ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La riemissione del provvedimento amministrativo
di Carlo Emanuele Gallo
Sommario: 1. La ragione della disposizione. – 2. Le criticità del testo normativo. – 3. Proposte per una corretta interpretazione.
1. La ragione della disposizione.
L’individuazione degli effetti della sentenza di annullamento del giudice amministrativo in relazione, da un lato, alla pretesa vantata dal ricorrente risultato vittorioso e, dall’altro, alle esigenze di continuità dell’azione amministrativa, anche tenuto conto degli interessi dei controinteressati, ha provocato da sempre riflessioni in letteratura ed interventi del giudice amministrativo. Rispondono a questa esigenza sia i tentativi di delimitare gli effetti temporali delle pronunzie di annullamento sia le previsioni normative che consentono di provvedere, prima dell’annullamento, vuoi alla convalida dell’atto annullabile vuoi alla individuazione di ostacoli sostanziali alla pronunzia di annullamento.
L’orientamento più risalente anche in giurisprudenza era nel senso che l’annullamento di un provvedimento per vizi del procedimento doveva comportare la ripresa del procedimento a partire dal primo atto annullato o se si vuole dall’ultimo atto ritenuto legittimo; l’annullamento aveva così un effetto da macchina del tempo, cioè un effetto retroattivo anche all’interno del procedimento, che dev’essere necessariamente ripreso dal primo atto annullato o dall’ultimo atto valido e ricondotto innanzi nel rispetto delle regole che ne garantiscono la legittimità. Corollario di questa imposizione era che tutto quanto non era pregiudicato dall’annullamento giurisdizionale doveva essere mantenuto integro, salva la possibilità di intervento in via di autotutela ma, ovviamente, sulla base dei presupposti specifici di esercizio di questo potere. Questa impostazione è stata nel tempo superata dalla giurisprudenza a fronte di specifiche esigenze (rimanendo peraltro inalterata nella gran generalità dei casi)[1]: e così, per esempio, in materia di procedimenti per l’aggiudicazione dei contratti della pubblica amministrazione si è detto, ma con orientamento non consolidato, che, una volta conosciute le offerte da parte della commissione aggiudicatrice, l’annullamento dell’aggiudicazione da parte del giudice amministrativo oppure in autotutela non consentiva un rinnovato esame delle medesime da parte della stessa commissione, essendo venuta meno ormai la segretezza delle offerte. Occorreva perciò procedere con una commissione rinnovata[2]. Più di recente, con riferimento alle procedure concorsuali di assunzione, e segnatamente con riferimento alle procedure relative all’assunzione di professori universitari o alla acquisizione dell’abilitazione scientifica nazionale, la giurisprudenza ha spesso affermato che l’illegittimità nel contenuto del giudizio della commissione esaminatrice comporta la necessità che la nuova valutazione del candidato sia effettuata da un’altra commissione per garantire l’imparzialità di valutazione non più assicurata dal fatto che la commissione aveva già espresso in precedenza il suo giudizio, se non addirittura la rinnovazione della procedura[3].
Queste deviazioni dall’impostazione più classica del procedimento, inteso come sequenza di atti e operazioni articolata in fasi logicamente preordinate e l’una all’altra susseguenti, che non poteva consentire degli effetti rinnovatori dell’annullamento che non tenessero conto di questa sequenza, possono essere giustificate sulla base della considerazione che il procedimento è anche il luogo nel quale si contemperano gli interessi, contemperamento rispetto al quale è servente la sequenza articolata in fasi, cosicché se il contemperamento è meglio raggiungibile attraverso un’articolazione rinnovata anche di fasi diverse e con cadenze temporali nuove tutto ciò può essere accettato purché sia espressione di un prudente apprezzamento discrezionale. In altre parole, anche la sequenza procedimentale risponde a quella valutazione contemperata delle varie esigenze in gioco che è tipica dell’attività dell’amministrazione allorché non debba semplicemente porre in essere degli adempimenti tassativamente prescritti dal legislatore in modo vincolato.
Si inserisce in quest’ottica l’art. 21 decies della legge 7 agosto 1990, n. 241, introdotto dall’art. 12, primo comma, lett. 1 bis del decreto legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito in legge 11 settembre 2020, n. 120 (la disposizione è stata inserita in sede di conversione, durante l’esame in Senato), perché consente all’amministrazione, letteralmente dopo l’annullamento giurisdizionale passato in giudicato di un suo provvedimento, di intervenire adottando nuovamente gli atti dai quali discende l’illegittimità del provvedimento finale, con la salvezza di tutto quanto altrimenti effettuato nel procedimento e cioè attraverso un intervento che, può dirsi, sostituisce soltanto le tesserine del mosaico procedimentale senza richiedere una rinnovazione integrale del percorso.
Il fatto è, come si vedrà, però, che, al solito, la disposizione non è così chiara e perciò insorgono problemi interpretativi che richiedono un’attenta considerazione.
2. Le criticità del testo normativo.
Come si verifica assai spesso soprattutto nella normazione più recente, le criticità del testo normativo sono numerose.
La prima è la stessa terminologia utilizzata, poiché l’espressione “riemissione” riferita a un provvedimento non corrisponde alla terminologia classica e più rigorosa, che allorché fa riferimento a provvedimenti monocratici utilizza il termine emanazione (consacrato anche a livello costituzionale dall’art. 87 Cost. con riferimento al Presidente della Repubblica) e per quanto concerne i provvedimenti degli organi collegiali utilizza il termine approvazione o deliberazione[4]. Emissione è una espressione atecnica che probabilmente è stata utilizzata dal legislatore del 2020, a voler pensare bene, per ricomprendere nella medesima appunto tutti i tipi di provvedimenti, senza impegnarsi in distinzioni terminologiche. In quest’ottica la scelta può essere accettata.
La disposizione, poi, è formulata in termini così articolati e complessi da renderne difficile la stessa lettura: si tratta, infatti, di una possibilità che letteralmente è ammessa soltanto nel caso di annullamento di un provvedimento finale in virtù di una sentenza passata in giudicato, in conseguenza di vizi inerenti ad uno a più atti emessi nel corso di un procedimento e soltanto nel caso di un procedimento di autorizzazione o di valutazione di impatto ambientale. Nella determinazione dei presupposti e dei limiti applicativi della riemissione vi è l’eco delle discussioni che sono state effettuate in passato in letteratura e in giurisprudenza in ordine ai limiti della convalida e alla possibilità di rinnovazione del procedimento con riferimento alla tipologia dei provvedimenti[5]. Si è detto infatti da taluno che la convalida non era possibile nei confronti di provvedimenti già annullati[6] ma soltanto di provvedimenti ancora esistenti ed annullabili e che la convalida non era possibile con riferimento a tutti i vizi ma soltanto ai vizi endoprocedimentali[7]; si è detto anche che l’esercizio del potere di rinnovazione è conseguente alla necessità di riconoscere la pretesa avanzata dal soggetto ricorrente, cosicché è possibile con riferimento a quei provvedimenti che siano adottati ad istanza di parte.
In realtà, così come è scritta, la nuova disposizione sembra creare molti problemi forse più di quanti non ne risolva: sembra infatti da un lato ammettere la convalida anche con riferimento ai provvedimenti annullati, ma dall’altro limitarla a delle ipotesi applicative molto contenute, e cioè al fatto che si tratti di provvedimenti di autorizzazione o di valutazione di impatto ambientale e non di altri provvedimenti anche ampliativi e per di più soltanto con riferimento a vizi esclusivamente procedimentali.
La scelta effettuata da un lato costituisce pertanto una specificazione di altre disposizioni inserite nella legge n. 241 del 1990 che non sono richiamate nel nuovo art. 21 decies, con inevitabili problemi di coordinamento[8], e dall’altro introduce delle distinzioni che sono forse giustificabili ma che comunque costituiscono possibili ipotesi di disparità di trattamento o di illogicità della disposizione.
Se l’esigenza è quella di salvaguardare l’attività amministrativa già svolta e di perseguire il pubblico interesse nel rispetto delle esigenze dei cittadini coinvolti è preferibile effettuare delle scelte di sistema chiare, che abbiano la generalità massima predicabile.
Alle medesime critiche soggiace il modulo procedimentale previsto dalla disposizione in esame, che ha una tempistica generale riconducibile all’art. 2 della legge n. 241 del 1990 laddove richiama il termine di trenta giorni per l’emanazione del provvedimento finale ma ha delle tempistiche diverse laddove individua il termine assegnato all’amministrazione competente per l’adozione del provvedimento finale, che è stabilito in quindici giorni, termine che di per sé non trova riferimento nella legge n. 241 del 1990 se non in modo indiretto in relazione all’intervento sostitutivo disciplinato all’art. 2, comma 9 ter, nel testo inserito dal decreto legge 9 febbraio 2012, n. 5, sul punto non modificato dal d.l. 31 maggio 2021, n. 77, convertito in legge 29 luglio 2021, n. 108.
L’introduzione di termini sempre nuovi e diversi non può che aumentare la complessità del sistema, che negli ultimi tempi sta crescendo a dismisura come è già stato sottolineato con riferimento al settore processuale[9].
3. Proposte per una corretta interpretazione.
Riscontrata la finalità della disposizione introdotta all’art. 21 decies, le regole interpretative da seguire per risolvere le difficoltà e le antinomie risultano evidenti. Dovendosi far prevalere la ragion d’essere della disposizione rispetto alle espressioni letterali, ne discende innanzitutto che non vi è ragione di limitare la possibilità di riemissione del provvedimento soltanto all’ipotesi di annullamento in sede giurisdizionale con pronunzia passata in giudicato; la possibilità di riemissione del provvedimento, infatti, è una possibilità che sussiste anche dopo una pronunzia di annullamento non passata in giudicato ed anche dopo una pronunzia di autotutela della stessa pubblica amministrazione o anche nell’ipotesi in cui l’amministrazione intenda adottare un provvedimento di convalida prima dell’annullamento del provvedimento.
Per quanto concerne la sentenza non passata in giudicato, la conclusione raggiunta è giustificata dalla considerazione che la sentenza non passata in giudicato, a’ sensi del Codice del processo amministrativo, ha comunque una immediata efficacia caducante, cosicché la medesima pone all’amministrazione il problema di un provvedimento che non può più essere eseguito e che può richiedere la necessità di un immediato intervento per ovviare alla stasi dell’attività amministrativa ovvero per ovviare alla interruzione dell’attività del privato destinatario del provvedimento per il medesimo favorevole. La pronunzia del giudice, ancorché non passata in giudicato, legittima un intervento dell’amministrazione, che può far venire meno l’interesse a ricorrere o la materia del contendere, e che dev’essere ovviamente giustificato sulla base delle esigenze che l’amministrazione ritiene di esporre per legittimare il suo intervento. Attendere il passaggio in giudicato della sentenza può avere un senso soltanto se l’amministrazione ritiene di dovere impugnare la sentenza sfavorevole o se la situazione è talmente incerta che l’adeguamento alla pronunzia del giudice non ancora incontestabile può apparire imprudente o inopportuno.
La riemissione del provvedimento è da ritenere possibile anche nel caso in cui il provvedimento originario sia stato eliminato in sede di autotutela, poiché il provvedimento di autotutela, ferma restando la provenienza dell’autorità amministrativa e la differenza di presupposti, ha lo stesso effetto sul provvedimento eliminato della sentenza del giudice amministrativo: anche in questo caso, l’amministrazione dovrà valutare l’opportunità di intervenire salvaguardando il provvedimento finale nonostante i vizi riscontrati. Va considerato peraltro che l’intervento in sede di riemissione del provvedimento, che è sostanzialmente un intervento di convalida, sia pure a posteriori rispetto all’annullamento, è legittimato dalla idoneità del provvedimento finale a soddisfare un pubblico interesse, idoneità che di per sé non è eliminata dal fatto che si siano verificati dei vizi nel corso del procedimento e che detti vizi siano stati considerati esistenti e sufficienti per l’annullamento. Occorrerà infatti considerare se rimangano o meno corrette le valutazioni discrezionali che l’amministrazione ha compiuto allorché ha scelto quel tipo di soluzione per il problema amministrativo che aveva di fronte.
Non vi è poi ragione per escludere che questa speciale possibilità di convalida possa essere adottata anche con riferimento a provvedimenti non ancora annullati, poiché quello che può essere effettuato una volta che l’annullamento sia stato pronunciato a maggior ragione può essere effettuato allorché l’annullamento non vi è ancora, in quanto in questo modo si evita l’effetto caducatorio, che comporta l’interruzione della esecuzione del provvedimento e perciò dell’attività pubblica e privata connessa, e si raggiunge la soluzione del problema di legittimità. Le valutazioni che l’amministrazione deve compiere in questa fattispecie non sono diverse da quelle occorrenti nelle altre in punto pubblico interesse mentre ovviamente lo sono per quanto concerne l’accertamento dell’esistenza della illegittimità, che l’amministrazione deve effettuare autonomamente, come in tutte le ipotesi di autotutela, non potendo fondarsi su una pronunzia del giudice o su un precedente provvedimento di annullamento d’ufficio.
Non è ragionevole ritenere che un potere di questo tipo possa essere esercitato soltanto con riferimento ai provvedimenti di autorizzazione o di valutazione di impatto ambientale. Va premesso che non vi è una particolare somiglianza tra i provvedimenti di autorizzazione e le valutazioni di impatto ambientale: i provvedimenti di autorizzazione sono normalmente espressione di una vera e propria discrezionalità amministrativa, ancorché in parte molto di frequente predeterminata da atti di programmazione o di pianificazione mentre la valutazione di impatto ambientale è normalmente espressione di discrezionalità tecnica, cioè connotata da considerazioni rispetto alle quali le scelte discrezionali in senso proprio sono assenti. Volendo ricondurre la norma alla ragionevolezza, dovrebbe dirsi perciò che la medesima è applicabile a tutte le ipotesi in cui il potere esercitato è un potere amministrativo discrezionale o un potere connotato da discrezionalità tecnica. Se è così, però, evidentemente occorre far riferimento a categorie di carattere generale diverse, per evitare che vi possano essere disparità di trattamento ingiustificate: non si comprende perché sia soltanto l’ambito della discrezionalità a legittimare o meno la riemissione del provvedimento, quasi che vi possa essere una differenza per esempio nella riadozione di una concessione rispetto ad un’autorizzazione o nella riadozione di un provvedimento di valutazione di impatto ambientale rispetto a un provvedimento vincolato; non si comprende perché questa possibilità sussista soltanto con riferimento a determinati provvedimenti ampliativi della sfera del privato e non a tutti o perché non valga anche per tutti i tipi di provvedimento, dal momento che le regole dell’azione amministrativa sono uniformi.
Esigenze di parità di trattamento e di armonia di sistema impongono a questo punto di dire che con riferimento ad ogni tipo di provvedimento adottato al termine di un procedimento può essere utilizzato l’istituto della riemissione, anche perché nella legge n. 241 del 1990 dovrebbero essere disciplinati istituti di carattere generale. Del resto, in giurisprudenza, una conclusione molto simile è stata raggiunta con riferimento all’art. 21 octies e dai poteri amministrativi ivi previsti, oltre che ai poteri attribuiti al giudice amministrativo, per evitare che disposizioni specifiche ed incisive come quelle ivi richiamate possano essere riferite soltanto all’uno o all’altro tipo di provvedimento ingenerando incertezze e disparità non giustificabili.
Il problema che ancora si pone è che cosa significhi l’espressione contenuta nell’art. 21 decies circa i “vizi inerenti ad atti endoprocedimentali”: una lettura restrittiva porterebbe a ritenere che si debba trattare soltanto di vizi di violazione di legge, e cioè di quei vizi di carattere giuridico formale che possono colpire gli atti endoprocedimentali. Una conclusione di questo genere però sarebbe scarsamente giustificabile tenuto conto delle ipotesi alle quali letteralmente l’art. 21 decies fa riferimento, e cioè sia alle autorizzazioni che soprattutto alle valutazioni di impatto ambientale. Con riferimento alle prime, infatti, i vizi che possono verificarsi sono molto spesso più vizi di sostanza, e cioè di interpretazione delle norme legislative, regolamentari o di pianificazioni che vizi meramente di procedura e rispetto alle seconde il riferimento più evidente è a vizi relativi all’intervento di organi tecnici e consultivi o ad accertamenti tecnici, piuttosto che a semplici problemi di conduzione formale del procedimento. Considerazioni in termini di discrezionalità amministrativa o di discrezionalità tecnica sono quelle che di solito conducono alla eliminazione, mediante annullamento, di autorizzazioni o di valutazioni di impatto ambientale: se è possibile una riemissione del provvedimento in questi casi ciò significa che il riferimento non è a vizi meramente giuridico formali ma viceversa a vizi sostanziali. Applicando questo criterio interpretativo ne discende che in generale è ritenuta possibile dal legislatore che ha dettato l’art. 21 decies la riemanazione del provvedimento con l’eliminazione dei vizi anche sostanziali che si sono verificati nel corso del procedimento, sempre che ovviamente detti vizi siano eliminabili a posteriori.
Vi saranno senz’altro dei vizi sostanziali ineliminabili, mentre ve ne saranno degli altri che possono essere superati. Fra i primi, evidentemente, vi sarà il travisamento dei fatti, mentre invece tra i secondi potrebbe esservi l’erronea valutazione dei presupposti se si tratta soltanto di un’erronea valutazione di presupposti incontestabili perché correttamente individuati[10].
La disposizione così interpretata è per l’appunto una disposizione di carattere generale[11], che consente all’amministrazione di porre rimedio a ogni tipo di vizio nel quale sia incorsa durante il procedimento, tanto prima che dopo la sentenza di annullamento del giudice, con l’effetto vantaggioso di evitare di dovere ripercorrere tutto un procedimento anche in quelle tappe che non hanno creato alcun problema né sono affette da alcun vizio e che sono perciò scontate, e la ripetizione delle quali si rivela soltanto una ingiustificata perdita di tempo. L’amministrazione dovrà rinnovare, può dirsi in modo chirurgico, soltanto quegli atti o quelle operazioni nelle quali è incorsa in un vizio. Questi atti rinnovati si inseriranno nel procedimento già celebrato, colmandone le deficienze e le lacune o sanandone in senso proprio i vizi cioè correggendo gli aspetti giuridicamente scorretti, con effetto retroattivo[12]. Il vantaggio dal punto di vista del pubblico interesse è evidente senza che vi sia un danno per cittadino ricorrente vittorioso o per il cittadino beneficiario in senso proprio o anche per i controinteressati, poiché tutti costoro hanno interesse ad un corretto esercizio dell’attività amministrativa non ad un annullamento purchessia in relazione alle conseguenze di fatto o impreviste o eventuali dell’annullamento stesso.
Le considerazioni che si sono svolte conducono a valutare se fra gli atti che possano essere acquisiti successivamente non vi possano essere anche i pareri: come è noto, con riferimento ai pareri l’orientamento della giurisprudenza amministrativa è sempre stato molto restrittivo e anche l’Adunanza plenaria ha ribadito che addirittura l’assenza di un parere obbligatorio significa non esercizio del potere[13]. Secondo quest’orientamento, perciò, l’art. 21 decies non sarebbe utilizzabile nel caso in cui il parere non sia stato acquisito. Va osservato, però che, ferme le criticità della pronunzia dell’Adunanza plenaria con riferimento al problema dell’assorbimento dei motivi in relazione alla mancata acquisizione di un parere, la dizione ampia dell’art. 21 decies non consente di escludere la possibilità di acquisire un parere ora per allora: il parere infatti è un atto procedimentale[14]. In questo caso, però, è ancor più evidente che l’intervento ora per allora del parere che dovrà essere richiesto e non è stato richiesto non è detto affatto che possa condurre alla convalida dell’atto originariamente illegittimo e cioè alla sua riemissione. Se il parere è sfavorevole, non è possibile il suo inserimento nel procedimento perché occorrerà a questo punto che il procedimento successivo al parere venga celebrato tenendo conto del medesimo, il che può comportare un esito finale diverso e che comunque comporta l’adozione di un atto che non è identico all’atto originariamente adottato. Ma si tratta di una conseguenza che può verificarsi con riferimento a tutti i casi in cui viene ipotizzata la riemissione: non è mai detto che, individuati dei vizi procedimentali, il provvedimento finale possa essere lo stesso che è stato adottato in presenza dei vizi stessi. La possibilità di riemanazione non significa inevitabile riemanazione dello stesso atto.
Il vantaggio che ottiene l’attività amministrativa in presenza di questa norma è quello di evitare un rifacimento di fasi procedimentali in termini di atti e operazioni allorché questo rifacimento appare inutile; nel caso in cui invece il rifacimento sia utile il rifacimento dev’essere inevitabilmente effettuato.
Le opinioni qui esposte sono state parzialmente accolte da una recente sentenza del T.A.R. Campania, Napoli, Sez. III, 26 maggio 2021, n. 3496, che ha affermato che la riemissione del provvedimento prevista dall’art. 21 decies, pur letteralmente riferita soltanto all’ipotesi di annullamento dell’atto autorizzatorio in sede giurisdizionale, “può ritenersi espressione di un principio semplificatorio” che consente l’applicazione della disposizione in vista dell’obiettivo della massima efficienza anche nel caso in cui vi sia stato un intervento in sede di autotutela amministrativa, e cioè ogni qualvolta siano stati caducati degli atti endoprocedimentali, con il risultato di ottenere “la salvezza dell’attività antecedente non viziata e la prosecuzione dell’iter teso all’emanazione del provvedimento finale, mediante il rifacimento del solo tratto di azione amministrativa viziato”.
La pronunzia del T.A.R. Campania è stata impugnata avanti il Consiglio di Stato, ma il Consiglio di Stato con l’ordinanza della IV Sezione 16 luglio 2021, n. 3919, pur pronunziandosi in sede cautelare, ha affermato che l’appello, che contrastava questa posizione del T.A.R. Campania, “non appare assistito da sufficiente fumus boni juris in relazione alla puntuale motivazione della sentenza gravata”.
Il che significa che il Consiglio di Stato condivide l’impostazione per dir così estensiva sostenuta dal T.A.R. Campania e che nelle considerazioni sopra svolte l’innovazione legislativa è stata portata ad un corretto completamento argomentativo e funzionale, che ne dimostra l’utilità.
[1] Che la rinnovazione debba interessare soltanto le fasi viziate è ribadito da T.A.R. Veneto, Sez. I, 1° aprile 2019, n. 389, che richiama Cons. Stato, Sez. IV, 17 febbraio 2014, n. 748 ed altre conformi.
[2] Come è noto, quest’orientamento ha dato luogo ad una reazione del legislatore, prima nell’art. 84 del Codice dei Contratti del 2006, poi nell’art. 77 del Codice dei Contratti del 2016, che hanno imposto la riconvocazione della medesima commissione, ai quali si è adeguata l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza 26 luglio 2012, n. 30: in tema, R. COLAGRANDE – C. FANASCA, Commissioni di gara, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da M. A. SANDULLI e R. DE NICTOLIS, vol. III, Milano, Giuffrè, 2019, p. 418 ss.. Ma rimangono contrasti in giurisprudenza: cfr. T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. I, 7 giugno 2021, n. 1861, Cons. Stato, Sez. III, 7 aprile 2021, n. 2819.
[3] Per tutte, T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 5 aprile 2019, n. 4500; 5 ottobre 2017, n. 10064.
[4] Di riemissione si parla a proposito dei titoli di spesa: C. Conti, Sez. Controllo, 5 luglio 1996, n. 97.
[5] Un’accurata trattazione è svolta da A. G. PIETROSANTI, La convalida del provvedimento amministrativo, in Principi e regole dell’azione amministrativa, a cura di M. A. SANDULLI, Milano, Giuffè, 2020, p. 501 ss..
[6] T.A.R. Veneto, Sez. II, 24 luglio 2017, n. 735; F. COSTANTINO, Commento all’art. 21 nonies, in L’azione amministrativa, a cura di A. ROMANO, Torino, Giappichelli, 2016, p. 899 e 905.
[7] C. DEODATO, Commento all’art. 21 nonies, in Codice dell’azione amministrativa, a cura di M. A. SNDULLI, Milano, Giuffrè, 2017, p. 1200 ss.
[8] Si consideri, ad esempio, che R. VILLATA – M. RAMAJOLI, Il provvedimento amministrativo, Torino, Giappichelli, 2006, p. 618 – 619 segnalano che dopo l’art. 21 octies la convalida per gli atti vincolati non è più necessaria.
[9] In questi termini, con riferimento al nuovo art. 72 bis del Codice del processo amministrativo, R. DE NICTOLIS, Tra (dis)proporzionalità e (in)efficienza, un nuovo giudizio immediato (art. 72 bis c.p.a.) per la giustizia amministrativa, in Giustizia insieme, 23 settembre 2021.
[10] Questo è l’approdo della giurisprudenza in tema di convalida, essendo ormai ammessa anche la convalida per difetto di motivazione purché gli elementi della medesima emergano dal procedimento, trattandosi perciò di un vizio del discorso giustificativo e non della funzione: Cons. Stato, Sez. VI, 27 aprile 2021, n. 3385; Sez. VI, 9 marzo 2021, n. 2001; T.A.R. Piemonte, Sez. II, 4 febbraio 2021, n. 122; Cons. Stato, Sez. III, 22 ottobre 2020, n. 6377.
[11] Come la convalida è un istituto di carattere generale: Cons. Stato, Sez. VI, 27 aprile 2021, n. 3385.
[12] Così, F. Costantino, op. cit., p. 902 e, in giurisprudenza, T.A.R. Campania, Napoli, Sez. V, 1° settembre 2020, n. 3716.
[13] Il riferimento è alla sentenza 22 aprile 2015, n. 5.
[14] Ammettono l’acquisizione in sanatoria di un parere sia pure in ipotesi specifiche R. VILLATA – M. RAMAJOLI, op. cit., p. 618 – 619.
La partecipazione all’associazione mafiosa nell’impostazione (problematica) delle Sezioni Unite
Commento a Sezioni Unite penali, 27 maggio 2021 (dep. 11 ottobre 2021), n. 36958, ric. Modaffari, rel. Pellegrino
di Andrea Apollonio
La pronuncia in commento, muovendo da condivisibili premesse (relative all’an dell’associazione mafiosa) e con l’apprezzabile intento di rafforzare il corollario di garanzie nella configurazione del reato di cui all’art. 416-bis, giunge a soluzioni non appaganti perché sembrano andare oltre - arricchendolo tipicamente - il dato di legge, che incrimina la mera partecipazione all’associazione mafiosa (concretamente percepibile in quanto tale): e ciò in ragione della natura di un fenomeno totalitario, che pone in serio e costante pericolo, minandole, le basi stesse delle istituzioni democratiche e della civile convivenza.
Sommario: 1. Le ragioni di una pronuncia “storica” - 2. Le modalità di estrinsecazione della mafiosità (l’associazione) - 3. L’adesione al sodalizio (il partecipe) - 4. La contraddizione in cui sembra incorrere la Corte - 5. Fenomeno mafioso e contrasto giudiziario.
1. Le ragioni di una pronuncia "storica"
La Cassazione torna a pronunciarsi sui profili applicativi del reato di associazione mafiosa e questa volta lo fa - per la prima volta e a distanza di quarant’anni dall’introduzione nel nostro ordinamento dell’art. 416-bis c.p. - a Sezioni Unite[1]. D’altronde la tematica mafiosa è divenuta, in specie negli ultimi anni, d’estrema complessità e di non agevole inquadramento pretorio e concettuale[2], atteso il fiorire, in specie presso la giurisprudenza di legittimità, di molteplici e del tutto inediti tipi associativo-mafiosi: mafie straniere impiantate in Italia, mafie del Sud che esportano proprie cellule operative al Nord (mafie "dislocate"), mafie politico-amministrative, mafie "silenti", mafie "inattive", e così via[3].
L’esigenza di pervenire al vaglio dell’alto consesso nomofilattico emergeva da un contrasto giurisprudenziale ormai sistematicamente insostenibile, che andava ben oltre la specifica questione rimessa relativa all’adesione alla struttura mafiosa: su un più generale piano afferente alla natura dell’associazione, tale contrasto vedeva fronteggiarsi - più che due diversi orientamenti esegetici - due diverse concezioni del reato associativo: l’una tesi, che propugna la natura di pericolo astratto del delitto, definendo l’art. 416-bis come una species di un più ampio genus individuato nell’art. 416, in cui elemento peculiare è il metodo mafioso che non necessariamente deve estrinsecarsi (vertendo quindi, la prova, sull’esistenza stessa dell’ente collettivo)[4], con estensione applicativa della fattispecie in virtù degli interessi di rango primario protetti dalla norma (compendiabili nella tenuta dell’ordinamento democratico)[5]; l’altra, che richiede la manifesta concretezza di tale pericolo, fin quasi a definire la norma una fattispecie di danno: un danno che viene individuato proprio nell’utilizzo del metodo mafioso, che deve essere interpretato nella sua dimensione oggettiva, ossia deve essere proiettato fuori la cosca, riconoscibile all’esterno e suscettibile in quanto tale di una concreta e fattuale verifica[6].
«Da qui - evidenzia la Corte - la ricerca di un punto di equilibrio tra l’esigenza di non lasciare impunite forme di reità di particolare allarme sociale e il rispetto dei principi costituzionali in materia penale»: e tale ricerca di soluzioni appaganti e sistematicamente sostenibili non può che riguardare, tenendosi tutto, i due inscindibili aspetti dell’esistenza, rilevabile e punibile, dell’associazione come della partecipazione ad essa (su cui specificamente si sollecitava la risoluzione dei contrasti interpretativi).
Con un tale sfondo, convulso e dibattuto, le Sezioni Unite venivano quindi chiamate a pronunciarsi sul seguente quesito di diritto: "Se la mera affiliazione ad un’associazione a delinquere di stampo mafioso c.d. storica, nella specie ‘ndrangheta, effettuata secondo il rituale previsto dall’associazione stessa, costituisca fatto idoneo a fondare un giudizio di responsabilità in ordine alla condotta di partecipazione, tenuto conto della formulazione dell’art. 416-bis cp. e della struttura del reato dalla norma previsto". Il contesto empirico-criminologico in cui si inquadra la questio iuris è ben diverso da quello delle "nuove" mafie, trattato con specifici statuti esegetici dalla giurisprudenza più recente[7]: la questione involge infatti la partecipazione ad un’associazione mafiosa storica[8]; e per meglio comprendere, molto utile risulta il richiamo al caso concreto.
Due soggetti venivano attinti da misura di custodia cautelare essendo ritenuti gravemente indiziati del reato di cui all’art. 416-bis. Secondo la prospettazione accusatoria, costoro erano partecipi di un’articolazione di ‘ndrangheta operante a Sant’Eufemia d’Aspromonte, funzionalmente dipendente dal "locale" di ‘ndrangheta di Sinopoli capeggiato dalla cosca Alvaro: la cui presenza e mafiosità era stata accertata in plurime sentenze di condanna irrevocabili. La misura cautelare per i due ricorrenti veniva emanata a seguito dell’accertamento della loro rituale affiliazione, dei loro "battesimi" (detti anche "battezzi"), mediante conversazioni captate tra altri soggetti (sodali con posizioni apicali nel gruppo mafioso), da cui si evinceva chiaramente l’avvenuta affiliazione dei due. Il tribunale del Riesame, la cui ordinanza veniva impugnata innanzi la Suprema Corte, proprio sulla base di dette conversazioni riteneva dimostrata l’avvenuta affiliazione e quindi la partecipazione alla consorteria, atteso che - secondo il tribunale - tale delitto si perfeziona già attraverso l’inserimento formale della persona nell’organizzazione criminale (storica), senza che sia necessario il compimento di specifici atti attuativi del disegno criminoso.
2. Le modalità di estrinsecazione della mafiosità (l’associazione)
Sebbene il caso sotteso s’inquadri in una specifica cornice criminologica (quella appunto delle mafie storico-tradizionali), la Corte coglie l’occasione per intraprendere un percorso ricostruttivo che leghi assieme le "vecchie" e le "nuove" mafie[9], individuando incidenter tantum alcuni principi che vanno necessariamente connessi alla struttura della fattispecie di cui all’art. 416-bis. E’ insomma, quella a cui procede la Corte nel suo più autorevole consesso, un’operazione di complessivo riordino ermeneutico della materia, punto d’arrivo delle tante sollecitazioni giurisprudenziali accumulatesi negli ultimi anni.
Come detto, è preliminarmente, sull’an dell’associazione che la Corte si sofferma (soffermandosi nel punto di convergenza più dibattuto in dottrina e giurisprudenza sul terreno delle mafie diverse da quelle tradizionali)[10]: sulla modalità con cui la cosca, per essere ritenuta sussistente, e sanzionarne penalmente l’esistenza, dovrebbe estrinsecare la propria forza di intimidazione, e dunque il metodo mafioso.
Ed infatti, dopo aver ripercorso le varie tesi[11], i giudici ritengono che, per svolgere una corretta ermeneusi della locuzione normativa "si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo" occorre«riscontrare empiricamente che il sodalizio abbia in termini effettivi dato prova di possedere tale "forza" e di essersene avvalso: solo così può attribuirsi rilievo all’oggettività del metodo mafioso», in ossequio ai principi di materialità e offensività. Nondimeno, dalla necessità che la capacità intimidatrice«sia formata, esternata ed obiettivamente percepita va tenuto distinto il profilo relativo alle modalità, del tutto libere, con cui tale capacità si esteriorizza».
Quindi, se da un lato è inequivoco il dato letterale, che non consente di conferire rilievo alla mera intenzione di avvalersi del metodo mafioso e ne necessita, all’opposto, una concreta attivazione, dall’altro - ricorda la Corte - non possono sottacersi le differenze ontologiche, tipologiche ed operative tra i diversi tipi di mafie, ed in specie tra le mafie "vecchie" e "nuove"[12]. I giudici infatti ritengono«necessario che l’associazione abbia conseguito, in concreto, nell’ambiente circostante nel quale essa opera, un’effettiva capacità di intimidazione sino a estendere su di sé un alone permanente di paura diffusa, oggettivamente percepibile, che si mantenga vivo anche a prescindere dai singoli atti di intimidazione concreti».
Come insegna l’esperienza giudiziaria e l’osservazione di taglio socio-criminologico del fenomeno, l’intimidazione e l’assoggettamento nei confronti della popolazione può derivare dalla sola presenza del sodalizio sul territorio e dalla fama criminale che il gruppo ha generato per mezzo di un pregresso e continuato utilizzo della violenza[13]. In un tale contesto di radicamento mafioso[14] la rappresentazione del metodo avviene in ragione di condotte molto meno significative sul piano normativo, dacché il sodalizio mafioso, per il sol fatto di essere tale, già è pervenuto al superamento della soglia minima che consente di utilizzare la forza intimidatrice soltanto sulla base del vincolo e del suo manifestarsi. Il metodo statico presuppone l’accumulo, nel tempo, di un patrimonio di intimidazione spendibile anche, e sopratutto, in assenza di condotte non esplicite: è proprio questa ipotesi ad afferire alle "modalità libere" con cui la capacità mafiosa si esteriorizza.
Si può quindi distinguere il metodo statico dal metodo dinamico[15], a seconda che vi sia o meno il concreto esercizio della condotta intimidatrice (il requisito della violenza o della minaccia esplicita); e dire, altresì, che tra le fila della mafia tradizionale si sfrutta ordinariamente il metodo statico, sebbene non possa escludersi un utilizzo della violenza, ovverosia del metodo dinamico. Quest’ultimo pare invece essere una linea d’azione obbligata per le "nuove" mafie, quelle di nuovo conio ed anche per le mafie storiche ma "dislocate"[16], poiché il territorio di riferimento della cosca non è più quello in cui si è radicata - e su di essa può farsi leva - la "fama criminale" della famiglia mafiosa "madre"[17].
Secondo la Corte, il metodo deve coagularsi attorno ad una comunità di riferimento e va dedotto fattualmente:«ciò che conta è che l’elemento della forza intimidatrice sia desunto da circostanze atte a dimostrare la capacità di incutere timore propria dell’associazione, e ricollegabile ad una generale percezione della sua terribile efficienza nell’esercizio della coercizione fisica e/o morale»[18].
L’associazione insomma in tanto esiste in quanto esprime il suo metodo: che esso sia statico o dinamico, va però sempre«inteso nel suo senso oggettivo: quest’ultimo infatti non può perdere la propria consistenza fino a far degradare la fattispecie a semplice pericolo attraverso mere prospettazioni prognostiche». Il metodo, per la verifica del suo effettivo esercizio, va sempre calato«nel contesto di riferimento», derivandone che l’organizzazione deve essere concretamente in grado di porre in pericolo l’ordine pubblico, l’ordine economico e la libertà di partecipazione alla vita politica; non essendo sufficiente il mero pericolo che i suoi elementi costitutivi possano manifestarsi.
Questo ragionamento, collegato al caso sotteso e decriptato nel cifrario giurisprudenziale, ha un significato preciso: tutti i tipi mafiosi, vecchi e nuovi, proprio perché vanno fattualmente riscontrati, necessitano di essere calati nel loro contesto di riferimento, da cui deve emergere empiricamente l’esercizio ovvero la perduranza degli effetti di un già esercitato metodo mafioso; diversamente, vorrebbe dire presumere l’esistenza (e l’immanenza) di un elemento costitutivo del reato, con relativo pregiudizio dei canoni di materialità e offensività del reato[19].
È indubbio, al tempo stesso, che tale sforzo probatorio è vieppiù semplificato nei casi ordinari di esercizio di un metodo statico: ove cioé si considerino le mafie storiche nei loro contesti territoriali di riferimento, in cui omertà e assoggettamento sono appunto storicamente - e giudiziariamente - riscontrati: ed è certamente il caso della cosca Alvaro nel reggino, che fa da sfondo alla vicenda rimessa alla Corte.
3. L’adesione al sodalizio (il partecipe)
È bene precisare che la Corte non intende riscontrare l’associazione, foss’anche una mafia storico-tradizionale, sulla base di massime di esperienza: anzi, da parte dei giudici si nota una diffidenza epistemologica di fondo nell’utilizzo delle massime di esperienza, affiancato da più d’un richiamo ai rischi di un utilizzo probatoriamente scorretto delle stesse.«Invero, solo la verifica dell’applicabilità della regola prescelta consente, in definitiva, la sostituzione dell’ id quod semper necesse all’ id quod plerumque accidit, criterio che - unico - permette di raggiungere l’alto grado di probabilità logica della spiegazione causale ipotizzata permettendo il superamento del dubbio ragionevole».
E tuttavia, in una materia come quella in trattazione, non può negarsi il patrimonio giudiziario (e d’analisi scientifica) nel frattempo acquisito, e quindi«l’utilità della conoscenza esperienziale delle dinamiche e della struttura delle associazioni mafiose»; che è anzi necessario per comprendere il reale significato di fatti di nattura prettamente sociologica (quali l’affiliazione rituale) che, trattati in astratto, potrebbero non avere alcuna rilevanza giuridica: in questo senso, immancabilmente, le massime di esperienza sono utili strumenti di interpretazione, più che per l’oggetto di giudizio in sé, per il loro contesto.
È dentro questa cornice sistematico-esegetica che la Corte afferma:«Se il presupposto che "lega" l’adepto alla consorteria è il suo stabile inserimento nella stessa, è innegabile come questo vincolo possa realizzarsi o in modo formale, attraverso i classici rituali di adesione e con la comprovata "messa a disposizione" ovvero, in concreto, con il compimento di azioni, preventivamente assegnate, teleologicamente orientate alla realizzazione degli scopi associativi».
È bene chiarire che il modello di riferimento per una meccanica d’ingresso formale nel sodalizio è, sempre, quello delle mafie tradizionali, in cui il "battesimo" è notoriamente il presupposto per lo stabile inserimento nell’organigramma associativo da parte del sodale; ma non l’unico, potendosi dedurre la partecipazione anche in concreto, mediante il compimento di attività causalmente orientate a favore dell’associazione, che ne comprovino, indubitabilmente, la fidelizzazione dei comportamenti e il rispetto delle gerarchie: la "messa a disposizione", appunto. In quest’ultimo caso, l’esercizio in concreto di ciò che è (sul piano soggettivo) l’affectio societatis«non richiede altri indici probatori in ragione della loro indubbia autoevidenza», mentre«l’adesione al sodalizio in forme rituali impone la ricerca di ulteriori elementi che possono comprovare l’effettiva e stabile intraneità e rendere certa e potenzialmente duratura la "messa a disposizione" del soggetto». L’adesione formale al sodalizio, quindi, non sarebbe di per sè sufficiente ad integrare il requisito della partecipazione; neppure nel contesto di una mafia tradizionale, in cui il "battesimo" può avere un solo ed univoco significato.
Conseguentemente la Corte, in uno spirito di«irrinunciabile recupero di una dimensione probatoria», elenca quelle circostanze - recte: indici probatori in ordine alla partecipazione - che sul punto possono venire in rilievo: la "qualità" dell’adesione e il tipo di percorso che l’ha preceduta; la dimostrata affidabilità criminale dell’affiliando; la "serietà" del contesto ambientale in cui la decisione è maturata; il rispetto delle forme rituali anche con riferimento all’accertamento dei "poteri" di chi sceglie, di chi presenta e di chi officia il rito dei nuovi adepti; la tipologia del reciproco impegno preso; la misura della disponibilità pretesa e/o offerta[20].
Quindi:«l’incriminazione del fatto iniziale, non accompagnato da altri indici rivelatori della stabile adesione, significa inevitabilmente punire una mera potenzialità operativa del soggetto, in aperto contrasto con la logica di effettività e proporzione che deve regolare il rapporto tra reato e sanzione». Da qui il corposo principio di diritto[21] e l’annullamento dell’ordinanza cautelare, essendo«rimasto del tutto inesplorato il profilo relativo alle attività eventualmente svolte dai due ricorrenti in favore del sodalizio criminale di ritenuta appartenenza».
4. La contraddizione in cui sembra incorrere la Corte
Al netto del pregevole sforzo ricostruttivo, che consente il riordino esegetico di due profili assolutamente centrali, quali l’an dell’associazione mafiosa (avendo i giudici fissato la soglia di riscontro fattuale oltre la quale può dirsi integrato il reato associativo) e la partecipazione alla stessa (da accertarsi in concreto sulla base di precisi indici probatori[22] o comunque sulla scorta di ogni altro elemento di fatto), e pur dovendosi apprezzare l’ancoraggio saldo dei principi enucleati ai canoni di materialità e offensività, nonché la fuga da ogni forma di responsabilità da posizione o da status[23], si coglie un eccesso di astrazione argomentativa laddove non si ritenga sufficiente l’affiliazione rituale, in quanto tale accertata, a comprovare la partecipazione all’associazione (storica); questa circostanza andrà considerata quale indizio, seppur grave, quindi non sufficiente per sé sola ad integrare il reato, essendo appunto necessario un quid pluris«capace di rendere inequivoco e certo il contributo attuale dell’associato a favore della consorteria mafiosa».
L’astrazione del ragionamento della Corte si ravvisa, invero, nel porre un principio generale del tutto scisso dai contesti socio-criminologici di riferimento dell’associazione mafiosa: perché se lo sforzo probatorio ulteriore - ed oltre la mera affiliazione - non può omettersi nel caso delle "nuove" mafie, a struttura non tradizionale, e che in ogni caso non derivino da associazioni storiche che ritualmente utilizzano ancora il "battesimo", in cui è sempre necessaria (in assenza di dati empirici e d’esperienza storicamente consolidati) una verifica in concreto delle modalità di partecipazione, ontologicamente diversa è la valutazione da svolgere su una mafia storica[24].
Una contraddizione, in altri termini, sembra cogliersi laddove da un lato la Corte, nello sforzo di rendere intellegibile l’esercizio del metodo e la presenza sul territorio di un gruppo rientrante nel fenotipo di cui all’art. 416-bis, correttamente distingue le "vecchie" mafie dalle "nuove", riconoscendone una strutturale diversità, non solo sul piano degli effetti criminosi e dell’infiltrazione sociale ma anche su quello organizzativo-funzionale: giacché una mafia storica (ed in particolare la ‘ndrangheta, certamente quella più tradizionale e più saldamente ancorata a meccanismi di affiliazione e funzionamento che si tramandano da generazioni), proprio per essere tale, ha regole sue proprie, che costituiscono ormai patrimonio conoscitivo della collettività e degli operatori del diritto. Eppure dall’altro lato, dentro un ragionamento che sembra più accorto nel ripercorrere le argomentazioni della sentenza "Pesce" anziché compiersi del tutto, non si esegue alcuna distinzione tipologica sotto il profilo dell’adesione punibile al sodalizio; tanto che viene omesso, nel principio di diritto enucleato, ogni riferimento alla mafia storica, riferimento invece presente - perché dirimente - nel quesito sottoposto all’organo nomofilattico[25].
Di interesse, al riguardo, è la memoria depositata dal procuratore generale che ha chiesto di dichiararsi inammissibili i ricorsi. Secondo il pubblico ministero, il quesito sottoposto alle Sezioni Unite andrebbe declinato diversamente:«Non si tratta, infatti, di attribuire di per sé un significato univoco a una frazione di condotta, ma di ricondurre quella condotta al contesto criminale oggetto di prova»: da qui, l’importanza di ricostruire«in termini probatoriamente certi, la struttura del sodalizio criminoso e di conseguenza il significato che in quel contesto alla cerimonia di rituale iniziazione viene attribuito».
Posto che la giurisprudenza di legittimità è granitica nell’affermare che la partecipazione al sodalizio criminale mafioso è del tutto indipendente dalla commissione di specifici reati o da condotte attuative del progetto criminoso dell’associazione, la manifestazione di volontà deve inserirsi nella struttura dell’organizzazione, venendone riconosciuta e apportandovi un contributo effettivo, anche per la sola "messa a disposizione".«E questo - afferma il procuratore generale - è un tema di prova, solo di prova»[26].
Ora, è di tutta evidenza che nel contesto ‘ndranghetista, ed in particolare nel tradizionale contesto reggino oggetto di indagine prima e di giudizi cautelari poi, l’affiliazione rituale ha una comprovata e ineludibile valenza partecipativa; che trattasi - l’affiliazione rituale - di una chiara e non fraintendibile "messa a disposizione" e che, in questo preciso contesto storico-tradizionale, richiedere la prova di dati di fatto ulteriori vorrebbe dire avventurarsi nell’esplorazione del - diverso - tema probatorio dell’attuazione del programma criminoso, ed eludere per questa via la struttura del reato come formulato dal legislatore del 1982, che richiede la mera partecipazione.
Se tutto in effetti ruota attorno alla prova della partecipazione, e se la prova comporta l’acquisizione di dati di fatto in uno con la loro intepretazione nel concreto contesto di riferimento, non può negarsi che quest’ultimo cambi a seconda del diverso panorama criminologico: che si tratti di una mafia tradizionale, saldamente e storicamente radicata sul territorio, dalla mappatura ben intellegibile e dai chiari meccanismi di funzionamento, perché più volte giudiziariamente accertati (è il caso, appunto e sopratutto, dei locali di ‘ndrangheta), ovvero di mafie di nuovo conio, dalle strutture più diverse e per loro stessa natura inesplorate.
Cosicché, nel contesto esaminato, non può non considerarsi l’affiliazione rituale quale forma di partecipazione punibile, fatta salva, s’intende, l’eventuale emergenza di risultanze processuali idonee a smentire tale regola di esperienza.
D’altro canto anche la Corte ribadisce che«la disponibilità conclamata resa con il prestato giuramento di mafia, che può rendere ipotizzabile il contributo partecipativo del soggetto, può essere probatoriamente contraddetta» da altri dati di fatto. Da tale argomentazione, però, scaturisce una diversa conclusione; essa viene valorizzata e posta a supporto dell’esigenza di riscontrare concretamente, probatoriamente - non l’associazione, bensì - la singola partecipazione; anche al cospetto di regole mafiose interne precise, inequivoche e perpetrate da generazioni[27].
5. Fenomeno mafioso e contrasto giudiziario
La pronuncia in commento, muovendo da condivisibili premesse (relative all’ an dell’associazione mafiosa) e con l’apprezzabile intento di rafforzare il corollario di garanzie nella configurazione del reato di cui all’art. 416-bis, giunge a soluzioni non appaganti perché sembrano andare oltre - arricchendolo tipicamente - il dato di legge, che incrimina la mera partecipazione all’associazione mafiosa (concretamente percepibile in quanto tale): e ciò in ragione della natura di un fenomeno totalitario[28], che pone in serio e costante pericolo le basi stesse delle istituzioni democratiche e della civile convivenza.
Ed invero, il lignaggio di pericolo concreto di cui deve ritenersi portatrice la norma in relazione a beni giuridici di tale rilevanza, va sicuramente ricondotto, per quanto sopra detto, all’esercizio del metodo mafioso da parte dell’associazione (non potendosi punire mere entità associative prive di proiezioni delittuose all’esterno)[29], senza però utilizzare il medesimo schema inferenziale anche - come sembra suggerire la sentenza - per le forme partecipative all’ente[30], che vanno sempre coniugate alla littera legis e poi affianacate all’analisi - non dell’associazione criminale, ma - del tipo di mafia a cui si riconnettono.
Invero, in questa pronuncia solida, che si muove nel solco della giurisprudenza più attenta ai canoni dell’offensività del reato[31] e mostra piena e dettagliata consapevolezza del lungo cammino pretorio in subiecta materia, ma forse non del tutto centrata rispetto al quesito (dal preciso riferimento socio-criminologico) posto dalla sezione remittente, non colgono nel segno i riferimenti normativi sovranazionali e sistematici[32] effettuati dalla Corte, che per assoluta diversità di obiettivi politico-criminali non si attagliano al caso vagliato dell’affiliazione rituale ad un’associazione mafiosa (tradizionale).
Da un lato si richiama la nozione di partecipazione recepita in ambito U.E. dalla Decisione Quadro n. 2008/841/GAI del Consiglio relativa alla lotta alla criminalità organizzata[33], la quale - benché priva di qualsivoglia riferimento alle oggettive peculiarità del fenomeno mafioso - finirebbe per«orientare l’interpretazione del dato normativo interno»; dall’altro si fa riferimento ad una fattispecie recentemente introdotta (quella di cui all’art. 270-quater, rubricato "Arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale") in cui il legislatore«ha ritenuto di dover incriminare il mero reclutamento»[34], introducendo appunto una previsione incriminatrice ad hoc:«il che ulteriormente evidenzia come tale segmento del fatto, qualora non accompagnate da successive condotte di attivazione, non può ritenersi di per sé ricompreso nella nozione tipica di partecipazione».
Anche volendo valorizzare quest’ultimo dato sul piano sistematico, rimane improprio il parallelismo tra mero arruolamento per finalità terroristiche e affiliazione rituale ad una mafia[35]: che è notoriamente, ove beninteso si appuri la serietà dell’affiliazione, una scelta di vita di carattere assoluto, ove l’associato viene ad appartenere alla mafia sotto il profilo della totale soggezione alle sue regole, regole che neppure consentono una facile e agevole dissociazione; nell’affiliazione rituale, nel contesto di una mafia tradizionale, è immanente l’obbligo di prestare ogni propria disponibilità al servizio della cosca, accrescendone così la potenzialità operativa. E ciò, va ribadito, è patrimonio empirico-conoscitivo pressoché granitico[36].
Neanche l’ampio spazio riservato alle argomentazioni delle Sezioni Unite "Mannino" del 2005, che come noto riscattano il paradigma organizzatorio "puro" sviluppandolo nella sua dimensione integrata (o mista)[37] e da cui si evincerebbe un inserimento associativo combinato con un apporto individuale causalmente orientato[38], appare dirimente, atteso che«la proiezione fattuale dell’inserimento organico nella struttura del sodalizio», tale da«implicare, più che uno status di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l’interessato "prende parte" al fenomeno associativo» (questa la valutazione probatoria sollecitata dai giudici nel 2005), è adeguatamente sussunto, per le ragioni anzidette, in una condotta formalistica di assoluta rilevanza e centralità nella vita di una associazione mafiosa tradizionale. La sentenza "Mannino", che pure si occupa più in generale di distinguere concettualmente la partecipazione associativa dal concorso eventuale[39], ha come parametro di riferimento la mafia siciliana di cosa nostra; e pur astraendo il tema della partecipazione, e dell’idoneità della partecipazione alla cosca, tratteggia un quadro esattamente coincidente con ciò che in un contesto mafioso storico-tradizionale si realizza con l’affiliazione rituale.
L’art. 416-bis, a ben vedere, non è affetto da una "tipicità incompiuta"[40], come sembrano indiziare le molteplici oscillazioni interpretative sulla norma: in ogni caso, la carenza del tipo descrittivo non può ravvisarsi nel dato partecipativo, a cui si collega solo e soltanto un problema di prova dell’inserimento della struttura: che è peraltro, per antonomasia, legato all’affiliazione rituale.
Aggravare e appesantire questo passaggio configurativo di per sé chiaro - perlomeno ove si tratti di affiliazione rituale ad una mafia storica e tradizionale - rendendolo di fatto un (ulteriore) problema causale da risolvere per comprovare l’inserimento nella struttura, con la prova (ulteriore) della idoneità,«per le caratteristiche assunte nel caso concreto, a dare luogo alla "messa a disposizione" del sodalizio stesso, per il perseguimento dei comuni fini criminosi», con tutto ciò che tale locuzione comporta sul piano dell’accertamento nel contesto anzitutto delle complesse indagini sulle associazioni mafiose, vuol dire contraddittoriamente problematizzare sul piano causale un profilo - quello appunto della partecipazione - dopo avere chiarificato, in premessa, quello logicamente precedente dell’ an dell’associazione.
Ed una siffatta impostazione problematica, che innalza processualmente la soglia di perfezionamento del reato associativo in capo al sodale, mero partecipe, richiedendo un’articolata prova - causalmente orientata - in ordine alla partecipazione alla cosca, rischia di generare effetti pratici di notevole portata assieme ad ulteriori incertezze applicative, come nell’esperienza giurisprudenziale accade quando si comincia ad elaborare "indici probatori" volti a rafforzare la prova di un fatto[41]; e in ultima analisi, ed è ciò che più rileva, di rendere più difficoltoso il contrasto giudiziario al fenomeno mafioso che, ancora, stringe e soffoca con i più tradizionali metodi dell’assoggettamento intere aree, specialmente (ma non solo) del Meridione.
[1] Fatte salve le tre note pronunce a Sezioni Unite sul concorso esterno, tutte peraltro richiamate nella sentenza in commento in quanto utili a lumeggiare, in termini generali, il tema della partecipazione: Sez. Un., 5 ottobre 1994 (dep. 1995), n. 16 - rv. 199386 (c.d. "Demitry"); Sez. Un., 30 ottobre 2002 n. 22327 - rv. 224181 (c.d. "Carnevale"); Sez. Un., 12 luglio 2005, n. 33748 (c.d. "Mannino"); tra i contributi sul tema si ricordano Cavaliere, Il concorso eventuale nel reato associativo. Le ipotesi delle associazioni per delinquere e di tipo mafioso, Napoli, 2003, e Visconti, Contiguità alla mafia e responsabilità penale, Torino, 2003.
[2] Ne è riprova l’imprescindibile lavoro monografico di Turone, Il delitto di associazione mafiosa, Giuffrè, 2015, apparso tuttavia una prima volta (con il titolo Le associazioni di tipo mafioso) nel 1984, e via via aggiornato (nel 1995, nel 2008 ed infine, appunto, nel 2015). L’autore, nella Prefazione, così giustifica l’ulteriore edizione dell’opera:«Non prive di rilievo sono, infine, le nuove emergenze circa l’apparato strutturale-strumentale di certi organismi associativi "neo-mafiosi" individuati di recente» (p. V). È indubbio, infatti, che i modelli mafiosi di nuovo conio – quelli cioè recentemente emersi nella giurisprudenza – travolgano le impostazioni teorico-applicative fin qui consolidatesi in materia. Si veda anche Basile, Riflessioni sparse su "Il delitto di associazione mafiosa". A partire dalla terza edizione del libro di Giuliano Turone. Recensione, in Dir. pen. cont. (web), 26 aprile 2016.
[3] Si guardi il ricognitivo lavoro di Santoro (a cura di), Riconoscere le mafie. Cosa sono, come funzionano, come si muovono, Il Mulino, 2015, ed in particolare il contributo di La Spina, Riconoscere le organizzazioni mafiose, oggi: neo-formazione, trasformazione, espansione e repressione in prospettiva comparata, ivi, p. 95 ss.
[4] Un orientamento ben delineabile a partire da Sez. V, 25 giugno 2003, n. 38412 - rv. 227361. Peraltro, come la pronuncia in commento correttamente ricorda, questa tesi si aggancia alla relazione della proposta di legge n. 1581 (presentata il 31 marzo 1980 dai deputati Pio La Torre ed altri), da cui scaturirà la novella di cui all’art. 416-bis:«Non [è] sufficiente la previsione dell’art. 416 del codice penale a comprendere tutte le realtà associative di mafia che talvolta prescindono da un programma criminoso secondo la valenza data a questo elemento tipico dall’art. 416 del codice penale, affidando il raggiungimento degli obiettivi alla forza intimidatrice del vincolo mafioso in quanto tale: forza intimidatrice che in Sicilia e Calabria raggiunge i suoi effetti senza concretarsi in una minaccia o in una violenza negli elementi tipici prefigurati nel codice penale"». In dottrina, tra i primi a delineare una fattispecie di pericolo astratto è Flick, L’associazione a delinquere di tipo mafioso. Interrogativi e riflessioni sui problemi proposti dall’art. 416 bis c.p., in Riv. it. Dir. Proc. Pen., 1988, p. 853.
[5] In dottrina già Patalano, L’associazione per delinquere, Jovene, 1971, p. 178, rilevava come il bene protetto dalla fattispecie associativa (e, dunque, a fortiori dal reato di associazione mafiosa) sia l’ordine pubblico inteso quale "esclusività dell’ordinamento giuridico-penale". Nei medesimi termini, successivamente: Spagnolo, L’associazione di tipo mafioso, Padova, 1993, p. 110 e Cavaliere, Delitti contro l’ordine pubblico, in Moccia (a cura di), Trattato di diritto penale, Parte speciale, V, Napoli, 2007, p. 397.
[6] Una tesi che viene propugnata già a partire da sez. VI, 3 giugno 1993, n. 1793 (1994) - rv. 198577. E’ sicuramente l’impostazione preferita dalla dottrina: cfr. De Francesco, Associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso, in Dig. d. pen., vol. I, Padova, 1987, p. 309 Da ultimo, prospettano la«necessaria idoneità offensiva» Insolera-Guerini, Diritto penale e criminalità organizzata, Torino, 2019, p. 56.
[7] E che ha specularmente aperto un ampio dibattito in dottrina: Serraino, Associazioni ‘ndranghetiste di nuovo insediamento e problemi applicativi dell’art. 416 bis c.p., in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, 264 ss.; Pignatone-Prestipino, Modelli criminali. Mafie di ieri e di oggi, Roma-Bari, 2019; Sparagna, Metodo mafioso e c.d. mafia silente nei più recenti approdi giurisprudenziali, in Dir. pen. cont. (web), 10 novembre 2015; Balsamo-Recchione, Mafie al Nord. L’interpretazione dell’art. 416 bis c.p. e l’efficacia degli strumenti di contrasto, in Dir. pen. cont. (web), 18 ottobre 2013.
[8] Segnala come elemento di novità il fatto che il quesito sollevato dalla sezione remittente non riguardi il caso tipologico definito di "ultima generazione", ma viene al contrario in evidenza come punto controverso l’inquadramento nella partecipazione associativa della più arcaica delle manifestazioni di mafiosità Maiello, L’affiliazione rituale alle mafie storiche al vaglio delle Sezioni Unite, in Sistema penale, 5, 2021, p. 4.
[9] Si evoca l’imprescindibile testo di Sciarrone, Mafie vecchie, mafie nuove. Radicamento ed espansione, Roma, 2009, tra gli studiosi più attenti del fenomeno delle "nuove" mafie.
[10] Sebbene, come rileva Visconti, Mafie straniere e ‘ndrangheta al nord: una sfida alla tenuta dell’art. 416 bis?, in Dir. pen. cont., 1, 2015, p. 367, la questione dell’applicabilità dell’art. 416-bis a realtà associative diverse dalle “mafie storiche” si era presentata già dopo pochi anni di vigenza del delitto di associazione di tipo mafioso.
[11] La pronuncia richiama il dibattito tra chi intende la forza di intimidazione quale un insieme di singoli, determinati, ripetuti e sopratutto attuali atti di minaccia o di violenza, chiaramente riconoscibili, e coloro invece che considerano il fenomeno mafioso come l’ instaurazione di un "clima di terrore" dettato dalla "fama" del gruppo, finendo per valorizzare una componente astratta che non necessariamente deve rivelarsi all’esterno.
[12] Lo ricorda la Corte, per esempio, laddove si sofferma sulle descrizioni delle mafie storiche, del loro funzionamento interno e della loro proiezione esterna, e di come per esse nella prassi giudiziaria siano state impiegate le massime di esperienza (p. 38 ss. della sentenza); oppure nei numerosi passaggi in cui si rammenta che la capacità mafiosa può essere patrimonio storico perpetuato nelle diverse stagioni del radicamento mafioso. Le "nuove" mafie non vengono analizzate dettagliatamente, ma è ben chiaro che si mantiene ferma una linea concettuale insuperabile, tra le une e le altre.
[13] È fondamentale ricalcare il fatto che l’attività intimidatrice si sia effettivamente svolta in precedenza, e per un periodo di tempo sufficiente all’infondere l’omertà nella popolazione. Sottolineava questo elemento De Francesco, Associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso, in Dig. d. pen., vol. I, Padova, 1987, p. 309, secondo cui i requisiti dell’assoggettamento e dell’omertà si«ricollegano ad un’attività precedente, perché l’associazione ha acquistato la sua forza proprio in virtù di reiterati comportamenti di violenza e di minaccia».
[14] Il concetto di area "a tradizionale radicamento mafioso" è di matrice istituzionale: elaborato nei lavori della Commissione parlamentare antimafia, è in particolare cristallizzato in Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno dellamafia e delle altre associazioni criminali similari (XI legislatura), Relazione sulle risultanze dell’attività del gruppo di lavoro incaricato di svolgere accertamenti su insediamenti e infiltrazioni di soggetti ed organizzazioni di tipo mafioso in aree non tradizionali (relatore C. Smuraglia), approvata il 13 gennaio 1994.
[15] Tale distinzione concettuale, utile per chiarire la dinamica di alcuni fenomeni delittuosi quale l’estorsione c.d. "ambientale" di tipo mafioso, è stata richiamata, volendo, in Apollonio, Estorsione ambientale e metodo mafioso, in Cass. Pen, 2018, p. 3482 ss.
[16] Sulle mafie "dislocate", con particolare riguardo alla più diffusa ipotesi delle filiali silenti formatesi nel Nord della Penisola, si veda Varese, Mafie in movimento. Percorsi e geografie del crimine organizzato, Torino, 2011, passim; Alessandri (a cura di), Espansione della criminalità organizzata nell’attività d’impresa al Nord, Torino, 2017; Visconti, Associazione di tipo mafioso e ‘ndrangheta del nord, in Libro dell’anno del diritto 2016, in www.treccani.it.
[17] Per Rubiola, Associazione per delinquere di tipo mafioso, in Enc. giur., I, Roma, 1990, p. 213, pur essendo certamente raro che si verifichi, non si può escludere che una nuova associazione nasca già temibile, in modo da rendere convincente per i terzi la sua temibilità; potrà, ad esempio, rendere noti i nomi dei suoi componenti più potenti, la cui pericolosità individuale si trasfonde nel gruppo e contribuisce a crearne la forza; o potrà vantare le altolocate protezioni di cui gode, i notevoli mezzi finanziari a sua disposizione.
[18] Viene qui citata la pronuncia Sez. Fer., 12 settembre 2013, n. 44315 - rv. 258637.
[19] Una conclusione che recentemente veniva ribadita nella nota sentenza di legittimità sulla vicenda c.d. "Mafia Capitale" (Sez. VI, 22 ottobre 2019 (dep. 12 giugno 2020), n. 18125), su cui, volendo, cfr. Apollonio, Essere o non essere "Mafia Capitale". Commento a Cass., sez. VI, 22 ottobre 2019 (dep. 12 giugno 2020), n. 18125, in Giustizia Insieme (web), 20 giugno 2021.
[20] In questo senso la pronuncia in commento è il completamento - ma anche la pedissequa riproduzione d’itinere - di un filone argomentativo che vede nella sentenza c.d. "Pesce" (sez. I, 17 giugno 2016, n. 55359 - rv. 269040) la capofila, la quale richiede, oltre al dato formale dell’affiliazione rituale ad un’associazione di tipo mafioso,«ulteriori concreti indicatori fattuali rivelatori dello stabile inserimento del soggetto nel sodalizio con un ruolo attivo». Su tale spunto della sentenza "Pesce" si sofferma Maiello, L’affiliazione rituale alle mafie storiche, cit. p. 8 ss.; spunto che pertanto si proietta anche sulla sentenza delle Sezioni Unite.
[21]«La condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso si sostanzia nello stabile inserimento dell’agente nella struttura organizzativa della associazione. Tale inserimento deve dimostrarsi idoneo, per le caratteristiche assunte nel caso concreto, a dare luogo alla “messa a disposizione” del sodalizio stesso, per il perseguimento dei comuni fini criminosi.
Nel rispetto del principio di materialità ed offensività della condotta, l’affiliazione rituale può costituire indizio grave della condotta di partecipazione al sodalizio, ove risulti – sulla base di consolidate e comprovate massime di esperienza – alla luce degli elementi di contesto che ne comprovino la serietà ed effettività, l’espressione non di una mera manifestazione di volontà, bensì di un patto reciprocamente vincolante e produttivo di un’offerta di contribuzione permanente tra affiliato e associazione».
[22] Va soggiunto che i giudici non si limitano ad elaborare indici probatori relativi al concreto inserimento del sodale nella cosca a seguito dell’affiliazione rituale, ma ne elaborano altri in grado, ad es., di avvalorare l’informazione pervenuta da altri soggetti diversi dall’affiliato:«fuori dai casi di intraneità confessata, diversi saranno gli statuti probatori applicabili, a seconda che il dichiarante riferisca quanto appreso da altri oppure rilevi quanto accaduto in sua presenza perché: a) ha preso parte alla cerimonia; b) il soggetto gli è stato presentato come "uomo d’onore"; c) è entrato in contatto con soggetto che si è rapportato a lui come "uomo d’onore"».
[23] Del rischio che in questa materia possano accendersi«i bagliori di un diritto penale d’autore sotto mentite spoglie» parlano Merenda-Visconti, Metodo mafioso e partecipazione associativa nell’art. 416-bis tra teoria e diritto vivente, in Mezzetti-Luparia Donati (diretto da), La legislazione antimafia, Bologna, 2020, p. 42, sulla scia di una dottrina in questo senso univoca: cfr. anche Insolera, Guardando nel caleidoscopio. Antimafia, antipolitica, potere giudiziaria, in Ind. pen., 2015, p. 223.
[24] La Corte richiama la "dote" di ‘ndrangheta non solo perché il caso concreto riguarda una cosca ‘ndranghetista tradizionalmente presente, da decenni, sul territorio, ma anche perché una tale affiliazione - maggiormente qualificata - è stata parametro di giudizio nella sentenza "Pesce": eppure«non è possibile ritenere che il possesso di una "dote" equivalga ad indefinita partecipazione all’associazione, così che, una volta certificato quel possesso, non vi è alcun bisogno di un concreto accertamento in ordine alla partecipazione e al suo protrarsi nel tempo»; occorre insomma, necessariamente, la«prova della correlazione tra affiliato ed associazione [che] si rivela con riferimento al significato da attribuire al possesso della "dote"».
Invero, al netto della medesima struttura argomentativa e dei medesimi richiami, come della valorizzazione dei medesimi principi, l’unico profilo apprezzabile di divergenza dalla sentenza "Pesce" sta proprio nell’avere, quest’ultima, conferito un precipuo rilievo giuridico-probatorio ad un elemento marcatamente organizzativo-sociologico, quale è il conferimento di un "alto" grado di ‘ndrangheta come la "dote", affermando che, a differenza della mera affiliazione, il conferimento di questa implica per massima di esperienza l’avvenuta attivazione del soggetto nell’ambito associativo. Cosicché, le Sezioni Unite, non scendendo più a fondo nell’analisi socio-organizzativa del rituale di ‘ndrangheta ed omettendo per questa via l’implicazione di una chiara responsabilità partecipativa in ragione (perlomeno) della "dote", avrebbero ulteriormente rafforzato, rispetto alla sentenza "Pesce", lo statuto garantistico dell’accertamento della partecipazione alla cosca.
[25] Mentre l’ordinanza di rimessione (Sez. I, 28 gennaio 2021, dep. 9 febbraio 2021, n. 5071, rel. Centonze) muove i propri dubbi esegetici nel quadro specifico del perfezionamento del reato nel contesto delle mafie storiche, financo nominalmente elencate nell’ordinanza: cosa nostra, camorra, ‘ndrangheta e sacra corona unita.
[26] Nell’udienza in camera di consiglio è intervenuto il procuratore generale presso la Corte di Cassazione Giovanni Salvi, depositando le richiamate e citate Note per udienza in camera di consiglio davanti alle Sezioni Unite penali (proc. n. 34566/2020).
[27] Commentando l’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, Fiorucci, L’importante è partecipare?, in Arch. Pen., 1, 2021, p. 16, auspicava una soluzione "intermedia", che parallelamente adottando una prospettiva socio-organizzativa con riferimento al funzionamento interno delle mafie storiche (ampiamente accertato in sede giudiziaria), perlomeno distingua l’attribuzione formale dal conferimento di specifici ruoli (ad es. della "dote"). Come sopra detto, però, la Corte ha ritenuto di non svolgere questa distinzione, più astrattamente preferendo l’elaborazione di "indici probatori" in grado di superare l’indizio grave dell’affiliazione rituale.
[28] Di potere politico "totalitario" parla Violante, Non è la piovra. Dodici tesi sulle mafie italiane, Roma-Bari, 1994, p. 7. Sui caratteri del predicato mafioso si veda, inter alia, Tranfaglia, La mafia come metodo, Milano, 2012 (nuova edizione riveduta), p. 23 ss. V. anche Zincani, La criminalità organizzata. Strutture criminali e controllo sociale, Bologna, 1989, p. 15 ss. Sviluppa un interessante modello organizzativo di crimine organizzato Fiandaca, Criminalità organizzata e controllo penale, in Ind. Pen., 1991, p. 7, sul quale si veda anche, più recentemente, Aleo, Delitti associativi e criminalità organizzata. I contributi della teoria dell’organizzazione, in Rass. pen. crim., 3, 2012, p. 55 ss.
[29] Si condividono al riguardo le impostazioni della dottrina, ben compendiate nei recenti lavori di Amarelli, Mafie delocalizzate all’estero: la difficile individuazione della natura mafiosa tra fatto e diritto, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, p. 105 ss.; Id., Mafie autoctone: senza metodo non si applica l’art. 416 bis c.p., in Giur. it., 2020, p. 2249 ss.
[30] Su questo punto, peraltro, converge parte della dottrina: cfr. ad es. lo spunto di Di Vetta, Tipicità e prova, Un’analisi in tema di partecipazione interna e concorso esterno in associazione di tipo mafioso, in Arch. Pen., 1, 2017.
[31] Canone ermeneutico primario (in specie per i reati associativi di pericolo), rinvenendo un fondamento implicito negli artt. 13, 25 comma 2 e 27, comma 3 Cost., nonché a livello codicistico nell’art. 49, comma 2 c.p. La costituzionalizzazione implicita del principio di offensività nell’attuale assetto ordinamentale è stata evidenziata, come noto, da Bricola, Teoria generale del reato, in Nov. Dig. It., XIX vol., Torino 1973, p. 81 ss. (e in Scritti di diritto penale, I, Dottrine generali, teoria del reato e sistema sanzionatorio, Milano 1997, 539 ss.); Gallo, I reati di pericolo, in Foro pen., 1969, 8 ss.; Marinucci, Politica criminale e riforma del diritto penale, in Jus, 1974, p. 463 ss; più recentemente, si rinvia a Manes, Il principio di offensività nel diritto penale. Canone di politica criminale, criterio ermeneutico, parametro di ragionevolezza, Torino, 2005, passim.
[32] Già effettuati nella sentenza "Pesce", cit., peraltro elogiata dalla dottrina come la«presa di posizione più matura sul tema della partecipazione associativa» (Merenda-Visconti, Metodo mafioso, cit., p. 65, nt. 73).
[33] Che incrimina "il comportamento di una persona che [...] partecipi attivamente alle attività criminali dell’organizzazione, ivi compresi la fornitura di informazioni o mezzi materiali, il reclutamento di nuovi membri, nonché qualsiasi forma di finanziamento delle sue attività, essendo consapevole che la sua partecipazione contribuirà alla realizzazione delle attività criminali di tale organizzazione".
[34] Trattasi di condotta inclusiva - sotto il profilo del rilievo penale - della fase che precede l’accordo (oltre che l’effettivo inserimento nella struttura) ritenuta, in presenza del particolare finalismo, meritevole di sanzione sotto il profilo del reato consumato: Fasani, Le nuove fattispecie antiterrorismo: una prima lettura, in Dir. Pen. Proc., 2015, 936; Presotto, Le modifiche agli artt. 270-quater e quinquies del codice penale per il contrasto al terrorismo, in Dir. Pen. Cont., 1/2017, p. 110.
[35] Sul punto non può condividersi il raffronto effettuato nella sentenza "Pesce" (e per converso nella pronuncia in commento): l’affiliazione rituale non è un«mero accordo di ingresso simile al semplice arruolamento descritto come condotta punibile nell’attuale articolo 270-bis c.p. in tema di finalità di terrorismo anche internazionale»: affiancare l’affiliazione rituale ad un accordo di ingresso, come accade per un qualsiasi ente collettivo, lecito e illecito, ivi comprese le organizzazioni terroristiche, vorrebbe dire negare le specificità criminologiche delle mafie nonché sminuire quei dati di conoscenza granitici travasati dall’esperienza giudiziaria all’analisi scientifica (e viceversa) che mostrano il grado assoluto di "messa a disposizione" del sodale: vds., per un esempio di trasfusione del sapere tra i vari ambiti, Ciconte, Riti criminali. I codici di affiliazione alla ‘ndrangheta, Soveria-Mannelli, 2015, p. 45 ss.
[36] Sul punto, ancora, le analisi sociologiche ci offrono un quadro tranciante: vd. Massari, Sacra corona unita. Potere e segreto, Roma-Bari, 1998, p. 23 ss.; mentre sulla ‘ndrangheta Malafarina, Il Codice della ‘Ndrangheta, Reggio Calabria, 1978, p. 50 ss.; Gratteri-Nicaso, Fratelli di sangue, Cosenza, 2006, passim.
[37] La struttura "mista" del reato associativo è ben illustrata nel recente lavoro di Merenda-Visconti, Metodo mafioso e partecipazione associativa, cit., p. 40 ss.
[38] Su come però la sentenza (Sez. Un., 12 luglio 2005, n. 33748 (c.d. "Mannino") non abbia sopito i dibattiti in ordine alla configurazione dell’istituto, cfr. Fiandaca, Il concorso esterno tra guerre di religione e laicità giuridica. Considerazioni sollecitate dalla requisitoria del p.g. Francesco Iacoviello nel processo Dell’Utri, in Dir. pen. cont., I, 2012, p. 251 ss; vd. anche, utilmente, Macchia, “Concorso esterno”. Storia di una creazione giurisprudenziale, in Dir. e Giust., 2003, 22, 39.
[39] Nel quadro di quella pronuncia i giudici non procedevano ad alcuna distinzione tra i possibili fenotipi di mafia (tra "vecchi" e "nuovi" modelli) oggetto di giudizio, anche perché la distinzione assume nelle sentenze della Cassazione un preciso rilievo probatorio, di fattuale riscontro della condotta tipizzata, solo nell’ultimo decennio: per una ricognizione, sia consentito il rinvio a Apollonio, Rilievi critici su sulle pronunce di "Mafia Capitale": tra l’emersione di nuovi paradigmi e il consolidamento nel sistema di una mafia soltanto giuridica, in Cass. Pen., 2016, p. 118 ss.
[40] E’ noto come la dottrina abbia parlato di "tipicità inafferrabile" della fattispecie associativa: Moccia, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, II, Napoli, 2000, 65; nello stesso senso, Cavaliere, Il concorso eventuale nel reato associativo, Napoli, 2003, 81; invero, potrebbe semmai parlarsi di "tipicità aperta" all’integrazione probatoria (su cui si guardi l’importante spunto di Gargani, Fattispecie sostanziali e dinamiche probatorie. Appunti sulla processualizzazione della tipicità penale, in De Francesco-Marzaduri (a cura di), Il reato lungo gli impervi sentieri del processo, Torino, 2016, p. 89 ss.). Ed in questo senso non può negarsi che la materia dei reati associativi , per le stesse caratteristiche criminologiche del fenomeno da regolare, risulta particolarmente permeabile alle esigenze probatorie che emergono in sede processuale (cfr. Fiandaca, Ermeneutica e applicazione giudiziale del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, p. 361 ss.).
[41] Un rischio messo in evidenza, all’indomani del mero dispositivo delle Sezioni Unite, da Tredici, Rituale di affiliazione e condotta di partecipazione: la decisione delle Sezioni Unite, in Dir. Proc. Pen. (web), 27 luglio 2021, secondo cui«la ricerca garantista di ulteriori indici di colpevolezza verrebbe, infatti, rimessa ad un’attività di creazione pretoria, del tutto sganciata dal tenore della fattispecie, che finirebbe per preludere ad un’inevitabile discrezionalità giudiziaria, incompatibile con il principio di legalità formale».
Onofrio Fanelli - In memoriam
di Marco Rossetti
“Le piace Brahms?”, domandò il Presidente mentre, accortosi dal mio arrivo, abbassava con la sinistra il volume della piccola radio a transistor poggiata su una consolle accanto alla scrivania. Erano i suoi pochi momenti di riposo in una giornata intensissima, ed ero arrivato io a disturbarlo.
La domanda mi spiazzò.
Ero andato dal direttore dell’Ufficio del Massimario della Corte di cassazione per presentarmi (era il 1994 e m’era stato concesso di fare il “massimatore volontario”, da semplice uditore con funzioni); non avevo mai messo piede in quel Palazzo, e m’attendevo sguardi indagatori e supponenza.
Invece a rivolgermi quella domanda era stato un signore sulla settantina, molto giovanile, dal volto disteso, lo sguardo vivo d’una intelligenza penetrante, un sorriso benevolo, un’espressione che in ogni cenno emanava il senso d’una grande forza - per dirla col Manzoni - passata ma non trascorsa.
Gli erano bastati pochi secondi a capire e capirmi. Mi mise a mio agio, mi spiegò il da farsi, mi offrì il suo aiuto. Non tralasciò nessuna delle parole, né delle attenzioni, che fa piacere ascoltare per essere incoraggiati.
E non lo fece quella volta soltanto.
Quell’uomo colto, generoso e disponibile era Onofrio Fanelli, venuto a mancare lo scorso 17 ottobre.
Onofrio Fanelli è stato uno dei magistrati che più hanno reso onore alla toga che hanno indossato: per come hanno lavorato, per quanto hanno lavorato, per quanto hanno insegnato.
Era nato a Castellana Grotte il 27.9.1926, ed era entrato in magistratura a 27 anni, nel 1954, diciassettesimo del suo concorso.
Magistrato di Tribunale dal 1960, poi fuori ruolo al Ministero della Giustizia dal 1962 al 1968, quindi magistrato d’appello per concorso, ed applicato al Massimario dal 1970.
Qui proseguì tutta la sua carriera: consigliere di cassazione dal 1974; dichiarato idoneo alle funzioni direttive superiori dal 1979, Presidente di Sezione dal 1993. Le sue indiscutibili capacità di giurista gli valsero la nomina a direttore dell’Ufficio del Massimario e, contemporaneamente, del Centro Elettronico di Documentazione (CED) della Corte di cassazione: un onore - e una responsabilità - concesso a pochi prima di lui, e nessun altro dopo di lui.
Lasciò la magistratura nel 1998, per limiti di età, ma la pensione non significò affatto il riposo: per altri vent’anni continuò a dirigere il Repertorio del Foro Italiano, dopo averne completamente ristrutturato ed aggiornato, da solo, lo schema di classificazione.
Il giurista Onofrio Fanelli possedeva doti che chiunque avrebbe invidiato: che si parlasse di riscatto agrario o di concorso dell’extraneus nel reato proprio, lui era perfettamente in grado di dire la sua. Possedeva la capacità rara di guardare in alto - o meglio, dall’alto, il mondo del diritto. Era in grado di cogliere subito il cuore dei problemi; di inquadrarli nel contesto generale; di individuare la soluzione corretta.
Non amava i bizantinismi dei legulei, né i voli pindarici degli idealisti. Aveva i piedi nel diritto positivo, e la testa nei princìpi.
Ha dato il suo contributo in tutte le Sezioni della Corte di cassazione, ivi comprese le Sezioni Unite, ma fu soprattutto nella Sezione Lavoro che spese la sua attività di magistrato. Sarebbe qui impossibil cosa ricordare le centinaia di decisioni cui prese parte come presidente o relatore (l’archivio “Italgiure” della Corte di cassazione ne include 3.258), ma almeno due vanno menzionate.
Onofrio Fanelli fu, innanzitutto, l’estensore di in intero “set” di decisioni che, tra gli anni ‘80 e ‘90 del secolo scorso, vennero abbattendo parificando in via pretoria, a fronte di una legislazione ancora incerta, la posizione delle lavoratrici a quella dei lavoratori: è il caso della estensione dell’indennità di maternità alla lavoratrice in stato di gravidanza, che, all'inizio del periodo di astensione obbligatoria dal lavoro, si trovi in aspettativa politica o sindacale non retribuita (Cass. civ., sez. un., 16.3.1993 n. 3092); oppure della estensione del diritto di congedo post partum anche alla lavoratrice che riceva un minore in affidamento preadottivo, durante i tre mesi successivi all'effettivo ingresso del minore medesimo nella sua famiglia (Cass. civ., sez. un., 114.1990 n. 3073).
Ma a me piace ricordare che fu Onofrio Fanelli, in una ormai dimenticata sentenza di quasi quarant’anni fa, ad introdurre nel nostro ordinamento la risarcibilità dl danno (patrimoniale) da perdita di chance, principio destinato a grandi fortune negli anni che seguirono (Cass. civ., sez. lav., 19.12.1985 n. 6506).
Le doti di giurista di Onofrio Fanelli non rifulsero solo in sede giudiziaria.
Lui, che il diritto lo conosceva come pochi, come pochi lo maneggiava e - indirettamente - lo insegnava. La sua produzione scientifica cominciò già negli anni Settanta del secolo scorso. Pubblicò saggi sulle più svariate riviste, principalmente dell’area lavoristica (Informazione previdenziale, Il diritto del lavoro, Il lavoro nella giurisprudenza, Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, Rivista degli infortuni e delle malattie professionali, Legalità e giustizia, Rassegna giuridica dell’energia elettrica, Il foro italiano).
Diresse la collana “Pratica giuridica” dell’editore Giuffrè, che raccolse in 52 volumi alcuni i più vari temi di diritto e procedura tanto civile, quanto penale.
Ma ove più e meglio spese le sue doti di studio, inquadramento ed organizzazione fu nella direzione del Repertorio del Foro italiano, la prestigiosa pubblicazione che da un secolo mezzo seleziona e raccoglie ogni anno normativa, giurisprudenza e dottrina.
Onofrio Fanelli iniziò a collaborare al Repertorio all’inizio degli anni Settanta, fino a divenirne direttore.
Essere direttore del Repertorio non è esattamente presiedere una bocciofila. Il Repertorio impone la selezione di migliaia di massime, testi normativi, contributi dottrinari. Un lavoro da far tremare i polsi, e che Onofrio Fanelli supervisionava interamente, e da solo. E lo ha fatto per anni, ancora pochi mesi prima di andarsene. Così come, da solo, concepì l’intera architettura delle voci e sottovoci del “Repertorio”: un lavoro che nell’epoca dei tanti laureati all’università di Google potrà sembrar poco, ma che per i (pochi?) giuristi ancora in circolazione è l’opera d’un Linneo.
Si è detto che Onofrio Fanelli poteva guardare “dall’alto” il diritto, per la sua capacità di tenerne insieme tutti gli ambiti. Guardava dall’alto il diritto, ma non i giuristi.
Lui, che pure ne avrebbe avuto ben donde, non manifestava mai alcuna supponenza nei confronti delle centinaia di persone con cui aveva a che fare. Aveva un sorriso per tutti, e per tutti un accento di comprensione. Possedeva un acume mai sotteso da presunzione, ed una cultura mai scostante.
Se il giurista Onofrio Fanelli fu pari a pochi, lo fu anche l’uomo Onofrio Fanelli. Ringrazio Dio per avermi concesso l’onore della sua conoscenza, lo stupore della sua competenza, il beneficio dei suoi insegnamenti.
E se è vero che “a egregie cose il forte animo accendono l’urne de’ forti”, quella di quest’Uomo non smetterà di ispirare chi vuole fare il mestiere di magistrato come va fatto: con zelo solerte ed operoso silenzio.
Il vaccino contro l’infezione mafiosa. Note in tema di interdittiva antimafia (nota a Consiglio di Stato, sez. I, parere 18 giugno 2021, n. 1060)
di Renato Rolli e Martina Maggiolini
Sommario: 1. Premessa - 2. Il criterio del “più probabile che non” e la valutazione del rischio di contagio - 3. La portata preventiva dell’interdittiva antimafia e gli elementi sintomatici - 4. Riflessioni Conclusive.
1. Premessa
Nel dibattuto contesto dei provvedimenti interdittivi è da segnalare, per la sua portata chiarificatrice, il recente parere del Consiglio di Stato n. 1060 del 18 giugno 2021 sollecitato dal Ministro dell’interno in virtù del ricorso straordinario pendente dinnanzi al Presidente della Repubblica [1].
La Prima sezione è stata chiamata a rendere parere, obbligatorio e vincolante, sul provvedimento interdittivo ex art 91 d.lgs. 159/2011 della Prefettura di Reggio Calabria e del contestuale diniego di iscrizione nella white list provinciale dell’impresa individuale ricorrente.
L’illegittimità dell’interdittiva de qua è fondata, secondo il ricorrente, sulla violazione degli art. 84 e 91 del d.lgs. 159/2011 nonché sull’eccesso di potere nella figura del difetto di motivazione, in quanto viene designato un quadro indiziario non idoneo a suffragare la pericolosità sociale del soggetto coinvolto e ancorata a fatti risalenti nel tempo non sufficienti ad evidenziare il legame tra gestione dell’attività imprenditoriale e il pericolo di infiltrazione mafiosa.
In particolare, sulla violazione di legge, il ricorrente lamenta l’omissione da parte dell’autorità prefettizia dell’individuazione di indizi utili a configurare la sussistenza della pericolosità sociale. Il Prefetto avrebbe preso in considerazione fatti datati e privi di alcun legame giuridicamente rilevante, misure di prevenzione annullate in appello, procedimenti penali conclusi con assoluzione con formula piena e da ultimo due controlli di polizia in cui il ricorrente veniva segnalato in compagnia di soggetti “infetti”. Sulla scorta di tali elementi, non appare evidente alla difesa l’asserita interferenza di tali fatti con il rischio di contagio rilevato con il provvedimento prefettizio gravato.
Nella nota, il Ministero dell’Interno, evidenziando tra le altre motivazioni che l’attività svolta dall’impresa ricorrente ha ad oggetto sociale “estrazione, fornitura e trasporto terra e materiali inerti, confezionamento, fornitura e traporto di calcestruzzo e di bitume” (e dunque, rientrante tra le attività individuate dall’art. 1 comma 53 l. 190/12 (segnalate come maggiormente esposte al rischio di contagio), concludeva per l’infondatezza del ricorso.
La Prima sezione del Consiglio di Stato, investita della funzione consultiva, sostiene, nel parere in commento, che il ricorso debba essere respinto per le motivazioni che seguono.
2. Il criterio del “più probabile che non” e la valutazione del rischio di contagio
Intanto occorre rilevare come giudici di Palazzo Spada abbiano inteso esaminare congiuntamente i motivi di gravame stante la loro correlazione.
Secondo la Prima sezione, il ricorrente ha operato una scissione tra i diversi fatti che sorreggono il provvedimento prefettizio mancando una visione d’insieme, attraverso la quale, senza alcun dubbio, appare evidente il superamento della soglia del criterio del “più probabile che non” [2].
Non rileva la collocazione temporale di tali fatti data la gravità e la pluralità delle condotte [3]. Dal contatto con soggetti “infetti” è possibile, unitamente ad altri fatti indizianti, rilevare il pericolo che l’attività imprenditoriale sia esercitata in un contesto relazionale complessivamente “sintomatico di un rischio di infiltrazione della criminalità organizzata” [4].
In più, nel provvedimento interdittivo è segnalato il contenuto di alcune dichiarazioni di collaboratori di giustizia, che ritraggono il soggetto titolare di tale attività come organo di una cosca mafiosa.
Giova rammentare che seppur nel giudizio penale dette dichiarazioni non possono essere acquisite se non mediante i cd riscontri esterni (art 192.197bis e 210 cpp), in sede amministrativa, esse possono rientrare nel quadro indiziario e contribuire al vaglio fondato sul principio del “più probabile che non”.
Per tutto quanto sopra, le censure poste alla base del ricorso non scalfiscono minimamente il grave quadro indiziario e il conseguente giudizio di permeabilità mafiosa manifestato dalla prefettura. Appare ictu oculi, mediante un giudizio complessivo dei fatti in commento che l’attività del ricorrente sia inserita “in un contesto di cointeressenze economico-imprenditoriali compromesso dall’infiltrazione della criminalità organizzata di tipo mafioso” [5].
È ormai acclarato che il criterio probabilistico rispetto “l’oltre ragionevole dubbio” sia caratterizzato non da un differente procedimento logico bensì dal minore livello dimostrativo dell’interferenza logica [6]. Difatti la valutazione del giudice penale attiene ad un profilo diverso ed ulteriore rispetto alla ricognizione fondata sul principio del “più probabile che non” su cui trova fondamento invece il provvedimento prefettizio.
Per cui la regola probabilistica presuppone un giudizio a carattere empirico-induttivo che può essere fondato su fenomeni sociali (quale quello mafioso) svincolando l’attività prefettizia dalla soglia di rilevanza penale fondata sulla certezza probatoria. La previsione di un così ampio potere discrezionale trova ragione nella finalità anticipatoria del provvedimento interdittivo ovvero il prevenire il rischio di infiltrazione e non il punire la condotta penalmente rilevante.
La disciplina della prevenzione amministrativa, dunque, riveste il ruolo di frontiera avanzata [7] giacché rappresenta la più immediata barriera posta dall’ordinamento al fine di allontanare la mafia, insediata in società, dalla res pubblica.
La discrezionalità prefettizia funge così da “vaccino” a tutela del buon andamento della cosa pubblica dalla minaccia dell’infezione mafiosa che, come un virus, potrebbe compromettere l’attività polmonare di un intero Paese.
3. La portata preventiva dell’interdittiva antimafia e gli elementi sintomatici
È da segnalare la portata preventiva della legislazione antimafia, tesa ad anticipare ed evitare l’infiltrazione nel tessuto pubblico attraverso società private recidendo ogni possibile contatto con le stesse [8]. L’obiettivo è il mantenimento di un’economia pubblica e privata sana, lontana da logiche infette e da comportamenti invalidanti.
Pertanto, all’autorità prefettizia è riservata la funzione di prevenire pratiche e comportamenti che in modo diretto o indiretto possano ledere l’integrità dell’attività pubblica. L’amministrazione è chiamata a svolgere un monitoraggio perpetuo, teso ad approfondire le cangianti manifestazioni di comportamenti illeciti attraverso una attenta valutazione dei sintomi. Al contempo è richiesto all’amministrazione un intervento immediato per scongiurare ogni forma di infezione [9].
Sul punto ormai consolidata giurisprudenza sostiene la portata “cautelare e preventiva” [10] dell’interdittiva antimafia realizzata attraverso un giudizio prognostico circa le possibili declinazioni della mafia nella trama pubblica. Dunque, l’interdittiva antimafia si pone come momento anticipatorio rispetto a un possibile contagio teso a scongiurare qualsivoglia contatto tra amministrazione e impresa infetta [11].
In sede di massima anticipazione della soglia di prevenzione, l’amministrazione è chiamata a valutare il quadro degli elementi in modo complessivo e onnicomprensivo, fondando il provvedimento su ragioni sostanziali giustificatrici della misura [12]. Le motivazioni del provvedimento possono trovare ragione in diversi elementi indiziari che non costituiscono un numerus clausus e non sono rintracciabili esclusivamente in atti giudiziari o di indagine e accertamenti di Polizia, bensì rilevano elementi disparati come i legami di parentela, amicizia o rapporti di qualunque genere che per incidenza e durata possano far presuppore un rischio di permeabilità.
L’infiltrazione mafiosa, come noto, può esplicarsi anche attraverso tentativi di condizionamento delle scelte e degli obiettivi delle imprese. Il rischio non deve necessariamente essere attuale o inveratosi, all'opposto necessario è che da elementi sussistenti sia possibile prevedere un determinato evento [13].
Orbene, la discrezionalità riservata al Prefetto nella valutazione del quadro indiziario pare necessaria per un intervento immediato ed effettivamente preventivo. Il vaglio prefettizio non deve avere carattere atomistico e dunque valutativo di singoli elementi bensì inteso come giudizio unitario secondo il canone interferenziale al fine di valutare il grado di permeabilità dell’impresa a possibili tentativi di infiltrazione [14].
Giova precisare che la prevenzione dell’infiltrazione non può sostanziarsi in un mero sospetto del Prefetto o in una vaga intuizione dell’autorità giudiziaria [15] ma deve trovare ragione in diversi elementi fattuali sintomatici di condotte infette per scongiurare la deriva del “diritto della paura”. Si deve evitare che il provvedimento prefettizio diventi una pena del sospetto e medio tempore che la discrezionalità necessaria in tale sede per un’azione efficiente sconfini di fatto nel puro arbitrio [16].
Al fine di delimitare la discrezionalità amministrativa, il legislatore e la giurisprudenza [17] hanno tipizzato i comportamenti che possono far desumere il tentativo di infiltrazione. Nonostante tale sforzo, però, è rimessa all’autorità amministrativa l’emissione del provvedimento anche facendo ricorso a una clausola generale, che non va intesa quale norma in bianco né un’autorizzazione all’arbitrio del prefetto, imprevedibile per il cittadino e insindacabile per il giudice [18]. Sovente trattasi di condotte atipiche che connotano l’agere mafioso, e pertanto, nella propria discrezionalità, l’amministrazione deve arrestarsi solo nel caso di fatti inesistenti o obiettivamente non sintomatici.
D’altro canto, negare tale possibilità al prefetto comprometterebbe la natura stessa della misura di prevenzione in nome di una astratta e aprioristica concezione di legalità formale. E dunque i provvedimenti interdittivi per essere effettivamente efficaci impongono di “tenere il passo con il mutare delle circostanze secondo una nozione di legittimità sostanziale” [19].
4. Brevi riflessioni conclusive
A valle delle considerazioni esposte pare necessario soffermarsi sulle conseguenze del provvedimento prefettizio. Il soggetto raggiunto da interdittiva antimafia diviene incapace ad essere titolare di situazioni giuridiche soggettive che determinano rapporti con la pubblica amministrazione [20]. Si tratta di una incapacità parziale in quanto limitata ai soli rapporti con la p.a. e temporanea potendo venire meno attraverso un successivo provvedimento dell’amministrazione competente.
Il G.A. è chiamato a valutare la gravità del quadro indiziario attraverso il vaglio posto dal prefetto avendo un pieno accesso ai fatti rilevatori del pericolo e dovendo apprezzare la ragionevolezza e la proporzionalità della prognosi interferenziale che l’autorità amministrativa trae da tali fatti secondo il criterio probabilistico [21].
È fuor di dubbio la rilevanza e l’importanza delle misure di prevenzione nel minimizzare il rischio di infezione. Il provvedimento interdittivo funge in tale ottica da vaccino per le influenze mafiose nel tessuto pubblico. Come abbiamo avuto modo di verificare, in diverse occasioni, ogni vaccino ha delle controindicazioni. In questo caso, gli eventi avversi sono rappresentati da ingiuste limitazioni di diritti garantiti a livello costituzionale. Pertanto, è necessario valutare attentamente il quadro “clinico” (eventualmente patologico) prima di emettere l’interdittiva, verificando l’effettiva opportunità del provvedimento stesso, scongiurando, ad ogni costo e ad ogni livello, la deriva del libero arbitrio.
[1] Cfr. SALAMONE, La documentazione antimafia nella normativa e nella giurisprudenza, Napoli, 2019
[2] Si consiglia A. LONGO, La “massima anticipazione di tutela”. Interdittive antimafia e sofferenze costituzionali, in www.federalismi.it., n. 19/2019
[3] Cfr. F. G. SCOCA, Le interdittive antimafia e la razionalità, la ragionevolezza e la costituzionalità della lotta “anticipata” alla criminalità organizzata, in www.giustamm.it., n. 6/2018,
[4] Consiglio di Stato, sez. I Parere n. 1060 del 18 giugno 2021
[5] ibidem.
[6] Consiglio di Stato, sez., III, 26 settembre 2017, n. 4483
[7] Si consenta il rinvio a R. Rolli, L’informazione antimafia come “frontiera avanzata” (nota a sentenza Consiglio di Stato Sez. III n. 3641 dell’08.06.2020), in Questa rivista, 2019
[8] Cfr. P. PIRRUCCIO, L’informativa antimafia prescinde dall’accertamento di fatti penalmente rilevanti, in Giur. mer., n. 2/2009, pp. 503 e ss
[9] In questo senso Corte Cost. sentenza del 26 marzo 2020 n. 57
[10] Cfr. Consiglio di Stato, adunanza plenaria, sentenza 6 aprile 2018, n. 3
[11] V. ex multis Consiglio di Stato, sez. I pareri 1 febbraio 2019 n. 337 e 21 settembre 2018 n. 2241
[12] Cfr. Consiglio di Stato, sez. III, 27 aprile 2021, n. 3379
[13] V. Consiglio di Stato, sent. N. 8883, 2019
[14] Cfr. ex multis Consiglio di Stato, sent. N. 1049 del 2021; Cons. St., sez. III, sent. N. 759/2019
[15] V. Consiglio di Stato, sez. III, 5 settembre 2019
[16] Cfr. Consiglio di Stato, sez.III, 5 settembre 2019, n. 6105
[17] V. Consiglio di Stato, 3 maggio 2016, n. 1743
[18] Consiglio di Stato, sez. I Parere n. 1060 del 18 giugno 2021; Cfr. M. NOCCELLI, Le informazioni antimafia tra tassatività sostanziale e tassatività processuale, inwww.giustizia-amministrativa.it, 2020
[19] Cfr. Corte europea dei diritti dell’uomo De Tommaso c. Italia; v. G. AMARELLI, L’onda lunga della sentenza De Tommaso: ore contate per l’interdittiva antimafia “generica” ex art. 84, co. 4, lett. d) ed e), d.lgs. n. 159 del 2011?, in www.dirittopenalecontemporaneo.it., n. 4/2017
[20] Cfr. da ultimo Consiglio di Stato, sentenza 26 ottobre 2020, n. 23
[21] V. C. COMMANDATORE, Interdittiva antimafia e incapacità giuridica speciale: un difficile equilibrio, in Resp. civ. prev., n. 3/2019, pp. 917
La riforma Bonafede - Cartabia (prescrizione / improcedibilità) non può operare retroattivamente.
di Giorgio Spangher
Sommario: 1. Una riforma con non poche criticità - 2. Prescrizione e improcedibilità: meccanismi integrati - 3. Servono chiarimenti giurisprudenziali solleciti.
1.Una riforma con non poche criticità.
Con la pubblicazione in Gazzetta, la riforma Cartabia è diventata legge (n. 134 del 2021) e dal 19 ottobre sarà applicabile da subito, almeno per le previsioni di cui all’art. 2, mentre per quelle di cui all’art. 1 si procederà, anche da subito, ma con l’effetto della delega.
Sono numerose le questioni che si prospettano soprattutto con riferimento al novellato art. 344 bis c.p.p., dove trova disciplina la inedita sentenza di improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione.
Per un verso, si tratta di questioni di costituzionalità della nuova previsione, per un altro, di profili procedurali ed operativi, stante la lacunosità delle indicazioni della riforma.
Sotto il primo profilo, si possono segnalare la stessa costituzionalità d’una decisione capace di determinare effetti pregiudizievoli sulla effettività della giurisdizione; la ragionevolezza delle fasce di termini di operatività dell’improcedibilità e dei vari reati che vi sono accorpati; il potere dello stesso giudice di prorogare o meno i termini e le loro ragioni in relazione alla mancata loro tassatività e specificità.
Sotto il secondo aspetto vanno segnalate, fra le altre, l’incerta operatività per l’appello della sentenza di non luogo e dell’appello della parte civile per gli interessi civili; l’operatività per gli appelli delle decisioni del giudice onorario; la mancata indicazione degli effetti delle proroghe sulle misure cautelari; l’operatività o meno del ne bis in idem; la mancata individuazione del termine in caso di conversione in appello nonché in caso di annullamento con rinvio solo per la determinazione della pena; mancato termine complessivo in caso di annullamento con rinvio in appello; l’incertezza sull’operatività per i rimedi straordinari ed in caso di annullamento di una declaratoria di inammissibilità; le implicazioni sulla responsabilità degli enti.
2.Prescrizione e improcedibilità: meccanismi integrati.
In questo ampio contesto una questione si può prospettare da subito, ed è quella relativa alla retroattività della nuova disposizione che per previsione normativa opererebbe solo per i procedimenti di impugnazione che hanno ad oggetto reati commessi a far data dal 1 gennaio 2020.
La data indicata si riferisce all’entrata in vigore della l. n. 3 del 2019 relativamente alla sospensione del decorso della prescrizione con la pronuncia della sentenza (di assoluzione o di condanna) di primo grado.
Per quanto concerne la possibilità di applicare la nuova decisione anche ai procedimenti per reati compiuti in precedenza (per i quali peraltro opera la disciplina prevista dalla riforma Orlando, cioè la l. n. 103 del 2017) al riguardo si confrontano opinioni diverse tutte ancorate alla natura sostanziale o processuale o processuale con effetti sostanziali della nuova definizione del processo. Va sottolineato che in entrambi casi si tratta di norme a effetti differiti.
La nuova formulazione di cui alla l. n. 134 del 2021 sembra suggerire un altro approccio per la soluzione della questione.
Invero, al di là della nuova formulazione dell’art. 161 bis c.p. che parla di cessazione e non più di sospensione del decorso della prescrizione (già di per sé concettualmente errata) con la riforma cambia completamente il “paradigma” della materia.
La prescrizione non potrà più (a differenza della riforma Orlando che in qualche modo lo consentiva) essere dichiarata in fase di impugnazione (appello o ricorso) nel corso della quale potrà essere dichiarata l’improcedibilità, prima non prevista che tuttavia non potrà trovare applicazione nel giudizio di primo grado. Sono note le argomentazioni relative alla irrazionalità dei due orologi, ma queste sono le scelte legislative.
Con riferimento ai reati commessi dopo il 1° gennaio 2020, verrà meno la previsione dell’art. 129 c.p.p., che non prevede più la possibilità di dichiarare l’estinzione del reato per prescrizione in ogni stato e grado, ma solo eventualmente in primo grado.
Parimenti, ricondotta nella nozione di improcedibilità, neppure la nuova decisione sarà suscettibile di applicazione generalizzata, trovando applicazione solo nella fase delle impugnazioni.
Invero, sempre in relazione all’estinzione per prescrizione non trova più operatività (per i reati dopo il 1° gennaio 2020) neppure l’art. 578 c.p.p. che infatti vede l’inserimento del nuovo art. 578, comma 1 bis, c.p.p. (in attesa di un più ampio riordino della materia).
Naturalmente, l’estinzione per prescrizione maturata effettivamente in primo grado e non dichiarata potrebbe essere riconosciuta nelle fasi di gravame; l’improcedibilità non dichiarata nel corso del giudizio d’appello potrebbe essere riconosciuta in cassazione.
Appare cioè difficile che la nuova procedura, quindi, possa sostituire l’altra e parimenti appare problematico che possano operare in parallelo.
In realtà, il profondo mutamento strutturale dei sistemi Orlando e Bonfade - Cartabia induce a escludere la retroattività di quest’ultimo.
Sotto un diverso profilo, rimettendo, tuttavia, la questione alla Corte costituzionale, in relazione agli artt. 3 e 111 Cost., andrebbe valutata la questione della durata dell’appello proposto dopo l’entrata in vigore della legge per un reato commesso antecedente al 1° gennaio 2020.
La questione si prospetta complessa in considerazione del fatto che come più volte specificato, per questi reati opera la disciplina della l. n. 103 del 2017 ma non può negarsi che – salvo particolari situazioni del caso concreto – la nuova disciplina appare favorevole e non può escludersi una irragionevolezza nel caso di due appelli presentati (per lo stesso reato commesso in tempi diversi) lo stesso giorno.
3. Servono chiarimenti giurisprudenziali solleciti.
Era facilmente prevedibile che l’inserimento nel processo penale della “prescrizione processuale” potesse determinare non pochi problemi di sistema ed applicativi, se non azioni di “rigetto”.
Forse non si era percepita la complessità del problema, nella strettoia dei tempi nei quali il “compromesso” doveva essere individuato.
Siamo in cammino, su un cammino che si prospetta complesso e problematico.
E’ necessario per questo che la giurisprudenza – supportata dalla migliore dottrina – faccia al più presto, pur nella inevitabile prospettazione di posizioni diverse – anche in relazione alla casistica che si evidenzia – chiarezza.
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