ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Paradossi giurisprudenziali
di Aniello Nappi
La parte civile costituita in un processo penale per infortunio sul lavoro propone appello contro la sentenza del tribunale che ha assolto per insussistenza del fatto l’imprenditore imputato.
La corte d’appello riconosce alla testimonianza della persona offesa l’attendibilità negata dal tribunale; e condanna l’imputato ai soli effetti civili, senza previa rinnovazione dell’istruzione dibattimentale.
Ricorre per cassazione l’imputato e deduce violazione dell’ art. 603, comma 3 bis c.p.p., lamentando che il giudice di appello abbia ribaltato la decisione assolutoria di primo grado sulla base di una diversa valutazione di attendibilità della deposizione testimoniale della persona offesa, senza previa rinnovazione dell’istruzione dibattimentale.
Del giudizio di legittimità vengono investite le Sezioni unite penali, perché, indiscussa l’applicabilità dell’art. 603, comma 3 bis c.p.p. anche nel caso di appello ai soli effetti civili, è controverso se il conseguente annullamento della decisione assunta senza previa rinnovazione dell’istruzione dibattimentale debba essere disposto con rinvio al giudice penale, a norma dell’art. 623 c.p.p., o al giudice civile a norma dell’art. 622 c.p.p.
Secondo una parte della giurisprudenza, infatti, il rinvio va disposto al giudice civile a norma dell’art. 622 c.p.p. in ogni caso in cui non sia più in discussione la responsabilità penale dell’imputato.
Secondo altro orientamento giurisprudenziale invece il rinvio va disposto al giudice penale a norma dell’art. 623 c.p.p. anche quando sia in discussione la responsabilità solo civile dell’imputato, che va accertata nel rispetto delle norme che regolano il giusto processo penale.
Dopo una puntuale ricostruzione della giurisprudenza e delle sue implicazioni, le Sezioni unite hanno ritenuto fondato il primo orientamento.
Cass., sez. un., 28 gennaio 2021, Cremonini, depositata il 4 giugno 2021, ha infatti enunciato il seguente principio di diritto: «in caso di annullamento ai soli effetti civili, da parte della Corte di cassazione, per la mancata rinnovazione in appello di prova dichiarativa ritenuta decisiva, della sentenza che in accoglimento dell'appello della parte civile avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, abbia condannato l'imputato al risarcimento del danno, il rinvio per il nuovo giudizio va disposto dinanzi al giudice civile competente per valore in grado di appello». E ha altresì precisato che dinanzi al giudice del rinvio vanno applicate le norme del codice di procedura civile.
Sennonché questa giurisprudenza è palesemente paradossale, laddove impone alla Corte di cassazione di annullare la decisione d’appello per la violazione di una norma che non dovrà essere osservata nel giudizio di rinvio. Non v’è infatti alcuna utilità né alcuna logica nel censurare la violazione di una norma che non si pretende poi di vedere osservata.
E’ in questi paradossi che si smarrisce il senso della amministrazione della giustizia nel nostro paese.
Tuttavia non è neppure ragionevole l’orientamento giurisprudenziale opposto, laddove pretende di trattenere davanti al giudice penale una controversia che ha ormai connotazioni esclusivamente civilistiche. Non è discutibile infatti che la "ratio" dell’art. 622 c.p.p. sia appunto quella di evitare ulteriori interventi del giudice penale ove non vi sia più nulla da accertare agli effetti penali.
All’origine di questa impasse interpretativa non può dunque esservi che un “errore”: vale a dire l’affermazione che «il giudice di appello che riformi, ai soli fini civili, la sentenza assolutoria di primo grado sulla base di un diverso apprezzamento dell'attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, è obbligato a rinnovare l'istruzione dibattimentale, anche d'ufficio» (Cass., sez. un., 28 aprile 2016, Dasgupta, m. 267489).
Come si è già rilevato in questa rivista ( C. Citterio Rivive il principio di accessorietà dell’azione civile nel processo penale?), in realtà, l’art. 603, comma 3 bis c.p.p. prevede espressamente che solo «nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale». L’affermazione di Cass., sez. un., 28 aprile 2016, Dasgupta, m. 267489, come quella conforme di Cass., sez. un., 19 gennaio 2017, Patalano, m. 269787, precede l’inserimento nell’art. 603 c.p.p. del comma 3 bis (che si applica a decorrere dal 3 agosto 2017). Ed è stata ribadita dalla giurisprudenza successiva solo in ragione dell’affermazione che «il disposto dell'art. 603, comma 3-bis, c.p.p., nel disciplinare il caso di riforma della decisione di primo grado su appello del pubblico ministero, non esclude la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale nel caso di ribaltamento di tale decisione ai soli effetti civili» (Cass., sez. VI, 12 febbraio 2019, Caprara, m. 275167, Cass., sez. V, 4 aprile 2019, Clemente, m. 276933, Cass., sez. V, 15 aprile 2019, Gatto, m. 277000).
Sennonché qui non si tratta di stabilire se la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale sia possibile anche in caso di appello ai soli fini civili. Si tratta invece di stabilire se la rinnovazione possa essere considerata obbligatoria, in mancanza di qualsiasi base normativa di un tale obbligo.
E’ vero che viene qui «in rilievo la garanzia del giusto processo a favore dell'imputato coinvolto nel procedimento penale, dove i meccanismi e le regole di formazione della prova non conoscono distinzioni a seconda degli interessi in gioco, pur se di natura esclusivamente civilistica» (Cass., sez. V, 18 febbraio 2020, Menna, m. 279255). Ma questo argomento vale quando l’accertamento delle due responsabilità sia contestuale; non quando sia in discussione solo la responsabilità civile.
Le sezioni unite ricordano anche che è controverso se la sentenza di annullamento ex art. 622 c.p.p. abbia effetti vincolanti nel giudizio civile di rinvio, come afferma la giurisprudenza penale (Cass., sez. IV, 17 gennaio 2019, Borsi, m. 275266, Cass., sez. IV, 16 novembre 2018, De Santis, m. 274831), o non ne abbia, come afferma la giurisprudenza civile, per cui il giudice civile «applica le regole processuali e probatorie proprie del processo civile e, conseguentemente, adotta, in tema di nesso eziologico tra condotta ed evento di danno, il criterio causale del "più proba-bile che non" e non quello penalistico dell'alto grado di probabilità logica, anche a prescindere dalle contrarie indicazioni eventualmente contenute nella sentenza penale di rinvio» (Cass., sez. III, 12 giugno 2019, n. 15859, m. 654290, Cass., sez. III, 25 giugno 2019, n. 16916, m. 654433).
Sembrerebbe tuttavia ragionevole che, ferma l’efficacia vincolante della sentenza di cassazione, il rito debba essere quello del processo civile, ma i parametri di responsabilità debbano essere quelli del codice penale, considerato che non sono diversi da quelli del codice civile.
Secondo la giurisprudenza civile, infatti, anche ai fini della responsabilità civile la causalità va definita in termini condizionalitici. Sicché «un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo» (Cass., sez. I, 30 aprile 2010, n. 10607, m. 612764). Si è così riconosciuto che anche ai fini della «responsabilità civile aquiliana, il nesso causale è regolato dal principio di cui agli artt. 40 e 41 c.p.», secondo la teoria della condicio sine qua non (Cass., sez. I, 8 luglio 2010, n. 16123, m. 613967).
Ciò nondimeno questa stessa giurisprudenza ammette una «diversità del regime probatorio applicabile, in ragione dei differenti valori sottesi ai due processi: nel senso che, nell'accertamento del nesso causale in materia civile, vige la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile che non", mentre nel processo pe-nale vige la regola della prova "oltre il ragionevole dub-bio"»(Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 576, m. 600899.).
Tuttavia, come s'è ben chiarito in dottrina, quando si discute di responsabilità, occorre accertare sempre tre fatti: il fatto causante, il fatto causato e la legge di copertura, il criterio di inferenza e di giudizio che permette di affermare che fu proprio il supposto fatto causante a produrre il fatto dannoso, l'evento indesiderato(M. TARUFFO, La prova del nesso causale, in Riv. crit. dir. priv., 2006, p. 101 e s.).
Sicché la sentenza penale di annullamento con rinvio a norma dell’art. 622 c.p.p. non potrà ovviamente vincolare il giudice civile per le modalità di accertamento di questi fatti, ma potrà certamente vincolarlo quanto alla nozione di causalità.
Tornando a ripensare al dissent nei giudizi di costituzionalità (spunti offerti da un libro recente)*
di Antonio Ruggeri
Sommario: 1. I casi di sostituzione del relatore per la redazione della decisione: un trend in aumento, indicativo – a quanto pare – di un disagio crescente avvertito in seno al collegio, pur laddove la sostituzione stessa non riguardi casi di coscienza - 2. La c.d. “apertura della Corte alla società civile” e la crescente tendenza all’innalzamento del tasso di “politicità” dei giudizi di costituzionalità quale cornice entro la quale dovrebbe iscriversi la previsione del dissent e il timore che, in un quadro siffatto, l’istituto possa essere innaturalmente piegato a strumentali utilizzi, forieri di guasti più ancora che di benefici, senza peraltro che ne abbia un sicuro guadagno la parte motiva delle decisioni emesse dalla Consulta - 3. Uscire dal “guado”, senza però che sia chiaro quale sia la via giusta da battere per conseguire la meta - 4. I rischi che fa correre la eventuale introduzione del dissent nel presente quadro politico-istituzionale.
1. I casi di sostituzione del relatore per la redazione della decisione: un trend in aumento, indicativo – a quanto pare – di un disagio crescente avvertito in seno al collegio, pur laddove la sostituzione stessa non riguardi casi di coscienza
Desidero far precedere la succinta riflessione che mi accingo a svolgere da una confessione ad alta voce.
Rileggendo il libro di B. Caravita[1] che ci dà oggi modo di tornare a confrontarci sulla spinosa questione relativa alla eventuale introduzione del dissent nei giudizi davanti alla Corte costituzionale[2], ho provato una sensazione strana, già per vero avvertita in altre occasioni, come quella di un bambino che spia dal buco di una serratura e scopre un mondo che gli era rimasto dapprima nascosto. A volte, infatti, sono proprio le “microquestioni” – se così posso chiamarle – ad aprire gli occhi su quelle di maggior rilievo, ad oggi irrisolte ovvero risolte ma in modo non del tutto appagante, sì da non fugare alcuni dubbi che lasciano l’amaro in bocca anche a chi vede affermata la tesi nella quale si riconosce.
La sostituzione del giudice relatore per la redazione della decisione è una di queste.
Ad una prima (ma, appunto, erronea) impressione, la questione parrebbe presentarsi assai circoscritta quanto all’ambito materiale sul quale si situa e rende manifesta, come pure per ciò che concerne gli effetti di ordine istituzionale che possono discenderne; è, però, una questione sullo sfondo della quale stanno formidabili interrogativi ai quali la teoria costituzionale ad oggi non è riuscita a dare persuasive risposte.
In fondo, parrebbe esserne avvertita anche la dottrina che ha animatamente discusso (e seguita a discutere) al proprio interno in merito allo strumento o agli strumenti di normazione da mettere in campo al fine della introduzione del dissent, in ispecie quella parte di essa che caldeggia il ricorso alla legge costituzionale: a sottolineare, appunto, come possa risultarne modificata – e lascio, per il momento, insoluto il quesito se in meglio o in peggio – la posizione della Corte nel sistema, con immediati riflessi sulle relazioni che la stessa intrattiene con gli altri operatori istituzionali.
Tornerò sul punto, di non secondario rilievo, tra non molto.
Il libro del quale siamo oggi chiamati a discutere, nondimeno, per un verso, ripropone interrogativi antichi e, per un altro verso, ne pone di nuovi, col fatto stesso del modo con cui lo studio è stato metodicamente impostato e portato quindi ai suoi naturali e conseguenti svolgimenti.
Come ho già rilevato in altra occasione, si tratta di un autentico opus primum, per il taglio sperimentale che lo connota, essendosi fatto luogo ad un’accurata ricognizione di tutti i casi di sostituzione registratisi negli ultimi trent’anni, alla illustrazione dei loro connotati più salienti, alla loro sistemazione.
Gli esiti dello studio condotto sono di particolare interesse sotto più aspetti.
In primo luogo, pur presentandosi il fenomeno della sostituzione non particolarmente frequente, ugualmente è forse improprio definirlo – come molte volte si è fatto (e si fa) – “raro” o, addirittura, “rarissimo”[3]. I quasi novanta casi scrutinati da C. costituiscono, infatti, pur sempre un campionario idoneo a dare indicazioni di non poco significato. Inoltre (e vengo al secondo aspetto), si tratta di casi che vanno via via crescendo. Basti solo pensare che nel solo 2020 se ne sono avuti cinque, quasi cioè la metà di quelli registratisi nei sei anni immediatamente precedenti (dodici dal 2015 al 2019)[4].
Il punto induce ad una prima riflessione, aprendosi peraltro a valutazione di vario segno, da un canto ponendosi quale indice esteriore attendibile di viepiù frequenti dissensi e vere e proprie spaccature in seno al collegio, non soltanto – si badi – su questioni di particolare rilievo, coinvolgenti – come suol dirsi – la “coscienza” dei giudici, ma anche su altre di minor peso. Lo stesso C., nel tirare le fila del discorso svolto, fa notare – a mia opinione, giustamente – come talune sostituzioni risultino francamente inspiegabili (85); è pur vero, però, che gli arcana imperii, proprio perché tali, restano il più delle volte impenetrabili e sfuggenti ad ogni tentativo, per accurato che sia, di decifrazione.
La crescita del trend potrebbe anche significare una marcata (e, appunto, vistosa) insofferenza di questo o quel giudice a restare nell’ombra, imprigionato dalla segretezza del voto.
D’altronde, è risaputo che la questione del dissent, che peraltro – come si sa – ciclicamente riaffiora per poi seguitare, con andamento carsico, a restare sommersa, è tornata a riproporsi dopo che un autorevole membro del collegio non ha taciuto il proprio disagio dovuto alla mancata previsione dell’istituto, denunziandolo pubblicamente[5].
Sta di fatto che in seno alla Corte parrebbe oggi riscontrarsi un fermento di cui, ancora fino a pochi anni addietro, non v’era traccia, perlomeno non traspariva all’esterno con la stessa evidenza di oggi; un supplemento di riflessione sul punto, nel quadro di una complessiva riconsiderazione delle più salienti esperienze e tendenze concernenti l’organo e il ruolo che mostra di voler esercitare nel tempo presente, sarebbe, dunque, di particolare interesse[6], come pure lo è interrogarsi sul perché i giudici sempre più di frequente avvertano il bisogno di avere una visibilità che fino ad ieri non manifestavano.
Qui, com’è chiaro, il discorso si lega a doppio filo a quella “apertura alla società civile” – com’è usualmente chiamata –, alla quale si è fatto luogo nel tempo a noi più vicino, nella varietà delle forme e degli effetti che le è propria, sulla quale mi limiterò qui a svolgere solo una rapida notazione, rimandando ad altri luoghi di riflessione scientifica nei quali se n’è detto con maggiore estensione. Un’apertura che, poi, per la sua parte, avvalora una generale tendenza alla emersione, a volte in modo particolarmente vigoroso e vistoso, dell’“anima” politica rispetto a quella giurisdizionale[7], con conseguente alterazione dell’equilibrio, per vero strutturalmente precario, nel quale esse, secondo modello, sarebbero tenute a stare, segnando in modo originale i complessivi sviluppi delle esperienze processuali maturate presso la Consulta e marcandone dunque le differenze rispetto ad analoghe esperienze venute alla luce presso organi giurisdizionali diversi.
Se ne dirà meglio a breve. Per il momento, è interessante notare come il dato numerico non insignificante di casi di sostituzione che risulta dall’indagine condotta da C. dia conferma del fatto che non tutti i casi stessi possono essere assunti ad indice di un dissenso tale da non consentire al relatore di far luogo alla stesura della decisione. A parte i due casi, del tutto peculiari, avutisi al tempo della elezione di Mattarella quale Presidente della Repubblica[8], il numero delle sostituzioni e la varietà dei casi in cui se n’è avuto riscontro testimoniano che, in aggiunta all’ipotesi del dissenso, anche altre ragioni potrebbero avere determinato la messa in atto della misura in parola.
Tutto ciò, al tirar delle somme, rende evidente la inadeguatezza della sostituzione ut sic a dar voce al dissenso.
Il giudizio che ne dà C. è tranciante. La qualifica una “forma dimezzata di dissenting opinion … insoddisfacente, inefficiente, autoreferenziale, fonte di nessuna chiarezza e, soprattutto, di nessun avanzamento delle conoscenze e della discussione” (86)[9].
Forse, come è stato di recente osservato da una sensibile dottrina[10], più che di un dissent vero e proprio, sarebbe giusto discorrere – perlomeno in relazione ad alcuni casi[11] – di una sorta di “obiezione di coscienza” del singolo giudice, che peraltro non può esternare le ragioni che la sostengono, se non in sede scientifica[12], sempre che – mi permetto di aggiungere – sia davvero provato che il dissenso sia la causa della sostituzione, cosa altamente probabile ma appunto non del tutto sicura[13].
Il relatore, nondimeno, si trova pur sempre in una posizione più vantaggiosa rispetto a quella in cui stanno gli altri componenti il collegio, i quali non dispongono di alcun mezzo, se non appunto quello scientifico, per illustrare le ragioni dell’orientamento adottato in occasione della trattazione della singola controversia. La qual cosa poi, per vero, qualche problema lo pone in ordine alla parità di condizioni in cui, secondo modello, stanno tutti i componenti il collegio[14]. Né vale, ovviamente, obiettare che, a turno, ciascun giudice potrà regolarsi allo stesso modo, dal momento che ciò che solo conta è il riconoscimento, che si ha a beneficio unicamente del relatore e non pure degli altri giudici rimasti in minoranza, di poter in qualche modo far conoscere il proprio dissenso, seppur nella forma – come si è veduto – complessivamente inappagante di cui qui si discorre.
2. La c.d. “apertura della Corte alla società civile” e la crescente tendenza all’innalzamento del tasso di “politicità” dei giudizi di costituzionalità quale cornice entro la quale dovrebbe iscriversi la previsione del dissent e il timore che, in un quadro siffatto, l’istituto possa essere innaturalmente piegato a strumentali utilizzi, forieri di guasti più ancora che di benefici, senza peraltro che ne abbia un sicuro guadagno la parte motiva delle decisioni emesse dalla Consulta
Lo studio della sostituzione – tiene a precisare C., 96 – non intende portare argomenti né a favore né contro l’introduzione del dissent; si tratta, nondimeno, di una neutralità apparente, per una duplice ragione. In primo luogo, per il fatto che – si chiarisce senza mezzi termini, 95 – “non si può rimanere in mezzo al guado”; e, siccome non è pensabile che possa farsi a meno della sostituzione, se ne ha che o dovrebbero cambiarsi le regole in merito alla sottoscrizione delle decisioni (magari tornando all’antico della sottoscrizione da parte di tutti i giudici ovvero facendo comunque a meno di menzionare l’autore della redazione) oppure non rimarrebbe appunto che andare avanti e far luogo alla previsione del dissent (che pure – come si sa – potrebbe aversi in varie forme e con parimenti varia intensità di effetti). E, tra i due corni dell’alternativa, è sicuro che C. si senta maggiormente attratto dal secondo piuttosto che dal primo[15].
In secondo luogo, l’intero impianto dello studio in parola spinge – a me pare – verso quest’ultimo esito, secondo quanto è peraltro ora avvalorato dalle puntuali risposte date da C. al forum della Rivista del Gruppo di Pisa, già richiamato.
Ne dà sicura conferma il rilievo della contraddizione che, a suo avviso, sarebbe insita nell’apertura della Corte verso l’esterno, sopra già accennata, allo stesso tempo in cui “rimane – malamente – chiusa all’interno”: una soluzione, dunque, giudicata “ormai difficilmente accettabile” (87).
Quest’ultimo rilievo, tuttavia, non mi persuade del tutto, pur convenendo – come dicevo – a riguardo del fatto che la crescita dei casi di sostituzione s’inscriva in un quadro complessivo segnato da una studiata, crescente visibilità, speciale attenzione nei riguardi della pubblica opinione e, soprattutto, da una marcata sottolineatura dei tratti di “politicità” dei giudizi emessi dalla Consulta.
Ancora di recente, peraltro, anche altri studiosi si sono dichiarati dell’idea che sarebbe “una forzatura collocare il tema della possibile introduzione del dissent entro la tendenza della Corte ad ‘aprirsi alla società’…”[16].
Dal mio canto, mi permetto di aggiungere una duplice notazione al riguardo.
La prima è che si dà qui per scontato che “l’apertura della Corte alla società civile” – come si è soliti chiamarla – sia, in ogni sua forma ed aspetto, cosa buona e giusta, dandosi dunque per dimostrato ciò che invece richiede di esserlo. Sarei piuttosto tentato di riprendere l’antico e saggio aforisma secondo cui errare humanum est, perseverare diabolicum…
E, invero, mi sfugge – come ho già osservato altrove – la ratio delle visite alle carceri o alle scuole che, in realtà, somigliano molto da presso (ed anzi, a conti fatti, in tutto coincidono) con pratiche cui fanno di frequente luogo esponenti politici al fine di catturare e mantenere il consenso di cui hanno costante e disperato bisogno. Francamente, fatico a vedere (e, anzi, non vedo affatto) cosa aggiungano o tolgano le visite in parola a ciò che è necessario per la risoluzione delle questioni portate alla cognizione della Corte, tanto più che quest’ultima – come tutti sanno – dispone di poteri istruttori di cui ha fatto (e fa) uso alla bisogna.
Il vero è che le esperienze in parola s’inscrivono in un quadro complessivo che vede oggi fortemente sovraesposta l’immagine della Corte e che la stessa accredita sempre di più come somigliante e talora persino indistinguibile rispetto a quella dei decisori politici. Ne danno una eloquente e, a mia opinione, preoccupante testimonianza il sostanziale accantonamento del limite del rispetto della discrezionalità del legislatore[17], per un verso, e, per un altro verso, la invenzione di tecniche decisorie inusuali e viepiù particolarmente incisive, quale quella inaugurata in Cappato e, ancora da ultimo, messa in campo nella vicenda dell’ergastolo ostativo.
A conti fatti, la Corte indirizza al legislatore ed agli operatori tutti, così come alla pubblica opinione, il messaggio di essere pronta a fare in tutto e per tutto le veci del legislatore stesso, in tal modo incoraggiando peraltro i giudici a prospettare questioni volte persino al sostanziale rifacimento di una disciplina data, in buona sostanza senza ormai più limite di sorta.
La cosa – come si è tentato di argomentare altrove – è particolarmente inquietante, assistendosi alla messa da canto del principio della separazione dei poteri, con grave pregiudizio per l’idea stessa di Costituzione, quale mirabilmente scolpita nel famoso art. 16 della Dichiarazione dei diritti del 1789.
Ora, occorre chiedersi quali utilizzi del dissent potrebbero farsi in un contesto che – piaccia o no (ed a me non piace per nulla) – risulta caratterizzato dalla sostanziale fungibilità dei ruoli istituzionali. È chiaro, infatti, che, ammettendosi in tesi la eventualità che la Corte possa porre (così come in casi sempre più frequenti pone) mano al rifacimento di discipline positive in difetto dell’intervento regolatore del legislatore, se ne ha che, per un verso, potrebbero essere viepiù sollecitati i giudici a chiedere alla Corte di farvi luogo, nel mentre (e per un altro verso) potrebbe risultare ancora più acceso e politicamente connotato il confronto in seno al collegio, testimoniato proprio dalle opinioni minoritarie, esse pure dunque venute a formazione in numero crescente.
Insomma, temo che possa assistersi all’impianto di una spirale perversa: il dissent presentandosi in non pochi casi a tinte forti, politicamente colorate, e concorrendo per la sua parte ad innalzare ulteriormente il tasso di “politicità” che è di già vistoso nelle più recenti esperienze di giustizia costituzionale e quest’ultimo, poi, ulteriormente agevolando la crescita del secondo.
Il timore è, poi, che il dissent sia strumentalmente ed innaturalmente piegato allo scopo di catturare e preservare il consenso di larghi strati della pubblica opinione nei riguardi della Corte e del suo operato. Non a caso, d’altronde, ancora da ultimo una sensibile dottrina[18] si è espressa nel senso che, nella presente congiuntura storica, è proprio a mezzo dell’apertura alla società civile, cui si è fatta sopra parola, che la Corte in significativa misura riesce a centrare l’obiettivo di “rilegittimarsi” senza sosta.
Qui, però, il discorso si fa davvero spinoso e tocca – come dicevo già all’inizio della mia riflessione – micidiali questioni di ordine teorico, peraltro gravide di implicazioni di ordine istituzionale di non poco momento.
Senza che – com’è chiaro – se ne possa qui dire con il dovuto approfondimento, tengo solo a precisare che, secondo modello (perlomeno per come ai miei occhi appare), non sono i rapporti diretti con la pubblica opinione o il “consenso sociale”, al quale fa appello la dottrina da ultimo richiamata, a porsi quale fonte di “legittimazione” della Corte e dei suoi giudizi[19], per la elementare ragione che la fonte in parola non è (o non dovrebbe essere) la stessa di quella cui attingono i decisori politici e che, anzi, da quest’ultima va (o dovrebbe andare…) tenuta costantemente distinta. Non viene dal basso, insomma, ma dall’alto (dalla Costituzione, dai valori fondamentali in essa positivizzati e dai principi e dalle regole che vi danno voce) la fonte di legittimazione dell’operato del giudice costituzionale[20].
La seconda notazione che mi preme qui fare è che si intravedono somiglianze tra esperienze che, a mio modo di vedere, sono impropriamente accostate. Le visite suddette o le altre specie di apertura alla società civile sono, infatti, cosa ben diversa rispetto a ciò che può potenzialmente servire ovvero nuocere al giudizio ed ai suoi esiti, se è vero, com’è vero, che i verdetti del giudice costituzionale hanno unicamente bisogno di essere ben fatti, dotati di salde premesse che quindi richiedono di essere portate ai loro lineari e conseguenti svolgimenti. Nulla di più e nulla di meno, dunque.
Ebbene, si fa notare dai fautori della previsione del dissent che la parte motiva delle pronunzie emesse dalla Consulta ne avrebbe un sicuro guadagno, in fatto di linearità e di coerenza, laddove al presente lo sforzo prodotto di dare comunque un qualche rilievo anche alle posizioni assunte dai giudici rimasti in minoranza si traduce sovente in un appesantimento e in un fattore di scollamento interno alla motivazione che dunque risulta, in casi non infrequenti, penalizzata per qualità[21]. Allo stesso tempo, si rileva da parte di molti che le opinioni minoritarie si presterebbero a favorire il revirement giurisprudenziale (cosa che però – si faccia caso – di per sé non è detto che sia sempre un bene…)[22].
Ad ogni buon conto, è di tutta evidenza la circostanza per cui la mancanza del dissent non ha di certo ostacolato i mutamenti, anche radicali, della giurisprudenza non soltanto su questioni di merito ma persino per taluni profili istituzionali anche di centrale rilievo[23].
Per il primo aspetto, poi, occorre distinguere due casi diversi, per disagevole che invero ciò in non pochi casi si dimostri essere. Un conto è infatti la contraddizione interna che si riscontra talvolta nelle pronunzie del tribunale costituzionale ed un’altra cosa invece la elasticità strutturale della decisione e la sua apertura ad ulteriori sviluppi giurisprudenziali, che è cosa di per sé non negativa ed anzi foriera di non pochi benefici.
Il vero è che i fautori della introduzione del dissent tendono ad accreditare l’idea che, grazie ad esso, si centrerebbe l’obiettivo di avere – per dirla con un’attenta studiosa[24] – “motivazioni chiare, semplici, comprensibili, accessibili”, quasi che si dia un rapporto di diretta e necessaria conseguenzialità tra l’una e l’altra cosa. Ciò che, però, a mia opinione, non è affatto provato, l’esperienza piuttosto testimoniando che possono aversi buone o cattive motivazioni, ora le une ed ora le altre, indipendentemente dalla esistenza dell’istituto e dal fatto che, laddove esista, se ne faccia o no utilizzo.
3. Uscire dal “guado”, senza però che sia chiaro quale sia la via giusta da battere per conseguire la meta
Si diceva poc’anzi che, a giudizio di C., occorre comunque uscire dal “guado” o, diciamo pure, dall’ambiguità. Il punto è che, purtroppo, ammesso pure che si abbiano le idee chiare sulla meta, non è affatto sicuro quale sia la via da battere per raggiungerla.
Se n’è avuta, ancora da ultimo, conferma dal forum organizzato dalla Rivista del Gruppo di Pisa, sopra già più volte richiamato, nel corso del quale, per un verso, non sono mancate le espressioni di perplessità in merito alla opportunità di far luogo al dissent senza indugio e, per un altro verso, anche da parte di coloro che vi si sono dichiarati favorevoli si sono avute indicazioni non poco divergenti in merito allo strumento positivo bisognoso di essere messo in campo allo scopo[25].
Ancora una volta, così come era già accaduto in passato[26], il ventaglio è stato dispiegato a tutto campo, prospettandosi la necessità allo scopo ora della legge costituzionale ed ora di quella comune ovvero ammettendosi la sufficienza della disciplina per via di autonormazione prodotta dalla stessa Corte e, magari, della innovazione ope juris prudentiae[27].
Il problema sul piano teorico c’è e sarebbe un grave errore, frutto di autentica miopia, non ammetterne la esistenza; e, tuttavia, come ho fatto notare di recente in altro luogo[28], forse praticamente va ridimensionato. È mia impressione, infatti, che qualunque sia lo strumento utilizzato è improbabile che se ne abbia la contestazione o, peggio, la rimozione in sede giurisdizionale.
Pressoché certo è quest’esito ove si faccia luogo all’adozione di una legge costituzionale (soluzione da me patrocinata già da molti anni[29] e che seguito a ritenere la più rigorosa, a motivo delle implicazioni di ordine istituzionale che possono aversi per effetto della novità in parola). Non si conoscono, infatti, casi di caducazione di leggi costituzionali, al di fuori della peculiare vicenda dello statuto siciliano, peraltro venuto alla luce – come si sa – ancora prima della Carta costituzionale e con questa oggettivamente in molte sue parti non compatibile. Non che ciò non si ritenga astrattamente possibile, alla luce della nota teoria dei limiti alle innovazioni venute alla luce con le procedure di cui all’art. 138; e, tuttavia, la Corte è comprensibilmente restia a far luogo all’annullamento di leggi di forma costituzionale (e, prima ancora, lo sono coloro che potrebbero chiederlo), specie poi laddove dovessero venire a formazione con i più larghi consensi in seno alle assemblee elettive e, forse più ancora, laddove confermate dal voto popolare. Si preferisce, piuttosto, far luogo – come si sa – ad aggiustamenti, anche corposi, per via interpretativa, secondo quanto è stato testimoniato per tabulas dai continui rifacimenti ai quali è andato soggetto il Titolo V e, in genere, l’intera Carta costituzionale, anche nella sua originaria versione, che non è riuscita a sottrarsi alle corpose modifiche tacite alle quali è andata soggetta[30].
Discorso solo in parte diverso parrebbe doversi fare con riguardo alle leggi comuni; e, tuttavia, anche per esse l’ipotesi della caducazione da parte della Corte che si senta lesa o invasa nella propria sfera di competenze dall’atto legislativo, nell’assunto che la introduzione del dissent debba aver luogo per mano della Corte stessa, appare ugualmente alquanto remota, se non pure scartabile a priori.
Molto più realistica è, invece, l’ipotesi che la novità in parola (se proprio ha da venire alla luce…), si abbia per iniziativa della Consulta, in sede di autonormazione ovvero per via giurisprudenziale. Ed anche in questo caso, mi parrebbe assai improbabile che lo stesso giudice costituzionale, eventualmente adito[31], possa tornare sui propri passi, delegittimando a conti fatti se stessa.
Recenti esperienze, alle quali si è poc’anzi fatto cenno, che hanno visto la Corte occupare il campo un tempo dalla stessa ritenuto esclusivamente coltivabile dal legislatore, danno sicura conferma del fatto che le Camere tendono ad assistere inerti all’iperattivismo che connota le più recenti tendenze della giustizia costituzionale. E, francamente, non si vede perché qui le cose dovrebbero andare diversamente, tanto più che la novità di cui ora si discorre si ritiene – a torto – che attenga esclusivamente alle dinamiche del processo costituzionale, restando improduttiva di sostanziali effetti a carico di altri operatori istituzionali (e, segnatamente, di quelli preposti alla direzione politica).
Di contro, proprio la novità stessa potrebbe essere ritenuta vantaggiosa per questi ultimi, dal momento che renderebbe palesi le fratture interne alla Corte e potrebbe pertanto essere sfruttata in ambiente politico secondo occasionali convenienze.
4. I rischi che fa correre la eventuale introduzione del dissent nel presente quadro politico-istituzionale
Quest’ultima notazione, unitamente alla consapevolezza che realisticamente – come si diceva – il dissent può nutrire la speranza di venire alla luce unicamente per iniziativa della Corte, deve indurre ad una seria e disincantata riflessione finale che ora si passa a svolgere con la massima rapidità, avendo avuto già modo di dirne ancora di recente altrove[32].
Ebbene, C. è pienamente avvertito delle conseguenze che, nel bene e nel male, potrebbero aversi a far luogo alla novità in discorso. Affida il suo pensiero ad una serie di puntuali interrogativi formulati nelle considerazioni finali del suo studio, lasciandoli accortamente in sospeso. Ad es., sul versante dei rapporti tra la Corte costituzionale e le Corti europee e le altre massime autorità giurisdizionali di diritto interno, richiama la discussa ordinanza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 19598 del settembre 2020, interrogandosi su cosa sarebbe potuto accadere per il caso che la decisione stessa fosse stata fatta oggetto di una o più opinioni dissenzienti (95).
Convengo, ovviamente, sul rilievo della questione; mi chiedo, però, spostando il tiro al piano dei rapporti tra la Corte e gli organi statali d’indirizzo politico, quali scenari potrebbero delinearsi in presenza di opinioni dissenzienti coinvolgenti decisioni della Consulta su leggi elettorali o su altre discipline “scottanti” e gravide di implicazioni per le dinamiche riguardanti la forma di governo e la stessa forma di Stato[33].
Dicevo all’inizio della succinta riflessione che volge ormai alla fine che il dissent mi ricorda il buco della serratura da cui è possibile vedere quanto prima era rimasto nascosto.
Ora, è sicuro che dell’osservazione del contesto complessivo del tempo presente non possa farsi a meno, essendo necessario interrogarsi sugli effetti di sistema che potrebbero conseguire all’introduzione della novità di cui si è oggi nuovamente discorso[34], specie laddove il contesto stesso si presenti gravato da plurimi focolai di tensione istituzionale, veri e propri conflitti (a volte anche assai aspri), porzioni del campo in cui si svolgono le dinamiche istituzionali ad oggi avvolte da una fitta nebbia che impedisce di vedere con chiarezza come le dinamiche stesse prendono forma e quale ne sia l’orientamento e il fine.
Ebbene, in un quadro siffatto consiglierei molta cautela prima di far luogo ad una innovazione, quale quella di cui si è discorso, sicuramente produttiva di non pochi benefici ma anche – in relazione al nostro assetto politico-istituzionale – suscettibile di mostrarsi foriera di svantaggi e di far correre rischi da cui potrebbero scaturire effetti che non si saprebbe poi come circoscrivere nella loro portata, se non pure eliminare del tutto[35].
Viviamo un tempo difficile e, per molti aspetti, sofferto, e non solo per la pandemia che ad oggi ci affligge ed inquieta.
Contrariamente alle rassicuranti e, talora, persino ireniche raffigurazioni che, per comprensibili motivi, autorevoli operatori istituzionali (a partire dal Capo dello Stato) danno del quadro politico-istituzionale e del futuro che l’attende, seguito a ritenere la nostra democrazia fragile, per quanto siano ormai trascorsi tre quarti di secolo dalla nascita della Repubblica; una democrazia al proprio interno ancora non del tutto pacificata e nella quale operano forze politiche dalla irrefrenabile vocazione populista e, in alcune loro espressioni, nazionaliste ad oltranza e venate di autoritarismo[36]; una democrazia in seno alla quale si registra un calo vistoso di fiducia nei riguardi degli operatori di giustizia che hanno – ahimè – perduto una parte consistente della credibilità di cui, ancora fino a poco tempo addietro, godevano[37], senza peraltro che sia chiaro come possa tentarsene il pur parziale recupero; una democrazia, infine, che – come ha segnalato la più avvertita dottrina[38] –, allo stesso tempo in cui rende testimonianza di una grave crisi della rappresentanza[39], ci consegna un’immagine del corpo sociale afflitto al proprio interno dalla medesima crisi, il cui tessuto connettivo appare essere ormai vistosamente sfilacciato e problematicamente ricucibile[40].
Non è, di certo, piacevole restare nel “guado”, per riprende ancora una volta l’efficace metafora di C.; attenzione, però, a non spingersi troppo al largo nel mare procelloso, col rischio di non avere poi la forza per tornare indietro e guadagnare la riva[41].
Torniamo, dunque, a discuterne in tempi migliori, se avremo la fortuna di vederli[42].
* Intervento al webinar di presentazione del libro di B. Caravita, Ai margini della dissenting opinio. Lo “strano caso” della sostituzione del relatore nel giudizio costituzionale, per iniziativa dell’Università “Mediterranea” di Reggio Calabria e di Federalismi, 8 giugno 2021, alla cui data lo scritto è aggiornato.
[1] … che d’ora innanzi, per ragioni di speditezza, richiamerò con la sola lettera iniziale dell’autore; avverto, inoltre, che farò riferimento alle pagine dello scritto con la sola indicazione del loro numero data nel testo.
[2] La questione – come si sa – è da tempo dibattuta: dopo i noti studi di L. Luatti, Profili costituzionali del voto particolare. L’esperienza del tribunale costituzionale spagnolo, Giuffrè, Milano 1995; S. Panizza, L’introduzione dell’opinione dissenziente nel sistema di giustizia costituzionale, Giappichelli, Torino 1998; L. Scaffardi, L’introduzione dell’opinione dissenziente nei giudizi costituzionali, in St. parl. pol. cost., 124/1999, 55 ss., e A. Di Martino, Le opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali. Uno studio comparativo, Jovene, Napoli 2016, l’istituto è stato, ancora di recente, fatto oggetto di animate discussioni che – come qui pure per taluni aspetti di vedrà – hanno dato conferma della perdurante esistenza di opinioni reciprocamente distanti e, in relazione a taluni profili anche di cruciale rilievo, frontalmente contrapposte: v., dunque, tra i molti altri, K. Kelemen, Judicial Dissent in European Constitutional Courts. A Comparative and Legal Perspective, Routledge, London 2018; E. Ferioli, Dissenso e dialogo nella giustizia costituzionale, Wolters Kluwer - Cedam, Milano 2018; A. Fusco, L’indipendenza dei custodi, Editoriale Scientifica, Napoli 2019, spec. cap. IV, e, della stessa, ora, «Ne riparleremo, dunque, tra qualche tempo»: a proposito dell’introduzione delle opinioni separate (e non meramente dissenzienti) vs. l’attuale forma di «dissenso mascherato», in Riv. Guppo di Pisa, 1/2021, 29 aprile 2021, 360 ss.; AA.VV., The Dissenting Opinion. Selected Essays, a cura di N. Zanon - G. Ragone, Giuffré Francis Lefebvre, Milano 2019; D. Tega, La Corte costituzionale allo specchio del dibattito sull’opinione dissenziente, in Quad. cost., 1/2020, 91 ss.; C. Nicolini Coen, Unità e pluralità: il fenomeno delle opinioni separate in una Corte costituzionale, in Pol. dir., 3/2020, 465 ss.; A. Anzon Demmig, Ripensando alle opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali e alla legittimazione della Corte, in Giur. cost., 5/2020, 2571 ss. Infine, i contributi al forum dal titolo Sull’introduzione dell’opinione dissenziente nel giudizio di costituzionalità, organizzato dalla Rivista del Gruppo di Pisa ed ospitato dal fasc. 1/2021, 17 maggio 2021, 383 ss.; D. Camoni, Due importanti lezioni europee per l’introduzione dell’opinione dissenziente nella Corte costituzionale italiana, in Oss. cost. (www.osservatorioaic.it), 3/2021, 1° giugno 2021, 59 ss., e, se si vuole, anche il mio Ancora in tema di opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali: è meglio accendere i riflettori sulla Consulta o lasciarla in penombra?, in questa Rivista, 28 gennaio 2021.
[3] Così, E. Rossi, Relatore, redattore e collegio nel processo costituzionale, in AA.VV., L’organizzazione e il funzionamento della Corte costituzionale, a cura di P. Costanzo, Giappichelli, Torino 1996, 349, richiamato anche da C., 2, in nt. 2.
[4] È pur vero però che alla data di svolgimento del nostro incontro non si è registrato nell’anno in corso neppure un caso di sostituzione; e sarà interessante verificare se si avvererà la previsione fatta da B. Caravita nell’intervento conclusivo dell’incontro stesso, secondo cui potrebbe, prima o poi, accadere che un giudice sostituito per la redazione chieda che sia pubblicata contestualmente alla decisione la sua opinione separata.
[5] Il riferimento – com’è chiaro – è all’intervista resa da N. Zanon ad A. Fabozzi, ed apparsa ne Il Manifesto del 29 dicembre 2020, il cui titolo parla da solo (Zanon: “È tempo che la Corte faccia conoscere l’opinione dissenziente”). Lo stesso giudice ha poi ulteriormente ribadito il proprio orientamento in un’altra intervista resa a V. Alberta, dal titolo Corte costituzionale e dissenting opinion: fine di un tabù?, per conto de L’Asterisco, trasmessa in streaming e visibile su Youtube, il 5 gennaio 2021.
[6] Spinge, d’altronde, in questa direzione proprio lo studio su cui oggi siamo chiamati a confrontarci.
[7] Su ciò il dibattito è in corso da tempo, infittendosi ed animandosi peraltro in particolare misura proprio negli anni a noi più vicini [indicazioni in C. Drigo, Giustizia costituzionale e political question doctrine. Paradigma statunitense e spunti comparatistici, Bononia University Press, Bologna 2012; R. Basile, Anima giurisdizionale e anima politica del giudice delle leggi nell’evoluzione del processo costituzionale, Giuffrè, Milano 2017; AA.VV., Ricordando Alessandro Pizzorusso. Il pendolo della Corte. Le oscillazioni della Corte costituzionale tra l’anima ‘politica’ e quella ‘giurisdizionale’, a cura di R. Romboli, Giappichelli, Torino 2017; G. Bisogni, La ‘politicità’ del giudizio sulle leggi. Tra le origini costituenti e il dibattito giusteorico contemporaneo, Giappichelli, Torino 2017; M. Raveraira, Il giudizio sulle leggi: la Corte costituzionale sempre più in bilico tra giurisdizione e politica, in Lo Stato, 11/2018, 123 ss.; A. Morrone, Suprematismo giudiziario. Su sconfinamenti e legittimazione politica della Corte costituzionale, in Quad. cost., 2/2019, 251 ss. (nei riguardi del cui pensiero, criticamente, v. R. Bin, Sul ruolo della Corte costituzionale. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone, in Quad. cost., 4/2019, 757 ss., e, pure ivi, E. Cheli, Corte costituzionale e potere politico. Riflessioni in margine ad un recente scritto di Andrea Morrone, 777 ss.), e, dello stesso, ora, Suprematismo giudiziario II. Sul pangiuridicismo costituzionale e sul lato politico della Costituzione, in Federalsimi (www.federalismi.it), 12/2021, 5 maggio 2021, 170 ss.; A. Spadaro, I limiti “strutturali” del sindacato di costituzionalità: le principali cause di inammissibilità della q.l.c., in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 4/2019, 26 novembre 2019, 154 ss.; M. Nisticò, Corte costituzionale, strategie comunicative e ricorso al web, in AA.VV., Potere e opinione pubblica. Gli organi costituzionali dinanzi alle sfide del web, a cura di D. Chinni, Editoriale Scientifica, Napoli 2019, 77 ss.; R. Di Maria, Brevi considerazioni sul rapporto fra tutela sostanziale dei diritti (fondamentali) e rispetto delle forme processuali: la Corte costituzionale e gli “animali fantastici”. The final cut, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 1/2020, 7 gennaio 2020, 1 ss.; F. Abruscia, Assetti istituzionali e deroghe processuali, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 4/2020, 23 ottobre 2020, 282 ss.; AA.VV., Una nuova stagione creativa della Corte costituzionale?, a cura di C. Padula, Editoriale Scientifica, Napoli 2020. Infine, se si vuole, anche il mio Dove va la giustizia costituzionale in Italia?, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 1/2021, 16 aprile 2021, 456 ss.
[8] … che, peraltro, non possono neppure annoverarsi con sicurezza quali eccezioni alla regola del dissenso, non potendosi stabilire se Mattarella si sia, o no, trovato in minoranza in occasione dell’adozione delle decisioni in parola.
[9] Il concetto è ribadito nell’intervento svolto da C. al forum organizzato dalla Rivista del Gruppo di Pisa sull’istituto, che può vedersi nel fasc. 1/2021, 419. Di “una ‘via italiana’ criptica e soft” di dissent si discorre in A. Ruggeri - A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale6, Giappichelli, Torino 2019, 69; similmente, ora, E. Malfatti - S. Panizza - R. Romboli, Giustizia costituzionale7, Giappichelli, Torino 2021, 83 s.
[10] A. Anzon Demmig, Ripensando alle opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali e alla legittimazione della Corte, cit., 2574.
[11] Come C. argomenta efficacemente, non pochi sono tuttavia i casi in cui è del tutto improprio evocare la “coscienza” a giustificazione della sostituzione.
[12] Ovviamente, è fuori discussione che il giudice costituzionale, al pari di ogni altro operatore, disponga di pienezza di libertà di ricerca scientifica. Per problematico che tuttavia sia, in alcune circostanze, tenerne distinte le sue genuine e peculiari espressioni da altre invece ad esse non riportabili in modo appropriato, va ugualmente avvertito che chi è chiamato a compiti di particolare delicatezza e rilievo, qual è appunto il giudice costituzionale, va incontro a limiti di correttezza istituzionale e, forse, riferibili pure al dovere di fedeltà alla Repubblica, in alcune delle sue più salienti manifestazioni, che gli impongono il mantenimento del riserbo in relazione alle modalità di esercizio del munus del quale è titolare. Ne dà sicura conferma, d’altronde, proprio la mancata previsione del dissent che proietta la sua immagine anche fuori della Consulta, richiedendo l’adozione di comportamenti con esso conseguenti.
[13] Giudico questa precisazione meritevole di essere tenuta costantemente presente, dal momento che ogni discorso che si va qui pure facendo con riguardo al rapporto tra sostituzione e dissent resta pur sempre sottoposto alla condizione che l’una sia dovuta all’altro, senza che però se ne possa avere la prova se non nel caso di esternazione resa dallo stesso giudice relatore.
[14] Non c’è, tuttavia, rimedio, a tener ferma la possibilità della sostituzione, di cui comunque in alcuni casi non può farsi a meno, senza tornare all’antico della sottoscrizione di ogni decisione da parte di tutti i giudici (sul punto, anche a breve).
[15] Troviamo infatti scritto che “i benefici, soprattutto per ciò che attiene alla autorevolezza della Corte, che si ricaverebbero da una meditata introduzione della possibilità di esprimere motivatamente una opinione diversa potrebbero essere superiori agli svantaggi provocati da una situazione in cui vi è la contemporanea assenza della dissenting opinion e presenza di una forma incontrollata, dimidiata e autoreferenziale di dissenso” (97).
[16] Così, M. Ruotolo, Intervento al forum cit., 443.
[17] Il punto è di cruciale rilievo e merita un’attenzione ancora maggiore di quella pure fin qui dedicatavi, specie se si considera la vera e propria escalation alla quale si è assistito nel tempo a noi più vicino e che, per vero, parrebbe non conoscere limite di sorta alla sua crescente affermazione [riferimenti al limite in parola ed alle oscillazioni alle quali è andato soggetto fino a pervenire, di recente, al suo sostanziale superamento, possono, tra gli altri, aversi da A. Spadaro, I limiti “strutturali” del sindacato di costituzionalità: le principali cause di inammissibilità della q.l.c., cit., 154 ss.; C. Panzera, Esercizio sussidiario dei poteri processuali e discrezionalità legislativa nella recente giurisprudenza costituzionale, in Foro it., 3/2020, V, 127 ss.; T. Giovannetti, La Corte costituzionale e la discrezionalità del legislatore, in AA.VV., Rileggendo gli Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (1987-2019). A Roberto Romboli dai suoi allievi, Giappichelli, Torino 2020, 19 ss.; D. Tega, La Corte nel contesto. Percorsi di ri-accentramento della giustizia costituzionale in Italia, Bononia University Press, Bologna 2020, 101 ss.; F. Modugno, Le novità della giurisprudenza costituzionale, in Lo Stato, 14/2020, 101 ss., spec. 115; M.T. Stile, Discrezionalità legislativa e giurisdizionale nei processi evolutivi del costituzionalismo, Editoriale Scientifica, Napoli 2020; A. Matteoni, Legittimità, tenuta logica e valori in gioco nelle “decisioni di incostituzionalità prospettata”: verso un giudizio costituzionale di ottemperanza?, in ConsultaOnLine (www.giurcost.org), 2/2021, 3 maggio 2021, 348 ss., spec. 371 ss. Infine, volendo, anche il mio Dove va la giustizia costituzionale in Italia?, cit., spec. 473 ss., e L. Pesole, La Corte costituzionale oggi, tra apertura e interventismo giurisprudenziale, in Federalismi (www.federalismi.it), 12/2021, 5 maggio 2021, spec. 242 ss.].
[18] D. Tega, Intervento al forum, cit., 444.
[19] Le plurime ed annose questioni che si pongono al piano dei rapporti tra Corte e pubblica opinione sono fatte da tempo oggetto di parimenti plurimi e discordi punti di vista (tra gli altri, v. M. Fiorillo, Corte costituzionale e opinione pubblica, in AA.VV., Corte costituzionale e processi di decisione politica, a cura di V. Tondi della Mura - M. Carducci - R. G. Rodio, Giappichelli, Torino 2005, 90 ss., e A. Rauti, che ne ha discorso in più luoghi di riflessione scientifica, tra i quali “Il tuo nome soltanto m’è nemico...”. “Linguaggio” e “convenzioni” nel dialogo tra Corte costituzionale e opinione pubblica, in AA.VV., “Effettività” e “seguito” delle tecniche decisorie della Corte costituzionale, a cura di R. Bin - G. Brunelli - A. Pugiotto - P. Veronesi, ESI, Napoli 2006, 581 ss.; più di recente, v. D. Chinni, La comunicazione della Corte costituzionale: risvolti giuridici e legittimazione politica, in Dir. soc., 2/2018, 255 ss., e, nella stessa Rivista, A. Sperti, Corte costituzionale e opinione pubblica, 4/2019, 735 ss. Da una prospettiva di ordine generale, v., poi, con riguardo alle esternazioni dei pubblici poteri, A.I. Arena, L’esternazione del pubblico potere, Editoriale Scientifica, Napoli 2019, spec. 171 ss.
[20] Su ciò, richiamo qui, per tutti, solo gli studi di A. Spadaro, in ispecie il suo Contributo per una teoria della Costituzione, I, Fra democrazia relativista e assolutismo etico, Giuffrè, Milano 1994.
[21] Della motivazione delle decisioni della Corte, per ciò che è e per come dovrebbe essere, si discute – come si sa – da tempo (indicazioni, per tutti, in AA.VV., La motivazione delle decisioni della Corte costituzionale, a mia cura, Giuffrè, Milano 1994, e A. Saitta, Logica e retorica nella motivazione delle decisioni della Corte costituzionale, Giuffrè, Milano 1996; utili spunti a finalità teorico-ricostruttiva sono, inoltre, offerti da D. Galliani, I criceti e la ruota che gira. Il senso costituzionale dell’obbligo di motivazione, in Scritti per Roberto Bin, a cura di C. Bergonzini - A. Cossiri - G. Di Cosimo - A. Guazzarotti - C. Mainardis, Giappichelli, Torino 2019, 684 ss., nonché, in prospettiva comparata, da G. Romeo, L’argomentazione costituzionale di common law, Giappichelli, Torino 2020). Sta di fatto, però, che ogni tentativo volto a correggerne alcune espressioni, perlomeno nei casi in cui si presentino maggiormente devianti dal modello che si suppone debba per esse valere, si infrange nella pratica contro il muro eretto a “copertura” delle pronunzie della Consulta dall’art. 137, ult. c., Cost. Un efficace rimedio agli scostamenti in parola è, a mio modo di vedere, costituito, sullo specifico terreno sul quale maturano le esperienze processuali relativi alla tutela dei diritti fondamentali, dal c.d. “dialogo” tra le Corti (termine, nondimeno, improprio, che richiederebbe non poche precisazioni la cui esposizione però – com’è evidente – non può qui aversi), in ispecie laddove si intrattenga con le Corti europee quali interpreti e garanti esse pure di documenti materialmente (o, come preferisce dire la Consulta, tipicamente) costituzionali, le Carte dei diritti.
[22] Confesso di non disporre di alcuni elementi di conoscenza che sarebbero ai nostri fini preziosi; non sarei, tuttavia, così sicuro che, nei Paesi che conoscono il dissent, si assista a più frequenti mutamenti d’indirizzo rispetto a quelli che non lo hanno sperimentato. Il vero, poi, è che i mutamenti stessi dovrebbero rinvenire giustificazione in dati oggettivi, e segnatamente in una diversa “situazione normativa” sulla quale la Corte sia chiamata a pronunziarsi e che appunto solleciti (e, anzi, imponga) l’aggiustamento, ora più ed ora meno corposo, di un precedente orientamento (della “situazione normativa” quale oggetto dei giudizi di costituzionalità discorrono A. Ruggeri e A. Spadaro, di recente e riassuntivamente nei Lineamenti di giustizia costituzionale6, cit., 101 ss.).
[23] Un solo esempio per tutti: le tecniche di risoluzione delle antinomie tra il diritto (ieri comunitario ed oggi) eurounitario e il diritto interno.
[24] V. Marcenò, Intervento al forum, cit., 438.
[25] V., in particolare, le risposte alla seconda domanda.
[26] … ad es., in occasione del Seminario su L’opinione dissenziente, svoltosi presso la Consulta nel novembre del 1993, i cui Atti, curati da A. Anzon, sono venuti alla luce per i tipi della Giuffrè nel 1995.
[27] … senza, peraltro, trascurare la eventualità del cumulo degli strumenti, pure giudicato possibile: in particolare, ad avviso di G. Repetto, Intervento al forum, cit., 428, l’introduzione dell’istituto per mano della Corte, in sede normativa ovvero per via di prassi, non farebbe da ostacolo alla successiva disciplina legislativa. Non è tuttavia precisato il modo con cui gli strumenti stessi dovrebbero concorrere alla messa a punto dell’istituto, in ispecie se la normativa apprestata dalla legge possa – e, se sì, fino a che punto – prendere il posto di quella eventualmente data per via di autonormazione.
[28] … nel mio Ancora in tema di opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali: è meglio accendere i riflettori sulla Consulta o lasciarla in penombra?, cit., spec. in nt. 12.
[29] … sin dal mio Per la introduzione del dissent nei giudizi di costituzionalità: problemi di tecnica della normazione, Intervento al Seminario su L’opinione dissenziente, cit., 89 ss., e già in Pol. dir., 1994, 299 ss.
[30] … modifiche peraltro estese agli stessi principi fondamentali, con la conseguenza che ciò che si considera impedito al legislatore di revisione costituzionale non lo è, di fatto, al massimo garante della legalità costituzionale. Ciò che equivale – come vado dicendo da tempo – a far di quest’ultimo un autentico potere costituente permanente.
[31] … ad es., dalle Camere in sede di conflitto di attribuzione, sub specie di conflitto da menomazione.
[32] … nel mio Ancora in tema di opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali: è meglio accendere i riflettori sulla Consulta o lasciarla in penombra?, cit.
[33] Riprendo sul punto una preoccupata notazione già svolta nel mio scritto per ultimo cit.
[34] A questa indicazione di metodo si attiene anche altra dottrina, pervenendo tuttavia ad esiti teorico-ricostruttivi assai discosti da quelli ai quali io sono già approdato altrove e che qui pure confermo. Cfr., ad es., al mio punto di vista quello di recente manifestato da G. Repetto, Intervento, cit., 399 ss., il quale, dopo aver avvertito che l’istituto del dissent “risente del momento storico e delle coordinate storico-politiche sulla posizione della Corte nel sistema”, conclude nel senso che gli argomenti favorevoli alla sua introduzione risultino prevalenti su quelli di segno opposto. Contraria si è, invece, dichiarata A. Anzon Demmig, Ripensando alle opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali e alla legittimazione della Corte, cit., 2580 s.
[35] Similmente, nella manualistica, G. Zagrebelsky - V. Marcenò, Giustizia costituzionale, II, Oggetti, procedimenti, decisioni, Il Mulino, Bologna 2018, 43 ss., e, se si vuole, A. Ruggeri - A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale6, cit., 79 s.
[36] Ammoniscono, da varie angolazioni e con pari varietà di esiti teorico-ricostruttivi, del rischio della sempre temibile degenerazione autoritaria dell’ordinamento i contributi di AA.VV., Crisi dello Stato e involuzione dei processi democratici, a cura di C. Panzera - A. Rauti - C. Salazar - A. Spadaro, Editoriale Scientifica, Napoli 2020, e, più di recente, M. Calamo Specchia, Un prisma costituzionale, la protezione della Costituzione: dalla democrazia “militante” all’autodifesa costituzionale, in Dir. pubbl. comp. ed eur., 1/2021, 91 ss.
[37] Lo scandalo Palamara è forse la punta più appariscente del fenomeno che ha però origini risalenti e ramificazioni profonde e varietà di espressioni ad oggi, a mia opinione, non sufficientemente esplorate in ogni loro aspetto.
[38] V., part., M. Luciani, Il paradigma della rappresentanza di fronte alla crisi del rappresentato, in AA.VV., Percorsi e vicende attuali della rappresentanza e della responsabilità politica, a cura di N. Zanon - F. Biondi, Giuffrè, Milano 2001, 109 ss., e, dello stesso, La massima concentrazione del minimo potere. Governo e attività di governo nelle democrazie contemporanee, in Teoria pol., 2015, 113 ss., spec. 128.
[39] Della condizione svilita in cui versa la rappresentanza politica si discorre nel mio Lo stato comatoso in cui versa la democrazia rappresentativa e le pallide speranze di risveglio legate a nuove regole e regolarità della politica, in Consulta OnLine (www.giurcost.org), 1/2021, 25 gennaio 2021, 124 ss.
[40] Ho trovato particolarmente lucida ed istruttiva la cruda diagnosi fatta nel libello di un’accreditata dottrina romanistica (A. Corbino, La democrazia divenuta problema. Città, cittadini e governo nelle pratiche del nostro tempo, Eurilink University Press, Roma 2020), venuto alla luce in tempi recente, nel quale si rileva come le radici della crisi si rinvengano, prima ancora che nelle istituzioni, nel profondo del corpo sociale. Ed è perciò che – come ho ritenuto di dover osservare altrove – tagliare le erbacce in superficie lasciando però nel terreno le loro radici non soltanto risulti improduttivo ma rischi piuttosto di rafforzarle ancora di più.
[41] Non si trascuri, infine, un punto, con specifico riguardo al caso che l’avvento del dissent si abbia – come dietro prospettato – per mano della stessa Corte; ed è che, laddove i fatti dovessero poi indurre ad un ripensamento della novità dapprima introdotta, si faticherebbe non poco a tornare indietro, per la elementare ragione che, una volta inventata e messa a punto una certa tecnica decisoria che fa dilatare i margini di manovra di cui il giudice costituzionale dispone, quest’ultimo è comprensibilmente restio a restringerli, privandosi di uno strumento già sperimentato. Come si sa, infatti, la tendenza è per il crescente arricchimento e affinamento delle tecniche decisorie, non già per il loro impoverimento ad opera della stessa Corte. Con ogni probabilità, è ingenuo ritenere che il caso nostro possa fare eccezione alla regola.
[42] Lo stesso invito figura già nel titolo di una recente riflessione dedicata al tema da A. Fusco, «Ne riparleremo, dunque, tra qualche tempo»: a proposito dell’introduzione delle opinioni separate (e non meramente dissenzienti) vs. l’attuale forma di «dissenso mascherato», cit., 360 ss.
La prova in giudizio della notifica di atti tributari a destinatario temporaneamente irreperibile. Nota a Cass. Sez. Un. n. 10012 del 2021 di Silvia Marinoni
Sommario: 1. Il caso deciso – 2. Il contrasto giurisprudenziale – 3. La soluzione accolta dalle Sezioni Unite – 4. Alcune considerazioni conclusive.
1. Il caso deciso
Le Sezioni Unite, con sentenza del 15 aprile 2021, n. 10012, sono intervenute in tema di prova giudiziale della regolare notifica eseguita a mezzo posta nei casi di c.d. irreperibilità relativa dando rilievo, mediante un'interpretazione costituzionalmente orientata, alla ratio sottesa alla notificazione, quale procedura volta a portare a conoscenza del destinatario gli atti a questi indirizzati.
La vicenda trae origine dall'emissione da parte di Equitalia Sud S.p.a. di una cartella di pagamento a carico di una contribuente, che la impugnava lamentando la mancata notifica degli avvisi di accertamento prodromici; la ricorrente contestava il perfezionamento della procedura notificatoria sul presupposto dell'omessa produzione in giudizio da parte dell'Agenzia delle Entrate degli avvisi di ricevimento delle raccomandate di avvenuto deposito del plico (C.A.D.).
In primo grado il ricorso non venne accolto dalla C.T.P. di Caserta, la cui pronuncia, a seguito di gravame della contribuente, veniva confermata dalla C.T.R. della Campania sulla base dell'accertata regolarità delle notifiche degli avvisi di accertamento e del mancato assolvimento dell'onere di impugnazione congiunta degli stessi con la cartella esattoriale.
La contribuente proponeva ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, il cui esame poneva il problema di comprendere in quale modo dovesse essere giudizialmente provata la ritualità delle notificazioni compiute a mezzo posta allorché, per la temporanea assenza del destinatario e delle persone abilitate alla ricezione, ovvero per rifiuto di queste, i plichi fossero stati depositati presso l'ufficio postale e fossero decorsi dieci giorni senza il loro ritiro, nonostante apposita comunicazione. Sulla questione, la Quinta Sezione Civile, con ordinanza interlocutoria n. 21714 del 2020[1], evidenziava la sussistenza di un contrasto in seno alla Corte, rimettendo al Primo Presidente, per l'eventuale assegnazione del ricorso alle S.U., la questione di massima di particolare importanza concernente la prova del perfezionamento della notificazione di un atto impositivo mediante l'impiego diretto del servizio postale (art. 14, l. n. 890/1982) nel caso di temporanea assenza del destinatario e dei soggetti abilitati alla ricezione.
2. Il contrasto giurisprudenziale
La risposta al quesito formulato dalla sezione rimettente si intreccia col tentativo della dottrina e della giurisprudenza di individuare il giusto equilibrio tra diritto di agire del notificante e diritto di difendersi del destinatario.
Una parte della giurisprudenza[2] ha sostenuto che, ai fini della ritualità della notifica diretta, è richiesta la prova della sola spedizione della raccomandata e non anche dell'avvenuta ricezione di questa. Viene in rilievo l'espressa e puntuale previsione dell'art. 8, l. n. 890 del 1982, nella parte in cui dispone che la notificazione si ha “comunque” per eseguita decorsi dieci giorni dalla spedizione della raccomandata. La scelta del legislatore, per come interpretata dalla giurisprudenza, è quella di collegare, in via assoluta e generale, il perfezionamento dell'iter notificatorio all'evento 'spedizione' della C.A.D., in particolare dopo dieci giorni dall'invio della raccomandata. Verificatisi tali requisiti, dunque, si realizzerebbe la conoscenza legale dell'atto da parte del destinatario, con ogni conseguenza in ordine agli effetti che da questa teorica conoscenza derivano[3].
Questa tesi si fonda, inoltre, sulla distinzione tra conoscenza e conoscibilità: la notificazione, quale procedimento complesso e strutturato, mira a consentire la sola conoscibilità, per soddisfare la quale sono state imposte al notificante specifiche formalità, fermo restando il dovere di cooperazione del destinatario dell'atto per integrare la sua conoscenza effettiva[4].
Il punto di incontro tra le posizioni contrapposte dei soggetti e i rispettivi diritti è dato dall'obbligo, in caso di mancato recapito al destinatario, di spedire una seconda raccomandata informativa dell'invio della prima racomandata, che costituisce, al tempo stesso, adempimento necessario per il notificante (che deve adoperarsi affinchè il destinatario sia portato a conoscenza dell'esistenza dell'atto) e sufficiente per il notificato (posto in condizione di sapere che vi è un atto a lui indirizzato). Questo bilanciamento, invero, sembrerebbe sortire un duplice effetto: per un verso, incoraggia il notificante ad attivarsi correttamente consapevole del fatto che il rispetto delle formalità legali comporta il perfezionarsi della notifica anche in mancanza del ritiro del piego depositato; per altro verso, riconoscendo al destinatario un termine ragionevole per ritirare il piego, garantisce il diritto di costui “ad essere posto in condizione di conoscere, con l'ordinaria diligenza e senza necessità di effettuare ricerche di particolare complessità, il contenuto dell'atto e l'oggetto della procedura instaurata nei suoi confronti”[5].
Secondo una contrapposto orientamento[6], ai fini della ritualità della notifica a mezzo posta in caso di irreperibilità relativa del destinatario, non è sufficiente provare la spedizione della raccomandata informativa di comunicazione di avvenuto deposito, essendo necessaria la prova dell'avvenuta ricezione di quest'ultima. Tale ricostruzione valorizza il diritto di difesa (art. 24 Cost.) che può essere realmente assicurato solo allorchè le garanzie di conoscibilità dell'atto siano improntate a logiche di effettività. In questa prospettiva, il Collegio rimettente ha enfatizzato il ruolo determinante della C.A.D. rilevando che quando il legislatore ha considerato sufficiente una raccomandata semplice per informare circa l'avvenuta notificazione ha espressamente disposto in tal senso[7], mentre l'art. 8, co.4, l. n. 890/1982 prescrive l'invio di raccomandata “con avviso di ricevimento”.
L'ordinanza interlocutoria ha così posto l'interrogativo sulla necessità o meno di esibire in giudizio l'avviso di ricevimento relativo alla raccomandata contenente la C.A.D. come prova del suo invio, al fine di verificare se effettivamente la comunicazione di avvenuto deposito sia giunta nella sfera di conoscibilità del destinatario. Dalle annotazioni ivi riportate, infatti, potrebbe risultare la mancata consegna dovuta al trasferimento o al decesso del soggetto cui l'atto è indirizzato, o ad altre cause ostative alla sua conoscibilità, che parimenti assumono rilevanza in quanto dimostrano che l'effetto legale collegato al procedimento notificatorio non si è potuto produrre[8].
La diversità di prospettiva che caratterizza la tesi favorevole alla prova della ricezione della C.A.D., oltre a rafforzare la posizione del soggetto cui l'atto è rivolto, determina un mutamento notevole dal punto di vista processuale, che va oltre l'onere probatorio gravante sul notificante, producendo effetti anche sotto il versante temporale, con conseguente allungamento dei termini. Chiarisce, infatti, l'ordinanza di rimessione, che il perfezionamento della notifica per il destinatario con il decorso di dieci giorni dalla spedizione della raccomandata della C.A.D. degrada ad “effetto provvisorio o anticipato, destinato a consolidarsi con l'allegazione dell'avviso di ricevimento, le cui risultanze possono confermare o smentire che la notifica abbia raggiunto lo scopo cui era destinata”. V'è, quindi, un effetto normativo sospensivamente condizionato alla verifica del giudice sull'avviso di ricevimento della seconda raccomandata.
3. La soluzione accolta dalle Sezioni Unite
Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 10012 del 2021, hanno avallato l'orientamento più garantista per il destinatario dell'atto, ritenendo che nei casi di sua temporanea assenza nella notifica a mezzo posta devono essere rispettate le formalità prescritte dall'art. 8 l. n. 890 del 1982, ivi incluso l'invio della raccomandata informativa dell'avvenuto deposito degli atti notificandi, di cui deve essere data prova unicamente producendo in giudizio l'avviso di ricevimento della (seconda) raccomandata. La C.A.D. riveste un ruolo essenziale perchè mira a garantire “la conoscibilità, intesa come possibilità di conoscenza effettiva, dell'atto notificando stesso”.
L'iter argomentativo si basa su una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni sulla notifica e si sviluppa lungo due direttrici: la valorizzazione del diritto di difesa nelle varie procedure notificatorie e la pregnante considerazione degli interventi della Corte costituzionale.
Sotto il primo profilo, le Sezioni Unite evidenziano il maggior rigore previsto per la notifica a mezzo posta, in ipotesi di temporanea assenza del destinatario, col deposito presso l'ufficio postale dell'atto notificando rispetto a quello di cui agli artt. 139 c.p.c. e 7, l. n. 890/1982 disciplinanti la consegna a persona diversa dal destinatario, la cui qualità o relazione col primo fonda un maggior affidamento e dunque giustifica una forma di comunicazione dell'avvenuta consegna semplificata, ossia tramite raccomandata “semplice”. Nella notifica a mezzo posta, invece, manca la consegna alle persone abilitate e quindi non sussiste la predetta ragionevole aspettativa che l'atto notificando venga effettivamente conosciuto dal destinatario, sicchè, a fronte del mero deposito presso l'ufficio postale, il legislatore - per assicurare la conoscibilità del destinatario - ha previsto un duplice adempimento ulteriore: l'affissione dell'avviso di deposito nel luogo di notifica e la spedizione di lettera raccomandata con avviso di ricevimento.
Con riguardo al secondo aspetto, ossia al tentativo di interpretare le disposizioni conformemente alle pronunce della Corte costituzionale, le Sezioni Unite estendono la comparazione tra le procedure di cui agli artt. 8 l. n. 890/1982 e 140 c.p.c., accomunate dal medesimo presupposto fattuale della irreperibilità relativa, utilizzando tale ultima disposizione quale tertium comparationis. La sentenza in nota - richiamando la giurisprudenza in tema di notifica da parte dell'ufficiale giudiziario che richiede, ai fini della prova del perfezionamento, la produzione in giudizio dell'avviso di ricevimento della raccomandata informativa[9] - individua una comunanza di ratio tra le due modalità, consistente nel dare al destinatario una ragionevole possibilità di conoscenza della pendenza della notifica di un atto impositivo. Tale assimilazione si fonda sul legame inscindibile che la giurisprudenza individua tra le formalità proprie del procedimento di notifica e il rispetto dei principi costituzionali di azione e difesa (art. 24 Cost.) e di parità delle parti del processo (art. 111, c. 2, Cost.).
L'estensione della logica garantista fatta propria dalla Corte costituzionale alla disciplina contenuta nella legge n. 890 del 1982 finisce con l'individuare un nuovo punto di equilibrio tra le esigenze del destinatario e quelle del notificante, il cui onere processuale viene qualificato come “non vessatorio o problematico”[10]. L'avviso di ricevimento della C.A.D. costituisce, nella prospettiva accolta da Cass. n. 10012 del 2021, l'indefettibile prova di un presupposto implicito dell'effetto di perfezionamento della procedura notificatoria ai sensi dell'art. 8, commi secondo e quarto, l. n. 890/1982 e il cui esame affidato al giudice consente di verificare se la notificazione ha concretamente assolto il suo compito. La valutazione positiva comporta il consolidamento dell'effetto provvisorio dell'avviso de quo, che diviene definitivo, conformemente alla qualificazione della fattispecie come procedimento a formazione progressiva.
4. Alcune considerazioni conclusive
La sentenza in commento, nel ritenere che per provare il perfezionamento della notifica a mezzo posta, nel caso di irreperibilità relativa del destinatario, sia necessaria l'esibizione in giudizio dell'avviso di ricevimento della raccomandata informativa, giunge a subordinare la regolarità del procedimento notificatorio alla concreta verifica, affidata al giudice, che la C.A.D. sia pervenuta al destinatario e che, quindi, costui abbia potuto avere conoscenza effettiva di quanto notificatogli.
V'è da chiedersi se le conclusioni cui sono pervenute le Sezioni Unite possano rappresentare un definitivo superamento del contrasto giurisprudenziale che ha giustificato il loro intervento o se, come si immagina, saranno necessari ulteriori chiarimenti.
La Cassazione ha optato per un'interpretazione della disciplina sulla notifica adeguatrice ai principi costituzionali, fornendo una ricostruzione sistematica della normativa attraverso una chiave di lettura che parte della dottrina già da tempo sollecitava, così da evitare un non agevole intervento della Corte costituzionale. In particolare, poichè le disposizioni sulla notifica, pur se contenute in testi di legge diversi, si ispirano alla medesima ratio e devono assolvere la stessa funzione, la ricostruzione accolta contribuisce a rendere più uniforme la disciplina della prova del perfezionamento del procedimento notificatorio nei casi di irreperibilità relativa. Ciò attraverso l'estensione alla notificazione postale della regola elaborata dalla giurisprudenza per la notificazione eseguita tramite ufficiale giudiziario ex art. 140 c.p.c.
L'impianto risultante dalla pronuncia annotata sembra, così, rafforzare il principio di effettività della tutela, di cui il diritto di difesa rappresenta un prius logico imprescindibile. Infatti, l'avvicinamento tra conoscenza legale ed effettiva è volto ad assicurare che il destinatario sia posto nelle condizioni di far valer le proprie ragioni, in un confronto paritario con l'Amministrazione, attraverso l'instaurazione di un contraddittorio. Ciò in armonia con i principi costituzionali (artt. 24 e 111 Cost) oltre che sovranazionali (artt. 41, 47 e 48 Carta dei diritti fondamentali dell'UE)[11].
L'impostazione accolta dalle Sezioni Unite pare coerente anche con l'art. 6 dello Statuto del contribuente, rubricato “Conoscenza degli atti e semplificazione”, il cui comma primo fa carico all'Ufficio finanziario di assicurare “l'effettiva conoscenza da parte del contribuente degli atti a lui destinati” e, nel precisare che “gli atti sono in ogni caso comunicati con modalità idonee a garantire che il loro contenuto non sia conosciuto da soggetti diversi dal loro destinatario”, sembra richiedere che il soggetto al quale sono indirizzati non sia solo posto in condizioni di conoscere, ma abbia piena contezza del loro contenuto. Ciò salvo ritenere che dalla parte finale del comma, a mente del quale “restano ferme le disposizioni in materia di notifica degli atti tributari”, discenda un rapporto di specialità tra queste e l'art. 6 L. n. 212/2000, con prevalenza delle regole sulla notifica.
La soluzione garantista prescelta lascia tuttavia non del tutto chiariti alcuni aspetti: primo fra tutti quello pratico, concernente la fase successiva all'esame del giudice allorchè al corretto (e provato) adempimento del notificante non corrisponda la conoscenza del destinatario. La sentenza, infatti, non chiarisce in modo puntuale quali conseguenze derivino per i soggetti coinvolti nell'iter e per lo stesso atto notificando nei casi di valutazione giudiziale negativa, senza quindi individuare il punto di incontro tra esigenze contrapposte. Le Sezioni Unite, infatti, non si preoccupano di qualificare il vizio che affligge l'atto notificando e, di conseguenza, non si comprende quale sarà la sorte dell'accertamento. Nel caso di specie, invero, in accoglimento del ricorso introduttivo, si è ritenuta nulla la notifica, non avendo l'Agenzia provveduto a dar prova in giudizio dell'avviso di ricevimento della C.A.D.; resta in sospeso, però, cosa succeda nei casi di prova in giudizio della cartolina riportante la notizia, ad esempio, del trasferimento o del decesso.
Perplessità sono state sollevate anche in merito all'interpretazione letterale dell'art. 8, l. n. 890/1982 che sembra ancorare la produzione degli effetti al decorso di dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata contenente l'avviso della tentata notifica e del deposito del piego presso l'ufficio postale, o al ritiro ove anteriore, escludendo un consolidamento successivo degli effetti correlato alla ricezione. La soluzione accolta non consente ulteriori valutazioni in merito alla ratio della dispozione indicata, la cui differente formulazione potrebbe essere frutto di una specifica volontà in tal senso, cosicchè la parificazione, pur ispirata a valide ragioni di tutela del destinatario, si porrebbe proprio in contrasto con la norma. Dubbio, questo, già espresso da Cass. n. 6089/2020 secondo cui le notifiche di cui all'art. 140 c.p.c. si connotano per un regime che si discosta da quello di cui all'art. 8, co. 4, l. n. 890/1982, atteso che, mentre le seconde si perfezionano decorsi dieci giorni dalla spedizione della raccomandata o al momento del ritiro del piego, ove anteriore, viceversa, l'art. 140 c.p.c., all'esito di Corte cost. n. 3 del 2010, fa coincidere tale momento col ricevimento della raccomandata informativa, reputato idoneo a realizzare non l'effettiva conoscenza, ma la conoscibilità del deposito dell'atto presso la casa comunale, ponendo il destinatario in condizione di ottenere la consegna ed eventualmente predisporre le proprie difese nel rispetto dei termini pendenti per la reazione giudiziale. Peraltro, una differente disciplina delle varie modalità di notificazione non darebbe adito, di per sé sola, a dubbi di legittimità costituzionale poichè non è predicabile un dovere del legislatore ordinario di uniformare il trattamento processuale di situazioni assimilabili, essendo consentita una diversa conformazione degli istituti processuali a condizione che non siano lesi i diritti di difesa.
Del resto, come già chiariva l'ordinanza interlocutoria, il meccanismo configurato dall'art. 8 l. n. 890 del 1982, rappresenta una declinazione, peculiare e specifica, della più generica nozione di “conoscenza legale” che segna, giusto l'art. 149 c.p.c., il perfezionamento della notifica postale dal lato del destinatario, nella consapevolezza che, per comprensibili esigenze di funzionalità, il sistema delle notificazioni a mezzo posta non può indefettibilmente esigere la concreta conoscenza dell'atto, ma ne considera sufficiente l'ingresso nella sfera di conoscibilità del soggetto. Questa diversa ricostruzione si fonda su un discrimen netto tra procedimento notificatorio ed eventi successivi, posto che la comunicazione, il cui contenuto concerne unicamente le attività svolte dall'agente postale, senza dare informazione alcuna sull'intrinseco dell'atto notificatorio, configura soltanto una modalità di rafforzamento dell'iter già perfezionatosi.
Ulteriori incertezze sono state formulate in merito non già alla prova della C.A.D., bensì alla necessità stessa del suo invio, che sembrerebbe escluso per la notifica postale diretta, in cui dovrebbe applicarsi il regime postale e non la legge n. 890/1982[12]. Secondo parte della giurisprudenza[13], infatti, la disciplina relativa alla raccomandata con avviso di ricevimento, mediante cui può essere notificato, ex art. 14 l. n. 890/1982, l'avviso di accertamento senza intermediazione dell'ufficiale giudiziario, è quella dettata dalle disposizioni concernenti il servizio postale ordinario per la consegna dei plichi raccomandati, caratterizzata dalla totale assenza di formalità. Peraltro, in base a un comune dato di esperienza, l'avviso di giacenza (modello 26) di cui alla normativa postale - con cui si comunica la mancata consegna e si avvisa del deposito dell'atto presso un determinato ufficio postale ove potrà essere ritirato nei termini, con l'avvertimento che in mancanza si verificherà la compiuta giacenza e l'atto verrà restituito al mittente – viene di regola immesso nella cassetta postale e non spedito a mezzo raccomandata.
Le Sezioni Unite, limitando il loro intervento all'aspetto probatorio, hanno forse perso l'occasione per chiarire il rapporto tra gli artt. 8 e 14 della l. n. 890/1982, al fine di delinearne il reale perimetro applicativo rispetto alle disposizioni di cui al regolamento postale, accogliendo implicitamente quanto statuito nella pronuncia n. 5077 del 2019. Con tale ultima decisione, la Cassazione, dopo aver sottolineato che l'art. 14 l. n. 890/1992 si limita ad estendere agli atti che devono essere notificati al contribuente le stesse modalità previste dalla legge per la notifica a mezzo posta degli atti giudiziari, aveva espressamente escluso un contrasto tra il necessario deposito dell'avviso di ricevimento relativo alla C.A.D. e l'applicabilità del regolamento postale alla raccomandata con cui tale comunicazione viene inviata, ritenendo sussistere un rapporto di complementarietà fra le discipline, le quali, anzichè escludersi, si completano vicendevolmente.
La complessità della questione e le rilevanti ripercussioni che la sentenza in nota potrà avere sul piano sostanziale inducono a considerare non definitivamente risolto il dibattito esistente che, anzi, proprio da questa pronuncia trarrà nuova linfa. Resta da vedere se la giurisprudenza farà piana applicazione del principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite o troverà margini per rimodularne la portata nei diversi casi posti alla sua attenzione.
[1] Cfr.: M. Bruzzone, Notifiche a mezzo posta e prova della C.A.D.: la parola alle Sezioni Unite, in Giur. Trib., 2021, n.2, 133 e ss.; M. Cancedda, Notifica postale all'“assente” verso il vaglio delle Sezioni Unite; P. Maciocchi, Notifica via posta, regolarità alla prova delle Sezioni Unite, in Il Sole 24 Ore, 9 ottobre 2020, 32.
[2] Cfr. Cass., nn. 4043/2017, 6242/2017, 26945/2017, 13833/2018, 2638/2019, 33070/2019, 33257/2019.
[3] Vedi Cass. n. 26088/2015 e Cass. Sez. Un., n. 1418/2012.
[4] Cfr. Cass. n. 26501/2014; Cass., Se. Un., n. 23675/2014, ove si precisa che “l'effettiva conoscenza dell'atto da parte del destinatario, pur costituendo lo scopo della notificazione, rimane estranea alla sua struttura”.
[5] Cass. Sez. Un., n. 1418/2012.
[6] Cass., nn. 5077/2019, 16601/2019, 6363/2020, 23921/2020, 25140/2020, 26078/2020.
[7] Cfr. artt. 139, c. 3, c.p.c. e 7, c. 3, L. n. 890/1982.
[8] Sulla rilevanza dell'avviso di ricevimento quale documento atto a provare l'esecuzione della notificazione, della data e della persona, si veda Cass. n. 3737/2004 e n. 15374/2018.
[9] Corte cost. nn. 3/2010 e 258/2012, nonché Cass. nn. 9782/2018, 25985/2014, 22132/2009, 627/2008.
[10] Sulla tecnica di bilanciamento fra interessi contrapposti cfr. Cass., Sez. Un., 9 dicembre 2015 n. 24822 che ha individuato i quattro steps da seguire nel giudizio. L'ultimo di questi prevede che se entrambe le parti non sono in colpa, il bilanciamento avviene imponendo un onere di diligenza – o, comunque, una condotta (attiva o omissiva) derivante da un principio di precauzione – alla parte che più agevolmente è in grado di adempiere. In questa prospettiva si comprende l'impostazione seguita dalle Sez. Un. n. 10012/2021 che, traendo la norma dalla disposizione di legge, impone al notificante un onere ulteriore.
[11] Cfr. Corte giust. 12 novembre 1969, C-29/69 Erich Stauder c. Stadt Ulm – Sozialamt, secondo cui il rispetto dei diritti della difesa costituisce un principio fondamentale del diritto dell'Unione di cui il diritto al contraddittorio in qualsiasi procedimento costituisce parte integrante.
[12] Cfr. Cass. n. 17598/2010.
[13] Cass. n. 14501/2016, 29642/2019.
Giustizia e comunicazione. 4)
La cronaca giudiziaria racconta il Paese
Intervista di Andrea Apollonio a Giovanni Bianconi
Prosegue il dibattito promosso da Giustizia Insieme sul tema della comunicazione della e neIla giustizia. Dopo il contributo introduttivo di Giovanni Canzio, il 26 maggio Giustizia Insieme ha intervistato Rosaria Capacchione sul modo e sui modi di fare cronaca giudiziaria; ad intervenire è stato poi, il 1 giugno, Giovanni Melillo, in ordine alla comunicazione dell'ufficio del pubblico ministero. Un tema che "chiama" l'intervista odierna: oggi è infatti la volta della penna di punta del Corriere della Sera, Giovanni Bianconi, una delle firme più autorevoli nel panorama della cronaca giudiziaria italiana. Attento osservatore dell'esercizio del diritto, con i suoi articoli e i suoi libri ha raccontato i due fenomeni criminali italiani più complessi: il terrorismo e la mafia. I suoi editoriali sono il termometro esatto della vita giudiziaria del Paese.
Lei non ha bisogno di presentazioni, e per questo partiamo da una domanda apparentemente banale: che differenza passa tra il giornalismo giudiziario e il giornalismo sportivo, politico, oppure di quello che si occupa di gossip o di affari esteri?
La differenza è che alle altre branche, quelle che ha citato, si applicano soltanto le regole del giornalismo: hai la notizia, la fai uscire, la spieghi, la interpreti.
La cronaca giudiziaria invece deve, o dovrebbe, necessariamente fare ricorso non soltanto a questa dinamica, ma anche alle regole tecniche del processo, che devono essere anch'esse spiegate ai lettori per far capire loro le ragioni di un fatto. La notizia di cui vengo in possesso non posso spiegarla correttamente se non la spiego anche tecnicamente: poi la posso illustrare nei suoi vari risvolti e persino interpretare nella mia prospettiva.
Ad esempio, prima di dare notizia di un avviso di garanzia, devo prima spiegare al lettore di cosa si tratta e come quest'atto sia funzionale alle regole del processo, altrimenti darei un'informazione non corretta, o non correttamente comprensibile per un lettore che di solito non è un esperto di diritto. Credo che la difficoltà maggiore nel mio lavoro stia in questo: non ignorare né banalizzare il dato tecnico ma essere al tempo stesso efficace nel fornire la notizia.
Inoltre, la cronaca giudiziaria è l'unico settore davvero trasversale, che sconfina in tutti gli altri; può diventare, all'occorrenza, cronaca politica, cronaca sportiva (a seconda che la notizia riguardi un politico o un personaggio sportivo), o anche mero gossip, oppure riguardare gli affari esteri: basti pensare a quanto accaduto di recente in Francia, con l'avvenuta cattura dei terroristi politici. La verità è che la giustizia entra ovunque, è quasi un rumore di fondo della società che si racconta.
Almeno dai tempi di Tangentopoli...
No, è sempre stato così. Pensi al caso Moro, alla P2, alle stragi terroristiche e di mafia. Il punto è che la cronaca giudiziaria, almeno nella seconda parte della storia repubblicana, ha spiegato i fenomeni sociali e politici. Attraverso la cronaca giudiziaria si racconta il Paese.
Potremmo dire, al massimo, che da Tangentopoli in poi il giornalismo giudiziario ha fatto più attenzione dell'effetto "extra-giudiziario" di talune indagini e di taluni processi. Ecco, la difficoltà del mio lavoro sta anche in questo: nella spiegazione, che pure bisogna dare, dell'effetto extra-giudiziario che quel dato tecnico-giuridico, ha.
È un concetto interessante, quello di cui parla: "l'effetto extra-giudiziario" del dato tecnico...
Beh, la vicenda della c.d. "loggia Ungheria" dimostra, da ultimo, che a quest'effetto pensano non solo i giornalisti ma anche gli uffici giudiziari, e in particolare le Procure della Repubblica, se è vero che ci si pone il problema se iscrivere o meno una notizia di reato a carico di noti, perché tutti sanno che una indagine del genere può avere un "effetto extra-giudiziario" (e quindi politico e sociale) dirompente. Un Procuratore della Repubblica, questo tipo di problemi, se li pone, tanto che abbiamo assistito - almeno così ci è dato sapere - a scontri all'interno dell'ufficio milanese, in ordine al se iscrivere o non iscrivere (e trasmettere gli atti altrove per competenza) quella notizia di reato: un contrasto che ha a che fare con la sensibilità del singolo magistrato connessa anche all'effetto "extra-giudiziario" di un mero atto.
Non crede che, in questo caso, la sensibilità del singolo magistrato si scontri anche col timore che il dato tecnico-giuridico venga poi strumentalizzato dai canali di informazione?
In effetti, il rischio di strumentalizzazione di una tale notizia è altissimo. Anzi, l'opera di strumentalizzazione può essere considerata pressoché certa...
Mi pare di scorgere, in quest’affermazione, una mancanza di obiettività e lucidità del giornalismo giudiziario italiano.
Ormai ci sono testate che vivono di cronaca giudiziaria "orientata": nel senso che ci sono giornali che si dedicano quasi esclusivamente alla cronaca giudiziaria e la orientano, interpretandola, dando una precisa versione dei fatti in base all’orientamento politico della testata. Ci sono giornali che esistono in quanto c'è una cronaca giudiziaria che ha rilievo politico e quindi la piegano e la interpretano sotto una luce politica.
È normale che sia così?
Secondo me è una degenerazione: è una prosecuzione della lotta politica fatta attraverso l'uso degli atti giudiziari.
Si riferisce alla magistratura?
Prima di dire che i magistrati fanno lotta politica attraverso i loro atti, cosa che bisognerebbe dimostrare, direi, perché mi pare dimostrato, che sono i politici che utilizzano gli atti dei magistrati per fare politica. Invece quando si parla di uso politico della giustizia di solito ci si riferisce ai magistrati: per carità, questo può anche succedere e forse è accaduto, ma penso che in Italia l'uso politico degli atti giudiziari venga fatto principalmente dai politici.
E ciò, peraltro, mi pare emerga anche dall'idea di istituire una "Commissione sull'uso politico della giustizia", come è stato paventato. Tecnicamente poi, la vedo un'idea di difficile esecuzione: su cosa si farebbe l'indagine parlamentare, sulle sentenze? Che cosa si fa, si convocano i magistrati e si chiede perché ha firmato quell'ordinanza o perché e sulla base di quali elementi hanno redatto quella sentenza? Ma come si può pensare una cosa del genere rispettando il principio della separazione dei poteri?
Come sa, quell'idea è figlia delle inchieste che hanno sconvolto la magistratura negli ultimi due anni...
Vedo in giro una grande strumentalizzazione di queste inchieste, che partono dall’ormai noto incontro di consiglieri del Csm con esponenti politici in un albergo romano. Una strumentalizzazione già evidente nella trasformazione di vicende personali in vicende politico-editoriali tese ad orientare in un preciso senso politico i fatti giudiziari, anche di alcuni anni fa. E se queste sono le basi ideologiche della proposta di istituire quella Commissione...
Crede che oggi la comunicazione della giustizia, ed in particolare della giustizia penale, sia corretta e adeguata al periodo storico che viviamo?
La comunicazione in generale delle attività giudiziarie da parte delle procure o altri uffici non può che essere per sua natura inadeguata, strutturalmente inadeguata direi. La comunicazione fatta dalle Procure, o dagli uffici giudiziari, inevitabilmente non può che seguire le regole del codice di procedura penale e degli intenti delle Procure o degli uffici giudiziari: quando accade ci si limita a comunicare la notizia di reato e l'eventuale adozione di provvedimenti. Ma il nostro lavoro, il lavoro dei giornalisti, è spiegare quello che c'è dietro un atto giudiziario, che non è soltanto il fatto giudiziario in sé o il suo risvolto politico, come dicevamo prima, ma anche (senza voler strumentalizzare i fatti) il racconto dei fenomeni che stanno dietro alcuni episodi. Noi attraverso i processi raccontiamo quello che accade in Italia. Questo però non lo può fare un ufficio giudiziario, la cui comunicazione è inevitabilmente stringata, e quindi di per sé inadeguata: l’interpretazione, il racconto spetta alla professionalità dei giornalisti. Io posso utilizzare anche un decreto di archiviazione per descrivere un fatto significativo o esemplificativo di un fenomeno: anche se non si è arrivati ad alcun processo, quell'atto è ugualmente importante e permette a noi giornalisti di interpretare il fenomeno sotteso.
Ravvisa eccessi nelle forme comunicative degli uffici giudiziari?
Per parlare di eccesso nella comunicazione dovrei scendere nel merito dei casi concreti, e poi un giornalista non può essere vincolato ad attenersi o distinguere tra una comunicazione del provvedimento giurisdizionale formalmente corretta ed una che non rispetti le regole "interne", le circolari, le leggi ordinamentali ecc. Cioè, se un giudice legge il dispositivo di una sentenza che ha interesse pubblico perché riguarda un ex ministro, e poi, subito dopo, si fa intervistare da me e rilascia dichiarazioni che in qualche maniera anticipano il contenuto della sentenza che andrà a redigere, io non devo porre il problema se ha fatto bene o ha fatto male, se sta rispettando alla lettera le prescrizioni di legge oppure no. Dalla prospettiva del giornalista , ma direi dell’opinione pubblica, ha fatto bene, perché mi ha spiegato una cosa che è di evidente interesse pubblico, ed io, a mia volta, la rendo fruibile all'opinione pubblica.
È in corso un dibattito sulla compatibilità del principio di innocenza fino a sentenza passata in giudicato con la comunicazione giudiziaria, in specie dopo l'applicazione di misure cautelari. Lei cosa ne pensa?
Questo vorrebbe dire che di certe vicende criminali, di interesse pubblico, non si può dare notizia fino a che non interviene una sentenza passata in giudicato. E prima non se ne deve sapere niente? Mi pare... strano. E' evidente che quella fornita per esempio a seguito di una ordinanza cautelare deve essere una informazione circoscritta a quella che è, una ordinanza di custodia cautelare che evidentemente valorizza per gran parte gli elementi raccolti dall'accusa, senza il contraddittorio e tutto il resto. Questo porta con sé la continenza da parte nostra nel doverlo scrivere e nel dovere essere precisi. E' di nuovo una questione di deontologia professionale.
Spetta a me giornalista ricordare che quella è una ricostruzione necessariamente parziale, perché manca la versione della difesa, e che c'è la presunzione di innocenza, che prima di esprimere un giudizio sulla responsabilità c’è bisogno del vaglio dibattimentale, e tutto il resto. Ma questo è un problema dei giornali e non dei magistrati.
Giovanni Falcone era un grande comunicatore della giustizia e dei fenomeni che combatteva nelle aule d'udienza. Quel tipo di comunicazione della giustizia, pacato e serio, la vede anche oggi? Sarebbe ancora efficace?
C'è da fare una premessa: i tempi di Giovanni Falcone non esistono più, sono molto cambiati. All’epoca c’erano la televisione, i libri e i giornali: e questo era tutto. Adesso esiste il web e la comunicazione social: un fenomeno molto più veloce, che sfugge ad ogni controllo, e molto più complicato da maneggiare. Fare paragoni con quel momento storico è quasi impossibile.
Detto questo, lui viveva in un periodo in cui dare informazioni sulla mafia era vitale per contribuire a sostenere l’opera di contrasto giudiziario a quel fenomeno criminale; Falcone aveva bisogno che i giornali e le tv ne parlassero. Aveva bisogno anche del sostegno della politica (o almeno della non ostilità, per quanto possibile) e dell'opinione pubblica per arrivare ad uno strumentario legislativo adeguato al contrasto del fenomeno (che poi, infatti, si ottenne, soprattutto grazie alla sua opera comunicativa): quindi il fenomeno andava raccontato e andava raccontato bene. Anche perché all’epoca era in atto una controinformazione sull'economia siciliana strozzata dalle indagini o cose simili. Lui aveva necessità di spiegare e raccontare per poter continuare a lavorare.
E oggi?
Difficile vedere qualcuno, oggi, mediaticamente efficace come lui: anche perché lui era efficace nella misura in cui esisteva un vuoto di comunicazione sulla mafia. Quando lui spiega il fenomeno del pentitismo, del tutto nuovo, che mai prima d’allora la giustizia aveva sperimentato, lascia lo spettatore abbacinato, incredulo: perché la figura del collaboratore di giustizia non era mai stata raccontata. E lui la racconta, in tv e sui giornali, perché la politica doveva farsi carico di disciplinare il fenomeno con leggi apposite: e così fu.
Quale potrebbe essere allora, oggi, una comunicazione della giustizia efficace?
Oggi siamo bombardati da informazioni, non sempre utili e non sempre pertinenti; e molte informazioni “orientate” e “sviate”, soprattutto rispetto alla giustizia, come ho detto. Oggi vedo più urgente la necessità di dare una informazione corretta e asciutta per evitare strumentalizzazioni.
Nel mare magnum di notizie non verificabili e di opinioni impazzite, nel generale eccesso di comunicazione insito in tutti gli ambiti e in tutti i settori, l’efficace comunicazione del potere giudiziario è solo quella chirurgica, che eviti al minimo il rischio di confusione e consenta a noi giornalisti di fare bene il nostro lavoro.
Che rapporto ha un giornalista giudiziario con il segreto istruttorio?
Spesso si lavora su notizie coperte ancora da segreto. All’inizio si lavora con piccole informazioni che si costruiscono passo passo. Poi a volte bisogna aspettare, quando capita di avere informazioni che non si possono riportare al momento e bisogna attendere il momento in cui vengono rese ostensibili. Non funziona che uno bussa alla porta, fa la domanda, quelli danno la risposta ed è finita: magari fosse così!
Di solito capita di sapere che c'è una indagine, poi si cerca di saperne qualcosa di più ma spesso e volentieri è impossibile, e comunque molto complicato: la difficoltà del nostro lavoro sta anche nel trattare informazioni che di per sé sono confinate in un circuito “chiuso” come quello del procedimento penale, e allora bisogna cercare di farle uscire - se ostensibili e se di interesse, solo se di interesse pubblico - senza danneggiare l'indagine o il processo, e dopo tutte le verifiche necessarie, avendo la certezza di quello che si scrive.
Quando dice “bussare alla porta”, viene spontanea una domanda, forse troppo personale…
Prego.
Facendo il giornalista di cronaca giudiziaria, talvolta ha la tentazione di voler essere dall'altra parte? Oppure qualche crisi d'identità...
(ride) Io sono contento di aver fatto il giornalista, a volte ho pensato che mi sarebbe piaciuto fare il magistrato, però decidere della libertà delle persone, o anche chiedere di decidere sulla libertà delle persone, mi pare complicato... Ma mi sento ugualmente responsabile dell'informazione che diamo sulle persone, quindi... non è che il peso, la responsabilità di scrivere un articolo che coinvolge la vita di altri sia molto minore. Penso che sono due bei lavori, che talvolta si incrociano, ma che è bene tenere distinti perché sono lavori diversi ed entrambi necessari.
The limits to the freedom of economic initiative in EU: between (absence of) commercial planning and protection of historic Town centers. VII Euro Regione North Adriatic International Colloquium. Trieste, 19 marzo 2021. Report.
Bernardo A. Masso
The logic of the free economic initiative and competition, principles on which the European Union was founded and still followed by the European legislation, evokes the dire necessity of a thorough discussion on how the aforementioned principles should be balanced with the protection of cultural heritage, landscape and historic urban centers. On the issue inferred from this possible friction, the conference, formally hosted by the University of Trieste, held in form of a webinar on the 19th March 2021 - under the supervision of the members of the scientific committee: Prof. Andrea Crismani, Prof. Dario Đerđa, Prof. Marcello M. Fracanzani and Prof. Erik Kerševan - tried answering by collecting, in a certainly worthwhile debate, the different experiences of the administrative legal systems of the northern Adriatic region. In fact each of them presents the mutual need to weigh sheer economic interests and historical, cultural and artistic legacy conservation.
The relevance and the frequency of the issue in the different legal systems, all distinguished by an important historic urban heritage to be preserved, was immediately highlighted in the institutional greetings of the presidents of the administrative Courts of Ljubljana, Jasna Segan, of Rijeka, Alen Rajko, and of Trieste, Oria Settesoldi, including the former president Umberto Zuballi.
The very question at issue concerning the critical relationship between economic activities and protection of cultural heritage was stressed by the introductive speech of the President of the V section of the highest Italian administrative court, the Council of State, Giuseppe Severini.
Pres. Severini pointed out how a common European perspective gives to the closeness of the different systems a legal meaning by harmonizing their legislation and case law, especially in such cases that require a proportional balancing of public interests such as the safeguarding of economic freedom, the interest in proper urban governance through the planning of the material and functional municipal transformation and enhancement, along with the preservation of the cultural assets.
Granted that individual activities and public interest do not always collide and may even support each other, oftentimes their relationship can occur as critical, raising the decisive question of what should be the right balance between these opposing interests and which one should ultimately prevail, thus if a hierarchy can be possibly defined. In this defining balancing it should always be considered that the cultural heritage represents, as a matter of fact, the most fragile interest with an unrepeatable value for society, whereas commercial activities are subject to the inherent dynamism that demands a fast urban development.
From this perspective the issue was subject of attention since the 60’s, as it is confirmed by the Charter of Gubbio of 1960, which develops the Charter of Athens of 1933, and the Italian urban legislation of 1967 that grant special protection to the historic town centers. On one hand, it is thanks to this kind of legislation that Italy was able to display, on average, some of the best preserved historic town centers in Europe, on the other hand the country must now face the growing problem of a relevant desertification of the historic centers, which might entail a certain decay in the long run, especially in terms of “living urbanism” of the same areas, since historic areas cannot provide services to its residents in the same way as newly built neighborhoods.
Indeed the main challenge for the Italian urban system is to adjust the historical identity with the habitability of the urban centers, thus provoking a significant return of residents and supporting, at once, their commercial vocation, of which one of the main aspects is tourism. In fact giving too much space to the commercial offers for tourists would entail a fatal rebound effect on the ordinary habitability of the historic centers. It is important to stress that the administrative courts have performed a great service to avoid this risk, in cases concerning historic city centers of Rome and Florence the case law has favored the “urban decorum” over the interest in starting new private commercial activities.
In order to grant an adequate balance the legislation should take not an episodic approach but a comprehensive one, while the administrative courts should always follow the principle of proportionality taking into account the presence of a hierarchy of the aforesaid concepts, a hierarchy that stems from the unique and fragile essence of the urban historic tangible and intangible heritage.
Similar conclusions can be drawn by the report of Prof. Vera Parisio, from the University of Brescia and general secretary of AIDRU (Association Internationale de Droit de l’Urbanisme), who stressed out how the roots of a necessary, and not equal, balance can be identified in the provision of the Italian Constitution itself, namely in articles 9, which “safeguards natural landscape and the historical and artistic heritage” in the section of the fundamental principles, and 41, which grants private economic freedom in harmony with the “common good”. Provided that a hierarchy can result from the constitutional provisions, it should be considered that if a proportional and reasonable balancing of a public interest with an opposing private one can result in a quite easy outcome in favor of the public one, some care is needed in the case of balancing two public interests. The latter situation has been often matter of judgment before national administrative courts, a clear example of that is the judgment n. 3225/2020 of the Italian Council of State, which tackles the conflict between the general interest to trade and the architectural protection of historic urban heritage.
Given the special conditions of economic crisis due to the pandemic, Prof. Parisio proposes a potential new approach to this topic, which may elicit a new relationship between the duty to preserve the cultural urban heritage and the need to develop commercial activities, a relationship based on synergy rather than conflict and, on this wise, promoting economic activities through the protection of architectural heritage. This may be accomplished thorough different tools already used in the environmental law field, such as taxation and incentives.
In a European perspective Prof. Ana Pošćić, University of Rijeka, has pointed out that the collision between the protection of historic city centers and the economic freedom does not necessarily violate the EU law, which actually accommodates national interests in the protection of historical and artistic heritage by recognizing specific justifications for possible limitations on the freedom to provide services. Nevertheless this balancing may be not so easy and the administrative Croatian case law provides an example: in 2019 the city of Dubrovnik became the first Croatian city to regulate the installation of ATM cash machines in the historic city center (which constitutes a UNESCO heritage site). This regulation entailed the removal of some cash machines and a precise list of esthetic requirements for the ones to be installed. The High Administrative Court of the Republic of Croatia has ruled not to postpone the execution of the municipal regulation, highlighting that the protection of the individual economic interest cannot take precedence over the cultural common good.
In a wider context such a barrier may be considered an obstacle to the freedom to provide services, as granted by the broad definition of “service” given by art. 57 of the Treaty on European Union. However, according to the EU law, restrictions on the freedom to provide services may be justified, among others, for overriding reasons such as the protection of social and artistic heritage. This is clearly stated by the European Court of Justice in the series of cases during late 80’s and 90’s concerning Italy, France, Greece and Spain whose regulations required tourist guides from other countries to possess a specific license that proved their qualification in order to protect the image of the historical and cultural heritage other than the service recipients. The Court confirmed that those grounds could constitute overriding reasons to limit the freedom to provide services, though in those cases the regulations failed to pass the proportionality test since the measure of a license requirement exceeded what was necessary to safeguard those public interests, hence integrating an overly restrictive and disproportionate measure of the market freedom.
In fact, being subject of a relevant liberalization due to the Bolkestein directive, the freedom to provide services entails more difficulties than the other single market freedoms to harmonize the national regulations with the EU law. An accurate, and precious due to its importance in the topic under discussion, analysis of the Internal Market Directive 2006/123/EC was given by Ass. Prof. Adrijana Martinović, University of Rijeka. As a directive, this legislative act is designed to harmonize the legislations of the member states, in particular the Bokestein directive was adopted on a double legal basis, namely the freedom to provide services and the tightly intertwined freedom of establishment.
The Directive lead to a relevant transformation of the regulatory regimes of the member states: it specifically demands administrative simplification and cooperation for the service providers willing to establish into another member state, whereas for the service providers without establishment the Directive allows the host member state to keep certain requirements provided that they are justified, not discriminatory, necessary and proportionate. This resulted into an abandoning of the country of origin principle, according to which it is only the country of origin that has the obligation to exercise control over service providers having their seats in the home territory, inasmuch as another member state must not interfere in the process recognizing the legitimacy of the services.
On a closer scrutiny of the regulation for the establishment of service providers, member states may impose certain barriers to the freedom to provide service only for overriding reasons related to public interest and provided that they comply with the test of proportionality. The Directive envisages innovative tools such as a peer review of the national legislations in which each member State is able to assess possible justifications and the proportionality of their regulation on requirements for service providers.
Granted the legal definition of “requirement” given by art. 4 par. 7 (“any obligation, prohibition, condition or limit provided for in the laws, regulations or administrative provisions of the Member States or in consequence of case-law, administrative practice, the rules of professional bodies, or the collective rules of professional associations or other professional organizations, adopted in the exercise of their legal autonomy”), a list of “suspicious requirements” that needs to be evaluated as to their compatibility with the Directive is included in art. 15. According to the Court of Justice, this provision has direct effects on the legal system of the member states, since it imposes a sufficient precise and unconditional obligation on the member States.
These requirements must correspond with overriding reasons related to public interest that may in fact justify restrictions. Those are indicated in art. 4 par. 8, and they include “the conservation of the national historic and artistic heritage”. It is important to highlight that the discipline of articles 14 (which indicates prohibited requirements in any case), 15 and 9 (which regulate the possibility for a member state to make access to a service activity subject to an authorization scheme) applies also to purely internal situations concerning national service providers, since it is part of Chapter III of the Directive which establishes a regulatory regime for all service providers. For the sake of completeness, it is crucial to note that zoning and urban regulation can easily be subject to the scrutiny of the Court of Justice on the account of the Service Directive. This is proved by the Visser case, a leading case concerning municipal zoning rules and retail activities considered to be included in the discipline of the Directive.
Therefore it is possible to affirm that the protection of cultural and historical urban heritage can constitute an overriding reason to set barriers to economic activities not only according to the Treaties, but also under the Directive 2006/123/EC, even though some critical aspects may arise by the different discipline concerning transnational service providers.
From an Italian perspective Prof. Anna Simonati, University of Trento, pointed out a “double soul” of the Italian statutes in the friction between economic activities and historical protection: indeed the Italian legislation seems on one hand to prohibit any activity incompatible with the protection of the cultural value of the historic city centers, on the other hand some commercial activities deemed as traditional are subject themselves of a special preservation. The relevant liberalization carried out by the law decree n. 1/2012 includes possible, and proportional, limits on economic activities if based on a public interest, besides the legislative decree n. 114/1998 provides the possibility for the Regions to issue general guidelines for commercial activities in such wise.
Art. 52 of the Code of the Cultural and Landscape Heritage also gives the possibility to identify specific municipal areas deemed to have archaeological, historical, artistic, or landscape value, where commercial activities can be limited. It is a matter of interest to point out that after a later amendment, the legal provision also grants the possibility to take positive measures to preserve traditional activities that are entwined with the cultural identity of the area, hence proving a special attention also for the immaterial value of cultural identity. This is one of the many examples in the Italian legislation that show the aforementioned “double approach”: protection through prohibition on one hand, positive measures on the other. It is not farfetched to notice this attention to the immaterial value of the cultural heritage in the administrative case law, especially in the decisions concerning the renewal of licenses for certain economic activities rooted in a specific municipal area.
It is crucial to face some critical points of the Italian statutes, like the absence of a legal definition of “historic urban center”: in fact a significant complexity may arise by the different definitions given by soft law acts (such as the Charter of Gubbio), by the civil and administrative case law, administrative acts and Regional sources, which, moreover, have to cope with divergent issues concerning historic urban centers, such as desertification or gentrification.
The Italian overview was completed by the presentation of President Marco Lipari, Council of State, focusing on the Italian administrative case law which reveals the need for a reasonable balance between the protection of the cultural value and the economic freedom. These principles can be inferred from European sources such as the Court of Justice case law, the European Landscape Convention (or Florence Convention) and especially the Convention on the Value of Cultural Heritage for Society (or the Faro Convention), both of them Council of Europe treaties. These documents preserve cultural and historical identity as part of fundamental human rights, in particular in the context of the individual right to freely take part into the cultural life of the community. Notably the Faro Convention provides a broader understanding of cultural heritage in the relationship with the communities.
It is of the utmost utility to analyze the Italian case law citing some of the most relevant judicial examples on the topic, since, in the Italian experience, the relationship between economic activities and public interest causes a vast litigation. A relevant case is the one concerning the renewal of the concessions of some municipality buildings in the notorious Milan gallery. The decision of the Milan municipality to hold a public tender, supported by an opinion of the National Anticorruption Authority (ANAC), in order to grant the maximal economic competition was later canceled by the Administrative Regional Tribunal of Lombardy and confirmed by the Council of State with the judgment n. 5157 of the 3rd September 2018.
This decision identifies an accurate limit on the principle of economic competition deriving from the system, even in the absence of a specific written rule and recognizes the prevalence of the cultural value. The same decision also considers the limit on private economic initiative for cultural interest with a particular broad definition that includes the individual protection of outgoing operators, but also the public interest related to the destination of the assets. According to the judgment the cultural and historical value must be deemed as a utility itself, regardless any economic considerations.
The decision resumes a principle expressed by the EU Court of Justice with the decision of the 24th March 2011 C-400/08, according to which public administrations are allowed to regulate economic activities even trough authorizations, namely preventive control of the activities.
It is not easy, especially in Italy, to balance the economic vocation of historic urban areas, particularly concerning tourism, with the protection of the historic heritage. Specific legislative measures are necessary in order to weigh the different interests at stake in different economic sectors, especially to avoid the loss of historical identity in those areas that also comprise traditional activities. In fact specific and traditional activities have been defined as “cultural assets” by the administrative case law and by Regional statutes too.
Other cases confirmed the legitimacy of measures that limited economic freedom on account of a prevailing public interest stemming from the conservation of “urban decorum”. This approach may also be noted into certain legislative acts like the legislative decree n. 222 of 2016, which granting a considerable liberalization of the economic activities enlists some cases related to the historic value of some areas worthy of a special protection, without this resulting into a crystallization of the commercial activities. This kind of regulation indeed may also be found in other European metropolitan urban centers such as Paris or London.
The discussion was enhanced by the perspective from another EU member State, Slovenia, thanks to the presentation of Cons. Borut Smrdel, judge of the Administrative Court of the Republic of Slovenia. As to the answer to the question whether economic freedom may be limited on the grounds of public interests, and especially the concern to protect historic town centers, specific administrative case law in Slovenia is actually missing. Nevertheless, in an inevitable theoretical approach, it is worth mentioning the Slovenian legal regime for the land planning and the protection of cultural heritage.
The main law regulating land planning in Slovenia is the “Spatial planning act”, according to which the State is responsible for preparing the state spatial plan, whereas the municipalities keep the competence to regulate the municipal and inter-municipal plans. This legislative act stresses the importance to take into consideration the “identity of the space” due to specific geographical, cultural-historical, social, economic and other conditions of development.
Specific provisions in the Slovene legal system are also included in the “Cultural Heritage Protection Act” which covers registered heritage, national treasures, monuments, heritage sites and archaeological remains. Monuments of national importance are declared as such by government decrees, while monuments of local importance are subject to an act of proclamation that consists in a decree of the representative body of the province or the municipality and comprises the reasons justifying the proclamation and the specific protection regime. Any intervention on monuments or heritage sites must obtain a “cultural protection consent” from the body responsible for the preservation of cultural heritage, unless it is urgent, immediately necessary to avoid an unforeseeable danger or damage.
The presentation proceeded with the analysis of the specific spatial planning of Ljubljana, whose goal is to preserve, protect and restore the historic city, especially the areas of cultural monuments and other cultural heritage. It should be considered that the city’s regulation permits interventions in space and spatial arrangements if they contribute to the permanent preservation of heritage and increase its value. The provisions define “interventions” as any works, activities and actions that affect the protected values due to which a building or an area acquired the special protection status. These regulations result in some requirements in the dimension, the materials, the construction design and the appearance of the protected assets. The city of Ljubljana has also identified certain areas as “characteristic” - namely areas distinguished by rich cultural heritage as well as areas of particular urban-architectural quality recognized by planning instruments - that are worthy of a special protection, and so granting, as a matter of fact, different levels of preservation to cultural assets.
According to this legislation, it is reasonable to believe that limitations on economic activities would occur if they affected specific historic areas. Public calls for tenders concerning the lease of public areas for economic activities often comprise specific criteria in order to favor participants that prove to better preserve the tradition and the cultural identity of the area.
The presentation of Cons. Hrvoje Miladin, Judge of the Administrative Court in Zagreb and long-term exchange participant at the European Court of Justice, focused on the European overview of the issue, specifically the ECJ’s practice regarding the application of the Service Directive, hence the landmark decision of 30th January 2018 regarding the Visser case (joined cases C-360/15 and C-31/16), which deals with fundamental questions regarding the scope of the directive 2006/123 and the interpretation of the concept “services”.
The judicial question regarding the interpretation of the Service Directive was referred to the European Court by the Dutch Council of State, the highest administrative court in Netherlands. Visser is a company that owns commercial premises in the commercial area of Woonplein, outside the historic center of the municipality of Appingedam (north-east Netherland). According to the zoning plan of the municipality, Woonplein was designated as an area for the exclusive retail trade in bulky goods, such as furniture and cars. The zoning plan did not allow Visser to let its commercial property to a shoe and clothing retailer, since this retailer did not sell bulky goods.
Visser disputed that, in regulating so, the municipality plan breached the Service Directive violating the principle of freedom of establishment. The Council of State of Netherlands referred questions of interpretation of the Directive to the ECJ for a preliminary ruling. To the question whether a shoe and clothing retail may be qualified as a “service” within the meaning of the Directive, the European court replied that the activity of retail trade in goods such as shoes and clothing falls within the scope of the concept of “service” within the meaning of art. 4 of that Directive, since the rules of the zoning plan regard not the goods as such, but concern the conditions governing the access to the service activities. The decision has also answered to other important interpretative questions: the European judges stated that protection of the urban environment can be considered an overriding reason of public interest that may justify restrictions on commercial activities and, moreover, that the Directive also applies to merely domestic situations in which service providers are willing to establish in their own country. Cons. Miladin has underlined the practical meaning of such a statement, it is in fact reasonable to think that this could lead more service providers to challenge local regulations in purely internal situations. The conclusion of the ECJ were widely supported by the opinion of the Advocate General.
Cons. Miladin proceeded focusing on Croatian legislation that includes specific statutes like the “Act on the Protection and Preservation of Cultural Goods”, which similarly to the abovementioned legislation, regulates the intervention on historic assets and is intently implemented by the administrative national courts.
The conference was concluded by the presentation of Prof. Erik Kerševan, University of Ljubljana and judge of the Slovenian Supreme Court, who has stressed the complexity of the protection of heritage pursued by different levels of regulation, national and European, in the constant weighing of conflicting values and interests. The main question whether it should be the legislation or the administration to resolve these balancing issues remains open.
In this context, it is duty of the administration to identify problems - that is in other terms to identify values - hence define policies, which is of the utmost importance in case of conflicting interests. These decisions are shaped into normative acts, from European legislation to municipal regulation, that set abstract rules with a wide margin of discretion for the legislator. The following administrative acts do not deal with policies, but instead they rule certain specific cases and they are legally bound acts. To determine if a decision that grants protection to cultural and historic heritage is a legislative or an administrative act entails important consequences, for instance the jurisdiction of administrative courts.
This was the issue arisen in the Slovenian legal system and resolved by the Constitutional Court in 2012 (U-I-144/12, 18th October 2012), which affirmed the nature of administrative decision rather than a normative act of the declaration of a national monument that recognizes a special protection as heritage. As such this kind of declarations should be adjudicated by administrative courts.
It remains to be asked what the role of administrative justice is then. In this delicate area, where interests and values collide, the judges are facing an enormous task, indeed if the questions of protection of heritage are dealt with administrative acts, and not normative ones, there arises the need to rule on their validity and, in order to do so, it is necessary to go into the core not only of the legislation but into the very core of values. In this way a priority of values and interests is set, however, in the opinion of Prof. Kerševan, these kind of conflicts should be resolved by the policy makers, not by the administration nor by the judges.
It is also unanswered the question whether there should be an absolute discretion left to the administration concerning the decision to protect something as heritage stemming from the highly technicality of the decision, which falls outside the scope of the judicial review, or it should rather be considered a legal reasoning that a judge could examine in detail.
These questions, which regard vital sectors and values of the European legal systems, prove that the topic constitutes still an open issue and deserves to be studied in order to fully determine what direction the European member states are willing to pursue in order to preserve their historical identity and not hinder economic growth.
Per installare questa Web App sul tuo iPhone/iPad premi l'icona.
E poi Aggiungi alla schermata principale.