportune per adeguare le scelte organizzative alla più lunga durata di cui all’art. 4 della legge 111/2007.
[21] Art. 13, 4° co. d.l. 106/2006, come modificato dalla legge 111/ 2007, che ha disciplinato il passaggio di funzioni da requirenti a giudicanti e viceversa. Con delibera del 4 ottobre 2007 (“Direttive generali in relazione all'applicazione dell'art. 13 del D. Lgs. 160/06 come modificato dalla Legge 111 del 30 luglio 2007 ai procedimenti di nomina per uffici direttivi e semidirettivi in corso alla data del 31 luglio 2007”) il Csm, occupandosi del problema dell’applicabilità della nuova normativa ai procedimenti in corso di trattazione per posti direttivi e semidirettivi già banditi prima dell’entrata in vigore della legge, chiarì che - in assenza di una normativa transitoria - l’applicabilità dello ius superveniens nell’ambito delle procedure concorsuali in itinere trovasse il solo limite dell’intangibilità delle situazioni giuridiche definite. Ove, pertanto, la procedura di concorso si fosse divisa in varie fasi coordinate, la nuova norma avrebbe potuto trovare applicazione per le fasi che all’atto della sua entrata in vigore non si fossero ancora realizzate, tenendo presente comunque che la nuova legge avrebbe dovuto trovare applicazione immediata in tutte le ipotesi in cui non si fosse esaurita la fase dispositiva, e restando esclusa la possibilità di emettere un provvedimento finale in contrasto con le disposizioni di legge immediatamente ed autonomamente applicabili. Da tale premessa il Consiglio trasse il corollario che in base all’art. 13, 4° co. d. lg. 160/2006 vi è un divieto assoluto per il passaggio da funzioni giudicanti a requirenti e viceversa, all’interno del medesimo circondario e della stessa provincia (nonché per i trasferimenti in secondo grado all’interno del distretto), e che la disposizione integra una norma interdittiva autonomamente ed immediatamente applicabile.
[22] Gli artt. 45 e 46 d. lg. 160/2006, nell’introdurre e disciplinare la temporaneità delle funzioni direttive e semidirettive, dispongono che esse siano conferite per la durata di quattro anni, al termine dei quali il magistrato può essere confermato, per un’ulteriore sola volta, per un eguale periodo, a seguito di valutazione - da parte del Csm - dell’attività svolta. In caso di valutazione negativa, nei successivi cinque anni, il dirigente non può partecipare a concorsi per il conferimento di altri incarichi direttivi. Analoga previsione è contenuta nell’ art. 46, che ha esteso la preclusione ai concorsi per il conferimento di funzioni semidirettive. Sulla materia il Csm, all’indomani della riforma, è intervenuto con la ricordata delibera del 21 novembre 2007 di integrazione e modifica della circolare n. 13000/1999 in tema di conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi, al fine di adeguarla alla nuova normativa in ciò che concerne, in particolare, i requisiti per la nomina; con la risoluzione del 10 aprile 2008, mediante la quale sono stati fissati, d’intesa con il Ministero della giustizia, gli indicatori da cui desumere l’attitudine direttiva; con la ricordata delibera del 30 aprile 2008, mediante la quale è stata modificata la normativa secondaria relativa al conferimento degli incarichi semidirettivi, rimodulando in particolare i criteri di selezione, ridimensionando il peso specifico da attribuire al parametro dell’anzianità e valorizzando maggiormente l’esperienza organizzativa; con la delibera del 24 luglio 2008, specificamente relativa alla procedura di conferma nell’incarico direttivo o semidirettivo.
Sul tema della temporaneità degli incarichi direttivi e semidirettivi il CSM è poi intervenuto con varie delibere di risposte a quesiti, e con delibera del 28 luglio 2015 è stato approvato il T.U. sulla dirigenza giudiziaria (cfr. circolare n. P-14858-2015 del 28 luglio 2015 e succ. mod.), al quale con la recentissima delibera del 16 giugno 2021 sono state apportate ulteriori modificazioni nella parte relativa al procedimento di conferma di direttivi e semidirettivi; e ciò allo scopo di dare affidabilità e concretezza alla valutazione delle attitudini direttive dimostrate all’esito del primo quadriennio di esercizio delle relative funzioni. In particolare la riforma prevede una approfondita istruttoria del Consiglio - anche mediante il coinvolgimento dei magistrati dell’ufficio - in ordine all’attività svolta dal dirigente in conferma, istruttoria favorita da Format (specifici con riguardo ad ogni tipologia di ufficio) per la redazione dell’autorelazione, del rapporto informativo e del parere del Consiglio Giudiziario. Ciò consentirà, in modo omogeneo e semplificato, uno scrutinio dell’attività svolta dai direttivi e semidirettivi basato su elementi obiettivi e non su valutazioni ed aggettivi, spesso altisonanti, ma disancorati dai risultati dell’attività organizzativa.
Per le valutazioni relative al conferimento di incarichi direttivi e semidirettivi cfr., tra i contributi di poco successivi alla riforma, Maccora, La selezione dei dirigenti degli uffici giudiziari, in Questione Giustizia, 2008, 25 ss. e, più recentemente, Patarnello - Maccora, La dirigenza descritta dalla proposta di Riforma del Ministro Bonafede, in Questione Giustizia, 15 luglio 2019; Castelli, La nomina dei dirigenti: problema dei magistrati o del servizio? in Questione Giustizia, 9 giugno 2020 http://www.questionegiustizia.it/articolo/la-nomina-dei-dirigenti-problema-dei-magistrati-o-del-servizio_09-06-2020.php
Sulle proposte di riforma in tema di incarichi direttivi e semidirettivi contenute nel ddl AC 2681 (ddl “Bonafede”) approvato dal Consiglio dei Ministri il 7 agosto 2020 e recante “Deleghe al Governo per la riforma dell'ordinamento giudiziario e per l'adeguamento giudiziario militare, nonché disposizioni in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura”, cfr. il mio Ancora sulle proposte di riforma dell’ordinamento giudiziario, del funzionamento e della legge elettorale del Consiglio superiore della magistratura, in giudicedonna.it, n. 1/2021 www.giudicedonna.it proposte che hanno costituito oggetto di modifica da parte della Commissione ”Luciani” richiamata infra, nel par. 13 del testo.
[23] In base all’art. 19 d.lg. 160/2006, come modificato dalla legge 111/ 2007, i magistrati che esercitavano funzioni di primo e secondo grado avrebbero potuto rimanere in servizio presso lo stesso ufficio svolgendo le medesime funzioni o, comunque, avrebbero potuto restare nella stessa posizione tabellare o nel medesimo gruppo di lavoro nell'ambito delle stesse funzioni, per un periodo stabilito dal Consiglio superiore con proprio regolamento tra un minimo di cinque ed un massimo di dieci anni a seconda delle diverse funzioni. Il magistrato che alla scadenza del periodo massimo di permanenza non avesse presentato domanda di trasferimento ad altra funzione all’interno dell’ufficio o ad altro ufficio, sarebbe stato assegnato ad altra posizione tabellare o altro gruppo di lavoro con provvedimento del capo dell’ufficio immediatamente esecutivo. Il regolamento in questione è stato approvato dal Csm in data 13 marzo 2008. Lo stesso Consiglio, con risoluzione del 15 novembre 2007, aveva chiarito che, nel frattempo, la nuova disciplina non fosse applicabile in alcuna sua parte e che i tempi massimi di permanenza nei posti “tabellari” coincidessero con quelli decennali di cui al par. 46 della circolare sulle tabelle per il biennio 2006/2007, da intendersi “prorogate” sino al 2008.
[24] Sulla c.d. “doppia dirigenza” e, più in generale, sui rapporti tra magistrato dirigente e dirigente amministrativo cfr., tra gli altri, Aprile, La gestione delle risorse esistenti: i modelli organizzativi proponibili. Il rapporto tra produttività, organizzazione del lavoro e gestione del personale amministrativo. Gestione delle risorse umane e gestione delle risorse finanziarie e strumentali, Relazione all’incontro di studio del Csm sul tema La riconversione da magistrati giudicanti a direttivi requirenti, Roma 17 – 18 marzo 2008; Castelli (C.), La gestione delle risorse esistenti: i modelli proponibili. Il rapporto tra produttività, organizzazione del lavoro e gestione personale amministrativo. Gestione delle risorse umane e gestione delle risorse finanziarie e strumentali, Relazione all’incontro di studio del Csm sul tema La riconversione dei direttivi da magistrati giudicanti a requirenti, Roma 28 – 29 gennaio 2008; Id., La direzione degli uffici giudiziari: dirigenza unica, doppia dirigenza, Relazione all’incontro di studio del Csm sul tema La dirigenza degli uffici giudiziari, Roma, 16 – 17 aprile 2007; Barbuto, Programmazione delle attività annuali e patologie nella programmazione, Relazione all’incontro di studio del Csm sul tema La dirigenza degli uffici giudiziari, Roma, 16 – 17 aprile 2007; Guarda, La dirigenza degli uffici giudiziari, Relazione all’incontro di studio del Csm sul tema La dirigenza degli uffici giudiziari, Roma, 16 – 17 aprile 2007; Romano, La gestione delle risorse umane, Relazione all’incontro di studio del Csm sul tema La dirigenza degli uffici giudiziari, Roma, 16 – 17 aprile 2007; Sciascia, Gestione delle risorse umane, Relazione all’incontro di studio del Csm sul tema La dirigenza degli uffici giudiziari, Roma, 16 – 17 aprile 2007; AA.VV., Le competenze dei dirigenti amministrativi negli uffici giudiziari, in Rivista delle cancellerie, 2006, 647; Sarao, Dirigenza degli uffici giudiziari – Ancora luci ed ombre, in Rivista delle cancellerie, 2006, 648; Abate, I rapporti con la dirigenza amministrativa. La prospettiva del magistrato: i poteri di direzione e di intervento del magistrato dirigente, Relazione all’incontro formativo del Csm dedicato ai magistrati con funzioni direttive e semidirettive di nuova nomina, Roma, 24 – 26 novembre 2003; Ippolito, In favore della dirigenza amministrativa negli uffici giudiziari, in Rivista delle cancellerie, 2001, 30; Marinelli - Olivieri, Problemi interpretativi ed attuativi del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, in Documenti e giustizia, 1993, 809.
La rivoluzione “clandestina” dopo il caso Dj Fabo: commento alla sentenza del Tribunale di Ancona del 9 giugno 2021
di Daria Passaro
Sommario: 1. Il rumore di fondo del fine vita. Nelle mani di un Parlamento sordo - 2. Commento all’ordinanza del Tribunale di Ancora del 9 giugno 2021: il riconoscimento del “diritto all’accertamento” - 3. Verso il referendum sull’eutanasia legale, considerazioni e prospettive a breve termine.
1. Il rumore di fondo del fine vita. Nelle mani di un Parlamento sordo
Sono trascorsi due anni da quando il Parlamento fece scadere il tempo concesso dalla Corte costituzionale per riempire il profondo vuoto normativo intorno al suicidio assistito, prima di pronunciarsi sul noto caso di Dj Fabo e di Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, finito a processo per aver aiutato a morire l’ex dj in una clinica in Svizzera.
L’ultimo tassello sul tema dell’aiuto al suicidio era stato apposto dalla scriminante ad hoc introdotta dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 242/2019, un unicum nel panorama delle cause di non punibilità, coerentemente con le fattezze del tema del fine vita, un universo dai confini tutt’altro che agevolmente individuabili, al limite tra etica e biodiritto.
Nell’ormai celebre caso Cappato, i giudici costituzionali, con la sopra menzionata pronuncia avevano dichiarato la parziale incostituzionalità dell’art. 580 c.p. nella parte in cui non esclude la punibilità di chi ha agevolato l’esecuzione del proposito suicida di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche reputate intollerabili.
Tale incostituzionalità trova supporto, a sua volta, nella ratio della Legge sul testamento biologico, l. 22 dicembre 2017, n. 219, imperniata sull’inviolabile diritto all’autodeterminazione del paziente e sull’altrettanto irrinunciabile diritto a rifiutare trattamenti sanitari indesiderati, quand’anche necessari alla sopravvivenza.
Nondimeno, la configurabilità della scriminante novella introdotta dai giudici della Consulta, esige la presenza di requisiti precisi e indispensabili.
La persona interessata, pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, deve essere tenuta in vita da un trattamento di sostegno vitale ed essere affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze intollerabili. Nella medesima direzione, è presupposto imprescindibile che le precedenti condizioni e le modalità di esecuzione siano verificate da una struttura sanitaria nazionale pubblica, previo parere del comitato etico territorialmente competente.
Dinanzi alle rigorose coordinate disposte dalla Corte Costituzionale, la giurisprudenza di merito non è rimasta silente, di recente compiendo un ulteriore passo in avanti verso il diritto al suicidio assistito. Invero, la sentenza della Corte di Assise di Appello di Massa intervenuta il 27 luglio 2020 nel caso “Trentini”- dall’esito assolutorio per Mina Welby e Marco Cappato- partendo dai principi formulati nella sentenza della Consulta, aveva fornito un’ interpretazione estensiva della nozione di “trattamento di sostegno vitale”, riconoscendone la pacifica sussistenza in Davide Trentini. La portata estensiva e innovativa è ravvisabile nella circostanza in ordine alla quale, mentre nel caso esaminato dalla Consulta Fabiano Antoniani era tenuto in vita da una macchina, il paziente Trentini risultava affetto da sclerosi multipla.
La dipendenza da “trattamenti di sostegno vitale” non significa necessariamente ed esclusivamente “dipendenza da una macchina”, ben potendo venire in rilievo in tutti i trattamenti sanitari all’interruzione dei quali si verificherebbe la morte del malato anche in maniera non rapida.
Pertanto, in ottica volutamente ampliativa, la Corte di Assise di Massa, estendendo le maglie della nozione di “sostegno vitale” aveva lucidamente consentito l’applicazione della scriminante- per chi prestasse ausilio nell’esecuzione di un proposito suicidiario autonomamente cristallizzatosi- altresì nell’ipotesi di aiuto al suicidio di un paziente sottoposto a un trattamento farmacologico indispensabile, senza il quale seguirebbe certamente la morte.
Ad oggi, deve sottolinearsi che, sebbene la Corte Costituzionale del 2019 abbia in più battute ribadito la necessità di un chiaro intervento normativo sul tema del fine vita, ad apparire sordo alle esigenze di definizione legislativa è proprio il Parlamento, in seno al quale i numerosi disegni di legge presentati negli anni alle Camere sembrano dissolversi come polvere e giammai avanzare ad uno stadio maturo di regolamentazione.
Le esigenze di disegnare un limpido dato normativo si scontrano, fatalmente, con l’intuibile difficoltà di maneggiare un argomento sì delicato e complesso, dai risvolti tanto giuridici quanto etici, morali, religiosi, nonché con le ideologie di diffidenza, più o meno palesata, al cospetto del più ampio tema della Dolce Morte; così come si traduce dal greco la parola Eutanasia.
Nell’ordinamento italiano, tutto quello che promana dal Parlamento circa il fine vita è attualmente regolato dalla legge n. 219 del 2017, permettendo ad ogni persona capace di agire di esercitare il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario, ivi compresi l’idratazione, la nutrizione e la ventilazione. Ne deriva il dovere del medico di rispettare la volontà espressa dal paziente nel rifiutare il trattamento sanitario o rinunciare al medesimo. Con la sentenza 242 del 2019 la Corte Costituzionale, si ribadisce, ha voluto fare un passo in più, sancendo in parte l’illegittimità costituzionale dell’articolo 580 del codice penale sì da escludere la punibilità per chi agevoli il proposito di suicidio autonomamente e liberamente formatosi nelle situazioni sopra descritte.
Da tale avanzamento rivoluzionario prendeva forma la netta sensazione di un prossimo dibattito parlamentare a cui dare deciso compimento. Per contro, oggi questo auspicio smentito dalla realtà assume i connotati di un’ottimistica illusione, difficilmente realizzabile in assenza delle solide fondamenta di un servizio sanitario ineccepibile e efficiente, atto a individuare con chiarezza i “casi eccezionali e ben determinati” in cui è consentito scriminare l’ausilio fornito nell’abbreviare la vita. In disparate occasioni, i fautori dell’orientamento “diffidente” hanno evidenziato i rischi che comporterebbe una scelta da parte del legislatore di depenalizzazione o di legalizzazione del suicidio medicalmente assistito modellato sulla falsa riga di quello effettuato da alcuni paesi europei, pena il vulnus irrimediabile al principio secondo il quale compito primario e inderogabile del medico deve rimanere l’assoluto rispetto della vita dei pazienti.
Sullo sfondo, un ruolo di non poco conto è rivestito dal sistema delle cure palliative, a voler sottolineare come prima di offrire a un malato la possibilità di scegliere la morte come opzione vi sia ancora molto di cui discutere, moltissimo da attuare. Quel che è certo è che le pressanti esigenze di chiarezza e regolamentazione normativa mediante una legge sul fine vita non rappresentano il grido di una minoranza ideologicamente rumorosa, bensì una questione tutt’altro che meramente giuridica, appartenente davvero a tutti. Figurarsi al Parlamento, che proprio di tutti è la rappresentanza. Un tema, evidentemente, rispetto al quale il legislatore, lungi dal perseverare in una sorda inerzia, è tenuto ad imboccare, prima o poi, una direzione.
2. Commento all’ordinanza del Tribunale di Ancora del 9 giugno 2021: il riconoscimento del “diritto all’accertamento”
Come di sovente accade nell’evoluzione giuridica, in mancanza di un intervento legislativo chiarificatore da parte del Parlamento, la giurisprudenza di merito non rinuncia a colmare le lacune attraverso interpretazioni più o meno estensive ed esplicative del diritto positivo nonché degli orientamenti pretori precedentemente intervenuti. È quanto si è verificato in seno al Tribunale Ordinario di Ancona lo scorso 9 giugno, data in cui per la prima volta in Italia un giudice ordinario, con ordinanza, ha applicato i principi costituzionalmente orientati della sentenza Cappato al caso di un uomo tetraplegico di 43 anni.
Ancora una volta i giudici, che come disposto della Costituzione sono soggetti solo alla legge e alla medesima sono tenuti ad attenersi nell’applicazione del diritto cui sono chiamati, contribuiscono fattivamente ad attuare una rivoluzione quasi “dal basso”. Se un passo deciso verso la regolazione dei casi di suicidio assistito è stato compiuto dall’alto della sentenza della Corte Costituzionale del 2019 in relazione al caso Dj Fabo, accade nuovamente oggi- cosa che ancor più rileva- in sede di ordinario giudice di merito con atto di ordinanza.
Invero, il Tribunale di Ancona, applicando i principi della Sentenza Cappato della Consulta, riconosce espressamente il diritto all’accertamento delle condizioni utili a scriminare l’aiuto al suicidio di un giovane uomo tetraplegico. La svolta è di non poco momento, per la prima volta un Tribunale impone alla ASL di verificare i presupposti stabiliti dai giudici costituzionali e, in caso positivo, ammettere il paziente alla somministrazione del farmaco letale, senza risvolti penalmente rilevanti per chi presti l’aiuto al suicidio di cui all’art. 580 c.p.
La pronuncia in esame racconta l’intenzione di proseguire il cammino intrapreso dai giudici per introdurre il diritto al suicidio assistito, supplendo alla mancanza di una legge del Parlamento. Il giurista tedesco Bernd Rüthers, in tempi non sospetti (1968) parlava di rivoluzione “clandestina”, come tendenza all’ormai irrefrenabile passaggio dallo Stato di Diritto allo Stato dei Giudici.
Ma dietro ogni svolta giurisprudenziale, deve ricordarsi, posano le vite degli individui e le occasioni poste dalla vita reale per interrogarsi sull’attualità del diritto nel dare risposte ai consociati. Per quanto attiene all’ordinanza anconetana, l’evoluzione trae origine dalla storia di un paziente di nome Mario, di anni 43, una storia come se ne sentono tante, fatta di dolore e di un presumibile epilogo infausto, che di “dolce morte” ha davvero poco. Ma di dignità ne ha tanta, di pretesa di rispettare la persona nella sua proiezione più grande, di lucido coraggio nel fronteggiare il dolore e la malattia, prendendo atto che altresì per chi vive in tali condizioni la vita degna di essere vissuta forse è altro e dovrebbe poter essere altro.
Mario, originario delle Marche, a causa di un grave incidente stradale che gli ha provocato la frattura della colonna vertebrale con la conseguente lesione del midollo spinale, ad oggi versa in condizioni irreversibili, essendo tetraplegico con altre gravi patologie da circa dieci anni.
Nell’ottica di accedere al suicidio assistito, nel mese di ottobre 2020 gli veniva comunicato un diniego da parte dell’ASL senza che venissero attivate le procedure indicate dalla sentenza della Corte costituzionale. Precisamente, davanti alla domanda di “accedere con urgenza a farmaco letale per procedere con suicidio assistito”, la ASL aveva motivato il proprio diniego partendo dalla vigente normativa sul consenso informato e sul rapporto medico-paziente (L. 219/2017) che né all’art. 1 in tema di consenso né all’art. 2 sulle cure palliative per il dolore consentirebbe al medico di somministrare farmaci letali.
Secondo la ASL, in mancanza di una legge in materia di suicidio assistito, non potrebbe ammettersi l'eutanasia ricorrendo ai principi formulati nella sentenza della Corte Costituzionale, che rispondeva al diverso problema di individuare una scriminante ad hoc nella punibilità del reato di aiuto al suicidio.
A ben vedere, a tale assunto non può prestarsi obiezione, la sentenza Cappato-Dj Fabo limitandosi a stabilire che per ottemperare alla richiesta della persona interessata occorre verificare da parte di una struttura pubblica del Ssn, previo parere del comitato etico territorialmente competente, il sussistere di almeno quattro condizioni: che la persona sia tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale; che sia affetta da una patologia irreversibile; che detta patologia determini intollerabili sofferenze psicofisiche; che il paziente sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.
Nondimeno, quel che sorprende è che la Asl abbia altresì negato l'attivazione delle procedure di verifica imposte dalla Consulta, finendo col negare qualsivoglia rilievo ad una pronuncia sì innovativa. Pertanto, con l’assistenza dei legali dell'Associazione Coscioni, da lungo tempo in primo piano sul tema, il paziente ha presentato ricorso di urgenza al Tribunale di Ancona, affinché venisse ordinato all'Asl la verifica delle sue condizioni.
In prima battuta, in data 26 marzo, il giudice del Tribunale ha confermato il diniego motivando che, pur riconoscendo nel paziente i requisiti previsti dalla Corte Costituzionale nella sentenza 242/19 sul caso Cappato-Dj Fabo, non sussisterebbero motivi per ritenere che la Corte abbia fondato un diritto del paziente, ove ricorrano tali ipotesi, ad ottenere la collaborazione dei sanitari nell'attuare la sua decisione di porre fine alla propria esistenza; né può ritenersi che il riconoscimento dell'invocato diritto sia diretta conseguenza dell'individuazione della neo-introdotta scriminante.
Tanto deciso, la “rivoluzione clandestina” giunge a seguito del reclamo presentato dai legali di Mario all'ordinanza di diniego, i magistrati del Collegio del Tribunale di Ancona, dopo la discussione dell'udienza del 28 maggio in Camera di Consiglio, depositandone una nuova in cui si ordina all'Azienda sanitaria unica regionale delle Marche, previa acquisizione del relativo parere del Comitato etico territorialmente competente, di provvedere ad accertare la sussistenza delle condizioni previste dalla Consulta.
I giudici affermano con convinzione che l’istante ha il diritto di pretendere che si effettuino gli accertamenti disposti dalla Consulta con sentenza 242/19, affinché l'aiuto fornito non costituisca reato ai sensi dell'articolo 580 del codice penale.
L’ordinanza del 9 giugno ha precisato che l’istante, per vero, ha invocato non già un diritto al suicidio bensì il diritto ad ottenere dalla struttura sanitaria pubblica competente l’accertamento dei presupposti illustrati dalla Consulta, il cui esito è pregiudiziale alla non punibilità dell’aiuto.
In base al quanto ritenuto, Mario avrà il diritto di pretendere dall’Asur Marche l’accertamento della sussistenza dei presupposti richiamati nella sentenza della Corte Costituzionale, in vista della non punibilità di un aiuto al suicidio praticato in suo favore da un soggetto terzo; la verifica sull’effettiva idoneità ed efficacia delle modalità, della metodica e del farmaco (Tiopentone sodico nella quantità di 20 grammi) prescelti dall’istante per assicurarsi la morte più rapida, indolore e dignitosa possibili, rispetto all’alternativa del rifiuto delle cure o della sedazione profonda ovvero di qualsivoglia soluzione praticabile, ivi compresa la somministrazione di un farmaco diverso.
Nel disporre ciò, il giudice delle Marche ha espressamente richiamato quanto ritenuto altresì dalla Consulta nel 2019, secondo cui il potere di rifiuto delle cure con contestuale sedazione profonda- pacificamente previsto dalla legge n. 219/2017 agli artt. 1 e 2- potrebbe non essere ritenuto sufficiente dal paziente in questione, comportando un processo più lento per congedarsi dalla vita nonché più carico di sofferenze per sé e per i cari, per un tempo non determinabile. In effetti, il paziente de quo, ribadisce il Tribunale, versa in gravi e irreversibili condizioni patologiche, connotate dalla dipendenza continuativa da macchinari elettromedicali salvavita (pacemaker), da presidi medicali persistenti (catetere urinario) nonché da compromissione pressoché assoluta delle funzioni corporali.
Vieppiù che, come il giudice di Ancona tiene a evidenziare, si impone alla struttura ospedaliera di provvedere all’accertamento richiesto previa acquisizione del relativo parere del comitato etico territoriale.
La pronuncia di Ancona, dunque, compie ancora un passo in avanti, passando dalla non punibilità del reato per chi aiuta il malato a morire al riconoscimento di un vero e proprio diritto di questi a chiedere la verifica dei requisiti necessari al riconoscimento dell’esimente delineata dalla Consulta in occasione del caso Fabo.
Ciò che il giudice marchigiano ha sottolineato con forza è la circostanza per cui dalle statuizioni del 2019 giammai deve desumersi un diritto ad ottenere la collaborazione dei sanitari nell’attuare la decisione di ricorrere al suicidio assistito, quanto piuttosto un diritto all’accertamento dei presupposti stessi.
A tal fine, l’ordinanza ha affermato la necessità di fare distinzione tra la scriminante di un reato e la sussistenza di un diritto: come a voler specificare che un conto è dire che chi aiuta un malato al suicidio non commette un reato, un altro conto è sostenere che esista un diritto soggettivo del malato a togliersi la vita con un corrispondente obbligo dei sanitari a somministrare il farmaco letale.
Quel che si rileva è il dato obiettivo in ordine al quale dopo dieci mesi, passando per due udienze e due pronunce, dietro la persistente intenzione di recarsi in Svizzera per morire aiutato dai familiari senza che rischino di essere inquisiti, il paziente de quo sarà sottoposto alla verifica delle sue condizioni che rendono non punibile l'aiuto al suicidio.
Ne deriva che, nell’ipotesi di accertamento positivo da parte dei sanitari, l’uomo avrà diritto di accedere al farmaco letale da lui richiesto per garantirgli una morte rapida ed indolore, senza dover temere risvolti penalmente rilevante per chi presti l’aiuto al suicidio.
La svolta pretoria intercorsa nella giurisprudenza di merito è di immediata evidenza e costituisce la riprova di come, in assenza di un pur necessario intervento legislativo sul tema, i giudici di merito, dietro le rigide coordinate disegnate dalla Consulta, possano attuare una rivoluzione a tutti gli effetti, esaminando i contorni del caso concretamente posto alla loro attenzione.
Si delinea, così, lo spazio di un filone di giurisprudenza per così dire “normativa” idonea non solo a far luce su questioni ricorrenti nella prassi, ma soprattutto a costituire una base di pronunce utili a meglio orientare il legislatore che, inevitabilmente, si troverà presto a legiferare in materia e a dover dare risposte, tardive ma imprescindibili, a problematiche giuridiche, etiche e sovra-individuali difficilmente procrastinabili sine die.
3. Verso il referendum sull’eutanasia legale, considerazioni e prospettive a breve termine
Quanto asserito dal Tribunale di Ancora in ordine all’accertamento delle condizioni idonee a scriminare l’aiuto al suicidio rappresenta senza particolari dubbi la conferma di come in Italia manchi ancora una legge sul fine vita, la cui importanza è richiamata ripetutamente nelle tredici pagine di ordinanza del tribunale anconetano.
A fronte di casi ormai sempre più frequenti di pazienti che chiedono di poter scegliere come morire- vedendosi costretti a impegnativi viaggi all’estero o, diversamente, a terminare la propria vita in un dolore che non ritengono di poter sopportare- al cospetto di un Parlamento paralizzato e sordo persino ai richiami della Corte costituzionale, è stata avanzata la necessità di un referendum sul tema. Come a voler dichiarare che, se a tutti gli effetti deve ritenersi possibile una rivoluzione dal basso, questa è, fino a prova contraria, nelle mani dei cittadini.
A tal fine, l’associazione Coscioni ha recentemente giocato la carta del referendum costituzionale, depositando in Corte di Cassazione a Roma un referendum parzialmente abrogativo dell’art. 579 del codice penale sulla fattispecie di reato dell’omicidio del consenziente. Ne deriva che, se i promotori dovessero raccogliere le firme richieste e vincere il referendum, verrebbe depenalizzata l’eutanasia attiva, il medico potendo somministrare un farmaco eutanasico al paziente che lo richiedesse, come già previsto in altri paesi europei e non.
Da ultima, la Spagna ha visto l’entrata in vigore della propria legge sull’eutanasia solo il 25 giugno scorso, divenendo il settimo paese al mondo a depenalizzare l’aiuto a morire per pazienti affetti da determinati tipi di malattie gravi e incurabili. La norma, varata nel mese di marzo 2021, prevedeva un periodo di tre mesi per consentire alle regioni del paese iberico di creare organismi responsabili di valutare le richieste di accesso a tale diritto, sebbene tale programmazione non sia stata poi effettivamente compiuta in tutte le regioni. Permangono, difatti, crescenti dubbi sul piano applicativo, altresì in ragione della categoria dei medici “obiettori di coscienza”, in alcune regioni prevedendosi la formazione di liste dei professionisti sanitari contrari alla pratica eutanasica.
Tornando al fronte nazionale, nell’iniziativa referendaria in corso deve ravvisarsi una mossa tanto audace quanto non agevole da realizzare, in tutta Italia prevedendo la raccolta di 500.000 firme tra luglio e settembre- da consegnare in Corte di Cassazione il 30 settembre- altresì attraverso la disponibilità di volontari disposti a predisporre luoghi e occasioni utili al raccoglimento delle stesse. D’altro canto, ad oggi risulta essere l’unica possibilità per legalizzare l’eutanasia in questa legislatura, diversamente si rinvierebbe la prospettiva di un intervento legislativo a non prima di 3 o 4 anni, sempre che nel prossimo Parlamento vi sia una maggioranza favorevole. Ancora una volta, in ogni caso, ciò che sorprende è il persistente silenzio della classe politica sul tema.
Il recentissimo avvio della raccolta firme in esame- promossa dall’Associazione Luca Coscioni durante la campagna tenutasi presso la Sala Stampa della Camera dei Deputati- ha preannunciato il repentino allestimento dei primi tavoli a cominciare da Milano e Roma, per poi estendersi a tutta Italia.
A ben vedere, il referendum per l'Eutanasia Legale è stato depositato su iniziativa della predetta Associazione lo scorso 20 aprile in Corte di Cassazione, prevedendo una parziale abrogazione dell'art. 579 del codice penale (omicidio del consenziente), che ad oggi, ferme restando le precisazioni della Consulta sulla scriminante prospettabile nei casi di aiuto al suicidio, impedisce con rigore la realizzazione dell’eutanasia attiva, sul modello olandese o belga. Si tratterebbe, inevitabilmente, si una rivoluzione copernicana su quello che per decenni è apparso come un baluardo intramontabile nel nostro ordinamento, ossia il divieto di pratiche atte a cagionare il decesso tramite la somministrazione diretta e non autonoma di farmaci che inducono la morte.
In realtà, in disparte all’iniziativa referendaria, l’urgenza di una regolamentazione su base normativa intorno al tema de quo è altresì il riflesso dell’esaminata sentenza proveniente dalla Corte Costituzionale nel 2019, che tiene fuori dall’ambito applicativo della non punibilità almeno due fattispecie di pazienti: chi non è tenuto in vita da sostegni vitali, come i malati di cancro, nonché i pazienti non sono in grado di darsi la morte autonomamente, in quanto totalmente immobilizzati.
Rebus sic stantibus, una decisa mobilitazione, vogliasi in direzione referendaria ovvero in ottica legislativa, rappresenta un’incombenza non ulteriormente rimandabile.
Inoltre, se si rileva che sono trascorsi 37 anni da quando Loris Fortuna, il padre della legge sul divorzio, presentò la prima proposta di legge per la legalizzazione dell'eutanasia, la prima occasione di silenzio serbato dal Parlamento risale a molti anni fa. E, se non bastasse, ne sono passati 15 dalla lotta di Piergiorgio Welby, "appena" 8 anni dal deposito della legge di iniziativa popolare sottoscritta da 140.000 cittadini. Passando per i processi Dj Fabo, Davide Trentini e autorevoli richiami della Corte costituzionale.
Certa è la convinzione che l’esigenza normativa che gravita intorno al fine vita non è battaglia di pochi, non è la storia di “casi”, più o meno noti all’opinione pubblica. Non è neppure una successione di risvolti giurisprudenziali, di interpretazioni estensive e costituzionalmente orientate. È la storia di persone, di famiglie, di vite umane vissute in stato di sofferenza e agonia, persone a cui spetta tempo, attenzione, discussione, normazione e, se non altro, doveroso rispetto. Alle spalle del diritto, giova ripeterlo, risiede e scalpita la vita reale in tutta la sua complessità.
La strada è ancora e sempre in salita, il dettato della Consulta rappresenta una solida base e l’ordinanza del Tribunale di Ancona uno dei tanti tasselli mancanti.
Anche l’immagine di un tavolo di raccolta firme, visto da lontano, sembra essere poco più di una goccia nel mare, ma del resto, i latini direbbero gutta cavat lapidem non vi, sed saepe cadendo, "la goccia perfora la pietra non con la forza, bensì con il continuo stillicidio".
Riferimenti
1. Corte Costituzionale, ordinanza del 24 ottobre 2018, n. 207, depositata il 16 novembre 2018, pubblicata in G.U. il 21 novembre 2018 n. 46;
2. Corte Costituzionale, sentenza del 25 settembre 2019, n. 242, depositata il 22 novembre 2019, pubblicata in G.U. il 27 novembre 2019 n. 48;
3. Corte d’Assise di Appello di Massa, sentenza del 27 luglio 2020 n. 1, depositata il 2 settembre 2020;
4. Legge sul Consenso Informato e sulle DAT del 22 dicembre 2017 n. 219, pubblicata in G.U. del 16 gennaio 2018, n. 12;
5. Passaro D., Lo scenario italiano del fine vita, in Giustizia Insieme, 15 aprile 2019;
6. Passaro D., A sostegno e a difesa della persona umana: il diritto al rifiuto delle cure tra poteri dell’ADS e prerogative del giudice tutelare, in Giustizia Insieme , 24 marzo 2020;
7. Tribunale Ordinario di Ancona, ordinanza del 9 giugno 2021, Presidente Silvia Corinaldesi, Estensore Alessandro Di Taro.
8.V. gli interventi editi sulla Rivista sul tema del fine vita, a partire da "Il fine vita e il legislatore pensante." Editoriale - Il fine vita e il legislatore pensante. 1. Il punto di vista dei penalisti (di Vincenzo Militello, Beatrice Magro e Stefano Canestrari) - Il fine vita e il legislatore pensante. 2. Il punto di vista dei comparatisti - Parte I (di Mario Serio, Giuseppe Giaimo, Rosario Petruso e Rosalba Potenzano) - Il fine vita e il legislatore pensante. 2. Il punto di vista dei comparatisti - Parte II (di Mario Serio, Nicoletta Patti e Giancarlo Geraci) - Il fine vita e il legislatore pensante. 3. Il punto di vista dei filosofi del diritto (di Angelo Costanzo, Lorenzo d'Avack, Salvatore Amato, Carla Faralli). 4 Il fine vita e il legislatore pensante. 4. Il punto di vista dei civilisti (di Mirzia Bianca, Gilda Ferrando, Teresa Pasquino e Stefano Troiano)
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