ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Le disposizioni della riforma Cartabia in materia di indagini: tempi e “stasi” delle indagini, discovery degli atti e controllo giurisdizionale delle iscrizioni
di Claudio Gittardi
Sommario: 1. Le disposizioni sui termini e la stasi delle indagini – La discovery degli atti - 2. Le disposizioni sull’accertamento da parte del Giudice della tempestività dell’iscrizione – La retrodatazione dell’iscrizione in caso di ritardo.
1. Le disposizioni sui termini e la stasi delle indagini – La discovery degli atti
La Legge 27.9.2021 n° 134 di “delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari” pubblicata sulla G.U del 4.10.2021 è intervenuta quanto alla fase delle indagini preliminari in primo luogo all’ art 1 comma 9 lettere d) e) f) dettando alcuni principi a cui dovrà attenersi il legislatore delegato per modificare il codice di rito in materia di proroga del termine delle indagini preliminari, dei tempi dei successivi provvedimenti definitori nonché di discovery degli atti di indagine preliminare.
La legge delega ha innanzitutto rimodulato i termini di durata delle indagini preliminari prevedendo un termine per le stesse di sei mesi per le contravvenzioni, di un anno per i delitti in genere e di uno anno e sei mesi per i più gravi delitti previsti dall'articolo 407 comma 2 CPP.
Ha inserito inoltre la previsione della possibilità per il PM di chiedere una sola proroga del termine delle indagini preliminari per un tempo non superiore a sei mesi nel solo caso in cui la proroga risulti giustificata dalla complessità delle indagini ed eliminando quindi il riferimento generico nell’attuale stesura ad una giusta causa o alla oggettiva impossibilità di concludere le indagini: tale proroga viene determinata, come detto, in sei mesi per qualsiasi tipologia di reato e quindi anche per i delitti più gravi previsti dall'articolo 407 comma 2 CPP per cui il termine iniziale di indagine risulta fissato come visto in un anno e sei mesi.
Pur non incidendo dunque tali disposizioni sul termine massimo di durata delle indagini preliminari fissato ex art 407 comma 1 e 2 cpp almeno per quanto riguarda i delitti ( termine massimo che rimane di un anno e sei mesi per quanto riguarda i delitti in genere, due anni per quanto riguarda i più gravi delitti previsti dall'articolo 407 comma 2 CPP) la legge delega modula diversamente il meccanismo delle proroga prevedendo, a fronte della doppia proroga di sei mesi ciascuna attualmente in vigore, una sola proroga di sei mesi indifferenziata per tutti i reati limitandone le ragioni giustificatrici alla complessità delle indagini. Ragioni giustificatrici della proroga che per inciso appaiono difficilmente invocabili per le contravvenzioni se non per particolari tipologie contravvenzionali quali alcune fattispecie previste nella legislazione speciale.
A fronte del riconoscimento quindi di una serie di più gravi delitti indicati all’art. 407 comma 2 cpp per i quali i tempi iniziali di indagine vengono determinati in una misura tripla rispetto alle contravvenzioni riconoscendo l’oggettiva complessità di indagine che si riflette sui relativi tempi, la previsione di una sola proroga normativamente fissata in sei mesi anche per i più gravi delitti ex art 407 cpp appare scarsamente compatibile con i tempi necessari per lo svolgimento delle indagini preliminari per procedimenti di maggiore complessità.
La legge delega è poi intervenuta dopo aver richiamato l'obbligo per il Pubblico Ministero di esercizio dell'azione penale o di richiesta di archiviazione una volta esaurita la durata delle indagini preliminari prevedendo che tale attività debba essere esercitata entro un termine da fissarsi dal legislatore delegato in misura diversa in base alla gravità del reato e alla complessità delle indagini preliminari.
La disposizione risulta certamente opportuna nel fissare il principio di una “graduazione” dei termini fissati in relazione alla gravità del reato ed alla complessità dell'indagine poiché la valutazione del materiale raccolto nella fase delle indagini presenta parametri di complessità differenziati e la valutazione dello stesso impone al Pubblico Ministero di dover ripercorrere in alcuni casi nei procedimenti di maggiore impegno un materiale articolato e complesso con conseguente ripercussione sui tempi concreti di definizione una volta concluse le indagini.
Si tratta di una disposizione maggiormente condivisibile rispetto a quella attualmente in vigore ex art.407 comma 3 bis cpp che prevede, salvo la possibilità di proroga da richiedersi al Procuratore Generale, un termine standard di tre mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini per le determinazioni del Pubblico Ministero.
Da notare che la legge delega introduce tale disposizione fissando come riferimento iniziale per il computo del termine di definizione dell’azione penale il termine di durata delle indagini preliminari senza alcun richiamo, come nell'attuale regime, alla scadenza dei termini di cui all'articolo 415 bis cpp. In questo caso i “termini di definizione” in caso di esercizio dell'azione penale per il Pubblico Ministero risulterebbero in realtà ulteriormente ridotti in modo significativo per il tempo tecnico necessario per la notifica degli avvisi di conclusione indagini e per le attività susseguenti , attività che in determinati casi non si esaurisce, come noto, in tempi brevi.
Si deve rilevare per inciso che nell’ iniziale impianto del disegno di delega legislativa A.C. 2435 (c.d. riforma BONAFEDE),fuori del caso di richiesta di archiviazione, il contenuto dell’obbligo di attivazione per il Pubblico Ministero una volta scadute le indagini preliminari era quello della notifica dell'avviso di conclusione indagini preliminari ex articolo 415 bis cpp (previsione peraltro monca rispetto all’ipotesi ad esempio di giudizio immediato).
Sempre nella stesura iniziale del DDL Bonafede, con una scelta di maggiore dettaglio nell’esercizio della delega, tali termini erano inoltre già espressamente fissati in 3 mesi nei casi ordinari e in 6 mesi e 12 mesi rispettivamente nei casi di cui all'articolo 407 comma 2 lettera b) (notizie di reato che rendono particolarmente complesse le investigazioni per molteplicità di fatti o numero di indagati) e comma 2 lettera a) numeri 1, 3 e 4 ( delitti di criminalità mafiosa, eversiva, terroristica e contro la personalità dello Stato, e alcuni ipotesi di contrabbando di TLE).
L'obbligo di esercizio dell'azione penale o di presentazione della richiesta di archiviazione entro un termine prefissato dal legislatore delegato, una volta decorsi i termini di durata delle indagini preliminari eventualmente prorogati, presupporrà in ogni caso una attenta valutazione in sede di attuazione della delega che tenga conto non solo della specifica gravità del reato ma anche della peculiare complessità delle indagini, elemento quest’ultimo non necessariamente collegato al primo.
Sarà pertanto necessaria una puntuale determinazione e graduazione di tali termini da parte del legislatore delegato conteggiando anche i tempi necessari per lo svolgimento delle complesse attività collegate alla notifica dell'avviso di conclusione indagini preliminari (nel caso che non venga determinato il termine a partire dalla conclusione di tali procedure) al fine di evitare la fissazione di tempi che, nella sostanza, compromettano o limitino la valutazione esaustiva del materiale di indagine da parte del Pubblico Ministero.
Quanto sopra richiamato in ordine all'esigenza di una corretta determinazione dei tempi entro i quali il Pubblico Ministero deve necessariamente assumere le determinazioni in ordine all'esercizio dell'azione penale appare ancora più rilevante se si tiene conto di due collegate previsioni contenute nella legge delega 134/2021:
- La previsione del tutto innovativa rispetto al disegno di legge originario di un intervento del Giudice per le indagini preliminari per “rimediare” alla stasi del procedimento nel caso in cui il Pubblico Ministero non assuma tempestivamente le determinazioni in ordine all'azione penale, una volta decorso il termine fissato dal legislatore a partire dalla scadenza della durata massima delle indagini preliminari.
Tali rimedi devono essere "analogamente" previsti in base alla legge delega, e quindi si deve ritenere individuando il titolare del controllo sempre nel GIP, nell'ipotesi in cui dopo la notifica dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari, si determini allo stesso modo una stasi nell'attività del PM.
Appare evidente come qui il legislatore delegante abbia introdotto tale previsione ritenendo sostanzialmente inefficace il meccanismo di controllo attualmente previsto dalla normativa introdotta dalla Legge 23 giugno 2017 n°103 in materia di intervento delle Procure Generali a fronte di mancate definizioni di procedimenti per cui sono scadute le indagini.
Si introduce un controllo giurisdizionale in capo Giudice delle Indagini Preliminari non sul contenuto di alcune specifiche richieste del Pubblico Ministero ma sulle stesse modalità e tempi di esercizio dell'azione penale da parte di quest’ultimo con un sostanziale e significativo ampliamento dei poteri procedimentali del GIP.
Il legislatore non ha peraltro indicato neppure in termini sommari come debbano essere articolati tali rimedi.
Si deve rilevare che tale controllo giurisdizionale presupporrà in concreto gravosi obblighi di monitoraggio in capo all’Ufficio GIP delle scadenze delle indagini e/o di comunicazione da parte degli uffici del PM dei procedimenti per i quali siano decorsi termini dell'indagine o si sia conclusa la fase ex art 415 bis CPP e per cui non sia in fase di emanazione alcun provvedimento di definizione delle stesse da parte del PM.
Obblighi di monitoraggio/comunicazione reciproci ed analoghi a quanto previsto in alcuni protocolli definiti a livello distrettuale tra Procure del distretto e Procure generali a seguito della novella legislativa in materia di avocazione introdotta dalla sopra citata Legge 23 giugno 2017 n°103.
- La previsione di un meccanismo procedurale, anche in questo caso non dettato nella delega ma da definirsi in sede di normativa delegata, volto a consentire alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa che ne faccia richiesta di prendere cognizione degli atti di indagine allorquando, scaduto il termine di cui si è detto dopo l'esaurimento della fase delle indagini preliminari, il Pubblico Ministero non assuma le proprie determinazioni in ordine all'azione penale.
In sede di delega si dispone peraltro che tale procedura venga assunta "tenuto conto delle esigenze di tutela del segreto investigativo nelle indagini relative ai reati di cui all'articolo 407 del codice di procedura penale e di eventuali ulteriori esigenze di cui all'articolo 7, paragrafo 4, della direttiva 2012/13/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 22 maggio 2012".
È evidente infatti come un obbligo di discovery indifferenziata da parte del PM in tale fase possa determinare in alcuni casi ripercussioni gravemente negative su specifiche esigenze di indagine, o in relazione procedimenti o posizioni collegati o sugli interessi della persona offesa o per gli stessi esiti della formazione della prova nel successivo giudizio specie se non correlato ad una corretta determinazione dei termini di definizione in sede di legislazione delegata.
La previsione di una meccanismo di discovery completa delle indagini viene in prospettiva temperato in sede di legge delega con riferimento solo ai più gravi delitti di cui all'articolo 407 del codice di procedura penale e alle esigenze ulteriori indicate nella Direttiva europea citata.
La Direttiva 2012/13/UE prevede la possibilità per l'autorità di rifiutare l'accesso alla documentazione relativa all'indagine ove tale accesso comporti una grave minaccia per la vita o per i diritti fondamentali di un'altra persona o se la limitazione sia funzionale alla salvaguardia di interessi pubblici importanti, ivi comprese quelli relativi alla tutela indagini in corso, o qualora possa minacciare gravemente la sicurezza interna dello Stato membro in cui si svolge il procedimento penale.
In sede di legislazione delegata pertanto tali esigenze dovranno essere attentamente trasfuse con la previsione della potestà di rifiutare o ritardare per un congruo termine da parte del PM con provvedimento motivato l'accesso alla documentazione da parte dell'indagato o della persona offesa ogniqualvolta la conoscenza di tali atti possa pregiudicare le esigenze investigative ovvero gli ulteriori interessi indicati in sede di Direttiva europea.
Si deve rilevare per inciso che nella stesura della c.d riforma BONAFEDE il meccanismo procedurale di discovery veniva invece puntualmente regolato dal legislatore delegante e prevedeva l'obbligo del PM in caso di inerzia al termine delle indagini - individuata nell'omessa notifica dell'avviso della conclusione delle indagini o nell' omessa presentazione della richiesta di archiviazione - di notificare direttamente all'indagato o alla persona offesa un avviso di deposito della documentazione relativa all'indagini espletate presso la segreteria del PM con facoltà della persona sottoposta alle indagini del suo difensore nonché della persona offesa dal reato di prendere visione ed estrarre copia di tale documentazione.
Si prevedeva inoltre una possibilità di “ritardato deposito” da parte del PM degli atti di indagine per un limitato periodo di tempo e con provvedimento motivato solo nei procedimenti previsti per reati di criminalità mafiosa, terroristica o eversiva ex art 407 cpp.
Quale la sia modulazione che verrà introdotta dalla normazione delegata risulta evidente che si porrà inevitabilmente a carico degli uffici del Pubblico Ministero, in termini da ritenere sostanzialmente analoghi a quanto previsto dal DDL Bonafede, una ulteriore attività di notifica o comunque di avviso nei confronti dell'indagato e della persona offesa circa il deposito del materiale di indagine una volta inutilmente decorsi i termini per lo svolgimento delle stesse.
2. Le disposizioni sull’accertamento da parte del Giudice della tempestività dell’iscrizione - La retrodatazione dell’iscrizione in caso di ritardo
Di rilevante se non maggiore impatto processuale sono le disposizioni dettate dalla Legge 134/2021 all’ articolo 1 comma 9 lettera q) in materia di accertamento da parte del Giudice sulla tempestività dell'iscrizione della notizia di reato e del nome della persona alla quale lo stesso attribuito e di conseguente retrodatazione nel caso di ingiustificato e inequivocabile ritardo.
Si prevede che il Giudice su richiesta motivata dell'interessato accerti la tempestività dell'iscrizione nel registro di cui all'articolo 335 del codice di procedura penale della notizia di reato e del nome della persona alla quale lo stesso attribuito e la retrodatati nel caso di ingiustificato e inequivocabile ritardo.
Tale previsione , per inciso in sostanziale continuità con il disegno di legge Bonafede, “azzera” per cosi dire sul piano normativo la consolidata giurisprudenza della Suprema Corte sull’esclusività della valutazione discrezionale in capo al PM della tempestività dell’iscrizione e sulla sottrazione contestuale di tale sindacato al Giudice.
Si deve precisare che alle stesse disposizioni risulta correlata l’opportuno principio, in vista di una condivisibile esigenza di garanzia ed uniformità delle attività di iscrizione da parte delle Procure, della precisazione in sede legislativa dei presupposti per l'iscrizione nel registro delle notizie di reato della notizia di reato e del nome della persona a cui lo stesso è attribuito.
Si dispone ulteriormente che debba essere previsto un termine per la presentazione di tale richiesta a pena di inammissibilità, termine che decorre “dalla data in cui l'interessato ha facoltà di prendere visione degli atti che imporrebbero l'anticipazione dell'iscrizione della notizia di reato a suo carico” e quindi nella prevalenza dei casi al momento del deposito degli atti in sede di 415 bis cpp o in sede di esercizio dell’azione penale o eventualmente nella fase incidentale cautelare.
Viene ulteriormente precisato che a pena di inammissibilità dell'istanza l'interessato che chieda la retrodatazione dell'iscrizione delle notizie di reato abbia l'onere di indicare le ragioni che sorreggono la richiesta.
Va osservato che nulla viene detto in sede di delega sulla natura del vizio degli atti di indagine conseguente alla retrodatazione dell'iscrizione di reato ma è evidente che lo stesso debba essere configurato nella forma della inutilizzabilità ex art.191 cpp delle risultanze di indagine acquisite oltre il termine di indagine così come successivamente retrodatato, in quanto acquisite ad indagine scaduta e pertanto in violazione di un divieto stabilito dalla legge.
La delega non indica neppure eventuali specifici rimedi di reclamo/impugnazione in capo al PM a fronte di un provvedimento del Giudice di retrodatazione dell'iscrizione né se tale questione possa essere riproposta dall'interessato nelle fasi successive e in sede di giudizio: tema di estrema rilevanza posto che l’inutilizzabilità delle prove è rilevabile anche di ufficio in ogni grado e stato del procedimento.
Si deve osservare che nella stesura del DDL BONAFEDE il meccanismo procedurale veniva invece regolato con maggiore analiticità dal legislatore delegante e al contempo veniva espressamente indicata nella inutilizzabilità delle risultanze di indagine “tardive” la sanzione conseguente alla retrodatazione dell’iscrizione.
Si prevedeva infatti che l'istanza potesse essere presentata dall'interessato al Giudice fino a che le parti non avessero formulato le conclusioni nell'udienza preliminare o in mancanza della stessa subito dopo il compimento per la prima volta delle formalità di accertamento della costituzione delle parti in giudizio, oltre a prevedere che l'istanza dell'interessato dovesse contenere a pena di inammissibilità specificamente le ragioni di diritto e gli elementi di fatto alla base della richiesta.
In conclusione, a fronte dell’ inevitabile margine di discrezionalità da parte del Giudice nella valutazione della natura non giustificata e inequivocabile del ritardo per l'iscrizione da parte del PM, tale disposizione, se non correttamente modulata in fase di normativa delegata sul piano sia della non reiterabilità dell’istanza sia della eventuale impugnabilità della decisione del Giudice da parte del Pubblico Ministero, è idonea a produrre effetti potenzialmente gravi e non rimediabili - anche a lungo termine - sull’utilizzabilità del materiale di indagine in sede di richieste cautelari e definitorie nella fase delle indagini preliminari oltre che nelle successive fasi processuali ove la questione dell’utilizzabilità probatoria di alcuni atti di indagine, basti pensare alle intercettazioni, potrebbe essere riproposta in sede difensiva o rilevata di ufficio anche sulla base di fatti processuali emersi in un secondo momento.
In ogni caso i complessivi interventi normativi in materia di retrodatazione dell’iscrizione imporranno di esercitare da parte del PM, come del resto doveroso e previsto in base all’art 335 comma 1 cpp, il massimo controllo sulla puntualità, tempestività e completezza dell'iscrizione della notizia di reato anche sul piano soggettivo nel relativo registro , eventualmente disponendo da parte del PM una decorrenza anticipata dell'iscrizione in relazione alla fonte informativa della stessa.
Sarà inoltre necessaria in tale prospettiva anche da parte della PG una corretta e completa indicazione nelle comunicazioni/annotazioni di reato degli elementi emersi sul piano del fatto e della riferibilità soggettiva nella fase di accertamento preliminare.
Tale attività di puntuale controllo dell’attività di iscrizione in capo alla Procura deve investire non soltanto la fase di iscrizione genetica al momento della ricezione della comunicazione delle notizie di reato da parte del Procuratore o del Procuratore aggiunto o del Pm designato secondo le rispettive disposizioni del Progetto organizzativo, ma anche nel momento delle iscrizioni successive in corso di indagine da parte del PM titolare del procedimento, specie nel caso di procedimenti complessi e con pluralità di soggetti e i fatti di reato oggetto di iscrizione.
Il formalismo in Cassazione
di Bruno Capponi
La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo resa lo scorso 28 ottobre nell’affaire Succi et autres c. Italie, che riunisce tre diverse denunzie di violazione dell’art. 6 § 1 della Convenzione (diritto di accesso a un tribunale) una soltanto delle quali è stata giudicata fondata, è un campanello di allarme che non suona soltanto all’interno del Palazzaccio. Abbracciata da anni la logica del respingimento, il nostro legislatore ha infatti disseminato in modo un po’ casuale per i vari gradi fattispecie di inammissibilità, non rispondenti a una logica unitaria e a volte neppure troppo chiare nel lessico (il prototipo-modello negativo ci sembra debba continuare a essere l’art. 348-bis c.p.c.), la cui sola funzione è quella di scoraggiare e sanzionare l’accesso alle corti. Addirittura dinanzi al giudice di primo grado vediamo moltiplicarsi le pronunce di “inammissibilità” (che nascondono valutazioni sanzionatorie dell’accesso stesso al giudice), al punto da potersi far capo a una nuova categoria (un tempo neppure immaginabile) oggetto di analisi scientifica: v., con profitto, A.D. De Santis, Contributo allo studio della funzione deterrente del processo civile, Napoli, 2018 (e, per chi fosse interessato, la mia recensione in Rass. esec. forz., 2019, 570 ss.). Lo scoraggiamento-respingimento può assumere diverse declinazioni: ad es., nel testo del d.d.l. 1662 approvato dal Senato il 21 settembre 2021 si prevede (art. 5, lett. p), nn. 1, 2 e 3) che il giudice possa, all’esito della prima udienza, emettere una incomprensibile ordinanza provvisoria di rigetto (reclamabile e inidonea al giudicato) se i requisiti di cui ai nn. 3 e 4 dell’articolo 163 c.p.c. non siano indicati in modo certo ed esaustivo nell’atto introduttivo: ciò che sinora ha costituito una nullità sanabile (sia pure con le conseguenze descritte nel comma 5, ultimo periodo, dell’art. 164 c.p.c.) domani condurrà senz’altro al rigetto in limine della domanda: che vale appunto e solamente quale deterrente e sanzione, perché quella stessa domanda potrà essere di nuovo esercitata (con buona pace del principio di economia), non trattandosi di rigetto nel merito (cui prodest?).
Quindi il problema che abbiamo dinanzi non è certo esclusivo della Corte di Cassazione: piuttosto, va preso atto che essa è l’organo di vertice di una giurisdizione che, di questi tempi, tende a esaltare la funzione deterrente e sanzionatoria delle norme processuali e soprattutto delle loro interpretazioni. E non va trascurato che, nell’avvelenato clima “di sistema”, ogni magistratura ci mette del proprio: proponendo spesso ricostruzioni tendenti a somministrare la lezione più irragionevolmente ostruzionistica delle norme che applica (ad es., inventando decadenze dove non ci sono, strozzando la trattazione dei giudizi e così moltiplicandone il numero). La logica del respingimento è quella della cittadella assediata: un colpo tira l’altro, nella speranza che arrivi, magari casualmente, quello che possa mettere definitivamente in fuga il nemico.
La Cassazione, oggi, dinanzi alla condanna della CEDU potrebbe ripetere quel che un noto politico ebbe a dire agli inizi di tangentopoli: “è una disgrazia che è capitata a me”. Ma che, se la musica non cambia, potrebbe capitare indiscriminatamente a molti altri giudici: a iniziare dalle corti d’appello, del resto apertamente provocate, dal perverso legislatore dell’estate 2012, a tenere comportamenti ben peggiori di quelli ora sanzionati a Strasburgo e che fortunatamente le corti di merito non si sono convinte a osservare (dopo un primo periodo di comprensibili sbandamenti).
Venendo al caso di specie: non c’è dubbio che il formalismo è stata l’arma che la Cassazione ha spesso brandito per proteggere se stessa e quella giurisprudenza d’élite, cui aspira, che si definisce “nomofilattica”; e ripetiamo cose note nell’affermare che tale atteggiamento è stato indotto dalla colpevole inerzia del legislatore, il quale ha anzitutto consentito che la Corte fosse travolta dall’inefficienza della pubblica amministrazione (la sezione tributaria, la lavoro, la prima e la terza vedono frequentemente quale parte in giudizio la p.a.); al tempo stesso, nulla ha fatto per correggere l’ambiguità e scorrettezza di quei testi legislativi che la stessa Corte, organo di vertice, dovrebbe interpretare “nomofilatticamente” e che invece assai spesso creano contrasti addirittura all’interno delle sezioni.
Il formalismo, diceva Satta (Prefazione alla quinta edizione del Diritto Processuale Civile, 1956), «non è altro che una manifestazione di paura: paura del giudizio, della grande opzione tra i due interessi in contrasto. Si direbbe che nel Giudice, accanto al dovere funzionale di giudicare, vibri l’eco paralizzante del nolite judicare. Paura, dunque, sacrosanta nelle sue origini, ma che non legittima le evasioni. L’evasione e il formalismo, il risolvere il giudizio in termini di processo, il rigetto della responsabilità del giudizio sulla norma». Un giudice che non giudica, e che si pone alla ricerca degli artifizi che gli consentono di non giudicare nel merito, è un giudice che mette seriamente in crisi la sua stessa funzione.
La posizione di Satta ci sembra ormai una romanticheria consegnata alla storia.
Occorre infatti intendersi bene su cosa sia il formalismo giudiziario: perché esso può manifestarsi nell’interpretazione disfunzionale di un testo normativo, come pure nella creazione di regole disfunzionali. Non dimentichiamo che la Corte è un giudice che facilmente crea diritto, e in particolare può creare quel particolare diritto che regola le modalità stesse di accesso al giudizio di legittimità.
La Corte di Strasburgo, nel suo excursus un poco burocratico sulle nozioni di autonomia e autosufficienza, ricorda i “quesiti di diritto” introdotti nel 2006 e abrogati a furor di popolo nel 2009 (ma irragionevolmente lasciati in vita in via transitoria). In questo c’è un chiaro vizio di prospettiva. La ragione che spinse il legislatore delegato del 2006 a introdurre i “quesiti di diritto” non intendeva consentire alla Corte la selezione dei ricorsi sul riflesso del più vieto formalismo; la ragione vera, esplicitata nella bozza Brancaccio-Sgroi del 1988 (art. 7) e nella connessa Risoluzione del CSM (est. Borrè, in Foro it., 1990, V, part. c. 269-270), era da ricercarsi nell’esigenza di affinamento della tecnica di redazione dei ricorsi, in cui spesso «risultano affastellate una molteplicità di questioni sotto lo stesso mezzo di annullamento» cui corrispondeva, dal lato del giudice, «il diffondersi della formula di accoglimento del ricorso “per quanto di ragione”». Il CSM scriveva che a tale tecnica di mixing, dal lato del ricorrente come da quello del giudice, doveva sostituirsi, in un sistema di effettiva valorizzazione del precedente, «la scabra enunciazione della questione di diritto» e cioè, come la bozza Brancaccio-Sgroi appunto prevedeva, «la specificazione, per ciascun motivo, del quesito che si intende sottoporre alla corte» (all’interno del CSM taluno proponeva «la specificazione del principio di diritto di cui si chiede l’affermazione»).
Questa, e non altra, è stata la genesi dei “quesiti di diritto”, che non dovrebbero essere ricordati quando si parla della selezione dei ricorsi.
Una soluzione tecnica che avrebbe dovuto servire tanto alle parti (per scrivere ricorsi più chiari ed efficaci e, se vogliamo, meno ritagliati sugli atti dei precedenti gradi di merito) quanto alla Corte per decidere meglio, e cioè per affermare principi di diritto frutto dell’esame dei ricorsi nel merito dei singoli motivi, è stata invece utilizzata, dalla stessa Corte, come un (a volte impietoso e irragionevole) regolatore di contenzioso: il rubinetto che si poteva aprire o chiudere. In molte sentenze si è parlato di “filtro a quesiti”, esattamente come se i quesiti di diritto costituissero il dispositivo tecnico, finalmente accordato alla Corte, per operare al suo interno la selezione dei ricorsi.
Questo però non è formalismo; è piuttosto un tradimento del testo e dell’intentio legis, perpetrato per la realizzazione di fini che in nulla corrispondevano al disegno originario del legislatore. La giurisprudenza sui quesiti di diritto è una pagina davvero buia nella vita recente della Corte Suprema, almeno quanto fu una pagina davvero luminosa quella scritta negli anni Cinquanta a proposito del ricorso straordinario. E non mi sembra che dall’interno della Corte si sia (con umiltà e responsabilità) mai preso atto della gravità e illegittimità della giurisprudenza sui quesiti, che ha mandato al macero ricorsi fondati perché non rispondevano a prescrizioni formali che la Corte andana elaborando …strada facendo (finché il legislatore glielo ha permesso), magari a distanza di anni dalla redazione del ricorso.
E non è neppure formalismo l’abrogazione di fatto dell’art. 360-bis c.p.c., norma che evoca una funzione – la giurisprudenza “nomofilattica” della Corte – che nei fatti è difficilissimo identificare, almeno quanto risulta difficile comprendere cosa significhi «offrire elementi per confermare o mutare» quella stessa giurisprudenza (sul n. 2 dello stesso articolo caliamo un pietoso velo).
La verità è che il legislatore, ancora una volta, nulla ha saputo fare per dare una mano alla Corte di Cassazione: perché non è affatto detto che la selezione dei ricorsi debba essere un problema che la Corte si risolve da sola.
Lo stesso requisito dell’autosufficienza, che con molti sforzi si riesce ad ancorare a qualche novellata norma del c.p.c., e che in ogni caso è nato da un diritto appositamente creato dalla Corte per regolare l’accesso a se stessa, ha tuttora aspetti poco chiari.
Ad esempio, sfugge la ragione per cui la Corte non distingua tra letture obbligatorie e letture indotte dai motivi di ricorso coi loro riferimenti a produzioni documentali rinvenibili nel fascicolo (che notoriamente “non si tocca”). La lettura della sentenza impugnata è da ritenersi obbligatoria, perché non si può conoscere del ricorso senza leggere la sentenza impugnata. Eppure, si sente ripetere spesso che l’autosufficienza rileva non soltanto nel rapporto tra gli atti introduttivi (ricorso e controricorso) ma anche nel rapporto tra questi e la sentenza impugnata: al punto che viene dichiarato inammissibile il ricorso se la sua narrativa non specifichi quali erano stati i motivi di appello fatti valere avverso la sentenza di primo grado. Anche qui, siamo nel dominio del formalismo? A nostro avviso no, perché anche a voler predicare la ricorrenza di certi requisiti formali del ricorso, pur severamente interpretati, l’idea di pensare tali requisiti totalmente avulsi dalle letture obbligatorie proprie del giudizio di legittimità è qualcosa che va oltre il mero formalismo, essendo piuttosto espressione della funzione deterrente e sanzionatoria di cui s’è detto (dichiaro il ricorso inammissibile non perché non abbia capito di che si tratti, bensì perché il tuo atto, avulso dal contesto processuale, non mi mette in condizioni di comprenderlo).
Altro è il formalismo, insomma, altra la concezione del processo come trappola o labirinto: un campo minato in cui non è dato sapere con quale salvifico percorso ti salvi la pelle.
C’è un ulteriore elemento di origine pretoria, a cui la sentenza non dedica soverchia attenzione, che interessa il requisito di specificità del ricorso e dei singoli motivi. Di cosa si tratta? Per comprenderlo (o tentare di farlo) occorre leggere molte sentenze di legittimità, e spesso quella stessa lettura non potrà che moltiplicare i dubbi sulla portata effettiva del requisito. Al punto da aversi, a volte, l’impressione che si tratti di una componente residuale, che si richiama quando nessun’altra risulterà richiamabile di fronte all’esigenza di non decidere il ricorso nel merito. Anche qui, si esce spesso dal dominio del formalismo, per entrare di prepotenza in quello del diritto deterrente e sanzionatorio.
Dunque possiamo chiederci: è lecito chiamare formalismo tutto questo insieme di problemi affastellati gli uni sugli altri? A nostro avviso il formalismo presuppone l’esistenza di una norma, o quantomeno una regola chiara (la sentenza della CEDU sembra mettere sullo stesso piano il c.p.c., il c.p.a. e i protocolli firmati tra Cassazione e CNF), rispetto alle quali la lettura che il giudice opera è sì legittima (perché altrimenti vi sarebbe violazione di legge) ma disfunzionale e magari contrastante con altre norme; e al tempo stesso altre letture risulteranno possibili, giustificate sempre dal testo della norma, ma che appaiono più coerenti con la mens legis o con l’impianto complessivo derivante dalla considerazione anche di altre norme.
Quando però la regola viene volta per volta creata dalla Corte – quando cioè non siamo dinanzi a una regola bensì a un orientamento – può avvenire che il ricorrente non sappia quale preciso adempimento deve realizzare perché il suo atto venga dichiarato ammissibile. Non voglio trasformare questo commento “a prima lettura” nel commentario a un repertorio di casi, ma potrei citarne parecchi (quasi a memoria) in cui la regola di specificità, scritta da nessuna parte, non era ricavabile dalla pregressa giurisprudenza della Corte. A mio avviso, in questi casi la formula utilizzata dal comma 1 dell’art. 111 Cost. – il giusto processo regolato dalla legge – trova tutta la sua giusta espansione, perché dovrebbe essere la legge ex ante a regolare anche le modalità e forme di accesso al giudice, non il giudice stesso con orientamenti che si conoscono ex post.
Ne deduco che il formalismo giuridico è uno dei problemi che possono riscontrarsi nell’accesso al giudice di legittimità, non certamente l’unico.
Ricordo che in occasione dei lavori preparatori della riforma del 1990 (legge n. 353) si accese una piccola polemica sulla supposta funzione educativa delle norme processuali, perché nella Risoluzione del CSM sul d.d.l. 1288/S/IX (in Foro it., 1988, V, c. 249 ss.) l’estensore Borré affermava che il processo «educa o diseduca» (il riferimento era al giudizio di primo grado e alle preclusioni). A distanza di molti anni, occorre riconoscere che quell’estensore (un giurista di calibro non comune) aveva perfettamente ragione: le norme processuali, come tutte le regole di comportamento, possono favorire comportamenti virtuosi o viziosi. Le norme di cui stiamo parlando – quando si tratta di norme – hanno avuto un chiaro effetto diseducativo su intere generazioni di giuristi: sui giudici, presso i quali si è favorito il radicamento dell’idea che decidere il merito equivalga a non deciderlo e che comunque la somministrazione della tutela presuppone un giudizio di meritevolezza sul come quella tutela viene richiesta e sulla “professionalità” del difensore (grave attentato al principio di eguaglianza, perché non tutti possono permettersi difensori esperti e specializzati); sugli avvocati, perché ormai non c’è difesa, nei gradi di impugnazione, che non preveda l’utilizzo di quel triste repertorio di eccezioni di inammissibilità che costituisce la snervante “sfoglia di cipolla” che nasconde il merito della causa. Ma davvero siamo disposti a credere che in tutti i ricorsi per cassazione ci siano problemi di autonomia, autosufficienza, specificità, contrasto cogli orientamenti consolidati? Davvero crediamo che i giudici dei gravami debbano, sempre, anteporre stucchevoli trattazioni sull’ammissibilità prima di passare al merito dell’impugnazione?
Discorso a parte, che abbiamo in altre sedi affrontato ma che ci sembra opportuno almeno cennare qui, è quello della “nomofilachia”. Ritengo che il legislatore delegato del 2006 abbia commesso qualche errore. Forse non è stata adeguatamente ponderata la generalizzazione del giudizio sostitutivo di merito, che la legge del 1990 aveva limitato ai casi di accoglimento del ricorso con motivo fondato sul n. 3) dell’art. 360 c.p.c.; ma l’errore più grave è stato quello di consentire alla Corte, anche senza istanza del PG, la pronuncia di principi di diritto nell’interesse della legge svincolata dalla pronuncia sul merito del ricorso. Allontanare la Corte dalle sue funzioni di giudice non è stato un bene (e infatti in taluni collegi hanno fatto capolino dei legislatori in erba, o garzoni del legislatore); così come non sarà un bene consentire alla Corte di pronunciarsi in via pregiudiziale, come pure previsto nel d.d.l. di recente approvato dal Senato, non fosse altro perché una Corte, come la nostra, ingolfata di ricorsi non dovrebbe avere il tempo di – come oggi si dice – differenziare la propria offerta.
La cura che serve alla Corte è il ritorno al giudizio: senza impicci, senza soverchie complicazioni. E che sia il legislatore, con norme chiare, a risolvere i problemi di accesso, togliendo alla Corte l’imbarazzo di dover essere il regolatore di se stessa.
Ufficio per il processo e magistratura onoraria. Un nuovo caso di anomalia nel panorama europeo
di Alessia Perolio*
Quando ho chiesto ai colleghi europei, membri di Enalj, di spiegarmi com’era organizzato l’Ufficio per il Processo presso i loro Tribunali, la maggior parte di essi è rimasta sconcertata. Inizialmente non capivano cosa stessi loro chiedendo, ed ho pensato che le difficoltà della traduzione dall’italiano all’inglese e da questi alla loro lingua madre non giocasse a favore. Tuttavia ho capito che non è per questo motivo che erano in difficoltà.
Il punto centrale è che nessuno dei colleghi giudici onorari e laici europei fa parte dell’ufficio per il processo o della sua omologa versione.
La collega Bettina Cain, Responsabile[1] per l’Europa dell’Associazione federale dei giudici laici della Germania, mi ha riferito che: un tale ufficio di collaborazione per i giudici non esiste nei tribunali penali tedeschi e che i giudici professionali non hanno assistenti che li coadiuvano, precisando che si è discusso in Germania se assegnare del personale ai giudici che hanno familiarità con questioni economiche o tecniche ma questa idea non è mai stata seriamente perseguita.
Presso le alte corti federali il personale accademico assiste i giudici della Corte. Si tratta di Giudici o Pubblici Ministeri che aspirano ad una carriera superiore e quindi lavorano per un periodo presso una Corte Suprema per poter dimostrare le proprie qualità ed essere promossi. In ogni caso non ci sono giudici onorari che compongono questi uffici i quanto essi partecipano solo ai procedimenti orali del loro Tribunale e non sono coinvolti nella preparazione dei casi.
Paulette Van den Eynden-Vercauteren[2], Presidente dell’associazione, EUJC European Union of Judges in Commercial Matters, membro del Consiglio d’Europa, ha affermato di capire le preoccupazioni dei giudici onorari italiani e di sentirsi essa stessa preoccupata per questa nuova struttura creata in Italia, aggiungendo che questo tipo di "ufficio" sarebbe impensabile in Belgio e certamente in Francia ove, mi ha spiegato che, tranne la regione di Strasburgo, non ci sono giudici togati nei tribunali commerciali dei quali ella fa parte. La collega ha affermato che per l’ordinamento francese e belga questo nuovo sistema creerebbe una rivoluzione. Inoltre ha considerato, sposando le preoccupazioni della magistratura onoraria italiana, che tale inserimento ai suoi occhi appare un regresso professionale per i giudici onorari in Italia.
Paulette Van den Eynden-Vercauteren si è infine dimostrata preoccupata in ordine al carattere dell’"indipendenza" del giudice in questa nuova costruzione, chiedendosi se la struttura sia compatibile con questo principio. Sicuramente nell’ambito del progetto Sofia, continueremo ad inviare al Consiglio d’Europa gli aggiornamenti su questa materia, così come, da Presidente di Enalj, ho fatto negli scorsi anni.
Stefan Blomquist[3] che si trova a capo dell'Associazione svedese dei giudici laici e rappresenta tutti i giudici laici, mi ha riferito di avere un piccolo ufficio con un dipendente part-time che è pagato dai membri dell'Associazione dei giudici laici e di aver chiesto per l'anno prossimo più fondi al Governo per aumentare il loro numero di lavoratori in quanto egli ha urgente bisogno di ulteriore supporto amministrativo per poter svolgere appieno il suo compito in quanto in Svezia ci sono 10.000 giudici onorari distribuiti in più di 70 tribunali.
Circa l’ufficio del processo o di collaborazione per il Giudice, mi ha spiegato che in Svezia esiste una struttura simile ma che comprende solo i giudici professionali, e non include i giudici onorari. Il reclutamento dei membri dell’ufficio per il processo avviene tramite procedure ordinarie gestite dal Governo che provvede poi a pagare la retribuzione degli stessi.
In Svezia quindi non solo i giudici laici ed onorari non fanno parte dell’ufficio del processo, ma addirittura il Governo svedese provvede economicamente a pagare una struttura adibita ad aiuto dei giudici laici.
Durante una videochiamata relativa alla preparazione del prossimo congresso Enalj, ho altresì avuto modo di parlare con il collega austriaco Rainer Sedelmayer,[4] già Presidente di EUJC European Union of Judges in Commercial Matters, nonché rappresentante dei giudici onorari e laici austriaci il quale mi ha detto di non aver mai sentito parlare i suoi colleghi di questo tipo di ufficio e che non vi sono giudici onorari e laici che ne fanno parte.
Dennis Barr[5], Segretario SJA, rappresentante dei giudici onorari Scozzesi, con il quale sono in contatto e al quale ho chiesto notizie sulla presenza di un ufficio simile al nostro ufficio per il processo, ed il quale non è stato in grado di rispondermi, non avendo mai sentito nominare questa struttura.
Alla luce di questo confronto, sebbene non si possa negare che l’ufficio per il processo, sia presente in diverse realtà europee, occorre rilevare che la struttura che il Governo italiano ha voluto creare, non ha eguali nel resto d’Europa ove tale “unità organizzativa” è costituita da uno staff di laureati ed impiegati che assistono il giudice professionale nella decisione.
Da ulteriori ricerche ho potuto appurare che in Austria[6] per quanto concerne le materie di controversie del lavoro, previdenziali e commerciali i giudici sono affiancati da esperti (laienrichter)[7]. Non solo, ogni Giudice “[…] viene coadiuvato da due assistenti laureati (per un periodo massimo di due anni), ai quali è affidato il compito di fare ricerche giurisprudenziali, di scrivere bozze di sentenze.
In Olanda[8] a ciascun Giudice vengono affidati uno o due assistenti, già laureati oppure ancora studenti, oltre ad una impiegata. Gli studenti lavorano part-time e si occupano di redigere le sentenze più semplici, di verbalizzare, di preparare la scheda del processo.
Anche in Polonia vi sono studenti laureati che affiancano il giudice.
In Francia un Secretaires greffler assiste i magistrati nello svolgimento delle proprie attività.”
Si noti che in tutti questi casi, la struttura organizzativa non coincide con quella approntata in Italia. Mentre nelle strutture europee i collaboratori del Giudice professionale sono soggetti che si affacciano alla professione giuridica in senso lato, in Italia i giudici onorari, che svolgono l’importante funzione giurisdizionale, laureati in giurisprudenza, formati con mesi di tirocinio, sottoposti all’obbligo della formazione continua, e nella maggior parte dei casi con un bagaglio di esperienza maturato in anni di lavoro, sono stati inseriti nell’ufficio per il processo.
Ancora una volta la magistratura onoraria, questa volta inserita nell’ufficio per il processo rappresenta un caso Unico nel panorama europeo, a cui la riforma elaborata dalla Commissione Castelli ha cercato di porre un rimedio. Infatti nel testo elaborato dalla Commissione è previsto che, per quanto concerne i magistrati onorari italiani attualmente in servizio, sebbene gli stessi saranno inseriti nella struttura, conserveranno la funzione giurisdizionale. Inoltre essi saranno esclusi da qualsiasi altra attività di supporto ai magistrati professionali, che invece sarà riservata ai giovani giuristi. L’auspicio è che tale impostazione possa estendersi anche ai futuri nuovi magistrati onorari al fine di armonizzare la previsione dell’ufficio del processo con le figure già esistenti nel resto d’Europa.
* Presidente di Enalj (Associazione europea giudici laici ed onorari)
Fonti:
- Bettina Cain, Responsabile per l’Europa dell’Associazione federale dei giudici laici della Germania (via mail);
- Paulette Van den Eynden-Vercauteren, Presidente dell’associazione, EUJC European Union of Judges in Commercial Matters, membro del Consiglio d’Europa (via mail);
- Stefan Blomquist capo dell'Associazione svedese dei giudici laici e rappresentante di tutti i giudici laici nazionali (via mail);
- Rainer Sedelmayer, già Presidente di EUJC European Union of Judges in Commercial Matters, nonché rappresentante dei giudici onorari e laici austriaci;
- Dennis Barr[9], Segretario SJA, rappresentante dei giudici onorari Scozzesi (via mail);
- Armini Kapeller: Struttura ed organizzazione giudiziaria in Austria (ristretti.it)
- European Justice (e-justice.europa.eu);
- Carmelo Barbieri e Alessio Colangelo rispettivamente magistrato addetto e funzionario amministrativo dell’Ufficio legislativo del Ministero della Giustizia: Analisi di impatto della Regolamentazione (www.governo.it)
[1] Bettina Cain, Responsabile per l’Europa dell’Associazione federale dei giudici laici della Germania
[2] Paulette Van den Eynden-Vercauteren, Presidente dell’associazione, EUJC European Union of Judges in Commercial Matters, membro del Consiglio d’Europa;
[3] Stefan Blomquist capo dell'Associazione svedese dei giudici laici e rappresentante di tutti i giudici laici nazionali;
[4] Rainer Sedelmayer, già Presidente di EUJC European Union of Judges in Commercial Matters, nonché rappresentante dei giudici onorari e laici austriaci;
[5] Dennis Barr[5], Segretario SJA, rappresentante dei giudici onorari Scozzesi;
[6] Armin Kapeller: Struttura ed organizzazione giudiziaria in Austria (ristretti.it)
[7] European Justice – Unione europea;
[8] Carmelo Barbieri e Alessio Colangel: Analisi di impatto della Regolamentazione (Relazione tecnica su ufficio per il processo);
La stizza della Corte dinanzi al giudice irrispettoso
(nota a Corte cost. n. 127/2021)[1]
di Francesco Dal Canto
1. C’è un passaggio nella sentenza in commento che lascia stupiti.
Si tratta del punto 2 del dispositivo, ove può leggersi, testualmente, che la Corte “ordina la trasmissione degli atti del presente giudizio al Procuratore generale presso la Corte di cassazione per gli eventuali provvedimenti di competenza”.
La misura è più unica che rara. Prospettando l’avvio di un possibile procedimento disciplinare, essa è chiaramente volta a stigmatizzare la singolare condotta del giudice rimettente che, dapprima, promuove la questione di costituzionalità di alcune disposizioni contenute nel codice di procedura penale e, successivamente, riassume e decide il giudizio a quo senza attendere la conclusione del processo costituzionale. Si noti che il giudice rimettente non si pone il problema di revocare l’ordinanza di rimessione, come pure eccezionalmente e altrettanto problematicamente era accaduto in passato, bensì, più semplicemente, riavvia il giudizio sospeso, sganciando il suo esito da quello del processo celebrato dinanzi alla Corte costituzionale.
Esclusivamente a tale profilo è dedicata questa breve nota.
2. È utile ripercorrere sinteticamente i fatti. Con ordinanza del 9 settembre 2020 il Tribunale di Lecce promuove le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 438, comma 6, e 458, comma 2, c.p.p., in riferimento agli artt. 24 e 111 Cost., nella parte in cui essi non consentivano all’imputato, in caso di rigetto da parte del g.i.p. della richiesta di giudizio abbreviato condizionato, di riproporre la richiesta di rito alternativo al giudice del dibattimento.
Nella specie, il giudice rimettente stava procedendo nei confronti di un imputato il quale, dopo essere stato rinviato a giudizio, aveva tempestivamente proposto al g.i.p. richiesta di giudizio abbreviato condizionata all’acquisizione delle indagini difensive e all’audizione di un testimone; tale richiesta, tuttavia, era stata respinta dal giudice, che aveva ritenuto tale integrazione probatoria incompatibile con le caratteristiche del rito.
Il Tribunale, cui l’imputato si rivolge rinnovando la medesima istanza, ritiene che la stessa debba essere rigettata in quanto la possibilità di reiterare la richiesta di giudizio abbreviato condizionato non era stata contemplata nel nuovo testo dell’art. 438, comma 6, c.p.p., recentemente modificato dalla legge n. 33/2019; e ciò a differenza di quanto era invece previsto nel regime precedente, nel quale tale la possibilità era stata introdotta proprio da una pronuncia additiva della Corte costituzionale (sent. n. 169 del 2003). Sulla base di tali argomenti il collegio ritiene alfine necessario promuovere la questione di costituzionalità, atteso che la suddetta mancata previsione aveva determinato un vulnus al diritto di difesa dell’imputato.
Di lì a pochi mesi (15 febbraio 2021) avviene un fatto nuovo, piuttosto anomalo. Il giudice rimettente, infatti, cambia radicalmente idea e, con una nota del Presidente della sezione procedente, comunica alla Corte, affinché essa “assuma le determinazioni del caso, anche in punto di rilevanza della sollevata questione”, di avere disposto la prosecuzione della trattazione del processo, “attesa l’esigenza di anticipare la trattazione del giudizio a quo, anche in considerazione dello stato cautelare cui è attualmente sottoposto l’imputato e considerato che la sollevata questione di legittimità costituzionale può ritenersi superata dalla già intervenuta pronuncia sulla medesima questione della Corte cost., sent. n. 169/2003, sulla cui portata non ha inciso la novella relativa all’art. 438 c.p.p. recata dalla legge n. 33/2019”. E poco dopo (27 maggio 2021), in effetti, il Tribunale rimettente invia una seconda nota alla Corte, comunicando di avere pronunciato il 28 aprile 2021, in esito a giudizio abbreviato, sentenza di condanna dell’imputato alla pena di tre anni e quattro mesi di reclusione.
Dinanzi a tale tortuoso iter, la Corte osserva, innanzi tutto, che la decisione di dare prosecuzione al giudizio a quo, nonostante la pendenza dell’incidente di costituzionalità, “non elide la perdurante rilevanza delle questioni prospettate” in forza del principio di autonomia del processo costituzionale che, come tale, non risente delle vicende di fatto successive all’ordinanza di rimessione. Si tratta, com’è noto, di un consolidato indirizzo giurisprudenziale in forza del quale l’accertamento della rilevanza ha carattere istantaneo, ovvero esso fotografa il legame oggettivo tra i due giudizi nel momento genetico in cui il dubbio di costituzionalità viene sollevato.
Sulla base di tali presupposti, la Corte entra nel merito dei dubbi di costituzionalità prospettati, giungendo, peraltro, a dichiarare l’inammissibilità della questione in ragione dell’erroneità delle premesse interpretative dalle quali muoveva l’ordinanza di rimessione. In particolare, la Corte sottolinea che la questione sollevata era in realtà priva di oggetto, in quanto il giudice rimettente aveva erroneamente ipotizzato l’esistenza di una lacuna in effetti insussistente, stante la perdurante operatività dell’addizione operata dalla richiamata pronuncia n. 169 del 2003, non messa in discussione dalla novella intervenuta nel 2019, sebbene da quest’ultima non riprodotta espressamente.
3. Così ricostruita la vicenda, la prima osservazione che può essere svolta conduce a evidenziare il paradosso che la caratterizza.
In buona sostanza la Corte, riconoscendo che la disciplina introdotta con la pronuncia additiva del 2003 doveva ritenersi ancora operante nell’ordinamento, sottolinea la circostanza che il giudice non avrebbe potuto promuovere la questione di costituzionalità; egli, al contrario, avrebbe dovuto far buon uso dei suoi poteri interpretativi consentendo da subito all’imputato di reiterare la richiesta di giudizio abbreviato condizionato. Si tratta -appunto, paradossalmente - della stessa conclusione cui giunge, in seconda battuta, anche il giudice rimettente, quando, rendendosi conto dell’errore commesso, torna sui propri passi e dispone la prosecuzione del processo. Un ravvedimento tardivo, tuttavia, che fa compiere al giudice un’operazione non in armonia con le regole che governano il processo costituzionale incidentale.
Una volta che quest’ultimo è stato innescato, infatti, la parola passa alla Corte e, fin quando essa non si è pronunciata, il giudizio rimane sospeso. E’ lo stesso Giudice del leggi, nella sentenza in commento, a ricordare che tale conclusione si ricava, in particolare, dall’art. 23, comma 2, della legge n. 87 del 1953: “l’autorità giurisdizionale, qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale o non ritenga che la questione sollevata sia manifestamente infondata, emette ordinanza con la quale, riferiti i termini ed i motivi della istanza con cui fu sollevata la questione, dispone l’immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso” (c.vi aggiunti).
Ne consegue che non rientra nella discrezionalità del giudice rimettente cambiare idea sulle decisioni assunte quando ormai il percorso che ha investito il Giudice costituzionale è stato attivato. E del resto, nello stesso senso - per quanto si tratti di argomento piuttosto formalistico e probabilmente non del tutto aderente alla prassi - depone anche la circostanza che il giudice a quo, una volta trasmessi gli atti processuali alla Corte, non ha più la materiale disponibilità degli stessi; e dunque, anche volendo, non dovrebbe poter riassumere il giudizio se non chiedendo formalmente la restituzione del fascicolo al Giudice delle leggi.
Si tratta di capire, peraltro, se la conclusione appena riferita vada accolta come un principio inderogabile, come sembra ritenere la Corte, o possa ammettere eccezioni. A tale proposito può in effetti essere richiamato l’orientamento non monolitico della dottrina: se la stessa, infatti, si è mostrata generalmente contraria all’ipotesi che possa essere revocata l’ordinanza di rimessione, al fine di non compromettere l’interesse generale alla legalità costituzionale, essa ha invece mostrato delle posizioni meno perentorie con riguardo all’ipotesi di revoca della sola sospensione del giudizio a quo, evidenziandosi da parte di alcuni l’opportunità, appunto come eccezione alla regola, ovvero di fronte a taluni specifici fatti sopravvenuti, di distinguere tra situazione e situazione, al fine di contemperare interessi di volta in volta eventualmente concorrenti (cfr., tra gli altri, A. Cerri e R. Romboli).
Ciò detto, dalla pronuncia in esame traspare chiaramente la stizza del Giudice delle leggi, che stigmatizza con inusuale durezza la decisione del giudice a quo, qualificandola espressamente come “ipotesi patologica” e, come anticipato, disponendo la trasmissione degli atti alla Procura generale presso la Corte di cassazione.
4. La Corte costituzionale, dunque, ravvede nel comportamento del giudice rimettente gli estremi di un illecito disciplinare.
Non mi pare vi siano precedenti in termini. Per un caso simile, quanto meno con riguardo ai rapporti tra Corte e giudici rimettenti, può richiamarsi un episodio di cui fu protagonista il Presidente della Corte costituzionale Francesco Saja alla fine degli anni Ottanta, il quale, infastidito dai gravi ritardi con cui numerosi giudici a quibus trasmettevano alla cancelleria gli atti del processo principale, effettuò una segnalazione di censura al C.S.M. Quest’ultimo, nell’emanare a stretto giro una circolare per sollecitare i giudici rimettenti a una maggiore attenzione, inoltrò a propria volta la segnalazione ai vertici della Corte di cassazione.
Ma il caso in commento è decisamente più grave, in quanto è la stessa Corte costituzionale, con sentenza, impegnando dunque al massimo livello la sua autorevolezza, che sollecita un intervento della Procura generale.
Tale durezza è comprensibile soprattutto come reazione a un comportamento percepito come un atto di lesa maestà dal Giudice costituzionale, prima interpellato e poi completamente ignorato, con l’abbandono della questione di costituzionalità al proprio destino. La stessa, invece, appare eccessiva se intesa quale misura volta a garantire la coerenza complessiva del carattere incidentale del processo costituzionale: da questo secondo punto di vista, infatti, come detto, la questione avrebbe probabilmente meritato una risposta più articolata; e ciò anche tenendo conto della forza di precedente che, a prescindere dal caso specifico, essa rivestirà in futuro.
Ciò segnalato, ci possiamo da ultimo domandare, a fronte della tipizzazione degli illeciti disciplinari intervenuta all’indomani della riforma dell’ordinamento giudiziario del 2005-2007, a quale fattispecie disciplinare possa essere ricondotto il comportamento del giudice a quo, tra quelle elencate dal legislatore.
La risposta sembra obbligata, stante la rigidità dell’attuale sistema sanzionatorio. Può venire in gioco, tra gli illeciti disciplinari “nell’esercizio delle funzioni”, esclusivamente la “grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile” (cfr. art. 2, lett. g), d.lgs. n. 109 del 2006).
Ma non è scontato che il singolare comportamento del giudice rimettente, certamente poco rispettoso nei confronti della Corte costituzionale, possa integrare il presupposto della gravità. E ciò, anche a prescindere dalle osservazioni più generali poc’anzi svolte, a fronte soprattutto della circostanza che il dovere di non proseguire il processo prima della pronuncia della Corte, pur rintracciabile nella natura del giudizio incidentale, non è espressamente sancito in alcuna disposizione di legge. Lo stesso art. 23 della legge n. 87/1953, opportunamente richiamato nella pronuncia in commento, se impone certamente la sospensione del processo principale, non stabilisce in senso stretto un divieto, formale e assoluto, di revocare la stessa in un secondo momento.
Si tratta, dunque, di attendere come si muoverà la Procura generale della Cassazione, investita di una responsabilità inconsueta e particolarmente pesante.
[1] La presente nota, comprensiva di note a piè di pagina, è in corso di pubblicazione anche sulla rivista Giurisprudenza costituzionale.
La lenta erosione del principio di obbligatorietà dell’azione penale. Prime note ai “criteri di priorità” indicati dal Parlamento
di Stefano Civardi
Come noto, la L. 134/2021 (c.d. “Riforma Cartabia”) si compone di due articoli: il primo, articolato in commi e sottocommi, contenente “delega al Governo per la modifica del codice di procedura penale, delle norme di attuazione del codice di procedura penale, del codice penale e della collegata legislazione speciale nonché delle disposizioni dell’ordinamento giudiziario in materia di progetti organizzativi delle procure della Repubblica, per la revisione del regime sanzionatorio dei reati e per l’introduzione di una disciplina organica della giustizia riparativa e di una disciplina organica dell’ufficio per il processo penale”; il secondo, recante novelle al codice penale e di rito, immediatamente precettive (la legge è stata pubblicata sulla gazzetta ufficiale n. 237 del 4.10.2021).
In questi essenziali appunti ci si occupa del contenuto dell’art. 1, comma 9, lett. i). La legge delega recita: “gli uffici del pubblico ministero, per garantire l’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, nell’ambito dei criteri generali indicati dal Parlamento con legge, individuino criteri di priorità trasparenti e predeterminati, da indicare nei progetti organizzativi delle procure della Repubblica, al fine di selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre, tenendo conto anche del numero degli affari da trattare e dell’utilizzo efficiente delle risorse disponibili; allineare la procedura di approvazione dei progetti organizzativi delle procure della Repubblica a quella delle tabelle degli uffici giudicanti” .
Non è questa la sede per positivamente commentare la “svolta legislativa” conseguente all’ “allineamento” della procedura di approvazione dei progetti organizzativi degli uffici requirenti a quella relativa alle tabelle degli uffici giudicanti. Se alla legge delega sul punto seguiranno tempestivi decreti delegati di attuazione nel termine annuale previsto, si realizzerà la prima robusta inversione di rotta rispetto all’indiscutibile assetto gerarchico delle Procure della Repubblica consegnatoci dal decreto l.vo 106/2006.
Ciò che vorrebbe, invece, essere messo a fuoco da queste embrionali note è la prima parte della disposizione.
Apparentemente la norma non sembrerebbe così innovativa in quanto, ricalcando il noto “mantra” del fine di garantire l’ ”efficace e uniforme esercizio dell’azione penale”, prevede semplicemente che gli uffici del Pubblico Ministero indichino nei progetti organizzativi i criteri di priorità nella “selezione” delle notizie di reato da trattare con precedenza rispetto alle altre. La qual cosa è già espressamente prevista nella circolare del Consiglio Superiore della Magistratura del 16.11.2017, sull’organizzazione degli uffici requirenti: l’art. 3, comma 2 già contempla infatti che il procuratore della Repubblica possa “elaborare criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti”. Si badi bene che l’organo di governo autonomo facoltizzava l’indicazione di trasparenti criteri di priorità nei progetti organizzativi, ma non ne rende in alcun modo obbligatoria l’elaborazione. Del resto, il Consiglio Superiore della Magistratura nel 2017 si era già spinto fino all’estremo limite consentito in sede di normazione secondaria, non essendo previsto in alcun modo dalla normazione primaria una “cernita” nella trattazione prioritaria delle notizie di reato per gli uffici requirenti, essendo per contro previsti, dall’art. 132 bis disp. att. c.p.p., criteri per l’organizzazione dei ruoli dei soli uffici giudicanti (per una puntuale ricostruzione degli interventi del CSM si legga il secondo pare del Consiglio sulla “riforma Cartabia” – ddl AC n.2435 - licenziato con delibera del 29.7.2021, da p. 13).
L’assoluta novità è invece nella “duplice copertura legislativa” ai criteri di priorità inseriti nei progetti organizzativi. Da un lato, infatti, il legislatore delegante prevede espressamente, non più come semplice facoltà, l’individuazione, secondo canoni di trasparenza e predeterminazione, delle notizie di reato da trattare con priorità negli uffici di Procura; dall’altro, prescrive che tale selezione avvenga nell’ambito dei “criteri generali” indicati dal Parlamento con legge.
Proprio su quest’ultimo punto si sono accentrate le critiche più preoccupate. Infatti, mentre la selezione operata dal procuratore della Repubblica nei progetti organizzativi sarebbe frutto di un concreto lavoro sui flussi delle notizie di reato in entrata, sulla definizione dei procedimenti e sullo studio dei mezzi per meglio fronteggiare le emergenze criminali in un determinato territorio, le indicazioni di priorità del Legislatore inevitabilmente decamperebbero dall’ambito meramente organizzativo degli uffici requirenti, per invadere quello dell’orientamento della funzione giudiziaria a secondo degli indirizzi politici delle variabili maggioranze parlamentari.
La comprensibile critica, tuttavia, non coglie pienamente quanto sia naturale ricondurre alla volontà del Parlamento una scelta di criteri generali per determinare le priorità nella trattazione di diverse tipologie di reati. Ciò che è penalmente rilevante, lo è, secondo la nostra Costituzione, per espressa previsione di legge. Sarebbe curioso che fattispecie di reato degradassero a fatti di rilevanza penale “non prioritaria”, a prescindere dal Parlamento.
Con spunto più radicale e provocatorio, in realtà, occorrerebbe riflettere su che cosa significhi “selezionare” le priorità, soprattutto con riferimento ai fascicoli ritenuti non prioritari, con particolare riferimento all’evento, non del tutto episodico, di estinzione dei reati per decorso del termine di prescrizione. Nell’eufemismo dei termini la norma è volta a garantire quel “corretto, puntuale, uniforme esercizio dell’azione penale”, tanto agognato dal legislatore del 2006. Nella pratica degli Uffici, tuttavia, è noto come l’azione penale non possa essere tempestivamente, efficacemente e uniformemente garantita, istruendo convenientemente tutte le notizie di reato che approdano negli uffici requirenti di primo grado. Conscio di questo assunto, tanto sperimentato quanto indicibile, da qualche decennio il legislatore cerca l’impossibile quadratura del cerchio. Se, da un lato, mantiene l’ossequio al sacrosanto principio di obbligatorietà dell’azione penale, presidio tanto di uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, quanto di indipendenza dell’azione dell’Autorità Giudiziaria, dall’altro, si accinge a formalizzare una “obbligatorietà per priorità”, laddove la vera domanda rimane il destino di ciò che sarà indicato, de residuo, come secondario.
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