ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
La concessione della Certosa di Trisulti al Dignitatis Humanae Institute. Autotutela e “anestetizzazione” del termine per provvedere (nota a Consiglio di Stato, Sez. VI, 15 marzo 2021, n. 2207)
di Veronica Sordi
Sommario: 1. Il caso. – 2. Le concessioni di beni e l’assoggettabilità all’esercizio del potere di autotutela dell’Amministrazione. – 3. Sul concetto di “dichiarazioni false o mendaci”. – Il possibile effetto “anestetizzante” del Capo VI d.P.R. n. 445/2000 (e dell’art 21 l. n. 241/90) sull’art. 21-nonies l. n. 241/1990.
1. Il caso
La pronuncia che si annota interviene su una vicenda che ha avuto una notevole eco mediatica (la destinazione della Certosa di Trisulti a scuola del sovranismo europeo) e merita di essere segnalata per le argomentazioni svolte dal giudice amministrativo con riferimento (i) all’applicabilità delle - rigorose - disposizioni previste dal Codice dei contratti per l’affidamento di servizi e forniture alle concessioni di beni; (ii) al concetto (fortemente dibattuto) di “dichiarazioni false o mendaci”; e infine (iii) al complesso rapporto del d.P.R. n. 445/2000 (e dell’art. 21, co. 1, l. n. 241/90) con l’art. 21-nonies l. n. 241/1990.
Il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo aveva infatti indetto una procedura selettiva per la concessione in uso di alcuni beni immobili appartenenti al demanio culturale dello Stato, ad esito della quale la Certosa di Trisulti veniva data in concessione alla Dignitatis Humanae Institute, associazione vicina all’ideologo Steve Bannon. A causa della carenza dei requisiti originari prescritti dall’avviso pubblico di selezione (oltre che per asserite inadempienze della concessionaria agli obblighi assunti), a distanza di due anni, il Ministero annullava in autotutela il decreto con il quale era stata approvata la graduatoria della selezione, nonché tutti gli atti conseguenti, ivi compreso il contratto di concessione. L’associazione, quindi, impugnava tale determina, che veniva annullata dal giudice di prime cure. Avverso siffatta decisione il Ministero proponeva appello al Consiglio di Stato, il quale riformava la decisione del TAR.
2. Le concessioni di beni e l’assoggettabilità all’esercizio del potere di autotutela dell’Amministrazione.
La sentenza, dopo aver precisato che la concessione per la cura e lo sfruttamento (i.e. la gestione) di un bene culturale demaniale costituisce un atto autoritativo con il quale, all’esito di un procedimento amministrativo di tipo selettivo, l’amministrazione concedente individua il soggetto al quale rilasciare la concessione, ha evidenziato che la stipula della convenzione tra amministrazione e privato costituisce il momento civilistico della seconda fase dell’operazione, ossia il momento nel quale concedente e concessionario disciplinano gli aspetti operativi della gestione del bene demaniale. In altre parole, secondo l’impostazione del g.a. la fase civilistica “non avrebbe vita autonoma senza la definizione della fase pubblicistica e, anzi, è strettamente condizionata dalla validità ed efficacia delle scelte effettuate dall’amministrazione concedente nella fase autoritativa di individuazione del concessionario … Nell’operazione di rilascio della concessione di beni coesistono, pertanto, un atto amministrativo unilaterale, con il quale l’amministrazione dispone di un proprio bene in via autoritativa e una convenzione attuativa, avente ad oggetto la regolamentazione degli aspetti patrimoniali, nonché dei diritti e obblighi delle parti connessi all'utilizzo di detto bene, elementi, questi, entrambi necessari ai fini della costituzione del rapporto concessorio”. Quindi, nel caso in cui venga accertata l’illegittimità del provvedimento concessorio e una volta che si sia proceduto al suo annullamento (in sede giudiziale o in sede amministrativa tramite lo strumento dell’autotutela), l’effetto patologico di tale illegittimità, in ragione dell’”intimo rapporto di causa-effetto che intercorre tra fase amministrativa e fase civilistica”, pervade - inevitabilmente - il contratto, provocando la decadenza dal beneficio ottenuto dal privato.
3. Sul concetto di “dichiarazioni false o mendaci”.
Prima di entrare nel merito della questione, occorre ricordare che nella specie l’associazione appellata aveva conseguito un vantaggio economico, ossia l’assegnazione di un bene demaniale culturale (la Certosa di Trisulti), all’esito di una selezione, tramite concessione, sulla scorta di dichiarazioni rese al momento della presentazione della domanda di partecipazione, poi dimostratesi non veritiere. Il giudice di prime cure, pur non ignorando tale circostanza, aveva comunque ritenuto che l’amministrazione avrebbe potuto annullare il provvedimento soltanto all’esito del giudizio penale (e quindi dopo il passaggio in giudicato della relativa sentenza) – eventualmente – avviato nei confronti del dichiarante. Tale impostazione non è stata condivisa dal Consiglio di Stato sulla scorta di diverse ragioni. Il Collegio ha, in primo luogo, richiamato l’orientamento espresso dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza 25 settembre 2020 n. 16 con riferimento agli obblighi dichiarativi dei concorrenti nell’ambito della (diversa e specifica) disciplina del codice dei contratti pubblici di appalto e concessione di lavori, servizi e forniture, rilevando che le informazioni rese da un concorrente nell’ambito di una procedura selettiva ben possono essere false o fuorvianti, nonché dirette e in grado di sviare l’amministrazione nell’adozione dei provvedimenti concernenti la procedura selettiva medesima. In secondo luogo, ha evidenziato che in presenza di un margine di apprezzamento discrezionale riservato all’amministrazione (la quale è tenuta ad accertare i presupposti di fatto e a svolgere le proprie valutazioni di carattere giuridico), “la demarcazione tra informazione contraria al vero e informazione ad essa non rispondente ma comunque in grado di sviare la valutazione dell’amministrazione diviene da un lato difficile, con rischi di aggravio della procedura di gara e di proliferazione del contenzioso ad essa relativo, e dall'altro lato irrilevante rispetto al disvalore della fattispecie, consistente nell’attitudine delle informazioni a sviare l’operato della medesima amministrazione”. Il giudice d’appello ha di conseguenza affermato che “la considerazione della dichiarazione in termini omissivi o non veritieri, per poter condurre all’esclusione dalla selezione (ovvero, come nel caso di specie, laddove la scoperta della inadeguatezza della dichiarazione rispetto alle regole di partecipazione alla selezione sia successiva all’adozione del provvedimento conclusivo e quindi conduca al suo annullamento in autotutela), deve essere ricondotta dall’amministrazione nell’ambito di un contraddittorio tra l’amministrazione procedente e il concorrente, solo all’esito del quale l’amministrazione potrà stabilire se l’informazione è effettivamente falsa o fuorviante, se inoltre la stessa era in grado di sviare le proprie valutazioni ed infine se il comportamento tenuto dal concorrente abbia inciso in senso negativo sulla sua integrità o affidabilità partecipativa. Del pari l’amministrazione dovrà stabilire allo stesso scopo se quest'ultimo ha omesso di fornire informazioni rilevanti, sia perché previste dalla legge o dalla normativa della selezione, sia perché evidentemente in grado di incidere sul giudizio di integrità ed affidabilità”. Fatta questa premessa di ordine generale, il Collegio ha avuto peraltro specificamente e opportunamente cura di sottolineare che, nel caso di specie, (i) la non veridicità delle dichiarazioni poggiava su dati di realtà non opinabili, ossia su dimostrazioni documentali di insussistenza dei requisiti richiesti dalla procedura di selezione; (ii) prima di adottare il provvedimento di annullamento in autotutela l’amministrazione aveva svolto un’apposita istruttoria coinvolgendo pienamente l’associazione appellata, consentendole quindi di contraddire su ogni carenza riscontrata dall’amministrazione in ordine ai requisiti di partecipazione dichiarati ma la cui sussistenza non era stata confermata – al termine della verifica successiva all’esito della selezione – dalla documentazione ricevuta; (iii) quindi, la insussistenza dei requisiti di partecipazione in capo all’associazione al momento della presentazione della domanda (il 16 gennaio 2017) era dimostrata dalla non veridicità delle dichiarazioni rese ai sensi del d.P.R. n. 445/2000. In altre parole, il Consiglio di Stato, sulla scorta dell’insegnamento desunto dall’Adunanza plenaria nella richiamata sentenza n. 16/2020 (che – come già ricordato – era stata pronunciata con riferimento alla selezione dei contraenti nell’ambito di una procedura ad evidenza pubblica), ha ritenuto che nel caso in cui la fallace dichiarazione abbia inciso sul rilascio del provvedimento amministrativo, “è del pari congruo che il termine “ragionevole” (massimo di 18 mesi) decorra solo dal momento in cui la pubblica amministrazione abbia appreso tale non veridicità”. Tale interpretazione però non trova conferma nel dato testuale dell’art. 21-nonies l. n. 241/90 e sembra contravvenire allo spirito del legislatore che, già dal 2004 – e, quindi, ancora prima della riforma Madia del 2015 – aveva tentato di dare una precisa delimitazione temporale al potere dell’Amministrazione di intervenire in autotutela sui propri provvedimenti, proprio allo scopo di bilanciare l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata e l’esigenza del privato destinatario del provvedimento a conservare la propria posizione soggettiva (ci si riferisce, in particolare, all’art. 1, co. 136, l. n. 311/2004, ai sensi del quale “L'annullamento … di provvedimenti incidenti su rapporti contrattuali o convenzionali con privati deve tenere indenni i privati stessi dall'eventuale pregiudizio patrimoniale derivante, e comunque non può essere adottato oltre tre anni dall'acquisizione di efficacia del provvedimento, anche se la relativa esecuzione sia perdurante”). E ha circoscritto l’inapplicabilità del limite temporale all’ipotesi in cui il provvedimento amministrativo venga conseguito “sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell'atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato”. La “terza via” percorsa dal Consiglio di Stato – rinvio del dies a quo all’accertamento amministrativo dell’illecito – al di là della sua possibile ragionevolezza, non è contemplata da alcuna disposizione di legge.
4. Il possibile effetto “anestetizzante” del Capo VI d.P.R. n. 445/2000 (e dell’art. 21 l. n. 241/90) sull’art. 21-nonies l. n. 241/1990.
Sotto altro profilo, nella ricerca di un autonomo punto di equilibrio tra le contrapposte esigenze rappresentate dagli artt 19, 21 e 21-nonies l. n. 241/90 (M.A. Sandulli, La semplificazione nella produzione documentale mediante le dichiarazioni sostitutive di atti e documenti e l’acquisizione d’ufficio (art. 18 l. 241 del 1990 s.m.i. e d.P.R. n. 445 del 2000), in Principi e regole dell’azione amministrativa, 2021, 181 ss.; Id., Basta norme-trappola sui rapporti tra privati e Pa o il Recovery è inutile, in Il Dubbio, 7 maggio 2021), il Consiglio di Stato si è spinto ad affermare che la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 21-nonies, comma 1, l. n. 241/1990, tenuto conto della portata degli artt. 3 e 97 Cost., porterebbe ad affermare che “il limite temporale dei 18 mesi, introdotto nel 2015, in ossequio al principio del legittimo affidamento con riguardo alla posizione di colui che ha ottenuto un provvedimento autorizzatorio o di attribuzione di vantaggi economici, è dedicato dal legislatore e, quindi, trova applicazione, solo se il comportamento della parte interessata, nel corso del procedimento o successivamente all’adozione dell’atto, non abbia indotto in errore l’amministrazione distorcendo la realtà fattuale oppure determinando una non veritiera percezione della realtà o della sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge e se grazie a tale comportamento l’amministrazione si sia erroneamente determinata (a suo tempo) a rilasciare il provvedimento favorevole. Nel caso contrario, non potendo l’ordinamento tollerare lo sviamento del pubblico interesse imputabile alla prospettazione della parte interessata, non può trovare applicazione il limite temporale di 18 mesi oltre il quale è impedita la rimozione dell’atto ampliativo della sfera giuridica del destinatario”. Nella fattispecie de qua, pertanto, secondo il Collegio, trovano contemporanea applicazione l’art. 21-nonies, comma 1, l. 241/1990 e l’art. 75, comma 1, d.P.R. n. 445/2000, per il quale, in forza del principio di autoresponsabilità, (i) al privato è precluso trarre vantaggi da dichiarazioni obiettivamente non rispondenti al vero e (ii) l'amministrazione è vincolata ad assumere le conseguenti determinazioni, senza alcun margine di discrezionalità e, addirittura, prescindendo dal profilo soggettivo del dolo o della colpa del dichiarante. La sentenza, peraltro, proprio in merito alle suddette norme, ha rilevato che “il rapporto osmotico [che viene ad instaurarsi tra esse]… è tale che la seconda [l’art. 75 d.P.R. n. 445/2000] incide sulla prima [l’art. 21-nonies l. 241/90] anestetizzando l’applicazione del termine di diciotto mesi per l’esercizio del potere di autotutela. Le due norme, dunque, non sono antitetiche tra di loro, ma trovano il punto d’incontro nel principio per il quale l’affidamento va garantito solo se è legittimo e se quindi il provvedimento favorevole non è stato acquisito coartando o inquinando o (ancora) deviando la volontà dell’amministrazione attraverso non veritiere rappresentazione della realtà, sia con la produzione di documentazione fuorviante che con la predisposizione di dichiarazioni dal contenuto omissivo ovvero non rispondente a quanto era richiesto di dichiarare”. Il punto critico è però che il Collegio, per un verso, richiama il principio di autoresponsabilità e “sfrutta” la clausola di salvezza delle “sanzioni penali, nonché delle sanzioni previste dal capo VI del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445”, verosimilmente frutto di un refuso e, per l’altro, non senza contraddizioni, assume l’irrilevanza dell’elemento soggettivo.
La sentenza (al di là del risultato raggiunto) mette in luce l’assoluta urgenza di risolvere il problema dei rapporti dell’art. 21-nonies l. n. 241/90 con il Capo VI del d.P.R. n. 445/2000, nonché con l’art. 21, co.1, l. n. 241/90 (laddove dispone che “Con la segnalazione o con la domanda di cui agli articoli 19 e 20 l’interessato deve dichiarare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti. In caso di dichiarazioni mendaci o di false attestazioni non è ammessa la conformazione dell’attività e dei suoi effetti a legge o la sanatoria prevista dagli articoli medesimi ed il dichiarante è punito con la sanzione prevista dall’articolo 483 del codice penale, salvo che il fatto costituisca più grave reato”).
Con specifico riferimento al rapporto tra gli artt. 21, co.1, e 21-nonies l. n. 241/90, l’interrogativo che dottrina e giurisprudenza si pongono è se il limite temporale imposto dall’art. 21-nonies debba operare anche rispetto agli interventi posti in essere in forza dell’art. 21, co. 1, cit., ovvero se tale ultima previsione debba costituire (invece) una ulteriore eccezione al limite dei 18 mesi previsti dal 21-nonies, quale deroga aggiuntiva rispetto a quella individuata dal co. 2-bis della medesima disposizione. La permanenza del suddetto quesito ha indotto autorevole dottrina a rilevare l’assoluta necessità di un intervento legislativo teso a rimuovere “l’errore” compiuto dal legislatore del 2015 di non modificare l’art. 21, co.1 in linea con le ragioni che avevano ispirato il medesimo ad abrogare il secondo comma dell’art. 21 e di introdurre rigorosi limiti al potere di rimuovere con effetto ex tunc i titoli e i benefici acquisiti ai sensi degli artt. 19 e 20 l. n. 241/90. A tal proposito, occorre ricordare che la Commissione speciale istituita presso il Consiglio di Stato, nei pareri nn. 839 e 1784 del 2016 (sui c.d. d.lgs. SCIA 1 e SCIA 2), guardando proprio alla ratioposta a fondamento della riforma (ossia garantire la stabilità del titolo del privato tramite l’abrogazione del co. 2 dell’art. 21 e l’introduzione del co. 2-bis all’art. 21-nonies), nel rilevare la distonia della scelta riformistica di mantenere inalterato il suddetto art. 21, co.1, aveva sin da subito evidenziato che se effettivamente il legislatore avesse voluto individuare una deroga ulteriore rispetto a quella prevista dal co. 2-bis dell’art. 21-nonies, avrebbe dovuto precisare “quali [fossero] i poteri ulteriori esercitabili ex art. 21, co. 1, rispetto a quelli di intervento ex post alle condizioni dell’art. 21-nonies (...)”.
È innegabile quindi che la perdurante (e inalterata) vigenza dell’art. 21, co. 1, l. n. 241/90, oltre a determinare un’insostenibile confusione di sistema (soprattutto se si guarda alle disposizioni di cui agli artt. 19 e 21-nonies), rappresenta un “pericolo” per il privato:
(i) non solo perché siffatta norma, così come il Capo VI del d.P.R. n. 445/2000, viene utilizzata dalla giurisprudenza non soltanto nelle ipotesi di non veridicità documentalmente dimostrata – come nel caso della sentenza in commento – ma anche, come spesso accaduto, a fronte di meri errori di diritto e comunque di dichiarazioni in cui l’assoluta non veridicità non sia riconducibile alla formula “vero-falso”, ma risulti invece opinabile, con la conseguenza che ogni disposizione tesa a limitare il potere dell’amministrazione di intervenire in autotutela su propri provvedimenti per vizi originari di legittimità (compresa, da ultimo, la previsione di cui all’art. 2, co. 8-bis l. n. 241/90 introdotta dall’art. 12 d.l. n. 76/2020 conv. nella l. n. 120/2020) sarà di fatto “anestetizzata”;
(ii) ma soprattutto perché la lettura combinata del primo periodo di essa (“l’interessato deve dichiarare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti”) con il secondo (“In caso di dichiarazioni mendaci o di false attestazioni … il dichiarante è punito con la sanzione prevista dall’articolo 483 del codice penale”) comporta l’inaccettabile equiparazione dell’errore di diritto al “falso ideologico in atto pubblico”, oltre che una (assurda) disparità tra la posizione del privato, esposto al rischio di una condanna ai sensi dell’art. 483 c.p. nel caso in cui erri nell’interpretare le norme di legge, e quella del funzionario pubblico, che risulterà, invece, esonerato dalla responsabilità, laddove incorra in meri errori di diritto.
Quanto illustrato mostra chiaramente la più volte richiamata urgenza di un intervento legislativo che, tra le tante, chiarisca (i) se la locuzione “per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato” debba riferirsi anche alle “false rappresentazioni dei fatti”; (ii) che l’errore di diritto non può essere ricondotto alle “false rappresentazioni dei fatti”; e (iii) in caso di esito negativo della prima domanda, che i 18 mesi possano essere superati, al di là delle condanne penali passate in giudicato, soltanto nelle fattispecie in cui il “falso” della dichiarazione si evinca con immediatezza dal contrasto di essa con dati di realtà oggettivi, quali quelli risultanti da pubblici registri.
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Per un maggiore approfondimento dei temi trattati si vedano in giurisprudenza, ex multis: Cons. Stato, Sez. III, 8 luglio 2020 n. 4392, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Sez. V, 16 marzo 2020 n. 1872, ivi; Cons. Stato, Sez. IV, 17 maggio 2019 n. 3192, in dejure.it, Id., 24 aprile 2019 n. 2645, ivi; Cons. Stato, Sez. V, 27 giugno 2018 n. 3940, in www.giustizia-amministrativa.it; Cons. Stato, Ad. plen., 17 ottobre 2017 n. 8, in questa Riv. giur. edil., 2017, 5, I, 1089 (nota di N. Posteraro). Da ultimo, Corte cost., 16 aprile 2021 n. 68, in Il quotidiano giuridico, (che ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 30, comma 4, l. n. 87 del 1953, “in quanto interpretato nel senso che la disposizione non si applica in relazione alla sanzione amministrativa accessoria della revoca della patente di guida, disposta con sentenza irrevocabile ai sensi dell’art. 222, comma 2, cod. strada” e) le cui argomentazioni e conclusioni, anche alla luce dei recenti interventi legislativi, non sembra che possano trovare spazio rispetto ai benefici incisi da misure sanzionatorie di carattere interdittivo.
In dottrina, si rinvia a M.A. Sandulli, Basta norme-trappola sui rapporti tra privati e Pa o il Recovery è inutile, in questa rivista 10 maggio 2021; Id., Autodichiarazioni e dichiarazione "non veritiera", in questa Rivista, 15 ottobre 2020; Id., La semplificazione nella produzione documentale mediante le dichiarazioni sostitutive di atti e documenti e l’acquisizione d’ufficio (art. 18 l. 241 del 1990 s.m.i. e d.P.R. n. 445 del 2000), in Principi e regole dell’azione amministrativa, 2020, 181 ss.; Id., La “trappola” dell’art. 264 "decreto Rilancio” per le autodichiarazioni. Le sanzioni nascoste, in questa Rivista, 2 giugno 2020; Id., Controlli sull’attività edilizia, sanzioni e poteri di autotutela, in www.giustizia-amministrativa.it, nel quale si denuncia l’assoluta incertezza e il caos generato dalla disciplina in tema di autocertificazioni e di esercizio del potere dell’autotutela soprattutto nella materia edilizia; Id., L’autotutela perde i limiti temporali imposti dalla «Madia», in Il sole 24 ore, 9 luglio 2018; M.A. Sandulli, G. Strazza, L’autotutela tra vecchie e nuove incertezze: l’Adunanza Plenaria rilegge il testo originario dell’art. 21-nonies, l. n. 241 del 1990, in S. Toschei (a cura di), L’attività nomofilattica del Consiglio di Stato, Roma, 2019; M. Sinisi, Il potere di autotutela caducatoria (artt. 21-quinquies e 21-nonies l. n. 241 del 1990 s.m.i.), in M.A. Sandulli (a cura di) Principi e regole dell’azione amministrativa, 2020, 421 ss.; G. Strazza, I “tempi” dell’annullamento d’ufficio (Nota a C.g.a.r.s., sez. I, 26 maggio 2020, n. 325), in Giustizia insieme, 24 giugno 2020; C. Deodato, L’annullamento d’ufficio, in M.A. Sandulli (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2017, 1177; Id., Il potere amministrativo di riesame per vizi originari di legittimità, in federalismi.it, 22 marzo 2017; A. Gualdani, Il tempo nell’autotutela, in Federalismi.it, 12, 2017; C.P. Santacroce, Annullamento d’ufficio e tutela dell’affidamento dopo la legge n. 124 del 2015, in Dir. e proc. amm., 2017, 1145 ss..
Presunzione di “protezione equivalente”, accertamento delle condizioni di detenzione e tutela dei diritti fondamentali nell’esecuzione del mandato di arresto europeo: la Corte di Strasburgo detta le regole
(Nota a Corte EDU, Sez. V, 25 marzo 2021, Bivolaru e Moldovan c. Francia, nn. 40324/16 e 12623/17)
di Gaetano De Amicis
Abstract
La Corte EDU si è pronunciata in relazione ad caso avente ad oggetto due mandati esecutivi di arresto europeo richiesti dalla Romania alla Francia nei confronti di due cittadini rumeni condannati in absentia, stabilendo i seguenti principî: a) nell'adempimento dei loro obblighi internazionali gli Stati contraenti restano comunque vincolati al rispetto degli obblighi stabiliti dalla CEDU; b) se l'organizzazione internazionale in questione (nel caso in esame, l'Unione europea) conferisce ai diritti fondamentali (nel caso in esame, il divieto di subire trattamenti inumani o degradanti negli istituti di pena dello Stato di emissione) un livello equivalente o comparabile di protezione rispetto a quello ad essi garantito dalla CEDU, le misure adottate per adempiere quegli obblighi internazionali devono ritenersi giustificate; c) l'applicabilità della “presunzione di protezione equivalente” si fonda sui due presupposti dell’assenza in capo alle autorità nazionali di margini discrezionali in relazione all'adempimento dell’obbligo internazionale e della piena attuazione del potenziale del meccanismo di vigilanza e controllo sul rispetto dei diritti fondamentali all’interno dell'organizzazione; d) il principio del riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie nell'Unione europea non può essere applicato in modo automatico e meccanico a discapito dei diritti fondamentali; e) qualora la regola basata sulla presunzione di protezione equivalente sia in concreto configurabile, la CEDU verifica se le modalità di applicazione dello strumento di riconoscimento reciproco renda manifestamente carente o meno la tutela dei diritti convenzionali; f) tali principî non si applicano solo al mandato d'arresto europeo, ma anche a tutti i meccanismi euro-unitari di riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie.
Sommario: 1. Il caso. – 2. La ratio decidendi. – 3. I precedenti giurisprudenziali in ordine al mandato di arresto europeo. - 4. I precedenti giurisprudenziali in ordine alle procedure di estradizione ed espulsione. – 5. La decisione. – 6. Mutuo riconoscimento e presunzione di protezione equivalente nel “dialogo” fra le Corti sovranazionali. – 7. L’accertamento delle condizioni di detenzione nello Stato di emissione del mandato di arresto europeo e i presupposti di opponibilità del motivo di rifiuto. – 8. Il progressivo adeguamento della giurisprudenza di legittimità.
1. Il caso.
Con la sentenza in esame[1] la Corte EDU si è pronunciata su due ricorsi aventi ad oggetto la consegna disposta a seguito della emissione di due mandati esecutivi di arresto europeo richiesti dalla Romania alla Francia nei confronti di due cittadini rumeni (Codrut Moldovan e Gregorian Bivolaru) rispettivamente condannati, il primo, alla pena di sette anni e mesi sei di reclusione per il reato di traffico di esseri umani, ed il secondo, in possesso dello status di rifugiato politico in Svezia, alla pena di sei anni di reclusione per reati in materia sessuale[2].
A fronte di m.a.e. emessi per l’esecuzione di condanne definitive emesse in absentia, le autorità giudiziarie francesi hanno accolto entrambe le richieste sulla base di differenti percorsi procedimentali.
Per quel che attiene alla posizione del Moldovan, condannato nel 2015 per il reato di traffico di esseri umani dalla Romania alla Francia ed ivi posto in stato di arresto, era stata contestata l’esecuzione del m.a.e. allegando il fatto che in Romania egli avrebbe subito una detenzione in condizioni incompatibili con le garanzie previste dall’art. 3 CEDU: le autorità francesi, dopo aver richiesto informazioni supplementari ed assicurazioni sul punto alla Romania, avevano disposto l’esecuzione del m.a.e. respingendone il ricorso per cassazione.
Nei confronti del Bivolaru, invece, dopo il suo arresto a Parigi, il m.a.e. era stato contestato allegando in particolare la natura politica della condanna e il rischio di subire trattamenti contrari all’art. 3 CEDU per ragioni discriminatorie di ordine politico e religioso; dal 2005, infatti, egli aveva ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato da parte della Svezia.
Ciò nonostante, anche il suo ricorso veniva respinto dalla Corte di cassazione francese, che ne disponeva la consegna alla Romania in esecuzione del m.a.e.
Dinanzi alla Corte EDU entrambi i ricorrenti hanno dedotto la violazione dell’art. 3 CEDU per effetto dell’esecuzione del m.a.e. emesso nei loro confronti, contestando il fatto che le Autorità giudiziarie francesi, nell’eseguire le rispettive “eurordinanze” rumene, non avevano tenuto conto dei rischi individuali di esposizione a trattamenti inumani e degradanti negli istituti penitenziari dello Stato richiedente, con riferimento alla prospettata violazione del parametro convenzionale stabilito dalla su indicata disposizione. Nel caso del Bivolaru, in particolare, il ricorso veniva incentrato anche, e soprattutto, sul problema legato all’apprezzamento delle conseguenze legate allo status di rifugiato concessogli da un altro Paese membro dell’Unione europea.
2. La ratio decidendi
Richiamata preliminarmente la sua consolidata elaborazione giurisprudenziale in merito alle condizioni di applicazione della presunzione di protezione equivalente nelle questioni relative all’applicazione degli strumenti normativi propri del diritto dell’Unione europea[3], la Corte EDU ne ha vagliato le implicazioni con riferimento al caso in cui nell’esecuzione di un m.a.e. entrino in giuoco i profili attinenti alle condizioni di detenzione degli istituti penitenziari dello Stato di emissione.
Secondo i principi generali al riguardo enunciati nella sentenza Bosphorus, poi sviluppati dalla Corte di Strasburgo nelle sentenze Michaud e Avotiņš, nell'applicare il diritto dell'Unione europea gli Stati contraenti rimangono soggetti agli obblighi liberamente assunti nell’aderire alla Convenzione: siffatti obblighi, tuttavia, devono essere valutati rispetto ai presupposti della presunzione di protezione cd. “equivalente”, vale a dire in termini non identici ma "paragonabili" a quelli assicurati dalla Convenzione.
Entro tale prospettiva, afferma la Corte, una misura adottata con la finalità di adempiere agli obblighi giuridici internazionali (nel caso di specie quelli derivanti dall’adesione dei predetti Stati parti all’Unione europea) può ritenersi giustificata solo se l’organizzazione in questione accordi ai diritti fondamentali un livello di protezione comparabile a quello garantito dalla Convenzione europea e, se ciò accade, deve presumersi che gli Stati parti rispettino i requisiti della Convenzione quando eseguono gli obblighi giuridici derivanti dalla loro appartenenza a quell’organizzazione.
Il compito della Corte, in particolare, consiste nel verificare se le condizioni per l’applicazione della presunzione di protezione equivalente siano state soddisfatte nelle circostanze del caso concreto, accertando se in sede di esecuzione di un mandato di arresto europeo sia riscontrabile o meno una manifesta inadeguatezza dei meccanismi di protezione dei diritti e delle garanzie convenzionali.
Ove tali condizioni non risultino integralmente soddisfatte, la Corte deve esaminare il modo in cui l’autorità giudiziaria di esecuzione ha concretamente proceduto nella trattazione del caso, al fine di accertare l’esistenza di un rischio reale e concreto di violazione dei diritti protetti dalla Convenzione in sede di esecuzione di un mandato europeo di arresto.
Nel sistema UE le condizioni per l’applicazione della presunzione di protezione equivalente sono di duplice ordine: a) l’assenza di qualunque margine di discrezionalità in capo alle autorità statali; b) la massima espansione delle potenzialità inerenti al meccanismo di controllo previsto dal diritto dell’Unione.
Ora, i principi enunciati nella giurisprudenza della Corte europea si applicano a tutti i meccanismi di mutuo riconoscimento previsti dal diritto dell'Unione europea e la presunzione di protezione equivalente è considerata senz’altro applicabile quando le autorità nazionali attuano il diritto euro-unitario senza margini di apprezzamento discrezionale, ma la stessa può essere superata all’esito di una complessiva delle circostanze rilevanti in un caso concreto: pur dovendo tener conto, infatti, delle modalità di funzionamento dei meccanismi del mutuo riconoscimento, e in particolare della loro esigenza di effettività, la Corte deve verificare che il principio del mutuo riconoscimento delle decisioni giudiziarie non sia applicato in maniera automatica e meccanica, a discapito dei diritti fondamentali.
Solo un’adeguata protezione dei diritti tutelati dalla Convenzione conferisce a questo meccanismo la sua piena efficacia, sicchè se dinanzi alle autorità nazionali viene presentata una censura seria e motivata di manifesta insufficienza della tutela di un diritto garantito dalla Convenzione e il diritto dell'UE non consenta di porvi rimedio, esse non possono rinunciare all'esame di tali doglianze per il solo motivo che sono tenute ad applicare la normativa euro-unitaria. In questo caso, dunque, spetta ad esse interpretare ed applicare tale normativa in conformità con la Convenzione[4].
Ove la presunzione di protezione equivalente sia applicabile nel caso sottoposto alla sua cognizione, è compito della Corte europea stabilire se la protezione dei diritti garantiti dalla Convenzione risulti viziata nel caso di specie da una insufficienza “manifesta”, come tale idonea a rovesciare il fondamento di tale presunzione, nel qual caso il rispetto della Convenzione come “strumento costituzionale dell'ordine pubblico europeo" nel campo dei diritti umani dovrebbe prevalere sull'interesse della cooperazione internazionale (cfr. sent. Bosphorus, § 156, e Michaud, § 103).
3. I precedenti giurisprudenziali in ordine al mandato di arresto europeo
La Corte ha inoltre richiamato i principi ricavabili dalla sua elaborazione giurisprudenziale in relazione ai casi che hanno avuto ad oggetto l’applicazione della decisione quadro sul mandato di arresto europeo.
Nella su citata sentenza relativa al caso Pirozzi[5], richiamata l'importanza dei meccanismi di riconoscimento reciproco per la costruzione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia e della fiducia reciproca che essi richiedono fra gli Stati membri dell’Unione europea, la Corte ha affermato che, salva la presenza di motivi ostativi, l'esecuzione del m.a.e. è obbligatoria per l'autorità giudiziaria dell'esecuzione, ciò che determina l'applicazione della presunzione di tutela equivalente (§§ 66 e 71).
Nel sottolineare che tale autorità aveva, nel caso di specie, verificato che l'esecuzione del m.a.e. non aveva dato luogo ad una situazione di manifesta insufficienza di tutela dei diritti garantiti dalla Convenzione, la Corte ha osservato che, valutato in questi termini, il sistema previsto dalla richiamata decisione quadro di per sé non entra in conflitto con il quadro delle garanzie convenzionali.
Nella sentenza Romeo Castaño[6], inoltre, la Corte ha affermato che il rifiuto di eseguire un m.a.e. sulla base del fatto che la consegna solleverebbe delle preoccupazioni circa un rischio di violazione dei diritti fondamentali della persona ricercata può essere ritenuto contrario all'obbligo procedurale di cooperazione stabilito dall’art. 2 della Convenzione quando il vaglio della relativa condizione ostativa non riposi su una sufficiente base fattuale.
Entro tale prospettiva essa ha ribadito che, in sede di esecuzione di un m.a.e., il meccanismo di riconoscimento reciproco non dovrebbe essere applicato in maniera automatica e meccanica a discapito dei diritti fondamentali, sicchè un rischio di trattamento inumano e degradante della persona di cui viene richiesta la consegna può costituire un motivo legittimo per rifiutarne l'esecuzione, a condizione che l'accertamento di tale rischio si fondi su basi fattuali sufficientemente solide. Spetta all'autorità giudiziaria di esecuzione svolgere un esame dettagliato e aggiornato della situazione concreta, al fine di stabilire se esista o meno un rischio reale e individualizzato di violazione dei diritti protetti dalla Convenzione a causa delle specifiche condizioni di detenzione previste per la persona richiesta in consegna dallo Stato di emissione.
4. I precedenti giurisprudenziali in ordine alle procedure di estradizione ed espulsione
La Corte ha infine richiamato i principi generali affermati in relazione al tipo di controllo che essa stessa è chiamata ad espletare in ordine al rispetto dell'art. 3 della Convenzione in caso di estradizione o di espulsione del ricorrente nel suo Paese di origine.
Al riguardo, infatti, la giurisprudenza della Corte è orientata a ritenere che gli Stati parti hanno l'obbligo di non estradare una persona verso un Paese che ne chiede l'estradizione, qualora sussistano motivi seri e comprovati per ritenere che la stessa, se estradata nel Paese di destinazione, andrà incontro ad un rischio reale di essere sottoposta ad un trattamento contrario ai divieti posti dall'art. 3 CEDU[7].
A tale proposito, la Corte ha ritenuto opportuno fare riferimento ai principi generali applicabili nel contesto, sia pure diverso, dell’espulsione ed ha ribadito che spetta in linea di principio al ricorrente produrre elementi di prova atti a dimostrare che esistono seri motivi per ritenere che, se la misura controversa venisse attuata, egli sarebbe esposto ad un rischio reale e concreto di un trattamento contrario alle richiamate garanzie convenzionali; qualora tali prove siano prodotte, spetta al Governo fugare qualsiasi dubbio che al riguardo possa sorgere[8].
5. La decisione
Applicando tali parametri ai casi devoluti alla sua cognizione, la Corte EDU è pervenuta a soluzioni differenti, assumendo costantemente come punti fermi nelle sequenze del suo percorso argomentativo i principi affermati nella più recente elaborazione giurisprudenziale della Corte di giustizia in merito al rapporto fra il divieto – omologo all’art. 3 CEDU - posto dall’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali (secondo cui Nessuno può essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti inumani o degradanti) ed il concerto funzionamento del sistema di consegna post-estradizionale fondato sulla Decisione quadro in tema di mandato di arresto europeo.
5.1. In relazione al primo ricorso, ha preliminarmente rammentato che l’obbligo giuridico per l’autorità giudiziaria che esegue il m.a.e. discende dalla decisione quadro 2002/584/GAI del 13 giugno 2002, così come interpretata dalla Corte di giustizia UE sin dalla sua sentenza Aranyosi e Căldăraru del 5 aprile 2016, e che, allo stato attuale della giurisprudenza di tale Corte, all’autorità giudiziaria dell’esecuzione è consentito derogare solo in circostanze eccezionali ai principi di fiducia e riconoscimento reciproci tra gli Stati membri rinviando o addirittura rifiutando, se del caso, l’esecuzione del m.a.e.
Verificata la sussistenza nel caso di specie dei presupposti di applicabilità della presunzione di protezione equivalente, la Corte ha rilevato che, sulla base dell’esame dei fatti e delle allegazioni offerte dal primo ricorrente, l’autorità giudiziaria di esecuzione disponeva di solidi elementi fattuali per riconoscere la sussistenza di un rischio reale che egli, in caso di consegna, potesse subire trattamenti inumani e degradanti a causa delle condizioni di detenzione cui sarebbe stato sottoposto in Romania, sicchè non avrebbe dovuto basarsi esclusivamente sulle dichiarazioni delle autorità rumene.
Sebbene il ricorrente avesse prodotto prove di carenze sistemiche e diffuse nelle carceri dello Stato di emissione, ivi compreso l’istituto ove le autorità di emissione intendevano collocarlo, le autorità di esecuzione hanno escluso la presenza di un rischio di violazione della garanzia prevista dall’art. 3 CEDU, senza esaminare in maniera adeguata: a) il fatto che, secondo la sua giurisprudenza[9], il limite di 3 mq di superficie calpestabile per detenuto in una cella multipla costituisce lo standard minimo applicabile ai fini dell'art. 3 della Convenzione (laddove nel caso in esame la risposta delle Autorità rumene, che consideravano a tal fine anche la presenza di mobili e servizi igienici, era indicativa del fatto che quello spazio minimo non gli sarebbe stato concesso); b) il fatto che le assicurazioni fornite dalle Autorità rumene in merito agli altri aspetti delle condizioni di detenzione nel carcere ove avrebbe dovuto scontare gran parte della pena risultavano formulate in modo stereotipato e non erano state apprezzate ai fini della valutazione del rischio da parte dell'autorità giudiziaria competente per l'esecuzione; c) la circostanza che, se anche le Autorità dello Stato di emissione non avevano escluso la possibilità che il ricorrente venisse trattenuto in un carcere diverso da quello indicato, le precauzioni al riguardo assunte dall'autorità giudiziaria dell'esecuzione, sotto la forma di una raccomandazione che il ricorrente doveva esser detenuto in una prigione in grado di offrire condizioni identiche, se non migliori, erano comunque insufficienti per escludere la presenza di un rischio reale di trattamenti inumani e degradanti.
Alla luce delle particolari circostanze del caso in esame, dunque, la Corte ha concluso rilevando una manifesta inadeguatezza della protezione dei diritti fondamentali, in termini tali da confutare la presunzione di protezione equivalente, con il conseguente accertamento della violazione dell’art. 3 Cedu.
5.2. In relazione al secondo ricorso, invece, la Corte ha ritenuto che l'autorità giudiziaria dello Stato di esecuzione, dopo aver svolto un esame approfondito e completo della situazione personale del ricorrente, non era in possesso di una base fattuale sufficientemente solida per ritenere l’esistenza di un rischio reale di violazione dell’art. 3 della Convenzione e rifiutare, sulla base di tale motivo, l’esecuzione del m.a.e.
Preliminarmente, tuttavia, la Corte di Strasburgo ha esaminato il profilo di doglianza concernente il vaglio in concreto effettuato dalle Autorità francesi circa lo status di rifugiato concesso, e non revocato, al ricorrente da un altro Stato membro UE (la Svezia), escludendo l’operatività del principio di protezione equivalente sul rilievo che le Autorità di esecuzione avevano respinto la domanda di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia per chiedere chiarimenti sul rapporto tra la disciplina del m.a.e. e lo status di rifugiato riconosciutogli da un Paese membro dell’Unione: questione, quella ora indicata, che la Corte di Strasburgo ha considerato rilevante sia sul versante della protezione dei diritti fondamentali da parte del sistema euro-unitario, sia su quello della interrelazione con la tutela offerta dall’art. 33, § 1, della Convenzione di Ginevra del 1951, trattandosi di un aspetto sul quale la Corte di giustizia non risultava essersi pronunciata.
Nel caso in esame, dunque, la Corte di cassazione francese, decidendo di non attivare il meccanismo del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia sulle implicazioni sottese all'esecuzione di un m.a.e. emesso nei confronti di una persona in possesso dello status di rifugiato - status concesso, peraltro, da uno Stato membro al cittadino di un Paese terzo, la Romania, successivamente divenuto Stato membro dell’Unione - si era pronunciata senza utilizzare l’intero potenziale del meccanismo internazionale disponibile per le garanzie di controllo del rispetto dei diritti fondamentali.
Di qui il radicamento della competenza della Corte EDU ai fini del controllo sul modo in cui l'autorità giudiziaria di esecuzione aveva proceduto nel caso di specie, così da accertare se esistesse o meno il rischio che, in caso di esecuzione del m.a.e., il ricorrente sarebbe stato esposto a trattamenti persecutori in ragione delle proprie convinzioni politiche e religiose: controllo che le autorità di esecuzione avevano in effetti svolto scambiando le opportune informazioni con le autorità svedesi, le quali avevano a loro volta risposto in merito allo status di rifugiato del ricorrente, chiarendo che intendevano mantenerlo, senza tuttavia esprimersi in merito alla persistenza, dieci anni dopo la sua concessione, del rischio di persecuzione nel suo Paese d'origine.
Alcun elemento sintomatico, tuttavia, emergeva dal dossier esaminato dall'autorità giudiziaria di esecuzione, ovvero dal materiale offerto dal ricorrente alla Corte, in ordine alla effettiva sussistenza di un rischio di persecuzione in conseguenza della sua consegna alla Romania.
Sotto tale profilo, pertanto, la Corte ha concluso il suo ragionamento osservando che le autorità giudiziarie di esecuzione avevano verificato l’assenza di motivi discriminatori legati alla richiesta di esecuzione del m.a.e. sulla base di un esame approfondito e completo della situazione personale del ricorrente, mostrando attenzione allo status derivante dalla sua posizione di rifugiato.
Con riguardo al diverso, ma connesso, profilo di doglianza inerente alla verifica delle condizioni di detenzione in Romania, il ricorrente si era invece limitato a formulare generiche doglianze, senza offrire specifici riferimenti alla situazione e alle condizioni degli istituti penitenziari nello Stato di emissione, sicché l’autorità giudiziaria di esecuzione non disponeva di sufficienti elementi di prova al riguardo.
A fronte di tale evenienza, in definitiva, la Corte ha ritenuto che la descrizione - fornita dal ricorrente all’autorità giudiziaria di esecuzione - delle condizioni di detenzione nelle carceri rumene non fosse sufficientemente dettagliata né approfondita, con il conseguente rilievo dell’assenza delle condizioni ostative necessarie per opporre il rifiuto del m.a.e., la cui esecuzione, in questo caso, non ha determinato alcuna violazione del diritto previsto dall’art. 3 CEDU.
6. Mutuo riconoscimento e presunzione di protezione equivalente nel “dialogo” fra le Corti sovranazionali
Particolarmente rilevante deve ritenersi il quadro dei principi affermati dalla Corte EDU con la decisione in commento, che si segnala non solo per la volontà di avviare un fruttuoso dialogo con la Corte di giustizia sulle tematiche “sensibili” dei rapporti fra l’esecuzione del m.a.e. e le condizioni di detenzione dei diversi sistemi nazionali, ma anche, e soprattutto, per un primo tentativo di razionale ed equilibrata sistemazione delle complesse relazioni fra l’applicazione delle garanzie fondamentali della CEDU e i concreti meccanismi di funzionamento degli strumenti normativi euro-unitari in materia di cooperazione giudiziaria penale.
Un catalogo di principi e di indicazioni operative, quello delineato dalla Corte, che può sinteticamente riassumersi come segue: a) nell'adempimento degli obblighi internazionali gli Stati contraenti restano comunque vincolati al rispetto degli obblighi stabiliti dalla Convenzione; b) se l'organizzazione internazionale in questione (nel caso in esame, l'Unione europea) conferisce ai diritti fondamentali un livello equivalente o comparabile di protezione rispetto a quello ad essi garantito dalla CEDU, le misure adottate per adempiere quegli obblighi internazionali devono ritenersi giustificate; c) l'applicabilità della presunzione di protezione equivalente si fonda sui due presupposti dianzi richiamati (l’assenza in capo alle autorità nazionali di margini discrezionali in relazione all'adempimento dell’obbligo internazionale; la piena attuazione del potenziale del meccanismo di vigilanza e controllo sul rispetto dei diritti fondamentali all’interno dell'organizzazione); d) il principio del riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie nell'UE non può essere applicato in modo automatico e meccanico a discapito dei diritti fondamentali; e) qualora la regola basata sulla presunzione di protezione equivalente sia in concreto configurabile, la CEDU verifica se le modalità di applicazione dello strumento di riconoscimento reciproco renda manifestamente carente o meno la tutela dei diritti convenzionali; f) tali principi non si applicano solo al mandato d'arresto europeo, ma anche a tutti i meccanismi euro-unitari di riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie.
Il tema dei rapporti fra il sistema dei controlli attivabili sulla base della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e l’Unione europea rappresenta da tempo uno degli snodi più delicati nel rapporto fra l’elaborazione giurisprudenziale della Corte EDU e della Corte di giustizia[10]. La CEDU, infatti, non esclude né limita la partecipazione dei propri Stati parti alle organizzazioni internazionali attraverso le quali si realizza la cooperazione internazionale, ma al contempo sottolinea il fatto che la qualità di membro di un’organizzazione internazionale non fa venir meno gli obblighi che derivano dall’adesione alla Convenzione.
In applicazione di tali principi, la Corte di Strasburgo, muovendo dal presupposto che il sistema euro-unitario offre una protezione dei diritti umani “equivalente” a quella prevista dalla CEDU, ha costruito le basi della c.d. “presunzione Bosphorus”, secondo cui opera, per lo Stato la cui condotta costituisce adempimento di un obbligo derivante dalla propria appartenenza all’organizzazione internazionale, la presunzione che tale condotta sia anche convenzionalmente conforme.
Tale accertamento si basa sull’esistenza, nell’ambito dell’Unione europea, non solo di garanzie sostanziali ma anche di meccanismi procedurali di controllo della loro osservanza, che offrono una tutela equivalente a quella prevista dalla CEDU. Per “equivalent”, tuttavia, la Corte ha precisato, nella sentenza Bosphorus, che la protezione si intende “comparable”, not “identical” e la presunzione di conformità che ne consegue è suscettibile di prova contraria qualora, nelle specifiche circostanze del caso concreto, sia accertato che la protezione dei diritti è stata “manifestly deficient” (§156).
Nel successivo caso Michaud, la Corte EDU ha ulteriormente chiarito che l’operatività della presunzione è subordinata a due condizioni: l’assenza di qualunque margine di discrezionalità per lo Stato membro nell’adempimento dell’obbligo che deriva dal diritto UE (condizione che tipicamente sussiste nel caso dei regolamenti e manca invece rispetto alle direttive o ad altri strumenti come le decisioni quadro) e lo spiegamento, nella vicenda concreta, del pieno potenziale dei meccanismi di tutela giurisdizionale esistenti a livello UE (con una particolare sottolineatura, rispetto a questi ultimi, del ricorso in via pregiudiziale alla Corte di giustizia).
Dal canto suo, la Corte di giustizia ha da sempre riconosciuto l’importanza centrale che il sistema convenzionale riveste per la protezione dei diritti umani nell’ambito dell’ordinamento (dapprima comunitario, ora euro-unitario) sia quale fonte di ispirazione dei “principi generali” che continuano a far parte del diritto dell’Unione (ex art. 6, par. 3, TUE), sia per la determinazione del significato e della portata dei diritti, previsti dalla Carta dei diritti fondamentali, corrispondenti a quelli garantiti dalla CEDU (ex art. 52 CFUE).
L’aspetto più problematico di tale ricostruzione è stato ravvisato, tuttavia, nel fatto che essa tende ad affievolire il ruolo della Corte EDU di garante del rispetto dei diritti umani negli Stati membri dell’UE. Se ciò, per un verso, può apparire giustificato sulla base del rilievo che l’Unione europea assicura autonomamente, anche sul piano giurisdizionale, la tutela dei diritti garantiti dalla CEDU e che, in generale, è ragionevole presumere che i diritti fondamentali, ivi incluse le garanzie del giusto processo, siano rispettati, per altro verso, tale soluzione non appare necessitata quando lo Stato convenuto agisce in adempimento di un obbligo di mutuo riconoscimento, nonostante la protezione sia, in linea di principio, equivalente[11].
Nel sistema euro-unitario il principio del mutuo riconoscimento impone agli Stati membri di assumere automaticamente che i diritti umani siano rispettati anche negli altri ordinamenti interni. L’applicazione della presunzione Bosphorus in questo contesto consente (ed anzi impone) allo Stato – in ipotesi – convenuto dinanzi alla Corte EDU di non verificare il rispetto di tali diritti nello Stato di origine, ciò che è contrario all’oggetto e lo scopo della CEDU, la cui funzione fondamentale è di assicurare non una tutela teorica o illusoria, ma “pratica ed effettiva” dei diritti fondamentali.
Ed è proprio in questa problematica intersezione che la posizione assunta dalla Corte EDU con la richiamata sentenza Avotins segna un punto a favore del meccanismo di controllo interno attivabile dinanzi alla Corte di giustizia e la Corte di Strasburgo sembra cedere il passo, forse nel timore di rompere l’equilibrio dei rapporti fra le due Corti sovranazionali[12].
Con la pronuncia in esame, tuttavia, la Corte EDU sembra voler fare un passo in avanti nell’affermazione del grado di intensità del controllo sulla comparazione delle rispettive forme di tutela dei diritti fondamentali, poiché, da un lato, ha affermato con chiarezza che gli Stati membri UE devono rispettare le garanzie convenzionali quando applicano gli strumenti del riconoscimento reciproco, dall’altro lato ha indicato le modalità del controllo attivabile in relazione alla regola della presunzione di protezione equivalente, riconoscendo per la prima volta che la stessa può essere in concreto superata a causa di una manifesta carenza di tutela nell'applicazione del m.a.e. come strumento di riconoscimento reciproco[13].
7. L’accertamento delle condizioni di detenzione nello Stato di emissione del mandato di arresto europeo e i presupposti di opponibilità del motivo di rifiuto
Un ulteriore profilo di interesse della decisione in esame può cogliersi in relazione alle modalità di valutazione delle condizioni di detenzione riscontrabili negli istituti penitenziari dello Stato di emissione ai fini della opponibilità del correlativo motivo di rifiuto della consegna, poiché se la Corte EDU conviene con l'approccio seguito dalla Corte di Lussemburgo là dove entrambe richiedono l’accertamento di un rischio reale e individualizzato di violazione del diritto fondamentale a non subire un trattamento inumano e degradante in conseguenza della consegna, per altro verso essa non segue necessariamente l’approccio basato sul percorso bifasico inaugurato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia con la menzionata decisione Aranyosi e Căldăraru.
Strettamente connessa a tale rilievo è la rilevante affermazione secondo cui la CEDU agisce quale punto di riferimento nelle ipotesi ritenute non coperte dall’applicazione della presunzione di protezione equivalente (nel caso di specie, a causa della mancata formulazione, da parte della Corte di cassazione francese, di una domanda di rinvio pregiudiziale alla Corte UE su questioni rilevanti quali quelle relative alle implicazioni, ai fini dell’esecuzione del m.a.e., della concessione dello status di rifugiato ad opera di un altro Stato membro UE): in tali evenienze, infatti, il criterio basato sulla “manifesta insufficienza” di tutela viene considerato irrilevante.
Nel sistema di consegna post-estradizionale istituito dalla decisione quadro relativa al mandato di arresto europeo, fondato, come è noto, sul principio del riconoscimento reciproco (considerando 6, art. 82, par. 1, TFUE), mentre l'esecuzione del m.a.e. rappresenta la norma (art. 1, par. 2), il rifiuto di darvi esecuzione rappresenta l'eccezione.
L’opposizione del rifiuto, che potrebbe aumentare il rischio di impunità e compromettere la sicurezza dei cittadini, nonché la protezione delle vittime dei reati, può essere presa in considerazione, in via di principio, solo nelle circostanze di cui agli artt. 3, 4 e 4 bis della decisione quadro. Sebbene non sia previsto un motivo di rifiuto legato alle violazioni dei diritti fondamentali, la decisione quadro non ha l'effetto di modificare l'obbligo degli Stati membri di rispettare i diritti e i principi fondamentali sanciti dall'arti. 6 TUE e dalla Carta dei diritti fondamentali (art. 1, par. 3, considerando 12 e 13).
Al riguardo, infatti, una consolidata linea interpretativa della Corte di giustizia[14] ha riconosciuto che l'autorità giudiziaria dell'esecuzione, in circostanze eccezionali e a determinate condizioni, può rifiutare di dare esecuzione ad un m.a.e. laddove sussista un rischio reale che la consegna dell'interessato possa portare a trattamenti inumani o degradanti ai sensi dell'art. 4 della Carta, a causa delle condizioni di detenzione nello Stato emittente, ovvero ad una violazione del diritto fondamentale ad un giudice imparziale sancito dall'art. 47, secondo comma, della Carta, a causa di preoccupazioni in merito all'indipendenza della magistratura nello Stato emittente.
Alle autorità giudiziarie competenti per l’esecuzione è dunque affidato il difficile compito di trovare, caso per caso, una equilibrata soluzione al conflitto tra il principio del riconoscimento reciproco e la tutela dei diritti fondamentali.
Per quel che attiene, in particolare, alla protezione da trattamenti inumani o degradanti, il divieto posto dall'art. 4 della Carta ha carattere assoluto in quanto è strettamente connesso al rispetto della dignità umana di cui all'art. 1 della Carta, uno dei valori fondamentali dell'Unione e dei suoi Stati membri, come stabilito dall'articolo 2 TUE.
Come dianzi accennato, la valutazione, al riguardo, va effettuata in due fasi: a) le autorità competenti per l’esecuzione del m.a.e. devono avere accesso ad informazioni obiettive, attendibili, specifiche e debitamente aggiornate al fine di stabilire, in una prima fase, se, per quanto riguarda le condizioni di detenzione, nello Stato membro emittente sussistano carenze sistemiche o generalizzate, oppure carenze che colpiscono determinati gruppi di persone o taluni centri di detenzione; b) nella seconda fase della valutazione, esse, ai sensi dell'art. 15, par. 2, della decisione quadro, devono ricevere tutte le informazioni necessarie in ordine alle condizioni nelle quali è concretamente previsto che la persona interessata venga detenuta nello Stato membro emittente, così da poter verificare se sussistano motivi seri e comprovati per ritenere che, se consegnata, tale persona correrebbe un rischio reale di subire un trattamento inumano o degradante.
8. Il progressivo adeguamento della giurisprudenza di legittimità
La giurisprudenza di legittimità si è prontamente adeguata alle indicazioni al riguardo offerte dalla Corte di Lussemburgo, stabilendo che, una volta accertata, attraverso l’acquisizione di documenti affidabili, l'esistenza di un generale rischio di trattamento inumano da parte dello Stato membro, va verificato se, in concreto, la persona oggetto del m.a.e. potrà essere sottoposta ad un trattamento inumano: a tal fine l’autorità giudiziaria può richiedere allo Stato emittente qualsiasi informazione complementare necessaria e dovrà rinviare la propria decisione sulla consegna fino a quando non ottenga, entro un termine ragionevole, notizie che le consentano di escludere la sussistenza del rischio, pronunziando, in caso negativo, una decisione allo stato degli atti[15].
Nelle ipotesi in cui non emerga una situazione di pericolo “attuale”, la Corte di cassazione ha ritenuto legittima la consegna senza la preventiva necessità di informazioni individualizzanti[16].
Per quel che attiene alle informazioni provenienti dallo Stato di emissione circa il regime carcerario riservato al consegnando, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che lo Stato di esecuzione, in conformità̀ con i principi del mutuo riconoscimento, deve limitarsi a “prenderne atto”[17].
Più di recente si è precisato che, alla luce della evoluzione giurisprudenziale registrata nei più recenti indirizzi interpretativi della Corte di giustizia (Grande Sezione, 15 ottobre 2019, Dorobantu, C – 128/19 e Prima Sezione, 25 luglio 2018, Generalstaatsanwaltschaft, C-220/18), qualora lo Stato emittente abbia fornito assicurazioni che la persona interessata non subirà un trattamento inumano e degradante, l’autorità giudiziaria dello Stato di esecuzione può rifiutare di eseguire la richiesta solo quando, sulla base di elementi precisi, riscontri comunque il pericolo che le condizioni di detenzione siano contrarie all’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali UE[18].
Si è altresì affermato che sono inammissibili critiche al sistema carcerario estero meramente esplorative, ovvero non sostenute dalla allegazione di attendibili e qualificate fonti in ordine alla sussistenza della carenza denunciata[19].
La questione delle condizioni in cui versano gli istituti penitenziari dello Stato di esecuzione non può essere in ogni caso proposta per la prima volta in sede di ricorso per cassazione, in quanto la necessità di attività istruttoria è incompatibile con la competenza attribuita alla Corte di cassazione: la previsione di legge del ricorso per cassazione “anche per il merito” attribuisce alla Corte di cassazione la possibilità̀ di verificare gli apprezzamenti di fatto operati dal giudice della consegna, ma non le conferisce poteri di tipo sostitutivo o integrativo e tanto meno istruttorio, a fronte di carenze documentali ed informative su aspetti determinanti ai fini della consegna e della giurisdizione dello Stato italiano[20].
8.1. Sulla nozione di “spazio minimo detentivo”, inoltre, la Corte di cassazione ha rammentato che per spazio minimo in una cella collettiva deve intendersi quello in cui il soggetto detenuto abbia la concreta possibilità̀ di muoversi[21].
Muovendo da tale considerazione di ordine generale si è affermato, ai fini della determinazione dello spazio individuale minimo intramurario, pari o superiore a tre metri quadrati da assicurare ad ogni detenuto affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, stabilito dall'art. 3 CEDU, che devono essere detratte dalla superficie lorda della cella l'area destinata ai servizi igienici e quella occupata da strutture tendenzialmente fisse, tra cui il letto, ove questo assuma la forma e struttura "a castello", e gli armadi, appoggiati o infissi stabilmente alle pareti o al suolo, mentre non rilevano gli altri arredi facilmente spostabili.
Resta fermo, in ogni caso, che lì dove la superficie così calcolata scenda al di sotto dei tre metri quadrati ciò non integra di per sè la violazione del parametro convenzionale, bensì la "strong presumption" di trattamento contrario ai contenuti dell'art. 3 CEDU, che, a determinate condizioni, viene ritenuta bilanciabile[22].
In tale prospettiva è stato da ultimo affermato che la circostanza che lo spazio disponibile per ciascun detenuto in regime di detenzione cd. “chiuso” sia temporaneamente di poco inferiore al limite dei tre metri quadri (nella specie mq. 2,83) non comporta il rischio di un trattamento carcerario inumano o degradante, in presenza della concreta operatività di fattori compensativi che rendano le condizioni della detenzione conformi agli standards convenzionali[23].
8.2. Una linea interpretativa, quella dianzi citata, che le Sezioni Unite hanno di recente accolto ed ancor meglio precisato[24], affermando il principio secondo cui nella valutazione dello spazio individuale minimo di tre metri quadrati, da assicurare ad ogni detenuto affinché lo Stato non incorra nella violazione del divieto di trattamenti inumani o degradanti, stabilito dall'art. 3 della Convenzione EDU, così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU, si deve avere riguardo alla superficie che assicura il normale movimento nella cella e, pertanto, vanno detratti gli arredi tendenzialmente fissi al suolo, tra cui rientrano i letti a castello.
Al riguardo, in particolare, le Sezioni Unite hanno considerato come la Grande Camera della Corte EDU abbia optato per una valutazione multifattoriale e cumulativa delle concrete condizioni detentive in cui anche il dato temporale giuoca un ruolo rilevante, specie se il detenuto ha subito condizioni di ristrettezza per periodi non consecutivi. Mentre nel su citato caso Muršić, infatti, i giudici europei hanno rilevato la violazione per il periodo in cui il ricorrente ha trascorso ventisette giorni consecutivi in uno spazio inferiore a tre mq., nel caso trattato da Corte EDU, 17/10/2013, Belyayev v. Russia, la stessa Corte ha escluso che 26 giorni consecutivi espiati in uno spazio di poco inferiore ai 3 mq. (2,97 al lordo) avessero raggiunto quella soglia di gravità da integrare la violazione dell’art. 3 CEDU, in presenza di altri aspetti trattamentali allevianti.
Particolarmente rilevante, ai fini della soluzione della questione rimessa all’attenzione delle Sezioni Unite, è la modalità di calcolo dello spazio minimo adottata dalla Corte EDU. La Grande Camera, infatti, ha condiviso il metodo utilizzato dal Comitato di prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa, ovvero il fatto che la superficie vada considerata al netto dei servizi igienici, ma comprensiva degli arredi, senza distinzione. Ciò che è importante in tale accertamento, ha sottolineato la Corte europea, è verificare se i detenuti abbiano o meno la possibilità di muoversi normalmente all’interno della cella («detainees had a possibility to move around within the cell normally»; «détenus avaient la possibilité de se mouvoir normalement dans la cellule» (§ 114).
Ebbene, l’attenzione della Corte di legittimità si è concentrata sui richiamati passaggi argomentativi, in quanto ritenuti espressione di principi consolidati a livello europeo, atteso che sono stati ribaditi anche in sentenze successive al caso Muršić[25], per poi sviluppare la considerazione che il riconoscimento di trattamenti disumani e degradanti da parte della Corte EDU è il frutto di una valutazione multifattoriale della complessiva offerta trattamentale, che sulla base di concreti fattori ambientali positivi, pur in presenza di uno spazio vitale inferiore a tre mq., può portare a ritenere, che le complessive condizioni di detenzione siano conformi agli standard convenzionali.
Nella citata sentenza Muršić, infatti, la Corte europea ha ribadito che l'attribuzione di uno spazio individuale inferiore al minimo di tre metri quadrati non comporta inevitabilmente e di per sé la violazione dell'art. 3 CEDU, ma fa sorgere soltanto una "forte presunzione", non assoluta, di violazione. Viene, inoltre, stabilito che tale presunzione può essere vinta dalla presenza congiunta di altri aspetti delle condizioni di detenzione, costituiti, ad es., dalla sufficiente libertà di movimento fuori dalla cella, dallo svolgimento di adeguate attività fuori cella e dal rilievo di dignitose condizioni della detenzione in generale (§ 132, § 138).
Ciò premesso, le Sezioni Unite hanno sottolineato che la problematica relativa all’incidenza da riconoscere ai c.d. “fattori compensativi”, assume uno specifico rilievo soprattutto nell'ambito della procedura di consegna ad altri Stati di persone arrestate in forza di m.a.e. e, quindi, nei rapporti con autorità giudiziarie straniere.
A tal proposito, infatti, la Corte di giustizia ha riconosciuto, a determinate condizioni, l'obbligo per l'autorità giudiziaria dell'esecuzione di sospendere o porre fine alla procedura di consegna, qualora questa rischi, in concreto, di esporre la persona colpita dal mandato ad un trattamento inumano o degradante. Quando tale rischio sia presente, l'autorità giudiziaria dell'esecuzione deve rimandare la decisione sulla consegna della persona fino a quando non riceva informazioni che consentano di escluderlo.
Ebbene, la Corte di cassazione si è in più occasioni trovata a decidere sulla legittimità della disposta consegna in favore di Paesi membri dell’Unione in cui le condizioni detentive prevedono uno spazio vitale effettivo, al netto degli arredi fissi, inferiore al limite di tre mq. In diversi casi la violazione dell’art. 3 CEDU è stata esclusa proprio sulla base del riconoscimento di positivi fattori che compensavano l’insufficienza dello spazio (v., ad es., Sez. 6, n. 7979 del 26/02/2020, Barzoi, Rv. 278355, che ha valorizzato il congruo numero di ore da trascorrere quotidianamente all'esterno delle celle, le adeguate condizioni di igiene, e, dopo l'espiazione di un quinto della pena, la possibilità di accedere al regime di detenzione cd. aperto; Sez. 6, n. 52541 del 09/11/2018, Moisa, Rv. 274296, che ha dato importanza al ridotto lasso di tempo (solo nelle ore notturne) trascorso in cella, all'igiene personale, ai pasti, all'areazione, a condizioni di illuminazione e climatizzazione adeguate, nonché all'accesso all'acqua corrente ed ai servizi sanitari e, ancora alla possibilità di accedere a postazioni telefoniche ed informatiche, all'acquisto di generi di necessità, alle visite, alla possibilità di lavoro, allo svolgimento di attività educative, sportive, terapeutiche, con accesso agli spazi aperti).
Le Sezioni Unite hanno confermato la correttezza di tale impostazione, accedendo all’interpretazione secondo la quale, se il detenuto è sottoposto al regime c.d. "chiuso", è necessario che gli venga assicurato uno spazio minimo di tre metri quadrati, detratto quello impegnato da strutture sanitarie e arredi fissi; se, al contrario, è sottoposto al regime c.d. "semiaperto", ove gli venga riservato uno spazio inferiore ai tre metri quadrati, è necessario, al fine di escludere o di contenere il pericolo di violazione dell'art. 3 CEDU, che concorrano i seguenti fattori: 1) breve durata della detenzione; 2) sufficiente libertà di movimento al di fuori della cella assicurata dallo svolgimento di adeguate attività; 3) dignitose condizioni carcerarie (Sez. 6, n. 53031 del 09/11/2017, P, Rv. 271577).
Le Sezioni Unite, inoltre, hanno sviluppato tale ricostruzione esegetica, applicandola anche a situazioni diverse dalla fruizione di uno spazio minimo inferiore a tre mq. In linea con i principi espressi dalla consolidata giurisprudenza sovranazionale, hanno precisato che in caso di restrizione in una cella collettiva in cui lo spazio sia uguale o superiore al livello minimo di tre metri quadrati, ma inferiore a quattro metri quadrati e, quindi, pur non violando la regola “spaziale” dettata dalla Corte EDU, l’incidenza di altri fattori negativi - quali la mancanza di accesso al cortile o all'aria e alla luce naturale, la cattiva aereazione, in una temperatura insufficiente o troppo elevata nei locali, l'assenza di riservatezza nelle toilette, le cattive condizioni sanitarie e igieniche) - può portare a ritenere, comunque, violato l’art. 3 della Convenzione.
È dunque importante che nella presentazione dell’istanza ai sensi dell’art. 35-ter Ord. pen. l’interessato deduca, oltre alla sofferta detenzione in celle collettive con uno spazio individuale inferiore a quattro metri quadrati, anche l’esistenza di alcuni dei fattori negativi sopra indicati, dei quali, hanno precisato le Sezioni Unite, non è, comunque, richiesta la presenza cumulativa.
Infine, se lo spazio individuale in una cella collettiva è stato superiore a quattro metri quadrati, le Sezioni Unite non hanno escluso la possibilità di riconoscere trattamenti carcerari contrari all’art. 3 CEDU; hanno, comunque, specificato che il fattore del sovraffollamento non rileverà in una domanda proposta ai sensi dell'art. 35-ter ord. pen. che, pertanto, dovrà essere basata su fattori differenti.
[1] Corte EDU, Sez. V, 25 marzo 2021, Bivolaru e Moldovan c. Francia, nn. 40324/16 e 12623/17. Per una prima analisi della pronuncia v. T. WAHL, ETCHR: EAW cannot be automatically executed, in www.eucrim.eu, 26 aprile 2021, p. 1 ss.; A. BARLETTA, F. CAPPELLETTI, S. MORI, Mandato di Arresto Europeo: la Corte europea dei diritti dell’uomo precisa gli ambiti di applicazione della presunzione di protezione equivalente in materia di esecuzione di MAE con possibile violazione dell’art. 3 CEDU, in www.camerepenali.it, 29 marzo 2021.
[2] Sulla riforma della disciplina interna del mandato di arresto europeo a seguito del d.lgs. 2 febbraio 2021, n. 10, v. M. BARGIS, Meglio tardi che mai. Il nuovo volto del recepimento della decisione quadro relativa al m.a.e. nel d.lgs. 2 febbraio 2021, n. 10: una prima lettura, in Sistema penale, 16 marzo 2021, p. 1 ss.; V. PICCIOTTI, La riforma del mandato di arresto europeo. Note di sintesi a margine del d.lgs. 2 febbraio 2021, n. 10, in www.lalegislazionepenale.eu, 12 aprile 2021, p. 2 ss.; per un commento organico della nuova disciplina v. i contributi di G. COLAIACOVO, G. DE AMICIS, G. IUZZOLINO, in Codice di procedura penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, diretta da G. LATTANZI e E. LUPO, VI, Parte speciale, Giuffrè, 2021, p. 517 ss.; per una complessiva analisi della giurisprudenza di legittimità ed europea v. E. CALVANESE, G. DE AMICIS, Mandato d'arresto europeo: rassegna della giurisprudenza di legittimità ed europea, in Sistema penale, 22 gennaio 2021.
[3] Corte EDU, Grande Camera, Bosphorus Hava Yollar Turizm ve Ticaret Anonim Sirketi c. Irlanda, 30 giugno 2005, § 155, n. 45036/98; Corte EDU, Grande Camera, 23 maggio 2016, Avotins c. Lettonia, n. 17502/07; Corte EDU, 6 marzo 2013, Michaud c. Francia, n. 12323/11.
[4] Corte EDU, 17 aprile 2018, Pirozzi c. Belgio, § 64, n. 21055/11.
[5] V. la nota che precede.
[6] Corte EDU, Sez. II, 9/7/2019, Romeo Castano c. Belgio, n. 8351/17, in Cass. pen., 2019, p. 4506 ss., con nota di G. DE AMICIS, Violazione del diritto allo svolgimento di indagini efficaci e limiti dell'obbligo di consegna basata sul mandato di arresto europeo.
[7] Corte EDU, 7 luglio 1989, Soering c. Regno Unito, § 88; cfr., inoltre, la già citata decisione Romeo Castaño, § 92.
[8] Corte EDU, 14 febbraio 2017, Allanazarova c. Russia, n. 46721/15, § 71; Corte EDU, 29 aprile 2019, AM c. France, n. 12148/18, §§ 118 e 119.
[9] Corte EDU, Grande Camera, 20 ottobre 2016, Mursic c. Croazia, n. 7334/13.
[10] A. CIAMPI, M. STELLA, Principio della protezione equivalente fra UE e CEDU e mutuo riconoscimento delle decisioni tra Stati membri: la sentenza della Corte EDU nel caso Avotins c. Lettonia, in Osservatorio sulle fonti, n. 2/2017, disponibile in www.osservatoriosullefonti.it, p. 2 ss.
[11] CIAMPI, M. STELLA, cit., p.16 ss.
[12] CIAMPI, M. STELLA, cit., p.17.
[13] T. WAHL, cit., p. 2.
[14] Corte giust. UE, 5 aprile 2016, C-404/15, Aranyosi e Căldăraru; Id., 15 ottobre 2019, C-128/18, Dorobantu; Id., 25 luglio 2018, C-216/18 PPU, LM.
Sul tema v. L. LIONELLO, Nuovi sviluppi per il test Aranyosi e Căldăraru ed il rapporto tra giurisdizioni: il caso Dorobantu, in www.eurojus.it, 2020, n. 1, p. 107 ss.; N. CANESTRINI, Condizioni di detenzione nei Paesi membri nell’Unione europea: verso standard comuni a tutela della dignità umana?, in Cass. pen., 2020, p. 774 ss.
[15] Sez. 6, n. 23277 del 01/06/2016, Barbu, Rv. 267296.
[16] Nel caso di un m.a.e. emesso dalle autorità belghe sono state ritenute dirimenti le osservazioni avanzate dal Comitato dei Ministri del Consiglio di Europa nel settembre 2016, dalle quali era emerso un miglioramento delle condizioni della situazione carceraria, tale da rendere non necessaria la verifica d’ufficio, Sez. 6, n. 9391 del 28/02/2018, Jovanovic, Rv. 272341.
[17] In tal senso v. Sez. 6, n. 23277 del 01/06/2016, Barbu, in motivazione; Sez. 2, n. 3679 del 24/01/2017, Ilie, Rv. 269211; Sez. 6, n. 52541 del 09/11/2018, Moisa, in motivazione.
[18] Sez. 6, n. 18352 del 11 giugno 2020, C., Rv. 279301.
[19] Sez. 6, n. 24436 del 30/05/2019, Brunga, non mass. relativa ad un m.a.e. greco; Sez. 6, n. 31375 del 06/07/2018, Nwadike, non mass., relativa ad un m.a.e. maltese.
[20] Sez. 6, n. 23130 del 21/05/2019, Vasile, non mass.; Sez. 6, n. 32404 del 18/07/2019, Hantig, non mass. In termini generali si è infatti affermato che, a mente dell'art. 606, comma 3, cod. proc. pen., con il ricorso per cassazione è possibile dedurre violazioni di legge soltanto se le stesse siano state dedotte nel grado precedente, sicché́ non è possibile devolvere alla cognizione della Suprema Corte questioni mai dedotte davanti al giudice del grado precedente, ivi compreso il caso in cui, come nella specie, la Corte di cassazione sia investita di una cognizione di merito (Sez. 6, n. 43804 del 9/11/2012, Casini, Rv. 253433).
[21] Sez. 6, n. 1562 del 10/01/2019, Sava, non mass. Secondo la decisione della Grande Camera, 20/10/2016, Mursic c. Croazia "L'important est de déterminer si les détenus avaient la possibilité de se mouvoir normalement dans la cellule (voir, par exemple, Ananyev et autres, précité, §§ 147-148, et Vladimir Belyayev, précité, § 342".
[22] In tal senso v. Sez. 1, n. 39294 del 03/07/2017, Marsala, non mass.; Corte EDU, Grande Camera, 15/12/2016, Khalifa e altri c. Italia, § 166, con la quale è stato ribadito che uno spazio personale inferiore a 3 mq. in una cella collettiva fa sorgere una "presunzione, forte ma non inconfutabile, di violazione" e che la presunzione in questione può essere confutata, in particolare, dagli effetti complessivi degli altri aspetti delle condizioni di detenzione ai sensi dell’art. 3 CEDU, tali da compensare in maniera adeguata la mancanza di spazio personale, quali, in via cumulativa, "la durata e l'ampiezza della restrizione, il grado di libertà di circolazione e l'offerta di attività̀ all'esterno della cella, nonché́ del carattere generalmente decente o meno delle condizioni di detenzione nell'istituto”.
[23] Sez. 6, n. 7979 del 26/02/2020, Barzoi, Rv. 278355, in presenza di un m.a.e. esecutivo romeno.
[24] Sez. U, 6551 del 20 settembre 2020, dep. 2021, Commisso, Rv. 280433.
[25] Corte EDU, sentenza-pilota 25/04/2017, Rezmives e altri c. Romania, § 77; Corte EDU, 16/05/2017, Sylla e Nollomont c. Belgio, § 27; Corte EDU, 30/01/2020, J.M.B. et autres c. France, § 147; v., inoltre, Corte giust. UE, Grande Sezione, 15/10/2019, Dumitru-Tudor Dorobantu.
Un galantuomo, memoria storica del primo maxi-processo alla mafia siciliana, custode spirituale dei tanti segreti dell'aula bunker dell'Ucciardone, tanto arguto e sagace nelle riflessioni quanto pronto nella ricerca delle soluzioni efficaci ai tanti problemi del mondo giudiziario palermitano. Questo era soprattutto Vincenzo Mineo in vita. Rimarrà nel ricordo dei suoi familiari e dei tantissimi operatori giudiziari che lo hanno apprezzato e stimato.
Vincenzo Mineo ricorda Giovanni Falcone*
È stato definito “il custode dell’aula bunker”. Vincenzo Mineo, durante il Maxiprocesso fu a capo della sicurezza dell'aula bunker costruita nel carcere dell’Ucciardone dove, per la prima volta, Cosa nostra fu sconfitta da una raffica di condanne. Collaborò, in quel periodo, con Giovanni Falcone e con i magistrati del pool. Non aveva ancora compiuto 70 anni ma ci ha lasciato questa notte, colpito da un infarto. La settimana scorsa lo avevo chiamato per farmi raccontare da lui quel periodo. Oggi, mentre trascrivo la nostra chiacchierata, mi rendo conto di aver perso non un semplice conoscente ma un amico, sensibile, generoso e un grand’uomo mai pieno di sé e del suo ruolo.
Dottor Mineo, quando ha incontrato per la prima volta Giovanni Falcone?
Tutto inizia in quella caldissima estate del 1985, quando il dottor Falcone e il dottor Borsellino erano all’Asinara e stavano scrivendo l’ordinanza del Maxi-processo. Avevo allora 33 anni e, in quell’estate, sono stato chiamato dal presidente del Tribunale che mi dice che l’aula bunker era in costruzione e che c’era bisogno di qualcuno che se ne occupasse. Inoltre, da lì a pochi mesi, ci sarebbe stato il Maxi-processo da seguire e mi chiese se me la sentissi. Per attimo mi sentii spiazzato perché ci trovavamo davanti a un mostro. Il mio primo incontro fu quindi con il cantiere in costruzione dell’aula bunker. Andai in quel luogo assieme al consigliere Piero Grasso, che era appena stato designato come giudice a latere della Corte d’Assise che avrebbe poi celebrato il Maxi. Il cantiere era blindatissimo, si lavorava 24 ore su 24 per rispettare i tempi di realizzazione. Una struttura di quella portata fu realizzata in solo nove mesi, dal progetto alla consegna, e questa fu un’anomalia per l’Italia, se pensiamo ai nostri ponti e alle nostre gradi vie di comunicazione. L’input partì da Giovanni Falcone. L’idea iniziale era quella di non celebrare il processo a Palermo perché si riteneva fosse troppo pericoloso. Giovanni Falcone s’impuntò e disse che il processo si DOVEVA fare a Palermo “perché in questi anni noi abbiamo lavorato a Palermo, perché la mafia è a Palermo e la risposta va data a Palermo, non altrove”. Fu una presa di posizione molto importante.
Si trattava di un processo straordinario non solo per i contenuti ma anche per la sua dimensione. Quale fu il suo lavoro?
Io avevo già avuto contatti con l’Ufficio Istruzione ma in quell’occasione ci fu il mio primo incontro con Giovanni Falcone, qualche mese prima del deposito dell’”Ordinanza di rinvio a giudizio” che avvenne l’8 novembre del 1985. Dal deposito partiva la competenza del tribunale, ossia la nostra. Mi fu assegnata, nell’Ufficio Istruzione, la stanza di Barbara Sanzo, la segretaria di Falcone. Cominciai a parlare con loro e mi fecero “vedere” il processo. L’attuale “bunkerino”, oggi luogo della memoria, conteneva una quantità incredibile di faldoni. Nessuno di noi, né giudici né funzionari, aveva mai lavorato a un processo di quelle dimensioni. In quella fase, quella del trasferimento dall’Ufficio Istruzione alla Corte d’Assise, mi occupai, da solo, di tutte le posizioni processuali dal punto di vista dei provvedimenti sulla libertà personale. Tenga conto che, prima del rinvio a giudizio, c’erano 706 indagati che diventarono 475 imputati rinviati a giudizio di cui circa 300 erano detenuti.
Un lavoro molto faticoso nel pieno della seconda guerra di mafia e dopo l’assassinio, proprio da parte della mafia, di diversi magistrati.
Per fortuna avevamo un importantissimo punto di riferimento che era il dottor Antonino Caponnetto. Fu per me un incontro bellissimo, quello con Caponnetto, persona di grandissima umanità. Ha ragione, venivamo da un periodo terribile. Nel 1971 la mafia aveva ucciso il procuratore Scaglione, nel 1979 il giudice Terranova poi, nel 1980, il procuratore Costa e nel 1983, solo due anni prima, il consigliere Chinnici. Ma c’era ancora il sangue a terra di Ninni Cassarà e di Beppe Montana. Il loro omicidio fu il tentativo più violento per fermare la storia di quello che sarebbe stato il Maxi processo. Ricordiamo che Cassarà era uno dei più stretti collaboratori di Giovanni Falcone, realizzò il “Rapporto dei 162” che fu prodromico al Maxi processo, e che Montana era a capo della prima “Catturandi” e si occupava di trovare i latitanti. In tutto questo ci fu anche la vicenda di Marino e proprio in quell’estate fu smantellata la più bella Squadra Mobile che Palermo abbia mai avuto. Questo, inevitabilmente, fu un grande schiaffo al contrasto alla mafia. Grazie all’”Ordinanza di rinvio a giudizio”, però, si riuscì a ripartire. Ricordo diversi episodi di quel periodo perché quello fu un momento importantissimo. Cominciammo immediatamente a lavorare per il processo che avrebbe dovuto iniziare tre mesi dopo, il 10 febbraio del 1986. Quei tre mesi furono molto intensi sia per il completamento dell’aula bunker sia per il trasferimento del processo in aula e, soprattutto, per i preparativi del processo in Corte d’Assise. Era in vigore il vecchio Codice di procedura Penale e bisognava notificare il “decreto di citazione a giudizio” ai 475 imputati ognuno dei quali aveva, mediamente, due avvocati. Raggiungemmo una sinergia mai vista prima di allora con il Ministero della Giustizia, il Ministero dell’Interno, Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza. Deve sapere che un “decreto di citazione” è, normalmente, un volume di circa 1200 pagine per la prima volta stampato con le “stampanti ad aghi”. Fu spedito in tutt’Italia per essere consegnato ai destinatari e da Palermo partirono furgoni e auto pieni di carta. Per ogni notifica, tra l’altro, si doveva presentare una copia doppia, una da consegnare e una da conservare controfirmata. Di fatto, il 16 dicembre 1987 il presidente Giordano lesse il dispositivo della sentenza che concludese il primo grado del maxiprocesso: 346 condannati e 114 assolti; 19 ergastoli e pene detentive per un totale di 2665 anni di reclusione. La conferma di tutto il lavoro del pool arrivò con la sentenza della Cassazione che fu emessa il 30 gennaio 1992 e che fu molto severa. Non solo furono confermate le condanne ma gran parte delle assoluzioni pronunciate nel giudizio d'appello per gli omicidi Giuliano, dalla Chiesa, Giaccone e altri furono annullate e per gli imputati fu disposto un nuovo giudizio.
Dottor Mineo, dov’era il 23 maggio 1992?
Ero a casa. Nel pomeriggio mi arrivò una telefonata dal posto di Polizia dell’aula bunker e mi informarono di aver sentito, tramite le radio di servizio, che era successo qualcosa a Capaci che riguardava il dottor Falcone. La notizia non era ancora pubblica, in quel momento. Subito dopo mi richiamarono per dirmi che il dottor Falcone era ancora vivo e che lo stavano trasportando all’Ospedale Civico. Mi precipitai subito là e la scena chi mi trovai davanti fu una di quelle che non puoi dimenticarti e che ti segnano per tutta la vita. C’erano moltissime persone, procuratori, aggiunti, sostituti, il personale del Tribunale. Ricordo perfettamente l’allora sostituto procuratore Lo Voi, che oggi è procuratore della Repubblica a Palermo, con la testa tra le mani, disperato. Quella sera accadde una cosa strana: mi trovavo in mezzo tutte queste persone poi mi ritrovai nella stanza a piano terra. Non so perché ma mi ritrovai lì con il dottor Borsellino. Eravamo in quella camera mortuaria in cui era appena stato portato il corpo di Giovanni Falcone. In quel momento la dottoressa Francesca Morvillo stava ancora combattendo tra la vita e la morte. Attorno a noi c’era un silenzio irreale, mentre fuori c’era il delirio. Per diversi minuti, io e Paolo Borsellino, ci trovammo con Giovanni Falcone. Non aveva segni nel volto, nonostante la sua tragica morte. Quel momento mi ha segnato per tutta la vita. È stato uno di quei momenti che ti fa capire qual è la parte in cui stare, la parte giusta.
“Sit tibi terra levis”, Vincenzo
*Intervista di Roberto Greco già pubblicata sul “Quotidiano di Sicilia” il giorno 10.05.2021: https://qds.it/antimafia-lultima-intervista-di-vincenzo-mineo-prima-della-morte/
Il nuovo reato di abuso d’ufficio: è davvero venuto meno il sindacato sulla discrezionalità amministrativa?
di Renata Stancanelli
Sommario: 1. Premessa - 2. Il reato di abuso d’ufficio e l’eccesso di potere: orientamenti a confronto - 3. La riscrittura dell’abuso d’ufficio con il d.l. Semplificazioni - 4. Profili di diritto intertemporale.
1. Premessa
Il reato di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) è stato nuovamente oggetto di attenzione da parte del legislatore con il decreto Semplificazioni (d.l. n. 76/2020, convertito con legge n. 120/2020).
La ratio dell’intervento è duplice. Si intende (come già con le precedenti riforme) circoscrivere e tipizzare meglio la condotta penalmente rilevante e così anche incentivare la ripartenza economica e sociale dell’Italia, rallentata dalla pandemia in atto e ostacolata dalla ritrosia dei pubblici funzionari all’adozione di atti o provvedimenti per il timore di doverne rispondere penalmente (c.d. “burocrazia difensiva” “paura della firma”).
In questa stessa ottica va letta la recente scelta del legislatore di delimitare la responsabilità contabile del pubblico funzionario e ricondurre il dolo rilevante ai fini della responsabilità erariale alle maglie più stringenti del dolo tipico della materia penale.
L’intervento legislativo offre altresì uno spunto interessante per riflettere su come possa mutare l’intenzione del legislatore, anche nel breve periodo, a causa delle contingenze del momento: basti pensare che quest’ultima riforma si mostra in netta contro-tendenza rispetto alla recente legge spazza-corrotti [1], oggetto anch’essa di accesi dibattiti in dottrina.
2. Il reato di abuso d’ufficio e l’eccesso di potere: orientamenti a confronto
Collocato nella parte finale del Titolo II, dedicato ai delitti contro la pubblica amministrazione, il reato di abuso d’ufficio, è stato considerato, stante la clausola «salvo che il fatto non costituisca un più grave reato», come una norma sussidiaria e di chiusura del sistema di tutele della Pubblica amministrazione.
L’abuso d’ufficio è un tipico reato proprio perché punisce il pubblico ufficiale, o l’incaricato di un pubblico servizio, che, nell’esercizio delle sue funzioni, procura intenzionalmente a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto.
È necessario il dolo intenzionale rispetto all’evento, ossia l’intenzione di procurare a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o un danno ingiusto. Tuttavia, non si richiede che tale intenzione sia esclusiva come, invece, per esempio, nel peculato d’uso di cui all’art. 314, comma 2, c.p.
La duplicità dell’evento che deve essere voluto dall’agente è stata una scelta della legge n. 234 del 1997 che ha trasformato l’abuso d’ufficio da reato di mera condotta (a dolo specifico) a reato d’evento (a dolo intenzionale)[2].
L’obiettivo del legislatore del ’97 è stato anche quello di espungere dalla fattispecie i casi di eccesso di potere, vizio di legittimità dell’atto amministrativo la valutazione del quale consente al giudice penale di censurare la discrezionalità amministrativa. Proprio questa è la ragione delle riforme succedutesi negli anni: pur essendo norma di chiusura del sistema dei delitti dei pubblici ufficiali contro la Pubblica amministrazione, l’art. 323 c.p. è un punto nevralgico del rapporto attività amministrativa e giustizia penale[3].
Attraverso tale fattispecie incriminatrice, il giudice penale è in grado di esercitare un sindacato sull’attività amministrativa la cui ampiezza, tuttavia, non è pacifica in dottrina e in giurisprudenza.
All’indomani della riforma del ‘97, infatti, sono stati sostenuti diversi orientamenti.
Secondo una posizione, con la nuova formulazione della norma il giudice penale non sarebbe stato in grado di sindacare l’eccesso di potere perché il legislatore aveva deciso
di ancorare la rilevanza penale delle condotte soltanto alla violazione di legge quale vizio di legittimità amministrativa.
Altra posizione assumeva che l’eccesso di potere non potesse sindacarsi nemmeno tramite il principio costituzionale contenuto nell’art. 97 Cost., che impone il buon andamento e l’imparzialità della pubblica amministrazione, così valorizzando il carattere programmatico e non precettivo della norma la cui violazione avrebbe dato luogo ad una condotta lesiva di principi generali ma non anche di specifiche norme di legge.[4]
Una tesi mediana ha operato una distinzione: non sarebbe più sussumibile sotto la fattispecie dell’art. 323 c.p. l’eccesso di potere intrinseco − ossia l’esercizio del potere discrezionale, che pur non corrispondente all’interesse pubblico, rimanga nell’ambito delle scelte consentite dalla norma attributiva del potere − ma lo sarebbe l’eccesso di potere estrinseco − ossia l’esercizio del potere finalizzato ad uno scopo del tutto estraneo a quello delineato nella norma attributiva[5].
L’orientamento della giurisprudenza, che è rimasto prevalente fino al decreto Semplificazioni, è stato quello di ritenere censurabile l’eccesso di potere nell’accezione più moderna, accolta anche dalla giurisprudenza amministrativa, del c.d. sviamento di potere: ossia il vizio che inficia tutte quelle condotte, che sebbene siano espressione di un potere autoritativo, esulano dai fini istituzionali ai quali il potere è preposto. Si ha sviamento di potere non solo quando si persegue un interesse privato, ma anche quando si mira a un interesse pubblico diverso da quello considerato dalla norma attributiva del potere. Questo conferma che la peculiarità del delitto di abuso d’ufficio sta proprio nell’aprire la possibilità di sindacare scelte discrezionali dei pubblici amministratori.
3. La riscrittura dell’abuso d’ufficio con il d.l. Semplificazioni
Come anticipato, il legislatore dell’emergenza ha modificato il delitto di abuso d’ufficio con un’evidente delimitazione della fattispecie penale tipica.
3.1. In particolare, ha sostituito la formula «in violazione di norme di legge o di regolamento» con la diversa formula relativa alla «violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità».
La modifica che ha subito animato il dibattito tra gli interpreti è quella relativa all’espunzione della «violazione dei regolamenti» dalla formula legislativa. I primi commentatori della riforma la considerano negativamente osservando che il buon andamento della Pubblica amministrazione potrebbe facilmente risultare leso da talune condotte che non assumono più rilevanza penale[6]. Secondo quest’orientamento è proprio nella violazione dei regolamenti (spesso quelli che le stesse pubbliche amministrazioni si danno) che si annidano i principali abusi[7]: il sistema delle fonti secondarie riveste nel diritto amministrativo una particolare importanza, perché sono prevalentemente queste che disciplinano i rapporti pubblicistici dettando quelle «specifiche regole di condotta» la violazione delle quali può integrare il nuovo reato di abuso d’ufficio[8].
3.2. Con riguardo, appunto, alla formula relativa alle «specifiche regole di condotta» valgono le seguenti osservazioni.
L’opinione formatasi nei primi mesi successivi all’entrata in vigore della nuova figura di abuso d’ufficio ritiene che con questo espresso rimando il legislatore abbia voluto definitivamente escludere dall’ambito di applicazione della norma tutte le condotte che si sostanziano in violazioni di principi generali.
Si ripropone, così, il dibattito relativo alla funzione che l’art. 97 Cost. assume in relazione all’abuso d’ufficio che, come visto in precedenza, aveva già animato gli interpreti all’indomani della riforma del ’97: da un canto, l’orientamento secondo cui le condotte contrastanti con il principio dettato dall’art. 97 Cost. sono censurabili tramite l'art. 323 c.p. perché dall’art. 97 Cost. emergerebbe una specifica regola di condotta la cui inosservanza è penalmente rilevante; dall’altro, la posizione della dottrina che ritiene che dall’art. 97 Cost. non possano ricavarsi specifiche regole di condotta, ma semmai i principi generali di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione, come tali non più rilevanti per l’applicazione del 323 c.p.[9]
Sotto un altro profilo, ma pur sempre strettamente connessa, si colloca la tematica relativa alla discrezionalità, la cui estromissione dall’ambito di applicazione della norma è stata aspramente criticata da più parti.
Se ci si ferma ad una mera interpretazione letterale della disposizione, risulta evidente che il legislatore del 2020 ha voluto attribuire rilevanza alle sole regole che non implichino un esercizio di potere discrezionale da parte del soggetto agente. La ratio di tale modifica è quella di evitare il rischio che il giudice penale possa sindacare le scelte operate dall’amministrazione e non soltanto la sua attività vincolata. Interessante, a tal proposito, risulta l’analogia che parte della dottrina stabilisce con la disciplina dell’azione contro il silenzio-inadempimento di cui all’art. 31 del codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104/2010) [10]. Infatti, il giudice amministrativo, in sede di ricorso avverso il silenzio-inadempimento, può pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratti di attività vincolata o comunque quando risulta che non residuino margini di esercizio della discrezionalità, diversamente deve limitarsi ad accertare l’obbligo dell’amministrazione di provvedere.
La scelta operata dal legislatore, tuttavia, non è stata esente da critiche all’indomani della riforma. Infatti, sottolinea autorevole dottrina[11] che un’effettiva tutela del buon andamento e dell’imparzialità della Pubblica amministrazione non può non comportare un sindacato sulla discrezionalità amministrativa, perché restringendo la sindacabilità alla sola attività vincolata al controllo del giudice penale sarebbero sottratte alcune delle condotte più pericolose.[12]
In realtà, all’indomani della riforma, parte della giurisprudenza sembra non valorizzare la formulazione letterale della disposizione mantenendo il sindacato sull’eccesso di potere almeno nella sua accezione di violazione dei limiti esterni della discrezionalità, «nel caso in cui l’esercizio del potere trasmodi in una vera e propria distorsione funzionale dei fini pubblici – c.d. sviamento di potere o violazione dei limiti esterni della discrezionalità”». Sembra, dunque, che la giurisprudenza abbia voluto, pur di conservare un margine di sindacato sulla discrezionalità, operare un distinguo e ritenere censurabile la discrezionalità, quanto meno nei suoi limiti “esterni”, e, invece, far venir meno il sindacato sui limiti c.d. “interni” della discrezionalità, consistenti nel «mero “cattivo uso»[13].
Sul punto, giova segnalare anche una recente pronuncia della Corte di cassazione che ha ritenuto configurabile il delitto di abuso d’ufficio, così come riformulato a seguito della modifica legislativa, «non solo nel caso in cui la violazione di una specifica regola di condotta è connessa all’esercizio di un potere già in origine previsto dalla legge come del tutto vincolato, ma anche nei casi in cui l’inosservanza della regola di condotta sia collegata allo svolgimento di un potere che, astrattamente previsto come discrezionale, sia divenuto in concreto vincolato per le scelte fatte dal pubblico agente prima dell’adozione dell’atto (o del comportamento) in cui si sostanzia l’abuso di ufficio»[14].
Se si considerano le pronunce richiamate, si può ragionevole affermare che i giudici di legittimità, non aderiscono a un’interpretazione letterale della disposizione, ma ne estendono l’ambito di applicazione anche a quei casi che siano espressione di scelte contrarie allo spirito che deve muovere l’azione amministrativa.
3.3. Invece, la portata incriminatrice del riferimento alla condotta di omessa astensione non è stata modificata dal legislatore[15]: il pubblico ufficiale continua ad essere punito se non si astiene in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti. La formula «negli altri casi prescritti» è rimasta intatta e questo conserva rilevanza penale della condotta di omessa astensione anche a prescindere dalla violazione di una specifica norma di legge o di regolamento e dall’esercizio di un qualsivoglia potere discrezionale[16].
3.4. Altro elemento non intaccato dal legislatore del 2020 è quello relativo all’evento: per la consumazione del reato continua a richiedersi il duplice evento consistente alternativamente nel danno ingiusto o nell’ingiusto vantaggio patrimoniale necessariamente oggetto di dolo intenzionale da parte del soggetto autore del reato.
4. Profili di diritto intertemporale
Per le condotte non più penalmente rilevanti l’art. 2, comma 2, c.p. esclude la punibilità del soggetto che ha commesso il fatto, anche anteriormente all’entrata in vigore della norma, e se vi è stata condanna, questa viene revocata ai sensi dell’art. 673 c.p.p.
Le possibili implicazioni in termini di diritto intertemporale che la riforma comporta riguardano le condotte commissive.
Si prospetta una soltanto parziale abolitio criminis dell’abuso d’ufficio, perché il legislatore non ha optato per la scelta di eliminare la figura del reato di abuso d’ufficio dal nostro ordinamento (scelta che, secondo autorevole dottrina sarebbe stata, a queste condizioni, senz’altro più ragionevole e, comunque, meno contraddittoria[17]) ma ha ritenuto opportuno circoscriverne l’ambito di applicazione.
Tuttavia, la situazione non è così lineare come appare prima facie: occorre valutare se vi è stata una abrogatio sine abolitione, potendo alcune condotte rimanere penalmente rilevanti se riconducibili ad altre fattispecie incriminatrici previste nell’ordinamento.
Le vie tracciate dalla dottrina sono essenzialmente tre[18].
In primo luogo, occorre accertare se non vi sia stata una violazione – ancorché mediata – di legge; in secondo luogo, verificare se la condotta perpetrata non sia sussumibile sotto il segmento della condotta rimasta invariata; infine, valutare se la riduzione della tipicità dell’abuso d’ufficio non abbia comportato la “reviviscenza” di altre forme di reato.
Con particolare riferimento al primo accertamento, è necessario verificare se una condotta – prima facie violativa di un regolamento – non violi, sia pure mediatamente, una norma di rango primario che ne costituisca la base legale e dalla quale non residuino margini di discrezionalità nelle scelte del pubblico amministratore. È il caso trattato recentemente dalla Sesta Sezione penale della Corte di cassazione, che ha ricondotto nell’alveo dell’abuso d’ufficio la condotta di un pubblico ufficiale che aveva rilasciato un permesso di costruire in contrasto con il piano regolatore e altri strumenti urbanistici. Ai sensi dell’art. 12, comma 1, d.P.R. n. 380 del 2001 il permesso di costruire, per essere legittimo, deve conformarsi «alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente». La Corte ha evidenziato che «dall’espresso rinvio della norma agli strumenti urbanistici discende che il titolo abilitativo edilizio rilasciato senza rispetto del piano regolatore e degli altri strumenti urbanistici integra, una “violazione di legge”, rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 323 cod. pen.» [19]. Tuttavia, esiste anche un diverso orientamento che, facendo leva sulla ratio della modifica legislativa, ritiene che l’intervento del legislatore abbia precluso al giudice penale, oltre che l’apprezzamento dell’inosservanza di principi generali, anche quello di fonti normative di tipo regolamentare, che non possono essere sindacate neppure tramite il classico schema della violazione mediata di norme di legge interposte o della cd. eterointegrazione[20].
Altra strada ipotizzabile per la esclusione di un’avvenuta abolitio criminis, può essere quella di ritenere tali condotte sussumibili nella fattispecie della omessa astensione. Si avrebbe, così, una “ri-espansione” della fattispecie della condotta di omessa astensione, che diverrebbe applicabile ogni qualvolta condotte lesive del buon andamento della pubblica amministrazione non siano più punibili sotto forma di condotta commissiva. La condotta dell’omessa astensione non richiede che la mancanza dell’esercizio del potere sia ricondotto ad un esercizio dello stesso vincolato o discrezionale. Anzi, autorevole dottrina[21] rimarca che il dovere di astensione è ipotizzabile solo dinanzi ad un provvedimento discrezionale, altrimenti se fosse vincolato non ci sarebbe ragione per punire un siffatto obbligo.
Una terza via, prospettata dalla dottrina, è quella della reviviscenza di altre fattispecie criminose che erano state, per così dire, “messe in cantina”.
La prima è il c.d. peculato per distrazione che la riforma del ’97 aveva fatto venir meno dall’ambito di applicazione dell’art. 314 c.p. e l’aveva incluso tra le condotte penalmente rilevanti ex art. 323 c.p. Si può ragionevolmente ipotizzare che, stante la clausola di riserva indeterminata che sta all’inizio della disposizione, alcune condotte potrebbero essere sussunte sotto la fattispecie del peculato ex art. 314 c.p., che vedrà rie-spandere la sua sfera di applicazione. A tal proposito, merita di essere segnalato l’orientamento della giurisprudenza che nel tracciare il discrimen tra reato di abuso di ufficio e peculato ritiene che quest’ultimo sia ipotizzabile quando la violazione dei doveri di ufficio sia costituita dall’appropriazione di un bene esclusivamente personale incompatibile con il titolo per cui si possiede, mentre si ha abuso d’ufficio quando si faccia un uso indebito del bene a proprio vantaggio senza che ciò comporti la perdita dello stesso.[22]
Inoltre, ben si potrebbe prospettare l’ipotesi in cui venisse in rilievo un reato che, a seguito della modifica dell’abuso di ufficio, non rimanga più da questo assorbito. Si pensi al reato meno grave di omissione di atti di ufficio di cui all’art. 328 c.p.: in quest’ultima ipotesi, si avrebbe una modifica favorevole, applicabile a tutti i fatti per i quali è pendente il giudizio, ancorché commessi prima dell’entrata in vigore della norma. In situazioni di questo genere si verificherebbe una mera successione di leggi penali nel tempo, con l’applicazione della disciplina relativa alla mutatio criminis di cui all’art. 2, comma 4, c.p..
Da ciò ne consegue che l’interprete dovrà concretamente individuare la legge più favorevole e applicarla.
[1] Per una riflessione più approfondita, si rimanda a G.L. Gatta, Da “spazza-corrotti” a “basta paura”: il decreto-semplificazioni e la riforma con parziale abolizione dell’abuso d’ufficio, approvata dal Governo salvo intese (e la riserva di legge?), in: Sistema Penale, 17 luglio 2020.
[2] Quanto alla condotta penalmente rilevante, il legislatore del ’97 ha sentito l’esigenza di circoscriverla e tipizzarla rispetto a quella modificata con la legge n. 86 del 1990 (la cui formulazione, che poco si discostava da quella originaria del codice del ‘30, era stata ritenuta eccessivamente generica e ampia). In particolare, veniva rimosso il riferimento al generico abuso dei poteri, inteso in senso ampio, e si delineava la condotta penalmente rilevante nella violazione da parte del pubblico ufficiale di norme di legge o di regolamento e nell’omessa astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti.
[3] A. Nisco, La riforma dell’abuso d’ufficio: un dilemma legislativo insoluto ma non insolubile, in: Sistema Penale, 20 novembre 2020.
[4] Tuttavia, un filone della giurisprudenza considerava censurabile il vizio di eccesso di potere per il tramite dell’art. 97, comma 2, Cost. Per un’approfondita analisi sul punto si rimanda a: M. Gambardella, Simul stabunt vel simul cadent. Discrezionalità amministrativa e sindacato del giudice penale: un binomio indissolubile per la sopravvivenza dell’abuso d’ufficio in Sistema Penale, 29 luglio 2020.
[5] A. Nisco, La riforma dell’abuso d’ufficio: un dilemma legislativo insoluto ma non insolubile cit.
[6] Sul punto si veda anche un precedente contributo su questa rivista a cura di: R. Greco, Abuso d’ufficio: per un approccio “eclettico”, in Giustizia insieme, 22 luglio 2020.
[7] G.L. Gatta, Da “spazza-corrotti” a “basta paura”: il decreto-semplificazioni e la riforma con parziale abolizione dell’abuso d’ufficio, approvata dal Governo salvo intese (e la riserva di legge?) cit.
[8] R. Chieppa-R. Giovagnoli, Manuale di diritto amministrativo, V edizione, Milano, 2020.
[9] G.L. Gatta, Riforma dell’abuso d’ufficio: note metodologiche per l’accertamento della parziale abolitio criminis cit.
[10] M. Gambardella, Simul stabunt vel simul cadent. Discrezionalità amministrativa e sindacato del giudice penale: un binomio indissolubile per la sopravvivenza dell’abuso d’ufficio, cit.
[11] M. Gambardella, Simul stabunt vel simul cadent. Discrezionalità amministrativa e sindacato del giudice penale: un binomio indissolubile per la sopravvivenza dell’abuso d’ufficio, cit.
[12] Sul punto si veda l’intervista al Presidente della Sesta Sezione della Corte di Cassazione Giorgio Fidelbo pubblicata sul Giornale online “Il Dubbio” del 27/02/2021 a cura di F. Spasiano, https://ildubbiopushita.newsmemory.com/?token=837ddc74d00958b88ad50293ec7195cd_6039813d_2fe1_1346233&selDate=20210227&promo=push&utm_medium=Email&utm_campaign=ildubbio-E-Editions&utm_source=ildubbio&utm_content=Read-Button&goTo=01&artid=6.
[12] G.L. Gatta, Riforma dell’abuso d’ufficio: note metodologiche per l’accertamento della parziale abolitio criminis cit.
[13] Cass. Sez. VI pen. 8 gennaio 2021, n.442, p. 5.
[14] Cass. Sez. VI pen. 28 gennaio 2021, n. 8057.
[15] Sul punto si rimanda ad un articolo di G. Tona pubblicato sul Il Sole 24 ore di Lunedì 15 febbraio 2021, p. 20.
[16] Per un’applicazione pratica si veda: Cass. Sez. Feriale, 25 agosto 2020, n. 32174.
[17] M. Gambardella, Simul stabunt vel simul cadent. Discrezionalità amministrativa e sindacato del giudice penale: un binomio indissolubile per la sopravvivenza dell’abuso d’ufficio cit.
Sul punto anche l’intervista al Presidente di Sezione della Corte di Cassazione G. Fidelbo pubblicata sul giornale online “Il Dubbio” del 27/02/2021 a cura di F.Spasiano,https://ildubbiopush-ita.newsmemory.com/?token=837ddc74d00958b88ad50293ec7195cd_6039813d_2fe1_1346233&selDate=20210227&promo=push&utm_medium=Email&utm_campaign=ildubbio-E-Editions&utm_source=ildubbio&utm_content=Read-Button&goTo=01&artid=6
[18] G.L.Gatta, Riforma dell’abuso d’ufficio: note metodologiche per l’accertamento della parziale abolitio criminis cit.
[19] Per una lettura si rimanda a Cass. Sez. VI pen. 12 novembre 2020, n. 31873.
[20] Cfr. Cass. Sez. VI pen. 8 gennaio 2021 n. 442.
[21] T. Padovani, Vita, morte e miracolo dell’abuso d’ufficio, in: Giur. pen. Web, 7-8 2020.
[22] Cfr. Cass. Sez. VI pen. 2 marzo 2016, n. 12658.
Basta norme - trappola sui rapporti tra privati e PA o il Recovery è inutile.
di Maria Alessandra Sandulli * (* intervista rilasciata a Errico Novi, Il Dubbio, 7 maggio 2021)
«Mario Draghi è un premier che ha strategia. Sa dunque che le leggi possono non bastare. O meglio: che le nuove leggi non bastano se non sono armonizzate con le precedenti. E ancora, Draghi sa che in alcuni casi l’interpretazione conta più della lettera di una norma. Se vuole dunque davvero spalancare alle imprese l’autostrada della crescita deve chiarire alcuni aspetti cruciali della stabilità e spendibilità dei procedimenti amministrativi e di concessione di benefici economici. E per farlo, servirà forse un impegno comune delle magistrature supreme per garantire un rigoroso rispetto dei confini della giurisdizione amministrativa».
Maria Alessandra Sandulli, ordinario di Diritto amministrativo all’università Roma Tre, è uno dei pochi scienziati del diritto italiani che intrattengono con le massime istituzioni un rapporto di amichevole vigilanza. Risponde al Dubbio su alcuni aspetti decisivi delle norme che si intende modificare a breve con il nuovo decreto Semplificazioni. «Non sarà facile offrire al sistema economico e a ogni singolo operatore quella che chiamiamo stabilità del titolo autorizzativo o del beneficio. Eppure è indispensabile farlo».
Cosa intende dire, che dietro quel terribile acronimo, Pnrr, c’è un gigante con i piedi di argilla?
Non drammatizziamo fino a questo punto. Il Piano dichiara tra i suoi obiettivi: una ripresa rapida, solida e inclusiva e il miglioramento della crescita potenziale. Inutile ricordare quali gap sconti il Paese rispetto ai ritmi di crescita dell’Ue. D’altra parte abbiamo avuto il finanziamento più consistente, che è però condizionato ad alcune precise missioni. E per poterle effettivamente realizzare è però indispensabile anche incentivare le attività economiche private, che servono a produrre a loro volta reddito. Non basta la leva fiscale: sarà determinante la semplificazione amministrativa.
Sul punto paiono tutti d’accordo, governo in primis.
Certo, ma ci sono snodi sottovalutati, su cui è urgente intervenire. Tra i quali i meccanismi di semplificazione autorizzativa, in particolare il silenzio- assenso e la “Scia”, cioè l’avvio di una attività sulla base di una mera segnalazione. Atto tipico e necessario nella vita di ogni impresa. Nel corso dell’evoluzione normativa, i privati si sono trovati sempre più spesso a dover dichiarare e autocertificare non solo dati di realtà oggettivamente certi ma anche la sussistenza dei presupposti e requisiti di legge per l’adozione di un provvedimento o per l’avvio di una attività.
È questa la semplificazione, no?
Dovrebbe esserlo. Ma l’imprenditore è chiamato in questo modo ad assumere in prima persona la responsabilità di individuare, nel marasma normativo, le regole nazionali, sovranazionali, locali, di vario livello, inerenti il suo caso. E deve interpretarle nel modo che poi singolo giudice e Pa riterranno corretto.
Ma tanto una volta ottenuto il titolo è a posto. O no?
Lei pensa? Aspetti e ascolti. Intanto l’onere evocato è tanto più assurdo se si pensa che il Dl 76/ 2020 ha ridotto la responsabilità erariale dei funzionari pubblici per l’adozione di atti illegittimi ai soli casi di dolo.
Mentre per i privati?
Si resta esposti a interpretazioni giurisprudenziali non di rado discordanti. L’articolo 21- nonies della legge 241/ 90 sul procedimento amministrativo dice espressamente che con la segnalazione o la domanda il privato deve dichiarare la sussistenza dei presupposti e dei requisiti di legge. In caso di dichiarazione mendace si configura il reato previsto dall’articolo 483 del codice penale, cioè il falso ideologico, salvo che la condotta integri un più grave reato. Il punto critico è il margine concesso all’amministrazione per accertare la sussistenza di quel falso e autoannullare il provvedimento autorizzativo: è un margine di fatto indeterminato. In altre parole il titolo abilitativo non si forma mai compiutamente. Viene in tal modo sterilizzato ogni limite temporale imposto dal legislatore all’amministrazione, e viene così meno, per il privato, la stabilità del titolo o del beneficio.
Com’è possibile?
Col decreto 76 del 2020 il pubblico funzionario è stato liberato dalla paura della firma, si è detto. Il punto è che l’autorizzazione o il beneficio derivanti da quella firma non sono stabili: nonostante gli sforzi compiuti dal legislatore a partire dal 2004, le amministrazioni e gli stessi giudici amministrativi trovano spesso il modo per sterilizzare i limiti imposti al pubblico potere per annullare i propri atti. In questo, sono agevolati da alcune incertezze e discrasie dei testi normativi. Come noto, il legislatore ha stabilito, nel 2015, un termine massimo, 18 mesi, entro cui le amministrazioni possono annullare d’ufficio i propri provvedimenti di autorizzazione o attribuzione di vantaggi economici. Il termine decorre dall’adozione del provvedimento, inclusi i casi in cui esso si sia formato per effetto del cosiddetto silenzio assenso. Diciotto mesi per annullare sono tanti, ma almeno il privato lo sa e ci fa conto. In teoria. Tanto più che lo stesso limite temporale è stato fissato per il controllo sulla sussistenza dei presupposti per la utilizzabilità della “Scia”, laddove la Pa non abbia mosso rilievi dopo i 30 o i 60 giorni concessi per il controllo immediato sulla legittimità della stessa segnalazione. Si ipotizza poi una riduzione del termine da 18 a 3 mesi con il prossimo decreto Semplificazioni, sulla scorta di quanto avvenuto, col Dl 76, per i soli atti legati al covid.
E il governo tiene molto a questa modifica.
Va ricordato come il Consiglio di Stato, nella commissione speciale istituita per i decreti legislativi di attuazione della riforma Madia, avesse chiarito che il limite dei 18 mesi per il controllo postumo sulla “Scia” e per l’autoannullamento segnava un nuovo paradigma dell’autotutela, destinato a dare fiducia agli operatori e coerente con altri termini decadenziali.
Qual è allora il problema?
Il Consiglio di Stato ha spiegato che sarebbe stato opportuno chiarire che quel limite va applicato anche a provvedimenti che non sono formalmente definiti annullamento ma assumono la definizione di revoca, risoluzione o decadenza dai benefici. A tali espressioni infatti si ricorre impropriamente anche per indicare la reazione all’illegittimo conseguimento del titolo. Ma allora si tratta di annullamenti travestiti.
Il Consiglio di Stato ha dunque indicato la strada?
Sì. Ma per assicurare il necessario contemperamento fra la stabilità di titoli e benefici ottenuti dai privati e l’esigenza di controllo su autodichiarazioni fraudolente, lo stesso articolo 21- nonies della legge 241/ 90 ha stabilito che “i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti, o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato accertate con sentenza passata in giudicato”, possono essere annullate dall’amministrazione anche oltre la scadenza dei 18 mesi, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali, nonché delle sanzioni previste dal capo VI del dpr 445 del 2000.
E perché tale “clausola” complica il quadro?
Perché le Pa e la giurisprudenza hanno progressivamente ridotto l’ambito di operatività del limite dei 18 mesi. Hanno cercato, per un verso, di spostare in avanti il dies a quo per la decorrenza del termine, e in parte ci sono riuscite. Inoltre hanno affermato che il vincolo della sentenza di condanna passata in giudicato non opera anche per le false rappresentazioni dei fatti. E soprattutto hanno fatto rientrare nel concetto di falsa rappresentazione dei fatti anche l’erronea ricostruzione e interpretazione del quadro normativo di riferimento.
Quindi il privato non rischia di perdere l’autorizzazione o un beneficio, anche economico, solo se dichiara deliberatamente il falso su un fatto oggettivo ma anche se si sbaglia a interpretare una legge?
Esatto. Ecco perché sono così pochi quelli che chiedono l’ecobonus, tanto per fare un esempio. Pa e giurisprudenza hanno poi utilizzato il richiamo alle sanzioni di cui al dpr 445 del 2000 per affermare che in ogni caso la dichiarazione non veritiera, cui viene sempre impropriamente equiparato il mero errore d’interpretazione del quadro normativo, determina la decadenza del beneficio. Una chiave di lettura aggravata dal fatto che il Dl 34 del 2020 ha inasprito le sanzioni per le false dichiarazioni, prevedendo anche la revoca dei benefici già ottenuti e addirittura l’interdizione da ulteriori benefici per i due anni successivi all’accertamento. Se questo inasprimento viene utilizzato anche per i meri errori su dati opinabili, e sganciato dall’elemento oggettivo del falso, i limiti all’autotutela diventano inutili.
Si può perdere tutto per un errore d’interpretazione.
Ed ecco perché a mio giudizio una figura dotata di straordinario senso strategico come il premier Draghi dovrebbe, di fronte a questo, blindare la scelta che si vorrà assumere in un contesto normativo chiaro e inequivoco, in modo che le amministrazioni di vigilanza, e gli stessi giudici, non abbiamo spazi ricostruttivi diversi da quelli chiaramente tracciati. Nessuna misura di semplificazione potrà altrimenti convincere il privato, tranquillizzare operatori e investitori. In tanti hanno già subito o visto altri subire conseguenze sproporzionate e a volte drammatiche.
A suo giudizio, Draghi ha presente questa distorsione?
Confido che ne comprenda la gravità. Si vuole ridurre da 18 a 3 mesi il termine per il controllo postumo. Forse è un limite così ristretto da impedire effettivamente l’attività di verifica delle amministrazioni. Il termine può essere anche meno ravvicinato, basta che una volta trascorso, il privato sappia di poter vedere annullato tutto solo se ha consapevolmente dichiarato il falso. Dal legislatore serve probabilmente un lavoro di interpretazione autentica sulle norme della riforma Madia, che non lasci spazi di incertezza in cui può insinuarsi l’interpretazione imprevedibile del giudice amministrativo. Ma ripeto: più importante di ogni altra cosa sarebbe un dialogo proficuo tra le magistrature supreme in modo da meglio assicurare il rispetto dei confini fra i diversi poteri pubblici. Ivi compreso quello fra giudice e legislatore.
La rivoluzione è assai meno banale di quel che si pensa.
Ma è anche necessaria, se non vogliamo sprecare l’occasione irripetibile che abbiamo.
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