ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il terrorismo neofascista e la strage di Bologna fra storia, giustizia e memoria
di Chiara Zampieri
Sommario: 1. Uno sguardo d’insieme sugli studi sui terrorismi italiani - 2. Il terrorismo “nero” della prima fase - 3. Il terrorismo “nero” della seconda fase - 4. La strage di Bologna - 5. La reazione, i processi, la memoria.
1. Uno sguardo d’insieme sugli studi sui terrorismi italiani
La violenza politica e i terrorismi italiani degli anni Settanta e Ottanta sono stati oggetto di una vasta bibliografia di carattere scientifico, così come di una nutrita letteratura di taglio memorialistico e autobiografico e di un’ampia pubblicistica[1]. Va rilevato però che in questa messe di studi, di testimonianze e di testi divulgativi il terrorismo di destra è stato meno studiato rispetto al suo omologo di sinistra. A inaugurare la stagione di studi sull’eversione “nera” è stato soprattutto l’Istituto Cattaneo che negli anni Ottanta diede avvio a una serie di ricerche volte a esaminare – anche con l’apporto di alcuni magistrati che si stavano occupando di inchieste di terrorismo – diversi aspetti del fenomeno: le vicende e le azioni dei gruppi eversivi; i percorsi individuali e collettivi, dalla militanza nell’ambiente neofascista e nel Msi all’ingresso nel settore militarizzato e nei gruppi terroristici; il ruolo e il rapporto con il Msi; la cultura politica di questi gruppi[2]. Si tratta spesso di ricostruzioni dell’intera parabola del terrorismo di stampo neofascista che, pur affondando le radici politico-culturali negli anni del secondo dopoguerra, ha insanguinato l’Italia a partire dal 1969, l’anno della strage di piazza Fontana, fino ai primi anni Ottanta.
Generalmente gli studiosi che si sono occupati di questo fenomeno hanno suddiviso in almeno due fasi questo lungo periodo: la prima, collocata fra il 1969 e il 1975 e la seconda fra il 1976 e i primi anni Ottanta. Questa seconda, però, resta ancora la fase meno studiata e dunque quella più sfuggente. In parte ciò è dovuto al valore altamente simbolico acquisito dalla strage di piazza Fontana che, quale evento iniziale di quella che sarebbe stata definita «strategia della tensione», ha perciò catalizzato l’attenzione prima degli osservatori dell’epoca, in seguito degli studiosi. Le vicende giudiziarie che ne seguirono (con i depistaggi messi in atto fin da subito dalle autorità che portarono all’immediato arresto dell’anarchico Giuseppe Pinelli, poi deceduto in circostanze mai chiarite nel corso degli interrogatori presso la questura di Milano), l’attenzione che attirò da parte degli ambienti della sinistra, storica e non, e l’effetto di ulteriore radicalizzazione che essa ebbe negli ambienti dell’estrema sinistra già dediti alla teorizzazione e all’uso della violenza come metodo di lotta politica, ovviamente amplificarono il valore periodizzante e simbolico dell’evento[3]. Inoltre, nonostante ci siano voluti diversi anni prima di cominciare a disvelare la trama delle complicità, delle connivenze e delle deviazioni da parte di alcuni settori dello Stato nelle indagini relative a piazza Fontana[4] (e così è stato anche per le indagini su tutte le stragi commesse nella prima metà degli anni Settanta) e benché ci siano voluti decenni per giungere a delle sentenze definitive di condanna, il quadro complessivo del fenomeno, delle sue articolazioni, degli obiettivi strategici, dei suoi intrecci con alcuni settori dei servizi di sicurezza e delle Forze armate, anche se non ancora del tutto chiarito, è stato delineato almeno nei suoi elementi essenziali. Lo stesso invece non si può dire per la seconda fase del terrorismo nero, quella che è stata variamente definita come del «radicalismo di destra»[5], dello «spontaneismo armato» o del «terrorismo diffuso»[6]. Benché si sia arrivati a ricostruirne una traccia (e anche qualcosa di più, nel caso ad esempio del coinvolgimento della P2) in sede di interpretazione complessiva, anche i contorni dei suoi collegamenti con i «poteri occulti»[7] appaiono meno univoci e più sfuggenti rispetto a quelli del terrorismo della prima fase. Va infine considerato un altro aspetto che ha determinato una maggiore conoscenza delle dinamiche del terrorismo di destra della prima fase, rispetto a quello della seconda. E cioè il fatto che, nel periodo 1969-1975, benché fosse attivo anche un terrorismo d’ispirazione marxista-leninista, questo fu sicuramente considerato di minore rilevanza e pericolosità rispetto al terrorismo “nero”. Quest’ultimo dunque attirò, almeno da un certo momento in poi, l’attenzione delle forze politiche, delle autorità, oltreché dell’opinione pubblica. Nella seconda fase, invece, le cose stavano esattamente all’opposto: il terrorismo “rosso” fu senza dubbio decisamente più insidioso sia in termini di numero di attentati, sia in termini di numero di militanti e gruppi coinvolti nelle sue azioni. Le attività investigative, preventive e repressive furono perciò indirizzate principalmente a individuare e a perseguire i gruppi dell’eversione di sinistra, piuttosto che quelli di destra. Allo stesso modo, il dibattito pubblico fu sicuramente più incentrato su questo fenomeno che non su quello di opposta matrice. Il terrorismo di destra della seconda fase fu dunque in parte “messo in ombra” dal suo omologo di sinistra. E ciò ebbe un riflesso diretto anche sulla letteratura – scientifica e non – sull’argomento: ricchissima ed eterogenea sul fenomeno di sinistra, scarsa su quello di destra. Su quest’ultimo punto hanno poi pesato due fattori fra loro collegati: da un lato, il fatto che, già all’epoca dei fatti, i «pentiti» – che diedero molti elementi agli inquirenti non solo per svolgere le indagini sui fatti specifici, ma anche per ricostruire una prima “storia” delle organizzazioni terroristiche – furono soprattutto appartenenti ai gruppi di sinistra (pochissimi invece furono quelli di destra); dall’altro, il fatto che la memorialistica sulle vicende del terrorismo degli anni Settanta e Ottanta sia soprattutto, anche in questo caso, opera degli ex militanti di sinistra (molte di meno sono le testimonianze degli ex attivisti di destra)[8]. Complessivamente, dunque, conosciamo meno del terrorismo di destra rispetto al terrorismo di sinistra e, più nello specifico, conosciamo meno il terrorismo di destra della seconda fase rispetto a quello della prima.
2. Il terrorismo “nero” della prima fase
Come viene correttamente evidenziato dal «breve excursus sulle stragi» della sentenza in oggetto, la strage di Bologna è dunque “solamente” l’episodio più sanguinoso di una lunga scia di attentati stragisti consumati nell’arco di più di un decennio. La cultura politica dei gruppi che animarono la prima fase, come Ordine nuovo e Avanguardia nazionale, così come i legami che si crearono fra questi soggetti e settori deviati dello Stato e il Msi affondavano le radici nel dopoguerra e nel clima di scontro inaugurato dalla guerra fredda. Da un lato, vi era una componente nostalgica che rivendicava la continuità con il fascismo storico e con la Rsi mantenendo fede ai tradizionali miti del combattentismo, del reducismo e della lotta contro il bolscevismo. Dall’altro, l’eredità del fascismo venne rielaborata alla luce del pensiero di Julius Evola, centrato sul concetto di Tradizione e su un fermo rifiuto di tutto il portato della Rivoluzione francese e dell’età moderna (il liberalismo, la democrazia e, ovviamente, il socialismo e il comunismo). I militanti di estrema destra, considerandosi un’«élite rivoluzionaria», erano convinti di dover condurre una lotta, anzi una vera rivoluzione (ancorché «conservatrice»), per costruire un nuovo Ordine, anche se i contorni della società da costruire rimasero sempre sfumati. Proprio l’abbandono della prospettiva rivoluzionaria, fra l’altro, aveva indotto i militanti che ne avevano fatto parte, ad allontanarsi dal Msi, con il quale però non vennero mai meno i legami. Nel contempo, alcuni di essi godevano di relazioni con altri gruppi terroristici e con regimi autoritari “amici”, come quello greco, e di una rete di appoggi che spaziava dall’America Latina, alla Spagna franchista fino al Portogallo salazarista[9].
L’oggetto dell’attacco violento in questa fase non fu dunque lo Stato, bensì i partiti, il sistema democratico e il parlamentarismo che ne avevano causato la degenerazione. Anzi, permase per un lungo periodo un atteggiamento di rispetto verso le autorità statali, probabilmente determinato, da un lato, dai legami che questi gruppi avevano fin dalle loro origini con alcuni settori dell’apparato statale e dall’altro dalla sostanziale tolleranza di cui godettero per diversi anni da parte delle forze di polizia. Le attività di queste organizzazioni furono diversificate: nel corso degli anni Sessanta, si “limitarono” ad azioni squadriste rivolte contro sedi di partiti e sindacati e ad azioni di pestaggio degli avversari di sinistra nelle università e nel corso di alcune manifestazioni pubbliche. Le bombe e gli attentati indiscriminati comparvero in un secondo momento: inizialmente a semplice scopo dimostrativo, senza causare vittime; a partire da piazza Fontana, causando decine di morti e feriti. Gli eventi scatenanti furono la contestazione del ’68 e le lotte operaie del 1969, che prefigurarono – non solo agli occhi dei militanti neofascisti, ma anche di diversi settori dell’anticomunismo più oltranzista degli apparati dello Stato, a loro vicini – l’ingresso del Partito comunista italiano (che fra l’altro era il più forte partito comunista dell’Europa occidentale) al governo o, addirittura – guardando più in generale agli equilibri della guerra fredda che sembravano volgere a favore dell’Urss –, un’invasione sovietica[10].
La peculiarità di questi attentati, come è noto, consisteva nel fatto che non vennero mai rivendicati, né giustificati a livello teorico-ideologico, nel tentativo di sviare le indagini verso gli ambienti di sinistra e di influenzare l’opinione pubblica a favore di una stretta repressiva o addirittura di una svolta autoritaria. Ciò costituiva l’essenza strategica di quella che venne definita «strategia della tensione», ossia la logica operativa di circoli reazionari che, usando le bombe senza produrre rivendicazioni, intendevano creare sconcerto e destabilizzare il paese, facendo ricadere la responsabilità delle violenze sulle correnti più contestatrici della sinistra. L’obiettivo era sollecitare una ristabilizzazione in chiave conservatrice, reagendo così all’onda lunga della protesta giovanile e operaia e al crescente consenso che ne derivava al Pci[11]. Anche se di certo non mancarono collegamenti fra i diversi soggetti – e uno snodo significativo di queste trame correttamente evidenziato dalla sentenza fu indubbiamente il convegno dell’Istituto Alberto Pollio del 1965 che vide radunati sia esponenti dell’estremismo nero, sia osservatori militari – ciò non significa che esistesse un unico complotto con una chiara gerarchia e una mente unitaria. Piuttosto sembra essere esistito – come ha notato Guido Formigoni – un «complesso di movimenti tentacolari, convergenti ma anche in qualche modo disordinati»[12]. Di fronte al rischio di «scivolamento a sinistra» della società e della politica italiana, alcuni spezzoni del fronte «atlantico» e delle destre interne tentarono in sostanza di forzare la situazione creando le condizioni di una «guerra civile strisciante», per ottenere un contraccolpo conservatore o reazionario. I terroristi avevano addentellati interni nei servizi segreti e nelle forze di polizia e contatti internazionali (forse anche in alcune componenti della struttura militare e di intelligence della Nato)[13]. Contemporaneamente, una parte dei militari italiani coltivò simpatie golpiste parallele a quelle dei settori dell’estrema destra (e il tentato “golpe Borghese” del 1970 rientrava in questa logica), anche se gli sforzi di passare alla fase operativa furono velleitari e, infine, fallimentari[14]. I gruppi neofascisti, quindi, accettarono di svolgere il ruolo di “detonatore” di questa complessa operazione politica, «verosimilmente – ha notato Francesco Maria Biscione – con diversi livelli di consapevolezza tra dirigenti e gregari circa gli effettivi scopi»[15]. Questa fase terminò con le stragi del 1974 (quella di piazza della Loggia a Brescia e quella del treno Italicus), quando furono presi dei provvedimenti ad ampio raggio da parte del governo Rumor non solo per smantellare i gruppi eversivi (che vennero sciolti e perseguiti), ma anche per bonificare i settori dello Stato che si erano rivelati conniventi con essi[16].
Come ha scritto Franco Ferraresi, il mutato atteggiamento dello Stato accentuò la propensione di alcuni spezzoni ad azioni autonome e, sul lungo periodo, condusse a una cruciale svolta strategica che avrebbe segnato la seconda e ultima stagione del terrorismo nero[17]. Le iniziative prese dallo Stato vennero in effetti vissute dai gruppi neofascisti come una sorta di tradimento che li indusse a loro volta a mutare atteggiamento: non più deferenza e rispetto, ma «strategia di eliminazione dei “nemici della rivoluzione”»[18]. Fu fatto un tentativo di riunire quanto restava di Ordine nuovo e Avanguardia nazionale in un incontro segreto che si tenne nel 1975 ad Albano Laziale e le parole d’ordine che vennero lanciate furono: «attacco allo Stato» e «disarticolazione del potere colpendo le cinghie di trasmissione del potere statale»[19]. La sentenza in oggetto tratteggia questo mutamento, affermando efficacemente come si tratti di una «strategia non più classicamente di destra, anticomunista, ma rivolta esplicitamente contro le espressioni diffuse del potere statuale» (p. 109). L’assassinio del giudice Vittorio Occorsio nel luglio del 1976 doveva segnare l’inizio di questa svolta[20].
3. Il terrorismo “nero” della seconda fase
Nel quadro del cambiamento di strategia e modalità operative di questi gruppi, vanno considerati anche altri due elementi cruciali che contribuirono a determinarlo. Il primo è l’esplosione del terrorismo di sinistra, a partire dal 1976, in forme sempre più militarizzate: la dimostrazione della sua efficienza operativa e spietatezza bellica colpì profondamente la destra eversiva, che venne stimolata ad emularne la tattica e le modalità organizzative. Il secondo aspetto da considerare è il ricambio generazionale che caratterizzò i gruppi neofascisti della seconda fase: i nuovi militanti, nati perlopiù dopo il 1955, erano lontani dalla memoria storica del fascismo, dal mito della Rsi e molto più influenzati dalla «furia antisistema» dei loro coetanei di sinistra[21]. Ferraresi ha sottolineato dunque l’impatto dell’esplosione del «giovanilismo» – che, come nota la sentenza, fu amplificato dal reclutamento di «“ragazzini” fagocitati dall’impazienza rivoluzionaria», p. 109 –, che comportò non solo l’instaurarsi di una certa corrispondenza fra l’estremismo nero e la nuova contestazione del 1977, ma anche la tendenza della destra rivoluzionaria a operare una lettura del tutto parallela a quella dell’estrema sinistra. Va inoltre considerato che la crisi dei gruppi “storici” del neofascismo aveva lasciato le nuove leve senza particolari riferimenti sul piano organizzativo né vincoli stringenti di carattere ideologico e ciò diede loro margini nuovi per sperimentare azioni e forme organizzative inedite, spesso ispirate appunto dai loro omologhi della sinistra rivoluzionaria. Data l’identità dei bersagli (il “sistema”) e delle forme di lotta (spontaneismo e autonomia), alcune frange della destra giunsero perfino a proporre di costruire collegamenti strategici e tattici con la sinistra e in particolare con i gruppi di Autonomia operaia, senza però raggiungere dei risultati concreti[22].
È in questo magma e nel clima del movimento del 1977 che nacquero gruppi come Terza posizione, Costruiamo l’azione (che oltre a essere un giornale, radunava attorno a sé un «movimento politico» guidato da vecchi veterani di Ordine nuovo e membri più giovani ed il cui braccio armato era il Movimento Rivoluzionario Popolare) e i Nuclei Armati Rivoluzionari. Dal punto di vista strategico, è difficile scorgere un’idea chiara di quali fossero gli obiettivi politici di questi gruppi, eccetto l’abbattimento del «sistema», che però non prevedeva un progetto preciso. I pochi documenti a disposizione mostrano certamente una critica nei confronti tanto del Msi (per aver tradito le speranze dei rivoluzionari), quanto dei gruppi “storici” del neofascismo e della strategia golpista, soprattutto perché volta a rafforzare il sistema che loro invece, ora, volevano attaccare. Vi era poi un rifiuto dell’ideologia, ritenuta fonte di mistificazione, in favore dell’«azione», elevata a «dovere esistenziale» in sé, quale strumento privilegiato della lotta politica. Dal punto di vista strategico, il risultato più visibile di queste elaborazioni fu il cosiddetto «spontaneismo armato», cioè la formazione di piccoli gruppi, politicamente collegati, ma autonomi, dove i militanti spesso si sovrapponevano e le azioni potevano essere rivendicate (o anche non rivendicate, al fine di allargare la propria platea di potenziali simpatizzanti) da più di un’organizzazione[23].
I Nar furono quelli che si contraddistinsero per essere i principali teorizzatori ed esecutori dello «spontaneismo», fino a negare – orgogliosamente – qualsiasi significato da attribuire alla lotta armata e alla violenza, che assumevano così un significato in sé. Si negava anche il carattere pedagogico insito nella concezione dell’esemplarità dell’azione che per altri gruppi (anche di sinistra) era invece essenziale. La lotta armata, nella loro concezione, diveniva dunque totalmente fine a sé stessa. E proprio l’assenza di qualsivoglia scopo e significato, al di là dell’affermazione simbolica della soggettività antagonista al sistema, fece sì che il confine fra questo tipo di spontaneismo e la pure e semplice criminalità a fine di lucro divenisse molto esile[24]. Tuttavia, come ha acutamente notato Ferraresi, questa «spontaneità» e la sua «eroica mancanza di scopo» erano spesso contraddette dai riferimenti ancora molto presenti alla «guerra rivoluzionaria». Come alcuni documenti dell’epoca mostrano, infatti, secondo i protagonisti del terrorismo nero, la «progressione rivoluzionaria» prevedeva, al primo stadio, lo «spontaneismo armato» condotto da gruppuscoli che sarebbero stati poi coordinati da un’organizzazione extraparlamentare con funzioni di copertura e propaganda. Nella seconda fase si sarebbero potute configurare varie tattiche, fra le quali il ricorso al «terrorismo» – sia indiscriminato, sia volto a uccidere figure strategiche del sistema e a occupare i mezzi di comunicazione e l’apparato legale – era ancora ritenuto essenziale per estendere la lotta armata. In un periodo più avanzato, sarebbe infine comparsa la guerriglia urbana e, da ultimo, quella in montagna[25]. In sostanza, come rilevato anche dalla sentenza (p. 112), nonostante le differenziazioni di facciata, emerge una sostanziale «continuità» fra le formazioni della prima e della seconda fase (peraltro garantita anche dal “travaso” di alcuni militanti e dal riferimento che ancora costituivano per le nuove reclute figure come Franco Freda) circa la visione di fondo della società e l’esigenza della lotta armata che ne discendeva. Dunque, nonostante l’autorappresentazione dei gruppi come «spontaneisti» e la rivendicazione di autonomia rispetto a qualunque disegno sovraordinato, sembra continuare a esservi una «strategia» di fondo nelle loro azioni (e in quelle dei Nar nello specifico). E non si tratta di una questione di dettaglio, dal momento che, come ha rilevato il presidente della Corte d’Assise Michele Leoni nella sentenza, l’inserzione del termine «spontaneista» nel capo d’imputazione a carico dell’imputato Gilberto Cavallini ha funzionato «come clausola di sbarramento per una pronuncia di colpevolezza di Cavallini per strage politica o di Stato» (p. 2079), venendo quindi condannato per delitto di strage “comune”. A questo proposito, la Corte ha fra l’altro contestato l’«ottica minimalista» della Procura, che, proprio facendo riferimento al carattere spontaneista dell’organizzazione, ha ricondotto tutto «alla dimensione autarchica di quattro amici al bar che volevano cambiare il mondo (con le bombe, ma anche con il solito corteo di coperture e depistaggi)» (pp. 2080-2081).
Dal punto di vista organizzativo e operativo, i Nar rifiutavano qualunque logica gerarchica: la sigla, coniata da Francesca Mambro, era a disposizione di chiunque volesse usarla. L’unica condizione era che ogni azione avesse un chiaro significato rivoluzionario “antisistema”. Da questa impostazione sarebbe derivato un numero elevato di gruppi e di aggregazioni estemporanee che promossero una serie di azioni in tutto il paese e soprattutto a Roma. Se ne contano almeno 29 nel 1978, 43 nel 1979 e 32 nei primi mesi del 1980. Spesso si trattava di azioni molto simili a quelle svolte dai gruppi di sinistra: rapine per autofinanziamento o per fare rifornimento di armi (e in questo contesto si intensificarono le relazioni con gruppi criminali come la banda della Magliana), ferimenti e omicidi di persone ritenute simbolo del “sistema” da abbattere. A questa fase risalgono dunque azioni contro obiettivi specifici – come l’omicidio di due poliziotti, Maurizio Arnesano e Franco Evangelista, assassinati il 28 maggio 1980, e del magistrato Mario Amato, ucciso il 23 giugno 1980 – e naturalmente la strage alla stazione di Bologna[26].
4. La strage di Bologna
Il massacro del 2 agosto 1980 si colloca in una fase, nazionale e internazionale, di significativi mutamenti a livello politico, economico, culturale, sociale. A cavallo dei decenni Settanta e Ottanta si verificò infatti quella che Silvio Pons ha definito come una «soluzione di continuità» nella politica italiana che coincise, sul piano internazionale, con la rivoluzione in Iran, la crisi degli euromissili in Europa, l’invasione sovietica in Afghanistan, l’avvento di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan, la crisi sociale e politica in Polonia, l’emergere della leadership di Deng Xiaoping e l’avvio della modernizzazione nella Cina postmaoista[27]. Il passaggio da un decennio all’altro coincise dunque con la crisi della distensione e una nuova fase di tensioni a livello internazionale. Sul piano interno, fu un periodo di transizione dai governi di solidarietà nazionale – che avevano trovato l’espressione più piena con l’ingresso del Pci nella maggioranza di governo il 16 marzo 1978, il giorno del sequestro di Aldo Moro per mano delle Br – all’avvio dei governi guidati per la prima volta da esponenti non democristiani e alla stabilizzazione delle formule pentapartito. La crisi della collaborazione fra i due principali partiti di massa si era consumata definitivamente nel 1979, anno che – come ha scritto Piero Craveri – «segnò l’esaurimento di tutte le formule evolutive possibili della prima Repubblica»[28]. Dall’anno seguente e per tutti gli anni Ottanta, il Pci – che proprio dal 1979 invertì il trend elettorale positivo – sarebbe rimasto all’opposizione di governi formati dalla Dc, dal Psi e dai partiti laici “minori”. Con il declino del conflitto sociale, dunque, il sistema politico nel suo complesso si stabilizzò verso un nuovo equilibrio, dove la sinistra assunse una posizione decisamente più difensiva e la conflittualità operaia declinò in modo irreversibile. Anche il clima generale che aveva circondato la violenza e l’illegalità degli anni Settanta era ormai cambiato: a sinistra il movimento post-1977 si era esaurito e il terrorismo rosso, decimato da procedimenti giudiziari e defezioni dopo l’assassinio di Moro, si stava avviando alla sconfitta[29].
In questa prospettiva, la strage della stazione di Bologna può essere vista più come un – drammatico – colpo di coda di un fenomeno che affonda le radici nel decennio precedente, piuttosto che una manifestazione della transizione degli anni Ottanta. Essa è considerata la strage più grave dell’intera storia repubblicana[30]. Causando 85 morti e circa 200 feriti, fu «uno dei peggiori eventi terroristici mai registrati», che aveva provocato «più morti di qualsiasi altro attentato terroristico precedente in Europa occidentale», rilevava la Cia a quel tempo[31]. Nonostante la nuova strategia impiegata dai gruppi della destra eversiva e, in particolare, dai Nar che ne furono responsabili, le stragi erano ancora considerate un mezzo di lotta politica. Come ha messo in rilievo Ferraresi basandosi su alcuni documenti dell’epoca e sulle dichiarazioni rese da alcuni imputati nel corso dei processi, infatti, nella logica dei gruppi armati della destra radicale, era perfettamente plausibile uccidere 85 persone inermi per uno o più dei seguenti motivi: attrarre nuovi militanti; consolidare il mondo della lotta armata; criminalizzare o creare problemi a un gruppo rivale; inviare un avvertimento ai settori dello Stato che in passato simpatizzavano con le loro ma che ora sembravano essersene distaccati[32]. Una possibile altra spiegazione del ritorno allo stragismo è stata formulata pochi anni dopo l’attentato dalla Cia, in un report del 1983 dedicato alle attività del terrorismo di destra in Europa. La strage di Bologna era spiegata alla luce del forte anticomunismo che ancora caratterizzava l’ideologia neofascista italiana: secondo gli analisti statunitensi, cioè, realizzando quella drammatica strage, i terroristi di destra avevano mirato fondamentalmente a «colpire una roccaforte di sinistra» guidata dal Pci da diversi anni e, in questo modo, a minare la fiducia dei cittadini nella capacità dei comunisti di proteggerli[33]. Più di recente, il magistrato Leonardo Grassi, che si è occupato anche delle indagini sul massacro del 2 agosto, ha suggerito un’ipotesi diversa, sottolineando la discontinuità di questo episodio con la stagione precedente. Grassi ha osservato infatti che se, da un lato, la strage di Bologna ha chiuso il ciclo dello stragismo in chiave anticomunista, dall’altro essa contiene «i germi del nuovo stragismo, quello primariamente gestito dalle associazioni camorristico-mafiose che ha inizio con la strage del rapido 904 e si conclude con la strage di via D’Amelio»; un ciclo che non avrebbe dunque a che fare con il contenimento del comunismo, bensì «con il recupero e la salvaguardia, nella nuova geografia mondiale dei poteri, di tutte quelle forze massoniche, mafiose e neofasciste che assieme a pezzi di servizi segreti avevano dato il loro contributo alla lotta, anche cruenta, contro il comunismo» e che avrebbero tentato di imporre il loro potere di ricatto sulle istituzioni democratiche[34].
La sentenza in esame ha invece posto la strage – così come lo «spontaneismo armato» – nel segno della piena continuità con il progetto eversivo sviluppato negli anni precedenti, e cioè con la «strategia della tensione»; e proprio con questa “continuità” si spiegherebbe la riedizione dello stragismo, che, abbandonato per un certo periodo, tornò a essere «di nuovo strumentale a un disegno politico che aveva sempre lo stesso scopo: condizionare l’evoluzione democratica dello Stato» (p. 119). Di certo, affiora la medesima strategia, che aveva finalità ora sovrapponibili al programma eversivo di un soggetto che si sarebbe rivelato un protagonista cruciale di queste trame per tutti gli anni Settanta, ossia la loggia massonica P2, cui è giustamente dedicata una parte della ricostruzione storica della sentenza. Pur in assenza di studi sistematici su questo soggetto, siamo ormai in grado di delineare lo sfondo entro il quale si dipana la sua storia in quel decennio e i contorni della sua penetrazione nel mondo finanziario, economico, burocratico, politico, dell’informazione e dei suoi legami con la criminalità comune e mafiosa. Occorre innanzitutto guardare al contesto nazionale di metà anni Settanta: in particolare, il 1974 fu un anno cruciale dal momento che l’esito del referendum sul divorzio aveva polverizzato l’ipotesi di una maggioranza clerico-moderata perseguita dai promotori della consultazione. Ciò non avrebbe tardato a far sentire il proprio peso anche sugli equilibri governativi: accantonata l’esperienza del governo di centro-destra Andreotti-Malagodi, si riaprì infatti la prospettiva del confronto a sinistra con il governo Moro-La Malfa. Intanto, il Movimento sociale italiano, pur avendo ottenuto lusinghieri risultati elettorali nel 1972, appariva troppo coinvolto nella strategia della tensione e cominciò a scontarne le conseguenze. Insomma, nel 1974, da un lato, era esplosa la «questione democristiana», dall’altro si poneva la «questione comunista», che in seguito ai risultati elettorali del 1975 e del 1976 divenne ancor più pressante e difficilmente eludibile. Dopo la tornata del 1976, si sarebbero quindi create le condizioni per un dialogo fra Dc e Pci e per il varo dei governi della “solidarietà nazionale” fondati sulla collaborazione fra i due storici avversari[35].
Proprio nel 1975 Licio Gelli fu nominato maestro venerabile della P2. La loggia non aveva una struttura centralizzata e gli affiliati vi confluivano in gruppi già costituiti, su base prevalentemente professionale. Essi, pur continuando a lavorare sui propri obiettivi di guadagno e potere, venivano integrati in una prospettiva collettiva, necessariamente politica. Tra questi gruppi, spiccava quello proveniente da quei settori dei servizi di sicurezza e dei vertici dell’Arma dei carabinieri che in passato avevano favorito la «strategia della tensione», segnando dunque – anche “fisicamente” – una profonda continuità fra i diversi piani di azione. Lo stesso Gelli, del resto, era comparso negli atti giudiziari relativi al golpe Borghese, alla strage dell’Italicus e all’omicidio Occorsio. Proprio in virtù di questa continuità, vi era una profonda consapevolezza dei limiti e degli errori commessi con le trame della fase precedente e, dunque, attraverso la P2 si compì «il superamento della strategia della tensione», secondo una pratica ben più complessa e articolata (il “Piano di rinascita democratica” del 1976) di quella golpista. Il “Piano” escludeva in effetti ogni progetto di rovesciamento del sistema, prefigurando invece il superamento della democrazia dei partiti e un riassetto moderato[36]. In altri termini, si prevedeva di ricostituire lo Stato e l’autorità del governo attraverso un governo parallelo ed extraistituzionale di tipo massonico nel quale concentrare l’effettiva gestione del potere. Per portare a compimento il progetto, si prevedeva di svolgere un’azione “dall’interno”, che doveva consistere nella rifondazione della Dc, nella rottura della Federazione unitaria dei sindacati, nell’azione sistematica di infiltrazione a macchia d’olio della stampa, nel mantenimento della guida dei servizi d’intelligence (ed in questa sfera rientrava l’azione di copertura e utilizzo dell’eversione “nera”, come pure l’uso di quella “rossa” benché quest’ultimo non sia stato accertato), oltreché la serie di operazioni in ambito finanziario che sono ben note[37].
In buona sostanza, come sottolinea anche la sentenza, vi sarebbe una continuità fra la galassia della strategia della tensione e i piani che videro coinvolta la P2 nel corso degli anni Settanta: non solo vi erano in parte coinvolte le stesse persone (e di qui deriverebbero quelle «sinergie» alla base del coinvolgimento anche nella strage di Bologna), ma queste perseguivano pure i medesimi scopi, ancorché con modalità diverse – «più sofisticate (penetrazione e progressiva metastatizzazione delle istituzioni)» nel caso della P2 (p. 120). Francesco Maria Biscione ha fra l’altro delineato le molteplici sfaccettature di queste continuità, che si declinarono non solo a livello strettamente tattico e strategico – un’azione pervicace sul piano extraistituzionale finalizzata a bloccare l’avanzata delle sinistre e del Pci nello specifico –, ma anche su altri piani. L’azione di questi soggetti fu in effetti segnata da continuità nei comportamenti di alcune strutture – in primis, i servizi segreti e alcuni settori dell’Esercito –, nelle coperture massoniche di cui godevano e nell’universo ideale e culturale di riferimento, che possiamo ricondurre al fascismo e all’atlantismo radicale. Tuttavia, come ha notato giustamente sempre Biscione, questi ambienti non possono essere definiti solamente “fascisti”, né genericamente “atlantisti”: tali etichette rappresenterebbero in effetti una definizione rispettivamente troppo stretta e troppo larga per qualificarli[38].
Nel dibattito storiografico, che su questo episodio risulta comunque ancora non molto ricco, il confronto sul significato politico e strategico della strage, su come essa debba essere collocata nello scenario nazionale e internazionale nella cruciale transizione fra i due decenni e, quindi, sulla continuità o discontinuità che essa segnò rispetto alle trame degli anni Settanta, è ancora aperto.
5. La reazione, i processi, la memoria
Nelle ore successive alla strage, vi fu una reazione di enorme sdegno e una protesta pubblica che misero sotto pressione le autorità nel cercare e perseguire i responsabili, che, a differenza del passato – dopo il disorientamento inziale (si parlò, per alcune ore, dell’ipotesi di una caldaia) –, vennero immediatamente indicati tra i neofascisti. Nelle settimane seguenti, furono arrestati diversi militanti, con accuse direttamente o indirettamente collegate a tale reato. Ciò ebbe però un effetto di ulteriore radicalizzazione, che sarebbe sfociato in una terribile escalation di omicidi. Nel 1980 sorsero alcuni nuovi gruppi spinti dal desiderio di emulare le altre bande. Fra di essi, rimase attiva la cellula dei “Magnifici Sette”, raccolti attorno a Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Gilberto Cavallini. Nei mesi seguenti, tuttavia, anche ciò che restava dello «spontaneismo armato» sarebbe stato spazzato via dalla reazione dello Stato: i militanti vennero via via arrestati (altri fuggirono) ed entro la fine del 1982 il terrorismo “nero” fu definitivamente sconfitto[39].
Il 2 agosto, la città reagì con grande prontezza al massacro: sebbene gran parte dei bolognesi fosse già in vacanza, i soccorsi iniziarono ad arrivare dopo pochi minuti dalla deflagrazione. Vi fu una mobilitazione enorme di mezzi, aiuti, persone. Coloro che abitavano di fronte alla stazione si precipitarono con lenzuola, bende, mezzi di fortuna per rimuovere le macerie. Iniziarono a soccorrere i feriti, a scavare con le mani per liberare i corpi intrappolati. Tutti i documenti analizzati, così come i testimoni intervistati, confermano l’efficienza dei soccorsi, un coordinamento quasi immediato da parte delle istituzioni e una risposta pressoché unanime da parte dei cittadini. Anche se in seguito non sarebbero mancate le polemiche, né le controversie circa le operazioni di soccorso, in quell’occasione Bologna riuscì a reagire in modo compatto anche grazie ai preesistenti sentimenti di fiducia dei cittadini verso le istituzioni del governo locale[40].
Lo stesso rapporto di fiducia non sembrò esserci, invece, con le istituzioni del governo centrale. Il giorno del funerale delle vittime, fissato per il 6 agosto, le autorità e i segretari dei partiti intervenuti vennero fischiati e, fatto ancora più significativo, alla cerimonia ufficiale, fatta per le vittime della strage, mancavano gran parte delle salme e dei loro familiari. Ben 69 famiglie avevano scelto di celebrare i funerali in forma privata e di rifiutare quelli ufficiali, con un gesto di rabbia e di indignazione[41]. La memoria delle stragi dei primi anni Settanta, fino ad allora rimaste tutte impunite, e del coinvolgimento di alcuni spezzoni degli apparati dello Stato nelle loro trame, ebbe ovviamente un suo peso.
Nei mesi seguenti, ad aggravare il sentimento di sfiducia verso le istituzioni, sarebbe giunta la sentenza di assoluzione, emessa il 20 marzo 1981 dalla corte di Catanzaro, per tutti gli imputati della strage di piazza Fontana. Come è stato osservato, quella sentenza fu per i familiari delle vittime della stazione di Bologna «come un segnale per capire che stava vincendo la cultura dell’oblio, che la verità sulla morte dei propri congiunti sarebbe stata allontanata ed occultata e che bisognava impegnarsi direttamente»[42]. Di qui sarebbe sorta l’iniziativa, promossa spontaneamente e individualmente da alcuni familiari delle vittime di Bologna il 1° giugno del 1981, di costituire un’associazione con l’unico scopo di raggiungere la verità e la giustizia. Nacque così l’esperienza dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna, che fino ad oggi è stata presente con numerose iniziative e attività alle celebrazioni che ogni anno si tengono a Bologna il 2 agosto, in tutte le fasi dei processi attinenti alla strage, con iniziative legislative (ad esempio, la proposta di legge per l’abolizione del segreto di Stato nei delitti di strage e terrorismo presentata nel 1984 e approvata nel 1990 e quella per istituire il reato penale di depistaggio che, dopo numerose traversie, è stata approvata nel 2016), e ogniqualvolta sia stato necessario ribadire la volontà di perseguire giustizia e verità.
Sull’onda delle attività intraprese dall’Associazione bolognese, si costituirono in seguito anche le Associazioni dei familiari delle vittime della strage di piazza Fontana, quelle della strage dell’Italicus e di piazza della Loggia a Brescia. Nel 1983, queste avrebbero fondato l’Unione delle Associazioni dei familiari delle vittime delle stragi, con sede a Milano e con uno statuto ricalcato su quello dell’Associazione di Bologna. Sarebbe nata così un’esperienza inedita di mobilitazione di cittadini, al di fuori delle appartenenze ideologiche o degli schieramenti di partito[43].
Come ha notato Anna Lisa Tota, dal 1981 Bologna è diventata una città simbolo delle vittime delle stragi in Italia: il genere commemorativo e le forme di comunicazione pubblica – anche grazie all’Associazione delle vittime – che si sono consolidate in questo contesto, rappresentano infatti «un vero e proprio modello di elaborazione della memoria pubblica». Tale modello, afferma Tota, si è formato in due decenni essenzialmente grazie ad alcuni fattori: in primo luogo, la presenza di un gruppo di «imprenditori morali della memoria», che ha saputo riconoscere la dimensione pubblica del proprio dolore e, conseguentemente, ha potuto transitare negli anni dalla dimensione del «fare memoria» a quella del «fare etica pubblica». Ha potuto in altri termini, da una parte, «legittimare la versione del passato delle vittime e divenire garante unico e privilegiato di questa memoria»; dall’altra, conferire a questo evento drammatico «quel carattere universalistico ed esemplare, che ha avuto come esito quello di trasformare la piazza della stazione di Bologna e la cerimonia commemorativa che vi si svolge ogni anno, in un’arena ad alta visibilità politica e istituzionale, capace di dare espressione e di articolare alcune delle grandi questioni che attraversano il discorso pubblico a livello nazionale»[44]. In questo senso, la strage di Bologna rappresenta un caso emblematico fra le «ingiustizie» e i «passati scomodi» da raccontare, perché qui – nota sempre Tota – «il connubio tra fare memoria e fare etica pubblica» ha prodotto una tale visibilità sociale, sia a livello locale sia a livello nazionale, da permettere «la genesi istituzionale di un vero e proprio genere commemorativo per l’iscrizione pubblica della memoria delle stragi italiane». La commemorazione di Bologna è divenuta così uno dei luoghi simbolo delle memorie contese e controverse del nostro paese[45].
Al sedimentarsi di questa memoria contesa ha in buona parte contribuito la lunga e faticosa vicenda processuale di questo crimine, che già dal suo inizio si dimostrò controversa. Ci vollero infatti sette anni prima di giungere all’inizio del processo di primo grado, quando nel 1987 ben 250 familiari si costituirono parte civile. La sentenza del 1988 condannò gli esecutori materiali della strage, ma non gli imputati dell’associazione eversiva. Per questa ragione, i familiari decisero di ricorrere in appello in quanto, «per una completa ricostruzione dell’intera vicenda e della verità», andava indagato più in profondità sull’operato dell’associazione eversiva nel suo complesso. Di qui sarebbero derivate alterne vicende giudiziarie e processuali, con vere e proprie sentenze “shock” di assoluzione, tentativi di depistaggio (spesso indirizzati a sviare le indagini su piste internazionali), da cui sarebbero emerse perfino ipotesi innocentiste riguardo alle responsabilità dei Nar – sostenute in primis da coloro che sarebbero stati condannati come i responsabili del crimine[46] – che privilegerebbero la matrice mediorientale (più precisamente, palestinese) della strage. Grazie all’attività dei magistrati, però, dopo quarant’anni disponiamo di alcune sentenze definitive, che hanno in parte rimediato al vulnus rappresentato da questo lungo e accidentato iter giudiziario. Possiamo appunto affermare che, fuor di ogni dubbio, la strage è di matrice fascista. Neofascisti infatti furono gli esecutori materiali (Giuseppe Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini, e Gilberto Cavallini). Anche i depistaggi sono stati accertati e gli autori condannati: il capo della P2 Gelli, il generale del Sismi e affiliato alla P2 Pietro Musumeci, il colonnello del Sismi Giuseppe Belmonte e il collaboratore del Sismi Francesco Pazienza[47].
Le sentenze hanno in parte risposto alle aspettative di ottenere giustizia e verità – il che rappresenta una necessità vitale per la democrazia e per la sua stessa legittimazione agli occhi dei cittadini – e hanno certamente contribuito a ricostruire gli eventi e le responsabilità individuali. Tuttavia, permangono la frustrazione per esiti processuali definitivi raggiunti solamente a decenni di distanza dai fatti, un sentimento di diffidenza verso uno Stato dimostratosi incapace di garantire per anni la giustizia e rivelatosi, in alcuni suoi settori, complice dei misfatti. Non solo. Sono rimaste ancora delle zone d’ombra, delle piste da indagare e delle responsabilità da verificare. Rimane quindi una memoria controversa di questi eventi e perdurano sentimenti contrastanti nel rapporto con lo Stato di cui le contestazioni alle autorità che si sono verificate anche in tempi recenti in occasione della ricorrenza della strage rendono testimonianza. Alcuni procedimenti – che dovrebbero accertare proprio in questi mesi il coinvolgimento di altri militanti “neri” nell’esecuzione della strage e le responsabilità dirette della P2 nell’averla organizzata e finanziata – sono ancora in corso e potrebbero finalmente costituire una base per ricomporre le fratture, superare la memoria conflittuale e ripristinare un rapporto di fiducia con le istituzioni.
[1] Per i riferimenti bibliografici, cfr. G. M. Ceci, Il terrorismo italiano. Storia di un dibattito, Carocci, 2013.
[2] Cfr. G. M. Ceci, Il terrorismo italiano cit., pp. 153-163.
[3] Sulla scelta della violenza come strategia di lotta effettuata prima della strage e sull’effetto radicalizzante che essa innescò in alcuni settori dell’estrema sinistra, cfr. D. Della Porta, Il terrorismo di sinistra, il Mulino, 1990; Ordine nero, guerriglia rossa. La violenza politica nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta (1966-1975), Einaudi, 2009; G. Donato, La lotta è armata: estrema sinistra e violenza: gli anni dell'apprendistato 1969-1972, Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, 2012; A. Ventrone, Vogliamo tutto: perché due generazioni hanno creduto nella rivoluzione, 1960-1988, Laterza, 2012. Per ulteriori riferimenti bibliografici, si rinvia a G. M. Ceci, Il terrorismo italiano cit.
[4] Per una ricostruzione aggiornata e dettagliata della vicenda giudiziaria, si rinvia al recente volume di B. Tobagi, Piazza Fontana: il processo impossibile, Einaudi, 2019. Si veda anche M. Dondi, 12 dicembre 1969, Laterza, 2018.
[5] R. Minna, Il terrorismo di destra, in I terrorismi in Italia, a cura di D. della Porta, il Mulino, 1984, pp. 21-72.
[6] Cfr. F. Ferraresi, Threats to democracy: the radical right in Italy after the war, Princeton University Press, 1996, pp. 156-160.
[7] Sulla definizione, cfr. A. Ventura, I poteri occulti nella Repubblica Italiana: il problema storico, in I poteri occulti della Repubblica. Mafia, camorra, P2, stragi impunite, Atti del Convegno promosso dall’Ufficio Affari Istituzionali del Comune di Venezia, Ateneo Veneto, 10 dicembre 1983, 1984.
[8] Anna Cento Bull ha svolto alcune interviste a terroristi di destra, poi pubblicate in A. Cento Bull - P. Cooke, Ending Terrorism in Italy, Routledge, 2013; A. Cento Bull, Italian neofascism: the strategy of tension and the politics of nonreconciliation, Berghahn Books, 2007.
[9] Sulle relazioni internazionali di questi gruppi, cfr. i recenti saggi di E. Gonzàlez Calleja, Le reti di protezione del terrorismo di destra in Europa e il ruolo di Stefano Delle Chiaie e di Yves Guérin-Sérac, in Il terrorismo di destra e di sinistra in Italia e in Europa: storici e magistrati a confronto, a cura di C. Fumian - A. Ventrone, PUP, 2018, pp. 139-152; P. Picco, Solidarietà e sostegni d’Oltralpe: l’eversione di destra tra Italia e Francia tra gli anni Sessanta e gli anni ottanta, ibid., pp. 153-165. Di Picco si veda anche Liaisons dangereuses. Les extrêmes droites en France et en Italie (1960-1984), Presses Universitaires de Rennes, 2016.
[10] Cfr. F. Ferraresi, La destra eversiva, in I terrorismi in Italia, cit., pp. 233-269. Sui processi di radicalizzazione nell’estrema destra e sul rapporto fra i primi gruppi eversivi e il Msi, rinvio a G. Panvini, Ordine nero, guerriglia rossa, cit.
[11] G. Formigoni, Storia d’Italia nella guerra fredda (1943-1978), il Mulino, 2016, p. 394.
[12] Ibidem.
[13] Ibid., p. 443. A questo proposito, è stata utilizzata la definizione di «guerra non ortodossa al comunismo», messa in atto dai gruppi eversivi (e orchestrata dai loro sostenitori “istituzionali”) nel contesto della guerra fredda, cfr. A. Ventrone, La strategia della paura: eversione e stragismo nell'Italia del Novecento, Mondadori, 2019 e alcuni saggi contenuti in Il terrorismo di destra e di sinistra cit. Su questo, si veda anche M. Dondi, L’eco del boato. Storia della strategia della tensione, 1965-1974, Laterza, 2015.
[14] G. Formigoni, Storia d’Italia nella guerra fredda cit., p. 443.
[15] F. M. Biscione, I poteri occulti, la strategia della tensione e la loggia P2, in L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, Partiti e organizzazioni di massa, vol. III, a cura di F. Malgeri - L. Paggi, Rubbettino, 2003, p. 237.
[16] Sui mutamenti nel quadro politico nazionale e internazionale che accompagnarono questa svolta, cfr. G. Formigoni, Storia d’Italia nella guerra fredda cit., pp. 429-458.
[17] F. Ferraresi, La destra eversiva cit., pp. 269-270.
[18] Ibid., p. 270.
[19] F. Ferraresi, Threats to democracy cit., p. 145.
[20] F. Ferraresi, La destra eversiva cit., pp. 269-270.
[21] F. Ferraresi, Threats to democracy cit., p. 154.
[22] F. Ferraresi, La destra eversiva cit., pp. 277-278.
[23] F. Ferraresi, Threats to democracy cit., pp. 157-159.
[24] F. Ferraresi, La destra eversiva cit., pp. 285-286.
[25] F. Ferraresi, Threats to democracy cit., p. 159.
[26] Ibid., pp. 163-179.
[27] S. Pons, La bipolarità italiana e la fine della guerra fredda, in L’Italia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi. Fine della guerra fredda e globalizzazione, a cura di S. Pons - A. Roccucci - F. Romero, Carocci, 2014, p. 35-36. Cfr. anche Gli anni Ottanta come storia, a cura di S. Colarizi - P. Craveri - G. Quagliarello - S. Pons, Rubbettino, 2004, p. 7.
[28] Cfr. P. Craveri, Dopo l’«unità nazionale» la crisi del sistema dei partiti, in Gli anni Ottanta come storia cit., p. 14.
[29] Su questa fase, cfr. anche A. Giovagnoli, La Repubblica degli italiani 1946-2016, Laterza, 2016, pp. 90-101, 124-132. Sulla risposta dello Stato al terrorismo in questa fase, mi permetto di rinviare a C. Zampieri, Alla prova del terrorismo: la legislazione dell’emergenza e il dibattito politico italiano (1978-1982), Tesi di dottorato, Università degli Studi Roma Tre, a.a. 2016-2017.
[30] L. Weinberg, W. L. Eubank, The Rise and Fall of Italian Terrorism, Westview Press, 1987, p. 48.
[31] G. M. Ceci, La CIA e il terrorismo italiano. Dalla strage di piazza Fontana agli anni Ottanta (1969-1986), Carocci, 2019, p. 93.
[32] F. Ferraresi, Threats to democracy cit., pp. 177-178.
[33] G. M. Ceci, La CIA e il terrorismo italiano cit., p. 136.
[34] L. Grassi, Evoluzione delle strategie stragiste in particolare nel periodo 1974-1980, in Il terrorismo di destra e di sinistra cit., pp. 283-284. Grassi ha pubblicato recentemente anche un volume sulle vicende processuali, cfr. L. Grassi, La strage alla stazione in quaranta brevi capitoli, Clueb, 2020. Ulteriori ipotesi interpretative della strage sono state formulate da altri magistrati e osservatori, cfr. P. Calogero, Magistratura, servizi segreti e terrorismi di destra e sinistra. Le responsabilità dello Stato, in Il terrorismo di destra e di sinistra cit., p. 71; A. Cento Bull, Italian Neofascism cit., pp. 62-79.
[35] Su questa fase, cfr. G. Formigoni, Storia d’Italia nella guerra fredda cit., pp. 447-521.
[36] F. M. Biscione, I poteri occulti cit., pp. 248-249.
[37] Ibid., pp. 250-251.
[38] Ibid., pp. 258-259.
[39] F. Ferraresi, Threats to democracy cit., p. 179.
[40] A. L. Tota, La città ferita. Memoria e comunicazione pubblica della strage di Bologna, 2 agosto 1980, il Mulino, 2009, pp. 53 ss.
[41] G. Turnaturi, Associati per amore: l'etica degli affetti e delle relazioni quotidiane, Feltrinelli, 1991, p. 2.
[42] Ibid., p.3.
[43] Ibid., p. 5.
[44] A. L. Tota, La città ferita cit., p. 215. Sul tema della memoria, cfr. anche Ead. I non luoghi della commemorazione: la stazione di Bologna (1980-2000), in La memoria contesa. Studi sulla comunicazione sociale del passato, a cura di A. L. Tota, FrancoAngeli, 2001; ead., A Persistent Past: The bologna Massacre (1980-2000), in Disastro! Disasters in Italy since 1860: Culture, Politics, Society, a cura di J. Dickie, J. Foot, F. M. Snowden, Palgrave, 2002, pp. 256-280; il recente volume di C. Venturoli, Storia di una bomba. Bologna 2 agosto 1980: la strage, i processi, la memoria, Castelvecchi, 2020.
[45] A. L. Tota, La città ferita cit., p. 19.
[46] Come di recente ha notato Anna Cento Bull, Giuseppe Valerio Fioravanti e Francesca Mambro hanno sempre strenuamente sostenuto la loro estraneità al coinvolgimento nella strage e hanno guadagnato anche una certa credibilità in alcuni settori politici e fra esperti e studiosi di vario orientamento. Su questo e sulle loro testimonianze, si veda A. Cento Bull, Italian Neofascism cit., p. 145 ss.
[47] Sulle vicende processuali, segnalo in particolare la recente pubblicazione di L. Grassi, La strage alla stazione in quaranta brevi capitoli, Clueb, 2020.
Il draft di regolamento europeo sull’intelligenza artificiale
di Antonello Soro*
La proposta di Regolamento europeo per l’intelligenza artificiale interviene in uno scenario di grandi cambiamenti economici, sociali, geopolitici in larga misura connessi con lo sviluppo delle tecnologie digitali.
La rapida evoluzione dei sistemi di intelligenza artificiale - come si afferma nel Considerando 1 - ottimizzando le operazioni e l’allocazione delle risorse e personalizzando la fornitura di servizi, supporta il raggiungimento di risultati vantaggiosi, sia dal punto di vista sociale che da quello ambientale, in ogni settore dell’economia.
L’assunzione di lavoratori, la determinazione dell’affidabilità per un prestito, la valutazione della capacità di un insegnante, persino il rating di legalità ai fini dell’aggiudicazione degli appalti sono sempre meno il frutto di una scelta umana e sempre più l’esito di selezioni algoritmiche, alle quali deleghiamo, quasi fideisticamente, il compito di decidere aspetti determinanti della vita delle persone.
Con l’intelligenza artificiale, la tecnica è divenuta un “fatto sociale totale”, essenzialmente perché da protesica si è resa mimetica, capace cioè di replicare, fino a sostituire, gli aspetti più qualificanti dell’uomo come la razionalità, marginalizzando, in molte circostanze, il contributo umano nel processo decisionale.
La capacità di autonomizzazione della macchina rispetto all’uomo che l’ha progettata richiama l’idea dell’automa che si emancipa dal suo creatore, evocativa di quell’ambivalenza attribuita alla macchina dal pensiero greco: tanto strumento quanto inganno.
Tra gli inganni di cui, assieme agli indiscutibili benefici, l’intelligenza artificiale può farsi portatrice vi è quello dei pregiudizi o delle inesattezze, tali da compromettere la neutralità degli stessi processi decisionali.
La delega quasi fideistica agli “oracoli digitali”, dai quali ci si attende quell’obiettività che le “troppo umane” decisioni tradizionali non assicurerebbero, finisce con l’oscurarne i rischi di discriminazioni, anche etniche, che replicano in una sorta di fisiognomica computazionale pregiudizi, a volte, addirittura lombrosiani.
In questa cornice si dispiega la competizione per la leadership tra Cina e Stati uniti, rispetto alla quale l’Europa ha accumulato un ritardo non banale.
Per invertire questa tendenza, l’Unione europea ha l’ambizione di proporsi- a livello globale- come punto di riferimento per una disciplina organica della società digitale, compensando quel ritardo con posizioni di avanguardia sul piano regolatorio.
Proprio su questo punto, con il Gdpr e la direttiva 680, già nel 2016 l’Europa aveva sancito il primo limite, anzitutto valoriale, all’intelligenza artificiale, oltre il quale non si deve fare tutto ciò che è possibile fare.
Il divieto di discriminazione, unitamente al diritto alla spiegazione e alla revisione umana della decisione automatizzata, ha rappresentato (e continuerà a rappresentare, almeno fino all’approvazione delle prossime norme) il presupposto per non rendere talmente regressivo da apparire distopico, quello che invece dovrebbe rappresentare uno strumento di progresso sociale.
Questi principi essenziali sono sviluppati ulteriormente nella proposta della Commissione, che sottende una scelta importante, dal punto di vista non solo normativo ma anche e soprattutto politico, valoriale e identitario.
Esso, soprattutto se inscritto all’interno della più ampia politica del digitale portata avanti dalla Commissione assume il valore di una scelta di campo: quella di ridisegnare i confini del tecnicamente possibile alla luce di ciò che è giuridicamente ed eticamente accettabile, di temperare l’algocrazia con l’algoretica.
Significativa, in questo senso, la dichiarazione della vice-presidente Vestager, volta a sottolineare come la proposta di Regolamento coniughi l’aspirazione a una “tecnologia etica” con esigenze di sviluppo e competitività dell’Europa.
Il vantaggio competitivo cui la Commissione mira con questa disciplina è essenzialmente quello di promuovere ed esportare un modello tecnologico all’avanguardia soprattutto in termini di sicurezza ed esattezza del processo algoritmico, utilizzando dati privi di errori sistemici ai fini dell’addestramento degli algoritmi e con un costante monitoraggio della loro applicazione anche successivamente all’immissione nel mercato.
Si tratta di una previsione importante, che coglie uno degli aspetti trasformativi dell’intelligenza artificiale: il suo intrinseco dinamismo e la capacità di molti sistemi di sviluppare un apprendimento, almeno in parte autonomo, rispetto a quello progettato.
Per questo tipo di programmi, la valutazione di conformità prevista dal Regolamento dovrà essere progressiva e costante, adeguando l’analisi di impatto e compliance all’evoluzione delle nuove funzionalità “apprese” e sviluppate dal software.
Le garanzie e i limiti previsti mirano, del resto, a promuovere quella fiducia nell’innovazione evocata più volte nei considerando, senza la quale quest’ultima sarà vissuta come un processo imposto, dalla cui opacità rifuggire, anziché come una straordinaria opportunità di progresso sociale.
Si consolida così, anche in termini geopolitici, la specificità europea nell’approccio alle nuove tecnologie già emersa con il Gdpr: un’alternativa tanto al liberismo quasi anomico americano quanto al dirigismo e autoritarismo digitale cinese, fondato sull’alleanza tra potenza di calcolo e coercizione.
La stessa idea di sovranità digitale sottesa al progetto del cloud europeo, tutt’altro che un sovranismo antagonista, esprime un’esigenza di emancipazione del proprio sviluppo tecnologico dalla dipendenza costante da altri ordinamenti, fondati su scale di valori diverse che, inevitabilmente, innervano anche la tecnica, condizionandone l’uso.
Scegliendo di normare per prima una materia destinata a segnare come poche altre il futuro delle democrazie, l’Europa accosta all’idea di un’egemonia soltanto commerciale nel dominio della tecnica quella di un’egemonia valoriale, tale da imprimere al progresso una direzione antropocentrica.
Si riafferma così quella radice personalista espressa dal preambolo della Carta di Nizza con l’enunciazione della persona come centro dell’azione dell’Unione e dall’inviolabilità della dignità, la cui previsione apre il catalogo dei diritti, ritessendone la trama.
La proposta di Regolamento sottende scelte importanti.
Da un lato, infatti, rileva la scelta in favore della regolazione, che marca la distanza dall’approccio americano, ove a norme cogenti spesso si preferisce la soft law delle linee guida.
La scelta europea di introdurre un apparato normativo articolato è tanto più rilevante in un contesto, quale quello in esame, in cui la tendenza all’anomia -barattata per libertà d’iniziativa economica- finisce per relegare alla legge del mercato la definizione del perimetro di diritti e libertà, determinando non eguaglianza ma subalternità all’imperativo del profitto.
Quest’idea di fondo accomuna tutta la politica europea del digitale, a partire dal Gdpr sino alle più recenti proposte di Data Governance, Digital Services e Digital Markets Act.
E non è un caso che per tutti questi atti si sia scelta (come anche appunto per l’intelligenza artificiale) la fonte regolamentare, che si consolida sempre più come la forma tipica della disciplina europea del digitale, realizzando quella vocazione unitaria (“one continent, one law”) in cui si esprimono scelte normative cui l’Europa ascrive valenza identitaria.
In questo la politica dell’Ue, dalla protezione dati all’intelligenza artificiale, passando per la disciplina delle piattaforme, sottende l’aspirazione a fare della civiltà digitale un nuovo umanesimo, un fattore di progresso sociale attorno a cui rivitalizzare la stessa idea della cittadinanza europea e dell’Unione come “Comunità di diritto”.
Sembra, insomma, che attorno al rapporto tra uomo e macchine, diritto e tecnica, possa fondarsi un nuovo Manifesto di Ventotene, declinando in forme nuove quella dialettica tra libertà e solidarietà sociale attorno a cui si è costruito il progetto europeo.
Oggetto della disciplina sono:
- regole trasversali per l’immissione nel mercato e l’uso di sistemi di intelligenza artificiale;
- divieto del ricorso a determinati usi della stessa;
- requisiti specifici per i sistemi ad alto rischio;
- obblighi di trasparenza per forme d’intelligenza artificiale progettate per interagire con le persone, sistemi di rilevazione delle emozioni e di categorizzazione biometrica, ovvero volti a manipolare immagini o contenuti audio o video (come per il deep fake), dovendo l’utente essere avvertito del fatto che sta relazionandosi con un robot; e ancora
- obblighi di monitoraggio successivi all’immissione in mercato e misure di sorveglianza.
Dai limiti di applicazione del diritto dell’Unione derivano, poi, le conseguenti (ma tutt’altro che irrilevanti) esclusioni dell’ambito applicativo del Regolamento, che interessano i sistemi d’intelligenza artificiale progettati o utilizzati esclusivamente a fini militari (esclusione espressa), è da ritenere, a soli fini di sicurezza nazionale, essendo questa materia sottratta al diritto europeo, con un’esenzione che oggi mostra però sempre più i suoi limiti.
Non si tratta, infatti, di esclusioni marginali, in quanto in questi ambiti - come ha sottolineato lo stesso Parlamento europeo nelle recenti Linee guida - l’intelligenza artificiale incontra sviluppi importanti e potenzialmente pericolosi, rispetto ai quali dunque spetta al legislatore nazionale intervenire.
Tuttavia, è da ritenere che nel caso di sistemi dual use, il Regolamento si applichi almeno al segmento di utilizzo a fini civili.
È poi rimesso a un separato atto regolamentare, ancora non presentato, lo statuto della responsabilità civile, modulato in termini di responsabilità oggettiva per i sistemi presuntivamente ritenuti ad alto rischio e di responsabilità aggravata (per colpa presunta), sul modello delineato dal Gdpr.
Dalla disciplina di protezione dati (che ha rappresentato in un certo senso l’avanguardia nella regolazione del digitale) si mutuano, del resto, altri istituti importanti:
- l’approccio fondato sul rischio con i correlativi, proporzionali adempimenti;
- gli obblighi di trasparenza verso gli utenti;
- l’articolazione del sistema sanzionatorio con cornici edittali riferite al fatturato in modo da esercitare maggiore deterrenza;
- l’ambito oggettivo di applicazione modulato sul criterio del “targeting” e dunque della localizzazione dei destinatari dell’offerta produttiva, così da determinare un’indiretta extraterritorialità della normativa;
- le certificazioni e i codici di condotta quali espressione di co-regolazione e sussidiarietà orizzontale, volti a promuovere la compliance come fattore reputazionale e dunque di vantaggio competitivo;
- l’obbligo di comunicazione degli “incidenti” suscettibili di determinare pregiudizi a terzi;
- alcune soluzioni ordinamentali quale quella della cooperazione decentralizzata tra autorità nazionali all’interno del Comitato europeo per l’intelligenza artificiale, cui partecipa anche il Garante europeo per la protezione dati.
L’architettura regolatoria si fonda su una definizione dell’intelligenza artificiale tecnologicamente neutra e su una distinzione dei relativi sistemi sulla base della loro rischiosità.
In primo luogo, si vietano i sistemi idonei a determinare discriminazioni o forme di sorveglianza inaccettabili.
I sistemi presuntivamente ritenuti ad alto rischio per caratteristiche intrinseche (o per usi in contesti cruciali quali la gestione d’infrastrutture critiche, istruzione, occupazione, servizi pubblici essenziali, controllo delle frontiere, amministrazione della giustizia, attività di contrasto) sono assoggettati a un articolato apparato di vincoli e cautele ex ante ed ex post che responsabilizza, in misura proporzionale, i vari soggetti coinvolti nella filiera produttiva (un efficace sistema di gestione del rischio, oneri probatori funzionali al principio di responsabilizzazione, valutazione di conformità modulata su standard di riferimento e certificazioni, garanzie di supervisione umana).
Vi sono poi i sistemi d’intelligenza artificiale soggetti ad obblighi di trasparenza peculiari in ragione della loro incidenza sulla persona e, soprattutto, sul processo motivazionale e cognitivo.
Infine, i sistemi a rischio basso o minimo, sono sottratti al reticolato di vincoli più puntuali su descritto in ragione della sostanziale irrilevanza del pericolo stimato nel loro uso.
Rileva anche, quale misura di promozione dell’innovazione, la disciplina di sandboxes regolamentari, volte a consentire lo sviluppo di servizi d’intelligenza artificiale con la supervisione delle autorità competenti, così da favorire la conformità normativa di soluzioni in certa misura sperimentali.
Particolarmente rilevanti sono i divieti, che concorrono a definire il limite esterno dell’intelligenza artificiale eticamente e socialmente sostenibile, riaffermando l’intangibilità dei diritti fondamentali, dell’eguaglianza e della dignità rispetto alle nuove subalternità indotte dalla tecnica.
Si vieta quindi il ricorso a sistemi che sviluppino tecniche subliminali idonee a condizionare il comportamento altrui o che sfruttino le vulnerabilità di gruppi sociali, nonché a sistemi di social scoring fondati sul monitoraggio delle condotte individuali.
Si tratta di una previsione rilevante in termini valoriali e che non soltanto marca la differenza del modello europeo rispetto a quello cinese, ma che ammonisce anche rispetto a quelle tendenze, presenti in molti Paesi dell’Unione, a utilizzare, per l’erogazione di prestazioni di welfare e il controllo sulla legittimità della loro assegnazione, algoritmi suscettibili di determinare una profilazione su base censitaria della popolazione, dagli effetti potenzialmente discriminatori.
In Olanda - ad esempio - si è utilizzato un sistema di verifica antifrode (SyRI) ritenuto illegittimo dalle corti interne e definito strumento al servizio dello “Stato di sorveglianza per i poveri” dall’alto rappresentante Onu per i diritti umani, in quanto idoneo a colpire, con un monitoraggio socialmente selettivo, proprio le frange deboli della popolazione.
Particolare rilievo assume poi, nella proposta, il divieto di ricorso per finalità di contrasto a sistemi d’identificazione biometrica, in tempo reale, salva l’indispensabilità per esigenze pubblicistiche imperative.
Questo criterio di residualità, conforme peraltro alla posizione espressa dal Consiglio d’Europa, ha orientato la decisione del Garante nel parere negativo sul sistema Sari real time e, per altro verso, la recente pdl Sensi sulla moratoria dell’uso di tali tecniche.
È auspicabile che questa facoltà venga esercitata con assoluto rigore, pena una sostanziale elusione del divieto di ricorso a sistemi d’intelligenza artificiale, il cui rischio è ritenuto inaccettabile per il sistema di valori proprio dell’ordinamento europeo.
Le deroghe al divieto, previste dal testo del regolamento, devono infatti essere intese conformemente a quel bilanciamento tra libertà e sicurezza attorno a cui la giurisprudenza della Cgue ha affermato la centralità della privacy per l’identità costituzionale europea.
Soltanto nell’ultimo anno, con tre pronunce (Schrems II, Privacy international e quella del 2 marzo sulla data retention) la Corte ha fatto delle garanzie accordate alla privacy rispetto alle esigenze investigative il fulcro del rapporto tra libertà e sicurezza, declinandolo non in chiave antagonista ma sinergica, secondo quel binomio sancito dall’art. 6 della Carta di Nizza.
Ecco, dunque, che sul terreno dell’intelligenza artificiale e della sua regolazione si gioca una partita cruciale per il futuro dello Stato di diritto in ogni suo aspetto, per impedire che la tecnologia, con un’eterogenesi dei fini, divenga il nuovo Leviatano da cui il processo democratico aveva affrancato il cittadino.
La democrazia può dirsi ancora tale finché siamo noi a creare gli algoritmi e non gli algoritmi a creare noi, anticipando e indirizzando desideri, esigenze, paure.
Fin quando, dunque, la tecnica resti ancora al servizio dell’uomo, essa potrà dirsi alleata e non antagonista della democrazia.
Il Regolamento sull’intelligenza artificiale può essere davvero un passo molto importante nella direzione del “principio di responsabilità” (più ampio della sola idea di responsabilizzazione) che deve ispirare il rapporto tra uomo e tecnica.
Il percorso è ancora lungo e l’esito non è scontato, ma abbiamo il dovere di essere ottimisti.
*già Presidente del Garante per la protezione dei dati personali
I tabulati: un difficile equilibrio tra esigenze di accertamento e tutela di diritti fondamentali.
di Giorgio Spangher
1. La Corte di Giustizia è stata chiamata a pronunciarsi a seguito di un rinvio pregiudiziale della Corte Suprema dell’Estonia, relativamente all’interpretazione dell’art. 15.
La domanda di pronuncia pregiudiziale ha riguardato l’interpretazione dell’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 luglio 2002, relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche (direttiva relativa alla vita privata e alle comunicazioni elettroniche) (GU 2002, L 201, pag. 37), come modificata dalla direttiva 2009/136/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 novembre 2009 (GU 2009, L 337, pag. 11) (in prosieguo: la «direttiva 2002/58»), letto alla luce degli articoli 7, 8 e 11 nonché dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»).
In particolare le questioni pregiudiziali riguardavano:
- Se l’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva [2002/58] debba essere interpretato, alla luce degli articoli 7, 8, 11 e 52, paragrafo 1, della [Carta], nel senso che, in un procedimento penale, l’accesso di autorità nazionali a dati che consentano di rintracciare e identificare la fonte e la destinazione di una comunicazione telefonica a partire dal telefono fisso o mobile del sospettato, di determinare la data, l’ora, la durata e la natura di tale comunicazione, di identificare le apparecchiature di comunicazione utilizzate, nonché di localizzare il materiale di comunicazione mobile utilizzato, costituisce un’ingerenza nei diritti fondamentali sanciti dai suddetti articoli della Carta di gravità tale che detto accesso debba essere limitato, nel contesto della prevenzione, della ricerca, dell’accertamento e del perseguimento dei reati, alla lotta contro le forme gravi di criminalità, indipendentemente dal periodo al quale si riferiscono i dati conservati cui le autorità nazionali hanno accesso.
- Se l’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva [2002/58] debba essere interpretato, sulla scorta del principio di proporzionalità enunciato nella [sentenza del 2 ottobre 2018, Ministerio Fiscal (C‑207/16, EU:C:2018:788)], punti da 55 a 57, nel senso che, qualora la quantità dei dati menzionati nella prima questione, ai quali le autorità nazionali hanno accesso, non sia grande (sia per il tipo di dati che per la loro estensione nel tempo), la conseguente ingerenza nei diritti fondamentali può essere giustificata, in generale, dall’obiettivo della prevenzione, della ricerca, dell’accertamento e del perseguimento dei reati, e che quanto più notevole è la quantità di dati cui le autorità nazionali hanno accesso, tanto più gravi devono essere i reati perseguiti mediante tale ingerenza.
- Se il requisito indicato nel secondo punto del dispositivo della [sentenza del 21 dicembre 2016, Tele2 (C‑203/15 e C‑698/15, EU:C:2016:970)], secondo cui l’accesso ai dati da parte delle autorità nazionali competenti dev’essere soggetto ad un controllo preventivo da parte di un giudice o di un’autorità amministrativa indipendente, implichi che l’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva [2002/58] deve essere interpretato nel senso che può considerarsi come un’autorità amministrativa indipendente il pubblico ministero, il quale dirige il procedimento istruttorio e che, per legge, è tenuto ad agire in modo indipendente, restando soggetto soltanto alla legge e verificando, nell’ambito del procedimento istruttorio, sia gli elementi a carico sia quelli a discarico relativi all’indagato, ma che successivamente, nel procedimento giudiziario, rappresenta la pubblica accusa».
Su tali quesiti la Corte (Grande Sezione) con la sentenza del 2 marzo ha dichiarato:
a) l’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 luglio 2002, relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche (direttiva relativa alla vita privata e alle comunicazioni elettroniche), come modificata dalla direttiva 2009/136/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 novembre 2009, letto alla luce degli articoli 7, 8 e 11 nonché dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale, la quale consenta l’accesso di autorità pubbliche ad un insieme di dati relativi al traffico o di dati relativi all’ubicazione, idonei a fornire informazioni sulle comunicazioni effettuate da un utente di un mezzo di comunicazione elettronica o sull’ubicazione delle apparecchiature terminali da costui utilizzate e a permettere di trarre precise conclusioni sulla sua vita privata, per finalità di prevenzione, ricerca, accertamento e perseguimento di reati, senza che tale accesso sia circoscritto a procedure aventi per scopo la lotta contro le forme gravi di criminalità o la prevenzione di gravi minacce alla sicurezza pubblica, e ciò indipendentemente dalla durata del periodo per il quale l’accesso ai dati suddetti viene richiesto, nonché dalla quantità o dalla natura dei dati disponibili per tale periodo.
b) l’articolo 15, paragrafo 1, della direttiva 2002/58, come modificata dalla direttiva 2009/136, letto alla luce degli articoli 7, 8 e 11 nonché dell’articolo 52, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali, deve essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale, la quale renda il pubblico ministero, il cui compito è di dirigere il procedimento istruttorio penale e di esercitare, eventualmente, l’azione penale in un successivo procedimento, competente ad autorizzare l’accesso di un’autorità pubblica ai dati relativi al traffico e ai dati relativi all’ubicazione ai fini di un’istruttoria penale.
2. La sentenza ha da subito prospettato alcune questioni interpretative e applicative a vasto raggio - al di là delle possibili ricadute (di più lungo periodo) di natura più strettamente ordinamentali, legate alla posizione istituzionale ed al ruolo del pubblico ministero - considerando le differenti modalità con le quali nel nostro sistema processuale vengono acquisiti i tabulati delle comunicazioni. Com’è noto, ai sensi dell’art. 132, comma 3, d. lgs. n. 196 del 2003, l’acquisizione può essere disposta dal pubblico ministero. Del resto, modificando un primo orientamento (Cass. Sez. un. 13.7.1998, Gallieri), il Supremo Collegio riunito, nel giro di soli due anni, aveva conferito la legittimazione al p.m. (Cass. Sez. un. 23.2.2000, D’Amuri e 21.6.2000, Tammaro).
Una immediata risposta, di natura “politica”, è stata assunta dal Parlamento con l’approvazione di un ordine del giorno che impegna il Governo ad adeguare la normativa italiana alle disposizioni di cui all’art. 15, par. 1, della direttiva 2002/58/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 luglio 2002, relativa al trattamento dei dati personali e alla tutela della vita privata nel settore delle comunicazioni elettroniche (direttiva relativa alla vita privata e alle comunicazioni elettroniche), come modificata dalla direttiva 2009/136/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 novembre 2009, conformemente all’interpretazione datane dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea quanto alle condizioni soggettive e oggettive di applicabilità, apportando le opportune modifiche al codice di procedura penale e al Codice in materia di protezione dei dati personali di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, prevedendo, tra l’altro, che l’accesso del pubblico ministero ai dati sia subordinato all’autorizzazione del giudice.
3. Restano aperte, con esiti contrastanti, le questioni applicative, legate, in primo luogo, alla possibile immediata operatività della decisione. La soluzione potrebbe avere significative conseguenze sull’utilizzabilità delle acquisizioni effettuate in deroga alle indicazioni della Corte di Giustizia.
Per un verso, ricollegandosi a quanto previsto dagli artt. 258, 267, 280 e 299 TFUE si dovrebbe sostenere che la sua applicazione potrebbe conseguire solo da una previsione normativa che definisca tutti i profili applicativi. Sotto questo aspetto, dovrebbe ritenersi necessario un intervento legislativo, oppure una decisione della Corte costituzionale, adeguatamente investita ex art. 117 Cost.
Non andrebbe neppure esclusa una sentenza del Supremo Collegio riunito che adegui la sua interpretazione alla mutata sensibilità della materia come emergente dalla decisione della Corte di Giustizia.
Per un altro verso, si ritiene che la disposizione, sotto il profilo della legittimazione potrebbe essere operativa da subito, essendo compiutamente definito il suo raggio di applicazione.
Invero, la Corte di legittimità ha più volte ribadito che l’interpretazione offerta dalla Corte di Giustizia, interprete qualificata del diritto UE, ha efficacia ultra partes, sicché alle sentenze dalla stessa rese, sia pregiudiziali sia emesse in sede di verifica della validità di una disposizione UE, va attribuito “il valore di ulteriore fonte del diritto comunitario, non nel senso che esse creino ex novo norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia erga omnes nell’ambito della Comunità” (cfr. Cass. n. 22577 del 2012 e giurisprudenza ivi richiamata). E’ stato, altresì, ribadito che, “Poiché ai sensi dell’art. 64 del Trattato spetta alla Corte di giustizia assicurare il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione del medesimo trattato, se ne deve dedurre che qualsiasi sentenza che applica e/o interpreta una norma comunitaria ha indubbiamente carattere di sentenza dichiarativa del diritto comunitario, nel senso che la Corte di Giustizia, come interprete qualificato di questo diritto, ne precisa autoritariamente il significato con le proprie sentenze e per tal via, nel determina, in definitiva, l’ampiezza e il contenuto delle possibilità applicative” (Cass. civ. sez. lavoro ud. 7.3.2019 – 17.5.209, n. 13425).
A tale proposito va sottolineato che, richiesto dal p.m. di essere autorizzato all’acquisizione di “dati relativi il traffico telefonico completo dalle memorie analiticamente indicate nella richiesta, in entrata e in uscita”, il gip di Roma ne ha autorizzato l’acquisizione, richiamando alcune decisione della Corte costituzionale (C. cost. n. 170 del 1984; C. cost. n. 113 del 1985; C. cost. n. 168 del 1991).
4. Il punto centrale resta quello legato alla legittimazione ad autorizzare l’acquisizione dei tabulati.
Le connotazioni del pubblico ministero, al di là di quanto possa derivare dalla disciplina dell’Estonia, consente di escludere che, pur nella (possibile) funzione di garanzia, connessa alla raccolta di indagini a favore dell’imputato, il ruolo di “parte” del p.m. contrapposta a quella dell’imputato possa connotarlo di quegli elementi idonei ad incidere su diritti fondamentali dell’imputato, in quanto persona, cioè, in quanto soggetto connotato di una sfera di garanzie particolari ed incomprimibili.
Non potrebbe, peraltro, potersi far riferimento – al di là di ogni altra considerazione – ad un'altra autorità che non sia, nel nostro sistema, quella del giudice. La riserva di giurisdizione, a fronte di diritti a copertura costituzionale, non appare superabile.
Come anticipato, l’ordine del giorno è preciso al riguardo, in linea con la decisione della Corte di Giustizia (sono così superate le contrarie affermazioni di Cass. 10.12.2019, n. 5741; Cass. 24.4.2018, n. 33851; in relazione a Corte di Giustizia 8 aprile 2014 Digital Rights Ireland e 21 dicembre 2016 Tele2 Svezia, richiamate dal gip di Roma).
Si è prospettata la possibilità che in presenza di ragioni di urgenza il provvedimento venga disposto dal pubblico ministero.
Il dato, prospettato dai primi interpreti, trova riscontro in un passaggio nella motivazione della sentenza della Corte di Giustizia. Va, tuttavia, ribadito con forza che la regola della legittimazione deve riguardare il giudice e che l’intervento d’urgenza del p.m. possa costituire solo l’eccezione.
Residuerebbero da definire le questioni “soggettive” ed “oggettive” alle quali si è accennato ed alle quali fa riferimento anche il citato ordine del giorno, che dovrebbero essere di competenza del solo legislatore.
Sotto il primo aspetto, infatti, a differenza di quanto previsto per le intercettazioni telefoniche, stante la natura degli atti in questione, appare necessario che il provvedimento autorizzativo contenga un preciso collegamento tra i reati di cui al procedimento ed il soggetto ai quali i dati si riferiscono.
Sotto il profilo oggettivo, oltre alla indicazione delle finalità investigative, per le quali la conoscenza di quegli atti risulta necessaria, dovranno essere indicati l’arco temporale, i luoghi e i mezzi ai quali i dati si riferiscono.
Sempre sotto questo profilo, in linea con l’indicazione esplicita della Corte di Giustizia – “la lotta contro le forme gravi di criminalità o la prevenzione di gravi minacce alla sicurezza pubblica – risulta necessario precisare quali sono i reati in ordine ai quali l’attività de qua è consentita.
Una prima ipotesi alla quale si è ipotizzato di fare riferimento è quella di rimandare alle indicazioni delittuose di cui all’art. 266 c.p.p., relativamente, cioè, ai reati per i quali sono consentite le intercettazioni telefoniche. In tal senso si è espresso da ultimo nel citato provvedimento il gip di Roma, ritenendo che
Non può escludersi, tuttavia, per un verso, la possibilità di esclusioni e, per un altro, di qualche ampliamento.
Non può pertanto condividersi Cass. 25.9.2019, n. 48737, che in relazione a Corte di Giustizia 2.10.2018 in causa c. 207/16 ha ritenuto non rilevante la mancata indicazione da parte del legislatore del catalogo dei reati che consentono l’acquisizione dei tabulati.
Questo dato rischia di avere ricadute negative sull’operatività immediata della sentenza europea anche in presenza di una richiesta di autorizzazione del p.m. al gip che peraltro potrebbe ritenere il reato comunque di particolare gravità e quindi pronunciarsi favorevolmente.
5. Le considerazioni svolte fanno emergere gli ampi spazi che si dischiudono all’iniziativa del legislatore nel ricostruire i dettagli operativi delle direttrici tracciate dalla decisione della Corte di Giustizia.
Oggetto di un confronto tra le forze politiche, che non si presenta agevole, e dalle prospettazioni, peraltro già emerse, dagli uffici di procura, sarà necessario trovare - ancora una volta, come ormai in modo sempre più accentuato – il punto di equilibrio, di bilanciamento, tra le esigenze di tutela dei diritti individuali e quelle tese all’accertamento ed alla prevenzione dei reati, considerati in modo proporzionato alla loro gravità.
Tuttavia, sarebbe auspicabile che il legislatore agisca tempestivamente, prima che sia la giurisdizione a definire gli ambiti di operatività del tema dei tabulati.
Paesaggio, ambiente e transizione ecologica
di Paolo Carpentieri, Consigliere di Stato
Sommario: 1. Premessa. 2. Le ragioni profonde (culturali e giuridico-ordinamentali) della distinzione tra “ambiente” e “paesaggio”. 3. Le radici storiche della nozione giuridica di “paesaggio”. 4. Le radici storiche della nozione giuridica di “ambiente”. 5. I punti essenziali della distinzione. 6. Tracce nella giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di giustizia dell’Unione europea. 7. Unificazione o differenziazione delle competenze. 8. Decarbonizzazione e paesaggio. 9. Conclusioni.
Abstract
Sulla premessa della ancora valida – ma non da tutti condivisa – distinzione giuridica tra “ambiente” e “paesaggio”, lo scritto si domanda se l’idea della “transizione ecologica” (oggi inveratasi nella trasformazione del Ministero dell’ambiente, già “dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare”, in, per l’appunto, “Ministero della transizione ecologica”) non rischi di “fagocitare”, nell’inseguimento di chimerici obiettivi su scala “globale” di lotta ai gas climalteranti, la funzione (naturalmente “locale”) di tutela del paesaggio, presa nella trappola logica del “pensare globale – agire locale” (lo slogan degli ambientalisti industriali), in forza della quale si sacrifica quied ora, concretamente e attualmente, la bellezza dei paesaggi italiani, in nome di una speranza di riduzione su scala globale - eventuale, indiretta, futura e incerta - dei gas ad effetto serra, e dietro la quale agiscono in realtà molto concreti e potenti interessi economici locali delle imprese del settore (finanziati con lauti incentivi statali, a carico della finanza pubblica e delle bollette dei consumatori).
La conclusione è che – ferma restando l’urgenza della lotta al mutamento climatico, la condivisibilità dell’idea dell’economia circolare[1], etc. – sarebbe auspicabile evitare che questa transizione ecologica finisca per tradursi in un ulteriore pregiudizio per la qualità dei paesaggi italiani e in un ulteriore depauperamento delle risorse ecosistemiche (e non solo alimentari) dell’agricoltura.
***
1. Premessa.
Il Green Deal europeo e l'avvio della transizione ecologica, sotto la spinta soprattutto del diritto dell’Unione europea, con la creazione, nel nostro Paese, del nuovo Ministero della transizione ecologica, chiamato a svolgere un ruolo cardine nel piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), riattualizza la distinzione tra “ambiente” e “paesaggio” e, lungi dal ricucire e ricomporre, allarga il contrasto che oggettivamente divide questo due campi di materia, che esprimono visioni delle cose molto diverse, anche se a tratti complementari.
Vale la pena, dunque, tornare con alcune brevi annotazioni su questo tema, per indagare le ragioni profonde di questa distinzione e per derivarne alcune considerazioni di più attuale interesse.
2. Le ragioni profonde (culturali e giuridico-ordinamentali) della distinzione tra “ambiente” e “paesaggio”.
L’autonomia della nozione giuridica di “paesaggio” rispetto a quella di “ambiente”, dopo la Convenzione europea del paesaggio di Firenze del 2000 e dopo il codice di settore del 2004, non richiede (forse) di essere riaffermata, né qui illustrata[2].
Tale autonomia, se può dirsi sostanzialmente acquisita sul piano dogmatico-ricostruttivo, non è tuttavia condivisa e unanimemente accettata sul piano delle conseguenze ordinamentali del quadro distributivo delle competenze.
Essa, inoltre, non è compresa (e viene spesso criticata) dalle professioni non giuridiche che si occupano di territorio, di urbanistica, di paesaggio, che oppongono alle distinzioni giuridiche la comprensione olistica del territorio nelle sue varie componenti e nei suoi diversi aspetti e interessi, che (a loro dire) non possono essere compresi e gestiti se non in modo unitario.
Sennonché è proprio del diritto e della logica giuridica distinguere e separare (de-cidere). Nel diritto il concetto segue il regime giuridico, mentre nelle altre scienze sociali il concetto è frutto della sintesi, che segue l’analisi. In tanto si può introdurre un concetto autonomo, nel diritto, in quanto vi sia un regime giuridico unitario ed omogeneo che ne giustifichi la posizione. Nelle altre scienze sociali che si occupano di paesaggio, invece, è la pluralità dei dati dell’esperienza che conduce a formare, nella sintesi, un concetto, che dunque deriva dalla considerazione unitaria delle interrelazioni tra i diversi approcci e punti di vista. Nel diritto è il bisogno di tutela e sono i modi per il suo soddisfacimento che definiscono gli istituti giuridici. E, per il paesaggio, il bisogno di tutela e i modi per il suo soddisfacimento sono in tutto e per tutto omologhi a quelli che caratterizzano il regime di tutela dei beni culturali.
Non ci si deve meravigliare più di tanto, dunque, del dissidio strisciante tra la visione giuridica del paesaggio e quella degli architetti pianificatori e degli urbanisti. I tecnici vedono le interrelazioni e le connessioni. I giuristi vedono i diversi valori-beni-interessi in conflitto e devono fornire strumenti di decisione per stabilire un criterio di prevalenza (nessun valore è neutro; i valori valgono solo se prevalgono[3]; non ci sono pasti gratis in questo conflitto[4]). Per gli architetti pianificatori e gli urbanisti il territorio è uno e una deve essere la sua disciplina e l’autorità chiamata a farla applicare[5]. Per i giuristi il territorio è sede di una molteplicità di interessi (di usi alternativi) in conflitto tra loro e la sintesi – che pure deve essere trovata – non è sempre facile da definire. La nota tesi delle “tutele parallele degli interessi differenziati”[6] resta valida, anche se va corretta nella formula delle “tutele convergenti degli interessi differenziati”.
Se la nozione lata e onnicomprensiva di “ambiente” (da amb – ire, andare intorno; ciò che ci sta intorno, che ci circonda) può andar bene per le scienze della natura, nella sua eccessiva ampiezza di denotazione essa si rivela inutile per il giurista, che da sempre ne ha cercato utili specificazioni e distinzioni, sin dal fondamentale contributo di Massimo Severo Giannini del 1973, «Ambiente»: saggio sui diversi suoi aspetti giuridici[7].
Si osserva in senso contrario che grazie a un’inedita convergenza di scienze umane e scienze naturali che si va delineando in questi ultimi anni, la parola chiave sarebbe, oggi, “interconnessione”. “Antropologi e biologi, genetisti e filosofi riconoscono nel disegno della natura e in quello della storia una potente tendenza all'interconnessione (interconnectedness è la parola-chiave, che - è vero - è diventata di moda, ma con ottime ragioni dato quel che esprime)”[8]. Si ricorda l’idea goethiana della cultura come “seconda natura”[9], per cui “dobbiamo partire dalla cultura, intesa non come somma di inclusioni – ambiente, paesaggio, patrimonio, salute – ma come interconnessione fra questi diversi aspetti”[10]. Si aggiunge che “Ormai salute, economia e cultura scientifico-umanistica sono un tutt’uno sistematico” e che “La verità è nell’holon, che in greco significa «tutto», ovverossia l’ambiente”[11]. Le Encicliche di Papa Francesco, ad esempio, parlano di una ecologia integrale. Tutto vero, niente da obiettare. C’è però il rischio di cadere in tal modo nell’indiscernibile, nell’uno/tutto (“l’uno non è”[12]), ciò che rischia di portare – specialmente quando si tratta di individuare il regime giuridico applicabile – alla confusione, alla notte hegeliana in cui tutte le vacche sono nere[13], a un unico regime giuridico indifferenziato per tutte le cose, ciò che è la negazione dell’utilità dei concetti e degli istituti giuridici.
Si sostiene, da parte di autorevoli Autori, che la separazione delle competenze, soprattutto a livello statale, legata alla distinzione tra “ambiente” e “paesaggio” (ma anche e soprattutto con riguardo alla materia dell’urbanistica – governo del territorio), sia la causa prima e più grave del fallimento della tutela e della complicazione burocratica che caratterizza negativamente lo svolgimento di tali funzioni[14]. Da più parti si auspica pertanto l’unificazione delle competenze (e, si badi, sia da parte di chi sinceramente si erge a paladino della tutela e ne persegue e rivendica il potenziamento e il miglioramento, sia da parte di chi mira a depotenziare il ruolo della tutela nell’ottica della semplificazione e della sburocratizzazione, spesso intesa come abolizione dei controlli ambientali).
Occorre tuttavia ricordare che la sintesi e la riconduzione sotto un unico centro decisionale di ambiente e di paesaggio è una sintesi che non si fa a somma zero, ma che comporta necessariamente il ridimensionamento o il sacrificio degli uni aspetti rispetto agli altri (o viceversa). Resto pertanto convinto, contro l’opinione dominante, che sia preferibile il modello della differenziazione e del contraddittorio tra gli interessi pubblici in conflitto, per evitare che alcuni di questi interessi (i più deboli politicamente) siano fagogitati da quelli più forti (quelli più vicini alla tecnica e agli interessi industriali della crescita e dello sviluppo). Chi indica nella divisione delle competenze (anche con riguardo alla materia dell’urbanistica-governo del territorio) una delle cause dell’inefficacia dell’azione di tutela e (da un diverso punto di vista) della complicazione burocratica, ed auspica, pertanto, la creazione di un unico centro decisionale, non si avvede che in tal modo l’ambientalismo industriale della transizione ecologica sopraffà e annulla la tutela paesaggistica, che ad essa obiettivamente si contrappone, poiché i pannelli fotovoltaici nelle campagne, le pale eoliche, le dighe del micro-elettrico, gli impianti a biomasse, raramente vanno d’accordo con la tutela del paesaggio.
D’altra parte la distinzione – culturale e storica, per certi aspetti, come vedremo, anche epistemologica – che separa “ambiente” e “paesaggio” è testimoniata dallo stesso dibattito sull’esigenza (da taluni avvertita, da altri avversata) di aggiungere la tutela dell’ambiente nell’art. 9 della Costituzione, a fianco alla tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione[15].
3. Le radici storiche della nozione giuridica di “paesaggio”.
È dunque utile (forse) spendere ancora qualche parola sul tema della distinzione tra “paesaggio” e “ambiente”, che non è affatto scontata e, come si è visto, mostra profili problematici.
Vorrei in particolare evidenziare che questa distinzione, come ho sostenuto in un mio recente contributo[16], affonda le sue radici (per così dire) nel jus, ossia in una risalente e ricca tradizione, culturale prima ancora che giuridica, sostanzialmente diversa rispetto a quella da cui è germogliata (più di recente) l’idea della tutela ambientale (e la nozione giuridica di “ambiente”), sicché, anche al di là della lex scripta (oggi nel codice del 2004 e nella Convenzione di Firenze del 2000), l’autonomia della nozione giuridica di “paesaggio” e la sua distinzione da quella di “ambiente” riceve una sua speciale legittimazione “forte” proprio nella diversità e specialità dell’humus storico-culturale da cui si è generata l’una, rispetto all’altra.
Insomma, si tratta a ben vedere di due linee di pensiero e di due tradizioni culturali marcatamente differenti tra loro. Ed è proprio in questa diversità genetica che vanno ricercate le cause dell’attuale assetto giuridico, complicato, forse, più che complesso, della materia, così come le ragioni profonde dei ricorrenti e irrisolti conflitti.
La tutela del paesaggio nasce, in sostanza, da un movimento di idee più antico rispetto a quello, più recente, che sta alla base della tutela dell’ambiente-ecosfera e dell’odierno diritto dell’ambiente. Il paesaggio nasce e vive – pressoché esclusivamente – nell’ambito delle scienze umane e mantiene (nonostante il materialismo storicistico e l’antropo-sociologismo imperanti nella seconda metà del Novecento) un nucleo essenziale estetico[17]. L’ambiente, invece, nasce e vive pressoché esclusivamente nell’ambito delle scienze esatte e della tecnica. Il paesaggio esprime un profilo qualitativo, mentre l’ambiente esprime un punto di vista soprattutto quantitativo. Naturalmente queste affermazioni costituiscono delle generalizzazioni affrettate, qui consapevolmente proposte solo per sintesi e per chiarezza espositiva, poiché le cose sono in realtà molto più complicate e le distinzioni non sono mai così nette e marcate. Così come è vero, alla stessa stregua, che la dicotomia “scienze umane “comprendenti” vs. scienze esatte”, pur essendo superata in ambito epistemologico, rimane tuttora valida euristicamente in ambito giuridico[18] e non è scalfita dalla nota e ricorrente considerazione che la quasi totalità del paesaggio italiano è paesaggio antropico e che la distinzione tra natura e cultura va relativizzata e rivista (poiché, come già osservato, la cultura in Italia è in realtà una “seconda natura” e l’uomo, da quando Prometeo gli ha regalato il fuoco, non ha fatto altro che addomesticare la natura rendendola un ambiente artificiale adatto a sopperire alle sue carenze innate[19], secondo il mito raccontato nel Protagora di Platone)[20].
Per evidenziare questa radice “culturale” della nozione di paesaggio è ricorrente il richiamo – quasi ormai un luogo comune nelle trattazioni della materia – della lettera del Petrarca del 1336 sull’ascesa al Monte Ventoso, che costituirebbe una delle prime attestazioni di una nozione autonoma di “paesaggio”. Altrettanto comune è in tal senso il richiamo degli affreschi del Palazzo Pubblico di Siena (quello di Guidoriccio da Fogliano, attribuito a Simone Martini, e quelli dell’Allegoria del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti)[21].
In realtà l’idea di “paesaggio” affonda le sue radici nel topos, nell’archetipo junghiano del giardino dell’Eden, comune a molte cosmogonie e religioni nel mondo, quale luogo mitico di un’origine di equilibrio e di purezza e nel contempo fine ultimo cui tendono le speranze dell’uomo di redenzione e di raggiungimento di un orizzonte escatologico di pace e di ri-equilibrio, dopo l’alienazione terrena. Un archetipo, si deve notare, che reca in sé un’impronta estetica, insita naturalmente nell’immaginazione mitica e nella contemplazione religiosa. “Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse”, recita la Bibbia[22]. Ma è un’immagine comune alla più antica mitologia delle civiltà mesopotamiche e a molte religioni orientali[23]. Analoga è l’immagine dei campi elisi della cultura greca, come analogo è l’atteggiamento spirituale sotteso al culto, diffusissimo in tutta l’antichità greca e romana, dei boschi sacri a ninfe o altre divinità, un’idea, un modo di essere dello spirito che ha ricevuto successive elaborazioni poetiche e che si può compendiare sotto il nome riassuntivo del mito dell’Arcadia, che ritroviamo in Esiodo, poi in Virgilio, in Ovidio e in tanti altri poeti dell’antichità e, risalendo nei secoli, fino al suo ritorno rinascimentale[24], nel romanticismo, nello spirito dei viaggiatori del Grand Tour e nelle scuole dei paesaggisti dell’800 (dalla maniera del paesaggio ideale e del “ruinismo” di Claude Lorrain e Nicolas Poussin alla scuola di Barbizon in Francia, da Caspar David Friedrich a Carl Blechen in Germania, da Constable e Turner e dai Preraffaelliti in Inghilterra ai macchiaioli e divisionisti in Italia[25]), fino – guardando alla storia recente italiana - al Bel Paese dell’abate Stoppani, al Touring Club Italia e al CAI[26], o all’iniziativa dei “luoghi del cuore” del FAI (che esprime, in fondo, un’idea estetico-soggettiva di godimento di luoghi capaci di evocare sentimenti, ricordi, sensazioni piacevoli, legata all’elaborazione culturale e alla conoscenza).
Sullo stesso piano di una fruizione estetico-intellettuale si colloca anche un altro filone spirituale che alimenta l’idea di paesaggio, quello della nostalgia per la wilderness, che pure ha rivestito un rilievo di primo piano nello sviluppo dell’idea della tutela paesaggistica[27], in contrappunto all’ideale del giardino governato e conchiuso, un piccolo eden in cui l’uomo può ritrovare la serenità e astrarsi dai traffici vacui del mondo[28].
Il sentimento estetico è dunque essenziale nella nozione di “paesaggio” ed è stato un errore quello dello storicismo materialistico degli ultimi settanta anni, che ha voluto imporre una visione “oggettivante” socio-antropologia del paesaggio e ha preteso di “depurare” la nozione di “paesaggio” dall’elemento estetico, pur così essenziale, tacciato di vieto “idealismo crociano”[29], che pure aveva caratterizzato l’approccio all’ambiente fino a tutta la prima metà del Novecento. Un punto di vista, questo, forse ingiustamente e troppo frettolosamente accantonato nel secondo dopoguerra con l’affermarsi dell’egemonia del punto di vista storico-sociale, di impronta marxiana, che ha condotto anche, parallelamente, all’evoluzione della nozione di “bene culturale”, da “cosa d’arte” alla antropologistica “testimonianza avente valore di civiltà”)[30].
Insisto dunque nella mia critica alla Convenzione di Firenze del 2000, che nega questo dato essenziale e assume una visione socio-antropologica di “paesaggio” per cui tutto il territorio è paesaggio, ossia, come già detto, nulla è paesaggio. Certamente, come ci spiega molto bene sempre Edgar Morin[31], l’estetica generalizzata odierna mescola insieme il bello e il brutto, per cui anche la periferia degradata, a modo suo, ha un pregio estetico (del resto la street art è posta oggi, un po’ assurdamente, al vertice dell’interesse e del canone artistico contemporaneo). Ma una cosa è la democratizzazione del canone estetico e la sua evoluzione, contro ogni pretesa elitaria, ad abbracciare punti di vista più ampi e meglio diversificati, altra e diversa cosa è il rifiuto del punto di vista estetico, che resta invece essenziale e ineliminabile nella nozione di “paesaggio”, anche del paesaggio “identitario” delle periferie degradate e compromesse (che esprimono e rappresentano, a loro modo, una nuova e diversa potenzialità estetica)[32]. Va bene, dunque, il così detto “paesaggio identitario”[33], ma non dobbiamo dimenticare, né sottovalutare il nucleo estetico della nozione.
Questo naturalmente non significa un impossibile ritorno al 1922 o al 1939. L’apporto – fondamentale – dell’antropologia e dello storicismo, con i concetti di “beni culturali-ambientali” della Commissione Franceschini del 1966 e di paesaggio “integrale” come forma del territorio di Alberto Predieri[34] del 1969, restano irrinunciabili e costituiscono un necessario completamento e arricchimento della comprensione della nozione polisemica di “paesaggio”. Per non dire della già più volte richiamata Convenzione europea di Firenze del 2000. Ma – questo è il punto che vorrei sottolineare – questo arricchimento non deve andare a discapito del nucleo essenziale estetico, in senso gnoseologico, del “paesaggio”, altrimenti si rischia di perdere il nocciolo duro della nozione, il suo cuore pulsante, e si apre a inevitabili confusioni (verso l’urbanistica-governo del territorio o la nozione onnicomprensiva di “ambiente”, per l’appunto).
Tornando alla nostra veloce carrellata sullo sviluppo dell’idea di “paesaggio”, dando uno sguardo alla storia del pensiero, vale la pena di ricordare che nell’Enciclopedia di Diderot e D’Alembert il paesaggio, nella voce redatta da Louis Chevalier de Jaucourt, era presentato come un “genere di pittura che rappresenta le campagne e gli oggetti che vi s’incontrano”[35], mentre per Alexander von Humboldt il paesaggio è l’impressione complessiva di un luogo[36].
Anche guardando ai principali paesi esteri, in particolare all’esperienza tedesca, francese, anglosassone e nordamericana, è possibile ricostruire una linea unitaria che, già a partire dal ‘700 e, soprattutto, dall’800, lega la prima sensibilità “ambientale” a un’idea lato sensu “romantica”, a tratti anti-modernista e di critica al macchinismo industriale, incentrata dunque su un’idea di “ritorno alla natura”, di nostalgia per la wilderness e di ricerca del sublime, su un’ideale di conservazione del volto amato della Patria e di tutela della casa (oikos[37]), una sensibilità nella quale la componente estetica della bellezza svolge un ruolo spesso centrale[38].
Si pensi a Goethe, a Humboldt e a Burckhardt in Germania, dove si è sviluppata l’idea dei Denkmaler der Natur, der Kunst, der Geschiste, che pone i monumenti della natura sullo stesso piano di quelli della cultura e della storia (idea poi recepita nell’art. 150 della Costituzione di Weimar); si pensi, sempre con riguardo alla Germania, al movimento giovanile dei Wandervogel, a Ernst Rudorff, che coniò il concetto di Heimatschutz, come tutela del paesaggio tedesco[39]. Si pensi, guardando alla Francia, a Victor Hugo[40], alla nostalgia per la natura incontaminata nel Rousseau dell’Emilio e delle Fantasticherie di un passeggiatore solitario[41], ad Antoine Quatremére de Quincy[42], alla filosofia contadina di Gustave Thibon. Si pensi, guardando all’Inghilterra, a Edmund Burke, a John Evelyn, a Gilbert White (fondatore della Selborne Societynel 1885), ai movimenti che condussero alla fondazione nel 1907 del National Trust for Places of Historic Interest or Natural Beauty e della Campaign to Protect Rural England del 1926. Si pensi, infine, guardando agli Stati Uniti, a Henry David Thoreau, a John Ruskin, John Muir, John Burroughs e George P. Marsh, a Ralph Waldo Emerson e Theodore Roosevelt[43].
Guardando al profilo giuridico, questa vera e propria “Repubblica europea dello Spirito”[44]espresse un comune sentire che produsse frutti anche sul piano legislativo, come bene ricordato dal Pres. Severini nei contributi citati[45].
Anche l’emersione di un “bisogno” di tutela, nella storia più recente, che data alla fine dell’800 e ai primi del ‘900, appare legato, non solo in Italia, soprattutto a una percezione estetica delle bellezze paesaggistiche, a partire dal momento in cui presero a esser frequentate e amate da una cerchia sempre più ampia di persone, grazie alle prime forme di turismo “di massa” (o, forse, non più solo elitario)[46].
Non è dunque un caso se, sin dalle prime leggi dell’Italia unita sul patrimonio culturale dei primi del Novecento, le misure di tutela dei beni culturali e dei beni paesaggistici si siano conformate entro il medesimo stampo logico-giuridico (che noi oggi chiamiamo della “eccezione del patrimonio culturale”, e che può variamente declinarsi in termini di limiti al diritto di proprietà, di dominio eminente pubblico giustapposto a quello utile privato, oppure, più di recente, nella logica dei così detti “beni comuni”). Le une e le altre misure rispondono, infatti, a un medesimo bisogno di tutela e presentano modalità analoghe di soddisfacimento di tale bisogno. E non è un caso che l’art. 9 della Costituzione parla di tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione (e non parla di “ambiente”).
La logica di fondo degli strumenti di tutela a tal fine forgiati è la stessa: rispondere a un bisogno di conservazione di un patrimonio estetico-identitario minacciato di dispersione e di distruzione. È la logica della legge Rava del 1905 sulla tutela della pineta di Ravenna e già il Presidente della Cassazione Mariano D’Amelio[47] aveva chiarito, in un contributo del 1912, come la legge Rosadi del 1909, benché “monca” delle disposizioni sul paesaggio (proposte, ma non approvate per l’opposizione del Senato), fosse in realtà senz’altro applicabile anche al “paesaggio storico” italiano, e ciò proprio in forza della stretta commistione, sul territorio, tra monumenti culturali e naturali, tra cose di interesse storico, artistico e architettonico e cose di interesse paesaggistico[48]. È significativo, d’altra parte che la legge “Croce” 11 giugno 1922, n. 778 fosse intitolata “per la tutela delle bellezze naturali e degli immobili di particolare interesse storico” e avesse ad oggetto non solo “le cose immobili la cui conservazione presenta un notevole interesse pubblico a causa della loro bellezza naturale” e le “bellezze panoramiche”, ma anche le cose immobili meritevoli di tutela per la “loro particolare relazione con la storia civile e letteraria”.
4. Le radici storiche della nozione giuridica di “ambiente”.
Affatto diversa pare essere invece la genesi del concetto giuridico di ambiente e della tutela ambientale.
Il punto di partenza dell’attuale diritto dell’ambiente-ecologia si può forse rinvenire nel famoso rapporto sui limiti dello sviluppo redatto dal Club di Roma (fondato nell'aprile del 1968 dall'imprenditore italiano Aurelio Peccei e dallo scienziato scozzese Alexander King, insieme a premi Nobel, leader politici e intellettuali). Il rapporto, elaborato sulla base della prima riunione, svoltasi a Roma, presso la sede dell'Accademia dei Lincei, venne commissionato al MIT dal Club di Roma e fu pubblicato nel 1972, a cura di Donella Meadows.
Si inaugura in tal modo una linea di pensiero che mostra un approccio soprattutto quantitativo-matematico alle tematiche ambientali, incentrato sul calcolo dei limiti alla crescita (il rapporto era basato sulla simulazione al computer per predire le conseguenze della continua crescita della popolazione sull'ecosistema terrestre e sulla stessa sopravvivenza della specie umana)[49].
Ma già nel 1961 era stato fondato il WWF (World Wildlife Fund, Fondo mondiale per la vita selvatica), con la finalità di “bloccare la degradazione dell'ambiente naturale del pianeta e di costruire un futuro in cui l'uomo vivrà in armonia con la natura”, preservando la biodiversità, favorendo la sostenibilità dell'utilizzo delle risorse naturali, promuovendo misure dirette alla riduzione dell'inquinamento e degli sprechi di risorse.
E già il libro del 1962 Silent Spring, di Rachel Carson, comunemente ritenuto una sorta di manifesto antesignano del movimento ambientalista, presentava un approccio che avrebbe voluto essere scientifico e che si concentrava sull’esame degli effetti nocivi degli inquinanti (basandosi su ricerche e analisi scientifiche relative ai danni provocati dal DDT e dai fitofarmaci)[50].
Nel 1971 inizia le sue pubblicazioni la rivista Ecologia fondata e diretta da Virginio Bettini[51]. Nel 1972 venne organizzata a Stoccolma la prima conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente, su iniziativa di Olof Palme, in dialogo con Barry Commoner[52] e un gruppo di scienziati ed ecologisti. È del 1973 la Prima relazione sulla situazione ambientale del Paese, promossa dall’Eni e prodotta dalla società Tecneco[53]. Nel 1979 viene fondata la Lega per l’Ambiente dell’ARCI, che farà proprio lo slogan “pensare globale, agire locale”[54]. Al 1987 risale la presentazione del rapporto Brundtland[55], che introdusse il concetto di “sviluppo sostenibile”, che è divenuto l’architrave del pensiero ambientalista scientifico (concetto non a caso non particolarmente apprezzato dai paesaggisti, che hanno sempre nutrito una profonda diffidenza verso questo termine, profondamente ambiguo, forse un ossimoro, una contraddizione in termini[56]). L’impostazione culturale dell’IPPC (International Panel on Climate Change, Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, emanazione dell’ONU) è marcatamente scientifica[57]. Anche un non recente contributo italiano degli anni ’70 del secolo scorso (A. Todisco, Breviario di ecologia, Milano, 1974), si segnala per aver posto (forse per la prima volta in Italia) il tema del bilancio ambientale.
Ma, ben vedere, già l’origine della parola “ecologia” è legata a un contesto squisitamente scientifico. Ernst Haeckel (al quale pare si debba l’introduzione del termine “ecologia” nel 1866), era infatti un importante biologo e scienziato prussiano, che coniò il termine “ecologia” per significare lo studio scientifico della natura in quanto oikos, casa, ambiente degli uomini[58].
Insomma, “La tutela dell’ambiente può essere gestita dagli scienziati che, rilevando e interpretando i risultati delle analisi, individuano le misure da adottare per eliminare le disfunzioni. Esistono degli incaricati di misurare i parametri ambientali dell’acqua, del suolo, dell’aria, nonché di elaborare strategie per mantenersi all’interno di essi. Il territorio è ripartito tra questi enti per l’acqua e il terreno che sono monitorati da scienziati specializzati. Dunque la tutela dell’ambiente è l’obiettivo delle moderne scienze ingegneristiche e naturali”[59]
L’idea scientista e globalista si è poi vieppiù affermata e rafforzata in ambito ambientalista sull’abbrivio della nota teoria di Gaia, il pianeta vivente, attribuita a James Lovelock[60], ma presente già da molto tempo in illustri Autori meno recenti[61].
Anche questa, va sottolineato, è una differenza profonda di approccio, che contribuisce a spiegare molti dei conflitti tra ambiente e paesaggio: l’ambiente pensa globale e agisce locale; il paesaggio pensa locale e agisce localmente, legato alla dimensione territoriale.
La politica europea in materia ambientale nasce su questo tronco culturale e ne costituisce una prima sintesi ed elaborazione giuridica[62]. È nota la centralità della spinta del diritto comunitario per lo sviluppo del diritto dell’ambiente e non è certo questa la sede per una sua trattazione. Si parla in proposito di una “progressiva evoluzione di un vero e proprio “diritto costituzionale europeo dell’ambiente”[63]. Ma non deve dimenticarsi, né sottovalutarsi l’imprinting mercatista del diritto ambientale europeo, nato come standardizzazione dei costi ambientali internalizzati nella produzione (“chi inquina paga”) per scopi di garanzia della concorrenza e del buon funzionamento del mercato comune[64]. Oggi il principio generale contenuto nell’art. 11 del TFUE (ex articolo 6 del TCE, per cui “Le esigenze connesse con la tutela dell'ambiente devono essere integrate nella definizione e nell'attuazione delle politiche e azioni dell'Unione, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile”) è significativamente confermato dall’art. 37 della Carta dei diritti fondamentali, collocato nel Capo IV, sulla Solidarietà.
Più in generale, nel diritto internazionale la progressiva genesi e formazione del concetto – oggi oramai onnipresente, quasi “infestante” nella sua incontrollata diffusività – di “sviluppo sostenibile”, come è stato acutamente osservato[65], è stata fondata sui tre pilastri, ambientale, sociale ed economico, lasciando fuori ogni riferimento alla cultura (e, dunque, alla nozione di paesaggio, se e in quanto non ridotta a un sottoinsieme dell’ambiente).
L’approccio soprattutto quantitativo-scientifico del diritto dell’ambiente è rivelato dalla (e racchiuso nella) nozione di inquinamento, centrale nella legislazione di tutela ambientale, oggi contenuta nella lettera i-ter) dell’art. 5 del così detto “codice ambiente” (d.lgs. n. 152 del 2006), dove è così definita: “l'introduzione diretta o indiretta, a seguito di attività umana, di sostanze, vibrazioni, calore o rumore o più in generale di agenti fisici o chimici, nell'aria, nell'acqua o nel suolo, che potrebbero nuocere alla salute umana o alla qualità dell'ambiente, causare il deterioramento dei beni materiali, oppure danni o perturbazioni a valori ricreativi dell'ambiente o ad altri suoi legittimi usi”.
La legge n. 349 del 1986, istitutiva del Ministero dell’ambiente, costituisce l’approdo istituzionale di questo percorso.
5. I punti essenziali della distinzione.
La sopra sunteggiata evoluzione di distinte elaborazioni culturali ci rafforza nella conclusione che il paesaggio è percezione, è elaborazione culturale che l’uomo fa dell’ambiente che lo circonda, e non è mai puro e semplice sostrato fisico-chimico-biologico[66]. L’esaminato retroterra filosofico culturale ci porta a dire che il paesaggio è qualcosa che attiene, per così dire, alla res cogitans, più che alla res extensa, alla semiosfera, più che alla ecosfera, riguardando la comprensione identitaria del contesto, più che la tutela delle matrici ambientali. Il paesaggio si collocherebbe (volendo operare un richiamo alla nota teoria dei tre mondi di Popper[67]), nel “mondo 3” (il mondo dei contenuti oggettivi di pensiero), piuttosto che nel “mondo 1” (il mondo degli oggetti e degli stati fisici). Il senso più profondo della distinzione “paesaggio-ambiente” può essere esplicitato nella differenza di prospettiva tra i punti di vista della prima e della terza persona, per cui l'ambiente costituisce la prospettiva della terza persona - le cose, il mondo fisico che descriviamo in modo oggettivo - mentre il paesaggio rappresenta la prospettiva della prima persona - il significato del territorio per come lo percepiamo in modo soggettivo[68]. Il paesaggio è il significato che io-noi percepiamo nel territorio, per le sue caratteristiche significanti (come bene evidenziato nella stessa definizione data dall’art. 131 del codice di settore). La nozione giuridica di paesaggio nasce, dunque, non (solo) per un atto positivo d’autorità normativa (lex), ma come prodotto della confluenza e della sintesi di diverse tradizioni e nozioni metagiuridiche sul tema e vanta pertanto profonde radici epistemiche e logiche, oltre che storiche (ius).
Esiste, dunque, alla base della distinzione tra paesaggio e ambiente, una diversità sostanziale di orientamento di pensiero: un punto di vita soggettivo (proprio delle scienze dello spirito), e qualitativo, dal lato del paesaggio; un punto di vista oggettivo e quantitativo (proprio delle scienze esatte e della tecnica) dal lato dell’ambiente-ecologia. C’è anche una componente antilluministica e antiscientista nella genesi culturale del concetto di paesaggio[69], che si contrappone al modello illuministico-tecnologico che condurrà poi all’ambientalismo industriale.
Ciò nondimeno – ed è, questo, il retroterra culturale della Convenzione europea del paesaggio del 2000 – la comprensione del paesaggio deve mettere insieme tutti i diversi saperi e punti di vista che concorrono alla sintesi dell'azione di fattori naturali, umani e delle loro interrelazioni che, come recita l’art. 131 del codice di settore (riprendendo la formulazione della Convenzione europea del 2000), contribuiscono a dare la nozione complessa e plurivoca di “paesaggio”[70].
6. Tracce nella giurisprudenza della Corte costituzionale e della Corte di giustizia dell’Unione europea.
È noto che nell’ultimo scorcio del secolo scorso la Corte costituzionale (dopo avere forgiato, nei decenni precedenti, il concetto della primarietà del valore estetico-culturale, ex art. 9 Cost., come limite alle competenze regionali in materia urbanistica[71]) ha introdotto (nonostante le avvertenze di autorevole Dottrina circa i diversi aspetti giuridici della nozione di ambiente[72]) una nozione unitaria di “ambiente”, comprensiva anche del paesaggio, con l’idea dell’endiadi unitaria, per cui “la tutela del bene culturale è nel testo costituzionale contemplata insieme a quella del paesaggio e dell’ambiente come espressione di principio fondamentale unitario dell’ambito territoriale in cui si svolge la vita dell’uomo (sentenza n. 85 del 1998) e tali forme di tutela costituiscono una endiadi unitaria”[73]. In altre pronunce coeve[74] la Consulta ha poi proposto una nozione di paesaggio più ampia, comprensiva di “ogni elemento naturale ed umano attinente alla forma esteriore del territorio”, fino all’affermazione[75] che la tutela del paesaggio va intesa nel senso lato della tutela ecologica e si identifica con la conservazione dell’ambiente. Parimenti orientata nella direzione di una sostanziale unitarietà delle nozioni di ambiente e di paesaggio è l’ulteriore giurisprudenza costituzionale[76] sulla tutela del paesaggio improntata a globalità e integralità.
La Corte costituzionale, dunque, se, da un lato, nel dirimere i conflitti di competenza tra lo Stato e le Regioni, ha introdotto riflessioni e concetti utili alla distinzione (sentenze n. 359 del 1985, n. 151 del 1986, n. 183 del 1987, n. 417 del 1995, n. 262 del 23 luglio 1997), dall’altro lato ha sempre posto l’accento sulla necessaria unitarietà e sintesi di visione (con la sentenza n. 478 del 26 novembre 2002, richiamando le precedenti sentenze n. 85 del 1998 e n. 378 del 2000). Più di recente, a partire dalla sentenza n. 367 del 2007[77], la Corte ha meglio distinto i diversi campi di materia («Sul territorio gravano più interessi pubblici: quelli concernenti la conservazione ambientale e paesaggistica, la cui cura spetta in via esclusiva allo Stato, e quelli concernenti il governo del territorio e la valorizzazione dei beni culturali ed ambientali (fruizione del territorio), che sono affidati alla competenza concorrente dello Stato e delle Regioni. La tutela ambientale e paesaggistica, gravando su un bene complesso ed unitario, considerato dalla giurisprudenza costituzionale un valore primario ed assoluto, e rientrando nella competenza esclusiva dello Stato, precede e comunque costituisce un limite alla tutela degli altri interessi pubblici assegnati alla competenza concorrente delle Regioni in materia di governo del territorio e di valorizzazione dei beni culturali e ambientali»). In plurime sentenze ha altresì qualificato in termini di norme di grande riforma economico-sociale le previsioni del codice in tema di aree vincolate ex lege (art. 142), di co-pianificazione paesaggistica (art. 143), di preminenza gerarchica del piano paesaggistico (art. 145) e di autorizzazione paesaggistica (art. 146).
Anche la Corte di giustizia dell’Unione europea ha avuto modo di recente di ammettere la distinzione giuridica tra ambiente – materia nella quale l’Unione ha una sua propria competenza – e paesaggio – materia nella quale, invece, l’Unione è priva di una sua competenza. Con la sentenza della Sez. decima, 6 marzo 2014, nella causa C-206/13, nel dichiararsi "incompetente", perché non attinente con il diritto dell'Unione, sulla questione del possibile conflitto dell’art. 167, comma 4, lett. a), del decreto legislativo n. 42 del 2004 con l’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’U.E. e con il principio di proporzionalità, ha respinto la prospettazione del remittente (Tar Sicilia, Palermo, Sezione I, ordinanza 10 aprile 2013, n. 802), secondo la quale la nozione di “ambiente”, rilevante ai fini del diritto europeo, includerebbe anche il paesaggio. La Corte UE ha invece ritenuto la materia della tutela del paesaggio sostanzialmente estranea all'ambito di operatività del diritto dell'Unione ("né le disposizioni dei trattati UE e FUE richiamati dal giudice del rinvio, né la normativa relativa alla Convenzione di Aarhus, né le direttive 2003/4 e 2011/92 impongono agli Stati membri obblighi specifici di tutela del paesaggio, come fa invece il diritto italiano. Gli obiettivi di tali normative e del decreto legislativo n. 42/2004 non sono i medesimi, anche se il paesaggio è uno degli elementi presi in considerazione per valutare l’impatto ambientale di un progetto, ai sensi della direttiva 2011/92, e rientra tra gli elementi presi in considerazione dalle informazioni in materia di ambiente, di cui alla Convenzione di Aarhus, al regolamento n. 1367/2006 e alla direttiva 2003/4")[78].
7. Unificazione o differenziazione delle competenze.
Sul tema – di centrale rilievo - della differenziazione delle competenze mi permetto di rinviare per sintesi a un mio non recente contributo[79] nel quale ho sostenuto la tesi che, nell’ambito del confronto dialettico tra più interessi pubblici coinvolti in un affare amministrativo, il principio di differenziazione di cui all’art. 118 Cost. (che non si appiattisce su quello di adeguatezza, ma presenta una sua propria e autonoma rilevanza) si coniuga con il principio del contraddittorio, enunciato nell’art. 111 Cost. e ormai riferibile anche al procedimento amministrativo (sempre più processualizzato, come processual-procedimento[80]). Con la conseguenza che i “tre diversi aspetti” in cui si declina la nozione lata e onnicomprensiva di ambiente - ossia il paesaggio, l’ambiente/ecosfera e l’urbanistica/governo del territorio - devono avere ciascuno un proprio rappresentante, un soggetto che esprima e dia voce al diverso punto di vista di ciascuno di questi “aspetti” e che sappia difenderlo nel caso, frequente, di conflitto. Questa impostazione si lega poi all’idea, che pure sostengo da anni, che il Comune – ma penso soprattutto ai piccoli Comuni – non è il posto giusto per fare tutela, poiché il principio di prossimità e di sussidiarietà verticale vale solo per l’amministrazione erogatrice di beni e servizi, non anche per l’amministrazione di tutela, che deve mantenere una fisiologica “distanza” dal conflitto politico locale.
Se scorriamo l’indice del così detto “codice ambiente” (d.lgs. n. 152 del 2006) vediamo che la gran parte dei settori e degli ambiti materiali in esso ricompresi presentano un’evidente caratterizzazione tecnico-scientifica e non pongono particolari problemi di sovrapposizione diretta e di possibile confusione con il campo materiale proprio del paesaggio. È sufficiente a questo scopo leggere l’art. 1 del così detto “codice ambiente”, che definisce il suo Ambito di applicazione: “Il presente decreto legislativo disciplina . . . le materie seguenti: a) le procedure per la valutazione ambientale strategica (VAS), per la valutazione d'impatto ambientale (VIA) e per l'autorizzazione ambientale integrata (IPPC); b) la difesa del suolo e la lotta alla desertificazione, la tutela delle acque dall'inquinamento e la gestione delle risorse idriche; c) la gestione dei rifiuti e la bonifica dei siti contaminati; d) la tutela dell'aria e la riduzione delle emissioni in atmosfera; e) la tutela risarcitoria contro i danni all'ambiente”.
Certamente, è ovvio, tutti gli interventi che si realizzano sul territorio – un depuratore, il movimento delle terre per la bonifica di un sito inquinato, etc. - possono avere una qualche incidenza paesaggistica, ma queste interferenze indirette non alterano la nitida distinzione dei concetti (e, in tesi, delle possibili competenze).
Vi sono, sì, anche alcuni punti di maggiore e più frequente contatto tra “paesaggio” e “ambiente”, che sono costituiti dalla VIA e dalle aree naturali protette. Alla complessità delle relazioni tra ambiente e paesaggio corrisponde l’emersione e la presenza di una pluralità di conflitti.
La stessa, ampia e onnicomprensiva tematica del contenimento del consumo di suolo e del suo uso razionale, che pure potrebbe dare l’occasione di una sintesi virtuosa e di un ritorno all’unità, si presta a due diverse declinazioni, una più “ambientale” – incentrata sull’impermeabilizzazione, il Soil Sailing – l’altra più “paesaggistica” (o, se vogliamo, anche urbanistica) – incentrata sull’uso del suolo, sulla sua occupazione e trasformazione antropica, il Land Take.
8. Decarbonizzazione e paesaggio.
Sicuramente il settore che ha dato luogo a maggiori conflitti tra ambiente e paesaggio e che rende più immediatamente percepibile la diversità di approccio di questi due campi di materia, confinanti, ma distinti, è quello dello sviluppo degli impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili: eolico, fotovoltaico, biomasse, mini-idroelettrico.
Soprattutto l’eolico ha generato forti conflitti e vede normalmente su fronti opposti i difensori del paesaggio (soprattutto del paesaggio appenninico) e i difensori della lotta al mutamento climatico, che oggi si chiama “decarbonizzazione”. Ma questo discorso vale anche per il fotovoltaico, quando, anziché essere realizzato su gray field, su aree industriali, su capannoni aziendali, su aree già impermeabilizzate, aggredisce terreni verdi sottraendoli all’agricoltura e sostituisce ai girasoli o ai campi di grano ettari di pannelli fotovoltaici.
È un conflitto che è stato avvertito sin dall’inizio, da quando sono scattate le norme di incentivo alla realizzazione dei vari obiettivi proclamati in sede europea e internazionale (l’obiettivo del 20-20-20), e che mostra in assoluta evidenza la divaricazione culturale che separa il “pensare globale, agire locale” dell’ambientalismo globalista industriale dalla tradizione di conservazione dei paesaggi, che è alla radice dell’odierna tutela paesaggistica.
Ho personalmente sviluppato queste considerazioni in miei non recentissimi contributi, che però mi sembrano ancora attuali e ai quali mi permetto perciò di rinviare, per non appesantire ulteriormente il discorso[81].
Ricordiamo che il d.lgs. 29 dicembre 2003, n. 387 qualifica (art. 12) le opere per la realizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili, nonché le opere connesse e le infrastrutture indispensabili alla costruzione e all'esercizio di tali impianti, quali opere di pubblica utilità indifferibili ed urgenti (previsione già contenuta nell’art. 1, comma 4, della legge 9 gennaio 1991, n. 10, recante Norme per l'attuazione del Piano energetico nazionale in materia di uso razionale dell'energia, di risparmio energetico e di sviluppo delle fonti rinnovabili di energia), aggiungendo che gli impianti possono essere ubicati anche in zone classificate agricole dai vigenti piani urbanistici, così spianando la strada all’espropriazione per pochi soldi delle aree agricole.
Il punto centrale delle mie precedenti riflessioni si compendiava nella critica – che sembra oggi ancor più valida a attuale - di tre evidenti illogicità: l’illogicità del sistema della negoziazione (a livello europeo) e della definizione (a livello di piani energetici nazionali) a priori e in astratto di quote, di percentuali, di obiettivi quantitativi di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili senza una preventiva istruttoria tecnica e verifica sul campo su dove e come realizzare questi impianti; l’illogicità degli incentivi indifferenziati, “ciechi” e “muti” riguardo agli impatti negativi indotti sui territori e concessi al di fuori di ogni logica di pianificazione razionale; l’illogicità di una certa giurisprudenza, che sembrava prendere corso nei primi casi applicativi del decreto legislativo, secondo la quale l’interesse sotteso alla realizzazione del “parco eolico” (o del campo fotovoltaico) fosse non già quello economico imprenditoriale del soggetto privato a realizzare un investimento produttivo, bensì quello “pubblico” di tutela ambientale, con conseguente bilanciamento non tra l’art. 9 e l’art. 41 della Costituzione, ma tra l’art. 9 e la tutela ambientale, soprattutto nella sua declinazione eurounitaria e internazionalistica, capace di dare a tale valore – la lotta al climate change – una forza maggiore ai sensi degli artt. 11 e 117 Cost.
Questo modo di ragionare incappa in un evidente errore logico, prima ancora che giuridico, poiché pone a raffronto termini (e valori-concetti) evidentemente non comparabili perché collocati su scala diversa: la "speranza", futura, eventuale, incerta e del tutto indiretta, che (un domani) il fotovoltaico o l'eolico possano contribuire alla lotta (globale) ai gas climalteranti, da un lato; dall'altro lato, il danno certo, immediato, reale, attuale al paesaggio, che si realizza qui ed ora.
L’errore logico, dunque, si risolve nella comparazione di fenomeni che si collocano a scale (spaziali e temporali) del tutto diverse e non seriamente comparabili. Proporzionare le valutazioni alla scala corretta di riferimento è un principio che non vale solo per il diritto, ma per tutti i campi della conoscenza umana. Anche nella fisica, in attesa della Grande Teoria unificante (che è di là da venire), coesistono tre teorie diverse (forse tra loro integrabili o forse contraddittorie), che si applicano alle diverse scale quantitative dei fenomeni osservati: la teoria dei quanti per il microcosmo delle particelle subatomiche, la teoria newtoniana (semplice e chiara) per la scala umana, la teoria dello spazio-tempo a quattro dimensioni della relatività generale einsteiniana per il macrocosmo[82]. Ma nessuno si sognerebbe di spiegare il flusso del traffico veicolare su un’autostrada con la teoria dei quanti o con la curvatura spazio-temporale. La nostra giurisprudenza, invece, pretende di bilanciare i concetti-valori-interessi in campo raffrontando il pensare globale della lotta al cambiamento climatico – che si colloca sulla scala futura dell’intero pianeta – con la tutela dei nostri paesaggi italiani (che si colloca alla scala locale e attuale delle specifiche porzioni territoriali interessate dai progetti di trasformazione antropica).
Qui assistiamo – in una maniera davvero chiarissima ed emblematica – allo scontro tra due visioni opposte delle cose: da un lato, l’ambientalismo industriale globalista, che vede all’attacco imprese industriali che, sventolando il vessillo di Kyoto e della lotta al mutamento climatico, perseguono loro immediati e concreti ritorni economici di profitto e mirano a realizzare parchi eolici sull’Appennino e campi di pannelli fotovoltaici nelle pianure; dall’altro lato chi ama e difende la qualità dei paesaggi agrari e montani italiani, insieme alle comunità di heritage territoriali, che faticosamente vorrebbero riscoprire e rivalutare le loro radici culturali, la loro identità, legate alla terra, all’agricoltura, ai mestieri tradizionali, e che puntano a un tipo di sviluppo diverso, più equilibrato, basato sulla filiera eno-gastronomica di eccellenza, sull’agriturismo, sullo sviluppo di modi nuovi di abitare, sulla rivitalizzazione degli antichi borghi, e perciò difendono il contesto paesaggistico che esprime e rispecchia questa cultura tradizionale. È in questi ambiti che si manifesta in tutta la sua evidenza la scivolosità del concetto evanescente e intrinsecamente contraddittorio di “sviluppo sostenibile”. Ed è qui che i valori in campo confliggono, poiché bisognerebbe capire quale “sostenibilità” si intende perseguire, se la sostenibilità di uno sviluppo locale autentico, legato alle comunità di heritage di cui parla la Convenzione di Faro, fondata sulla riscoperta della autentica e profonda identità culturale di quei territori, o di una sostenibilità “globale” che, intanto, qui ed ora, si concretizza nello stravolgimento di una tradizione culturale locale.
Purtroppo si riscontra una scarsa percezione di questi problemi nella giurisprudenza attuale, forse ancora affascinata dall’idea della transizione ecologia e della lotta al climate change. Dalla Corte costituzionale[83], che persiste nel voler difendere il “principio fondamentale di massima diffusione delle fonti di energia rinnovabili” e nel negare - contro ogni logica - il potere regionale di razionale pianificazione del territorio mediante la previsione di limiti generali, al Giudice amministrativo[84], che insiste nel pretendere una motivazione rafforzata quando si oppongano valori di tutela paesaggistica alla realizzazione di impianti FER, esigendo “una severa comparazione tra i diversi interessi coinvolti nel rilascio dei titoli abilitativi”, che “non può ridursi all'esame dell'ordinaria contrapposizione interesse pubblico/interesse privato, che connota generalmente il tema della compatibilità paesaggistica negli ordinari interventi edilizi, ciò in quanto la produzione di energia elettrica da fonte solare è essa stessa attività che contribuisce, sia pur indirettamente, alla salvaguardia dei valori paesaggistici”.
9. Conclusioni.
Ricapitolando brevemente gli snodi principali del ragionamento sin qui svolto, si è osservato in primo luogo che la distinzione – culturale e giuridica – tra “ambiente” e “paesaggio”, pur ormai acquisita nell’opinione prevalente, tuttavia si confronta e si scontra, ancora oggi, con un’opposta visione, che potremmo dire “integrale”, “unitaria”, o “olistica” del territorio, che indica nella divisione delle competenze (anche con riguardo alla materia dell’urbanistica-governo del territorio) una delle cause dell’inefficacia dell’azione di tutela e (da un diverso punto di vista) della complicazione burocratica, ed auspica, pertanto, la creazione di un unico centro decisionale.
Questa visione però sembra non avvedersi del rischio che in tal modo l’ambientalismo industriale della transizione ecologica possa inglobare e annullare la tutela paesaggistica, che ad essa obiettivamente si contrappone (poiché i pannelli fotovoltaici nelle campagne, le pale eoliche, le dighe del micro-elettrico, ma anche gli impianti a biomasse, raramente vanno d’accordo con la tutela del paesaggio).
Peraltro, al di là di alcuni segmenti che presentano una evidente sovrapposizione (parchi, VIA), la distinzione tra i due campi di materia appare abbastanza netta e chiara già sul piano epistemologico (la tutela delle matrici ambientali dagli inquinamenti si occupa, come è noto, prevalentemente di quantità fisico-chimiche e dei loro effetti biologici sull’ecosistema da un punto di vista oggettivo; la tutela del paesaggio opera prevalentemente a livello di percezione e di interpretazione da un punto di vista soggettivo).
La distinzione poggia, dunque, sulla natura della logica interna – e dunque sulla natura del tipo di discrezionalità (tecnica) - che connota lo svolgimento delle funzioni di tutela paesaggistica rispetto a quella che caratterizza lo svolgimento delle funzioni di tutela ambientale, inquadrandosi le une in un contesto di logica formale proprio delle scienze comprendenti dello spirito, le altre in un contesto di logica formale proprio delle scienze “esatte” matematizzanti.
Tale diversità della logica interna determina rilevanti conseguenze sul regime giuridico delle decisioni amministrative “paesaggistiche” rispetto a quelle “ambientali”, sia sul piano del tipo di semplificazione possibile (si possono autocertificare i fatti, non le opinioni), sia sul piano della tutela giurisdizionale (in termini di ambito e di tipo di sindacato possibile)
Queste riflessioni non costituiscono un astratto esercizio classificatorio o dogmatico, ma hanno ricadute operative ed effettuali di straordinario rilievo, in particolare oggi, nel momento in cui la politica è chiamata a decidere come articolare e declinare il Green New Deal e la così detta “transizione ecologica” verso la “decarbonizzazione”, se in una logica puramente industrialista e globalista (che vedrebbe le esigenze paesaggistiche soccombere al dilagare dei campi fotovoltaici, dei parchi eolici, delle dighe nei fiumi e nei torrenti, etc.) o in una (più equilibrata) logica di attenzione (locale) alla qualità dei territori, orientata soprattutto nella direzione della manutenzione dei territori, di una rigenerazione delle aree compromesse e degradate delle periferie urbane, della prevenzione del dissesto idrogeologico e del risanamento e recupero dei borghi appenninici nelle aree interne.
È significativo (e allarmante) il fatto che nella copiosa produzione normativa e para-normativa dell’Unione europea sul Green New Deal non siano menzionati neanche una volta il paesaggio e il patrimonio storico e artistico e che l’attenzione sia interamente assorbita dalla linea di pensiero dell’ambientalismo industriale[85]. Ma non ci si può certo meravigliare di questa impostazione, che si pone in perfetta coerenza con la genesi e la storia del diritto comunitario dell’ambiente, che, come detto, è nato come forzoso “ritaglio” nel quadro delle competenze della Comunità in materia di concorrenza e di mercato.
Si ha, in conclusione, la sensazione che la “transizione ecologica” finirà come al solito per risolversi in un grande greenwashing del vecchio refrain della “Crescita&Sviluppo”, con sacrificio ulteriore dei paesaggi del già “Bel Paese”[86].
La questione di fondo, come al solito, è culturale: forse la transizione ecologica “vera” non è quella della così detta green economy, che è totalmente organica e interna alle vecchie logiche del profitto e della crescita del PIL, ma è prima di tutto quella, mentale e culturale, basata su un nuovo modo di pensare e di guardare al mondo, su un nuovo stile di vita, sul recupero del senso del limite e su un profondo ripensamento della scala dei valori, con l’abbandono del consumo fine a se stesso e del falso slogan contradditorio dello “sviluppo sostenibile”, nella ricerca di un equilibrio stabile e duraturo. La vera transizione ecologica è probabilmente quella che porta i giovani a tornare alla terra, non quella che usa la terra per togliere l’agricoltura e mettere i pannelli solari per alimentare il business dell’auto elettrica. Ma questa visione nuova sembra essere completamente al di fuori della portata del comune pensiero politico attuale.
[1] F. de Leonardis, Economia circolare: saggio sui suoi tre diversi aspetti giuridici. Verso uno Stato circolare?, in L. Carbone, G. Napolitano e A. Zoppini, La disciplina della gestione dei rifiuti tra ambiente e mercato, Bologna, Il Mulino, 2018, 23 ss. M. Cocconi La regolazione dell’economia circolare. Sostenibilità e nuovi paradigmi di sviluppo, Milano, Franco Angeli, 2020
[2] La Convenzione europea del paesaggio, fatta a Firenze il 20 ottobre 2000, ratificata dall’Italia con la legge 9 gennaio 2006, n. 14, impone, come è noto, agli Stati parte della convenzione (art. 5, lett. a), di “riconoscere giuridicamente il paesaggio in quanto componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità” e definisce il paesaggio (art 1, lett. a) come “una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e/o umani e dalle loro interrelazioni”. Tale nozione è stata quindi tradotta e recepita dall’art. 131, commi 1 e 2, del codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al d.lgs. n. 42 del 2004: “1. Per paesaggio si intende il territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni. 2. Il presente Codice tutela il paesaggio relativamente a quegli aspetti e caratteri che costituiscono rappresentazione materiale e visibile dell'identità nazionale, in quanto espressione di valori culturali”.
[3] C. Schmitt, La tirannia dei valori, a cura di G. Gurisatti, Adelphi, Milano, 2008.
[4] “Non si distribuiscono pasti gratis” è la quarta delle quattro leggi fondamentali dell’ecologia indicate da Berry Commoner (Il cerchio da chiudere. La natura, l’uomo e la tecnologia, Garzanti, Milano, 1972).
[5] P. Stella Richter, I principi fondamentali del diritto urbanistico, Giuffrè, Milano, 2002; Id., I principi del diritto urbanistico, 2^ ed., Giuffré, Milano, 2006, par. 42 dal titolo “Un territorio, un piano”, 168 ss.
[6] V. Cerulli Irelli, Pianificazione urbanistica e interessi differenziati, in Riv. trim. dir. pubbl., 1985, 389 e 427 ss.; P. Urbani, Urbanistica, tutela del paesaggio e interessi differenziati, in Regioni, 1986, 665; Id., Ordinamenti differenziati e gerarchia degli interessi nell’assetto territoriale delle aree metropolitane, in Riv. giur. urb., 1990, 609; V. Caianiello, Diritto processuale amministrativo, 2^ ed., Torino 1994, 210 ss.; P. Chirulli, Urbanistica e interessi differenziati: dalle tutele parallele alla pianificazione integrata, in Dir. amm., 1/2015, 51 ss. Id., I rapporti tra disciplina urbanistica e discipline differenziate, in F.G. Scoca, P. Stella Richter, P. Urbani (a cura di), Trattato di diritto del territorio, Torino, 2018, vol I, 20 ss.
[7] M.S. Giannini, «Ambiente»: saggio sui diversi suoi aspetti giuridici, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 1973, 15 ss. Contrapposta alla tesi gianniniana è quella di A. Postiglione, Ambiente: suo significato giuridico unitario, in Riv. Trim. Dir. Pubb., 1985, 33 ss., secondo il quale era necessario pervenire a una nozione unitaria di “ambiente”, nella logica del diritto soggettivo alla salubrità ambientale a livello individuale. Su questi profili si veda, di recente, P. Colasante, La ricerca di una nozione giuridica di ambiente e la complessa individuazione del legislatore competente, in Federalismi.it, 24 giugno 2020.
[8] Così S. Settis, La Carta di Roma. La città del futuro è testa e popolo, Il Fatto Quotidiano, 6 ottobre 2020, pagg. 1 e 17.
[9] J. W. Von Goethe, Viaggio in Italia, trad. di E. Castellani, Mondadori, Milano, 1983 (ristampa 2010), 122 (“Salito a Spoleto, mi sono recato all’acquedotto che fa da ponte tra una montagna e l’altra . . . Una seconda natura, intesa alla pubblica utilità, questa fu per loro l’architettura, e in tal guisa ci si presentano l’anfiteatro, il tempio, l’acquedotto”). Sul tema cfr. S. Settis, Architettura e democrazia, Einaudi, Torino, 2017, cap. IV, Eine zweite Natur, 97 ss.
[10] Così A. Carandini, La bellezza abbracciata alla «salute», in Il Sole 24 Ore, Domenica, 18 ottobre 2020, XVII, che parla di “una prima e una seconda natura mai da contrapporre ma da bilanciare e ricomporre alla radice” e sottolinea l’esigenza, sempre più avvertita, di recuperare “il senso del contesto e quindi del tutto, composto sia dalle scienze della natura che da quelle della storia: due culture oggi ancora così divise, che trattano ambiente e cultura come universi estranei” (concetti sviluppati dall’Illustre A. in La forza del contesto, Laterza, Laterza, Roma-Bari, 2017).
[11] A. Carandini, La potenza culturale della nostra Italia, Domenica de Il Sole 24 Ore del 28 febbraio 2021, pag. XI. Su queste idee si insiste nel XXV convegno del Fondo ambiente italiano (Fai) del 20 marzo 2021. Il già citato Presidente del Fai, Carandini, ad esempio, afferma che “Il Fai concepisce l’ambiente come un tutto . . . [il Fai è] votato a riequilibrare la storia e la natura, a promuovere la coscienza di luogo tramite racconti e altre concrete azioni riguardo a educazione e pianificazione” e che “C’è una formazione per integrare la cultura della natura e quella del paesaggio, della storia e dell’arte”. Aggiunge (Alberi e colonne meritano davvero uguale attenzione, in Domenica de Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2021, XII) “Insomma, a ciascuno il suo, a seconda della vocazione e della missione, ma tutti uniti per cui, tramite i vari spicchi, possiamo ricomporre l’arancio intero”.
[12] Alain Badiou, L’essere e l’evento, trad. di G. Scibilia, a cura di P. Cesaroni, M. Ferrari e G. Minozzi, Mimesis, Edizioni, Milano – Udine, 2018. Osserva M. Aime (Classificare, separare, escludere, Einaudi, Torino, 2021, 14 e 15) che “Di fatto ogni cultura è un tentativo di conferire un certo ordine alla natura e al mondo che ci sta intorno” e che, con riguardo soprattutto alla mente occidentale (C. Bollas, La mente orientale (Psicoanalisi e Cina), trad. it. di M. P. Nazzaro, Milano, 2011), “Una delle prime operazioni di riordino del mondo è stata la divisione netta tra natura e cultura”.
[13] Ho svolto questa critica sia a proposito della Convenzione europea del paesaggio, sia della Convenzione di Faro sul valore dell’eredità culturale per la società: dire che “tutto è paesaggio” – o che tutto è patrimonio culturale – equivale a dire, sul piano giuridico, che nulla è paesaggio (e che nulla è patrimonio culturale). Si vedano P. Carpentieri, Regime dei vincoli e Convenzione europea, in G. F. Cartei (a cura di), Convenzione europea del paesaggio e governo del territorio, Bologna, 2007, 135 ss.; Id, La Convenzione di Faro sul valore dell’eredità culturale per la società (da un punto di vista logico), in Federalismi.it, n. 4/2017, 22 febbraio 2017, al sito http://www.federalismi.it/nv14/articolo-documento.cfm?Artid=33604, e, da ultimo, G. Severini, P. Carpentieri, La ratifica della Convenzione di Faro «sul valore del patrimonio culturale per la società»: politically correct vs. tutela dei beni culturali?, in Federalismi.it, n. 8/2021, 24 marzo 2021.
[14] S. Settis, Se Venezia muore, Einaudi, Torino, 2014, 97; Id., Paesaggio, Costituzione, cemento, Torino, Einaudi, 2010, 222 ss. (cap. VI, L’Italia si fa in tre: paesaggio, territorio, ambiente). Il Presidente del Tar di Lecce, A. Pasca, un tribunale particolarmente impegnato sulle tematiche paesaggistiche e ambientali, nel discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario 2021, in data 20 marzo 2021, ha osservato come “L’inscindibile relazione che lega il paesaggio all’ambiente, nonché le frequenti ipotesi di conflitto degli interessi tra le due succitate materie, conducono ad auspicare una sintesi delle competenze sotto un unico centro decisionale”.
[15]. Si veda da ultimo il disegno di legge costituzionale A.S. 1203 recante Modifica dell'articolo 9 della Costituzione in materia di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, protezione della biodiversità e degli animali, promozione dello sviluppo sostenibile, anche nell'interesse delle future generazioni, discusso nella 1ª Commissione permanente (Affari Costituzionali) del Senato in sede referente congiuntamente ai disegni di legge A.S .83, 212,.1532, 1627, 1632, 938 e 2160 nella seduta del 14 aprile 2021.
[16] P. Carpentieri, Voce “Paesaggio [dir. amm.]”, in Diritto on line Treccani, 8 giugno 2018, al sito http://www.treccani.it/enciclopedia/paesaggio-dir-amm_%28Diritto-on-line%29/).
[17] Estetico in senso letterale (dal greco αἴσθησις, “sensazione”, αἰσθάνομαι, “percepire attraverso i sensi”) e in senso gnoseologico [nel senso del trattato Aesthetica del 1750 di Alexander Gottlieb Baumgarten (Lezioni di estetica, Aesthetica edizioni, 2020), cui si deve l’introduzione della “gnoseologia” come teoria della conoscenza (distinta in logica ed estetica), e nel senso dell’“estetica trascendentale” come dottrina della percezione sensibile nella Critica della ragion pura di Immanuel Kant o del così detto “più antico programma di sistema dell’idealismo tedesco” (attribuito a Hegel, ma forse di Holderlin o Shelling), datato 1797, secondo il quale “l’idea che unifica tutte le altre, l’idea della bellezza, assumendo il termine nel più alto significato platonico. Io sono ora convinto che l’atto supremo della ragione, in quanto abbraccia tutte le idee, è un atto estetico e che verità e bontà solo nella bellezza sono congiunte”; o nel senso dell’Estetica di Hegel e di Friedrich Schiller (i cui scritti sull’estetica sono stati ora raccolti nel volume L’educazione estetica, Aesthetica edizioni, 2020)]. Una declinazione della nozione di “paesaggio” in chiave soprattutto estetica in R. Assunto, Il paesaggio e l’estetica: arte, critica e filosofia, Giannini, Napoli, 1973; Id., Filosofia del giardino e filosofia nel giardino. Saggi di teoria e storia dell’estetica, Bulzoni, Roma, 1981.
[18] Resta sottinteso – in quanto ovvio – che la distinzione tra “scienze esatte” e “scienze deboli”, come quella storicistica tra “scienze della natura” e “scienze dello spirito”, è una distinzione ormai superata nel dibattito filosofico (si veda, ad esempio, H. Putnam, Fatto/valore; fine di una dicotomia, trad. it. di G. Pellegrino, Roma, 2004). Essa, tuttavia, presenta ancora un profilo euristicamente fecondo sia ai fini della riflessione sulle diverse matrici storico-culturali del diritto dell’ambiente-cultura (paesaggio) rispetto al diritto dell’ambiente-natura (ambiente-ecosfera), sia ai fini di una migliore comprensione della logica formale interna del sillogismo che viene ad essere costruito nell’esercizio delle funzioni e nelle determinazioni amministrative di tutela ambientale (accertamenti tecnici). Questa impostazione è approfondita in P. Carpentieri, Interesse paesaggistico e procedimenti autorizzativi, in Riv. giur. urb., n. 2 del 2015, e, più di recente, Id., La decisione amministrativa discrezionale. Principio di proporzionalità e sindacato giurisdizionale, in Giust.Amm.it, n. 1 - 2020 [6096], 19 gennaio 2020.
[19] L’idea che la minorità fisica e naturale dell’uomo sia stata la condizione necessaria per lo sviluppo adattivo della memoria dell’esperienza e, quindi, della riflessione, fino alla conoscenza e al linguaggio, consentendo all’uomo di creare un ambiente a sua misura, dominando il mondo con la tecnica; è stata sviluppata soprattutto da A. Ghelen, L’uomo delle origini e la tarda cultura, a cura di V. Rasini, trad. it. di E. Tetamo, Mimesis, Milano, 2016, ma è già in Samuel Pufendorf, 1672, De iure naturae et gentium libri octo, così come in Bacone, in Herder (secondo cui l’uomo supplisce alla mancanza dell’istinto con la riflessione), nonché in Max Sheler, Helmut Plessner, Hans Georg Gadamer
[20] Sul superamento della dicotomia “natura-cultura” si veda il recente contributo di Yan Thomas e Jacques Chiffoleau, L’istituzione della natura, a cura e con un saggio di Michele Spanò, Quodlibet, Macerata, 2020. Andy Clark e David Chalmers, The Extendend Mind, in Analysis, vol. LVIII, n. 1, 1998, sostengono che quando le nostre tecnologie si adattano a noi in modo attivo, automatico e continuo, così come noi ci adattiamo a loro, allora la linea che separa lo strumento dal suo utilizzatore diviene incerta. Rifiutano l’identificazione ontologica ed epistemologica tra mentale e cerebrale. Rifiutano l’identificazione tra biologico e naturale da un lato e tra tecnologico e artificiale dall’altro. Tutto questo ha a che vedere anche con il “modello della mente estesa” della più recente scienza della mente, secondo la quale “la mente non è all’interno del cervello, ma si diffonde nel corpo e nell’ambiente” (M. Di Francesco, L’io esteso. Il soggetto tra biologia e cultura, in M. Di Francesco, M. Marraffa (a cura di), Il soggetto. Scienze della mente e natura dell’io, Bruno Mondadori, Milano, 2009, 170.
[21] Sulla lettera del Petrarca sull’ascesa al Monte Ventoso cfr. da ultimo A. Vedaschi, R. Grazzi, Il paesaggio e il consumo del territorio: dalla tutela alla valorizzazione, in S. Lo Nardo e A.Vedaschi (a cura di), Consumo del territorio, crisi del paesaggio e finanza locale, Gangemi, Roma 2011, 105-124, nonché H. Küster, Piccola storia del paesaggio, Donzelli, Roma, 2010, 4. Sui paesaggi storici italiani si veda l’ampia rassegna di Arnold Esch, Viaggio nei paesaggi storici italiani, trad. di Flavia Paoli, Leg Edizioni, Gorizia, 2020 (il paesaggio toscano del ciclo di affreschi di Benozzo Gozzoli nella cappella dei Magi di Palazzo Medici Riccardi di Firenze, gli sfondi delle opere del Pollaiolo con la valle dell’Arno, la Crocifissione di Antonello da Messina conservata al Koninkdijk Museum di Anversa, con lo sfondo del paesaggio dello Stretto, etc.).
[22] Genesi, 2, 6, 15 (La sacra Bibbia della CEI, editio princeps, 1971, ristampa 2006, RCS Quotidiani s.p.a., Milano, Antico Testamento, Pentateuco I, parte I, 56). Illuminante sul punto la prolusione tenuta dal cardinale Gianfranco Ravasi in occasione della prima giornata degli Stati generali del paesaggio, il 26 ottobre 2017, in Roma, intitolata «Pose l’uomo nel giardino per coltivarlo e custodirlo. Paesaggio, spiritualità e cultura». Temi, questi, sviluppati in modo più ampio in G. Ravasi, Il Grande Libro del Creato. Bibbia ed Ecologia, Edizioni San Paolo, 2021.
[23] È noto che l’immagine dell’Eden è presente già nella tradizione sumera del dio Enki, nel poema assiro-babilonese Enuma Elish e nel mito di Gilgamesh e dell'ultimo uomo sopravvissuto al diluvio, Utnapishtim, sul quale si veda di recente R. Calasso, La tavoletta dei Destini, Adelphi, Milano, 2020. Sulla diffusione di questo archetipo in molte religioni orientali cfr. A Graf, Miti, leggende e superstizioni del medioevo, Loescher, Roma, 1892-1893, ora riedito in versione integrale a cura di C. Allasia e W. Meliga, prefazione di M. Guglielminetti, saggi introduttivi di E. Artifoni e C. Allasia, Bruno Mondadori, Milano, 2002.
[24] Si pensi alla ripresa del mito virgiliano dell’Arcadia come paesaggio spirituale, dal ciclo dei dipinti del Guercino (Et in Arcadia ego) all’Accademia fondata nel 1690 in Roma dal Crescimbeni attorno a Cristina di Svezia (sul movimento poetico letterario nel XVIII sec. si vedano M.L. Doglio, M. Pastore Stocchi, Rime degli Arcadi I-XIV, Ed. di Storia e Letteratura, Roma, 2020, e AA.VV., Canoni d’Arcadia, Ed. di Storia e Letteratura, Roma, 2020). Ma si pensi anche all’idea di paesaggio del progetto della “Platonopoli” plotiniana del circolo mediceo riunito nella villa di Careggi, come disegno razionale del territorio secondo schemi ideali superiori. Un ruolo centrale, un file rouge continuo, che lega insieme tutto lo sviluppo storico dell’idea di paesaggio, è costituito dall’idea del giardino, dell’eden, dalla Roma antica (ma dalla Mesopotamia) fino ad oggi.
[25] Si ricordino, tra i pittori di paesaggio tedeschi, oltre a Carl Blechen (Le rocce di Tiberio a Capri, 1828-29), Carl Feuerbach, Hans Thoma, Franz von Lenbah. Sul ruinismo cfr. Alain Schnapp, Une histoire universelle des ruines. De origines aux Lumières, Edition du Seuil, 2021.Tra i Preraffaelliti John Everett Millais, James Tissot, Dante Gabriel Rossetti, George Frederic Watts, John Singer Sargent ed Edward Burne-Jones, Lawrence Alma-Tadema.
[26] L’espressione il “Bel Paese” risale a Dante («del bel paese là dove 'l sì suona», Inferno, canto XXXIII, verso 80) e Petrarca («il bel paese ch'Appennin parte e 'l mar circonda e l'Alpe», Canzoniere, CXLVI, versi 13-14). Su questi profili si vedano i fondamentali contributi chiarificatori di G. Severini, L’evoluzione storica del concetto giuridico di paesaggio, 59 ss., soprattutto 60-61 e nota n. 2, in G. Morbidelli, M. Morisi (a cura di) Il “paesaggio” di Alberto Predieri, Atti del Convegno «Il “paesaggio” di Alberto Predieri. A cinquant’anni dal “Significato della norma costituzionale sulla tutela del paesaggio», svoltosi a Firenze l’11 maggio 2018, Passigli Editore, Firenze, 2019, nonché Id, Culturalità del paesaggio e paesaggi culturali, in Federalismi.it, 27 maggio 2020, rielaborazione della relazione tenuta al 65° Convegno di Studi amministrativi, Dall’urbanistica al governo del territorio: valori culturali, crescita economica, infrastrutture pubbliche e tutela del cittadino, Varenna, 19-20-21 settembre 2019, in corso di pubblicazione anche nei relativi “Atti”. Si veda anche P. Camporesi, Le belle contrade. Nascita del paesaggio italiano, Garzanti, Milano, 1992. Illustra bene il rapporto di reciproco influsso tra una certa idea di paesaggio e lo sviluppo di un primo turismo di massa il saggio L’Orco, il Monaco e la Vergine. Eiger, Mömch, Jungfrau e dintorni. Storie dal cuore di ghiaccio d’Europa, di P. Paci, Corbaccio, Milano, 2020, che descrive lo sviluppo del turismo inglese nell’Oberland bernese nell’Ottocento. Sulla nascita, alla fine del Settecento, del culto delle Alpi, con il diffondersi della moda del viaggio a scopi estetici, cfr. R. Bodei, Le forme del bello, cit., 130.
[27] La nostalgia per la wilderness è spesso nostalgia per una natura più selvaggia, legata a un ideale romantico (Ch, Thacker, The Wilderness Pleases, London-Camberra, New York, 1983). Per H. Küster (Piccola storia del paesaggio, cit., 94) il culto della wilderness non era biologia ma desiderio di un paesaggio “più selvaggio”. Si veda anche R. Bodei, Paesaggi sublimi. Gli uomini davanti alla natura selvaggia, Milano, 2008.
[28] Sull’interesse di Goethe per i giardini (che partecipò allo sviluppo del parco di Weimar e dell’orto botanico di Jena) cfr. R. Bodei, Scomposizioni (Forme dell’individuo moderno), Il Mulino, Bologna, 2020, 278. Sul ruolo centrale che l’estetica del giardino ha rivestito nello sviluppo dell’idea di paesaggio si vedano C. Moore, W. Turnbull jr, W.J. Mitchell, The poetics of gardens, Cambridge (Mass.), London 1988, nonché Culture and nature. International legislative texts referring to the safeguard of natural and cultural heritage, ed. C. Añón Feliú, Firenze 2003, quinto volume dedicato a Giardini e paesaggio. Traggo queste citazioni da F. Zagari, voce Paesaggio, in X Appendice dell’Enciclopedia Italiana, volume secondo, L-Z, Roma, 2020, 249.
[29] L’estetica di Croce coglie dunque un elemento centrale della nozione di “paesaggio”, e questo aspetto andrebbe rivalutato, valorizzando le origini “crociane” della nostra legislazione nella materia, a partire dalla fondamentale legge 11 giugno 1922, n. 778. È noto che per Croce l’estetica è una disciplina filosofica, anzi è uno dei pilastri della filosofia, che coglie uno dei modi della conoscenza, Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale. Autonomia dell’arte orientata alla bellezza nell’autonomia dell’arte, che non ha scopi utilitaristici, concettuali o moralistici, ma ha un carattere contemplativo e disinteressato e viene fuori dalla sintesi a priori tra forma e contenuto: l’arte è, infatti, intuizione pura (B. Croce, Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale. Teoria e storia, 1965).
[30] La commissione Franceschini, nella dichiarazione XXXIX della relazione finale, definiva i beni culturali ambientali come “le zone corografiche costituenti paesaggi, naturali o trasformati dall’opera dell’uomo, e le zone delimitabili costituenti strutture insediative, urbane e non urbane, che, presentando particolare pregio per i loro valori di civiltà, devono essere conservate al godimento della collettività” (F. Franceschini, Relazione della commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio, in Riv. trim. dir. pubbl., 1966, 119, nonché in Per la salvezza dei beni culturali, Roma, 1967).
[31] E. Morin, op. cit., 27 ss.
[32] Non necessariamente un’estetica del “brutto” (Karl Rosenkranz Estetica del brutto, Aesthetica edizioni, Sesto San Giovanni, Milano, 2020). In Rosenkranz il brutto assume un ruolo di mediazione nella dialettica realizzativa del bello. Si veda, in tema, anche R. Bodei, Le forme del bello, cit., soprattutto 141 ss.
[33] E. Boscolo, La nozione giuridica di paesaggio identitario ed il paesaggio ‘a strati’, in Riv. giur. urb., 2009, Id., Appunti sulla nozione giuridica di paesaggio identitario, in Urb. e app., 2008, n. 7, 797 ss.
[34] Sul fondamentale contributo di Alberto Predieri (A. Predieri, Urbanistica, tutela del paesaggio, espropriazione, Milano, 1969, nonché Id., voce Paesaggio in Enc. Dir., vol. XXXI, Milano, 1981, pag. 514.) si veda il già richiamato volume a cura di G. Morbidelli, M. Morisi, Il “paesaggio” di Alberto Predieri, cit.
[35] C. Tosco, Il paesaggio come storia, Bologna, 2007, 35.
[36] H. von Humboldt, Quadri della natura, trad. di G. Melucci, La Nuova Italia, Firenze, 1999.
[37] Roger Scruton definisce oikophilia l’amore per la casa (Beauty: A Very Short Introduction, Oxford University Press, Oxford, 2009 - citazione tratta da F. Giubilei, op. cit., 102). Per un esame di queste posizioni cfr. S. Settis, Azione popolare, Einaudi, Torino, 2012, 153 ss.
[38] R. Scruton, Beauty: A Very Short Introduction, cit; G. Simmel, Saggi sul paesaggio, Armando Editore, Roma, 2006; R. Assunto, Il paesaggio e l’estetica: arte, critica e filosofia, cit.; Id., Filosofia del giardino e filosofia nel giardino. Saggi di teoria e storia dell’estetica, cit.; P. D’Angelo, Filosofia del paesaggio, Quodlibet, Macerata, 2010; C. Raffestin, Dalla nostalgia del territorio al desiderio di paesaggio, Elementi per una teoria del paesaggio, Alinea, Roma, 2005; R. Milani, L’arte del paesaggio, Il Mulino, Bologna, 2001; Id., L’arte della città, Il Mulino, Bologna, 2015; I. Baldriga, Estetica della cittadinanza. Per una nuova educazione civica, Le Monnier, Firenze.
[39] Sul modello tedesco dei Denkmaler der Natur, der Kunst, der Geschiste si veda S. Settis., Architettura e democrazia, cit., 31 ss., nonché, da ultimo, anche con riferimento alla legislazione francese, con la consueta profondità e completezza, G. Severini, Culturalità del paesaggio e paesaggi culturali, cit. Su Ernst Rudorff (Heimatschutz, Erstdruck, 1897) cfr. C. Tosco, Il paesaggio come storia, cit., 57. Su Humboldt cfr. A. Wolf, L’invenzione della natura. Le avventure di Alexander Von Humboldt, l’eroe perduto della scienza, Luiss Univ. Press, Roma, 2017
[40] Il richiamo a Victor Hugo è tratto da G. Severini, Culturalità del paesaggio e paesaggi culturali, cit., nota n. 3.
[41] Su questi profili si veda R. Bodei, Scomposizioni (Forme dell’individuo moderno), cit., cap. VII, Solitudine e oblio, 211 ss. Sulla nozione di “sublime” nell’evoluzione dell’estetica cfr. R. Bodei, Le forme del bello, cit., 122 ss.
[42] Essai sur la nature, le but et les moyens de l'imitation dans les beaux-arts, 1823. Il testo del 1815 Considérations morales sur la destination des ouvrages de l'art, ou de l'influence de leur emploi sur le génie et le goût de ceux qui les produisent ou qui les jugent contribuì agli sviluppi del dibattito in Francia intorno alla legittimità delle spoliazioni e della raccolta di beni in Francia, dibattito che è probabilmente alle origini della nascita della nozione di patrimonio culturale, come chiarito da S. Settis, Paesaggio, costituzione, cemento, cit., 88 ss.
[43] A Henry David Thoreau – autore del famoso Walden; or, Life in the Woods, 1854 (Walden. Vita nel bosco, trad. it. di S. Proietti, Donzelli, Roma, 2005) – sembra si debba il topos del paesaggio come “volto amato della patria”. John Muir (1838 – 1914) è il fondatore nel 1892 del Sierra Club, uno dei primi movimenti ambientalisti, ed è considerato il padre dei primi parchi nazionali degli USA (nel 1903 convinse Theodore Roosevelt ad avviare la costituzione dei parchi nazionali, Yosemite Park e Sequoia Park, lungo i quali ancora oggi c’è il Muir Trail, fino alla cima del monte Whitney; di Muir è uscita di recente una nuova edizione del libro Andare in montagna è andare a casa, Piano B Edizioni, Prato, 2020). George P. Marsh, primo ambasciatore nel Regno d’Italia degli Stati Uniti, è famoso per il suo Man and Nature, del 1864, tradotto in italiano dallo stesso Autore nel 1870.
[44] Una vera e propria “Repubblica delle Lettere” per il paesaggio, espressione di un unico milieu culturale omogeneo, nel quale il paesaggio è prima di tutto storia e identità culturale (mutuando, si licet, l’idea di una “Repubblica delle Lettere”, che costituì già nel tardo Medioevo e nel Seicento la vera forza di coesione dell’Europa,temi sui quali si veda Marc Fumaroli, Le api e i ragni. La disputa degli Antichi e dei Moderni, trad. it. di G. Cillario e M. Scotti, Milano, 2005, Autore scomparso a Parigi il 24 giugno 2020, ricordato da Carlo Ossola su La Domenica del Sole 24 Ore del 28 giugno 2020, che ricorda come Fumaroli parlasse di “diplomazia dello spirito”, come l’insieme delle credenze che fanno di una popolazione una comunità naturale).
[45] G. Severini, soprattutto in L’evoluzione storica del concetto giuridico di paesaggio, cit, dove l’illustre A. richiama l’omogeneità della visione europea della tutela del paesaggio agli inizi del Novecento, espressa in Italia dalla legge sulla pineta di Ravenna n. 411 del 1905 e dalla legge Croce del 1922, in Francia nella legge Beauquier 21 aprile 1906 sui paesaggi pittoreschi, «organisant la protection des sites et monuments naturels de caractère artistique», in Prussia dall’analoga legge 15 luglio 1907 «gegen die Verunstaltung von Ortschaften und landschaftlich hervorragenden Gegenden» (contro le deturpazioni degli abitati e dei paesaggi eccellenti), anticipata da quella del 2 giugno 1902 e da norme degli Stati germanici.
[46] Il punto, di grande rilievo, direi essenziale per la comprensione della nascita e dell’evoluzione della tutela paesaggistica e ambientale in Italia, è ricostruito da G. Severini in Culturalità del paesaggio e paesaggi culturali, cit. Si veda anche F. Giubilei, Conservare la natura (Perché l’ambiente è un tema caro alla destra e ai conservatori), Giubilei Regnani, Roma-Cesena, 2020, 3096-97, che riconnette a questi primi movimenti turistici la spinta verso la costituzione dei primi parchi nazionali, quello dell’Abruzzo (1921), del Circeo (1934) e dello Stelvio (1935). Alla lista deve ovviamente aggiungersi il Parco nazionale del Gran Paradiso, nato nel 1922.
[47] M. D’Amelio, La tutela giuridica del paesaggio, in Giur. It., 1912, 129 ss.
[48] Non può non ricordarsi, infine, in questo discorso, che la legge Rava – Rosadi n. 411 del 16 luglio 1905 era intitolata “per la conservazione della Pineta di Ravenna” e si proponeva, quale suo scopo precipuo, la difesa dei luoghi cantati da Dante nella Divina Commedia [“la divina foresta spessa e viva” del Canto XXVIII del Purgatorio, luogo narrativo poi ripreso anche dal Boccaccio nella novella di Nastagio degli Onesti del Decamerone (V, 8)]. Si veda in proposito, il volume di R. Balzani, Per le antichità e le belle arti, la legge n. 364 del 20 giugno 1909 e l’Italia giolittiana, ed. del Senato della Repubblica, Bologna, 2003, 435 e 436. Sulla legge “Croce” n. 778 del 1922 si veda la bella prolusione di S. Settis, Benedetto Croce ministro e la prima legge sulla tutela del paesaggio, tenuta il 3 ottobre 2011 presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, reperibile al sito http://www.unive.it/media/allegato/infoscari-pdf/Croce-Ca_Foscari1.pdf.
[49] Un secondo aggiornamento, dal titolo Limits to Growth: The 30-Year Update, è stato pubblicato il 1º giugno 2004 dalla Chelsea Green Publishing Company. L’aggiornamento si apre sottolineando che l'impronta ecologica (tecnica introdotta da Mathis Wackernagel e altri nel 1996) ha iniziato a superare intorno al 1980 la capacità di carico della Terra e la supera attualmente del 20%. Cfr. J. Randers, 2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni, Edizioni Ambiente, 2013.
[50] N. Georgescu-Roegen, The Entropy Law and the Economic Process, Harvard Univesity Press, Boston, 1971, introdusse il concetto di bioeconomia (traggo il riferimento da F. Giubilei, op. cit., 71).
[51] Virginio Bettini (1942 – 2020) è stato un politico italiano, esponente dei Verdi Arcobaleno e della Federazione dei Verdi. A lui si deve la prima critica alla “ideologia borghese dell’ecologia”, la “ecologia delle contesse”, ossia a quella tradizione, fondamentalmente elitaria, che vedeva la tutela ambientale come tutela del volto amato della Patria, dei bei paesaggi e del Belpaese.
[52] Barry Commoner, biologo ed ecologo statunitense (New York 1917- 2012), professore di fisiologia vegetale all’Università di Washington, ha applicato un rigoroso approccio scientifico ai problemi ambientali ed ha fondato nel 1966 il Center for biology of natural system di New York.
[53] Sulla Relazione Tecneco e sulla sua impostazione “panurbanistica”, intesa a ricondurre la materia “ambiente” nelle competenze regionali, con vis actractiva sul paesaggio, cfr. S. Settis, Paesaggio, Costituzione, cemento, cit., 225 ss. ed ivi un’attenta analisi dei testi dei primi statuti regionali del 1970 – 1971 e dei riferimenti in essi contenuti alla tutela dell’ambiente.
[54] In Wikipedia si legge che “La frase originale "Think global, act local" è stata attribuita all’urbanista scozzese e attivista sociale Patrick Geddes. Anche se la frase esatta non appare in Geddes, 1915, libro 'Le città in evoluzione' . . . Il primo uso della frase in un contesto ambientale è contestata. Alcuni dicono che è stato coniato da David Brower, fondatore di Friends of the Earth, come uno slogan per FOE quando è stata fondata nel 1969, anche se altri lo attribuiscono a René Dubos nel 1977. Il "futurista" canadese Frank Feather ha anche presieduto una conferenza chiamata "pensare globalmente, agire localmente" nel 1979 e ha rivendicato la paternità dell'espressione. Altri includono tra i creatori possibili il teologo francese Jacques Ellul”. Sul cortocircuito del fenomeno “glo-cal”, tra globale e locale, cfr. G. Marramao, Kairòs, Apologia del tempo debito, ed. ampliata, Bollati Boringhieri, 2020, Torino, Prefazione alla nuova edizione, 19 (che richiama Marshall McLuhan, che “aveva caratterizzato il «villaggio globale» come contrassegnato da una dinamica ambivalente: di unificazione planetaria e di «decentralizzazione tribale»”).
[55] Gro Harlem Brundtland, presidente della Commissione mondiale su Ambiente e Sviluppo (World Commission on Environment and Development, WCED,) istituita nel 1983, introdusse, nel rapporto «Our common future», l’idea del «sustainable development», con un’impostazione sostanzialmente recepita nel 1989 dall’Assemblea generale dell’ONU.
[56] Ho sostenuto che il concetto di “sviluppo sostenibile” sia un ossimoro in un mio non recente contributo (La causa nelle scelte ambientali, in Rivista della Scuola Superiore dell’Economia e delle Finanze, n. 3/2006, 99 ss.). Apprendo da F. Giubilei, Conservare la natura, cit., 155, che questa considerazione sarebbe stata formulata da Alain de Benoiste e da Serge Latouche, nell’ambito della teoria della decrescita felice. Una critica analoga anche in E. Goldsmith, The Earth Report, Mitchell Bezley, Londra, 1992. Per certi aspetti l’idea di sviluppo sostenibile sembra rievocare echi hegeliani, nel richiamo dei “pilastri” fondamentali della dialettica: contraddizione e sviluppo, storia orientata verso un fine lontano, sacrificio del presente in favore del futuro (R. Bodei, Scomposizioni, cit., 389, il quale osserva anche – ivi, 287 - come l’ideale della Bildung e della metafisica dello sviluppo siano sorti in funzione dell’oltrepassamento dei limiti). Da ultimo E. Comelli, E. Bianchetti, Tocca a noi, Siamo stati il problema, possiamo essere la soluzione, Edizioni Ambiente, 2020, osservano condivisibilmente che al posto del concetto di “sviluppo sostenibile” occorrerebbe parlare di “equilibrio”, poiché quella di “sviluppo sostenibile” è una “definizione che ha fatto il suo tempo e che porta in sé tutta l’ambiguità in cui ci siamo cullati negli ultimi decenni”, e che certamente non può continuare a essere inteso nel senso praticato finora, come “crescita a tutti i costi, fatturato, PIL, remunerazione, ricchezza”.
[57] L’8 agosto 2019 l’IPCC ha pubblicato un nuovo rapporto sul clima, approvato a Ginevra dalle delegazioni di 195 Paesi.
[58] Per Haeckel l’ecologia è “la scienza complessiva delle relazioni di un organismo con l’ambiente circostante” (così riferisce G. Ieranò, Le parole della nostra storia, Marsilio, Venezia, 2020, 188).
[59] H. Küster, op. cit., 102.
[60] J. Lovelock, La rivolta di Gaia, Rizzoli, 2006. Riprende la teoria di Gaia Bruno Latour, La sfida di Gaia. Il nuovo regime climatico, prefazione di Luca Mercalli, trad. di Donatella Caristina, Meltemi, 2020.
[61] Forse una radice di questa teoria è da ricercare in Alexander Von Humboldt, il quale, nella narrazione dei suoi viaggi in America del Sud (Personal Narrative, letto e ammirato da Darwin) sviluppò l’idea che la Terra fosse un unico grande organismo vivente in cui tutto è interconnesso (come evidenziato da A. Wolf, L’invenzione della natura. Le avventure di Alexander Von Humboldt, l’eroe perduto della scienza, cit.). La teoria di Gaia – come, del resto, molti temi ambientalisti di oggi – sembra trovare peraltro illustri antecedenti in Spinoza, Shelling e, forse, in Anassimene di Mileto (546-525 a.C.), filosofo della scuola Ionica, discepolo di Anassimandro, secondo il quale il mondo è un animale gigantesco che respira. La base filosofica migliore del pensiero ambientalista va ricercata nel libro di Hans Jonas Il principio responsabilità, che è del 1979 (H. Jonas, Il principio responsabilità, 1979, ed. it. a cura di P.P. Portinaro, Torino, 2009). Habitat è la terza persona singolare del verbo Habitare (habitus, da cui abitudine, che ne è il participio passato). La oikos di economia e di ecologia, nella sua radice etimologica che richiama il concetto di “casa”, è in qualche modo alla base sia del paesaggio, sia dell’ambiente-ecologia, solo che per il primo la casa da difendere è questa, dei nostri territori, nei quali noi siamo insediati e attraverso i quali edifichiamo la nostra identità; quella dell’ambiente-ecologia, soprattutto negli ultimi decenni, è invece quella globale e si identifica con il mondo intero, Gaia, il pianeta vivente.
[62] Sulla stretta derivazione delle politiche comunitarie dalle scienze e dalle tecniche ambientali cfr. M. Cecchetti, La Corte costituzionale davanti alle “questioni tecniche” in materia di tutela dell’ambiente, in Federalismi.it. 13 maggio 2020. Più in generale, osserva condivisibilmente l’A. che “che la produzione pubblica del diritto dell’ambiente consiste pressoché sempre – e, soprattutto, nei suoi contenuti più tipici e qualificanti – in un’attività di “normazione tecnica”, ossia nella produzione di “regole tecniche” in senso stretto, ovvero di regole giuridiche elaborate sulla base o in funzione di presupposti e di dati conoscitivi di natura “tecnico-scientifica”, per cui “non ci si può occupare del diritto ambientale se non facendo i conti con le elaborazioni delle c.d. “scienze dure”.
[63] M. Cecchetti, Le politiche ambientali tra diritto sovranazionale e diritto interno, in Federalismi.it, n. 7/2020, 27 marzo 2020.
[64] Si rinvia in proposito alla più diffusa manualistica di diritto dell’ambiente (Trattato di diritto dell’ambiente, diretto da P. Dell’Anno ed E. Picozza, vol. I, Principi generali; A. Gustapane, Tutela dell’ambiente (dir. interno), in Enc. Dir., Milano 1992, 413 ss.; P. Dell'Anno, Manuale di diritto ambientale, Padova, 1998; A. Crosetti, R. Ferrara, N. Olivetti Rason, Diritto dell'ambiente, Laterza, Bari, 2002; B. Caravita, Diritto dell’ambiente, Il Mulino, Bologna 2005; F. Fonderico, Ambiente (Dir Amm.), in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S. Cassese, Giuffré, Milano 2006, 204 ss.; Id., Ambiente (tutela dell’). I) Diritto amministrativo, in Enc. Giur., Agg., XVI, Roma 2008; L. R. Perfetti, Premesse alle nozioni giuridiche di ambiente e paesaggio. Cose, beni, diritti e simboli, in Riv. giur. ambiente, 2009, 1 ss.; F. Fracchia, Il principio dello sviluppo sostenibile, in M. Renna e F. Saitta (a cura di), Studi sui principi del diritto amministrativo, Milano, Giuffrè, 2012, 433 ss.
[65] C. Videtta, Cultura e sviluppo sostenibile. Alla ricerca del IV pilastro, Torino, 2018.
[66] La polisemia della nozione (metagiuridica) di paesaggio è, come noto, arricchita da numerosi apporti, provenienti da i più vari e diversificati ambiti culturali. Per una efficace panoramica sull’ampiezza ed eterogeneità della nozione metagiuridica di paesaggio si vedano A. Clementi (a cura di), Interpretazioni di paesaggio, Roma, 2002; L. Scazzosi (a cura di), Politiche e culture del paesaggio (esperienze internazionali a confronto), Roma, s.d., ma 1999; E Turri., Antropologia del paesaggio, Milano, 1974; Id., Semiologia del paesaggio italiano, Milano, 1979; C. Tosco, Il paesaggio come storia, cit., che ripercorre in sintesi i diversi apporti rinvenibili nella storia, a partire dalla pittura murale e dalla cultura dei giardini di età romana fino al Rinascimento italiano, da Ruskin a Mérimée, da von Humboldt a Buckhardt, da Carl Ritter a Ratzel, fino all’idea del territorio come sedimento storico dell’Università di Lipsia del Meitzen; dall’Heimatschutz di Ernst Rudorff alla storiografia anglosassone di Marc Bloch e alla geostoria di Braudel; dagli studi di Vittorio Sereni sul paesaggio agrario fino alla strutturalismo di Biasutti e Gambi; dalla teoria dei sistemi fino all’ermeneutica di Joachim Ritter, Massimo Quaini, Rosario Assunto, etc. Fondamentale è anche il richiamo - 94 e 95 – alla scuola italiana del restauro di Roberto Longhi e Giovanni Urbani, che, sin dalla metà del Novecento, aveva posto l’accento sulla necessità di tutelare il bene culturale nel suo contesto ambientale, tesi ora ripresa da Bruno Zanardi, che propone un Piano nazionale per la conservazione del patrimonio storico e artistico in rapporto all’ambiente, sulla premessa teorica per cui il detto patrimonio costituisce una componente ambientale antropica – Giovanni Urbani, 1982 – costituente “una totalità indissolubile dalla totalità dell’ambiente”.
[67] K. R. Popper, I tre mondi. Corpi, opinioni e oggetti del pensiero, Bologna, 2012.
[68] R. Scruton, Il volto di Dio, Milano 2013, 37, in particolare cap. V, Il volto della terra, 113 ss. Per H. Küster, op. cit., 11, “al paesaggio appartiene sempre anche una dimensione riflessiva”. Küster sottolinea anche il valore metaforico del paesaggio (op. cit. cap. V, Il paesaggio come metafora, 70 ss.).
[69] Uno dei “campioni” dell’anti-illuminismo, Johann Georg Hamann, era contemporaneo e amico di Goethe.
[70] Sul punto sia consentito il rinvio a P. Carpentieri, Voce “Paesaggio [dir. amm.]”, in Diritto on line Treccani, cit., e ai contributi contenuti in G. Morbidelli, M. Morisi (a cura di) Il “paesaggio” di Alberto Predieri, cit. H. Küster, Piccola storia del paesaggio, cit., 113, osserva che “Paradossalmente, lo studio scientifico del paesaggio ha avuto inizio proprio nel periodo in cui le discipline che avrebbero dovuto collaborare all’analisi di questo tema sono state separate e associate alle facoltà umanistiche e a quelle delle scienze naturali. Questo accadeva nel XIX secolo. Oggi è evidente che la divisione delle scienze in due regni non ha giovato allo studio complessivo del paesaggio. Per legittimare la scienza del paesaggio come disciplina c’è bisogno di saperi che afferiscono a entrambi i campi: la storia, l’estetica e la storia dell’arte, la filosofia, la geografia, la geologia, l’ecologia, la sociologia, l’economia, le scienze agrarie, la pianificazione del territorio e l’architettura paesaggistica”.
[71] Sentenze 1° aprile 1985, n. 94; 21 dicembre 1985, n. 359; 27 giugno 1986, n. 151; 22 luglio 1987, n. 183; 28 luglio 1995, n. 417; 23 luglio 1997 n. 262; 25 ottobre 2000, n. 437 (tutte le pronunce della Corte costituzionale richiamate in questo contributo sono consultabili sul sito ufficiale della Corte o sul sito Consulta on line).
[72] M.S. Giannini, «Ambiente»: saggio sui diversi suoi aspetti giuridici, cit.
[73] Sentenza 26 novembre 2002, n. 478 (che richiama la precedente n. 378 del 2000).
[74] Sentenze 27 luglio 2000, n. 378, nonché nn. 39 e 153 del 1986 e n. 529 del 1995.
[75] Sentenze 3 ottobre 1990, n. 430 e 11 luglio 1989, n. 391.
[76] Sentenza 20 febbraio 1995 n. 46 che richiama la legge “Galasso” del 1985 e richiama le precedenti sentenze 359 del 1985, 67 del 1992, 269 del 1993.
[77] Seguita da una coerente serie numerosa di pronunce successive: nn. 180 e 232 del 2008; n. 164 del 2009; nn. 101 e 193 del 2010; nn. 235 e 309 del 2011; n. 66 del 2012; nn. 139, 211 e 238 del 2013; nn. 197 e 210 del 2014; nn. 64 e 99 del 2015; nn. 11 e 210 del 2016; n. 103 del 2017.
[78] Per una disamina critica dell’ordinanza di remissione del Tar Sicilia, sopra citata, cfr. P. Carpentieri, Paesaggio e Corti europee (in margine a Tar Sicilia, Palermo, Sezione I, ordinanza 10 aprile 2013, n. 802), nella rivista on line Giust.Amm.it (al sito http://www.giustamm.it), 3 maggio 2013.
[79] P. Carpentieri, Principio di differenziazione e paesaggio, in Riv. giur. ed., n. 3 del 2007, 71 ss. Per una visione opposta si veda soprattutto P. Stella Richter, da ultimo in Relazione generale al Convegno AIDU 29-30 settembre 2017 (Udine) La perequazione delle disuguaglianze tra paesaggio e centri storici, in Id. (a cura di), Studi del XX Convegno nazionale AIDU, Giuffré, Milano, 2018, 1 ss., nonché in Il principio comunitario di coesione territoriale, in G. De Giorgi Cezzi, P.L. Portaluri (a cura di), La coesione politico-territoriale, in L. Ferrara, D. Sorace (a cura di), A 150 anni dall’unificazione amministrativa italiana – Studi, vol. II, Firenze, 2016, 468.
[80] E. M. Marenghi, Giusto procedimento e processualprocedimento, in Dir. proc. amm., n. 4 del 2008, 961.
[81] P. Carpentieri, Paesaggio contro ambiente, in Urbanistica e Appalti, n. 8 del 2005, 931 ss.; Id., Eolico e paesaggio, in Riv. giur. ed., n. 1 del 2008, 322 ss. La giurisprudenza che ha subito chiamato in causa, contro l’interesse paesaggistico, le finalità di interesse pubblico di riduzione delle emissioni di gas serra in esecuzione del Protocollo di Kyoto è citata nel primo dei due scritti ora citati (Cons. Stato, sez. VI, 9 marzo 2005, n. 971; Tar Sicilia, Palermo, sez. II, 4 febbraio 2005, n. 150). Più di recente si veda la sintesi, su questi temi, di M. Santini, Ambiente e paesaggio tra conflitti valoriali ed istituzionali, in Urbanistica e Appalti, n. 3 del 2020, 302 ss.
[82] “Nonostante la nostra ricerca di leggi fisiche universali, i limiti del riduzionismo ci fanno intravedere che a volte il mondo si comporta in maniera molto diversa a scale diverse, e per descriverlo e spiegarlo dobbiamo usare il modello e la teoria appropriati. A esempio, sulla scala dei pianeti, delle stelle e delle galassie, la gravità domina su tutto: controlla la struttura del cosmo. Ma non ha alcun ruolo pratico su scala atomica” (Jim Al-Khalili, Il mondo secondo la fisica, trad. di L. Servidei, Bollati Boringhieri, Torino, 2020, 40).
[83] Corte cost. 3 dicembre 2020, n. 258, nonché sentenze n. 106 del 2020, n. 286 del 2019, n. 148 del 2019, n. 86 del 2019 e n. 177 del 2018.
[84] Cons. Stato, sez. VI, 9 giugno 2020, n. 3696 (in tema di eolico); Cons. Stato, sez. IV, 12 aprile 2021, n. 2983 (in tema di fotovoltaico, secondo la quale la comparazione non avverrebbe tra tutela del paesaggio “rispetto ad un mero interesse economico, bensì con riferimento all’interesse pubblico alla realizzazione degli impianti FER”).
[85] Pe un’analisi puntuale di questi documenti si veda G. Severini, U. Barelli, Gli atti fondamentali dell’Unione europea su “transizione ecologica” e “ripresa e resilienza”: prime osservazioni, pubblicato nel sito della Giustizia amministrativa, 22 aprile 2021. I sei indicatori ambientali e il principio «non arrecare un danno significativo» enunciati nel regolamento (UE) 2020/852 del 18 giugno 2020 relativo all’istituzione di un quadro che favorisce gli investimenti sostenibili non hanno nessun riferimento al paesaggio e al patrimonio storico e artistico. Principi, questi, fatti propri dal regolamento (UE) 2021/241 che “istituisce il dispositivo per la ripresa e la resilienza”.
[86] È significativo il fatto che il progetto di riforma normativa per la razionalizzazione del consumo di suolo sia praticamente già fallito. Il testo unificato dei disegni di legge recanti Misure per la rigenerazione urbana A.S. n. 1131, 985, 970, 1302, 1943, 198AS n. 1131 è bloccato nelle commissioni riunite 9ª (Agricoltura e produzione agroalimentare) e 13ª (Territorio, ambiente, beni ambientali) del Senato. Rigenerazione urbana, Ddl sommerso da critiche e 2mila emendamenti, titola Il Sole 24 Ore del 27 aprile 2021, pag. 9, e riferisce che “il Ddl era stato sommerso da critiche delle imprese (Confindustria, Ance, Assoimmobiliare), della Conferenza delle Regioni e dell'Anci. Critiche anche Inu e Legambiente”. È evidente che la politica non ha nessuna intenzione seria di limitare il consumo di suolo. È al contrario probabile che, dopo il Covid-19, l’idea sia quella di alimentare e di spingere la ripresa e la crescita con la solita espansione dell’edilizia e del consumo di territorio e di paesaggio.
Autotutela sugli atti del commissario ad acta nel giudizio avverso il silenzio (nota a Cons Stato, Sez. IV, 18 03 2021, n. 2335) di Roberto Fusco
Sommario: 1. Il caso di specie. – 2. La natura giuridica del commissario ad acta nel giudizio di ottemperanza e la contestabilità dei provvedimenti commissariali. – 3. Il ruolo e i poteri del commissario ad acta nell’ambito del giudizio avverso il silenzio. – 4. Il decisum della sentenza: l’assenza del potere di autotutela della pubblica amministrazione sui provvedimenti commissariali. – 5. La permanenza del potere di provvedere della pubblica amministrazione dopo la nomina del commissario. – 6. Alcune brevi considerazioni conclusive.
1. Il caso di specie.
La sentenza in commento[1] si sofferma sul tema dell’annullabilità in autotutela dei provvedimenti adottati dal commissario ad acta nominato, in sostituzione della pubblica amministrazione, nell’ambito del giudizio avverso il silenzio inadempimento. Il potere di autotutela in relazione ai provvedimenti commissariali presuppone plurime questioni tra loro interconnesse riguardanti la figura del commissario, ossia: la sua natura; le relazioni intercorrenti tra il commissario, il giudice che lo nomina e l’ente sostituito; le differenze del suo ruolo nel giudizio di ottemperanza e in quello avverso il silenzio; e, infine, la natura dei provvedimenti commissariali e i relativi strumenti utilizzabili per la loro contestazione.
Si anticipa sin d’ora che il Consiglio di Stato, confermando la propria giurisprudenza prevalente sul punto, ha negato la sussistenza del potere della pubblica amministrazione di incidere in autotutela sugli atti adottati in sua vece dal commissario ad acta, prevedendo che per la loro contestabilità l’amministrazione debba esperire, al pari del privato, il rimedio del reclamo.
Il caso di specie, da cui origina la pronuncia in commento, riguarda l’impugnazione di una sentenza del T.A.R. per il Molise[2] che ha accolto il ricorso avverso il provvedimento dirigenziale con il quale il Comune di Campobasso ha annullato in autotutela il provvedimento di un commissario ad acta[3]. La sentenza di primo grado ha negato all’ente comunale il potere di incidere in autotutela sull’atto commissariale, ritenendo che la relazione intercorrente tra il commissario (nominato nell’ambito di un giudizio avverso il silenzio-inadempimento) e l’ente sostituito abbia carattere inter-soggettivo e non semplicemente inter-organico. Sulla base di tale impostazione sono stati annullati i provvedimenti con i quali l’amministrazione comunale aveva rimosso in autotutela il provvedimento commissariale e l’atto comunale che aveva preannunciato il rigetto dell’istanza di rilascio del titolo edilizio. L’ente comunale ha proposto appello avverso la succitata sentenza, sostenendo che gli atti commissariali emanati sarebbero stati imputabili al Comune e, quindi, ordinariamente annullabili d’ufficio dallo stesso, essendo il potere di autotutela dell’amministrazione un potere “immanente” e non “espropriabile”. Inoltre, sempre secondo l’amministrazione appellante, la procedura di reclamo non sarebbe applicabile al rito avverso il silenzio rifiuto e, in ogni caso, non priverebbe l’amministrazione del suo potere di autotutela.
L’adito Collegio, dopo aver rigettato la richiesta di sospensione dell’esecutività della sentenza avanzata dall’appellante in sede cautelare[4], ha respinto il proposto appello ritenendo fondato il primo motivo di ricorso svolto in prime cure secondo il quale, alla luce del rapporto inter-soggettivo tra il commissario e l’ente sostituito, alla pubblica amministrazione non può essere riconosciuto il potere di autotutela sugli atti commissariali.
2. La natura giuridica del commissario ad acta nel giudizio di ottemperanza e la contestabilità dei provvedimenti commissariali.
La nomina del commissario ad acta[5] costituisce la principale modalità attraverso la quale il giudice amministrativo, nell’ambito del giudizio di ottemperanza, si sostituisce alla pubblica amministrazione per dare attuazione alle sentenze di merito e agli altri provvedimenti ad esse equiparati ogniqualvolta la pubblica amministrazione ometta di darvi esecuzione[6].
L’indagine sulla natura giuridica del commissario nominato in sede di ottemperanza è da sempre stata fondamentale al fine di individuare il regime giuridico dei provvedimenti commissariali[7]. Come icasticamente evidenziato in dottrina, infatti, il commissario ad acta può essere rappresentato come “un punto di sutura e di saldatura tra attività giurisdizionale e attività amministrativa”[8].
Prima dell’adozione del codice del processo amministrativo la dottrina e la giurisprudenza avevano elaborato tre principali teorie circa la natura giuridica del commissario ad acta di nomina giudiziale[9].
Una prima teoria qualifica il commissario come organo ausiliario del giudice. Questa tesi poggia su due fondamentali pronunce della Corte costituzionale[10] e del Consiglio di Stato[11] secondo le quali l’attività sostitutiva del giudice dell’ottemperanza ha natura giurisdizionale e l’attività del commissario è strumentalmente connessa ad essa; gli atti del commissario, in quanto riconducibili all’ufficio giudiziario, devono essere qualificati della stessa natura (giudiziale) e, pertanto, la loro contestazione spetta al giudice dell’ottemperanza che ha l’obbligo di accertarne la rispondenza al giudicato[12].
Una seconda teoria qualifica il commissario come un organo straordinario dell’amministrazione resistente, che deve operare secondo le logiche (e le regole) dell’attività amministrativa, ponendo in essere atti imputabili alla pubblica amministrazione[13]. Da questa impostazione discende che l’impugnazione dei provvedimenti da parte dei privati debba essere effettuata mediante un’autonoma azione annullatoria e non rivolgendosi direttamente (con reclamo) al giudice dell’ottemperanza. Inoltre, l’ente sostituito, non avendo la legittimazione ad impugnare un atto proprio, sarebbe stato privo di tutela nei confronti degli atti commissariali[14], eccetto il potere di autotutela sugli stessi[15].
Infine, occorre dar conto di una terza teoria che qualifica il commissario come un organo misto, ossia un organo che è allo stesso tempo organo ausiliario del giudice dell’ottemperanza (in quanto deputato alla funzione di attuazione del giudicato promanante dal giudice) e organo straordinario dell’amministrazione sostituita (in quanto inserito coattivamente nelle strutture organizzative dei quest’ultima per provvedere in sua vece)[16]. Esso va inteso come un soggetto dalla doppia natura, che da un lato è un delegato (ausiliario) del giudice e opera come suo alter ego e, dall’altro lato, svolge una funzione sostanzialmente amministrativa in sostituzione dell’amministrazione inadempiente[17]. In adesione a questa “bivalenza” della figura del commissario, parte della giurisprudenza ha affermato che il commissario sarebbe organo ausiliario del giudice oppure organo straordinario dell’amministrazione a seconda dell’ampiezza (minore o maggiore) dello spazio che il giudicato lascia alla sua azione: qualora il giudice demandi al commissario il compito generale di sostituirsi alla pubblica amministrazione inadempiente, il commissario dovrebbe considerarsi come organo straordinario della stessa; laddove, invece, il giudice gli attribuisca un compito ben preciso e delimitato, esso dovrà ritenersi come un suo ausiliario[18].
Il codice del processo amministrativo, con gli articoli 21 e 114, ha recepito esplicitamente la tesi (già prevalente) del commissario ad acta quale organo ausiliario del giudice[19]. A riprova di un tanto, dopo l’entrata in vigore del codice, il giudice amministrativo ha confermato in numerose pronunce come il commissario ad acta debba essere considerato un ausiliario del giudice e che lo stesso sia titolare di un potere che trova un fondamento diretto nella pronuncia del giudice dell’ottemperanza[20].
Nonostante tale espressa presa di posizione del codice sulla natura del commissario, non si può dire che l’impianto normativo sia risultato idoneo a sgombrare il campo da tutti i dubbi relativi all’attività compiuta dallo stesso e ai mezzi esperibili per contestare i suoi atti.
Infatti, il codice prevede un duplice regime di rimedi avverso gli atti del commissario a seconda di quale sia il soggetto che intenda impugnarli[21]: qualora siano le parti a voler contestare il provvedimento commissariale è ammesso il reclamo dinanzi al giudice dell’ottemperanza; qualora, invece, si tratti di terzi estranei al giudicato, gli atti commissariali sono impugnabili con il ricorso al giudice amministrativo secondo il rito ordinario[22]. Laddove si fosse imposto anche ai terzi estranei lesi dalle determinazioni commissariali l’obbligo di rivolgersi al giudice dell’ottemperanza, si sarebbe rischiato di infrangere il principio del (tendenziale) rispetto del doppio grado di giudizio (ove il giudice competente per l’ottemperanza fosse stato il Consiglio di Stato) ma, più ancora, di ledere il loro diritto di difesa, poiché per loro l’attività commissariale è “res inter alios”[23].
È lecito, quindi, chiedersi se l’impugnabilità degli atti del commissario da parte dei terzi estranei al giudicato li trasforma in atti di natura amministrativa, ossia se dalla duplicità di rimedi possa discendere una duplicità di natura giuridica (amministrativa e giudiziale) degli atti commissariali[24].
3. Il ruolo e i poteri del commissario ad acta nell’ambito del giudizio avverso il silenzio.
La questione della natura del commissario ad acta e dei suoi rapporti con il giudice che lo nomina e con l’amministrazione sostituita assume una connotazione diversa con riferimento al commissario nominato in sede di giudizio avverso l’inerzia della pubblica amministrazione[25].
Con la nomina del commissario ad acta nel rito del silenzio, infatti, non si ha un vero e proprio giudizio di ottemperanza ma piuttosto un’ottemperanza “anomala” o “speciale”, dove la specialità risiede nella circostanza che si prescinde dall’attuazione di un provvedimento giudiziale[26].
La giurisprudenza e la dottrina si interrogano se al commissario ad acta nominato nell’ambito del rito avverso il silenzio vadano attribuiti poteri e natura differenti dal commissario dell’ottemperanza o se l’istituto vada inteso in termini di unitarietà nella sua disciplina codicistica che lo definisce come ausiliario del giudice[27].
Secondo alcune pronunce, mentre il commissario ad acta nominato in sede di giudizio di ottemperanza costituisce un organo ausiliario del giudice, diverso sarebbe il caso del commissario nominato nell’ambito del giudizio avverso l’inerzia dell’amministrazione, non avendosi in tal caso un vero e proprio giudizio di ottemperanza, tant'è che il codice del processo amministrativo non rinvia alle norme su tale tipo di giudizio, limitandosi a prevedere la nomina di un commissario ad acta[28]. Seguendo questa impostazione l’attività del commissario nominato nel giudizio sul silenzio non si limiterebbe al completamento e all’attuazione del dictum giudiziale recante direttive conformative dell’attività amministrativa, ma si tradurrebbe in un’attività di pura sostituzione nell’esercizio del potere proprio dell’amministrazione soccombente, collegata alla pronuncia giudiziale solo per quanto attiene al presupposto della prolungata inerzia dell’amministrazione medesima. L’attività del commissario ad acta sarebbe, dunque, qualificabile come sostitutiva rispetto a quella dell’amministrazione, piuttosto che di stretto ausilio al potere esecutivo del giudice[29].
Sul punto, però, c’è da registrare anche una recente posizione contraria del Consiglio di Stato secondo la quale la qualificazione del commissario ad acta come sostituto della pubblica amministrazione non sarebbe sostenibile alla luce dell’art. 117, comma 4, c.p.a. che attribuisce alla cognizione del giudice tutte le questioni relative all’esatta adozione del provvedimento richiesto. Il commissario, pertanto, è costretto a muoversi in un “contesto governato dal giudice”, dovendosi escludere che esso vada a sostituire l’amministrazione[30].
Tale dibattito rileva anche nel caso di specie laddove la qualificazione del commissario come organo sostituto dell’amministrazione è propugnata dall’amministrazione appellante, secondo la quale vi è una distinzione ontologica tra il giudizio di ottemperanza “classico” di cui agli artt. 112 e ss. c.p.a. e la ottemperanza “atipica” di cui all’art. 117, comma 6, c.p.a. Soltanto nel caso dell’ottemperanza vera e propria il commissario assumerebbe il ruolo di mandatario del giudice, in quanto da quest’ultimo chiamato all’attuazione di un proprio decisum a monte deliberato. Nella diversa ipotesi del giudizio avverso il silenzio inadempimento ex art. 117 c.p.a., invece, l’organo commissariale sarebbe chiamato a pronunziarsi per la prima volta sull’istanza rimasta inevasa dalla pubblica amministrazione, sulla base di un comando giudiziario finalizzato a superarne l’inerzia. Vi sarebbe, perciò, una profonda differenza strutturale tra il ruolo che il commissario riveste nei due tipi di giudizio: ossia, sarebbe ausiliario del giudice nell’ottemperanza classica e organo sostituto all’amministrazione nell’ottemperanza atipica. In quest’ultimo caso gli atti commissariali emanati sarebbero ordinariamente annullabili in autotutela in quanto atti imputabili all’ente comunale e in quanto costituenti l’espressione del primo esercizio del potere amministrativo da parte dell’amministrazione (rectius da parte del commissario per conto dell’amministrazione).
Il Collegio, però, richiamando un proprio recente precedente[31], dichiara di non condividere tale impostazione sostenendo che, qualora il giudice abbia stigmatizzato come illegittimo (rectius antigiuridico) il silenzio-inadempimento serbato dall’amministrazione, esso ben può provvedere, a mezzo del commissario ad acta, alla ponderazione comparativa, anche discrezionale, illegittimamente omessa dall’amministrazione in violazione del generale dovere di concludere il procedimento.
4. Il decisum della sentenza: l’assenza del potere di autotutela della pubblica amministrazione sui provvedimenti commissariali.
La possibilità o meno per l’amministrazione di agire in autotutela sugli atti commissariali è una questione particolarmente attuale, soprattutto con riferimento al giudizio avverso il silenzio dove il commissario ad acta si trova a dover provvedere per la prima volta (in sostituzione dell’amministrazione) sull’istanza del privato rimasta inevasa.
La giurisprudenza prevalente è propensa a negare detto potere di autotutela, poiché la pubblica amministrazione si trova, rispetto ai provvedimenti commissariali, in una sorta di posizione di sovranità limitata[32] e poiché la natura intersoggettiva tra commissario e amministrazione sostituita impedisce che quest’ultima possa rimuovere in autotutela un atto commissariale[33].
Anche in dottrina è stata esclusa la possibilità di rimuovere in autotutela i provvedimenti commissariali poiché l’amministrazione, così facendo, realizzerebbe uno “straripamento di potere” nei confronti dell’autorità giudiziaria, vanificando la tutela ottenuta dal ricorrente vittorioso in sede giurisdizionale[34]. Infatti, ammettere il potere di rimozione degli atti commissariali da parte del soggetto pubblico risultato soccombente in un giudizio pregresso finirebbe per svuotare di valore l’adottata decisione giudiziale a lui favorevole[35].
La sentenza in commento si sofferma sulle ragioni che depongono per l’assenza, in capo alla pubblica amministrazione sostituita, del potere di rimuovere in autotutela i provvedimenti del commissario ad acta nominato nell’ambito del giudizio avverso il silenzio inadempimento.
L’analizzata natura del commissario come ausiliario del giudice è il primo argomento in base al quale viene negato detto potere di autotutela all’amministrazione. A parere del Collegio tale ragionamento non può essere messo in dubbio neanche dalla diversità funzionale del giudizio avverso il silenzio nel quale il commissario eserciterebbe per la prima volta un potere amministrativo in maniera libera o, meglio, svincolata dall’attuazione di un giudicato. Nel caso del giudizio avverso il silenzio, infatti, l’illegittima inerzia dell’autorità amministrativa costituisce il presupposto per l’intervento del giudice che può sostituirsi alla pubblica amministrazione rimasta inerte attraverso il commissario ad actache, per il fatto di pronunciarsi in prima battuta in luogo dell’amministrazione rimasta silente, non perderà la sua natura di organo ausiliario del giudice. Infatti, è al giudice stesso (per mezzo del commissario) che compete, dopo aver stigmatizzato come illegittimo il silenzio inadempimento dell’amministrazione, il potere di provvedere a quella ponderazione comparativa, anche discrezionale, illegittimamente omessa dall’amministrazione, in violazione del generale dovere di conclusione del procedimento[36].
Un altro elemento che depone per l’assenza del potere di autotutela è il rapporto tra commissario e amministrazione sostituita che viene declinato in termini inter-soggettivi più che inter-organici. La natura inter-soggettiva del rapporto, infatti, esclude che l’atto impugnato possa essere imputato all’ente sostituito e, conseguentemente, che possa essere inciso dal potere di autotutela della pubblica amministrazione. Infatti, quantomeno il potere di annullamento d’ufficio ex art. 21-nonies, l. n. 241/1990, che rileva nel caso di specie, è generalmente spendibile solo nei confronti di atti emessi dalla stessa pubblica amministrazione ovvero da altro soggetto sotto-ordinato. L’amministrazione sostituita, quindi, non viene espropriata dal potere di autotutela perché detto potere non le compete in radice, essendovi un rapporto inter-soggettivo e non inter-organico tra l’amministrazione sostituita e il commissario[37].
Analogamente a quanto affermato da autorevole dottrina[38], il Collegio afferma che ammettere l’autotutela avverso i provvedimenti commissariali determinerebbe “da un lato la mortificazione del diritto di difesa sancito dall’art. 24 Cost. e ribadito dal c.p.a. proprio nella disposizione di apertura, dall’altro la violazione del principio di separazione dei poteri, consentendosi altrimenti la sterilizzazione amministrativa dell’intervento giurisdizionale”.
A supporto di tale impostazione viene richiamato anche il dettato dell’art. 117, comma 4, c.p.a.[39] in base al quale sarebbe evidente la ratio legis di concentrare in capo al giudice la cognizione di tutte le vicende conseguenti alla pronuncia avverso il silenzio inadempimento, ivi incluso il sindacato sugli atti commissariali eventualmente emanati[40].
Tale espressa scelta legislativa, inoltre, sarebbe confermata dalla “strutturale natura giuridica del commissario”, figura che promana dal giudice, che svolge funzioni ausiliarie allo stesso e di cui costituisce la longa manus.
Infatti, il Collegio ritiene che il dato decisivo per dirimere questione relativa alla sussistenza o meno del potere di autotutela in capo alla pubblica amministrazione non vada indagato nel tipo di attività (ampiezza della valutazione discrezionale) che il commissario è chiamato a svolgere a seconda che lo stesso sia nominato nel giudizio di ottemperanza o in quello avverso il silenzio; quello che rileva è che i suoi atti non sono mai geneticamente riconducibili all’ordinario esercizio dell’attività amministrativa essendo, invece, espressione dell’attività giurisdizionale. Il commissario ad actadeve considerarsi sempre una figura distinta dall’amministrazione e la sua attività deve essere qualificata in ogni caso come “attività soggettivamente giurisdizionale pur se calata in una forma amministrativa”.
5. La permanenza del potere di provvedere della pubblica amministrazione dopo la nomina del commissario.
Una questione diversa, ma che presenta indubbi punti di contatto con l’annullabilità in autotutela dei provvedimenti commissariali, è quella relativa alla persistenza del potere di provvedere in capo all’amministrazione dopo la nomina del commissario ad acta nell’ambito del rito avverso il silenzio, questione che attualmente risulta al vaglio dell’Adunanza Plenaria[41].
L’ordinanza con cui la Sezione IV del Consiglio di Stato ha rimesso la questione alla Plenaria da adeguatamente conto dei diversi orientamenti formatisi sul punto nella giurisprudenza[42].
Secondo una prima risalente impostazione il potere-dovere dell’amministrazione di dare esecuzione alla pronuncia giurisdizionale verrebbe meno già dopo la nomina del commissario ad acta[43].
Per un secondo orientamento, divenuto maggioritario nella giurisprudenza più recente, il c.d. esautoramento dell’organo inottemperante (rectius inadempiente) si verificherebbe solo con l’operatività dell’investitura commissariale (o, per dirla diversamente, dopo il suo insediamento) che attuerebbe il definitivo trasferimento del munus pubblico dall’ente, che ne è titolare per legge, a quello che ne diviene titolare in ragione della sentenza del giudice amministrativo[44].
Seguendo un terzo orientamento, meno diffuso nella giurisprudenza più recente, la competenza commissariale rimarrebbe concorrente con quella dell’amministrazione che continuerebbe ad operare nell’ambito delle attribuzioni che la legge le riconosce e che verrebbero estinte con l’insediamento del commissario[45].
Esposti i termini della questione, la Sezione IV prende motivatamente posizione a favore della tesi della competenza concorrente dell’amministrazione e del commissario, tesi che troverebbe conferma in una serie di principi (anche di rilievo costituzionale), tra cui il principio di legalità in connessione con l’art. 97 cost., il principio di certezza dei rapporti giuridici e il principio di responsabilità dei titolari dei pubblici uffici in connessione con l’art. 28 cost.[46].
È ben vero che nell’ordinanza di remissione il quesito riguarda l’interrogativo “se l’amministrazione possa provvedere tardivamente rispetto al termine fissato dal giudice amministrativo, fino a quando il commissario ad acta eserciti il potere conferitogli”. Il potere concorrente di commissario ad acta e pubblica amministrazione riguarderebbe il momento antecedente e non successivo all’adozione dell’atto commissariale come nel caso di specie. Ed è altrettanto vero che il potere di provvedere in prima istanza non è assimilabile al potere di provvedere in autotutela: il potere di autotutela, per esempio, può essere esercitato nei confronti del silenzio assenso, situazione in cui il potere della pubblica amministrazione di agire è spirato, ma in tal caso la possibilità di agire in autotutela è espressamente attribuita alla pubblica amministrazione dalla legge[47].
Quindi, pur nella consapevolezza della profonda differenza tra le due questioni (permanenza del potere di provvedere della pubblica amministrazione dopo la nomina del commissario e annullabilità in autotutela degli atti commissariali) pare di poter affermare che, qualora fosse accolta l’impostazione della Sezione rimettente prevedente la competenza concorrente di commissario e amministrazione sostituita, tale circostanza potrebbe riaprire qualche dubbio a favore della sussistenza di un qualche potere da parte dell’amministrazione sostituita sugli atti commissariali. Infatti, il riconoscere la persistenza di un potere dell’amministrazione di agire anche dopo la nomina del commissario ad acta sembrerebbe “ritagliare” uno spazio di azione alla pubblica amministrazione sostituita i cui confini (estensibili fino all’annullamento in autotutela degli atti commissariali stessi?) non appaiono al momento di certa delimitazione.
6. Alcune brevi considerazioni conclusive.
La sentenza in commento, che si inserisce senza soluzione di continuità nel solco della più recente giurisprudenza sul tema, nega alla pubblica amministrazione sostituita il potere di autotutela sugli atti commissariali attraverso il seguente impianto concettuale: 1) il commissario ad acta nominato dal giudice è un organo ausiliario dello stresso e non un organo straordinario dell’amministrazione; 2) gli atti commissariali non sono geneticamente riconducibili all’ordinario esercizio della potestà amministrativa, ma all’attività del giudice amministrativo investito della questione; 3) l’amministrazione non può agire in autotutela avverso atti che non siano stati emessi da essa stessa almeno con riferimento all’esercizio del potere di annullamento d’ufficio ex art. 21-nonies, l. n. 241/1990; 4) gli atti del commissario ad acta non possono che essere sindacati dal giudice amministrativo che ha nominato il commissario, come testualmente previsto dalle disposizioni codicistiche.
Pare opportuno evidenziare, però, come la sussistenza di poteri di secondo grado in capo all’amministrazione sostituita resti comunque legata (rectius condizionata) alla qualificazione che si ritenga di dare alla figura del commissario ad acta e al regime giuridico dei suoi atti. Infatti, pur essendo la più recente giurisprudenza orientata a riconoscere il carattere giurisdizionale all’attività del commissario, bisogna comunque segnalare che tale assioma non appare così granitico, soprattutto nell’ambito del giudizio avverso il silenzio[48].
In ragione di un tanto, sarebbe quantomai auspicabile che l’Adunanza plenaria, nel risolvere la appena sollevata questione sulla permanenza del potere di provvedere della pubblica amministrazione dopo la nomina del commissario, decidesse di incidentalmente di indagarne funditus la natura di quest’organo e il rapporto che lo lega all’amministrazione sostituita nell’ambito del giudizio avverso il silenzio, per poter risolvere “definitivamente” anche la questione dell’autotutela sui provvedimenti commissariali.
Ad ogni modo, pare potersi affermare che il potere di autotutela, anche a prescindere dal tipo di rapporto che lega il commissario all’amministrazione e dalla qualificazione giuridica da attribuire agli atti commissariali (quali atti amministrativi o giurisdizionali), sia un potere che mal si attaglia ad essere esercitato dalla pubblica amministrazione sostituita dal commissario ad acta. Questo poiché la ratio dei poteri di secondo grado ad esito eliminatorio è quella di consentire alla pubblica amministrazione titolare del potere di intervenire su di un proprio precedente provvedimento e non di contestare un provvedimento amministrativo aulinde adottato, anche se in propria vece. Per la contestazione degli atti commissariali, infatti, l’ordinamento prevede diversi strumenti di tutela giurisdizionale (reclamo o giudizio autonomo) a seconda dei soggetti potenzialmente pregiudicati dagli stessi (parti del giudizio o soggetti terzi), non venendosi a creare un vuoto di tutela per la pubblica amministrazione che voglia contestare i provvedimenti commissariali, dovendosi ritenere superata dal codice del processo amministrativo quella giurisprudenza (già minoritaria) che negava la legittimazione della pubblica amministrazione ad impugnare gli stessi in quanto atti propri.
***
[1] Cons. St., Sez. IV, 18 agosto 2021, n. 2335, in www.giustizia-amministrativa.it.
[2] T.A.R. Molise (Campobasso), Sez. I, 18 maggio 2017, n. 185, in www.giustizia-amministrativa.it.
[3] Il provvedimento del commissario ad acta aveva ad oggetto il rilascio di un permesso di costruire mai concesso dall’amministrazione rimasta inerte e avverso la quale era stato presentato ricorso avverso il silenzio. Detto commissario è stato nominato dal medesimo T.A.R. con sentenza non definitiva T.A.R. Molise (Campobasso), Sez. I, 4 dicembre 2015, n. 452, in www.giustizia-amministrativa.it.
[4] Cons. St., Sez. IV, 15 settembre 2017, n. 3860, in www.giustizia-amministrativa.it.
[5] Sulla figura del commissario ad acta si rinvia ai contributi di: D. VAIANO, Il commissario ad acta nel sistema dei giudizi di ottemperanza, Roma, 1996; G. ORSONI, Il commissario ad acta, Padova, 2001; A. CIOFFI, Sul regime degli atti del commissario ad acta nominato dal giudice dell’ottemperanza, in I Tribunali Amministrativi Regionali, 2001, 1, II, p. 1 ss.; V. CAPUTI JAMBRENGHI, Commissario ad acta, in Enc. giur., Agg., Vol. VI, Milano, 2002, p. 284 ss.; S. D’ANTONIO, Il commissario ad acta nel processo amministrativo: qualificazione dell’organo e regime processuale, Napoli, 2012; S. PIGNATARO, Il commissario ad acta nel quadro del processo amministrativo, Bari, 2019.
[6] Sul giudizio di ottemperanza in generale, tra i moltissimi contributi, si segnalano senza alcuna pretesa di esaustività: F.G. SCOCA, Aspetti processuali del giudizio di ottemperanza, in AA.VV, Il giudizio di ottemperanza (Atti del XXVII Convegno di Scienza dell’amministrazione di Varenna), Milano, 1983; R. VILLATA, Riflessioni in tema di giudizio di ottemperanza ed attività successiva alla sentenza di annullamento, in Dir. proc. amm., n. 3/1989, p. 369 ss.; A. TRAVI, L’esecuzione della sentenza, in S. CASSESE (a cura di), Trattato di diritto amministrativo - Diritto amministrativo speciale, Vol. V, Milano, 2003, p. 4605 ss.; C.E. GALLO, Ottemperanza (giudizio di), in Enc. giur., Milano, 2008, Annali, II, p. 818 ss.; G. MARI, Giudice amministrativo ed effettività della tutela, Napoli, 2013; M. SANINO, Il giudizio di ottemperanza, Torino 2014; S. TARULLO, Ottemperanza (giudizio di), in Dig. disc. pubbl., Agg., Torino, 2017, p. 559 ss.; F. MANGANARO, Il giudizio di ottemperanza come rimedio alle lacune dell’accertamento, in F. FRANCARIO - M.A. SANDULLI (a cura di), La sentenza amministrativa ingiusta ed i suoi rimedi, Napoli, 2018, p. 119 ss.; F. FRANCARIO, Il giudizio di ottemperanza. Origini e prospettive, in Il Processo, n. 3/2018, p. 171 ss.
[7] A. DAIDONE - F. PATRONI GRIFFI, Artt. 112-115, in G. MORBIDELLI (a cura di), Codice della giustizia amministrativa, Milano, 2015, p. 1072.
[8] M. CLARICH, Il giudicato e l’esecuzione, in A. SANDULLI (a cura di), Diritto processuale amministrativo, Vol. 7, in S. CASSESE (diretto da), Corso di diritto amministrativo, Milano, 2007, p. 313.
[9] Per un’approfondita ricostruzione del dibattito si rinvia a S. PIGNATARO, op. cit., p. 65 ss.
[10] Corte cost., 12 maggio 1977, n. 75, in Giur. it., 1978, I, p. 980 ss.
[11] Cons. St., Ad. Plen., 14 luglio 1978, n. 23, in Giur. it., 1979, III, p. 26 ss. Per un commento alla pronuncia si segnala F.G. SCOCA, Sentenze di ottemperanza e loro appellabilità, in Foro it., 1979, III, p. 4 ss.
[12] In tal senso in dottrina si sono pronunciati tanti autorevoli studiosi tra i quali si segnala M. NIGRO, Il giudicato amministrativo e il processo d'ottemperanza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1981, p. 115.
[13] Tale orientamento è stato sostenuto da Cass. civ., SS.UU., 19 marzo 1999, n. 9709, in Giust. civ., 199, I, p. 3347 ss., con nota di M.A. VISCA, Giurisdizione della Corte dei conti in tema di responsabilità amministrativo-contabile del commissario ad acta, ivi. Tra le sentenze amministrative (non numerosissime) che hanno seguito tale impostazione vedasi: C.G.A.R.S., 17 giugno 1982, n. 24, in Riv. amm., 1982, III, p. 644 ss.; Cons. St., Sez. V, 3 marzo 1988, n. 125, in Foro amm., 1988, p. 1464; e, più di recente, T.A.R. Campania (Napoli), 10 marzo 2009, n. 1363, in Foro amm. - T.A.R., 2009, p. 830. In dottrina, a favore di questa tesi, si sono schierati: G. VACIRGA, L’impugnazione dei provvedimenti adottati dal commissario giudiziale ad acta, in Foro amm., 1982, I, p. 258-259; A. IANNOTTA, La natura giuridica del commissario ad acta e il regime di impugnazione dei suoi atti, in I Tribunali amministrativi regionali, 1993, II, p. 414; G. ORSONI, op. cit., p. 99.
[14] Come si dirà poi, il codice del processo amministrativo, all’art. 114, comma 6, ha esplicitamente riconosciuto il potere di presentare reclamo alle “parti nei cui confronti si è formato il giudicato” e, quindi, anche alla pubblica amministrazione sostituita dal commissario ad acta.
[15] Sul riconoscimento del potere di autotutela dell’amministrazione nei confronti degli atti commissariali vedasi T.A.R. Campania (Napoli), 10 marzo 2009, n. 1363, cit.
[16] L’elaborazione di tale teoria si deve in primis alla giurisprudenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana, con le sentenze C.G.A.R.S., 25 febbraio 1981, n. 1, in Cons. di St., 1981, I, p. 188 e C.G.A.R.S., 21 dicembre 1982, n. 92, in Foro amm., 1983, p. 372. Tra la dottrina che ha condiviso tale ricostruzione si segnalano: S. GIACCHETTI, Il giudizio d'ottemperanza nella giurisprudenza del Consiglio di giustizia amministrativa, in Giur. amm. sic., 1988, II, p. 36 ss. e in www.lexitalia.it (par. 6); L. MAZZAROLLI, Il giudizio di ottemperanza oggi: risultati concreti, in Dir. proc. amm., 1990, p. 253; C.E. GALLO, op. cit., p. 835.
[17] M. CLARICH, L’effettività della tutela nell’esecuzione delle sentenze del giudice amministrativo, in Dir. proc. amm., n. 3/2018, p. 540.
[18] In questi termini si segnalano: Cons. St., Sez. VI, 30 dicembre 2004, n. 8275, in Foro amm. - C.d.S., 2004, p. 3607; Cons. St., Sez. V, 28 dicembre 2011, n. 6953, in Urb. e app., n. 5/2012, p. 561 ss., con commento di M. ANDREIS, Commissario ad acta, regime dei suoi atti e nuovo codice del processo amministrativo, ivi, p. 565 ss.
[19] L’art. 21 c.p.a., rubricato “Commissario ad acta” prevede che “Nell’ambito della propria giurisdizione, il giudice amministrativo, se deve sostituirsi all’amministrazione, può nominare come proprio ausiliario un commissario ad acta. Si applica l'articolo 20, comma 2”. Per un commento a tale norma si rinvia a F.G. SCOCA, Commento all’art. 21, V. LOPILATO - A. QUARANTA (a cura di), Il processo amministrativo, Milano, 2011, p. 231 ss. Inoltre, l’art. 114, comma 4, lett. d), c.p.a. ha prescritto che “Il giudice [dell’ottemperanza], in caso di accoglimento del ricorso: … d) nomina, ove occorra, un commissario ad acta”.
[20] In tal senso, tra le tante, si segnalano: Cons. St., Sez. IV, 13 gennaio 2015, n. 52, Cons. St., Sez. VI, 15 settembre 2015, n. 4299, Cons. St. Sez. IV, 4 dicembre 2017, n. 5667, Cons. St., Sez. V, 27 novembre 2018, n. 6724, Cons. St., Sez. V, 21 maggio 2018, n. 3039, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[21] Tale dicotomia è delineata in maniera chiara da P.M. VIPIANA, L’ottemperanza al giudicato amministrativo fra l’attività del commissario ad acta e quella dell’amministrazione “commissariata”, in Urb. e app., n. 10/2015, p. 1055.
[22] Secondo l’art. 114, comma 6, c.p.a. “Il giudice conosce di tutte le questioni relative all’ottemperanza, nonché, tra le parti nei cui confronti si è formato il giudicato, di quelle inerenti agli atti del commissario ad acta. Avverso gli atti del commissario ad acta le stesse parti possono proporre, dinanzi al giudice dell’ottemperanza, reclamo, che è depositato, previa notifica ai controinteressati, nel termine di sessanta giorni. Gli atti emanati dal giudice dell’ottemperanza o dal suo ausiliario sono impugnabili dai terzi estranei al giudicato ai sensi dell’articolo 29, con il rito ordinario”.
[23] In questi termini Cons. St., Sez. V, 13 gennaio 2015, n. 52, in Urb. e app., n. 5/2015, p. 1049 ss, con nota di P.M. VIPIANA, op. cit., ivi, p. 1053 ss.
[24] P.M. VIPIANA, op.cit., p. 1055, risponde negativamente a tale quesito affermando che “l’impugnabilità di un atto davanti al giudice amministrativo non ne implica necessariamente la natura di atto amministrativo” e che “non pare sostenibile la duplice natura degli atti commissariali”.
[25] Sul tema si segnalano i contributi di: L. BERTONAZZI, Il giudizio sul silenzio, in B. SASSANI – R. VILLATA (a cura di), Il codice del processo amministrativo. Dalla giustizia amministrativa al diritto processuale amministrativo, Torino, 2012, p. 986 ss.; G. MARI, L’azione avverso il silenzio, in M.A. SANDULLI (a cura di), Il nuovo processo amministrativo, Vol. I, Milano, 2013, p. 250 ss.; M. RAMAJOLI, Forme e limiti della tutela giurisdizionale contro il silenzio inadempimento, in Dir. proc. amm., n. 3/2014, p. 709 e ss.; A. CIOFFI, Il dovere di provvedere nella legge sull’azione amministrativa, in A. ROMANO (a cura di), L’Azione amministrativa, Torino, 2016, p. 134 ss.; F. SCALIA, Profili problematici del rito sul silenzio dell’amministrazione nella prospettiva dell’effettività e pienezza della tutela, in federalismi.it, n. 10/2016; S. CAREGGI, L’esecuzione della pronuncia silenziosa, in Giustizia insieme, 1° luglio 2020.
[26] In questi termini si esprime S. CAREGGI, op. cit. Secondo Cons. St. Sez. VI, 25 giugno 2007, n. 3602, in www.giustizia-amministrativa.it, si parla di un’ottemperanza “anomala o speciale” in quanto “si prescinde dal passaggio in giudicato della sentenza, e, soprattutto si ammette l’intervento del commissario nell’ambito del medesimo processo, senza più bisogno di un ricorso ad hoc, essendo sufficiente una semplice istanza al giudice che ha dichiarato l’illegittimità del silenzio” e in quanto l’attività del commissario “può atteggiarsi come attività di pura sostituzione, in un ambito di piena discrezionalità, non collegata alla decisione se non per quanto attiene al presupposto dell’accertamento della prolungata inerzia dell’amministrazione”. Il Consiglio di Stato evidenzia anche che “se per il commissario ad acta nominato in sede di ottemperanza per l’esecuzione del giudicato, prevale la tesi secondo cui si tratta di un organo ausiliario del giudice (tesi che ha ricevuto anche l’importante avallo dell’Adunanza plenaria n. 23 del 1978), il dibattito è, invece, tutt’ora aperto per quella speciale figura di commissario ad acta nominato per porre rimedio alla persistente inerzia dell’Amministrazione”.
[27] Non è questa la sede per darne un’adeguata ricostruzione delle diverse posizioni della giurisprudenza e della dottrina, per la quale si rinvia al contributo di F. SCALIA, op. cit.
[28] In questi termini si esprime Cons. di St., Sez. VI, 28 gennaio 2016, n. 338, in www.giustizia-amministrativa.it. Secondo tale pronuncia il commissario ad acta sarebbe un organo sostitutivo dell’amministrazione e non un mero ausiliario del giudice in quanto “l’attività del commissario ad acta, posta in essere in esecuzione della sentenza che rimuova la situazione di inerzia imputabile alla pubblica amministrazione, non si limita - come nel vero e proprio giudizio di ottemperanza - al completamento e all’attuazione del dictum giudiziale recante direttive conformative dell’attività amministrativa, ma si atteggia come attività di pura sostituzione nell’esercizio del potere proprio dell’amministrazione soccombente ed è collegata alla pronuncia giudiziale solo per quanto attiene al presupposto della prolungata inerzia dell’amministrazione medesima; … l’attività del commissario ad acta, munito di piena autonomia decisoria, appare, dunque, qualificabile come sostitutiva rispetto a quella dell’amministrazione, piuttosto che di stretto ausilio al potere esecutivo del giudice, il quale potrà esclusivamente vagliare l’effettivo adempimento finale da parte del commissario in relazione all’ordine contenuto nella pronuncia giudiziale”.
[29] T.A.R. Calabria (Catanzaro), Sez. I, 26 gennaio 2017, n. 82, in www.giustizia-amministrativa.it. In senso sostanzialmente analogo si esprime anche la recente sentenza T.A.R. Puglia (Bari), Sez. III, 18 settembre 2020, n. 1180, in www.giustizia-amministrativa.it.
[30] Cons. St., Sez. IV, 22 ottobre 2019, n. 7172, in www.giustizia-amministrativa.it. Secondo tale pronuncia deve escludersi che il commissario ad acta, nominato nell’ambito del giudizio avverso il silenzio, possa essere legato all’ente da una relazione inter-organica; quindi, le parti “possono, e debbono, contestare gli atti del commissario ad acta soltanto attraverso il rimedio processuale disciplinato dal citato art. 114, comma 6, secondo periodo, mentre l’attivazione di un giudizio secondo il rito ordinario è riservata esclusivamente ai terzi estranei al giudicato”.
[31] Cons. St., Sez. VI, 11 agosto 2020, n. 5006, in www.giustizia-amministrativa.it.
[32] T.A.R. Campania (Napoli), Sez. VI, 13 settembre 2006, n. 8072, in www.giustizia-amministrativa.it. In senso sostanzialmente analogo vedasi anche T.A.R. Veneto (Venezia), Sez. I, 1° febbraio 2011, n. 188, in www.giustizia-amministrativa.it.
[33] In tal senso vedasi anche la recente Cons. St., Sez. VI, 11 agosto, 2020, n. 5006, cit. Depone, invece per l’annullabilità dei provvedimenti commissariali T.A.R. Campania (Napoli), 10 marzo 2009, n. 1363, cit.
[34] V. CAIANIELLO, Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, 2013, p. 1010.
[35] S. PIGNATARO, op. cit., p. 234-235.
[36] Sul tema si rinvia su tutti al contributo di A. POLICE, Il dovere di concludere il procedimento e il silenzio inadempimento, in M.A. SANDULLI (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, 2017, p. 273 ss.
[37] In sostanza non c’è un atto amministrativo emanato dallo stesso ente (o da un ente sotto-ordinato) su cui la pubblica amministrazione possa esercitare il potere di annullamento d’ufficio secondo il paradigma normativamente previsto per tale potere di secondo grado dall’art. 21-nonies, l. n. 241/1990. Per un inquadramento sui poteri di autotutela si segnala M. IMMORDINO, I provvedimenti amministrativi di secondo grado, in F.G. SCOCA (a cura di), Diritto amministrativo, Torino, 2019, p. 301 ss. Sul potere di annullamento d’ufficio, che rileva nel caso di specie, si rinvia a C. DEODATO, L’annullamento d’ufficio, in M.A. SANDULLI (a cura di), Codice dell’azione amministrativa, 2017, p. 1173 ss.
[38] In tal senso V. CAIANIELLO, op. cit., p. 1010.
[39] Secondo l’art. 117, comma 4, c.p.a. “Il giudice conosce di tutte le questioni relative all'esatta adozione del provvedimento richiesto, ivi comprese quelle inerenti agli atti del commissario”.
[40] Il Collegio precisa che lo strumento del reclamo, previsto dall’art. 117, comma 4, c.p.a., evita che si venga a creare un vuoto di tutela per la pubblica amministrazione sostituita, la quale potrà sempre contestare gli atti commissariali presentando apposito reclamo al giudice competente.
[41] Per un approfondimento del dibattito sulla questione antecedente alla recente rimessione della questione all’Adunanza Plenaria si rinvia a S. PIGNATARO, op. cit., p. 223 ss.
[42] Cons. St., Sez. IV, 10 novembre 2020, n. 6925, in www.giustizia-amministrativa.it. Per un commento all’ordinanza di rimessione si vedano A. SCOGNAMIGLIO, Silenzio della PA e regime giuridico del provvedimento sopravvenuto alla nomina del commissario ad acta, in Giustizia insieme, 19 gennaio 2021 e G. BROLLO, Gli effetti della nomina del commissario ad acta nel giudizio sul silenzio: permane o si consuma il potere di provvedere dell’Amministrazione silente?, in www.giustamm.it, n. 12/2020.
[43] In relazione a tale orientamento il Collegio precisa che “Andrebbe verificato comunque se tale tesi, espressa con riferimento al commissario nominato all’esito del giudizio di ottemperanza, si potrebbe applicare anche all’ipotesi del commissario nominato per provvedere in caso di perdurante inerzia dell’amministrazione”. In tal senso viene richiamata la sentenza Cons. St., Sez. V, 10 marzo 1989, n. 165, in www.giustizia-amministrativa.it.
[44] Vedasi ex multis: Cons. St., Sez. V, 5 giugno 2018, n. 3378, Cons. St., Sez. IV, 22 marzo 2017, n. 1300 e Cons. St., Sez. IV, 9 novembre 2015, n. 5081, tutte in www.giustizia-amministrativa.it. Nell’ambito di questo secondo orientamento viene anche citata la pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 7 del 9 maggio 2019 la quale (pur non occupandosi funditus della questione) al par. 5.6 ha previsto che “L’insediamento del commissario ad acta … nella sua duplice veste di ausiliario del giudice e di organo straordinario dell'amministrazione inadempiente surrogata, priva quest’ultima della potestà di provvedere”.
[45] Per questo orientamento vengono richiamate le pronunce: Cons. St., Sez. IV, 10 maggio 2011, n. 2764, Cons. St., Sez. V, 21 novembre 2003, n. 7617, Cons. St., Sez. V, 8 luglio 1995, n. 1041, tutte in www.giustizia-amministrativa.it.
[46] A. SCOGNAMIGLIO, op. cit., par. 2. Si rinvia poi anche al par. 5 del medesimo contributo per un’interessante (e condivisibile) analisi sul metodo e sulle conclusioni dell’ordinanza di rimessione.
[47] L’art. 20, comma 3, l. n. 241/1990 prevede espressamente che “Nei casi in cui il silenzio dell’amministrazione equivale ad accoglimento della domanda, l’amministrazione competente può assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies”.
[48] Al paragrafo n. 24.3 dell’ordinanza di rimessione Cons. St., 10 novembre 2020, n. 6925, cit. viene posto il dubbio se l’impostazione dell’Adunanza plenaria n. 1/2002, prevedente l’imputabilità degli atti commissariali all’amministrazione sostituita (e non al giudice), sia da intendersi (o meno) superata dall’entrata in vigore dell’art. 117, comma 4, c.p.a. Sul punto, in questa sede, ci si limita a precisare che la sentenza Cons. St., Ad. Plen., 9 gennaio 2002, n. 1, in Dir. e giust., n. 7/2002, p. 54 ss., è stata emanata in un contesto normativo in cui i poteri cognitori e decisori del giudice nel giudizio avverso il silenzio erano diversi rispetto a quelli attualmente previsti dal codice del processo amministrativo.
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