ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Un nuovo (piccolo?) passo verso l’abolizione della pena di morte negli Stati Uniti
di Paolo Passaglia
Sommario: 1. L’anno della svolta? - 2. E il governo federale? - 3. La formalizzazione della moratoria federale sulle esecuzioni.
1. L’anno della svolta?
Per coloro che osservano l’evoluzione della politica statunitense in materia di pena di morte, gli ultimi dodici mesi sono stati, di gran lunga, i più interessanti della storia recente: sono stati, infatti, i mesi in cui, nella fase iniziata con la fine degli Anni Settanta (la fase della reintroduzione della pena capitale), si sono verificate le maggiori novità. Le novità sono state tali che, forse, questi mesi saranno ricordati in futuro come quelli «della svolta».
Sebbene gli avvenimenti siano, probabilmente, ormai fin troppo conosciuti, e a costo di ripetere quanto già esposto in precedenti interventi (anche in questa rivista: cfr. La banalizzazione della pena di morte nel tramonto dell’era Trump e il caso di Lisa Montgomery, 8 gennaio 2021, e L’abolizione della pena di morte negli Stati Uniti: forse qualcosa si sta muovendo davvero, 12 febbraio 2021), giova, anche a fini espositivi, ripercorrere in estrema sintesi i momenti salienti del periodo che ha avuto inizio nel luglio 2020.
(a) Negli ultimi sessant’anni, le esecuzioni negli Stati Uniti erano state quasi tutte poste in essere da parte e nell’ambito degli Stati (e in particolare di alcuni di essi, a partire dal più attivo, il Texas). A livello federale, le esecuzioni erano state molto sporadiche: dal 1958 in poi, si erano avute una esecuzione nel 1963, due nel 2001 e una nel 2003. Il Presidente Trump, nell’estate 2019, aveva propugnato un’inversione di tendenza, consistente in una riattivazione delle esecuzioni federali: superati gli ostacoli giudiziari, burocratici e pratici, derivanti dal lungo intervallo di tempo dall’ultima esecuzione e dalla necessità di un aggiornamento delle procedure, il 14 luglio 2020 si era proceduto alla prima esecuzione dopo oltre diciassette anni. L’esecuzione era destinata ad aprire una sequenza di ben tredici esecuzioni, con le quali la prassi della pena di morte federale avrebbe fatto un salto all’indietro di oltre un secolo, per saldarsi al periodo della presidenza di Grover Cleveland (1885-1889 e 1893-1897): per trovare un anno con più esecuzioni delle 10 del 2020, si doveva tornare al 1896; considerando poi che l’amministrazione Trump avrebbe condotto ben sei esecuzioni dopo la sconfitta alle elezioni presidenziali, un altro aspetto eloquente emergeva, e cioè che per la prima volta dal 1889 si sarebbero eseguite condanne nel periodo di passaggio da un presidente ad un altro, nell’intervallo cioè tra le elezioni e l’inizio del mandato dal nuovo eletto.
(b) Questi dati, indicativi di per sé, sono usciti ingigantiti dal fatto che la pandemia ha condotto a una significativa contrazione del numero di esecuzioni, che infatti nel 2020 è stato pari a 17, il valore più basso dal 1991. Se, per la prima volta nella storia, nello scorso anno il potere federale ha condotto più esecuzioni di quando non abbiano fatto gli Stati nel loro insieme, il dato sembra dimostrare chiaramente che il Governo federale, a differenza di quanto si è fatto a livello statale, ha omesso di tener conto delle cautele imposte dalla pandemia, sia sotto il profilo della diffusione del virus che sotto quello della effettiva possibilità per i detenuti di fruire di una piena difesa tecnica.
(c) Le forzature che l’amministrazione Trump ha compiuto hanno probabilmente inciso sull’opinione pubblica. Di certo hanno prodotto una reazione di stampo politico, consistente nel rifiuto, da parte del Partito democratico, dell’impostazione trumpiana. È in questo contesto, infatti, che, per la prima volta, un candidato presidente democratico ha inserito nel suo programma elettorale l’abolizione della pena di morte. O meglio, ha inserito l’impegno a favorire l’abolizione: all’abolizione a livello federale, infatti, Joe Biden ha associato l’assunzione di una responsabilità nel coadiuvare gli Stati nei loro sforzi per l’abolizione.
(d) Appena entrato in carica, il nuovo Presidente è parso «dimenticarsi» di questa parte del suo programma: probabilmente assorbito dalla necessità di invertire la rotta rispetto alla disastrosa gestione della pandemia, Biden ha lasciato in sospeso la questione inerente alla pena di morte, limitandosi a non far organizzare ulteriori esecuzioni.
Nel frattempo, a livello statale, anche senza il fattivo sostegno federale, qualcosa si è mosso: l’avvenimento più significativo, almeno da un punto di vista mediatico, si è avuto il 24 marzo 2021, con l’abolizione della pena di morte nello Stato della Virginia, cioè nello Stato che deteneva (e detiene tuttora) il primato relativo al numero di esecuzioni nella storia degli Stati Uniti e che si poneva al secondo posto, dopo il Texas, nella triste graduatoria del numero di esecuzioni condotte dopo la ripresa del 1977 (sul tema, sia consentito rinviare a P. Passaglia, L’abolizione della pena di morte nello Stato della Virginia: tassello del mosaico abolizionista o tessera di un domino?, in Diritti Comparati, 6 aprile 2021).
Un altro fatto da non trascurare è stata la rarefazione estrema delle esecuzioni. Nel 2021, dopo le tre esecuzioni ordinate dal Presidente Trump nel gennaio, è maturato il più lungo lasso di tempo senza esecuzioni da parte degli Stati in oltre quaranta anni: il Texas aveva, infatti, condotto l’ultima esecuzione «non-federale» l’8 luglio 2020 e solo il 19 maggio 2021 ne avrebbe posta in essere un’altra. Non solo: nei primi sei mesi del 2021, il totale delle esecuzioni si sarebbe fermato a cinque: alle tre federali si sarebbero sommate due esecuzioni da parte del Texas (la seconda il 30 giugno). Si tratta di numeri estremamente contenuti, che, verosimilmente, sono destinati a essere confermati anche per la seconda parte dell’anno, visto che attualmente le esecuzioni pendenti sono quattro: due in Texas, una in Missouri e una in Nevada (Stato, quest’ultimo, in cui nel mese di aprile l’assemblea legislativa aveva adottato una legge abolizionista, incorsa però nel veto del Governatore: cfr. J. Schulberg, Nevada Democrats Squander Opportunity To End Death Penalty, in HuffPost, 13 maggio 2021).
Se le esecuzioni si sono ridotte in misura estremamente significativa (per trovare un anno con meno di dieci esecuzioni, come dovrebbe essere il 2021, bisogna risalire alle cinque del 1983), un ulteriore segnale della contrazione del ricorso alla pena di morte si è avuto con le condanne pronunciate nei primi sei mesi dell’anno, che sono state pari a quattro, il numero più basso dagli Anni Settanta (le condanne sono state pronunciate in Alabama, in Florida, in Nebraska e in California, dove peraltro è in vigore una moratoria sulle esecuzioni; per una analisi compiuta della pena di morte nei primi sei mesi dell’anno, v. Death Penalty Information Center, Mid-Year Review: Virginia’s Historic Death Penalty Abolition Accompanies Continuing Record-Low Death Penalty Usage in First Half of Year, 1° luglio 2021).
2. E il governo federale?
L’elezione di Joe Biden e la necessità di marcare una discontinuità forte rispetto alla Presidenza Trump, anche in materia di pena di morte, aveva fatto presagire che proprio sulla Casa Bianca e, in generale, su Washington il fronte abolizionista avrebbe dovuto concentrarsi per ottenere i maggiori successi.
L’inerzia dell’amministrazione Biden, però, ha raffreddato non poco le aspettative iniziali, che addirittura, nel corso dei mesi, sono parse sul punto di essere smentite. Un timore di questo tipo è, presumibilmente, quello che ha animato il Commissariato Onu per i diritti umani, che l’11 marzo ha ufficialmente chiesto al Presidente di «fare tutto quello che [fosse] in suo potere per interrompere le esecuzioni, sia a livello federale che negli Stati», sottolineando che «non c’[era] tempo da perdere, con migliaia di individui nei bracci della morte statali in tutto il paese e con varie esecuzioni fissate a livello statale nel 2021» (cfr. UN High Commissioner for Human Rights, USA: UN experts call for President Biden to end death penalty, 11 marzo 2021).
Nonostante queste sollecitazioni, però, l’amministrazione federale si è mantenuta inerte. Anzi, il 14 giugno si è addirittura arrivati a quella che sembrava qualcosa di molto simile a una patente smentita degli impegni elettorali, quando il Dipartimento della Giustizia ha depositato presso la Corte suprema una memoria nella quale si confermava la richiesta, presentata dalla precedente amministrazione, di annullamento della decisione di appello che aveva rovesciato la condanna a morte inflitta in primo grado all’attentatore della maratona di Boston del 2013. A fronte di questa condotta processuale, un portavoce della Casa Bianca è intervenuto per sottolineare, da un lato, l’indipendenza del Dipartimento della Giustizia in proposito e per ribadire, dall’altro, l’impegno del Presidente Biden a non far porre in essere esecuzioni (cfr. N. Raymond, Biden administration pushes for Boston Marathon bomber death sentence, in Reuters.com, 16 giugno 2021).
Questa assicurazione, zavorrata dall’assenza di atti concreti contro la pena di morte, è apparsa piuttosto lontana dal poter essere sufficiente a escludere qualunque ritorno indietro rispetto agli impegni assunti in campagna elettorale. Da dover essere l’alfiere di un cambiamento epocale, il Governo federale sembrava che andasse assumendo una posizione del tutto marginale nella politica sulla pena di morte, all’insegna di una silente conservazione.
Tutto questo, almeno, fino al 1° luglio.
3. La formalizzazione della moratoria federale sulle esecuzioni
Il 1° luglio, dal Dipartimento della Giustizia, è arrivata la notizia di un primo, piccolo passo nella direzione preconizzata alla vigilia delle elezioni presidenziali. L’Attorney General, Merrick B. Garland, ha adottato un Memorandum for the Deputy Attorney General, the Associate Attorney General, Heads of Department, con cui si è formalizzata la moratoria sulle esecuzioni federali finalizzata al controllo e alla revisione delle policies del Dipartimento in materia (le – assai criticate – policies adottate dall’amministrazione Trump, che avevano permesso le esecuzioni nell’ultimo scorcio del suo mandato). Le verifiche previste si concentreranno, in particolare, sul protocollo di somministrazione dell’iniezione letale (onde valutare se le modalità e le sostanze previste non provochino eccessiva sofferenza al condannato) e sulle formalità che hanno velocizzato l’organizzazione delle esecuzioni (cfr. Department of Justice – Office of Public Affairs, Attorney General Merrick B. Garland Imposes a Moratorium on Federal Executions; Orders Review of Policies and Procedures, 1° luglio 2021).
Scorrendo le due paginette scarse di cui consta il memorandum, la sensazione che la montagna abbia partorito un topolino non è facile da esorcizzare: al netto del tecnicismo del testo, a stretto rigore il suo significato si sostanzia nella sospensione delle esecuzioni in attesa della verifica della conformità delle policies esistenti agli imperativi di una giustizia equa, che vengono ribaditi in modo fermo. In concreto, per i 46 detenuti nel braccio della morte federale, il memorandum implica che, per ora, non avranno da temere una imminente esecuzione e che, pro futuro, se all’esecuzione si farà luogo, saranno comunque garantiti i diritti costituzionali.
Un po’ poco, oggettivamente: il passo che è stato compiuto dal Dipartimento della Giustizia è quanto di più anodino potesse immaginarsi.
Eppure, è un passo avanti, che giunge dopo mesi di una stasi che si prestava a interrogativi sempre più inquietanti.
È un passo avanti, che consente di confermare l’impegno abolizionista; certo, ci si attendeva una iniziativa ben più rapida e ben più decisa, ma – quanto meno – adesso si può sostenere che, anche a livello federale, ci si sta muovendo.
È un passo avanti che denota le modalità che sono state scelte: un approccio molto cauto, che non contempla grandi dichiarazioni di principio e che evita qualunque fuga in avanti. Questa impostazione potrà apparire insoddisfacente, anzi sul piano teorico lo è senz’altro; non è escluso, però, che sia quella più opportuna, perché è quella che, nella forma più rassicurante possibile per i retenzionisti, fa i conti con una opinione pubblica la quale è ancora piuttosto lontana dal vedere una preponderanza degli oppositori della pena di morte. Il rigurgito retenzionista che, dopo la sentenza quasi-abolizionista nel caso Furman v. Georgia, 408 U.S. 238 (1972), ha segnato la storia più recente degli Stati Uniti ha forse insegnato che, per assicurarsi risultati duraturi, è necessario procedere con la politica dei piccoli passi. O fors’anche dei piccolissimi.
Il cambiamento della famiglia: aspetti psico-sociali e problemi giuridici
di Santo Di Nuovo e Alessandra Garofalo
Sommario: Introduzione – 1. Le separazioni coniugali e il “divorzio breve” – 2. I figli maggiorenni: fino a quando vanno mantenuti? – 3. Alcune considerazioni sistematiche sulle modifiche della famiglia e del diritto familiare – 4. Per (non) concludere…
Introduzione
La famiglia è radicalmente cambiata rispetto a quella considerata nelle norme codificate nel 1942. E parallelamente il diritto “delle persone e della famiglia” cui sono dedicati i titoli V-XIV del Codice Civile è stato profondamente rivoluzionato a seguito della riforma del 1975, e delle leggi riguardanti adozioni e affidi (nel 1967 e poi nel 2001), divorzio (1970, 1987), modifiche delle norme concordatarie (1985), procreazione assistita (2004), affidamento condiviso (2006), unioni civili, anche tra persone dello stesso genere, e convivenze di fatto (2016).
Ai tradizionali temi del diritto familiare (separazione e divorzio, affidamento dei figli, adozioni) se ne sono aggiunti altri nuovi e specificamente legati alle trasformazioni sociali in atto; per citare solo alcuni degli ultimi trattati in questa Rivista: controllo della procreazione e maternità surrogata, adozione di coppie omogenitoriali, famiglie di fatto, violenza intrafamiliare, curatela speciale dei minori, e tanto altro[1].
In questo articolo prenderemo in esame due fenomeni psico-sociali molto diversi tra loro: la sempre più frequente rottura del legame familiare, l’estensione dei periodo di mantenimento dei figli, anche maggiorenni. Esempi paradigmatici di problemi cui il diritto è chiamato a dare risposta, cercando di adeguarsi ai cambiamenti delle dinamiche familiari che subentrano e che rendono inadeguate le norme precedenti.
1. Le separazioni coniugali e il “divorzio breve”
I dati statistici più recenti disponibili[2] confermano, anche nel nostro Paese, che il numero di matrimoni tende a diminuire: nel 2019 sono stati il 6% in meno rispetto all’anno precedente, il 31% in meno del 2008; nel 2018 il tasso di matrimonio in Italia (3,2‰) risultava tra i più bassi in Europa. Invece aumenta il numero di separazioni, cresciute del 15,8% nel 2019 rispetto al 2008 (di esse l’85% sono consensuali).
Alla luce di questo trend in corso da diversi anni, nel 2015 con la legge n. 55 è stato introdotto nel nostro ordinamento il “divorzio breve” riducendo drasticamente i termini per presentare l'istanza di divorzio da tre anni (termine già ridotto nel 1987 dai cinque previsti inizialmente della L. 898/1970) a sei mesi in caso di separazione consensuale, a dodici mesi se trattasi di separazione giudiziale e ciò indipendentemente dalla presenza o meno di figli minori[3]. La riforma è stata approvata a larga maggioranza dei parlamentari votanti: nelle intenzioni del legislatore un ruolo importante ha giocato la convinzione che la cessazione degli effetti civili del matrimonio comporti anche la fine della conflittualità tra i genitori con conseguente maggior benessere psicologico per i figli e diminuzione del contenzioso.
Non sono mancate critiche, secondo cui il divorzio breve sancisce sul piano giuridico lo svuotamento di significato – già in atto per altre cause − degli elementi essenziali del matrimonio: la comunione materiale e spirituale dei coniugi si trasformerebbe in un contratto avente ad oggetto condizioni meramente economiche. L’ulteriore perdita di stabilità della famiglia, cui il divorzio breve contribuisce, potrebbe avere come naturale conseguenza l'aumento della fragilità negli individui e, quindi, nell'intera società. Essa, infatti, sulla famiglia si fonda, in base non solo alla nostra Costituzione che pone la legge a “garanzia dell'unità familiare” (art. 29), ma anche dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che al comma 3 dell’art. 16 afferma che la famiglia è “nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato”.
Secondo le letture critiche, le nuove norme renderebbero i coniugi meno responsabili perché spingerebbe a non affrontare il problema della crisi della coppia e delle sue motivazioni, ma a rimuoverlo sciogliendo subito anche formalmente il legame. Inoltre, le nuove generazioni tenderanno a perdere il senso degli obblighi assunti con il vincolo matrimoniale, ed a percepire meno il valore di questo istituto come «unica fonte legittimante per la pienezza totale dei poteri di coppia»[4].
Per quanto ancora poco valutabili siano ad oggi le conseguenze del divorzio breve, viene ipotizzato che esso aumenti la corsa verso il depotenziamento del legame familiare, e favorisca il moltiplicarsi di coppie sposate legalmente ma altrettanto legalmente fluide (“liquide” come oggi si suole dire).
Questo fenomeno è diverso dal rifiuto di legalizzare del tutto l’unione, prolungando o rendendo definitiva la convivenza: decisione basata sull’eliminazione a monte del vincolo stesso, formando “coppie di fatto” con minori garanzie legali ma in assenza di un legame giuridicamente cogente.
Invece la prospettiva di ‘divorzio breve’ introduce una ulteriore categoria di “accordo di famiglia” che accetta il vincolo e i suoi vantaggi ma sapendo che esso può essere rotto con facilità. In base a questo tipo di accordo, la famiglia si basa su un legame ambivalente: si desidera la sicurezza del vincolo, ma al tempo stesso si prefigura la labilità di esso, che può essere annullato presto e con facilità, specie se non si mettono al mondo figli. Sicurezza di rifugiarsi in un legame formalizzato, ma altrettanta sicurezza di poterlo sciogliere appena ci si accorge che le cose non vanno come si desiderava. Come per gli acquisti pubblicizzati dal marketing, che si fanno stipulando un contratto che però contiene già le clausole per lo scioglimento in caso di insoddisfazione. In definitiva, secondo questa prospettiva critica si sta introducendo un modo nuovo di formare famiglia e di gestirne gli sviluppi.
Per affrontare la questione superando argomentazioni ideologiche e basandosi su risultati di ricerca riportiamo una sintesi dei dati empirici, ripromettendoci di approfondire in altra sede gli aspetti comparatistici.
In Italia, sempre in base ai dati del report Istat, l’introduzione della legge 55/2015 fece registrare un consistente aumento del numero di divorzi, che ammontarono a 82.469 (+57% rispetto al 2014). Più contenuto fu l’aumento delle separazioni, pari a 91.706 (+2,7% rispetto al 2014). Al momento, in mancanza di report sul lungo periodo, non siamo in grado di valutare se il consistente aumento iniziale dipenda dall’improvvisa riduzione dei tempi − i giudici hanno potuto immediatamente pronunciare sentenza di divorzio per casi che normalmente avrebbero dovuto proseguire per altri anni − e sia dunque eccezionale, o se invece prefiguri un cambio strutturale della situazione. Sappiamo però che nel 2018 il numero dei divorziati era quadruplicato rispetto al 1991, a fronte di un calo dei matrimoni.
Questi dati sottendono che il concetto di famiglia è cambiato nel tempo e nello spazio, e che in parallelo sono cambiate le norme, con l’introduzione di alternative legali al matrimonio che conferiscono maggiori diritti alle coppie non sposate, e delle unioni civili tra coppie dello stesso sesso; il divorzio semplificato è un ulteriore tassello.
Ma è il sistema giuridico che si limita a prendere atto dei cambiamenti sociali, o esso condiziona a sua volta gli atteggiamenti e i comportamenti dei cittadini? “Tutte le culture affrontano la frattura del patto coniugale così come i vari tipi di soluzione della rottura. Il divorzio … nella società occidentale è diventato fatto generazionale, vale a dire un problema relazionale ricorrente che incide sullo scambio tra le generazioni”[5].
Una rilettura dei dati psicologici può aggiungere elementi di riflessione sul complesso rapporto tra aspetti giuridici e sociali. Al riguardo, la ricerca empirica ha rilevato alcuni fattori che possono essere considerati predittivi della separazione: secondo Cigoli[6] sono più a rischio «i partner caratterizzati da alti livelli di nevroticismo, alti livelli di estroversione, bassi livelli di disponibilità sociale e bassi livelli di coscienziosità. Tra i fattori relazionali sono stati identificati una bassa soddisfazione relazionale, un basso livello di commitment (impegno, n.d.r.) nei confronti della relazione e la presenza di alternative rispetto alla relazione attuale, alti livelli di violenza domestica, un basso supporto e alta conflittualità».
Diverso l’impatto dei fattori culturali: mentre negli Stati Uniti lo scioglimento del vincolo è meno comune nei soggetti maggiormente istruiti (che magari preferiscono altre forme di convivenza non formalizzate), in Europa – riporta sempre Cigoli — esso è maggiormente diffuso nelle coppie con un livello di istruzione più elevato.
Passando dai predittori del divorzio in generale alle conseguenze psicologiche del “divorzio breve”, una delle critiche più frequenti è che l’istituto non ridimensiona i disturbi psicologici che possono colpire i figli di famiglie separate o divorziate, ma anzi rischia di aggravarli.
Uno studio empirico risalente ad oltre un decennio fa[7] ha dimostrato che la qualità dell’attaccamento dei figli ai genitori separati dipende da fattori oggettivi come il tipo di separazione, la modalità di affidamento, il contesto economico, il genere e l’età dei minori coinvolti, la presenza di nuovi partner, il sostegno di parenti o amici. Ma anche fattori soggettivi incidono sugli sviluppi del legame tra figli e genitori: il livello di conflittualità tra i partner separati, la loro disponibilità alla collaborazione, l’interazione tra i membri della famiglia allargata. Esistono fattori che potremmo definire ‘culturali’ come la apertura ai cambiamenti e la concezione del divorzio che vige nell’ambiente familiare: fattori suscettibili di influenzamento da parte delle norme che regolano giuridicamente il legame e la sua cessazione.
Alcune conseguenze soggettive della separazione sul rapporto con i figli derivano dal fatto che essa costituisce certamente in termini psicologici un “lutto”, e come tale deve essere elaborato: i sei/dodici mesi previsti dal legislatore sono insufficienti ad elaborare le fasi e le emozioni della separazione che coinvolgono tutti i membri del nucleo familiare contemporaneamente ma in modo ancor più forte i figli, i quali perdono le proprie certezze e riferimenti sicuri e hanno meno risorse personali per comprendere e gestire la separazione.
Una separazione non elaborata può cagionare gravi danni ai minori e precisamente disturbi dello sviluppo e della condotta. Tempi ristretti di decisione per chiedere il divorzio – se da un lato risparmiano ai figli di assistere alle liti della famiglia conflittuale – dall’altro eliminano le possibilità di riflessione e ripensamento dei coniugi. Essi, sull'onda dell'emotività indotta dal conflitto, possono scegliere in modo non ponderato di risolvere il matrimonio con il rischio di pregiudicare il corretto sviluppo emotivo e sociale dei figli minori.
L'abbreviazione dei tempi del divorzio ha, altresì, come facile conseguenza la formalizzazione di nuove coppie, il che provoca ulteriori criticità e possibili sentimenti negativi nei minori, che sono chiamati ad accettare prematuramente nella propria vita il nuovo partner del genitore, intrusi che possono essere visti come usurpatori del ruolo che fino a quel momento è stato e spetterebbe al proprio genitore naturale, ma anche, in alcuni casi, come la causa del disfacimento della famiglia. Tali sentimenti possono sconvolgere l’equilibrio psichico dei minori, specie se molto piccoli, portando a rifiutare non solo l'elemento estraneo ma spesso anche lo stesso genitore che ha ‘tradito’: occorrono invece tempi e supporti adeguati per elaborare i ricordi traumatici e andare oltre ricostruendo una situazione di equilibrio.
Per sottolineare come i cambiamenti dei sistemi normativi possano avere dei feedbacks sui comportamenti, ricordiamo un risvolto della prospettiva di “legame liquido” ancora poco considerato in letteratura, che riguarda la decisione di astenersi dalla genitorialità. Questa prospettiva si innesta su un fenomeno in crescita, QuestaQquelleqquello delle coppie tendenzialmente favorevoli alla logica definita “childfree”, che consapevolmente rinuncia all’esperienza genitoriale e, pertanto, ai figli. In passato, un matrimonio senza figli era la conseguenza di aspetti economici o di cause biologiche. Oggi, la decisione di non avere figli risulta da un insieme di fattori, tra cui le opportunità di carriera, lo stile di vita e i valori sociali[8]. La labilità del vincolo contratto può aumentare questa tendenza fornendo una motivazione ‘oggettiva’: nel caso di separazione la facilitazione prevista dalle nuove norme sarebbe ostacolata e complicata dalla presenza di figli. Si tratta di una ipotesi verosimile ma che manca al momento di verifiche empiriche.
2. I figli maggiorenni: fino a quando vanno mantenuti?[9]
2.1. Aspetti giuridici
Sull’argomento del mantenimento dei figli maggiorenni questa Rivista ha già pubblicato diversi commenti[10], e il tema resta di grande attualità per il numero di casi sempre più frequenti che presentano risvolti sociali e psicologici di grande rilevanza.
Sul piano giuridico, da quando l'art. 155-quinquies della legge n. 54/2006 sull'affidamento condiviso ha introdotto il diritto del figlio maggiorenne non indipendente economicamente all'assegno di mantenimento, questa previsione è rimasta invariata con le più recenti riforme[11]. La giurisprudenza si è sempre orientata ad ancorare il diritto all'assegno di mantenimento alle aspirazioni del figlio maggiorenne, al suo percorso scolastico, universitario e post-universitario e al mercato del lavoro con riferimento al settore nel quale il soggetto ha indirizzato la propria formazione e specializzazione[12]. Così facendo, però, il figlio resta prigioniero della ricerca, spesso interminabile, di una affermazione personale corrispondente alle proprie aspettative e il diritto al mantenimento diviene una sorta di “rendita parassitaria”[13], con funzione assistenziale illimitata e incondizionata.
Negli ultimi dieci anni, complice anche la crisi economica, la giurisprudenza si è indirizzata a individuare un limite temporale oltre il quale il figlio non può andare con la pretesa di realizzarsi secondo le proprie aspettative a discapito dei propri genitori, ritenendo doverosa l'accettazione di impieghi inferiori alle inclinazioni e aspirazioni. L'obbligo di cui agli artt. 147 e 148 c.c. non può tradursi in un diseducativo soddisfacimento di ogni richiesta del figlio in quanto al mantenimento va data una funzione educativa e propulsiva, che sfocia nel dovere di attivazione secondo il principio di “autoresponsabilità”.
La Corte di Cassazione, occupandosi della problematica relativa ai confini tra diritto al mantenimento dei figli maggiorenni e speculare obbligo a carico dei genitori, ha assunto già con l’ordinanza 14 agosto 2020 n.17183 una posizione fortemente innovativa rispetto al suo precedente e consolidato orientamento e, nella sua funzione di nomofilachia, ha dettato alcuni parametri per indirizzare il giudice di merito, chiamato ad effettuare una valutazione fattuale in applicazione dell'art. 337-septies, comma 1, c.c., verso l'affermazione o la negazione del diritto al mantenimento del figlio maggiorenne. Segnatamente, l'obbligo di mantenimento legale cessa con la maggiore età del figlio; in seguito ad essa l'obbligo in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente sussiste laddove stabilito dal giudice in via del tutto eventuale. Precedentemente l'obbligo di mantenimento del figlio vincolava il genitore ex lege dalla nascita fintanto che quest'ultimo non avesse ottenuto una pronuncia del giudice, avendo dato prova del raggiungimento dell'indipendenza economica del figlio o dell'imputabilità allo stesso del mancato conseguimento[14].
Nel concetto di indipendenza economica la Corte ha ricondotto quanto occorre per soddisfare le primarie esigenze di vita, secondo la nozione ricavabile dall'art. 36 della Costituzione.
Sul piano processuale l'innovativa ordinanza ha avuto come conseguenza l'inversione dell'onere della prova, non più posta a carico del genitore ma a carico del figlio richiedente, in conformità al “principio generale di prossimità o vicinanza della prova” in base al quale i fatti possono essere noti solo ad una delle parti.
I criteri dettati dalla Corte in ordine alla valutazione delle circostanze di cui all'art. 337-septies, comma 1, c.c., pur ancorati al percorso scolastico, universitario e post-universitario del figlio e alla situazione del mercato del lavoro nel settore prescelto[15], “la cui valutazione dovrà avvenire con rigore proporzionalmente crescente in rapporto all'età del beneficiario in modo da escludere che tale obbligo assistenziale, sul piano giuridico, possa essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura”[16] risolvendosi in forme di parassitismo di ex giovani ai danni dei loro genitori sempre più anziani[17], pongono in rilievo i concetti del dovere e dell'autoresponsabilità in contrapposizione ad un assistenzialismo incondizionato.
Certamente dopo il conseguimento del titolo di studio prescelto, il diritto del figlio ad essere mantenuto si protrarrà per un ulteriore lasso di tempo idoneo a inserirsi nel mondo del lavoro.
Anche la mancanza di un qualsiasi lavoro, eventualmente non idoneo alla propria preparazione e di cui il figlio abbia dato prova di avere effettuato tutti i possibili tentativi di ricerca, comporta il sorgere del diritto al mantenimento in capo al figlio maggiorenne non autosufficiente economicamente.
Di converso, il rifiuto di un lavoro che consenta al figlio maggiorenne — il cui percorso scolastico si è concluso e che non sia impegnato in un progetto formativo di competenze professionali — il raggiungimento di almeno il grado minimo di autosufficienza economica gli fa perdere il diritto all’assegno di mantenimento. La valutazione in ordine a questo diritto deve avvenire tramite un accertamento di fatto che tenga conto dell’età, dell’impegno verso un progetto formativo che conduca verso il conseguimento di competenze professionali e tecniche, dell’impegno profuso nella ricerca di un lavoro, della condotta tenuta a partire dal compimento del diciottesimo anno di età.
L'età del figlio costituisce un indicatore fortemente presuntivo del raggiungimento della capacità di provvedere a se stesso e di inerzia colpevole nella ricerca di una (qualsiasi) attività lavorativa per il raggiungimento dell'indipendenza economica: presunzione che può essere vinta dalla prova della mancanza del tutto incolpevole di una qualsiasi occasione lavorativa[18]. La prova sarà tanto più lieve per il figlio quanto più prossima sia la sua età a quella di un recente maggiorenne.
“Il giudice di merito è tenuto a valutare, con prudente apprezzamento, caso per caso e con criteri di rigore proporzionalmente crescenti in rapporto all’età dei beneficiari, le circostanze che giustificano il permanere del suddetto obbligo (…), fermo restando che tale obbligo non può essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura, poiché il diritto del figlio si giustifica nei limiti del perseguimento di un progetto educativo e di un percorso di formazione”[19].
Ai sensi dell'art.337-septies c.c. è “indipendente economicamente” chi è in grado di conseguire una retribuzione che assicuri una esistenza libera e dignitosa.
La funzione educativo-formativa del mantenimento si pone in relazione con l'obbligo del mantenimento, che deve essere connesso alla “concreta condotta di impegno nella personale formazione o, dove terminata, nella ricerca di un impiego”. In sostanza, si richiede al figlio, dopo avere concluso il percorso di studi, di attivarsi nella ricerca di un'occupazione per rendersi economicamente autosufficiente contemperando le proprie ambizioni con il mercato del lavoro secondo il principio di auto-responsabilità. La valutazione sarà tanto più rigorosa quanto più l'età del figlio aumenti, dopo la maggiore età, e le scelte di vita operate insieme con l'impegno profuso nella ricerca di una qualificazione professionale prima e di una collocazione lavorativa poi, non si traducano in condotte velleitarie e abuso del diritto. La Suprema Corte ha assunto una posizione pragmatica dove il figlio maggiorenne, sul quale grava l'onere della prova, dovrà attivarsi per trovare un'occupazione ridimensionando le proprie legittime aspirazioni in una prospettiva realistica del mercato del lavoro.
Qualora, invece, il figlio maggiorenne non autosufficiente economicamente abbia diritto al mantenimento secondo i parametri dettati dalla Suprema Corte, il Giudice di merito, al fine di quantificare l’ammontare del contributo dovuto dai genitori, dovrà osservare “il principio di proporzionalità, che richiede una valutazione comparata dei redditi di entrambi i genitori, oltre alla considerazione delle esigenze attuali del figlio e del tenore di vita da lui goduto”[20].
Tra le scelte di vita che fanno cessare l'obbligo in capo ai genitori del mantenimento del figlio maggiorenne vi rientrano il matrimonio o la convivenza, in quanto espressione di una raggiunta maturità affettiva e personale[21]. Anche l'avere svolto un'attività lavorativa, seppure precaria o con esiti negativi, è indice di un percorso nel mondo del lavoro e, come tale, rappresenta un punto di “non ritorno”[22], che fa cessare l'obbligo di mantenimento oltre la maggiore età in quanto non suscettibile di “reviviscenza”. Non occorre, quindi, una situazione di indipendenza economica attuale essendo sufficiente che si siano create le condizioni, in quanto il diritto e il corrispondente obbligo si fondano sulla situazione del figlio e non sulle capacità reddituali dell'obbligato[23] per cui le condizioni economiche dei genitori rilevano solo sull’eventuale quantum del mantenimento.
Se il raggiungimento della soglia della maggiore età, in cui si acquista la capacità di agire e la capacità lavorativa, è il momento in cui cessa l'obbligo dei genitori del mantenimento dei figli, fanno eccezione quelle situazioni che meritano una totale tutela, quali disabilità, invalidità e peculiare minorazione o debolezza delle capacità personali pur non sfociate nei presupposti di una misura tipica di protezione degli incapaci.
La legittimazione a richiedere l’assegno di mantenimento o l’aumento del contributo spetta al figlio maggiorenne che ha la titolarità del diritto. Qualora il figlio non abbia formulato autonoma richiesta giudiziale la legittimazione spetta iure proprio al genitore con cui il figlio convive e “sussiste quand’anche costui si allontani per motivi di studio dalla casa genitoriale, qualora detto luogo rimanga in concreto un punto di riferimento stabile al quale fare sistematico ritorno e sempre che il genitore anzidetto sia quello che (…) provveda materialmente alle esigenze del figlio”[24].
Nel caso di coesistenza di entrambe le legittimazioni i problemi che ne derivano si risolvono sulla base dei principi dettati in tema di solidarietà attiva[25].
Qualora venga richiesta la revisione dell’assegno di mantenimento dei figli sia maggiorenni non autosufficienti che minorenni è d’obbligo l’accertamento di una sopravvenuta modifica delle condizioni economiche degli ex coniugi e la sua idoneità a mutare il progressivo assetto patrimoniale realizzato con il precedente provvedimento attributivo di uno dei predetti assegni, secondo una valutazione comparativa delle condizioni economiche di entrambe le parti. Il Giudice, nel pieno rispetto delle valutazioni espresse al momento dell’attribuzione dell’emolumento, deve verificare se e in quale misura le circostanze sopravvenute abbiano alterato l’equilibrio raggiunto e adeguare l’importo o lo stesso obbligo della contribuzione alla nuova situazione patrimoniale[26].
2.2. Aspetti psicosociali
Fin qui gli aspetti giuridici. Per valutare da un punto di vista psicosociale la questione del protrarsi del mantenimento a carico della famiglia oltre la maggiore età giuridica, è utile riprendere l’antico concetto di “adolescenza prolungata” presentato da Blos negli anni ’60 del secolo scorso[27]. Secondo questa teoria avviene nell’adolescenza un secondo processo di separazione-individuazione in cui si integrano (e talvolta si contrappongono) il desiderio di identificazione con i modelli genitoriali — che comporta il timore del distacco e dunque di perdere il supporto in questo processo identitario — e il bisogno di emanciparsi e di acquisire una propria identità attraverso modelli esterni e mediante la realizzazione di una autonomia lavorativa. Questo secondo bisogno, se appagato, consentirebbe all’adolescente di entrare nella fase adulta caratterizzata dalla autonomia lavorativa (e quindi di auto-mantenimento economico) e da capacità generativa (farsi una famiglia propria staccandosi da quella originaria). Il periodo conflittuale tra la sicurezza del contesto familiare e l’autonomia lavorativa e generativa può perdurare anche dopo la maggiore età, e provocare quella che Blos definì “adolescenza prolungata”. E questo prolungamento (che dura spesso molto a lungo) può non dipendere soltanto dal conflitto interno, soggettivo, ma da condizioni esterne che oggettivamente impediscono l’autonomia lavorativa e la formazione di una nuova famiglia.
Anche Erikson[28] considerava la possibilità di una “moratoria psicosociale” che di fatto prolunga ed impedisce la realizzazione delle condizioni per entrare nella fase adulta: periodo in cui vengono sospese le scelte esistenziali definitive (lavoro, famiglia) per fermarsi a cercare esperienze e rapporti intensi ma non vincolanti e a sperimentare identità – e quindi ruoli – diversi.
La quantità di giovani adulti che mettono in atto questa moratoria sta progressivamente aumentando, producendo quella generazione di “Neet” (Neither in Employment or Education or Training) che rinunzia alla formazione e alla ricerca del lavoro[29], e che in Italia costituirebbe oltre un quarto della fascia giovanile fino a 34 anni[30]. Secondo dati Eurostat nel 2017 oltre l'80% dei giovani italiani fino a 29 anni viveva ancora presso la famiglia d’origine, presumibilmente perché mancano le condizioni soggettive ed oggettive per un distacco da essa.
Alcuni di questi casi richiamano le “sindrome di Peter Pan” o neotenia psicologica, descritta dallo psichiatra americano Kiley[31] come la tendenza a comportarsi da minorenni pur essendo in età adulta; casi che spesso trovano una apertura relazionale prevalentemente su Internet e nei social[32].
Questi sono i casi concreti con cui si trova ad interagire il giudice che valuta sul merito, mentre le norme valutano principi e “soglie” temporali che solo artificiosamente possono essere oggettive e universali come il diritto richiederebbe.
3. Alcune considerazioni sistematiche sulle modifiche della famiglia e del diritto familiare.
Come per tutte le norme che riguardano ampi e complessi aspetti culturali e valoriali, il legislatore nell’ambito della famiglia può limitarsi a riconoscere sul piano giuridico quanto già avviene in quello sociale, senza valutare se questa presa d’atto normativa possa avere risvolti controproducenti sul piano psicologico ed educativo. Diversa logica ha il diritto penale, dove le variazioni nella quantità e qualità dei reati inducono al contrario ad adeguare le soglie (si pensi all’età di imputabilità dei minorenni) o a modificare i criteri (come per i reati su internet) per contrastare i fenomeni sociali, e non per assecondarli come invece avviene nel diritto di famiglia.
Nel primo dei due casi considerati in questo articolo (il “divorzio breve”), il legislatore riconosce che i matrimoni vanno in crisi sempre più e sempre più presto, per cui abbrevia le procedure per sancire legalmente questa rottura, sperando così di ridurre i tempi di conflitto e con essi le ripercussioni per gli eventuali figli (esito peraltro non provato empiricamente). Non si considera che potrebbe essere socialmente utile prevenire a monte le facili rotture, anzi si evita il problema.
Le norme che assecondano cambiamenti culturali rischiano di accelerarne lo sviluppo in direzioni non prevedibili e non sempre positive. Per controllare e monitorare questi rischi, servirebbe una accentuata ponderazione delle procedure extra-giuridiche in grado di regolare le crisi di coppia di chi aveva deciso di celebrare il vincolo matrimoniale, senza limitarsi alla convivenza non formalizzata. Procedure da mettere in atto prima del matrimonio con una mirata preparazione delle coppie che intendono formalizzare il legame; durante le crisi di coppia, specie se in presenza di figli minorenni, favorendo procedure di “mediazione” (seppur non obbligatorie) prima della decisione definitiva di separarsi e poi divorziare. Dopo la separazione e il divorzio, per assicurare la serenità ed il benessere dei figli minori e per mantenere un positivo rapporto sia con entrambi i genitori naturali che con la nuova famiglia allargata ove costituita, occorrerebbe l'introduzione nel nostro sistema giuridico di strumenti nuovi e facilmente accessibili per tutti, anche sul piano economico.
Analoghe considerazioni possono essere fatte per il mantenimento dei figli maggiorenni.
Come si inserisce il diritto nelle complesse dinamiche psico-sociali di “prolungamento adolescenziale” che conseguono ai cambiamenti del rapporto di responsabilità genitoriale? Bloccare al compimento della maggiore età, o al compimento degli studi[33], il diritto di mantenimento – come avviene in alcuni sistemi stranieri, salvo provvedimenti per situazioni particolari — darebbe impulso di necessità alla ricerca di autonomia lavorativa, cercando un lavoro capace di dare indipendenza economica anche se non corrispondente alle aspirazioni e agli studi compiuti. In altri casi favorirebbe il perdurare del “mantenimento diretto” sotto forma della convivenza del figlio maggiorenne con i genitori, o comunque di un prolungato finanziamento, non vincolato giuridicamente ma liberamente accettato dalle parti.
Entrambe le soluzioni sarebbero lasciate all’influenza delle condizioni economiche e affettive del nucleo familiare. Il rischio nel primo caso è che la necessità di adeguarsi a qualunque lavoro, per l’impossibilità o la negazione del mantenimento familiare, sia frustrante per il diritto alla realizzazione di sé del giovane adulto. Nel secondo caso si rischia che il prolungarsi del volontario e consensuale mantenimento trasformi la convivenza in connivenza ad una mancata adultizzazione dell’eterno “figlio di casa”, e all’incremento del citato fenomeno dei “Neet”.
Ma lo stesso rischio di legittimare la rinuncia a formarsi e a lavorare si potrebbe avere lasciando a tempo indefinito l’obbligo giuridico di mantenimento. Si potrebbe agevolare la ricerca di forme di lavori a tempo parziale, magari interessanti e corrispondenti alle attitudini e alle aspirazioni, ma insufficienti ad assicurare reale indipendenza economica e possibilità di farsi una famiglia. In questo senso con l’istituto del “reddito di cittadinanza” e alcuni suoi presupposti regolamentari (chi ha meno di 26 anni viene considerato figlio a carico e quindi rientra nel reddito che viene erogato all’intera famiglia) si sono aperte prospettive nuove i cui effetti sulla psicologia giovanile non sono stati ancora studiati a sufficienza.
In definitiva, il diritto dovrebbe agevolare processi di autonomizzazione nelle fasi evolutive, senza rischiare di bloccarli per eccessivo garantismo o per la mancata considerazione dei rischi di tipo psicologico e sociale. La durata di prolungamento della adolescenza, e quindi del diritto al mantenimento, va considerata caso per caso contemperando – anche mediante il supporto di una valutazione specialistica di tipo psicologico – l’analisi dei bisogni di tipo soggettivo e delle condizioni psicologiche e sociali che consentono di appagarli correttamente e in tempi ragionevoli.
4. Per (non) concludere…
I casi esemplificati ripropongono un dilemma ben noto nella filosofia del diritto: le norme possono derivare da processi in atto nel sistema sociale e consolidarli, oppure tendono ad opporsi ad essi per contenerne il dilagare.
Mentre nel diritto penale la seconda opzione è più frequente – seppur non senza contraddizioni e aporìe – nel civile la prima sembra prevalere, con l’eccezione di contestazioni basate su aspetti ideologici o morali che proprio alla famiglia fanno per lo più riferimento (si vedano i referendum contro il divorzio e l’aborto, le critiche alle norme sulla procreazione assistita, sui diritti delle coppie LGTB, ecc.). Ma entrambe le opzioni dovrebbero essere basate anche sui risultati delle scienze comportamentali e sociali, al fine di tener conto dei molteplici aspetti di problemi complessi e mai univoci.
La conclusione – che apre ulteriori spazi di riflessione – è dunque che occorre aumentare la ricerca su questi temi come premessa delle decisioni sulle modifiche normative e sulla loro periodica revisione. La ricerca deve riguardare gli aspetti “comparati” (è utile sapere come in altri paesi si risponde ad analoghi problemi, e quali effetti i cambiamenti normativi hanno avuto) ma anche lo studio empirico dei trend evolutivi del sistema famiglia e delle ripercussioni su di esso delle norme vigenti e di quelle che il legislatore decide di modificare.
Per limitarci agli esempi riportati in questo articolo, andrebbe seguito longitudinalmente il trend delle separazioni e dei divorzi brevi e le sue specifiche conseguenze sulla coppia e sugli eventuali figli. Attraverso la ricerca si possono prevedere i fattori che conducono alla separazione coniugale, si può far fronte alle ripercussioni che tale evento causa, ed evitare quindi uno scioglimento poco ponderato del vincolo matrimoniale, o almeno limitarne le conseguenze negative[34].
Analogamente la ricerca empirica può approfondire cause e conseguenze del prolungamento “adolescenziale” che impedisce l’autonomizzazione del maggiorenne dalla famiglia di origine: conoscere i fattori causali e le possibili conseguenze emotive e motivazionali può aiutare a programmare meglio i cambiamenti legislativi o regolamentari.
La ricerca potrebbe scoprire eventuali connessione tra i fenomeni considerati separatamente: la facilitazione delle separazioni può avere ripercussioni sul mantenimento prolungato dei figli di genitori separati? In generale, esistono dei fattori sovraordinati, ad esempio riferiti al valore attribuito alla famiglia, che agiscono su più aspetti comportamentali di rilevanza giuridica?
Lo stesso si può dire per le altre tematiche di interesse attuale per il diritto familiare, alcune delle quali trattate – come si è detto in premessa – in questa Rivista.
Famiglie ricostituite (con corollario di fratelli, nonni ed altri parenti “acquisiti”), coppie di cultura mista, famiglie di fatto, omogenitoriali, genitorialità surrogate… capitoli di manuali di sociologia e psicologia andrebbero riscritti, e parallelamente articoli del diritto familiare aggiornati, tenendo conto gli uni degli altri. L’approccio interdisciplinare non può che essere il cardine della trasformazione parallela delle scienze coinvolte (quelle giuridiche, sociologiche, psicologiche, educative). E la ricerca di connessioni tra fenomeni diversi e apparentemente separati potrebbe aggiungere informazioni “di sistema” utili per il legislatore e per chi le leggi deve poi applicare.
Essenziale è evitare posizioni di matrice ideologica che definiscono a priori e in generale quale famiglia è “normale” e quale “migliore” per la crescita dei figli. Sulla base di dati scientificamente consolidati, il sistema giuridico può essere messo in grado di provvedere a ragion veduta e con ponderate probabilità di efficacia. E sulla stessa base, i servizi di prevenzione e di intervento sulla salute dei cittadini possono mettere in atto procedure adeguate a salvaguardare – insieme ai diritti - il benessere delle famiglie nelle diverse formazioni e trasformazioni.
Autori:
Santo Di Nuovo - Professore di Psicologia Giuridica nell’Università di Catania, componente del Centro interdipartimentale per i diritti dei minori e delle famiglie. Già giudice onorario nel Tribunale per i minorenni e poi nella Corte d’appello minori e famiglia di Catania. Presidente della Associazione Italiana di Psicologia.
Alessandra Garofalo - Avvocato del foro di Catania. Collaboratrice della Cattedra di Psicologia giuridica dell’Università di Catania.
[1] Tra gli articoli apparsi di recente su Giustizia Insieme, segnaliamo: M. Monteleone, “Apporto sulla violenza di genere e domestica nella realtà giudiziaria”, 26.07.2021; R. Rosetti, “La Riforma della filiazione e l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità”, 22.7.2021; S. Ciardo, “Il curatore speciale del minore nel conflitto e nella “relazione di cura”: prospettive di riforma”, 09.07.2021; S. Stefanelli “Italia riconosce l’adozione straniera di minori da parte di una coppia maschile, ma solo in assenza di surrogacy”, 29.06.2021; M.R. Bianca, “Assegno divorzile e nuova famiglia di fatto”, 14.5.2021; R. Russo (intervista a G. Luccioli, M. Gattuso, M. Paladini e S. Stefanelli) “Maternità surrogata e status dei figli”, 06.11.2020; I. Boiano, “Ripartire dai fatti: per un diritto delle relazioni familiari che parta dall’esperienza”, 04.11.2020; M.G. D’Ettore e R. Russo, “L’adozione di maggiorenni e la tutela dei legami familiari di fatto”, 31.10.2020; R. Russo, “Gli incerti confini della genitorialità fondata sul consenso: quando le corti di merito dissentono dalla Cassazione” 28.05.2020; G. Luccioli, “Il parere preventivo della Corte Edu e il diritto vivente italiano in materia di maternità surrogata: un conflitto inesistente o un conflitto mal risolto dalla Corte di Cassazione?” 22.05.2020.
[2] Istat, Matrimoni, unioni civili, separazioni e divorzi, anno 2019. https://www.istat.it/it/files/2021/02/Report-matrimoni-unioni-civili-separazioni-divorzi_anno-2019.pdf
[3] M. Blasi, Divorzio ‘breve’ e ‘facile’, Giappichelli, Torino 2015; R. Rossi, Divorzio breve e negoziazione assistita, Giuffrè, Milano 2015.
[4] L. Vasselli, Accordi di famiglia: matrimonio, unione civile, convivenza, Giappichelli, Torino 2018, p. 243.
[5] E. Scabini, V. Cigoli, Il famigliare. Legami, simboli e transizioni. Cortina, Milano 2000, p. 201.
[6] V. Cigoli, Clinica del divorzio e della famiglia ricostruita. Il Mulino, Bologna 2017, pp. 60-61.
[7] N. Fabbro, S. Bernardelli, S. Castagna, I. Domenichini, F. Gamba, E. Zanolla, “Effetti della separazione e del divorzio dei genitori sulla qualità dell’attaccamento del figlio”, in Cognitivismo Clinico, 2009, 6, 74-92.
[8] Sull’argomento: R. Quaglia, C. Longobardi C., “Childless: gli amanti delle culle vuote”, in Psicologia Contemporanea, 2005, 190, 3; C. Agrillo, C. Nelini C. “Figli di una società senza tempo: una lettura socio-biologica del fenomeno childfree”, in Rivista di Studi Familiari, 2007, 12, 124; L. Mencarini, M.L. Tanturri, “Childless or Child-free? Paths to voluntary childlessness in Italy”, in Population and Development Review, 2008, 34; S. Basten, “Voluntary childlessness and being childfree”, in The Future of Human Reproduction, 2009, 5, 2.
[9] Questo paragrafo riprende parti di un articolo pubblicato sulla rivista “Psicologia e Gustizia” (XXII, n.2, 2021), che contiene anche approfondimenti di tipo comparatistico fra sistemi giuridici di diverse nazioni.
[10] R. Russo, “Figli maggiorenni e mantenimento: la Cassazione cambia orientamento?” In Giustizia Insieme, 03.09.2020; G. Gilardi, “Ancora su figli maggiorenni e diritto al mantenimento”, Giustizia Insieme, 16.10.2020.
[11] Il D.Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 abrogando l'art.155-quinquies c.c. ne ha trasferito il contenuto nell'art. 337-septies c.c.
[12] Cass. Civ. 21 febbraio 2007, n. 4102, con nota di Greco, Mantenimento del figlio maggiorenne e prova della raggiunta indipendenza economica; Cass. Civ. 22 marzo 2012, n. 4555, in Foro It., 2012, 1384 ss.; Cass. Civ. 30 marzo 2012, n. 5174 in Giust. Civ., 2012, 1435 ss; Cass. Civ. 26 settembre 2011, n. 19589, in Foro It., 2012, 1556 ss.; recentemente, Cass. Civ. 2 febbraio 2015, n. 1798, in www.questionididirittodifamiglia.it.
[13] Significativa è la sentenza della Cass. Civ. 20 agosto 2014 n. 18076, che si è pronunciata sulla necessità di individuare un limite temporale sul caso di figli ultracinquantenni.
[14] Cass. Civ. 22 giugno 2016, n. 12952, in Foro It., 2016, 9, 1, 2741; Cass. Civ. 26 settembre 2011, n. 19589, in CED, 2011; Cass. Civ. 6 novembre 2006, n. 23673, in Not., 2007, 2, 142; Cass. Civ. 3 novembre 2006, n. 23596, in Foro It., 2007, 1, 1, 86. Per orientamento dottrinario conforme si veda Rossi, Il mantenimento dei figli, cit., 137-139; Basini, I diritti e doveri dei genitori e dei figli, cit., 4054; Auletta, “Il diritto al mantenimento a favore dei figli maggiorenni”, in Della Famiglia. Artt. 74-176, a cura L. Balestra, in Commentario del Codice civile, diretto da E. Gabrielli, Torino, 2010; Arceri, “Diritto al mantenimento del figlio maggiorenne: inedite posizioni di un giudice di merito sulla legittimazione a spiegare intervento e sui presupposti di legittimazione attiva”, in Famiglia e Diritto, 2009, 12, 1140.
[15] Cass. Civ. 26 gennaio 2011, n. 1830.
[16] Cass. Civ. 22 giugno 2016, n. 12952; Cass. Civ. 7 luglio 2004, n. 12477.
[17] Cass. Civ. 6 aprile 1993, n. 4108, in motivazione, in tema di assegnazione della casa coniugale per convivenza con i figli maggiorenni; Cass. Civ. 22 giugno 2016, n. 12952, cit.
[18] Cass. Civ., 2 luglio 2021, n. 18785, ord.; Cass. Civ., 5 marzo 2018, n. 5088, ord.; Cass.Civ., 22 giugno 2016, n. 12952, cit..
[19] Cass. Civ., 14 agosto 2020, n.17183, ord., cit.
[20] Cass. Civ. 16 settembre 2020, n. 19299 , ord.
[21] Cass. Civ. 26 gennaio 2011, n. 1830; Cass. Civ. 17 novembre 2006, n. 24498.
[22] Cass. Civ. 27 gennaio 2014, n. 1585, in Fam. e dir., 2017, 134 ss.; Cass. Civ. 2 dicembre 2005, n. 26259, in Nuova giur. civ. comm., 2006, I, 1089 ss; C. App. Catania, 2014, in Resp. civ. prev., 2015, 616 ss.
[23] Cass. Civ. 25 settembre 2017, n. 22314, ord.
[24] Cass. Civ. 13 dicembre 2020, n. 29977.
[25] Cass. Civ. 20 agosto 2020, n. 17380, ord.
[26] Cass. Civ. 30 giugno 2021, n. 18608, ord.; Cass. Civ. 14 dicembre 2018, n. 32529, ord.; Cass. Civ., 11 gennaio 2016, n. 214, ord.; Cass. Civ., 20 giugno 2014, n. 14143, ord.
[27] P. Blos, L'adolescenza. Un'interpretazione psicoanalitica, F. Angeli, Milano, 1993 (ed. or. 1962). Blos riprendeva concetti già espressi da Bernfeld negli anni ’20 e commentati da Anna Freud.
[28] E. Erikson, Gioventù e crisi di identità, Armando, Roma 1975 (ed. or. 1968).
[29] M.S. Agnoli (a cura di), Generazioni sospese : percorsi di ricerca sui giovani Neet, F. Angeli, Milano 2014.
[30] Caritas italiana, "Futuro anteriore", Rapporto su povertà ed esclusione sociale Roma 2017.
[31] D. Kiley The Peter Pan syndrome: men who have never grown up. Mead, New York 1983
[32] Ha fatto riferimento all’uso di internet come compensazione della moratoria sociale il sociologo ed economista Jeremy Rifkin: cfr. The Biotech Century, Tarcher, New York 1998.
[33] Questo limite diventa aleatorio quando la professione prescelta può prevedere molteplici percorsi post-lauream come tirocini, specializzazioni, perfezionamenti, dottorati, che allungano l’età di conclusione del percorso formativo senza possibilità di definizione a priori.
[34] S. Coontz, Marriage, a history: How love conquered marriage. Penguin, US 2016.
Riforma del Csm. Le proposte della Commissione Luciani
di Edmondo Bruti Liberati
Sommario: 1. Un rovesciamento di impostazione rispetto alla proposta Bonafede - 2. Progetto organizzativo Procure e tabelle Tribunale, Avvocati in Consiglio Giudiziario - 3. Valutazioni di professionalità e capacità organizzative - 4. Concorso di primo grado, accesso in Cassazione, magistrati fuori ruolo - 5. Magistrati in politica e nelle amministrazioni locali - 6. Sezione disciplinare e commissioni del Csm - 7. Sistema elettorale del Csm: il Voto Singolo Trasferibile.
1. Un rovesciamento di impostazione rispetto alla proposta Bonafede
In attesa del deposito da parte del governo degli emendamenti al Ddl “Bonafede” AC 2681, si propone una impressione a prima lettura su alcune delle principali proposte avanzate dalla Commissione Luciani.
È netto il rovesciamento di impostazione rispetto alla proposta Bonafede che mirava a mutare profondamente il ruolo che la Costituzione attribuisce del Csm nella “amministrazione della giurisdizione” circoscrivendo puntigliosamente, anche con sorteggi e punteggi, la discrezionalità del Consiglio nell’esercizio delle sue attribuzioni. Vi erano addirittura passi delle norme di delegazione che apparivano più analitici delle attuali circolari del Csm. Una serie di disposizioni, talune con un livello di dettaglio quasi da regolamento interno del Csm, avrebbero indotto rigidità difficili da superare, una volta che fossero insorte nella pratica. La finalità trasparente era quella di circoscrivere, se non eliminare, il rilievo della potestà normativa secondaria del Csm, attuata con le circolari e le disposizioni regolamentari.
Il profilo più rilevante di questo rovesciamento di impostazione operato dalla Commissione Lattanzi si coglie nel pieno riconoscimento dell’autonomia del Csm nel procedere con le cosiddette “Circolari” a dare attuazione ai principi generali fissati con la legge.
La prima ricaduta è nell’abbandono di quelle disposizioni della proposta Bonafede, che miravano ad imbrigliare ogni valutazione discrezionale del Csm nel conferimento degli incarichi direttivi introducendo un sistema di punteggi. Impostazione irrazionale e per di più illusoria perché l’esercizio di discrezionalità veniva trasferito al momento dell’attribuzione di punteggi, con il solo concreto risultato di incrementare il contenzioso davanti ai TAR. La stessa osservanza dell’ordine temporale delle vacanze si prevede ora che possa cedere a fronte di “ragionevoli e giustificate deroghe”.
Una scelta radicale è l’abbandono di tutte le disposizioni tese ad introdurre in diversi ambiti ed articolazioni il sistema del sorteggio. Sembrava quasi che vi fosse stata la scelta di gettare random nell’articolato la parola magica “sorteggio”.
2. Progetto organizzativo Procure e tabelle Tribunale, Avvocati in Consiglio Giudiziario
Proseguiamo nel ripercorrere le più significative innovazioni, seguendo l’ordine dell’articolato del Ddl AC 2681, Delle ragionevoli proposte del Ddl Bonafede, quella dell’allineamento delle procedure per le tabelle degli uffici giudicanti e i progetti organizzativi delle procure viene meglio articolata proprio al fine di un maggiore coordinamento, valorizzando l’intervento del Csm in ordine al progetto organizzative delle Procure..
Sulla questione della partecipazione dell’avvocatura ai lavori dei Consigli giudiziari la Commissione propone la partecipazione “con pieno diritto di parola”, ma non il voto. Una soluzione che raccoglie e stabilizza la positiva esperienza del cosiddetto “diritto di tribuna” previsto nei regolamenti interni di diversi Consigli giudiziari, ma di recente inspiegabilmente rimesso in discussione in talune sedi. Escludere la partecipazione con diritto di voto sulle valutazioni di professionalità non è una concessione alla corporazione dei magistrati, ma tiene conto della particolare situazione dell’avvocato che si trovi a dover valutare il magistrato che opera nella sua stessa sede. Già oggi è opportunamente previsto che osservazioni possano essere avanzate dall’Ordine degli Avvocati, in quanto organo collegiale, e vi è semmai da rilevare che troppo raramente l’avvocatura si è avvalsa di questa facoltà.
3. Valutazioni di professionalità e capacità organizzative
Un’innovazione significativa riguarda il sistema delle valutazioni quadriennali di professionalità. Attualmente sono previsti tre tipi di valutazione: negativo, non positivo e positivo. Si prevede che il giudizio positivo sia ulteriormente articolato in “discreto, buono o ottimo con riferimento alle capacità di organizzazione del proprio lavoro”.
Si stabilisce una graduatoria più dettagliata, che peraltro non esprime un valore in assoluto, ma si riferisce esclusivamente alle capacità organizzative. Viene spesso rilevato che le valutazioni “negative “ e “non positive” raggiungono una percentuale ridottissima. A dispetto dei toni polemici con i quali spesso sono citati questi dati, si deve ricordare che è del tutto fisiologico che i casi di magistrati da “espellere” siano limitati, come risulta anche dalle statistiche di altri paesi europei. Semmai si dovrebbe rendere possibile una maggiore possibilità di ricorrere alla valutazione “non positiva”, la quale, senza l’automatismo della decadenza dall’ordine giudiziario, potrebbe valere come robusto stimolo a correggere insufficienze.
L’idea sottesa alle posizioni liquidatorie dell’attuale sistema di valutazioni sembra essere quella di stabilire tra i magistrati una graduatoria di merito assoluto. A parte la impraticabilità di questa graduatoria, tanto diverse sono le funzioni e le specializzazioni in magistratura, con le impostazioni scandalistiche e demagogiche si dimentica che l’obbiettivo da perseguire non può essere quello di selezionare un gruppetto di magistrati eccellenti, da assegnare magari agli uffici più importanti, ma quello di un livello medio diffuso di adeguata professionalità, sempre in aggiornamento. Con queste cautele sembra di capire che l’obbiettivo dell’emendamento proposto sia quello di arricchire gli elementi di valutazione presenti nel fascicolo personale per l’eventuale futuro conferimento di funzioni direttive o semidirettive.
4. Concorso di primo grado, accesso in Cassazione, magistrati fuori ruolo
Si ribadisce l’abbandono del concorso di secondo grado consentendo la partecipazione al concorso per l’accesso in magistratura subito dopo la laurea. Per la prova scritta del concorso si prevedere che non debba limitarsi alla capacità risolutiva di casi pratici, ma “abbia la prevalente funzione di verificare la capacità teorico-sistematica dei candidati”. Opportuna precisazione, anche se non si ha il coraggio di prospettare una prova che saggi la apertura culturale e la capacità di elaborazione autonoma dei canditati, come previsto in Francia.
Per l’accesso in cassazione si richiedono dieci e non quattordici anni di esercizio di funzioni di merito. Si abbandona la prospettiva del ridimensionamento dell’ufficio del massimario e del ruolo della cassazione e si prevede per l’accesso la seconda e non la terza valutazione di professionalità.
La questione del collocamento fuori ruolo dei magistrati viene affrontata con una prospettiva di ridefinizione dei presupposti e di riduzione del numero complessivo, prevedendo peraltro eccezioni. Per l’accesso a posti fuori ruolo si richiede la terza valutazione di professionalità, la necessità di un periodo di ritorno all’esercizio delle funzioni giurisdizionali per almeno tre anni dopo un periodo di fuori ruolo superiore a cinque anni, la limitazione del periodo massimo di fuori ruolo a dieci anni, salvo deroghe espressamente indicate. Riduzione del numero complessivo, delimitazioni temporali, ma il tutto, opportunamente, “salvo deroghe”. Si fa giustizia insomma di demagogiche quanto diffuse, all’esterno e all’interno della stessa magistratura, crociate contro i magistrati fuori ruolo, che in molte situazioni assicurano una competenza professionale non altrimenti reperibile.
5. Magistrati in politica e nelle amministrazioni locali
L’abbandono di prospettive demagogiche ispira anche le proposte in tema di candidature di magistrati a funzioni politiche o ammnistrative e rientro in ruolo dopo l’incarico. A ridimensionare l’enfasi sulle cosiddette “porte girevoli” nella Relazione della Commissione Luciani si scrive testualmente: “si tratta di materia che ha molto attirato l’attenzione della pubblica opinione, per quanto la relativa casistica sia piuttosto limitata”. Ma non mancano apprezzabili proposte di modifica:” Quanto all’accesso dei magistrati alla titolarità di cariche rappresentative o di governo, la scelta è nel senso di proporre una disciplina più rigorosa di quella ivi ipotizzata, ritenendosi che qualsiasi incarico di natura politica sia suscettibile di appannare l’immagine di indipendenza e imparzialità della magistratura. Quanto al ricollocamento in ruolo dei magistrati che abbiano aspirato a conseguire o abbiano conseguito tali cariche, invece, la scelta è stata in favore di un loro ricollocamento nei ruoli della magistratura, ma con decise limitazioni alle funzioni esercitabili”
Peraltro le innovazioni più incisive attengono alle candidature nelle amministrazioni locali. I limiti alla eleggibilità sono riferiti a tutti i comuni e non solo a quelli con popolazione superiore a 100.000 abitanti (basti pensare che vi sono capoluoghi di regione che non raggiungono quella soglia), sono estesi dalla carica di sindaco anche a quella di consigliere comunale, nonché a quelle di assessore e sottosegretario regionale e assessore comunale.
Vi è da augurarsi che questa più rigorosa disciplina, da tempo invano auspicata dalla Associazione Nazionale Magistrati, finalmente entri in vigore. Infatti i casi che maggiormente hanno suscitato fondate critiche sono stati propri quelli delle candidature nelle amministrazioni locali.
6. Sezione disciplinare e commissioni del Csm
Quanto alla composizione della Sezione disciplinare del Csm e delle Commissioni si abbandonano tutte le disposizione del Ddl Bonafede che prevedevano il ricorso al metodo del sorteggio sottolineando che questo “sembra implicare una sorta di contraddittoria sfiducia nell’efficacia delle misure che si vanno proponendo, dalle quali dovrebbe invece scaturire una forte responsabilizzazione sia dell’intera magistratura che del Consiglio superiore”.
Si conferma la scelta del Ddl Bonafede di aumento del numero dei componenti del Csm a trenta e all’art. 20 si aggiunge un comma 1-bis: “ All’interno del Consiglio i componenti svolgono le loro funzioni in piena indipendenza e imparzialità. magistrati eletti si distinguono tra loro solo per categoria di appartenenza”, ma viene soppressa la disposizione del ddl Bonafede: «All’interno del Consiglio non possono essere costituiti gruppi tra i suoi componenti”.
Nel procedimento di formazione delle commissioni si prevede che la nomina, ogni anno da parte del Presidente della Repubblica, sia preceduta dalla audizione di tutti i consiglieri. La finalità è quella di “assicurare una libera dialettica interna, senza – però – il rischio di una negoziazione incompatibile con le alte funzioni dell’organo”.
Per le incompatibilità previste dei componenti della sezione disciplinare viene mantenuta quella con le “commissioni per le valutazioni di professionalità e in materia di incompatibilità nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e di applicazione dell’articolo 2, secondo comma, del regio decreto 31 maggio 1946, n. 511”;viene invece eliminata la incompatibilità con la commissione incarichi direttivi, ma si aggiunge che i componenti effettivi possono essere assegnati a una sola commissione. Si mantiene l’aumento del numero dei componenti supplenti da quattro a cinque. Si introducono nuove disposizioni in base alle quali la” sostituzione dei componenti della sezione disciplinare, che può essere disposta solo in caso di incompatibilità o impedimento assoluto. Il Presidente della sezione disciplinare predetermina i criteri per l’assegnazione dei procedimenti ai componenti effettivi della sezione e li comunica al Consiglio”.
Viene soppressa la organizzazione della sezione disciplinare su due collegi di tre componenti ciascuna, prevista nel Ddl Bonafede; non vi è alcuna ragione di efficienza poiché la sezione disciplinare non ha un significativo arretrato, mentre si sarebbe introdotto il rischio di divergenze interpretative tra le due sezioni, ultima tra le cose auspicabili in questa materia. Nonostante la, tendenziale, tipizzazione degli illeciti e delle correlative sanzioni, il margine di discrezionalità nell’applicazione di qualunque sistema disciplinare rimane rilevante. Per questa stessa ragione la composizione della sezione disciplinare deve essere sufficientemente ampia per poter rispecchiare le diverse sensibilità presenti tra i componenti, laici e togati del Csm. Le donne e gli uomini, le persone in carne e ossa che compongono di volta in volta il Csm, hanno idee diverse in generale sui problemi di giustizia e in particolare sulla deontologia, nell’ampio margine tra i due estremi del rigorismo eticizzante e del lassismo corporativo.
7. Sistema elettorale del Csm: il Voto Singolo Trasferibile
Ed infine alcune notazioni sul tema del sistema elettorale dei togati per il Csm. Nella Relazione si condivide la ferma convinzione, manifestata dalla Ministra Guardasigilli che “non debba nutrirsi l’illusoria rappresentazione che un intervento sul sistema elettorale del Consiglio superiore della magistratura possa di per sé offrire una definitiva soluzione alle criticità che stanno interessando la magistratura italiana, le quali attingono invero a un sostrato comportamentale e culturale che nessuna legge da sola può essere in grado di sovvertire”.
Si propone una radicale riforma del sistema elettorale abbandonando quella proposta nel ddl Bonafede ritenuta “ non soddisfacente”. Con questo eufemismo viene liquidata una proposta che avrebbe potuto raggiungere in non facile l’obbiettivo di superare in irrazionalità il vigente sistema.
Gli obbiettivi da perseguire vengono così indicati nella Relazione della Commissione:
“a) la massima apertura del confronto elettorale, al quale non possono ovviamente rimanere estranee le realtà associative della magistratura, ma che da queste non può essere interamente condizionato, pena il venir meno della ricchezza pluralistica del confronto medesimo;
b) la promozione della massima possibile qualità delle candidature;
c) la valorizzazione del potere di scelta dell’elettore;
d) la registrazione di quel pluralismo della magistratura cui fa riferimento il punto 27 della “Appendix to Recommendation CM/Rec(2010)12” del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa del 17 novembre 2010.”
Il sistema proposto è quello del Voto Singolo Trasferibile il quale “consente di produrre, in collegi di ampiezza almeno media (quattro – cinque seggi) dei risultati di tipo tendenzialmente proporzionale e valorizza fortemente il potere di scelta dell’elettore, eliminando il fenomeno del voto inutile, grazie al trasferimento ad altri candidati delle preferenze espresse dagli elettori di candidati già eletti o giunti ultimi nel confronto elettorale.”
Tra gli elementi più rilevanti sono indicati l’opzione per le candidature individuali in luogo di quelle di lista; la riduzione delle firme necessarie per la presentazione delle candidature allo scopo di aumentarne il numero e la previsione di un’incentivazione alla presentazione di candidature che rispettino il principio della pari opportunità di genere.
Non ritorno sulle problematiche peculiari dei sistemi elettorali del Csm, rinviando a quanto già esposto in un mio intervento in questa Rivista ( Quale sistema elettorale per quale Csm, 18 giugno 2020). Il sistema del VST valorizza certamene la libera scelta dell’elettore e, tra le diverse versioni ipotizzabili, quella proposta si segnala per la scelta di collegi piuttosto ampi, contrastando le derive localistiche e la logica dei notabilati.
Del tutto inutile, invece, la riduzione del numero di firme necessarie per la presentazione. La esperienza di decenni di applicazione di diversi sistemi elettorali ha mostrato che questo è un “non problema”: chi aspira ad essere eletto oggi deve contare sul consenso di 500/600 elettori e non dovrebbe avere difficoltà a raccogliere in un grande collegio qualche decina di firme a sostegno.
Molto realisticamente, pur rilevando che le candidature sono individuali, si riconosce che al confronto elettorale “non possono ovviamente rimanere estranee le realtà associative della magistratura”. Si tratta di un dato della realtà: finché le “correnti” ( anzi le realtà associative della magistratura, come più correttamente si esprime la Relazione) raccolgono consensi tra i magistrati, quale che sia il sistema elettorale, esse interverranno a sostenere i candidati che a quel gruppo fanno riferimento, vi sia o no la formale presentazione di una lista. E’ altrettanto pacifico che un candidato cosiddetto indipendente se vuole avere qualche chance di essere eletto deve fare riferimento ad un bacino di sostegno, una “corrente non corrente”. Non è un caso che un gruppo di magistrati anti-correnti in vista delle ultime elezioni per il Comitato Direttivo Centrale per contrastare il “sistema delle correnti” si sia organizzato in “corrente”.
Il nodo fondamentale è che il sistema elettorale non induca, né consenta agli apparati di vertice dei gruppi di bloccare le indicazioni di voto; ciò che ha indotto l’improvvido sistema vigente e ciò che il VST esclude. Verosimilmente vi saranno liste, ma l’elettore utilizzando i diversi voti, potrà indirizzare il suo sostegno anche a canditati sostenuti da altri gruppi.
Nella Relazione sul punto si conclude con una opportuna avvertenza:
“Nonostante l’esiguo tempo a sua disposizione, la Commissione ha comunque ritenuto di redigere un primo articolato, nel quale ha formalizzato le scelte ora descritte in sintesi. Segnala, nondimeno, che la redazione di una normativa elettorale richiede una disponibilità di tempo adeguata e che comunque è essenziale, anche sulla scorta di proiezioni operate con mezzi informatici, un’attenta verifica di tutti i particolari della disciplina quanto alla loro concreta operatività, verifica cui la Commissione, appunto per difetto di tempo, non ha potuto procedere.”
La Relazione propone una considerazione finale:
“La Commissione, peraltro, non può fare a meno di richiamare l’attenzione su ciò che nessun intervento riformatore può avere successo senza un profondo rinnovamento culturale, del quale devono essere partecipi la politica, i mezzi di informazione, l’opinione pubblica e – soprattutto – la stessa magistratura. Non spetta alla Commissione indicarne la direzione, sebbene essa emerga con chiarezza già dal nitido disegno costituzionale della magistratura e dei suoi rapporti con gli altri poteri dello Stato, che deve costituire l’ineludibile paradigma di riferimento”.
Note sul rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione di una questione di diritto da parte del giudice di merito*
di Giuliano Scarselli
Sommario: 1. Premessa. L’esigenza di affrontare preliminarmente talune questioni interpretative - 2. Rinvio pregiudiziale e competenza - 3. Segue: rinvio pregiudiziale e accertamento del fatto - 4. Segue: rinvio pregiudiziale e libertà del giudice - 5. Segue: rinvio pregiudiziale, diritto delle parti al contraddittorio e assenza di preclusioni temporali per l’emanazione dell’ordinanza di remissione - 6. Segue: rinvio pregiudiziale e andamento del processo a seguito della pronuncia della Corte di cassazione - 7. Segue: rinvio pregiudiziale e novità della questione - 8. Segue: rinvio pregiudiziale e natura del provvedimento con il quale la Corte di cassazione risolve il quesito di diritto - 9. Osservazioni conclusive.
1. Premessa. L’esigenza di affrontare preliminarmente talune questioni interpretative.
Il progetto di riforma del processo civile disciplina al punto g) dell’art. 6 bis (confluito poi senza modificazioni sostanziali in un ipotetico art. 362 bis c.p.c.), un nuovo strumento che può definirsi di remissione anticipata alla Corte di cassazione di un quesito di diritto. *
Con esso, il giudice del merito può rimettere in ogni tempo alla Corte di cassazione la risoluzione di un dubbio giuridico, se la questione è nuova, di particolare importanza e suscettibile di porsi in numerose future controversie.
In questo caso il processo è sospeso fino alla decisione della Corte di Cassazione, e successivamente il giudice del merito, al pari di un giudice del rinvio, deve attenersi al principio enunciato dalla cassazione, che resta vincolante “nel procedimento nell’ambito del quale è stata rimessa la questione”.
Si tratta di una novità assoluta per il nostro ordinamento, che sta già suscitando un vivo dibattito.
Io credo che questa novità ponga, però, preliminarmente, una serie di interrogativi di tipo esegetico; cosicché, a mio parere, si tratta prima di dare risposta a detti interrogativi, e solo dopo di valutare nel complesso la possibilità o meno di assegnare alla Corte di cassazione questo nuovo compito.
A ciò sono dedicate le (poche) pagine che seguono.
2. Rinvio pregiudiziale e competenza.
In primo luogo, direi, v’è da ricordare che vi sono giudizi civili che per loro natura non possono giungere in cassazione.
Ciò vale ad esempio, per tutte le controversie cautelari, o per quelle di giurisdizione volontaria, o in ogni altro caso ove il provvedimento da emanare non abbia natura decisoria.
In tutti quei casi, infatti, il giudizio di cassazione è escluso dalla legge e/o da orientamenti della stessa Corte di cassazione; e tuttavia questo non significa che per la decisione di quelle controversie non vi possa essere da risolvere, in talune ipotesi, una questione di diritto nuova e di particolare difficoltà.
Che succede in quelle fattispecie?
Il giudice non può utilizzare la pregiudiziale di diritto poiché ivi la cassazione non è mai, nemmeno astrattamente, competente a decidere, oppure questo limite non sussiste alla luce di una (egualmente esistente) superiore esigenza generale di certezza del diritto sulla questione dubbia, che potrebbe presentarsi in futuro in processi ove invece il ricorso per cassazione è ammesso?
O, detto in altro modo: la remissione pregiudiziale alla cassazione presuppone che la stessa possa essere, almeno astrattamente, chiamata alla decisione in quel processo, o al contrario la funzione di nomofilachia della Corte supera questo limite, consentendo, di fatto, alla Corte di cassazione, di decidere indirettamente una controversia che in base allo ius litigatoris non può essere dalla stessa decisa?
O, detto ancora in altro modo: nelle ipotesi nelle quali le parti non possono adire la cassazione, lo può fare il giudice con la remissione pregiudiziale di una questione di diritto, posto che lo stesso progetto esclude solo i casi nei quali il giudice operi in base agli artt. 394 e 400 c.p.c., ovvero quale giudice del rinvio oppure della revocazione, ma non ne esclude altri?
3. Segue: rinvio pregiudiziale e accertamento del fatto.
In secondo luogo, direi indiscutibilmente, ogni questione di diritto si connette pur sempre imprescindibilmente a dei fatti, cosicché nessun giudice può pronunciarsi in diritto se prima non ha fissato in modo preciso e specifico i fatti.
Si tratta, credo, di un principio elementare; e non a caso, ed anche per questo, la cassazione è infatti il giudice che si pronuncia per ultimo, ovvero è il giudice che si pronuncia dopo che i fatti sono stati definitivamente accertati con la pronuncia di merito di secondo grado.
Ora, però, il problema è che se la cassazione viene chiamata al contrario a pronunciarsi in un momento anteriore alla fissazione definitiva dei fatti, il rischio è che la sua anticipata attività scombini un po’ le regole, e soprattutto possa essere attività sempre successivamente opinabile per il giudice e le parti per non corrispondenza o completezza dei fatti al principio di diritto pronunciato.
Ora, si potrebbe, a fronte di ciò, superare il problema asserendo che il giudice del merito non può mai rimettere una questione di diritto alla Corte di cassazione prima della chiusura dell’istruttoria, ovvero prima di avere la certezza del fatti.
Ma, a parte il fatto che giungere ad una simile conclusione sarebbe escludere la remissione della questione (sostanzialmente) per tutto il processo di primo grado, è chiaro che detto correttivo non sarebbe comunque sufficiente, poiché anche dopo la chiusura dell’istruttoria si può depositare un documento sopravvenuto, oppure chiedere una remissione in termini, oppure far disporre un giuramento decisorio, o infine lo stesso giudice di appello, anche in forza del medesimo materiale istruttorio, può sempre ricostruire i fatti in modo diverso da come li aveva immaginati il giudice di primo grado.
Dunque, l’anticipazione del giudizio di diritto sulla fissazione dei fatti è qualcosa che evidentemente contrasta non solo con la logica, ma anche con gli stessi meccanismi della lite in sé considerata, e può giustificarsi solo in una ottica generalizzatrice che, in nome della nomofilachia, pone ogni altro aspetto in secondo piano.
4. Segue: rinvio pregiudiziale e libertà del giudice.
Si è detto, poi, che la remissione pregiudiziale alla Corte di cassazione non contrasta con il principio secondo il quale ogni giudice è, e deve essere, il giudice della lite della quale abbia competenza, poiché, in questi casi, si dice, è lo stesso giudice che sceglie di rimettere la questione alla Corte, nessuno lo obbliga, e tutto si mantiene così in un ambito di libertà che fa salvo il principio richiamato.
Il problema è che questo è vero solo in parte.
Il progetto di riforma, infatti, statuisce che “il giudice di merito” può rimettere la questione di diritto alla Corte di cassazione; dal che la disposizione deve essere interpretata nel senso che tutti i giudici di merito possono rimettere una questione di diritto alla Corte di cassazione, e quindi tanto il giudice di primo grado (si pensi, addirittura il giudice di pace, in controversie che magari non arriverebbero mai in cassazione per il loro scarso valore economico), quanto quello di appello.
Dopo di che la disposizione statuisce altresì che la decisione della Cassazione sul punto è vincolante “nel procedimento nell’ambito del quale è stata rimessa la questione”; ciò sta a significare che, se la questione viene rimessa dal giudice di primo grado, la statuizione vincola non solo il giudice che l’ha rimessa, ma anche quello successivo di appello, che pure si muove “nel procedimento nell’ambito del quale è stata rimessa la questione”, intendendo per “procedimento” evidentemente, l’intero processo, e non solo il grado.
Dunque, l’assunto secondo il quale questa novità non sottrae al giudice del merito il suo naturale diritto/dovere di decidere le questioni di diritto, non corrisponde a verità per il giudice di appello in tutti i casi nei quali la decisione di rimettere la questione preliminare sia stata fatta dal giudice di primo grado.
In questi casi, infatti, il giudice di appello si vede “costretto” a stare al principio affermato dalla Corte di Cassazione senza che la scelta di adirla in via preventiva sia stata fatta da lui.
Si tratta di un limite che non sembra compatibile con l’art. 101, 2° comma, della Costituzione.
5. Segue: rinvio pregiudiziale, diritto delle parti al contraddittorio e assenza di preclusioni temporali per l’emanazione dell’ordinanza di remissione.
Recita ancora il progetto di riforma che la questione di diritto può essere rimessa in via preventiva alla Corte di cassazione solo se su essa si è preventivamente provocato il contraddittorio tra le parti.
Tuttavia, stante l’assenza di ogni preclusione temporale per il giudice circa la pronuncia dell’ordinanza di rimessione della questione alla Corte di cassazione, l’attivazione del contraddittorio non dovrebbe egualmente impedire al giudice di pronunciare detta ordinanza in sostituzione della pronuncia della sentenza.
Si pensi: trattenuta la causa in decisione, scritte dalle parti le comparse conclusionali, il giudice potrebbe bene, invece di pronunciare la sentenza, attivare il contraddittorio ai fini della remissione della questione di diritto alla Corte di cassazione, se non addirittura emanare direttamente detta ordinanza considerando le problematiche in questo caso già trattate dalle parti con le comparse conclusionali.
E’ accettabile una simile cosa se questa si avvererà?
Possono le parti, invece di ricevere una sentenza, magari dopo quattro o cinque anni, vedersi sospeso il processo fino all’esito di un giudizio di cassazione attivato d’ufficio dal giudice?
Questa ipotesi di rinvio, così, va aggiungersi ad un'altra: la parte si rivolge al giudice per avere una sentenza, e invece questa può trovarsi dinanzi ad un mediatore (art. 5 , 2° comma d. lgs. 28/2010), ora addirittura dinanzi alla Corte di cassazione.
6. Segue: rinvio pregiudiziale e andamento del processo a seguito della pronuncia della Corte di cassazione.
Forse per timore, o forse per non creare ulteriori problemi esegetici, la norma non dà poi il regolamento dei mezzi di impugnazione una volta che la cassazione si sia pronunciata sulla questione di diritto; cosicché, stando alla norma, i mezzi di impugnazione restano i medesimi, e tutti egualmente esperibili.
Al tempo stesso, però, pare evidente si debba escludere che la questione decisa in via preliminare dalla Corte di cassazione possa di nuovo essere oggetto di impugnazione per le parti se correttamente rispettata e applicata dal giudice di merito.
Dal che, ancora, balza alla luce il contrasto tra pubblico e privato.
Da un punto di vista pubblico, possono esservi casi nei quali si avverte l’esigenza che la Corte di cassazione si pronunci subito sulla soluzione di una questione di diritto che potrebbe ripetersi in altri, successivi giudizi.
Dal punto di vista della singola lite, tuttavia, questa anticipazione del giudizio non sembra offrire alcun vantaggio alle parti, ma anzi può pesantemente aggravarle.
Impegna, infatti, le parti ad affrontare un giudizio di cassazione, e i suoi relativi costi, anche in assenza di una loro volontà, e anche nelle ipotesi nelle quali una delle parti non sia assistita nel giudizio di merito da un avvocato cassazionista (si spera, almeno, che in questi casi non vi sia da pagare il contributo unificato, ne’ sanzioni per soccombenza); non riduce i tempi del giudizio, poiché, anche dopo la pronuncia della cassazione, a nessuna parte è impedito, se questa vuole, di impugnare la decisione del giudice, financo, di nuovo, in cassazione; e, in ogni caso, la remissione pregiudiziale comporta la sospensione automatica del processo fino alla decisione della cassazione, con, evidentemente, l’ulteriore onere della parte di riassumere il processo sospeso; infine, creando quella scissione già sopra evidenziata tra accertamento dei fatti e decisione in diritto, introduce nel giudizio elementi di confusione che potrebbero essere utilizzati dalla parte che ha torto proprio per fini defatigatori.
7. Segue: rinvio pregiudiziale e novità della questione.
Si dice, poi, che la questione di diritto deve essere nuova, e per nuova, secondo il progetto di legge, si intende una questione non ancora affrontata dalla Corte di cassazione.
Se la cassazione si è già pronunciata, anche solo una volta, anche in sezione semplice, la questione non è nuova; viceversa se la questione è già stata affrontata da più di un giudice del merito, ma non dalla Corte di cassazione, allora la questione continua ad essere nuova.
Evidentemente, il progetto di riforma ha una visione della giurisdizione strettamente gerarchica.
Nel nostro sistema i precedenti sono solo quelli della cassazione?
V’è struttura gerarchica, quanto meno di fatto, tra Corte di cassazione e giudici di merito, e tutti questi ultimi devono solo ubbidienza alla prima?
Perché qui, par evidente, delle due l’una: - o noi andiamo verso un principio di ubbidienza del giudice del merito rispetto al dettato della cassazione, e allora questa riforma ha un senso; - oppure questa ubbidienza non fa parte del nostro sistema alla luce dell’art. 101, 2° comma Cost., e allora l’anticipazione del giudizio di diritto, che meglio e più precisamente la cassazione potrebbe rendere al termine del processo, non sembra novità ne’ utile ne’ proporzionata.
8. Segue: rinvio pregiudiziale e natura del provvedimento con il quale la Corte di cassazione risolve il quesito di diritto.
Infine, il compito della cassazione è, in questi casi, “la risoluzione di una questione di diritto”.
V’è da chiedersi, dunque, quale sia la natura di questo provvedimento, che si limita, state il tenore letterale della norma, a risolvere, appunto, una questione, non a decidere una controversia.
Ed il problema è presto detto: il provvedimento in questione mantiene natura giurisdizionale?
Poiché, ove non la mantenesse, allora lì qualcuno potrebbe asserire che alla Corte di cassazione vengono assegnate funzioni che non le sono proprie, più di consulto che giurisdizionali.
Evidentemente, in questa sede non è pensabile affrontare un tema di così grande e difficile impegno teorico quale quello della natura e dei limiti della funzione giurisdizionale; si tratta, però, di accertarsi che si continui ad assegnare alla Corte di cassazione il compito che le è proprio, e che è quello, al pari di tutti gli organi giurisdizionali, di provvedere alla decisione di un caso specifico.
Ora, la mera “risoluzione della questione di diritto” non sembra costituire decisione di un diritto controverso, ovvero, per restare ai concetti di Giuseppe Chiovenda, non sembra provvedimento che attribuisce o nega un bene della vita.
Si potrebbe sostenere che, in verità, niente di nuovo vi è tra la soluzione del quesito e la cassazione di un provvedimento di merito che apre al giudizio di rinvio, poiché in entrambe i casi abbiamo un susseguente giudice del merito che deve uniformarsi al principio di diritto dato dalla Corte di cassazione.
Io credo, invece, che qualche differenza al riguardo vi sia.
Perché qui abbiamo una cassazione che, in ogni caso, non può cassare, ovvero non può svolgere quella funzione per la quale ha da sempre questa denominazione.
Ed inoltre la cassazione “cassa” perché qualcuno gli chiede di farlo, nel rispetto del principio della domanda; qui, al contrario, abbiamo una cassazione che ha solo il compito di rispondere ad un quesito, per giunta senza domanda di parte.
E tale risposta non può considerarsi provvedimento decisorio, poiché la decisorietà del diritto controverso dipenderà, tutto al contrario, da una serie di ulteriori elementi che fuoriescono da ciò.
Al tempo stesso, giudice del merito e giudice del rinvio non possono essere messi sullo stesso piano, poiché mentre il giudice del rinvio opera quale giudice che completa, in fase rescissoria, la stessa impugnazione rescindente affidata alla Corte di cassazione, il giudice del merito non ha questo legame con la cassazione, non è giudice dell’impugnazione, ed opera in un processo che è aperto a tutte le novità che non siano già precluse dallo stato di avanzamento del processo stesso.
Insomma, un dubbio su una cassazione che non cassa non può non essere sollevato, ed è indubitabile che questa novità abbia introdotto dei meccanismi che incidono sugli stessi valori del processo civile.
9. Osservazioni conclusive.
Dunque, in estrema sintesi, a me il problema sembra proprio questo: questa riforma non si limita a porre una novità, essa al contrario incide sugli stessi valori del processo civile; e v’è da chiedersi, allora, se siamo disposti ad accettare non la semplice introduzione di un nuovo strumento processuale, bensì la svolta pubblicistica della giurisdizione civile che essa comporta.
Questa riforma presuppone infatti che si possa accedere alla Corte di cassazione senza domanda di parte, e impone alle parti, parimenti, di farsi carico di un giudizio in cassazione, con tutti i relativi onori, rischi e costi, anche quando le parti non vogliono; presuppone che la questione di diritto possa esser decisa allontanandosi dal fatto, che la funzione di nomofilachia possa consentire alla Corte di cassazione di (probabilmente) pronunciarsi anche in ipotesi nelle quali questa non potrebbe seguendo il normale cammino dei mezzi di impugnazione; presuppone altresì che i giudici di merito debbano adeguarsi ai dettati della Corte di cassazione, e consente ad essa di smarrire la sua funzione giurisdizionale, ovvero la sua funzione di giudice, per porsi invece (quasi) a metà strada tra il legislatore e la magistratura.
Dunque, può essere che ragioni di nomofilachia e di uniformità delle decisioni giustifichino questo nuovo istituto, ma al tempo stesso è indubitabile che esso mortifichi taluni principi di libertà processuali.
E’ trovo discutibile - anzi, direi, trovo grave- che la relazione che accompagna questa riforma si limiti all’esaltazione dei primi valori senza minimamente prendere in considerazione la contrazione dei secondi.
Una maggiore ponderazione di questi problemi penso invece sia necessaria, e resta infatti da chiedersi se veramente l’esigenza di anticipare un indirizzo giurisprudenziale venga necessariamente prima di quella di rispettare la libertà delle parti (art. 24 Cost.) e la libertà dei giudici (art. 101, 2° comma Cost.).
* [Art. 362 bis c.p.c. “Rinvio pregiudiziale”:
«Fuori dei casi in cui procede in base agli articoli 394 e 400, il giudice di merito può disporre con ordinanza il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte per la risoluzione di una questione di diritto necessaria per la definizione anche parziale della controversia, quando ricorrono le condizioni di cui al secondo comma.
Il rinvio può essere disposto dal giudice quando:
1) la questione di diritto sia nuova o comunque non sia stata già trattata in precedenza dalla Corte;
2) si tratti di una questione esclusivamente di diritto e di particolare rilevanza;
3) presenti particolari difficoltà interpretative;
4) si tratti di questione che, per l’oggetto o per la materia, sia suscettibile di presentarsi o si sia presentata in numerose controversie dinanzi ai giudici di merito.
Il giudice, se ritiene di disporre il rinvio pregiudiziale, assegna alle parti un termine non superiore a quaranta giorni per il deposito di memorie contenenti osservazioni sulla questione di diritto.
Con l’ordinanza che formula la questione dispone altresì la sospensione del processo fino alla decisione della Corte.
Il primo presidente, ricevuta l’ordinanza di rinvio pregiudiziale, con proprio decreto la dichiara inammissibile quando mancano una o più delle condizioni di cui al secondo comma.
Se non dichiara l’inammissibilità, il primo presidente dispone la trattazione del rinvio pregiudiziale dinanzi alla sezione semplice o, in caso di questione di particolare importanza, alle sezioni unite, per l’enunciazione del principio di diritto.
La Corte, sia a sezioni unite che a sezione semplice, pronuncia in pubblica udienza.
Il provvedimento con il quale la Corte definisce la questione di diritto è vincolante per il giudice nel procedimento nel cui ambito è stato disposto il rinvio. Il provvedimento conserva il suo effetto vincolante anche nel processo che sia instaurato con la riproposizione della domanda»]
* Sul medesimo tema, v., in precedenza, su questa Rivista
B. Capponi, È opportuno attribuire nuovi compiti alla Corte di Cassazione?
E PRIMA? (SPIGOLATURE ACCADEMICHE)
DI CHICCO VOLPE
Della figura di Enrico Guicciardi sappiamo (quasi) tutto.
Sappiamo che prese la cattedra del Diritto amministrativo a Padova nel 1936; che fu allievo di Donati (il quale però era soprattutto un costituzionalista); che da lui deriva la scuola del Diritto amministrativo padovana e a modo suo anche quella benvenutiana.
Ma, prima di Guicciardi, è esistita un’altra scuola del Diritto amministrativo padovana e quindi veneta?
Le mie ricerche sul punto sono ancora incomplete, ma qualche conclusione forse si può già ipotizzare.
La risposta verosimilmente è negativa.
Almeno per come la intendiamo noi, prima di Guicciardi non è esistita a Padova una scuola del Diritto amministrativo o, se è esistita, essa non ha attecchito.
In un certo senso travestita da scuola di Diritto amministrativo, è esistita, invece, una scuola di Scienza dell’Amministrazione a cui diedero impulso alcuni studiosi, di formazione essenzialmente economicistica, che si esaurì nel primo ventennio del secolo passato e che aveva come obiettivo quello di formare, più che dei giuristi, una classe dirigente di funzionari dello Stato.
Per cercare di ricostruire i fatti, dobbiamo partire da un punto fermo.
Prima del 1866 il Veneto era assoggettato alla dominazione austriaca e l’Impero si caratterizzò per una forte avversione verso l’importazione delle tesi illuministiche. Questo tanto più fu vero nei territori dominati, come era appunto il Lombardo Veneto
Non solo non esistevano giudici speciali del contenzioso amministrativo, ma la tutela in genere contro la pubblica autorità era piuttosto esile.
In quegli stessi anni in cui - Firenze capitale - Pasquale Stanislao Mancini cominciava ad elaborare le sue raffinatissime tesi che portarono alla legge abolitiva del contenzioso amministrativo, a Venezia quasi nemmeno si poteva immaginare che esistesse una giustizia contro l’azione dell’apparato pubblico.
Perciò neppure si sentiva il bisogno di qualcuno che insegnasse quelle tutele; forse l’Impero neppure auspicava che tutto ciò venisse insegnato.
Altra cosa, invece, era organizzare l’apparato pubblico; creare modelli di amministrazione e personale adeguato.
Il primo a cui venne affidato il compito di formare queste nuove figure professionali fu Angelo Messedaglia.
Originario di Villafranca Veronese (1820 - Roma, 1901), si formò all’Università di Pavia, laureandosi presso quella Facoltà giuridica. I suoi interessi si spinsero subito verso gli studi economicistici; soggiornò in Inghilterra e studiò le opere di Malthus. Rientrato in Italia simpatizzò per i moti risorgimentali, in una posizione probabilmente non troppo esposta, ma neppure del tutto anonima.
La prudenza gli consigliò di ritardare di due anni la pubblicazione del suo studio Della necessità di un insegnamento speciale politico-amministrativo e del suo ordinamento scientifico (Vallardi, 1851) in cui sostenne che si dovesse tenere distinta la funzione del giudice da quella di chi sovrintendeva all’amministrazione politica (dove l’aggettivo è sinonimo del moderno aggettivo “pubblica”).
Ma tutto ciò non era postulato in vista dell’applicazione del principio di divisione dei Poteri, quanto perché il Messedaglia sosteneva che le due funzioni richiedessero forme di professionalità diverse.
Di qui veniva il suggerimento di istituire una nuova Facoltà destinata a tale scopo, da tenersi distinta dalla Facoltà giuridica tradizionale.
Vi si vede, facilmente, il germe di quella futura Facoltà di Scienze politiche che venne aperta a Padova solo negli anni ’30 su impulso, soprattutto, di Donato Donati.
Dopo alcune vicissitudini (nel ’48 era stato chiamato, per un incarico a Pavia, ma non poté assumerlo per le citate ragioni politiche), il Messedaglia ottenne nel 1849 dall’Università di Padova la patente che lo abilitava all’insegnamento privato di “tutte le materie spettanti all’intero corso dello studio politico legale” (una sorta di libera docenza esercitabile in ogni settore del diritto positivo). Nel 1858, infine, Padova lo chiamò per occupare la cattedra di Economia politica e di Statistica.
Insieme gli fu affidato, per alcuni anni, anche l’incarico della “Scienza delle pubbliche amministrazioni”, la cui autonomia egli aveva rivendicato in quel suo scritto del 1851.
Tale incarico costituisce, probabilmente il primo insegnamento amministrativistico che sia stato tenuto presso l’Università degli Studi di Padova.
Nel 1862, peraltro, la stessa Università chiamava un altro professore di Economia politica e di Statistica: Jacopo Silvestri.
Di lui si sa abbastanza poco e nemmeno se ne conoscono bene le opere.
Nacque a Isola di Malo nel 1821 per morire a Lonigo nel 1901. Perse la cattedra nel 1864, per le troppo accentuate simpatie risorgimentali, ma la riebbe nel 1867, con l’annessione del Veneto all’Italia riunita.
In tale frangente al Silvestri venne affidato l’insegnamento che era stato del Messedaglia, ora ridenominato in “Diritto amministrativo e Scienza dell’amministrazione”.
Egli dovette godere di un certo credito nel panorama degli studi, se nel 1888 prese parte alla commissione che portò V.E. Orlando (già ordinario di Diritto amministrativo a Messina) a ricoprire la cattedra di Palermo.
In ogni caso e come sembra indicare lo stesso titolo di una prolusione che lesse a Padova nel 1886 (Considerazioni e ammonimenti intorno al principio vitale delle istituzioni politiche e amministrative), l’approccio di Silvestri alle discipline amministrativistiche deve essere stato, ancora una volta, più affine alla Scienza dell’Amministrazione che non una applicazione consona a quella giurisprudenza dei concetti che, tramite lo stesso Orlando, stava penetrando definitivamente in Italia.
Come il Messedaglia (prossimo all’Aleardi e a certi cenacoli poetici vicentini), anche il Silvestri fu uomo eclettico e lo si segnala come persona nota allo Zanella nel cui epistolario viene talvolta citato.
Silvestri resse l’insegnamento del diritto amministrativo fino al 1896, quando cessò dal servizio, verosimilmente senza allievi.
Nel frattempo, probabilmente su impulso dello stesso Messedaglia a cui era in qualche modo legato, l’Università di Padova chiama il terzo giurista prestato all’Economia politica.
Si trattò di Carlo Francesco Ferraris (Moncalvo 1850) che, laureatosi a Torino nel 1870, completò la sua formazione in Germania e in Inghilterra. Proprio in quest’ultima nazione egli spostò i suoi interessi (originariamente dedicati davvero al diritto pubblico e parlamentare in specie) verso l’economia della cosa pubblica, divenendo una sorta di socialista ante literam.
Rientrato in Italia e gravato da personali problemi economici, alternò incarichi di insegnamento (a Pavia e a Roma) con funzioni ministeriali.
Venne infine chiamato a Padova nel 1885 favorito anche da Luzzatti (che non sembrava amare troppo il Silvestri, con cui invece il Ferraris sembrò poi coltivare buoni rapporti) per succedere alla cattedra del Morpurgo.
Dal 1891 al 1896 il Ferraris fu anche Rettore dell’Università e, cessato dalla carica, subentrò nell’insegnamento del Diritto amministrativo e della Scienza dell’Amministrazione a Silvestri, proseguendo la linea di pensiero già avviata con il Messedaglia.
In concreto, però, il Ferraris tenne per ben pochi anni l’insegnamento (se mai lo tenne), perché fu presto sopraffatto dagli incarichi istituzionali che lo trattennero a Roma.
Deputato dal 1886 e per tre legislature consecutive, fu nel 1905 Ministro dei Lavori pubblici e dal 1913 senatore a vita.
La sua partecipazione alla vita politica del Regno non fu di circostanza formale. Sono state molte le sue iniziative, a favore della istituzione di una prima organizzazione di assistenza previdenziale e di tutela per gli infortuni sul lavoro.
A lui si ispirò la nazionalizzazione delle Ferrovie dello Stato, la cui concessione a privati venne sostanzialmente sterilizzata.
In linea generale, infine, fu un forte sostenitore dell’intervento pubblico nell’economia.
A causa del suo attivismo politico e istituzionale che lo teneva impegnato a Roma, il Ferraris non poté concretamente tenere gli insegnamenti del Diritto amministrativo che dovettero perciò essere affidati per supplenza.
Sappiamo, così, che nel 1910 l’insegnamento fu tenuto da Federico Cammeo il quale, formalmente, era stato chiamato presso la Facoltà giuridica padovana per tenere il corso della procedura civile.
Dopo che, di lì a pochi anni, Cammeo passò all’Università di Firenze (che aveva contribuito a fondare), la supplenza passò ad altri professori. Ad esempio, nel 1916 essa venne data a Alfredo Rocco (che allora non insegnava il Diritto penale, ma il Diritto commerciale e che, in detta materia, aveva come assistente il dott. Francesco Carnelutti).
È verosimile che, quando nel 1919 Donati venne chiamato a Padova, l’insegnamento del Diritto amministrativo fu supplito da lui.
Furono, dunque, gli anni delle varie supplenze nell’insegnamento di Ferraris quelli che spostarono l’attenzione verso un approccio più tecnico-giuridico del Diritto amministrativo e meno legato alle questioni della Scienza dell’amministrazione, costituendo il germoglio su cui fiorì, successivamente, la scuola padovana propriamente detta.
Con la sua morte (Roma, 1924), Ferraris lascia infine la cattedra e si pone il problema di coprirla stabilmente.
Nel 1925 viene così chiamato da Cagliari Giovanni Salemi, quasi certamente con il beneplacito dello stesso Donati, che era piuttosto legato a Santi Romano, al quale pure Salemi era legato, essendo siciliano e affine alla scuola di Vittorio Emanuele Orlando.
Salemi terrà il Diritto amministrativo fino al 1935, quando ha l’occasione di essere chiamato a Palermo, lasciando Padova senza l’eredità di alcun allievo, forse anche perché sovrastato dalla presenza vicina e culturalmente ingombrante di Donati.
Non è forse un caso, anzi, che Donati, forse perché consapevole della situazione, avesse destinato il suo primo allievo (Egidio Tosato) al Diritto costituzionale, mentre aveva destinato il suo secondo allievo (Guicciardi) a coprire il vuoto dell’amministrativo.
La tradizione vuole che, con la fuoriuscita di Salemi, la Facoltà abbia cercato di chiamare Giovanni Miele da Pisa il quale, tuttavia, declinò dopo non poche incertezze. L’aneddotica riferisce, invero, che Miele fu piuttosto noto per essere stato corteggiato da importanti sedi, salvo poi rinunciarvi sempre, una volta approdato a Firenze.
Senza dati oggettivamente verificabili non è possibile offrire ricostruzioni certe, ma non sono del tutto persuaso che l’abdicazione di Miele non possa essere stata in qualche modo ispirata dallo stesso Donati.
Infatti, non appena Miele rinunciò, la Facoltà nel volgere di pochissimi giorni supplì al deficit chiamando Guicciardi a ricoprire il diritto amministrativo, quando egli, da neo-vincitore della cattedra, si era appena insediato a Cagliari dove aveva tenuto il suo primo anno di insegnamento come professore ordinario.
A Guicciardi, infatti, non sarebbe mai stato consentito, come sostanziale prima nomina, di essere inserito nel ruolo di una Facoltà prestigiosa come quella padovana. Per intendersi, è noto che, pur nel secondo dopoguerra, Carnelutti stigmatizzò pubblicamente il fatto che lo stesso Benvenuti avesse ottenuto la sua prima chiamata a Padova, ma - si badi - non a Giurisprudenza, quanto a Scienze politiche.
Lo stato di necessità che era emerso a seguito della rinuncia di Miele consentì dunque che per Guicciardi fosse fatta un’eccezione alla regola.
Quello che avvenne dopo, è noto.
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