ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Osservazioni al maxi-emendamento 1662/S/XVIII di riforma del processo civile
di Giuliano Scarselli
Sommario: 1. Le proposte condivisibili - 2. Le proposte non condivisibili - 3. Una precisazione sui nuovi provvedimenti di condanna o di rigetto in via breve - 4. Una seconda precisazione sulla mediazione quale condizione di procedibilità della domanda - 5. La riforma e l’obiettivo di ridurre i tempi dei processi - 6. Segue: il correttivo da porre.
“È chiaro che la nomina di un numero di magistrati corrispondenti, nei singoli gradi gerarchici, al bisogno del pubblico servizio, è una delle condizioni per cui lo Stato adempie il suo obbligo di organizzare l’amministrazione della giustizia”
MORTARA, Istituzioni di ordinamento giudiziario, Firenze, 1919, 85.
1. Le proposte condivisibili.
È stato diffuso in questi giorni l’articolato relativo al maxi-emendamento 1662 di riforma del processo civile.
Si tratta di un emendamento molto ampio, che certamente contiene delle proposte positive.
Senza preamboli, mi accingo a sottolinearle:
a) seppur non sia un amante della mediazione quale condizione di procedibilità della domanda, devo riconoscere che molte delle scelte fatte in punto di mediazione appaiono di buon senso.
Condivisibili gli incentivi fiscali che si prevedono per le parti che riescano a mediare; condivisibile che la legge precisi in modo chiaro chi debba attivare la mediazione in caso di opposizione a DI; condivisibile, ancora, che si preveda in modo espresso che la condizione di procedibilità della domanda è assolta quando le parti non raggiugano l’accordo al primo incontro e non manifestino intenzione di proseguire con l’attività di mediazione; condivisibile la previsione di farsi rappresentare in sede di mediazione, in presenza di giustificasti motivi, da un terzo: ancora, condivisibile la scelta di favorire la mediazione anche con i soggetti pubblici, prevendendo che non vi sia responsabilità contabile in tutte le ipotesi nelle quali il contenuto dell’accordo rientri nei limiti del potere decisionale; condivisibile, di nuovo, che in casi di nomina dell’esperto la relazione possa poi esser prodotta in giudizio e sia rimessa alla libera valutazione del giudice; certamente condivisibile, inoltre, che si proceda ad una verifica statistica circa l’opportunità di mantenere la condizione di procedibilità dell’azione; ed infine, ripeto, seppur con i dubbi che possa avere chi come me non ami l’istituto della mediazione quale condizione di procedibilità della domanda, ragionevole è da ritenere che questa sia stata estesa ai rapporti giuridici contrattuali di durata, ovvero a quei rapporti dove trovare una soluzione dei contrasti è maggiormente necessario.
b) Per quanto concerne il processo di cognizione, trovo corretto voler salvare quelle novità che abbiamo sperimentato a seguito dell’emergenza Covid 19, se queste, effettivamente, possono agevolare il lavoro degli avvocati e dei giudici senza pregiudicare il diritto alla difesa.
E così, mi pare ragionevole che si preveda che, fatta salva la possibilità per le parti di opporsi, il giudice disponga che le udienze civili, che non richiedano la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti, si svolgano con collegamenti a distanza, e che addirittura il giudice debba disporre che le udienze siano sostituite con il deposito telematico di note scritte se vi è richiesta congiunta di tutte le parti costituite.
c) Trovo altresì condivisibile l’aver mantenuto l’atto di citazione, che molti avevano già dato per morto, e ciò, se non altro, per rispetto ad una tradizione antichissima, si dice risalente addirittura alle 12 tavole.
d) Trovo poi condivisibile che non si sia fatto del procedimento sommario di cui all’art. 702 bis e ss. c.p.c. il rito principale, se non addirittura unico, del giudizio di cognizione di primo grado, e che lo stesso si chiuda con sentenza e non con ordinanza, al fine di superare quelle problematiche che in questi anni abbiamo avuto con riferimento all’interpretazione dell’art. 702 quater c.p.c.
d) Trovo, ancora, condivisibile che si preveda, seppur in forme che al momento restano generiche, un aumento delle competenze del giudice di pace, in modo da lasciare al Tribunale le controversie più complesse e di maggiore rilevanza, anche economica.
e) Condivido inoltre che non si siano introdotte rilevanti novità con riferimento ai mezzi di impugnazione, martorizzati da mille riforme negli anni passati, ed in particolare condivido che non siano stati introdotti ulteriori, significativi filtri, che avrebbero costituito nuovi discutibili limiti ai diritti processuali garantiti dalla carta costituzionale. Condivisibile, poi, in questo contesto, l’unificazione del procedimento camerale in cassazione con l’eliminazione delle differenze di cui agli artt. 380 bis e 380 bis 1 c.p.c.
f) Ed infine, è condivisibile che non sia provveduto, secondo voci che invece da tempo circolavano, a creare ipotesi di decisioni arbitrali fissate ex lege, perché, tutto al contrario, si deve ricordare che l’intervento degli arbitri, se non richiesto congiuntamente da tutte le parti, è incostituzionale per violazione (almeno) dell’art. 102 Cost.
2. Le proposte non condivisibili.
Altri punti non mi sembrano invece convincenti.
In particolare:
aa) non condivido che una pronuncia di inammissibilità dell’appello possa esser data anche a seguito di trattazione orale, poiché credo che la difesa scritta sia invece coessenziale al diritto al contraddittorio in un processo civile.
bb) Non trovo poi condivisibile il nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione da parte del giudice di merito per la decisione di una questione di diritto previsto dall’art. 6 bis del progetto, poiché mi sembra strumento che contrasti con più di un principio giuridico, tra i quali quello che ogni giudice è giudice della sua competenza, e quindi che una decisione che spetta ad un giudice deve essere decisa da quel giudice, secondo scienza e coscienza, e non da altri, e quello del diritto dei cittadini di ricorrere in cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., che potrebbe evidentemente essere limitato da questo strumento preventivo. E ciò, oltre al fatto che questa novità potrebbe essere usata in senso dilatorio dai giudici di merito, e costituire grave ritardo nell’andamento del processo, con pari inutile aggravio del lavoro della Corte di cassazione; né ancora penso possa attribuirsi alla Corte di cassazione un ruolo simile a quello della Corte costituzionale o della Corte di giustizia dell’Unione europea, alle quali, effettivamente, si rimettono le questioni pregiudiziali.
cc) Non condivido, inoltre, la scelta fatta sub art. 3 in base al quale tanto l’atto di citazione quanto la comparsa di risposta debbono, a pena di decadenza, contenere l’indicazione specifica dei mezzi di prova.
Non condivido detto avanzamento delle preclusioni istruttorie perché il processo civile non può essere assimilato a quello del lavoro, e perché, nei limiti del possibile, è sempre preferibile optare per soluzioni di libertà, che meglio consentono agli avvocati di poter recuperare possibili errori, e quindi alla giustizia di poter decidere nel merito piuttosto che su errori o carenze processuali.
dd) Soprattutto, non condivido la nuova disposizione dell’art. 14, secondo la quale il soccombente può esser condannato, anche d’ufficio, a pagare in favore della controparte una somma equitativamente determinata, e in favore della cassa delle ammende una somma non superiore a cinque volte il contributo unificato.
Si tratta di una disposizione a mio parere del tutto incostituzionale, sia perché non può essere rimessa alla mera discrezione del giudice la determinazione di una sanzione (che, nel caso sia in favore della controparte, non conosce infatti limiti indicativi nemmeno di massima), e sia soprattutto perché non può essere sanzionato l’esercizio del diritto di azione e/o di difesa, visto che, indiscutibilmente, l’art. 24 Cost. comprende nel suo seno anche l’esercizio dell’azione infondata, e nessun’altra conseguenza può avere così il soccombente se non il pagamento delle spese processuali.
L’esperienza concreta ci insegna poi che i giudici non separano le domande infondate da quelle promosse con mala fede o colpa grave, e fanno di tutta l’erba un fascio (abbiamo sperimentato ciò sia con riferimento al pagamento del raddoppio del contributo unificato, sia con riferimento all’applicazione del 2° comma dell’art. 283 c.p.c.); dal che non è pensabile che il soccombente debba sopportare simili sanzioni, e che l’esercizio del diritto di azione sia sottoposto al ricatto permanente di minacce economiche.
A questo fine mi solleva ricordare ancora una volta il pensiero di due grandi statisti del passato quali Pasquale Stanislao Mancini e Luigi Einaudi.
Mancini scriveva che “l’amministrazione giudiziale e la garanzia dei diritti è il primo e più sacro debito dell’autorità sociale” e che, se si introducono ostacoli, costi o sanzioni all’esercizio dell’azione in giudizio, allora “una comune prudenza determinerà sovente il cittadino a sopportare in pace torti anche gravi piuttosto che ricorrere a mezzi cotanto onerosi di riparazione. Allora le liti diverranno il lusso dei ricchi, la giustizia un loro privilegio e non un bene ed un diritto egualmente garentito a tutti” (in Mancini – Pisanelli – Scialoja, Commentario del codice di procedura civile per gli stati sardi, Torino, 1855, II, 9).
Luigi Einaudi sosteneva il principio della gratuita della giustizia quale momento fondamentale delle funzioni dello Stato, al pari della difesa nazionale e della sicurezza, e affermava senza mezzi termini che “Al litigante non è logico far pagare qualcosa (tassa, in qualunque modo congegnata, di bollo o di registro o altra) in aggiunta alle imposte che egli già pagò, come cittadino, per mettere in grado lo Stato di esercitare l’ufficio suo” (così Einaudi, Imposte e tasse giudiziarie, Riv. Dir. fin. 1937, I, 359).
Oggi, affermare un principio, che pure sarebbe evidente e logico, quale quello della gratuità del servizio giurisdizionale, non è possibile, e ragioni di cassa fanno sì che appaia invece legittima la pretesa fiscale dello Stato a fronte dell’iniziativa delle parti di far valere un diritto in giudizio.
Ma usare i tributi e le sanzioni quali mezzi per indurre il cittadino a non chiedere giustizia, fino a terrorizzarlo per le conseguenze economiche che l’aver adito il giudice potrebbe avere (quintuplo del contributo unificato e triplo delle spese liquidate), non è solo del tutto incostituzionale perché in violazione dell’art. 24 Cost., e non è solo qualcosa che, come già diceva Mancini nel secolo XIX, danneggia i ceti più deboli in deroga al nostro odierno art. 3 Cost., ma è il segno, evidente, di un cedimento culturale al quale dobbiamo opporre resistenza.
3. Una precisazione sui nuovi provvedimenti di condanna o di rigetto in via breve.
Ciò premesso, alcune precisazioni.
L’art. 3 e-decies 1 recita: “prevedere che il giudice possa, su istanza di parte, pronunciare ordinanza provvisoria di accoglimento, in tutto o in parte, della domanda proposta, quando i fatti costitutivi sono provati e le difese del convenuto appaiono manifestamente infondate”.
Orbene, di questa riforma non posso lamentarmi, poiché essa assomiglia molto alla condanna con riserva che io propongo fin dalla fine degli anni ’80, e che recentemente ho riformulato con un breve scritto (ID, Sul principio secondo il quale i tempi del processo devono andare a danno della parte che ha bisogno della trattazione della causa, ovvero su una proposta di riforma per l’efficienza del processo civile a costo zero, Judicium, ottobre 2020).
Tuttavia sia consentito rilevare che la cosa andrebbe a mio parere formulata in termini un po’ diversi.
La proposta di riforma, direi in gran parte, è collegata alla novità delle preclusioni istruttorie fin dagli atti introduttivi del giudizio, cosicché il giudice può pronunciare in questo modo un provvedimento sommario di condanna, o di rigetto della domanda, anche a seguito della prima udienza. Ed in tal contesto, poiché la creazione di questi nuovi provvedimenti da pronunciare in via breve è sembrata al riformatore evidentemente audace, si è previsto, quasi a compensazione, che questi non formino comunque cosa giudicata ai sensi dell’art. 2909 c.c. (così l’art. 3 e-decies).
Orbene, alcune osservazioni.
In primo luogo, se il giudice può pronunciare una condanna in limine litis nelle ipotesi in cui la posizione di un litigante sia completa e soddisfacente e l’altra no, allora lì direi, in verità, noi non abbiamo più bisogno della preclusione agli atti introduttivi del giudizio fissata ex lege, perché la preclusione, anche senza espressa previsione, sorge egualmente quale necessità delle parti di presentarsi al giudice fin dalla prima udienza in modo completo ed esaustivo sotto tutti i punti di vista.
Dunque, l’esistenza di questi provvedimenti già di per sé induce le parti a essere complete fin con gli atti introduttivi; e così, se possiamo ottenere quel risultato senza imposizione, il legislatore non deve allora porre l’obbligo, poiché al contrario è preferibile attenersi ad un principio di libertà, se questo è possibile.
Oltre a questo, sottolineo:
a) che la fattispecie che consente l’emanazione della condanna in via breve in favore dell’attore che ha già fornito al giudice la prova dei fatti costitutivi non può completarsi con l’esistenza di difese del convenuto che “appaiono manifestamente infondate”, poiché non può introdursi una differenza tra “difese infondate” e “difese manifestamente infondate”, ove solo quest’ultime consentirebbero l’emanazione del provvedimento di condanna. Si tratta infatti di una distinzione troppo labile che, come tale, potrebbe generare confusione, oppure attribuire al giudice poteri discrezionali troppo ampi. Dal che, insisto, il provvedimento deve esser concesso non quando, a fronte della prova dei fatti costitutivi, le difese del convenuto sono “manifestamente infondate” ma quando il convenuto non sia riuscito a fornire la prova di almeno un fatto impeditivo, modificativo o estintivo dei fatti costitutivi già provati in giudizio dall’attore.
b) Inoltre, questo provvedimento funge da sé, ed evidentemente, quale deterrente alla prosecuzione del giudizio, ma esso non può darsi come provvedimento che necessariamente lo chiude; e la soluzione di compromesso di chiudere il processo senza al contempo attribuire al provvedimento autorità di cosa giudicata non sembra convincente, poiché l’assenza della forza del giudicato, anche in una ottica di economia processuale, aumenta, e non diminuisce, il contenzioso, visto che il convenuto ha così la possibilità di proporre una nuova lite alla quale seguirebbero almeno due nuovi processi: quello in accertamento negativo rispetto alla condanna pronunciata, e quella in opposizione all’esecuzione avverso la condanna che è stata concessa.
Credo, allora, che la soluzione ideale sia semplicemente quella di consentire al giudice, in limine litis, di valutare tanto la sussistenza della prova dei fatti costitutivi quanto quella dei fatti estintivi, impeditivi e modificativi fatti valere da chi si difende, e quindi di pronunciare la condanna quando a fronte della prova dei fatti costitutivi nessuna prova sia fornita dei fatti impeditivi, estintivi o modificativi, oppure di rigettarla quando la prova dei fatti costitutivi non si abbia, o, pur essendoci, vi sia per contro la prova di almeno un fatto estintivo, impeditivo o modificativo.
Questi provvedimenti, poi, indirettamente, come detto, a monte sono in grado di creare di fatto un regime rigido di preclusioni (e senza la necessità che questo sia categoricamente fissato dalla legge) e a valle portano alla tendenziale chiusura del processo, che però non va disposta per legge, poiché, al contrario, tanto in ipotesi di provvedimento di accoglimento quanto di rigetto, deve essere consentito al soccombente, se lo vuole, di poter proseguire le attività processuali e completare quelle difese che in limine litis non son sembrate al giudice adeguate.
Dunque, a fronte della parte dell’art. 3 e-decies, io semplicemente proporrei, previa eliminazione delle preclusioni istruttorie fin dagli atti introduttivi del giudizio, una norma del seguente tenore: “Su domanda di parte, e quando il processo abbia ad oggetto diritti disponibili, il giudice concede ordinanza anticipatoria della sentenza sui diritti dei quali l’attore abbia già fornito prova dei fatti costitutivi, e sempreché al processo non sussista pari prova dei fatti impeditivi, estintivi e modificativi. Il provvedimento vale come titolo esecutivo e titolo per l’iscrizione ipotecaria, sopravvive all’estinzione del processo e contiene la liquidazione delle spese secondo i criteri di cui all’art. 91 e ss. c.p.c.”.
4. Una seconda precisazione sulla mediazione quale condizione di procedibilità della domanda.
Una seconda precisazione ritengo debba farsi con riferimento alla mediazione quale condizione di proponibilità della domanda.
Ho premesso che le novità che si propongono appaiono ragionevoli una volta data questa condizione; solo dubito che debba continuare a prevedersi che la mediazione possa costituire, in taluni casi, condizione di esercizio dell’azione giudiziale.
La mediazione fonda le sue radici, infatti, in un negozio, e un negozio giuridico non può non basarsi sulla libertà delle parti.
Dal che, immaginare che le parti, per andare dinanzi al giudice, debbano previamente presentarsi ad un mediatore per affermare, assai spesso, che, proprio in forza del loro diritto di libertà negoziale, non intendono mediare, appare meccanismo del tutto inutile, che costituisce solo perdita di tempo e di denaro.
Giuseppe Chiovenda diceva che il processo deve dare a chi ha un diritto, tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire, e la mediazione, al contrario, presupponendo la definizione della lite attraverso la concessione di una qualche cosa, non è mai in grado di dare a chi ha un diritto, tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire, e quindi non è mai in grado di assolvere pienamente il compito di rendere giustizia; semplicemente opera attraverso un negozio, che come tale deve essere, però, rimesso alla libertà delle parti, senza costituire condizione di accesso al giudice.
Di questo avviso era tutta la dottrina classica, con posizioni che forse giova ricordare:
a) Giuseppe Pisanelli: “La conciliazione delle parti è un’idea che ha molte attrattive, ma conviene di non esagerarla, e molto più ancora di non forzarla. Quando lo sperimento della conciliazione si volle rendere obbligatorio, come preliminare necessario al giudizio, non corrispose alle aspettative e degenerò in una vana formalità” (PISANELLI, Procedura civile, Palermo, 1868, VII, 2);
b) Luigi Mattirolo: “Il sistema che impone lo sperimento della conciliazione, prima di iniziare la causa, sebbene annoveri tuttora qualche partigiano, è respinto dalla maggiore parte degli scrittori. In verità l’idea di conciliazione ripugna al concetto di coazione. La legge non deve farsi indiscreta tutrice dei cittadini; essa deve permettere, agevolare anche in ogni miglior modo lo sperimento della conciliazione; non imporlo. Il tentativo forzato, appunto perché forzato, degenera, siccome l’esperienza ha luminosamente dimostrato, in una vana formalità, spesso inutile, talvolta dannosa” (MATTIROLO, Trattato di diritto giudiziario civile italiano, Torino, 1892, I, 145);
c) Ludovico Mortara: “Questo istituto teoricamente ottenne un certo plauso ma in pratica non diede notevoli vantaggi. È necessario che la sua interposizione sia domandata, giacché non saprebbe rispondere al decoro della giustizia un’intromissione volontaria, per quanto officiosa, nelle questioni private. Il giudice non si ha interporre in discussioni, ufficio questo di mediatore e non di magistrato” (MORTARA, Manuale della procedura civile, Torino, 1921, I, 576);
d) Giuseppe Chiovenda: “Il conciliatore interpone il suo ufficio solo se richiesto” (CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1934, II, 22).
e) Piero Calamandrei: “In altri paesi la simpatia con la quale si guarda alla conciliazione è fondata su un senso di crescente scetticismo contro la legalità; così può avvenire che il favore con cui si guarda alla funzione conciliativa vada di pari passo col discredito della legalità e sia indice di un ritorno alla concezione della giustizia come mera pacificazione sociale” (CALAMANDREI, Istituzioni di diritto processuale civile, Padova, 1941, 87).
E se oggi, poi, correttamente e senza mezzi termini, si afferma che “quando l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità, la condizione si considera avverata se le parti si presentano al primo incontro dinanzi al mediatore e detto incontro si conclude senza accordo”, a maggior ragione la necessità della condizione di procedibilità della domanda viene meno e andrebbe soppressa, poiché l’obbligo che ne discende si riduce solo alla recita con la quale le parti, pagato un piccolo obolo, affermano semplicemente al mediatore che non intendono mediare.
5. La riforma e l’obiettivo di ridurre i tempi dei processi.
Questi, a mio parere, i punti principali della riforma.
Dopo di che, date le note positive e negative sopra evidenziate, non vedo però che pertinenza possa avere questo progetto con l’obiettivo di ridurre i tempi del contenzioso civile (si dice, del 40%), se non addirittura, si sente dire altresì da qualche altra parte, con quello di ridurre la stessa mole del contenzioso che attualmente grava sui nostri uffici giudiziari.
Premesso che una riforma non può darsi l’obiettivo di ridurre la misura del contenzioso, in quanto, sotto questo profilo, lo Stato semplicemente deve rendere giustizia nella misura in cui i cittadini la richiedono e non altro, residua tuttavia il tema della riduzione dei tempi, sul quale aggiungerei la riflessione che segue.
6. Segue: il correttivo da porre.
Ripeto, questa riforma a me non sembra funzionale alla riduzione dei tempi del processo.
Essa ha ad oggetto scelte di rito: alcune possono essere condivisibili, altre a mio parere, no; in ogni caso i tempi del processo dipendono da altro, non dipendono dal rito, dipendono dal rapporto tra domanda e offerta di giustizia.
Per l’esattezza, a fronte di un certo numero di domande di giustizia da parte dei cittadini, lo Stato deve organizzare una offerta di giustizia adeguata se vuole contenere in modo ragionevole i tempi dei processi. Se l’offerta di giustizia non è adeguata, è evidente allora che i processi durano un tempo non ragionevole, e a niente serve modificare in tal contesto le regole processuali.
E se vogliamo ridurre i tempi del processo, forse conviene allora ricordare Lodovico Mortara.
Lodovico Mortara, nel 1919, ristampava le sue Istituzioni di ordinamento giudiziario: in quell’anno, Lodovico Mortara era il Ministro della Giustizia, e seppur sospeso per l’incarico governativo, era anche il Primo Presidente della Corte di cassazione di Roma.
Quindi, immaginate l’autorevolezza di quella voce, primo magistrato del Regno e Ministro Guardasigilli.
Ebbene, Lodovico Mortara scriveva una cosa semplicissima.
Scriveva: “È chiaro che la nomina di un numero di magistrati corrispondenti, nei singoli gradi gerarchici, al bisogno del pubblico servizio, è una delle condizioni per cui lo Stato adempie il suo obbligo di organizzare l’amministrazione della giustizia”.
La funzione giurisdizionale, dunque, diceva Lodovico Mortara, deve muoversi in conformità alle esigenze della funzione, ovvero deve essere organizzata con un numero di magistrati corrispondenti al bisogno del pubblico servizio.
Anche oggi, così, se invece di cercare effimeri miglioramenti del servizio giurisdizionale modificando continuamente i riti, si facesse quello che a inizio ‘900 già diceva di fare Lodovico Mortara, ovvero semplicemente si aumentasse il numero dei magistrati e dei cancellieri fino a portarli ad una misura idonea al bisogno del pubblico servizio, probabilmente molti nostri problemi non ci sarebbero.
Questa, se si vuole ridurre i tempi della giustizia, è l’unica riforma da fare.
E non si dica che ciò avrebbe un costo, poiché, se si vuole, le risorse economiche vi sono; e a questo riguardo ricordo anch’io, come già ha fatto il mio Maestro Andrea Proto Pisani, l’eccellente volume di un altro ex magistrato, Marco Modena, Giustizia civile, Le ragioni di una crisi, ove l’autore sottolinea come la crisi della giustizia civile dipenda infatti dall’insufficienza dei mezzi, soprattutto umani, e che le risorse economiche vi sarebbero, se solo le si volessero utilizzare.
Peraltro, se a fronte di 2 milioni di nuove cause in Tribunale all’anno, abbiamo circa 10.000 magistrati, di cui parte sono addetti all’Ufficio della Procura della Repubblica, parte sono giudici che si occupano del penale, parte sono fuori ruolo o non attivi per ragioni varie, cosicché, si ritiene, che circa solo 3.000 magistrati, e non di più, si occupino, per tutti i gradi di giudizio, del contenzioso civile, non si vede proprio come i processi possano durare un tempo ragionevole, se 3.000 magistrati debbano far fronte ad un contenzioso di 2 milioni di cause ogni anno.
In tutti i settori economici, se aumenta la domanda, aumenta l’offerta; e questo aumento, in tutti i settori economici, è considerato un bene, non un male.
Solo nel campo del diritto processuale si ritiene che l’aumento della domanda sia un male, e si pensa che la soluzione all’aumento della domanda debba esser quello della sua forzata diminuzione.
Né, sia chiaro, può esser considerata una soluzione soddisfacente quella della riforma sull’Ufficio del processo di cui all’art. 12 bis del progetto; che certamente è lodevole, ma altrettanto certamente non è la soluzione.
Cinque odi per i nostri morti
LARGO FALCONE E BORSELLINO
di Werner Mussner
La città di Bolzano per esprimere la riconoscenza della comunità per l'impegno e per gli sforzi compiuti dai due magistrati in difesa delle Istituzioni ha a loro intitolato una piazzetta ed un vicolo cieco “Largo Falcone e Borsellino”.
Oltre al cartello stradale le Autorità hanno commemorato i due magistrati apponendo la famosa fotografia dei due giudici, ripresi mentre Paolo Borsellino commenta e Giovanni Falcone sorride durante un convegno, pochi mesi prima di cadere vittime dei due attentati. Una fotografia diventata simbolo della lotta alla mafia.
Si tratta di uno spazio minuto, a lato del Tribunale, che attraverso ogni giorno per recarmi al lavoro. E quasi quotidianamente la mia compagna – lei sì di buon umore sin dalla prima mattina - s’immagina una nuova battuta di Paolo Borsellino che fa sorridere Giovanni Falcone, cercando di far sorridere anche a me.
Ma al di là della nostra personale attenzione Largo Falcone e Borsellino, e con esso i magistrati cui deve il nome, forse non godono della dovuta considerazione. Sintomatica è la presenza ancora, accanto alla fotografia di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, di una fatiscente cabina telefonica, probabilmente dismessa, una delle ultime rimaste a Bolzano.
La sensazione è che in una terra geograficamente così lontana dalla Sicilia, la gente fatichi ancora oggi a comprendere appieno il significato dell’importanza dell’inibizione della criminalità organizzata, un contrasto che invece altri hanno condotto senza se e senza ma, con le Istituzioni non sempre al fianco. Un’attività volta semplicemente ad affermare lo stato di diritto ma che è costata la vita a molti magistrati ed agenti delle forze dell’ordine. Purtroppo, non solo fatica a capire il sacrificio compiuto in nome della giustizia dai colleghi, uomini e donne, ma spesso non si ferma nemmeno ad interrogarsi sulle ragioni che hanno reso necessaria la repressione del fenomeno mafioso e sulle radici della criminalità organizzata.
Sotto questo profilo la realtà locale presta senza dubbio il fianco a critiche. La necessità di studiare, analizzare e capire il crimine organizzato è poco sentita. Una lezione che sicuramente va ripetuta. Per non perdere l’eredità lasciataci da Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e da chi in nome della giustizia, con passione e professionalità, ha perso la vita.
di Lorenzo Miazzi
Sabato. Ero stato p.m. di turno, nella mia prima funzione che avevo scelto solo per stare vicino a casa e che adesso, dopo neanche due anni, mi piaceva sempre di più. Alle sei di un pomeriggio luminoso, con un caldo che annunciava l’estate, giocavo con mio figlio facendolo andare in biciclettina sull’aia dietro casa. In macchina avevo il regalo che gli avrei dato il giorno dopo, per il suo secondo compleanno. C’era anche mia moglie con in braccio Pietro, nato 14 giorni prima ed eravamo lì, in quel pomeriggio luminoso e nel caldo che odorava di estate, quando mio cognato ci disse che avevano fatto un attentato a Falcone.
Mia moglie rientrò e io rimasi fuori con Rocco che voleva ancora andare in bici, entravo in casa ogni tanto. Vidi immagini sconvolgenti, e ogni volta che entravo avevano aggiunto il nome di un morto della scorta e mostravano l’immagine di un ragazzo che non c’era più; non riuscivo a crederci. Vidi la gente che stava a guardare da fuori l’autostrada o si aggirava attorno alle macchine sventrate e alla buca creata dalla bomba come se fossero turisti; ne rimasi sbalordito, disorientato; non riuscivo a capire. Sentivo montare dentro di me, insieme, la rabbia contro gli assassini e un senso di estraneità rispetto a quella gente.
Poi venne sera, tv accesa su Raiuno per vedere, ero certo, un servizio che consentisse di capire anche a chi non aveva visto la tv nel pomeriggio. Invece apparve la faccia perplessa di Fabrizio Frizzi, che dopo alcune parole dedicate a Giovanni Falcone e alla sua scorta, in modo imbarazzato disse che lo spettacolo andava avanti, che era la decisione dell’azienda. E riprese con l’ultima puntata di “Scommettiamo che…” Allora anche quel senso di estraneità e stupore divenne rabbia.
Imprecavo contro quegli assassini; e detestavo quella gente che si mostrava indifferente; e mi sentivo in rivolta contro quello Stato che si rivelava neutrale fra mafia e antimafia, che voleva il compromesso e non la sconfitta della mafia, come nel caso del prefetto Mori. Solo che stavolta per non esporsi allontanando i magistrati antimafia, li aveva lasciati soli, aveva lasciato il lavoro sporco alla mafia stessa. Non siete il mio Stato, pensavo annichilito da un senso di impotenza, di inutilità del mio lavoro, dalla sensazione che fossimo in realtà un cane alla catena, e il messaggio era guai se andate oltre.
Domenica. Festeggiavamo il compleanno, mi chiesero cosa sapevo di Falcone. Raccontai un po’ la sua storia, comprese le perplessità che i suoi comportamenti mi avevano suscitato. Perché lasciare la procura per andare al CSM e poi al ministero? al CSM ci possono andare in tanti, ma lui era indispensabile, era il più bravo nella lotta antimafia. Perché non aveva voluto approfondire alcune indagini, fermandosi ai margini della politica che si intuiva già coinvolta, come aveva dimostrato due mesi prima l’omicidio di Lima? Ma ero troppo giovane. Non sapevo ancora che combattere, da dentro le istituzioni, quella parte dello Stato che era neutrale o alleata della mafia era necessario ed era più difficile che farlo da magistrato; non avevo ancora capito che quanto più è delicata la funzione, l’uso ragionevole, e non l’eccesso, dei propri poteri rende straordinario, come Falcone, un magistrato che voglia essere efficace e non insegua l’apparenza.
Lunedì. Quanta ipocrisia e quanto dolore vidi ai funerali. Le facce delle mogli distrutte, e le facce ributtanti dello Stato neutrale. Ancora più forte era il senso di estraneità rispetto a quello Stato, e di quello Stato rispetto a me, a noi che credevamo nel nostro lavoro e nel servizio alla comunità.
Poi, una domenica di luglio, afosa e sudata, sentii alla radio che avevano ucciso anche Borsellino e quel senso di estraneità divenne rabbia cieca, disillusione, sconforto, odio… Ma questa è un’altra storia.
QUEL CHE RESTA DI QUEL GIORNO
di Maria Cristina Amoroso
Economia politica. Un esame surreale per chi si iscrive a giurisprudenza. Ostico.
La prima volta avevo rinunciato per la mia naturale idiosincrasia per tutto ciò che non è parola ma numeri, rette e grafici.
Ci stavo riprovando.
Maggio. Un maggio caldo, già in manica corta. Napoli di fuoco.
Ero una studentessa. Ero una ragazza.
L’ansia della chiamata… tra quando? Sistema il libretto, parla con voce calma, speriamo di ricordare tutto.
Il brusio degli studenti interrotto da una strana agitazione della Commissione.
Gli esami si fermano.
Capaci, Falcone, Morvillo, la scorta, un’autobomba.
Non ricordo neanche più come ce lo dissero. Ricordo solo che ci congelammo all’unisono, fermi, immobili.
La stanza diventò l’autostrada con il fumo nel naso.
Tutti in piedi. Un minuto di silenzio o forse di preghiera.
Quel minuto ancora lo porto dentro, venni invasa da un devastante e potente senso di appartenenza che non mi ha mai più lasciata.
In quel tempo indefinito e senza suoni, da studentessa diventai, violentemente, più che semplicemente adulta, un magistrato, tanto che l’accaduto da quell’esame in poi è stato semplicemente un duro, ma fisiologico, impegno per adeguare nella realtà la nuova forma che già avevo dentro.
DM 19 ottobre 2004, non più un giovane magistrato, quindi, e sicuramente non ancora tra quelli di maggiore esperienza, l’insegnamento di quel giorno, ovvero l’essere parte di un tutto, va pertanto annoverato tra quelli “laici”, tra quelli che mi hanno plasmata prima che prendessi servizio e che inevitabilmente mi hanno fatto da guida nel corso dello stesso.
Di Giovanni Falcone mi è rimasta dentro la sua coinvolgente determinazione nell’esportare i valori della verità e della giustizia anche al di fuori delle sedi giudiziarie; di Francesca Morvillo la riservata tenacia nel lavoro e la straordinaria forza di un amore che ha deciso, consapevolmente, di rinunciare ad una vita più “leggera” per condividere le paure e le restrizioni che comporta una vita blindata.
Di Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, la capacità di essere protezione e famiglia al tempo stesso, come sanno fare solo coloro che vivono quotidianamente per tutelare gli altri.
Il dopo di quel giorno di maggio ho cercato di viverlo sempre così, come avevano fatto loro, sicuramente sbagliando, ma provando a farlo con tutte le mie forze.
Per questo, quando qualcuno mi chiede che lavoro faccio, istintivamente rispondo che “sono un magistrato”, non che “faccio” il magistrato, ma che lo sono.
Perché da quella mattina appartengo alla magistratura che si pone al servizio della collettività, non senza stanchezza, difficoltà, scoramento e delusione, ma sempre e innanzitutto al servizio, con generosità e con la consapevolezza che si può essere davvero per gli altri solo se si riescono a declinare, non solo nell’ambito lavorativo ma anche e soprattutto in altri contesti della vita quotidiana, i valori del rispetto, della giustizia della verità e della solidarietà, poiché, in quanto magistrato, avendo il potere di influenzare la vita degli altri, non si può che vivere così.
Nel mio breve percorso professionale ho incontrato moltissime volte colleghi animati dal medesimo senso di appartenenza, maturato o meno in quel maggio, e giovani laureati che, mossi da questa forza, sono riusciti a coronare il loro sogno di entrare in magistratura.
Quando ciò accade, è forte la percezione di trovarsi finalmente in quel luogo ideale comune per raggiungere il quale, nella età della giovinezza, abbiamo sacrificato tanto.
Quel posto c’è, non sempre, non ovunque, ma c’è, e quando c’è, se ne accorgono tutti.
LETTERA A GIOVANNI FALCONE
di Marta Agostini
23 Maggio 2021,
Questa sarà probabilmente la milionesima lettera che hai ricevuto, tra le tante scritte da chi, avendo avuto la fortuna di conoscerti, ha nostalgia di te e vive sulla propria pelle il tuo ricordo o da chi, invece, come me, ti ha conosciuto solo nei racconti degli altri, sui libri, nei film, nei documentari che parlavano di Palermo, di Cosa Nostra, del maxi processo e può soltanto provare ad immaginare chi tu fossi
Sono entrata in magistratura nel 2012, esattamente vent’anni dopo la tua morte.
Tu già allora probabilmente rappresentavi la parte migliore della magistratura italiana, il suo momento più alto. Io, invece, sono oggi testimone della sua storia peggiore, del periodo forse più buio.
Eppure mi piace pensare, con un certo orgoglio tipico di chi, nonostante tutto, mantiene un approccio idealistico alle cose della vita, di appartenere allo stesso corpo a cui appartenevi tu, quel corpo di uomini e di donne che, scegliendo questa professione, la nostra professione, hanno scelto un modo di essere. Non solo un lavoro, ma un servizio
Avevo più o meno undici anni quando sei stato ucciso e non ho alcun ricordo. Ma di certo ricordo come le stragi e, prima ancora, le tue indagini, la tua storia e quella del pool di Palermo, abbiano influito sulla mia decisione di entrare in magistratura. E come me credo che tantissimi altri colleghi della mia generazione, cresciuti anche loro all’ombra del tuo mito, abbiano inteso seguire i tuoi passi. Di questo, come di tanto altro, non finirò mai di ringraziarti perché ancora oggi, a distanza di quasi dieci anni dall’inizio del mio percorso professionale e nonostante tutto, rifarei quella scelta milioni di volte
È un’eredità importantissima quella che ci hai lasciato e, credimi, il grande insegnamento che hai regalato alle generazioni di magistrati che sono venute dopo di te è ancora vivo, fortissimo; anche se non abbiamo mai sentito la tua voce è come se ti conoscessimo da sempre e questo, caro Giovanni, è il dono più grande che tu potessi fare a questo Paese. Essere e restare una guida, un esempio, un simbolo di speranza e levatura morale per giudici e pubblici ministeri che, per tante e complicate ragioni, hanno perso molto della credibilità e della legittimazione che tu, assieme a chi con te ha perso la vita in ragione del proprio operato, avete contribuito a costruire e fortificare
Mi chiedo cosa penseresti di questi nostri tempi, di quello che siamo diventati, come cittadini e come magistrati, di come la giurisdizione, nel bene e nel male, sia cambiata rispetto a come la conoscevi tu.
Mi domando come avresti affrontato questa crisi etica profonda dalla quale la magistratura sembra non riesca ad uscire e che sta lentamente logorando il rapporto di fiducia tra questa e la società.
Ma credo anche che tutto sommato ogni epoca abbia i suoi mostri e tu sul tuo percorso ne hai trovati tanti, fuori e dentro lo Stato. Forse quanto è emerso negli ultimi anni, gli scandali e le polemiche che oggi continuano a provocare al nostro interno ferite laceranti, da fine conoscitore dell’animo umano quale eri, non ti avrebbero stupito affatto. Di certo comunque ne avresti sofferto, come ne soffro io
Mi ha sempre colpito molto, rivedendo le registrazioni delle tue interviste o degli interventi che hai fatto in TV o nei talk show a cui hai partecipato, l’integrità e la solennità con cui davi le tue risposte, la sobrietà con cui replicavi alle critiche ad agli attacchi, cercando di trattenere la rabbia, che pure a volte trapelava lasciando, così, intravedere anche la tua umanità (e la tua sicilianità). Mi colpiva l’autorevolezza e la fermezza con cui in quei momenti rappresentavi lo Stato, le sue Istituzioni, forte delle tue ragioni, che riuscivi a trasfondere anche nel semplice cittadino che nulla sapeva e capiva di diritto e di processi. Uno Stato in cui credevi ed in nome del quale combattevi, nonostante tu stesso fossi consapevole che, ad un certo punto, quello Stato ti aveva abbandonato.
Quel Giovanni Falcone mi ha insegnato quanto dirompente possa essere un’idea, anche la più folle (come folle era percepita all’epoca la tua visione-intuizione di cosa fosse e come operasse Cosa Nostra), se sostenuta dalla forza delle proprie ragioni, delle proprie convinzioni, a loro volta maturate a seguito di un intenso e serio lavoro e studio approfondito dei fatti. Nonostante la solitudine, quella che può uccidere anche il più forte degli uomini
E mi chiedo se oggi sarei in grado di avere quel tuo coraggio, quella tua ostinazione e determinazione nel portare avanti fino in fondo e a costo della vita un’idea che, nel tuo caso, in molti, sino alla fine, hanno osteggiato
Non so dare questa risposta, forse non so tuttora chi sono e chi sarò ancora in grado di essere. So per certo, però, anche grazie a te, cosa non voglio essere.
L’ho capito quando, almeno quindici anni fa, durante una vacanza estiva con gli amici in Sicilia, ci fermammo allo svincolo per Capaci, sull’autostrada, dove si erge il monumento in memoria della strage. Andavamo all’università, tutti iscritti a Giurisprudenza, tutti con lo stesso sogno, che poi siamo riusciti a realizzare. Quella tappa, nel corso del nostro giro in macchina della Sicilia, era scontata; la sentivamo tutti quasi come dovuta, senza bisogno di pianificarla. C’era un forte sole, faceva caldo e c’era uno strano silenzio, interrotto solo dalle macchine che passavano veloci, ma alle quali nessuno di noi faceva caso. Ricorderò sempre il profumo di quell’aria, l’ho respirata tutta, fino in fondo. Ricordo anche il calore della lacrima che mi sfuggì. E anche se non ne parlammo ed, anzi, restammo a lungo in silenzio anche dopo esserci rimessi in viaggio, so che quella forza, quella emozione profonda, l’empatia che provai con quei luoghi e quello che simboleggiavano, difficile da descrivere a parole, l’hanno percepita anche i miei compagni di viaggio che, come me, non la scorderanno
Porterò con me, sempre, un pezzo di te, del tuo ricordo, della tua storia, alla quale sono inscindibilmente legata perchè per tante ragioni in qualche modo fa parte della mia. Porterò con me quello che hai lasciato, l’esempio che per tanti di noi sei stato, quell’idea di magistrato che voglio essere e che, spero anche attraverso le future generazioni, continuerà ad esistere.
SPINTA EMOZIONALE SU E PER GIOVANNI FALCONE
di Andrea Apollonio
Ero andato a trovare un collega, a Palermo, molto più grande di me. Non c'erano ragioni di servizio, anzi avevo preso appositamente un giorno di ferie: lui aveva condotto, negli anni Novanta e Duemila, i principali processi contro Cosa Nostra, e mi si era presentata la possibilità di incontrarlo. Nella penombra della sua stanza, in cui la luce del sole faticava ad arrivare per via dei vetri blindati, parlavamo del momento difficile che stava attraversando la magistratura, degli scandali che si erano succeduti negli ultimi tempi, quando lui ad un tratto, improvvisamente e senza ragione, aveva preso a parlare di Falcone. Mi raccontava cose che nessuno poteva sapere, salvo chi non avesse lavorato con lui gomito a gomito. Mi spiegava - non era infatti un raccontare, era uno spiegare - come Falcone si comportava con i colleghi, con quelli amici e quelli che gli erano avversi, con i collaboratori di giustizia, con la polizia giudiziaria. Mi illustrava le tecniche di indagine e il modo con cui affrontava i processi. Come un magistrato non possa mai farne questioni personali, né abbia il diritto di sconsolarsi.
Tornando a casa, in treno, vedevo scorrere la costa siciliana ed ero frastornato. Perché, sebbene non ci fossimo mai incontrati prima, aveva voluto rendermi partecipe di ricordi tanto intensi, che certamente avevano riaperto ferite dolorose? Poi ci fu uno scambio di mail, e compresi. Lui mi aveva scritto: "Sappi che giovani come te danno senso all’ impegno che uomini come me, e molto migliori di me, hanno profuso per arginare il male e l’ingiustizia, perché alimentano la speranza che qualcosa resterà". Era chiaro a chi si stesse riferendo: a quale fosse il punto d'origine di quella catena. Cadeva così il velo che mi aveva impedito, fin lì, di comprendere la concretezza e la materialità dell'esperienza umana e professionale di Giovanni Falcone; ben oltre le effigi sui muri e le targhe nelle piazze.
Certo: la foto di Falcone e Borsellino era stata collocata nel mio ufficio prima d'ogni altra cosa, perché esprime un ideale (astratto, in quanto tale): lo spirito di servizio perseguito ogni oltre umano timore. Nessun magistrato dovrebbe prescinderne, e quella foto - esposta dentro il mio piccolo ufficio giudiziario di frontiera - intendeva testimoniare l'adesione ideologica allo spirito che animava i due colleghi. Intende ancora: ma dopo quell'incontro a Palermo mi è stato chiaro come la professionalità, la levatura morale e l'abnegazione di Falcone si fossero trasfuse - concretamente: nel modo di ragionare e nell'agire quotidiano - nella generazione appena successiva, e da questa a colleghi ancora più giovani, e via così: affinché quelle caratteristiche - dell'uomo e del magistrato Falcone - potessero essere ancora patrimonio e linfa della magistratura italiana, e non invece freddo reperto della memoria: che è sempre infeconda, se non coltivata a dovere.
Interesse legittimo e giurisdizione amministrativa: la trappola della tutela risarcitoria*[1]
di Fabio Francario
Sommario: 1. Premessa - 2. L’arretramento contestato (dalle Sezioni Unite) - 2.1. La riscrittura del sistema di giustizia amministrativa avvenuta a cavallo del nuovo millennio - 2.2. Giudice amministrativo e tutela risarcitoria - 2.3. L’ibridazione del diritto soggettivo “amministrativizzato” - 2.4. L’ibridazione dell’interesse legittimo “patrimonializzato” - 3. L’arretramento auspicato (dalle riforme legislative) - 4. La trappola della tutela risarcitoria.
Spinto dall’avvenuto spostamento dei diritti soggettivi nell’ambito della giurisdizione esclusiva e dall’attribuzione del potere di condanna al risarcimento del danno e suggestionato dalle teorizzazioni in termini di giudizio di spettanza, all’inizio del nuovo millennio il giudice amministrativo sembrerebbe essersi incamminato sulla via della ibridazione delle figure soggettive, incontrando la resistenza della Corte di cassazione e prestando il fianco ad ulteriori interventi riformatori pronti a considerare la tutela risarcitoria un modo come un altro per tutelare l’interesse legittimo.
La tutela risarcitoria è la trappola perfetta per il giudice amministrativo e la strada dell’ibridazione è la pericolosa scorciatoia che vi conduce, poichè espone il giudice amministrativo al perenne e carsico contrasto con le Sezioni Unite nel momento in cui l’ibridazione tende a costruire una tutela risarcitoria che è un surrogato di quella fruibile nel sistema della tutela civile dei diritti e lo allontana da quella che è la sua mission istituzionale (e costituzionale), assicurare cioè giustizia nell’amministrazione, che rappresenta la sua stessa ragion d’essere.
1.- Premessa. Le considerazioni che vengono svolte nel presente articolo rispondono all’invito di Scoditti e Montedoro a riflettere sul tema se l’attuale struttura pluralistica del sistema giurisdizionale disegnato dalla Costituzione repubblicana sia un punto di forza o di fragilità dello Stato sociale italiano[2] .
Lo spunto è offerto da due eventi che nel corso del 2020 hanno messo in discussione il ruolo del giudice amministrativo e rivitalizzato l’attenzione degli studiosi per il tema della giurisdizione amministrativa, dei suoi limiti e confini.
Il primo è dato dalla nota ordinanza delle Sezioni Unite n. 19598 del 18 9 2020 che, con una pronuncia senza precedenti, ha chiesto alla Corte di Giustizia Europea di pronunciarsi sulla compatibilità con il diritto euro unitario dei limiti della giurisdizione amministrativa così come definiti dalla Corte costituzionale con la sentenza 6 / 2018 (ma anche, a ben guardare, a prescindere dalla suddetta pronuncia della Corte)[3].
Il secondo è dato dall’evento pandemico e dalla situazione emergenziale dallo stesso creata, non tanto sotto il profilo sanitario, quanto socio - economico, per la necessità di porre in essere interventi straordinari di immediato sostegno e rilancio dell’economia, la cui efficacia, si è paventato, potrebbe essere condizionata e pregiudicata dall’intervento del giudice amministrativo.
Tali eventi hanno riacceso la discussione sul rapporto tra giudice amministrativo e giudice ordinario, da un lato, e tra giudice amministrativo e pubblica amministrazione, dall’altro, imponendo una riflessione complessiva sul ruolo del giudice amministrativo nell’assetto ordinamentale contemporaneo.
Il problema non può essere ridotto ad una questione di mera delimitazione di reciproci confini. Certamente, l’auspicato dialogo tra le Corti, nazionali e non, attraversa un momento difficile, che può giustificare anche una lettura in termini di antagonismo finalizzato all’affermazione di una primazia giudiziaria, o meglio, con specifico riferimento al rapporto Consiglio di Stato e Cassazione, all’affermazione o meno di una piena ed assoluta equiparazione delle due giurisdizioni, amministrativa e ordinaria, con relativa nomofilachia “differenziata” sotto ogni profilo. Questa lettura del fenomeno, visto per così dire dall’alto, dal punto di vista cioè del giudicante che deve difendere e delimitare il proprio territorio giurisdizionale, rischia però di essere sterile e fuorviante e può portare a soluzioni che finiscono con il perdere di vista l’esigenza primaria che è quella di vedere come debba essere qualitativamente soddisfatto il bisogno di tutela giurisdizionale del cittadino nei confronti della PA.
Questa esigenza primaria diventa immediatamente visibile cambiando prospettiva, guardando le cose per così dire dal basso, dal punto di vista cioè del cittadino utente del servizio di giustizia. In tal caso, il problema di valorizzare il giudice amministrativo come risorsa diventa immediatamente comprensibile nei suoi termini essenziali perché diventa subito ben chiaro che il problema è innanzi tutto quello di capire a cosa serva un sistema dualistico. Così posto, l’interrogativo impone di sciogliere, in un senso o nell’altro, l’alternativa tra il ritenere che un sistema dualista serve a far sì che il cittadino possa ottenere nei confronti della PA una tutela qualitativamente diversa e maggiore rispetto a quella comunemente offerta dal sistema della tutela civile dei diritti; oppure che la creazione di un giudice speciale, appositamente costituito per decidere le controversie in cui sia parte la PA, serva per garantire la completa sottrazione di questa al diritto comune[4].
Detto diversamente, bisogna domandarsi se il giudice amministrativo esiste per rispondere ad un bisogno di tutela diverso da quello proprio già della figura del diritto soggettivo ovvero per soddisfare diversamente un bisogno di tutela che verrebbe altrimenti garantito dal sistema della tutela civile dei diritti.
Sono fermamente convinto che questa alternativa renda chiaro come il giudice amministrativo sia una risorsa inestimabile e insostituibile in un ordinamento che intenda raggiungere e conservare un elevato livello di civiltà giuridica. Ciò implica, però, che egli debba garantire il rispetto degli obblighi di comportamento che gravano sulla PA in ragione della specialità dei principi e delle regole del diritto amministrativo rispetto a quelle proprie dei rapporti di diritto comune; e non già che la giurisdizione amministrativa possa radicarsi ratione personae, per il solo fatto che parte in causa sia una PA, a prescindere dal fatto che debba essere protetta una situazione di interesse legittimo. Se così fosse, la specialità caratterizzerebbe la figura del giudice in quanto tale, con buona pace del divieto posto dall’art 102 Cost., e attesterebbe che la PA sarebbe sempre e comunque sottratta all’applicazione delle regole e dei principi di diritto comune. Il rivendicato dualismo nomofilattico, in questa seconda ipotesi, non rifletterebbe la diversità degli istituti che i giudici sarebbero chiamati ad applicare, ma a creare regimi differenziati di un medesimo istituto. La questione della tutela risarcitoria, vero e proprio casus belli dei conflitti di giurisdizione, è esemplare sotto questo profilo.
Prima di giungere alle conclusioni, in parte già anticipate da queste considerazioni introduttive, è opportuno capire meglio come e perché i suddetti eventi siano tali da sollecitare una riflessione complessiva sul ruolo del giudice amministrativo.
Al centro della discussione è sempre il problema dell’arretramento della giurisdizione amministrativa, ma le vicende sono speculari. In un caso, l’arretramento viene addebitato dalle Sezioni Unite assumendo che il giudice amministrativo rifiuti di rispondere al bisogno di tutela che l’ordinamento vuole invece protetto nelle forme del diritto soggettivo o dell’interesse legittimo; nell’altro, l’arretramento viene invece auspicato nel presupposto che serva a garantire un recupero di efficienza e celerità dell’azione amministrativa.
2.0.- L’arretramento contestato (dalle Sezioni Unite).
2.1.-La riscrittura del sistema di giustizia amministrativa avvenuta a cavallo del nuovo millennio. L’ordinanza 19598 del 2020 pone un problema che non può essere affrontato e risolto sulla base di più o meno raffinate tecniche esegetiche applicate all’interpretazione tanto dell’ordinanza, quanto, più in generale, alle pronunce delle altre Corti, esplicitamente o implicitamente richiamate dalla prima. Intendo dire che il problema non è quello di prendere posizione a favore o contro la Cassazione (o, a seconda dei punti di vista, del Consiglio di Stato o della Corte costituzionale), proponendo quella che si ritiene sia la soluzione più corretta sul piano puramente esegetico, raggiunta valorizzando o enfatizzando questa o quella espressione, questo o quel lemma impiegato dalla Corte costituzionale, dalla Cassazione, dal Consiglio di Stato o dalla CGUE in una sentenza piuttosto che in un'altra. Qualsiasi soluzione raggiunta in questo modo è destinata ad avere breve vita se non si comprendono le ragioni sostanziali di quella che viene spesso rappresentata come una vera e propria “ostinazione” delle Sezioni Unite nel porre il problema che i termini della questione di giurisdizione debbano oggi essere in qualche modo ripensati.
Non certo soltanto con la più recente ordinanza 19598, ma ormai da tempo, il problema di fondo che le Sezioni Unite stanno ponendo è quello dell’arretramento della linea della tutela giurisdizionale.
Le ragioni affondano le radici nelle riforme, legislative e “giudiziarie”, del 1998 – 2001, che finiscono poi con l’essere codificate nel 2010 dal c.p.a. e che possono riassumersi in cinque momenti essenziali.
Il d. lgs. 31 marzo 1998 n. 80 dà l’avvio ad un disegno riformatore che, nelle intenzioni del legislatore, avrebbe dovuto rendere superata, obsoleta e priva di interesse la problematica delle situazioni giuridiche soggettive, attraverso l’introduzione del criterio dei blocchi di materie come nuovo criterio di riparto della giurisdizione e l’attribuzione al giudice amministrativo del potere di condannare l’Amministrazione al risarcimento dei danni.
Nel 1999 la storica sentenza 500 delle Sezioni Unite afferma la risarcibilità degli interessi legittimi; nel presupposto (della sussistenza della giurisdizione ordinaria e) dell’eliminazione della pregiudizialità del previo annullamento dell’atto illegittimo, rimedio (l’annullamento) che, nell’impianto della sentenza 500, viene sostituito da quello della disapplicazione la quale garantisce l’autonomia dell’azione risarcitoria rispetto a quella di annullamento[5].
Nel 2000 le norme che ampliano l’ambito delle materie di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e che consentono allo stesso di condannare anche al risarcimento del danno, originariamente recate dagli artt 33, 34 e 35 del d.dlvo 80/98, vengono dichiarate incostituzionali per eccesso di delega da Corte Cost.17 luglio 2000 n. 292; ma vengono poi riprodotte dalla l. 21 luglio 2000 n. 205 con l’eliminazione del riconoscimento della possibilità di condannare al risarcimento del danno nei soli casi di giurisdizione esclusiva[6].
Queste norme vengono infine trasfuse nel codice del processo amministrativo il quale precisa che l’azione risarcitoria può essere proposta tanto per diritti soggettivi, quanto per interessi legittimi, che nel secondo caso va proposta nel termine di 120 giorni e che il risarcimento va escluso se i danni si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti (1227 cod civ)(art 30 cpa);
Le norme sulla tutela risarcitoria, recate dalla l 205/2000, prima, e dal codice del processo amministrativo, dopo, vengono entrambe “salvate” dalla Corte costituzionale con le sentenze 204/2004 e 94/2017 [7] ; non anche quelle sul criterio (di riparto della giurisdizione) dei blocchi di materie, censurato dalla sentenza 204/2004 perché prescinde dalla natura delle situazioni soggettive coinvolte [8].
In pratica, a cavallo del nuovo millennio, il sistema di giustizia amministrativa viene ridisegnato spostando quanto più possibile la tutela dei diritti soggettivi, quando parte in causa è una pubblica amministrazione, dal giudice ordinario al giudice amministrativo e questo spostamento si perfeziona con l’attribuzione al giudice amministrativo del potere di condannare anche al risarcimento del danno.
Questa riscrittura del sistema di giustizia amministrativa supera il giudizio di costituzionalità, ma non senza riserve o condizioni. Secondo le pronunce della Corte cost. 6 luglio 2004 n. 204 e 22 febbraio 2017 n. 94 la differenziazione delle situazioni soggettive rimane ferma e può (e deve) giustificare tutela differenziata anche nell’ambito del processo amministrativo. Rimane comunque fermo che, pur con i limiti e le riserve suddette, l’allargamento della giurisdizione esclusiva viene legittimato dalla Corte costituzionale e il giudice amministrativo viene così chiamato ad apprestare tutela anche a quelle situazioni di diritto soggettivo che prima ricevevano tutela da parte del giudice ordinario principalmente attraverso la tutela risarcitoria o dichiarativa.
L’affermazione del principio di concentrazione della tutela giurisdizionale ha fatto però perdere di vista la specificità delle tutele delle due situazioni soggettive ed ha evidenziato la tendenza alla loro ibridazione in una forma indistinta che sembrerebbe mutuare il peggio (i limiti) dell’una e dell’altra. Una cosa è assicurare la ragionevole durata di un processo; altra trasformare forma e sostanza della tutela della situazione soggettiva.
2.2.-Giudice amministrativo e tutela risarcitoria.
Non si può seriamente negare che lo spostamento della tutela dei diritti soggettivi innanzi al giudice amministrativo abbia posto, con buona pace dell’art 113 Cost., un problema di effettività della tutela giurisdizionale.
Non si può negare il problema limitandosi ad osservare che il c.p.a. ormai consente al giudice amministrativo di esercitare tutti i poteri propri già del giudice ordinario. Il problema è che il giudizio amministrativo è, e si è comunque dimostrato nella concreta applicazione, fisiologicamente inidoneo ad erogare la tutela risarcitoria. Il dato storico è di tale ed immediata evidenza per tutti gli operatori del diritto da non richiedere particolare dimostrazione ed affonda le sue radici nella perdurante assenza di una vera e propria istruttoria nella fisiologia del processo amministrativo.
Intendo con ciò dire che, anche successivamente all’adozione del codice del processo amministrativo, la disciplina permette al giudice amministrativo di poter continuare a definire comunque il giudizio in base ad un giudizio sulla ragionevolezza della decisione amministrativa e/o a valutazioni puramente equitative o indennitarie dei risarcimenti, estranee alla cultura giuridica della vera e propria tutela risarcitoria. Ripeto a scanso di ogni possibilità di equivoco che non intendo con ciò dire che il giudice amministrativo oggi come oggi non abbia il potere di accertamento diretto dei fatti. La disciplina dei mezzi di prova e dell’attività istruttoria recata dagli artt. 63 e ss del c.p.a. non lascia più dubbi al riguardo. Intendo dire che il sindacato sulla ragionevolezza della decisione amministrativa è ancora più che largamente impiegato come strumento alternativo all’accertamento diretto dei fatti, compromettendo la credibilità del sindacato giurisdizionale quantomeno in termini di equidistanza del giudice amministrativo dalle rappresentazioni delle parti[9].
E a ciò si può aggiungere che, alla constatazione che il giudice amministrativo abbia il potere di condannare al risarcimento del danno per equivalente o anche ad un fare specifico, si accompagna l’osservazione che questo potere spesso e volentieri può prescindere dalla domanda di parte per il suo esercizio [10]: alludo, per fare degli esempi, alla possibilità che in sede di cognizione, senza domanda di parte, il giudice può disporre “le misure idonee ad assicurare l’esecuzione del giudicato” (art 34 co. 1 lett e); al fatto che ha il potere di dichiarare o meno l’inefficacia del contratto quando annulla l’aggiudicazione definitiva di una gara pubblica (art 122 cpa); al fatto che, nelle condanne pecuniarie, può limitarsi a stabilire “i criteri in base ai quali il debitore deve proporre a favore del creditore il pagamento di una somma entro un congruo termine” (art 34 co. 4 c.p.a.).
Credo, in buona sostanza, non si possa negare la realtà delle cose e negare che il processo amministrativo sia inevitabilmente condizionato dalla rilevanza dell’interesse pubblico istituzionalmente affidato alle cure della pubblica amministrazione e che ciò abbia inevitabilmente incidenza sulla prevedibilità delle decisioni e limiti il sindacato giurisdizionale.
In questo contesto, il giudice amministrativo ha acquisito nell’ambito della sua giurisdizione i diritti soggettivi, ma la tutela ha subito una variazione qualitativa e si è in parte affievolita.
2.3.- L’ibridazione del diritto soggettivo “amministrativizzato”.
Questo nuovo scenario ha avuto innanzi tutto l’effetto di rivitalizzare la figura “classica” del rifiuto di giurisdizione, secondo la quale è censurabile l’arretramento fatto in via generale e astratta, in maniera aprioristica e non con riferimento alla specificità del caso concreto, della linea della giurisdizione fruibile dal cittadino. Ha poi visto prender corpo un tentativo di dilatare la concezione del motivo di giurisdizione in modo da ricomprendere anche le ipotesi dell’errore abnorme in procedendo o in judicando, teorizzando la c.d. interpretazione evolutiva, criticata e censurata da Corte cost 6/2018.
Nella realtà delle cose, non solo nella sua interpretazione “evolutiva”, ma anche nella sua accezione classica, il rifiuto di giurisdizione è però rimasto sostanzialmente confinato al livello di figura più teorica che pratica[11], lasciando al giudice amministrativo la libertà di muoversi nel nuovo scenario come giudice dei diritti.
Ciò ha prodotto la già ricordata ibridazione della tutela del diritto soggettivo innanzi al giudice amministrativo, che non sarebbe avvenuta se si fosse evitato che il cambio di giurisdizione venisse accompagnato anche da un mutamento qualitativo della tutela fruibile. Sotto questo profilo, è quasi più grave che le Sezioni Unite non abbiano quasi mai concretamente applicato la figura (del rifiuto di giurisdizione), piuttosto che il fatto che ne abbiano teorizzato interpretazioni evolutive.
Le Sezioni Unite hanno dunque in realtà applicato poco o nulla la figura classica del rifiuto di giurisdizione; e il Consiglio di Stato si è spesso e volentieri rifiutato di erogare tutela risarcitoria nelle forme proprie della tutela civile dei diritti e si è troppo spesso rifugiato nel sindacato di ragionevolezza, rifiutando l’accertamento diretto dei fatti. Per recuperare l’effettività della tutela giurisdizionale basterebbe in realtà poco; e cioè che le Sezioni Unite cassassero le decisioni dove c’è rifiuto aprioristico e tipizzato, formulato in via generale e astratta, di una certa situazione; e che il Consiglio di Stato fosse meno creativo e più attento alle categorie generali dell’Ordinamento quando si tratta tutelare diritti soggettivi e rinunciasse a plasmarle o adattarle alla specificità del processo amministrativo, cosa che ha un senso se si tratta d’interessi legittimi, non di diritti soggettivi. Va senz’altro apprezzata in tal senso, ad esempio, la recente Ad. Plen 4 12 2020 n.24 [12]sul termine di prescrizione, che ha evitato una di quelle ibridazioni che nel futuro prossimo venturo avrebbero quasi sicuramente originato il proliferare di nuove questioni di giurisdizione. Elementi di preoccupazione riemergono però immediatamente se solo si considera che l’Adunanza plenaria è stata investita della questione della natura della tutela risarcitoria nel processo amministrativo da CGARS 15 12 2002 n.1136 per chiarire, inter alia, “se il paradigma normativo cui ancorare la responsabilità dell’Amministrazione da provvedimento (ovvero da inerzia e/o ritardo) sia costituito dalla responsabilità contrattuale piuttosto che da quella aquiliana”, con conseguente rilevanza della prevedibilità del danno ai fini della risarcibilità (da escludere in caso di sopravvenienze normative che sarebbero comunque nella disponibilità dell’amministrazione ove ad agire fossero gli apparati politici e non quelli amministrativi)[13].
2.4.- L’ibridizzazione dell’interesse legittimo “patrimonializzato”.
Il processo di ibridazione ha fatto perdere di vista la specificità non solo della tutela che deve ritenersi propria delle situazioni di diritto soggettivo, ma anche di quella propria delle situazioni di interesse legittimo.
L’esigenza di rispondere al bisogno di tutela proprio delle situazioni di diritto soggettivo e delle domande risarcitorie ha infatti finito con il concentrare su tali profili l’attenzione e lo sforzo del giudice amministrativo e ha fatto perdere di vista l’esigenza di tutela delle situazioni non riducibili a tali schemi e che dovrebbero invece rappresentare il proprium della giurisdizione amministrativa, la tutela dell’interesse legittimo. Il processo di ibridazione ha appiattito la forma di tutela di questa situazione su quella del diritto soggettivo, patrimonializzandola; dandole un contenuto necessariamente patrimoniale, come pretesa a che un bene della vita entri nel proprio patrimonio ovvero non ne esca.
Sotto questo profilo, non solo la giurisprudenza, ma anche buona parte della dottrina amministrativistica dovrebbe avviare una riflessione critica sui danni prodotti dal fatto di aver enfatizzato oltremodo la costruzione del processo amministrativo in termini di giudizio sulla fondatezza della “pretesa” vantata dal ricorrente, sulla “spettanza” del bene della vita, ponendo in secondo piano il fatto che nella generalità dei casi il conseguimento del bene della vita è pur sempre protetto in termini di probabilità e non di certezza. Insisto nel ritenere esemplari sotto questo profilo le parole di Riccardo Villata pronunciate in occasione del convegno celebrativo dei 130 anni della istituzione della Quarta Sezione del Consiglio di Stato: “Il processo amministrativo, abbandonato “finalmente” il modello di processo all’atto, è divenuto giudizio sul rapporto. Nel dettaglio, è un giudizio di spettanza nel senso che accerta la fondatezza della pretesa al bene della vita, pretesa che può oggi soddisfare tramite l’azione divenuta atipica o meglio il ventaglio di azioni che il c.p.a. riconosce e di cui si deve se mai criticare i limiti (quelli apposti alle azioni di adempimento, di nullità, risarcitoria) superandoli per quanto possibile nell’applicazione. Ebbene, io non mi riconosco affatto in questa prospettiva, spero non solo perché con il trascorrere degli anni ai propri convincimenti sempre più ci si affeziona e si consolida l’ostilità ad accettare tesi di segno diverso” [14]. Annullare il giudizio negativo di una commissione, annullare la lex specialis che impedisca la partecipazione a una gara, annullare la previsione di uno strumento urbanistico, accertare l’illegittimità del silenzio; in casi come questi casi e, più in generale, tutte le volte in cui l’esercizio della giurisdizione generale di legittimità lascia margini di scelta all’Amministrazione, non è possibile ravvisare l’obbligo di soddisfare in maniera immediata e diretta la pretesa al bene della vita cui si aspira[15].
L’occasione per avviare questa riflessione critica è stata offerta proprio dalla recente ordinanza 19598/2020 che, all’apparenza, sembrerebbe ricollegarsi al filone della c.d. interpretazione evolutiva del rifiuto di giurisdizione, che si vorrebbe estendere alle ipotesi del rifiuto di assicurare “l’effettività della tutela giurisdizionale delle situazioni giuridiche soggettive di rilevanza comunitaria” e della “omissione immotivata del rinvio pregiudiziale”. Rispetto ai precedenti dell’ultimo decennio, quello che sembra caratterizzare la recente pronuncia non è però tanto l’apertura della figura verso la nuova frontiera del diritto eurounitario, quanto proprio il fatto che, muovendo dal parametro eurounitario, l’arretramento della giurisdizione amministrativa viene questa volta ipotizzato rispetto al bisogno di tutela proprio della figura dell’interesse legittimo e non ad una situazione di diritto soggettivo. Al di là delle diverse opzioni esegetiche che i primi due quesiti dell’ordinanza lasciano alla mercè dell’intelligenza e della cultura del giurista, la questione di sostanza che pone l’ordinanza è espressa in realtà nel terzo quesito e riguarda limiti e consistenza della figura dell’interesse legittimo[16]: se e fino a che punto, in base al diritto eurounitario in materia di appalti, possa essere fatto valere l’interesse legittimo alla esclusione del concorrente e alla ripetizione della gara. Raffinate tecniche interpretative hanno mantenuto a lungo vivo il dialogo tra Consiglio di Stato e Corte di Giustizia, ma lo stesso succedersi delle decisioni ha finito solo con il rendere evidente l’esistenza di un contrasto di fondo proprio sul modo d’intendere la situazione soggettiva d’interesse legittimo.
Dando per nota la tormentata vicenda del rapporto tra ricorso principale e incidentale escludente, ci si limita a ricordare come tutte le volte che il giudice amministrativo nazionale ha provato a circoscrivere gli effetti dell’affermazione di principio della Corte di Giustizia, quest’ultima ha ribadito la propria posizione nel senso che l’interesse, o se si vuole il bene protetto, sia in ultima analisi quello alla correttezza della procedura che non si risolve necessariamente in quello alla concreta aggiudicazione della gara espletata (Fastweb 2013 – Puligienica 2016 – Lombardi 2019). Principio chiaramente riaffermato nell’ultimo caso, nel quale il giudice amministrativo nazionale aveva praticamente chiesto di lasciare alla discrezionalità del legislatore nazionale la stima dell’interesse a ricorrere nel caso concreto, e la Corte ha invece ribadito che, a prescindere dalla possibilità di risultare effettivamente aggiudicatari della gara, ricorso “efficace” è quello che tutela anche solo indirettamente l’interesse a ottenere l’appalto, ravvisato anche “nell’ipotesi di esclusione di tutti gli offerenti e dell’avvio di una nuova procedura di aggiudicazione” perché “ciascuno degli offerenti potrebbe parteciparvi”. Secondo i principi comunitari, il concetto di “interesse ad ottenere l’aggiudicazione” non s’identifica dunque necessariamente con quello di chi, in esito all’accoglimento del ricorso, verrebbe riconosciuto aggiudicatario in luogo del controinteressato, situazione agevolmente patrimonializzabile e idonea ad essere risarcita per equivalente monetario. Bisogna quindi decidere se e fino a che punto possa arretrare la linea della tutela giurisdizionale dell’interesse strumentale al corretto svolgimento della gara d’appalto e se e fino a che punto il bene della vita che deve essere protetto dal giudice amministrativo sia quello all’aggiudicazione o alla corretta partecipazione.
3.- L’arretramento auspicato (dalle riforme legislative).
Occorre a questo punto considerare che la riflessione sull’attuale ruolo del giudice amministrativo deriva non solo dalla pressione esercitata dalle Sezioni Unite per evitare l’arretramento della linea della tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi, ma anche dal fatto che, per altro verso, il giudice amministrativo si trova ciclicamente esposto a disegni riformatori che auspicano se non proprio la scomparsa, quantomeno l’arretramento della linea della tutela giurisdizionale fruibile dal cittadino nei confronti della Pubblica amministrazione.
Anche in occasione della situazione emergenziale creata dall’epidemia Covid 19 la proposta di escludere o limitare la tutela fruibile dal giudice amministrativo è puntualmente riemersa[17]. L’emergenza sanitaria ha causato il blocco della gran parte delle attività produttive e commerciali, determinando la necessità di prevedere misure straordinarie per rilanciare immediatamente ed efficacemente l’economia al termine dell’emergenza pandemica. Il timore, al solito, è che l’intervento pubblico si riveli lento e inefficace, donde la proposta di risolvere il problema limitando la possibilità di ricorso e la tutela nella materia dei contratti pubblici di appalto di opere, servizi e forniture; limitando la tutela erogabile dal giudice amministrativo alla sola tutela risarcitoria.
Anche questa volta si è cercato di riscrivere il sistema di tutela appiattendolo sulla tutela risarcitoria con esclusione di quella costitutiva di annullamento. Al fine di incentivare gli investimenti pubblici nel settore delle infrastrutture e dei servizi pubblici, nonché al fine di far fronte alle ricadute economiche negative a seguito delle misure di contenimento e dell'emergenza sanitaria globale del COVID-19, l’art. 4 del d.l. 16 luglio 2020, n. 76 alla fine si è limitato a prevedere l’estensione, ai giudizi promossi avverso le procedure di gara bandite entro il 31 dicembre 2021, dell’articolo 125 del c.p.a., il quale, nonostante manifesti un indubbio favor per la tutela risarcitoria, non giunge sino al punto di escludere in assoluto la tutela d’annullamento. Ma tutti ricordiamo molto bene come si sia molto discusso della possibilità di escludere del tutto la tutela costitutiva per lasciare spazio unicamente alla tutela risarcitoria [18]. Probabilmente, anche per la ferma opposizione di buona parte della dottrina, alla fine il risultato è stato quello di estendere solo l’applicabilità dell’art 125 c.p.a., ma non dimentichiamo che da più parti è stato seriamente messo in discussione il fatto che l’art 113 Cost. offrisse copertura costituzionale al principio della giurisdizione generale di legittimità, sostenendo che il legislatore potesse pertanto escludere, in determinate materie o per particolari categorie di atti, l’impugnazione in sede giurisdizionale. Segno più evidente della tendenza a ridurre il giudice amministrativo a giudice del risarcimento del danno non potrebbe esservi e non è detto che si riesca a resistere anche al prossimo attacco che, sempre in nome dell’esigenza di recuperare efficienza ed economicità dell’azione amministrativa, c’è da aspettarselo, tenderà nuovamente a sterilizzare quanto più possibile la possibilità d’intervento del giudice amministrativo.
La vicenda occasionata dall’emergenza pandemica è emblematica e sintomatica del rischio insito nelle teorizzazioni che neghino la differenziazione tra le situazioni soggettive del diritto soggettivo e dell’interesse legittimo e dei correlati bisogni di tutela: se il risarcimento diventa un modo come un altro per tutelare le situazioni d’interesse legittimo (il che si verifica nel momento in cui le due tutele, demolitoria e risarcitoria, divengono fungibili tra loro), dell’annullamento dell’atto illegittimo se ne può anche fare a meno.
Come già sottolineato altrove[19], proposte siffatte non sono pensabili vigente la Costituzione Repubblicana. Il diritto dell’emergenza non deve diventare un pretesto per giustificare l’ennesimo tentativo di ridurre la tutela giurisdizionale nei confronti della pubblica amministrazione e di sottrarre il diritto amministrativo al suo giudice naturale. Non si può fare però a meno di sottolineare come un tale anelito riformatore condurrebbe a una falsa semplificazione che non risolverebbe alcun problema; anzi, lo acuirebbe[20]. E’ noto, infatti, che i ritardi e gli arresti nella conclusione dei processi decisionali, oltre che dal concorso non coordinato di più protagonisti pubblici nell’esercizio della medesima funzione, dipendono essenzialmente dalle innumerevoli e instabili normative, continuamente cangianti e in crescita esponenziale senza che il profluvio normativo ubbidisca ad un qualsivoglia principio che possa orientarne l’applicazione. Fenomeno che disorienta il decisore pubblico fino al punto da paralizzarne l’azione per evitare l’assunzione di responsabilità sanzionabili sotto il profilo amministrativo, contabile e civile, che il pubblico funzionario finisce con l’assumere solo se e nel momento in cui, all’atto pratico, la decisione si presenta pressochè interamente praticamente vincolata.
Sotto il profilo della fenomenologia normativa, dovrebbe essere evidente che il problema si risolve rendendo più chiaro e semplice il quadro normativo, e che tale risultato si ottiene non già esasperando il ricorso all’interpretazione autentica o al continuo aggiustamento in progress della norma per chiarire l’effettiva voluntas legis, ma recuperando quanto più possibile il carattere generale e astratto della formulazione normativa[21] e allontanandola simmetricamente dal concreto contenuto provvedimentale.
Sotto il profilo della funzione amministrativa, andrebbero recuperati margini più chiari e più netti di discrezionalità del decisore pubblico,
E il giudice amministrativo dovrebbe inserirsi in questo circolo virtuoso volto a ristabilire un minimo di certezza del diritto esercitando la funzione nomofilattica con esclusivo riferimento ai principi e alle regole tipiche del diritto amministrativo e non già cercando di moltiplicare i centri di nomofilachia per quel che concerne la tutela delle situazioni di diritto soggettivo.
E’ evidente che si è giunti al punto di dover trarre le conclusioni.
4.- La trappola della tutela risarcitoria.
4.1.- Spinto dall’avvenuto spostamento dei diritti soggettivi nell’ambito della giurisdizione esclusiva e dall’attribuzione del potere di condanna al risarcimento del danno e suggestionato dalle teorizzazioni in termini di giudizio di spettanza, all’inizio del nuovo millennio il giudice amministrativo sembrerebbe essersi incamminato sulla via della ibridazione delle figure soggettive, incontrando la resistenza della Corte di Cassazione e prestando il fianco ad ulteriori interventi riformatori pronti a considerare la tutela risarcitoria un modo come un altro per tutelare l’interesse legittimo.
La tutela risarcitoria è la trappola perfetta per il giudice amministrativo e la strada dell’ibridazione è la pericolosa scorciatoia che vi conduce: espone il giudice amministrativo al perenne e carsico contrasto con le Sezioni Unite nel momento in cui l’ibridazione tende a costruire una tutela risarcitoria che è un surrogato di quella fruibile nel sistema della tutela civile dei diritti, sistema che è fondato sul principio della responsabilità patrimoniale del debitore proprio per garantire la tutela per equivalente monetario come misura generale; lo allontana da quella che è la sua mission istituzionale (e costituzionale), assicurare cioè giustizia nell’amministrazione, che rappresenta la sua stessa ragion d’essere.
L’ibridazione degrada i diritti soggettivi e patrimonializza l’interesse legittimo. Ma la patrimonializzazione dell’interesse legittimo ha senso, là dove sia possibile, se vale a concentrare la tutela risarcitoria innanzi a un unico giudice, non se diventa un pretesto per fornire un surrogato e, soprattutto, per abbandonare la forma di tutela specifica dell’annullamento, l’erogazione della quale ha rappresentato la ragione primaria per cui si è stata introdotta nel nostro ordinamento una giurisdizione generale di legittimità e se ne è individuato il suo giudice naturale in quello amministrativo. Esaltare la ricostruzione dell’interesse legittimo come situazione finale significa offrirlo su un piatto d’argento sul tavolo della tutela puramente risarcitoria (che, come si è appena ricordato, è la misura generalmente erogata nel sistema della tutela civile dei diritti) e appiattire la tutela del giudice amministrativo sul momento puramente risarcitorio, come ricorrentemente si auspica, significherebbe negarne la ragion stessa della sua esistenza. Tutto ciò ci riporterebbe indietro di oltre un secolo, al tempo dell’abolizione dei tribunali del contenzioso amministrativo, quando nel Regno d’Italia l’unica tutela fruibile era quella del risarcimento del danno per equivalente monetario ed era assicurata dallo stesso giudice competente a conoscere delle liti tra soggetti privati, il giudice ordinario. Rinunciare alla garanzia giurisdizionale che le questioni siano trattate dai pubblici poteri in modo imparziale ed equo proprio nel momento in cui una tale garanzia trova fondamento non più solo nell’art 97 della nostra Costituzione, ma anche quale diritto fondamentale dell’individuo nelle norme recate dall’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali UE o dall’art. 6 CEDU, non sarebbe una geniale riforma, ma un passo indietro nel livello di civiltà giuridica dell’ordinamento repubblicano.
4.2.- L’ibridazione sembrerebbe in armonia con la diffusa e sempre crescente tendenza a ritenere in via di dissoluzione, se non ormai già superata, la distinzione tra diritto civile e diritto amministrativo, tra diritto privato e diritto pubblico o, più in generale, la possibilità di continuare ad impiegare categorie giuridiche tradizionali nell’ordinamento contemporaneo. Che gli istituti e le categorie giuridiche tradizionali siano in una crisi anche profonda è un dato di fatto, e ne sono note le ragioni: crisi della politica; inadeguatezza del principio di legalità e complicazione e moltiplicazione del sistema delle fonti; crisi della sovranità in un sistema di produzione normativa e di tutele multilivello globalizzato e via dicendo.
In questo contesto, per il diritto amministrativo e il suo giudice, diventa fondamentale conservare la consapevolezza che l’uno e l’altro hanno ancora pienamente ragione di conservare la loro specialità perché forme e modi della cura e della protezione degli interessi pubblici ubbidiscono a principi fondamentali differenti rispetto a quelli propri della cura e della protezione degli interessi privati, tanto sul piano sostanziale, quanto su quello giustiziale, non mutuabili dal sistema di diritto privato[22]. Rilevanza dell’elemento volontaristico e atipicità degli effetti giuridici contraddistinguono il diritto privato; procedimentalizzazione dell’attività, unilateralità e tipicità degli effetti giuridici, il diritto amministrativo (e pubblico). Le ragioni della specialità del diritto amministrativo non si risolvono nel mero tecnicismo della disciplina, ma si riassumono nella specificità dei principi informatori. Quella stessa globalizzazione cui è in gran parte imputabile la crisi del sistema attuale, tende ad imporre che i Saperi si omogenizzino quanto più possibile per agevolare la comunicazione e favorire il confronto e riconosce la specialità della disciplina solo se questa abbia una chiara e giustificata ragion d’essere.
L’ordinamento, gli ordinamenti giuridici, sono in trasformazione, e questo rende senz’altro spesso inadeguati gli istituti tradizionali. Ma, quali che siano le forme che il nuovo ordinamento assumerà al termine della crisi, una volta stabilito il nuovo ordine, ci sarà sempre qualcuno che dovrà provvedere alla cura degli interessi propri della collettività unitariamente considerata per assicurarne la conservazione o lo sviluppo. E si riproporrà a questo punto l’alternativa tra modelli diversi. Il modello del Principe di Machiavelli, secondo il quale chi governa il popolo non deve preoccuparsi dei modi o mezzi attraverso i quali raggiunge il fine di assicurare la cura dell’interesse della collettività governata; anzi: più inganna il popolo, come la volpe, e più è autoritario, come un leone, e più risponde al modello ideale di buon governatore; non contano le regole dell’azione, perché agire con la forza e non secondo la legge è spesso dovere del buon Principe; il fine giustifica i mezzi[23] . Ovvero il modello del Romagnosi o del Cardinal De Luca, per il quale regola fondamentale “è far prevalere la cosa pubblica alla privata entro i limiti della vera necessità” (“Lo che è sinonimo di far prevalere la cosa pubblica alla privata col minimo possibile sacrificio della proprietà privata e libertà. Qui la prevalenza della cosa pubblica alla privata non colpisce il fine o l’effetto ma il semplice mezzo”)[24] ed è essenziale che non diventi “Vanum disputare de potestate” [25]. L’alternativa rende evidente che un ordinamento può anche fare a meno del diritto amministrativo, dei suoi principi e del suo giudice, ma bisogna aver ben presente che su questo piano si gioca il livello di civiltà dell’ordinamento medesimo.
[1] *L’articolo è stato già ospitato insieme ad altri numerosi contributi nel fascicolo monotematico 1/2021dedicato a “La giurisdizione plurale: giudici e potere amministrativo” della rivista Questione Giustizia.
[2] E. Scoditti, G. Montedoro, Il giudice amministrativo come risorsa, in QuestioneGiustizia, 11.12.2020.
[3] L’ordinanza è stata già oggetto di numerosi commenti dottrinari. Per tutti v. M.A. Sandulli, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 19598 del 2020, in www.giustiziainsieme.it , 30 11 2020 e ivi ulteriori riferimenti.
[4] E. Cannada Bartoli, La tutela giudiziaria del cittadino nei confronti della pubblica amministrazione, 2 ed., Milano, 1968.
[5] Il problema dell’autonomia dell’azione risarcitoria è centrale nella sentenza 500/1999, che ritiene insussistente “la necessaria pregiudizialità del giudizio di annullamento ... in passato costantemente affermata per l'evidente ragione che solo in tal modo si perveniva all'emersione del diritto soggettivo, e quindi l'accesso alla tutela risarcitoria ex art. 2043 cc riservata ai soli diritti soggettivi”; giungendo alla conclusione che “qualora (in relazione ad un giudizio in corso) l'illegittimità dell'azione amministrativa non sia stata previamente accertata e dichiarata dal giudice amministrativo, il giudice ordinario ben potrà quindi svolgere tale accertamento al fine di ritenere o meno sussistente l'illecito, poiché l'illegittimità dell'azione amministrativa costituisce uno degli elementi costitutivi della fattispecie di cui all'art. 2043 cc”. Per più ampi riferimenti mi sia consentito rinviare a F. Francario, Degradazione e pregiudizialità quali limiti all’autonomia dell’azione risarcitoria, in Dir. Amm., 3/2007 ripubblicato in Garanzie degli interessi protetti e della legalità dell’azione amministrativa, Napoli, Editoriale scientifica, 2019.
[6] In tal modo la domanda di risarcimento del danno, in origine questione sempre “riservata” all’autorità giudiziaria ordinaria anche nei casi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, dopo aver rappresentato una questione che poteva essere conosciuta anche dal giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva, è divenuta questione che può essere sempre conosciuta dal giudice amministrativo, anche quando è investito della sola giurisdizione di legittimità. L’evoluzione è meglio riassunta, nei termini essenziali di cui nel testo, in F. Francario, La sentenza: tipologia e ottemperanza nel processo amministrativo, in Dir. proc. amm., 4/2016.
[7] La previsione della possibilità del giudice amministrativo di condannare al risarcimento del danno anche nelle ipotesi di sola giurisdizione generale di legittimità, e quindi a tutela di interessi legittimi, è uscita immune dal giudizio di costituzionalità operato dalla pronuncia Corte Cost. 6 luglio 2004 n. 204 e la secolare riserva al giudice ordinario delle «questioni patrimoniali conseguenziali alla pronunzia di legittimità dell’atto o provvedimento contro cui si ricorre», di cui all’art 30 del TU delle leggi sul Consiglio di Stato (RD 26 giugno 1924 n. 1054), è stata così definitivamente eliminata: prima dalla sola giurisdizione esclusiva (d.lgs. 80/1998), poi dalla giurisdizione amministrativa tout court (l. 205/2000).
Con specifico riferimento al profilo del termine di proposizione dell’azione nel termine di 120 giorni per il risarcimento degli interessi legittimi, Corte cost. 22 02 2017 n. 94 afferma che “Il legislatore ha, dunque, delineato una disciplina che riconosce al danneggiato la facoltà di scegliere le modalità della tutela risarcitoria nei confronti dell’esercizio illegittimo della funzione pubblica, adottando un modello processuale che determina un significativo potenziamento della tutela, anche attraverso il riconoscimento di un’azione risarcitoria autonoma, con il conseguente abbandono del vincolo derivante dalla pregiudizialità amministrativa”. Quella della pregiudizialità dell’annullamento è tuttavia una questione mai del tutto sopita, che continua ancor oggi a riproporsi praticamente nei medesimi termini in cui veniva posta anteriormente all’entrata in vigore del codice del processo amministrativo negando la proponibilità dell’azione in assenza della previa impugnazione dell’atto amministrativo a prescindere dalla concreta incidenza sula determinazione del risarcimento (v. ad es. nota redazionale a Cons Stato Sez. Terza, 13 05 2020 n.3040, Il ritorno della pregiudiziale dell’annullamento per la tutela risarcitoria, in www.giustiziainsieme.it , 22 maggio 2020).
[8] La sentenza afferma chiaramente che i criteri ai quali deve ispirarsi la legge ordinaria quando voglia riservare una “particolare materia” alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo non consentono “che la mera partecipazione della pubblica amministrazione al giudizio sia sufficiente perché si radichi la giurisdizione del giudice amministrativo (il quale davvero assumerebbe le sembianze di giudice “della” pubblica amministrazione: con violazione degli artt. 25 e 102, secondo comma, Cost.)” e che il criterio dei blocchi di materie non è pertanto un criterio che possa ritenersi sufficiente ai fini del riparto di giurisdizione; non lo è se e in quanto prescinde dalla natura delle situazioni soggettive coinvolte e se ignora le condizioni minime richieste per la sussistenza della giurisdizione generale di legittimità
[9] Oltre ad essere un dato di comune esperienza per gli operatori del diritto, il profilo critico è generalmente sottolineato anche negli studi della dottrina sul tema. Alla lucida sintesi operata da M.A. Sandulli, Riflessioni sull’istruttoria tra procedimento e processo, in Dir e Soc., 2/2020, 203 ss, per ulteriori riferimenti v. anche, tra gli altri, G. D’Angelo, La cognizione del fatto nel processo amministrativo fra Costituzione, codice e ideologia del giudice, in Jus – online. Rivista di scienze giuridiche, 3/2020, 11 ss; P. Lombardi, Riflessioni in tema di istruttoria nel processo amministrativo: poteri del giudice e giurisdizione soggettiva temperata, in Dir.proc. amm., 1/2016, 125 ss; S. Lucattini, Fatti e processo amministrativo, in Dir. Proc. Amm., 2015, 203 ss; L- Perfetti, L’istruttoria nel processo e il principio di dispositivo, , in Dir e proc amm., 2014, 46 ss; B. Marchetti, Il giudice amministrativo tra tutela soggettiva e oggettiva: riflessioni di diritto comparato, in Dir proc amm., 2014, 105 ss; M. Ramajoli, Giusto processo e giudizio amministrativo, in Dir. Proc. Amm., 2013, 145; F. Saitta, Onere della prova e poteri istruttori del giudice amministrativo dopo la codificazione, in Dir e proc amm., 2013, 126 ss)
[10] Il tema è stato ampiamente trattato nell’edizione del 2018 delle “Giornate di studio sulla giustizia amministrativa” i cui atti sono raccolti nel volume F. Francario, M.A. Sandulli (a cura di), Profili soggettivi e oggettivi della giurisdizione amministrativa. In ricordo di Leopoldo Mazzarolli, Napoli, Editoriale Scientifica, 2018.
[11] Cfr. M.A. Sandulli, Guida alla lettura dell’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 19598 del 2020, in www.giustiziainsieme.it , 30 11 2020.
[12] Sulla quale v. G.A. Primerano, L’actio judicati nel nuovo processo amministrativo, in www.giustiziainsieme.i t, 12 01 2021.
[13] M. Trimarchi, Natura e regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione al vaglio dell’Adunanza Plenaria, in www.GiustiziaInsieme.it ,17 febbraio 2021.
[14] R.Villata, Pluralità delle azioni ed effettività della tutela, Relazione al Convegno tenuto a Palazzo Spada il 20 novembre 2019 e dedicato ai 130 anni della IV Sezione del Consiglio di Stato, in www.giustizia-amministrativa.it.. Con riferimento all’impiego della formula del giudizio di spettanza, Villata ricorda efficacemente come “l’autore – Falcon – di questa apprezzata formula divenuta di largo utilizzo ha avuto modo di precisare, rivendicando il valore dell’interesse legittimo quale fondamento di una raffinata tecnica di sindacato di legittimità del provvedimento, che “ciò che spetta non è in realtà che un nuovo, corretto esercizio della discrezionalità amministrativa” ovvero che la “spettanza è il risultato dell’esercizio del giudizio sul potere”.
[15] Significativa è la rilettura dell’interesse legittimo come figura di teoria generale recentemente operata da F.G.Scoca, L’interesse legittimo. Teoria e storia, Torino, 2019, il quale esclude che sia oggettivamente protetto l’interesse pubblico e che l’interesse privato sia solo occasione per la protezione dell’interesse pubblico, così come che si risolva nel bene della vita cui si aspira, e cioè nella pretesa al bene in quanto tale; per giungere alla conclusione che l’interesse legittimo si sostanzierebbe nell’interesse del privato al provvedimento favorevole. Pur senza risolversi nella legittimità dell’atto, la situazione è e rimane correlata all’esercizio del potere.
[16] Si rinvia a F. Francario, Quel pasticciaccio brutto di piazza Cavour, piazza del Quirinale e piazza Capodiferro (la questione di giurisdizione), in www.giustiziainsieme.it , 11 11 2020; Id., Quel pasticciaccio della questione di giurisdizione. Parte seconda: conclusioni di un convegno di studi, in www.federalismi.it , 16 12 2020.
[17] G. della Cananea, M. Dugato, A Police, M. Renna, Semplificare la disciplina degli appalti pubblici si può. Meglio agire subito, IL FOGLIO, 2 aprile 2020; V. Visco, Il culto del diritto amministrativo frena la ricostruzione della PA, Il Sole24Ore, 6 febbraio 2021.
[18] Il dibattito è significativamente riassunto nel convegno dedicato dall’Associazione Italiana Professori Diritto Amministrativo – A.I.P.D.A al tema “Poteri del giudice amministrativo ed efficienza della pubblica amministrazione in materia di appalti” e tenuto in forma di webinar il 29 aprile 2020, visibile sul sito dell’Associazione e in www.giustiziainsieme.it (21 maggio 2020).
[19] F. Francario, Giurisdizione amministrativa e risarcimento del danno, in Scritti per Franco Gaetano Scoca, vol. III, Editoriale Scientifica, Napoli, 2020, 2231 ss.
[20] Cfr. F. Francario, Diritto dell’emergenza e giustizia nell’amministrazione. No a false semplificazioni e a false riforme, in www.federalismi.it , 15 04 2020.
[21] V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, II. Le fonti normative, Padova, 1970, 24 ss.
[22] Le considerazioni di cui nel testo sono state già svolte con riferimento anche al ruolo della dottrina in F. Francario, Considerazioni sul dibattito tra giovani studiosi sui concetti tradizionali del diritto amministrativo e sulla loro evoluzione, in www.federalismi.it 11/2018, ripubblicato in Garanzie degli interessi protetti e della legalità dell’azione amministrativa. Saggi sulla giustizia amministrativa, Napoli, 2019, 561. In sintonia sul tema v. di recente anche M. Mazzamuto, L’amministrazione agisce contro il privato di fronte al giudice amministrativo, in www.giustiziainsieme.it , 1 3 2021.
[23] N. Machiavelli, Il principe di Niccholo Machiavello al magnifico Lorenzo di Piero de Medici. La vita di Castruccio Castracani da Lucca a Zanobi Buondelmonti et a Luigi Alemanni descritta per il medesimo. Il modo che tenne il duca Valentino per ammazar Vitellozo, Oliverotto da Fermo il s. Paolo et il duca di Gravina Orsini in Senigaglia, descritta per il medesimo, stampata in Roma per Antonio Blado d'Asola a dì iiij de gennaio del M.D.XXXII (edizione originale postuma).
[24] G.D. Romagnosi, Principi fondamentali di diritto amministrativo onde tesserne le istituzioni, Parma, 1814 , p. 14
[25] Cardinal De Luca, Summa sive compendium Theatri veritatis et iustitiae, Roma, 1679. La citazione è ripresa da E. Cannada Bartoli, Vanum disputare de potestate, in Dir. Proc. Amm., 2/1989.
Crisi ambientale e ruolo della giurisdizione. Un primo quadro d’insieme in occasione del “Global Health Summit” e della “Laudato si’ week”.
di Pasquale Fimiani
Si tiene oggi il Global Health Summit (Vertice Mondiale sulla Salute) che ricade in una settimana significativa per la questione ambientale, sia per l’organizzazione della “Laudato si’ week” (dal 16 al 25 maggio), sia perché il 19 maggio la commissione affari costituzionali del Senato ha approvato l’inserimento dell’ambiente nell’art. 9 della Costituzione ed è entrata in vigore l’azione di classe, azionabile per i “diritti individuali omogenei” inclusi quindi anche quelli di matrice ambientale. Tali coincidenze e la concomitanza nella stessa settimana di due eventi di rilevanza mondiale su sicurezza sanitaria e tutela dell’ambiente danno il segno della rilevanza, anche globale, di questi temi e della consapevolezza che, per affrontarli, è necessario un impegno comune, al quale non è estranea la giurisdizione, considerata il ruolo fondamentale avuto nel progressivo definirsi della materia ambientale come sistema autonomo.
Sommario: 1. Giurisdizione ed ecologia integrale - 2. Capitale naturale in cerca di statuto - 3. L’economia circolare in attesa dell’avvio della responsabilità estesa del produttore - 4. Diritti fondamentali ed ambiente: verso un antropocentrismo ecologico?
1. Giurisdizione ed ecologia integrale
Si tiene oggi - in modalità virtuale - il Global Health Summit (Vertice Mondiale sulla Salute), evento co-organizzato dall'Italia, durante l'anno della Presidenza di turno del G20, e dalla Commissione europea.
Come si evince dalla presentazione dell’incontro sul sito del Governo, il suo scopo è quello di condividere le esperienze maturate nel corso della pandemia ed elaborare e approvare una "dichiarazione di Roma”. I contenuti della dichiarazione potranno costituire un punto di riferimento per rafforzare i sistemi sanitari e potenziare la cooperazione multilaterale e le azioni congiunte per prevenire future crisi sanitarie mondiali in uno spirito di solidarietà (per un commento all’iniziativa si rinvia a Laurent ed altri, How to achieve a health renaissance, in socialeurope, 19 maggio 2021).
Il Summit ricade nella Settimana Laudato Si’ 2021 (dal 16 al 25 maggio), che rappresenta “il coronamento dell’Anno Speciale Laudato Si’ e la celebrazione del grande progresso che l’intera Chiesa ha compiuto sulla via della conversione ecologica” (presentazione dell’iniziativa in laudatosiweek.org, cui si rinvia per le varie attività, del pari svolte in modalità virtuale).
Anche a prescindere dalla questione dei rapporti tra inquinamento e pandemie, sulla quale la scienza non ha ancora fornito risposte definitive, sussiste una evidente connessione tra i temi trattati nei due eventi, in quanto il concetto di sicurezza sanitaria è compreso in quello più ampio ambito di benessere ambientale, il quale è inclusivo di tutte le condizioni che concorrono ad assicurare alla persona la salubrità dei luoghi in cui vive nell’equilibrato rapporto con il contesto naturale.
Equilibrio che, nel concetto di “ecologia integrale” alla base della Laudato Si’, riguarda ogni aspetto della vita, anche quelli sociali ed economici, che vanno organizzati in una prospettiva di interazione ed integrazione con le risorse naturali.
Prospettiva, del resto, ormai largamente condivisa, considerata la crescente gravità della crisi ambientale, che chiama ad una sfida globale e complessa istituzioni, pubbliche e private, nazionali e sovranazionali, cittadini, singoli ed associati (sulla necessità di un approccio globale si rinvia alle recenti acute considerazioni di Ferrajoli, Perché una costituzione della terra? Giappichelli, 2021 e di Cannizzaro, La sovranità oltre lo Stato, Il Mulino, 2021).
Proprio la necessità di realizzare un sistema in cui lo sviluppo sia effettivamente sostenibile pone la questione sul se e come la giurisdizione possa contribuirne a definirne regole e principi.Una domanda, questa, che si giustifica per il fondamentale contributo fornito nel tempo al progressivo definirsi della materia ambientale come sistema autonomo (su tale evoluzione sia consentito rinviare al Nostro, “L’ambiente tra diritto, economia e giurisdizione”, in Borsari, a cura di, Itinerari di diritto penale dell’economia, Cedam, 2018, ed ivi rif.).
Ruolo propulsivo svolto attraverso una funzione multiforme:
- ricognitiva della valenza anche ambientale di diritti (si pensi alla nota sentenza delle Sezioni Unite civili n. 5172/1979, che riconobbe il diritto alla salute previsto dall’art. 32 della Costituzione come inclusivo del diritto alla salubrità dell'ambiente in cui la persona abita o lavora);
- compensativa del deficit di tutele specifiche ed anticipatoria di interventi legislativi (si pensi al ricorso al reato di disastro innominato di cui all’art. 434 c.p. – sia per accadimenti disastrosi a carattere violento e dirompente, cioè a “macroeventi” di immediata manifestazione esteriore che si verificano in un arco di tempo ristretto, sia per eventi, non visivamente ed immediatamente percepibili, che si realizzano in un periodo molto prolungato, sempre che, comunque, produttivi una compromissione delle caratteristiche di sicurezza, di tutela della salute e di altri valori della persona e della collettività tale da determinare una lesione della pubblica incolumità – prodromico all’introduzione con la legge n. 68/2015 del delitto di disastro ambientale previsto dall’art. 452-quater c.p., ritenuto da Cass. pen., n. 13843/2020, in continuità normativa con la precedente fattispecie utilizzata in via di supplenza);
- regolatoria dei rapporti tra diritti fondamentali in tensione tra loro, quali quello della salute e dell’iniziativa economica (diritti ritenuti bilanciabili dalla nota sentenza della Corte costituzionale n. 85/2015 nella vicenda Ilva, ed in concreto bilanciati dalla giurisprudenza, specie amministrativa, combinando tra loro i principi di proporzione e precauzione; cfr. ex plurimis, Cons. Stato, n. 4545/2020).
Esula dalla verifica dell’ulteriore espansione di tale ruolo nella costruzione delle regole dell’ecologia integrale l’analisi dei profili meramente sanzionatori, in quanto riguardanti la fase patologica del sistema e non quella regolatoria e gestionale.
Così precisato il campo di questa sia pur breve riflessione (riservando a chi scrive e ad altri interessati successivi approfondimenti dei singoli temi che saranno di seguito brevemente illustrati), sembra utile incentrare questo primo sguardo d’insieme sui tre poli del sistema: i beni oggetto di tutela; l’impresa, quale fattore di danno o di pericolo per gli stessi; la persona quale fruitore dei primi e consumatore dei beni o servizi prodotti dalla seconda.
2. Capitale naturale in cerca di statuto
Per quanto riguarda il primo versante, è ampio il dibattito sul valore del c.d. “capitale naturale”, che identifica i beni naturali della terra (il suolo, l’aria, l’acqua, la flora e la fauna) non soltanto come oggetto di tutela, ma anche in una diversa prospettiva, in quanto ne individua i c.d. servizi ecosistemici, quale valore essenziale per la vita umana, da preservare e garantire sotto il profilo qualitativo e quantitativo e suscettibili di monetizzazione.
Una prospettiva, questa, che passa per una rinnovata riflessione sul tema dei “beni comuni”, diffusamente affrontato verso la fine del passato decennio (per le questioni relative alle tematiche ambientali si rinvia a Nespor, Tragedie e commedie nel nuovo mondo dei beni comuni, in Riv. giur. amb., 2013, VI, 665) in cui, all’interno delle varie proposte sistematiche, le risorse naturali erano costantemente prese a riferimento quale contesto emblematico della necessità di superamento del tradizionale sistema normativo di catalogazione dei beni, impostato sul concetto di proprietà e sulla conseguente dicotomia pubblico-privato, per valorizzare, invece della appartenenza, la funzione collettiva e “metaindividuale” cui il bene assolve, a prescindere dal regime proprietario.
La stretta connessione tra il valore del c.d. “capitale naturale” ed il tema dei “beni comuni” fu colta dalle Sezioni Unite civili della Cassazione (n. 3665/2011), quando fu affermata la proprietà pubblica delle valli da pesca della laguna di Venezia, in quanto beni che per loro intrinseca natura o finalizzazione, risultavano, sulla base di una compiuta interpretazione dell'intero sistema normativo, funzionali al perseguimento e al soddisfacimento degli interessi della collettività e che - per tale loro destinazione alla realizzazione dello Stato sociale - dovevano ritenersi "comuni", prescindendo dal titolo di proprietà, risultando così recessivo l'aspetto demaniale a fronte di quello della funzionalità del bene rispetto ad interessi della collettività.
La bocciatura di tale soluzione da parte della Corte Edu nel 2014 per violazione dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 alla Cedu, in quanto la società ricorrente era stata privata senza alcun indennizzo della valle da pesca che utilizzava e nel contempo riconosciuta debitrice nei confronti dello Stato di una indennità di occupazione senza titolo, se conferma le difficoltà di soluzioni giurisprudenziali nell’attuale regime normativo dei beni (tanto che il diritto all’indennizzo è stato successivamente riconosciuto da Cass. n. 10337/2016 ed altre di ugual tenore), non esclude ed anzi è compatibile con la soluzione di valorizzare e monetizzare i “servizi ecosistemici” offerti dal capitale naturale, a prescindere dal regime proprietario.
Il dibattito – giurisprudenziale e dottrinario – sul tema si è però sostanzialmente arrestato e l’unico passaggio di rilievo nella definizione del concetto di capitale naturale sembra potersi rinvenire nell’affermazione del principio secondo cui è meritevole di tutela anche il bene naturalistico creato dall’opera dell’uomo e non originario, come affermato riguardo alla nozione di bosco, per quanto concerne la tutela paesaggistica, accordata a prescindere dall'origine naturale o artificiale delle superfici alberate, con il solo limite di applicabilità per gli impianti arborei destinati in via esclusiva alla produzione del legno (Cass. pen., n. 30303/2014), nonché, in materia di reati venatori, riguardo alla fauna selvatica, qualità che non viene persa per il solo fatto che l'esemplare sia nato e cresciuto in allevamento, qualora venga accertato che la specie animale, seppur temporaneamente, viva nella zona allo stato selvatico (Cass. pen., n. 23085/2013).
3. L’economia circolare in attesa dell’avvio della responsabilità estesa del produttore
Sul versante dell’attività d’impresa, gli ultimi anni sono stati caratterizzati dall’affermazione del concetto di “economia circolare” che indica un modello economico sostitutivo di quello ereditato dalla rivoluzione industriale, improntato sul “prendi, produci, usa e getta”, caratterizzato per essere un sistema in cui i prodotti mantengono il loro valore aggiunto il più a lungo possibile, mentre i rifiuti vengono ridotti al minimo e, comunque, riutilizzati e recuperati. Lo stesso principio ispira il forte incentivo alle energie rinnovabili (entrambi i temi sono alla base della istituzione del Ministero della transizione ecologica, con. d.l. n. 22/2021, conv. con modificazioni con legge n. 55/202 e della centralità dei temi green nel Piano Nazionale Ripresa e Resilienza - PNRR).
La realizzazione di tale risultati richiede “cambiamenti nell’insieme delle catene di valore, dalla progettazione dei prodotti ai modelli di mercato e di impresa, dai metodi di trasformazione dei rifiuti in risorse alle modalità di consumo” (comunicazione della Commissione “COM/2014/0398”, al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni, “Verso un’economia circolare: programma per un’Europa a zero rifiuti”).
Per tal via emerge, in modo sempre più evidente, la consapevolezza che il “mercato” non è solo la causa della crisi ecologica, in quanto tale da “gestire” o contenere” attraverso l’introduzione di limiti e strumenti di gestione (di command and control ovvero volontari – sui quali si rinvia a Clarich, La tutela dell’ambiente attraverso il mercato, in Diritto pubblico, 2007, I, 219; Salanitro, Tutela dell’ambiente e strumenti di diritto privato, in Rass. dir. civ., 2009, II, 471 e, per spunti di diritto comparato, a Pozzo, Green economy e leve normative, Giuffrè, 2013), ma può essere un fattore di rimedio per tale crisi nella misura in cui la tutela ambientale da limite per il profitto divenga anche una occasione per conseguirlo.
Mentre il profilo amministrativo tecnico-gestionale è stato esaminato in modo diffuso ed approfondito dalla giurisprudenza, specie penale, non altrettanto può dirsi per quanto riguarda le posizioni soggettive ed i rapporti giuridici alla base del sistema, nonostante molteplici siano al riguardo le ricadute dell’affermazione dell’economia circolare. Si pensi:
a) alla valorizzazione del ruolo del produttore dei beni e della sua responsabilità “estesa” (artt. 178-bis e 178-ter T.U.A.) riguardante sia la fase di produzione ed immissione in commercio, sia quella accettazione dei prodotti restituiti e dei rifiuti che restano dopo l'utilizzo di tali prodotti e la successiva gestione dei rifiuti in relazione alla quale vanno instituiti sistemi di raccolta con oneri a loro carico (in tema cfr. in tema cfr. Amendola, La responsabilità estesa del produttore quale asse portante dell’economia circolare nella normativa comunitaria e nel d.lgs. n. 116/2020, in lexambiente, 12 febbraio 2021);
b) all’evoluzione del ruolo del consumatore, da acquirente di beni a fruitore di servizi, in una prospettiva, già avviatasi, di evidente integrazione tra la circular economy e la sharing economy”;
c) alla crescente importanza degli strumenti volontari, rispetto a quelli di “command and control”, con il passaggio da mero strumento alternativo di tutela dell’ambiente, nel contesto della economia tradizionale c.d. “lineare”, ad uno dei fondamenti essenziali dell’economia circolare;
d) alla conseguente generale impostazione della produzione dei beni e dei servizi e dei relativi rapporti secondo procedimenti e schemi di qualità certificata.
Il primo punto (responsabilità estesa del produttore) è centrale nell’attuazione del sistema dell’economia circolare, avviata a seguito del recepimento del pacchetto di direttive in materia con i decreti legislativi n.n. 116, 18, 119 e 121 del 2021 (in tema si rinvia a Muratori, Quattro decreti legislativi per l’attuazione delle direttive del “pacchetto Economia Circolare”, in Ambiente & Sviluppo, 2020, X, 743).
Mentre per quanto riguarda la responsabilità relativa alla fase di produzione e di commercializzazione la relativa disciplina non è ancora pienamente applicabile, l’obbligo di istituire sistemi di raccolta già esisteva prima della recente modifica (sia pure in relazione ad alcune categorie di rifiuti, mentre, a regime, l’obbligo riguarderà tutte le filiere).
È interessante analizzare le conclusioni alle quali la giurisprudenza è pervenuta in tema di giurisdizione sulla domanda di accertamento negativo dell'obbligo di partecipare ai consorzi obbligatori per la raccolta dei rifiuti.
Essi, infatti, sono imprese private e, pertanto, naturalmente orientate al profitto, ma si organizzano per assolvere una funzione di interesse pubblico, sulla base di uno schema in cui la legge indica i metodi e gli obiettivi, per rispettare i quali le imprese si attrezzano volontariamente, con organizzazioni di diritto privato.
La giurisprudenza ha confermato la natura ibrida di tali soggetti.
Pur affermando che la domanda di accertamento negativo dell'obbligo di partecipare al consorzio appartiene alla giurisdizione ordinaria – in quanto l'obbligo di aderirvi deriva direttamente dalla legge, la quale disciplina in modo completo i presupposti dell'appartenenza al consorzio ed i relativi obblighi (in particolare, quello di pagamento dei contributi), senza riservare all'autorità amministrativa alcun potere discrezionale nella scelta dei soggetti obbligati, sicché la controversia non ha ad oggetto direttamente il sindacato sulla legittimità di un provvedimento amministrativo – si è però riconosciuto che tali consorzi svolgono un'attività connotata dai caratteri tipici di un pubblico servizio, sia per il loro inserimento nell'organizzazione amministrativa, sia per l'esercizio di una serie di funzioni d'innegabile valenza autoritativa, o comunque di natura non meramente materiale o tecnica, nel quadro della difesa dell'ambiente (Cass. civ., sez. un. n. 3275/2006 e n. 16032/2010).
È stata quindi avallata una tecnica regolatrice che, attraverso la creazione di uno strumento economico, tutela indirettamente l’ambiente.
Da un lato, infatti, la qualifica come strumento di tutela giustifica l’imposizione normativa dell’obbligo di risultato e di adozione del metodo; l’istituzione dei sistemi collettivi, infatti, proprio in ragione di tale funzione strumentale, non costituisce il frutto di una decisione autonoma e volontaria, ma dipende dalla scelta del legislatore.
Dall’altro lato, però, la natura indiretta della tutela ambientale, propria degli strumenti dell’economia circolare e l’assenza, in quest’ultima, di una netta contrapposizione di interessi tra ambiente e impresa, giustificano la peculiarità di tale obbligazione, vincolata solo nell’an, ma non nel quomodo e disegnata, quindi, come una tipica obbligazione di scopo, rispetto alla quale, cioè, conta il risultato richiesto, mentre è indifferente la modalità con cui viene raggiunto.
Tali principi andranno verificati all’esito della piena attuazione del recepimento del pacchetto di direttive sull’economia circolare da parte del legislatore italiano che consentirà, sulla base delle soluzioni adottate circa i sistemi di accettazione dei prodotti restituiti e di raccolta e gestione dei rifiuti che restano dopo l'utilizzo di tali prodotti, la definizione della natura dei soggetti coinvolti e dei relativi rapporti giuridici.
4. Diritti fondamentali ed ambiente: verso un antropocentrismo ecologico?
Certamente più fermento si registra sul versante della prospettiva “ecologica” della tutela dei diritti fondamentali.
Lo scenario di fondo è quello della evidente sperequazione nel consumo delle risorse e nell’impatto delle attività umane sull’ambiente che caratterizza sia il rapporto tra paesi più o meno industrializzati, sia quello intergenerazionale.
Sperequazione che può sinteticamente ricondursi al concetto di “debito ambientale”, inclusivo – nella descritta duplice prospettiva – sia del consumo di risorse naturali in eccesso rispetto a quelle che si producono, sia della loro compromissione “qualitativa” in conseguenza delle attività di matrice antropica, fenomeni evidenziati con l’individuazione del c.d. “earth overshoot day” (si rinvia al documentato sito overshootday.org) che segna annualmente la data in cui l'umanità ha esaurito il suo “budget” ecologico, ovvero della c.d. “impronta ecologica” che rappresenta l’unità di misura della domanda di risorse naturali, cioè quanta superficie in termini di terra e acqua la popolazione umana necessita per produrre, con la tecnologia disponibile, le risorse che consuma e per assorbire i rifiuti prodotti.
In questo contesto, la stipula di accordi tra gli Stati recanti disposizioni “compensative” o di “riequilibrio” ambientale tra paesi ricchi e paesi poveri (ad esempio l’Accordo di Parigi sul clima del 2015, noto come Cop 21, prevede il versamento di 100 miliardi di dollari l'anno per i Paesi in via di sviluppo) o mere affermazioni di principio (si pensi alle molteplici dichiarazioni nelle Risoluzioni ONU, od all’enfasi dell’art. 3-quater del T.U.A., secondo cui “ogni attività umana giuridicamente rilevante ai sensi del presente codice deve conformarsi al principio dello sviluppo sostenibile, al fine di garantire che il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni attuali non possa compromettere la qualità della vita e le possibilità delle generazioni future”, replicata dall’art. 144 in tema di tutela e uso delle risorse idriche) sono all’evidenza non appaganti rispetto alla dimensione del problema ed all’urgenza della sua soluzione.
Al deficit di equità nella fruizione dei c.d. servizi ecosistemici sono state date risposte differenziate dalla giurisprudenza.
Quanto alla Corte Edu, va subito precisato che nella Carta non è espressamente riconosciuto un diritto all’ambiente.
Tale mancanza, come rilevato nella opinione dissidente dei giudici Costa, Ress, Turmen, Zupancic e Sterner nella sentenza della Grande Camera dell’8 luglio 2003 nel caso Hatton ed altri contro Regno Unito, si spiega con il fatto che l’approvazione della Convenzione risale agli anni 50, quando non era ancora emersa nella coscienza collettiva la consapevolezza della necessità di proteggere i diritti ambientali dell’uomo. Una consapevolezza maturata nel tempo e che ha trovato poi riscontro nell’art. 37 della Carta europea dei diritti fondamentali (CDFUE), secondo cui “un livello elevato di tutela dell'ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell'Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile”.
Il riconoscimento del valore ambientale è però avvenuto mediante la sua progressiva emersione, da parte della giurisprudenza della Corte Edu, all’interno del sistema dei diritti fondamentali garantiti dalla CEDU, in una duplice prospettiva: quale limite alla espansione del diritto di proprietà, ovvero come elemento caratterizzante i singoli diritti, quali, in particolare, quello al domicilio ed alla vita privata e familiare di cui all’art. 8 e quello alla vita di cui all’art. 2 (per un quadro d’insieme sia consentito rinviare al Nostro, Inquinamento ambientale e diritti umani, in Questione Giustizia, numero speciale su “La Corte di Strasburgo”, aprile 2019).
La valenza ambientale dei diritti umani è stata affermata anche al di fuori della tutela della CEDU.
Sono infatti ormai numerose nel mondo le decisioni di Corti, nazionali ed internazionali, che riconoscono ai singoli il diritto di far valere verso gli Stati la pretesa ad un ambiente salubre ed all’adozione di misure volte a garantirlo (per un quadro generale si rinvia a Scalia, La giustizia climatica, in Federalismi, 7 aprile 2021).
In questo contesto, è significativo che la base giuridica su cui tale pretesa viene fondata è spesso rappresentata dall’Accordo di Parigi sul clima del 2015, quale atto ricognitivo da parte degli Stati, a prescindere dall’intervenuta ratifica, della pericolosità per l’ambiente e la salute di un aumento della temperatura terreste al di sopra dei 2 gradi rispetto all’era preindustriale e, quindi, della necessità di misure concrete di contenimento, la cui mancata attuazione viene ritenuta un vulnus per i consociati.
Rilevante – e prodromo di ulteriori sviluppi – è poi l’evoluzione giurisprudenziale sulla titolarità delle obbligazioni relative al cambiamento climatico.
In primo luogo, va registrato il crescente riferimento alle generazioni future quali meritevoli di tutela e titolari di posizioni giustiziabili (emblematica è la recente decisione del Tribunale costituzionale federale tedesco del 24 marzo 2021, che ha bocciato la legge sulla protezione del clima del 12 dicembre 2019, recante l’indicazione degli obiettivi nazionali di protezione del clima e i volumi annuali di emissione di gas serra ammessi fino al 2030, ritenendola “blanda” ed eccessivamente onerosa per le generazioni future; per un’analisi e riferimenti si rinvia a Bin, La Corte tedesca e il diritto al clima. Una rivoluzione? in lacostituzione.info, 30 aprile 2021, nonché a Bresciani, Giudici senza frontiere: prospettive del modello di tutela extraterritoriale dei diritti climatici, ed a Pignataro, Il dovere di protezione del clima e i diritti delle generazioni future in una storica decisione tedesca, entrambi in eublog.it, 17 maggio 2021).
Un’apertura potenzialmente “rivoluzionaria” per le implicazioni di carattere anche politico che il riconoscimento normativo del principio di equità generazionale potrebbe comportare (sulla difficile attuazione nel nostro ordinamento di tale principio si rinvia a Palombino, La tutela delle generazioni future nel dialogo tra legislatore e Corte costituzionale, in Federalismi, 5 agosto 2020). Un riconoscimento che sembra avvicinarsi, considerato che il 19 maggio la commissione Affari costituzionali del Senato ha approvato l’inserimento nell’art. 9 della Costituzione del seguente periodo “La Repubblica tutela l'ambiente e l'ecosistema, protegge le biodiversità e gli animali, promuove lo sviluppo sostenibile, anche nell'interesse delle future generazioni".
Parimenti rilevante è il riconoscimento della legittimazione ad agire anche di soggetti che non si trovano in stretto collegamento territoriale con il luogo in cui la condotta (commissiva od omissiva) viene posta in essere (collegamento che integra il tradizionale criterio della “vicinitas” quale condizione integrante l’interesse ad agire avverso provvedimenti, o condotte, lesivi di posizioni soggettive; cfr. Cass. civ., sez. un., n. 21740/2019 e Cons. Stato, 3247/2021).
La citata sentenza del Tribunale costituzionale federale tedesco, pur rigettandolo nel merito, ha ammesso il ricorso di dieci persone residenti in Asia, la cui doglianza era che la mancata adozione di misure sufficienti per contrastare il cambiamento climatico da parte della Germania violasse i loro diritti costituzionali alla vita, all’integrità fisica ed alla proprietà. La Corte, ha respinto l’eccezione di inammissibilità sollevata dal Bundestag e dal Governo Federale “affermando, da un lato, che non si può escludere a priori che i diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione implichino in capo allo Stato un’obbligazione positiva di contribuire a proteggere tutte le persone – anche straniere e residenti in paesi esteri – dagli effetti negativi del cambiamento climatico (§101, §§175 ss.) e, dall’altro, che ai fini dell’ammissibilità di un Verfassungsbeschwerde non è necessario che il ricorrente chiarisca in quali termini la sua situazione soggettiva si differenzia da quella della generalità delle persone purché questi lamenti la violazione di un proprio diritto fondamentale“ (sintesi ad opera di Bresciani, Giudici senza frontiere …, cit., cui si rinvia per una più diffusa ricostruzione della sentenza sul punto).
Una decisione per qualche verso affine è quella del Consiglio di Stato italiano (n. 4775/2014) che ha riconosciuto la legittimazione di un Comune e di una ONG austriaci ad impugnare la valutazione d’impatto ambientale e l’approvazione del progetto per la realizzazione di un parco eolico sulla parte montana del Comune di Brennero, confinante con il predetto Comune austriaco.
Si sostiene che tali pronunce mettono in crisi il tradizionale criterio della vicinitas, tanto che alcuni ricorrono all’ossimoro di «vicinitas globale» (Scalia, La giustizia climatica, cit.).
In realtà, il criterio della vicinitas attiene alla legittimazione ad agire, costituendo un requisito sufficiente a radicare l'interesse a ricorrere avverso il fatto lesivo, ma non l’unico, ben potendo agire anche chi deduca di aver subito una lesione di diritti od interessi legittimi pur non trovandosi in stretto collegamento territoriale con il luogo in cui l’azione viene posta in essere. La questione, piuttosto è quella della configurabilità (e prova) di tale lesione (esempio: abbattimento dell’Amazzonia e danni lamentati da residenti in Stati europei) e la giurisdizione su siffatta domanda (da verificarsi sulla base delle Convenzioni internazionali e, in Europa, del Reg. CE 12 dicembre 2012, n. 1215/2012).
La valenza ecologia dei diritti umani trova infine un felice riscontro nella giurisprudenza che riconosce e tutela i c.d. migranti ambientali.
Tra le varie decisioni di alcune Corti nazionali sul tema (si rinvia a Scissa, Migrazioni ambientali tra immobilismo normativo e dinamismo giurisprudenziale: Un’analisi di tre recenti pronunce, in Questione giustizia, 17 maggio 2021) va segnalata una recente decisione della Cassazione civile (n. 5022/2021) secondo cui «ai fini del riconoscimento, o del diniego, della protezione umanitaria prevista dall'art. 19, commi 1 e 1.1, del d.lgs. n. 286 del 1998, il concetto di "nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale", costituisce il limite minimo essenziale al di sotto del quale non è rispettato il diritto individuale alla vita e all'esistenza dignitosa. Detto limite va apprezzato dal giudice di merito non solo con specifico riferimento all'esistenza di una situazione di conflitto armato, ma anche con riguardo a qualsiasi contesto che sia, in concreto, idoneo ad esporre i diritti fondamentali alla vita, alla libertà e all'autodeterminazione dell'individuo al rischio di azzeramento o riduzione al di sotto della predetta soglia minima, ivi espressamente inclusi - qualora se ne ravvisi in concreto l'esistenza in una determinata area geografica - i casi del disastro ambientale, definito dall'art. 452-quater c.p., del cambiamento climatico e dell'insostenibile sfruttamento delle risorse naturali».
Il riconoscimento che la compromissione del livello essenziale di vita dignitosa dell'individuo può dipendere anche da “condizioni di degrado sociale, ambientale o climatico, ovvero da contesti di insostenibile sfruttamento delle risorse naturali, che comportino un grave rischio per la sopravvivenza del singolo individuo” porta il tema dell’ambiente all’interno del nucleo rigido della dignità della persona, andando oltre l’aspetto di salubrità e sicurezza sanitaria che ne ha per lungo tempo connotato la comune accezione.
È quindi sul versante dei diritti fondamentali che si registra l’evoluzione forse più avanzata del percorso giurisprudenziale, con la progressiva costruzione di un “antropocentrismo a matrice ecologica” multiforme e caleidoscopico.
Una posizione soggettiva alla cui ulteriore definizione potrà contribuire l’esercizio, nella materia ambientale, dell’azione di classe prevista dalla legge n. 31/2019 ed anch’essa entrata in vigore questa settimana (il 19 maggio), considerato che il suo ambito di applicazione riguarda i “diritti individuali omogenei”, senza distinzione. Di qui «la possibilità di utilizzare un'azione collettiva per invocare la tutela del diritto ad un ambiente sano come diritto fondamentale dell'uomo, nei confronti degli "inquinatori" e delle istituzioni pubbliche che dovrebbero proteggere e garantire tale diritto» (Carrara, I nuovi fronti della class action, ne Il Sole 24Ore, 22 maggio 2019 che, a conferma dei rilievi svolti, prosegue: “L'altro filone di controversie, più simile alla tipologia classica di responsabilità del produttore, è quello legato alle emissioni non consentite di CO2, che potrebbe riguardare non solo le aziende automobilistiche, ma tutte le imprese che emettono emissioni sopra le soglie. Del resto, la climate change litigation ha preso piede in molte giurisdizioni”).
Questioni e dubbi sulle novità del giudizio di legittimità secondo gli emendamenti governativi al d.d.l. n. 1662/S/XVIII (breve contributo al dibattito)
di Bruno Capponi e Andrea Panzarola
L’intenzione manifestata nella relazione illustrativa (che si legge in allegato al recente intervento di B. Capponi, Prime note sul maxi-emendamento al d.d.l. n. 1662/S/XVIII, in questa Rivista dal 18 maggio scorso) è quella «di semplificazione e di accelerazione … al fine di conseguire l’obiettivo di ridurre i tempi di durata del processo, razionalizzando il procedimento e adeguando le modalità di risposta della Corte alle diverse tipologie di contenzioso e agli esiti prefigurati». Ciò porta in automatico a pensare a scomposizione e ricomposizione di formule, nello sforzo di liberare, nella misura più ampia e indolore possibile, la Corte Suprema dal suo contenzioso.
L’art. 6-bis (Giudizio innanzi alla Corte di Cassazione) invita il legislatore delegato a prevedere «che il ricorso debba contenere la chiara ed essenziale esposizione dei fatti della causa e la chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione». Dopo gli sbarramenti, non di rado formalistici, che si è visto e tuttora si vede opporre in nome del c.d. principio di autosufficienza, il ricorrente viene invitato a esporre sinteticamente le proprie ragioni: andrebbe tutto bene se non fosse che, nell’ormai sperimentato contesto di reciproca sfiducia creatosi nel tempo fra avvocati e Corte Suprema, testi esortativi del genere valgono quel che valgono, i problemi essendo seriamente affrontabili soltanto attraverso un ponderato esercizio dei propri poteri da parte della Corte. Va da sé che l’esperienza di alcuni anni sviluppatasi con il “diritto mite” dei Protocolli, innestato anch’esso sull’invito alla continenza espositiva da parte del ricorrente, non è stata all’evidenza ritenuta appagante. Di qui la scelta del legislatore delegante di porre le premesse perché ciò che era semplicemente raccomandato dal soft law possa essere d’ora innanzi normativamente prescritto (e, viene da supporre – e da temere…–, prescritto a pena di sanzione processuale).
Da un punto di vista generale sembra riproporsi la suggestione della riforma perenne e delle formule salvifiche. A prima vista, sembra si miri a una “semplificazione” del rito, nel senso dell’abrogazione di due distinte procedure per due distinte tipologie di camera di consiglio (oggi – per tacere dell’ipotesi specialissima che figura nell’art. 380-ter c.p.c. – abbiamo un rito per l’ipotesi della declaratoria di inammissibilità, manifesta infondatezza, manifesta fondatezza, da un lato, e un diverso rito per l’ipotesi della ordinaria decisione della causa, dall’altro lato). Idea buona in sé, se si considera l’inspiegabile differenza di termini per il deposito delle memorie che caratterizzano il sistema attuale, senonché la soppressione del procedimento disciplinato dall’art. 380-bis c.p.c. rivela subito la sua natura di espediente strettamente funzionale alla “soppressione della sezione prevista dall’art. 376 c.p.c.” con “spostamento della relativa competenza dinanzi alle sezioni semplici” (lett. b n. 1). In altri termini, finalità del legislatore delegante sembra essere la soppressione della c.d. “sesta sezione”, trionfalmente introdotta soltanto qualche anno fa quale meccanismo di accelerazione, razionalizzazione e semplificazione. Oggi si valuta evidentemente in modo negativo l’esperienza di una sezione stralcio, e si pensa in alternativa a disegnare un nuovo “procedimento accelerato rispetto alla ordinaria sede camerale, per la definizione dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente fondati o infondati”. Si procede pertanto a costruire un nuovo pre-procedimento a fini di sbarramento.
Questo procedimento accelerato dovrebbe prevedere che dalla Corte venga una proposta di definizione del ricorso, “con la sintetica indicazione delle ragioni della inammissibilità [ecc.] ravvisata”; la proposta andrebbe comunicata agli avvocati delle parti che dovrebbero chiedere, entro venti giorni, la fissazione della camera di consiglio. In mancanza di richiesta, il ricorso si intenderebbe rinunciato, con conseguente pronuncia del decreto di estinzione, liquidazione delle spese (ma esonero dalla gabella del rinnovo del pagamento del contributo unificato), sicché si avrebbe una sorta di diritto premiale che dovrebbe facilitare la chiusura per mancata coltivazione del ricorso (“assenza del perdurante interesse”).
Da chi dovrebbe venire la proposta?
Il testo non lo dice esplicitamente ma lo fa ben capire quando (al n. 1 lett. e) affida a un “giudice della Corte” (non già a un collegio) il compito di formulare “una proposta di definizione del ricorso”: si tratta evidentemente di un giudice singolo che funge da organo di smistamento, selezione e ammonizione. È vero che, attualmente, la sostanza della camera di consiglio della sesta sezione sta nell’affidamento delle sorti del giudizio di cassazione al consigliere proponente, ma l’articolato in commento … davvero rompe le righe perché introduce (o, se si preferisce, ufficializza) lo spoglio “solitario” del ricorso, e apre nuovi (un poco sinistri…) scenari di un rito sempre più sommario e sempre più caratterizzato dalla sua funzione di smistamento e respingimento che non esita a ricorrere alla forzosa complicità del ricorrente. Prevediamo la risposta a questo genere di critica: il rito non viola il giusto processo, permette il contraddittorio e si ringrazi che non si sia pensato ad adottare (come avviene, per es., nella procedura davanti alla Cedu) un respingimento monocratico senza motivazione e assolutamente incensurabile. Non c’è limite al peggio, diremo, ma intanto salutiamo la creazione di un argine fatto di tanti singoli giudicanti, di tanti fanti di trincea ognuno dei quali seriamente intento a verificare il lasciapassare del ricorrente. Più in generale, si può notare che la ratio è sempre quella di concentrare tutte le possibili energie sulla esigenza di pronunciare al più presto il maggior numero di rigetti, mentre logica vorrebbe si desse priorità agli accoglimenti; ma se la macchina è tutta protesa a produrre rigetti o induzioni a rinunciare, vi è il serio rischio che a finire in coda siano proprio i ricorsi fondati.
Le successive lettere f) e g) stanno a indicare che le energie della Corte si focalizzano ormai sulla esaltata funzione nomofilattica (con retrocessione, evidentemente, di tutto il resto). In verità però, quanto alla lett. f), la previsione che la Corte “proceda in udienza pubblica quando la questione di diritto è di particolare rilevanza”, non introduce una vera novità rispetto alla procedura attuale; la previsione non è molto significativa senza regole procedurali più precise (per ora sembra affiorare soltanto l’esigenza di regole volte a ottenere dal pubblico ministero una memoria scritta).
Altro è da dirsi per la lett. g): “introdurre la possibilità per il giudice di merito, quando deve decidere una questione di diritto sulla quale ha preventivamente provocato il contraddittorio tra le parti, di sottoporre direttamente la questione alla Corte di cassazione per la risoluzione del quesito posto”. Il criterio direttivo prosegue specificando che la questione dev’essere esclusivamente di diritto (ma si poteva mai dubitare della non sottoponibilità di questioni di fatto in sede di legittimità?), nuova, non ancora affrontata dalla Corte e di particolare importanza. Inoltre, la questione deve presentare “gravi difficoltà interpretative” e inoltre essere “suscettibile di porsi in numerose controversie”. Carattere puramente interpretativo (e pregiudiziale) hanno oggi le pronunce – in materia di contratti o accordi collettivi nazionali di lavoro – sul ricorso concesso contro le sentenze degli artt. 420-bis c.p.c. e 64 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, ma la Corte Suprema opera sempre in virtù di un meccanismo impugnatorio, mentre qui il suo intervento ha carattere preventivo. Si ha così una sorta di rinvio pregiudiziale che pone la Cassazione nella posizione di giudice di pura interpretazione, esaltando al massimo la sua pretesa vocazione nomofilattica e ponendola su di un piano operativo simile a quello della Corte di Giustizia. Onde il giudice di merito, dovendo render tutela al soggetto che ne ha bisogno, può evitare la decisione aprendo un subprocedimento sulla novità della questione, sulla sua “verginità” in sede di cassazione, sulla gravità delle sue difficoltà interpretative e sulla sua attitudine a ripresentarsi in futuro (non casualmente ma) serialmente. Si può temere che venga così istituzionalizzata la sua deresponsabilizzazione.
E cosa farà la Cassazione se non ravviserà la presenza dei requisiti per la sua pronuncia? Affronterà il merito della questione o ne negherà la decidibilità in quella forma?
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