ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il d.d.l. Zan e le sue implicazioni
di Giuseppe Savagnone
Sommario: 1. Letture confliggenti - 2. Il valore del corpo - 3. La portata simbolica ed educativa del d.d.l. Zan - 4. Le buone ragioni - 5. Dalla tutela delle persone alla teorizzazione dell’indifferenza sessuale - 6. Le linee guida per la scuola della Regione Lazio - 7. Uscire dalla logica degli slogan e delle etichette.
1. Letture confliggenti
Sul ddl Zan se ne sono dette di tutti i colori, trasformandolo – soprattutto per chi non ha avuto la pazienza di leggere il testo – in un oggetto misterioso. Lo si è esaltato come una elementare misura di civiltà, che ci mette finalmente al passo con gli altri Paesi europei; lo si è accusato di contenere una normativa superflua e soprattutto liberticida, che introduce la censura delle idee; ultimamente - con sorpresa generale, questa volta l’opposizione è venuta da ben 17 associazioni femministe, tra cui Arcilesbica - lo si è rimesso in discussione perché non rispettoso della identità femminile.
A sostenere la prima interpretazione è tutta l’area che potremmo chiamare di “sinistra”, in particolare il Pd, che, col suo segretario, si è compattato a difesa del nuovo provvedimento. Oppositori acerrimi i partiti della “destra”, soprattutto la Lega, e la Conferenza Episcopale italiana, anche se il suo presidente, il card. Bassetti, proprio in questi giorni, in un veloce scambio di battute con i giornalisti, è sembrato voler correggere il tiro e – pur continuando a negare la necessità di una normativa specifica per l’omofobia - ha riconosciuto che il testo esprime in sé un’esigenza condivisibile e perciò non va affossato, ma modificato.
Sul carattere liberticida del ddl continua ad insistere Salvini, anche dopo l’introduzione di un emendamento, contenuto nell’art.4, dove si dice espressamente: «Ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimento di opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a de-terminare il concreto pericolo del compi-mento di atti discriminatori o violenti».
L’aggiunta di questo riconoscimento esplicito del pluralismo non impedisce che circolino sul web panzane terroristiche, che danno per inevitabile, se il ddl Zan diventerà legge, l’arresto e la condanna di un prete che dal pulpito o durante il catechismo insegna la dottrina cattolica sul matrimonio.
Molto più seria e radicale è la critica che viene al testo dalle associazioni femministe. Il punto cruciale è la centralità, nel ddl, dell’identità di genere. «Per “identità di genere”», spiega il disegno di legge «si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso».
2. Il valore del corpo
E’ questo sganciamento dell’identità di genere da quella biologica del sesso a costituire, secondo la critica delle femministe, un misconoscimento dell’identità delle donne. Nel documento in cui le 17 associazioni si dissociano dal ddl, leggiamo: «Si vuole che la realtà dei corpi – in particolare quella dei corpi femminili – venga fatta sparire. È la premessa all’autodeterminazione senza vincoli nella scelta del genere a cui si intende appartenere», rendendo insignificante il ruolo del sesso biologico ed esponendosi ad ogni sorta di confusione.
Si cita anche un caso concreto: «In California 261 detenuti che “si identificano” come donne chiedono il trasferimento in carceri femminili. Il “genere” in sostituzione del “sesso” diviene quindi il luogo in cui tutto ciò che è dedicato alle donne può essere occupato dagli uomini che si identificano in “donne” o che dicono di percepirsi “donne”».
Si tratta, in realtà, di un problema che i critici delle concezioni centrate unilateralmente sul “genere” hanno da sempre sollevato e che risorge ogni volta che, dal doveroso rispetto per le persone omosessuali, si passa alla teorizzazione della perfetta equivalenza tra omosessualità e eterosessualità, demandando la scelta alla percezione soggettiva dell’individuo, senza alcun riferimento al dato biologico del sesso. I corpi, con la loro struttura biologica e morfologica, hanno un loro racconto che deve essere ascoltato e non può essere messo tra parentesi, affidandosi solo a una esperienza puramente psicologica come «l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso».
3. La portata simbolica ed educativa del d.d.l. Zan
Al di là di queste diverse letture, il ddl Zan in sé comporta soltanto l’estensione ai comportamenti violenti «fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità» le aggravanti che già il nostro ordinamento prevede per quelli che riguardano i reati «commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso» (artt. 604-bis e 604-ter del Codice penale).
Qualcuno si è chiesto con stupore come mai una innovazione così contenuta abbia trovato tanta resistenza e ancora stia accendendo in simile vespaio di polemiche. La risposta è che la vera posta in gioco, qui, non sono gli anni in più o in meno che un eventuale omofobo violento dovrebbe scontare, ma il carattere fortemente simbolico e pedagogico che la nuova legge avrà.
La legislazione di un Paese non mira solo a regolamentare singole situazioni, bensì a influenzare la mentalità e il costume, plasmando così il volto di una società e delle persone che vivono in essa. Le norme giuridiche, insomma, in quanto rendono lecito o illecito un certo comportamento, additandolo pubblicamente come espressione di un valore o di un dis-valore, hanno anche una funzione educativa. Aristotele non faceva che dar voce al buon senso quando scriveva che «i legislatori rendono buoni i cittadini creando in loro determinate abitudini» (Etica Nicomachea, 1103 b).
Per questo, a quanti fanno notare che già nel nostro ordinamento è ampiamente assicurata una tutela dei diritti delle persone – inclusi, ovviamente, gli omosessuali - , e che questa nuova normativa è dunque superflua, i sostenitori del ddl Zan replicano che manca però una specifica menzione – con relativo aggravamento di pena – dei reati legati all’omofobia, che è presente nella legislazione di molti altri Paesi, e che qui è in gioco un problema di “civiltà”.
Non basta, insomma, che gli individui siano tutelati come persone: sono la loro «identità sessuale» e i loro «orientamenti sessuali» che devono esserlo, additandoli come valori riconosciuti dalla collettività e ormai indiscutibili.
Con una immediata, evidente ricaduta sull’immagine condivisa della famiglia, prima ancora che sul suo regime giuridico, a cominciare dal diritto morale, proprio di ogni coppia, di avere dei figli. Diritto che in Paesi “civili” comporta il ricorso alla pratica dell’ “utero in affitto” (nel nostro ancora esclusa dalla legge e mai menzionata dal ddl Zan), di per sé utilizzata anche da coppie etero, ma per ovvi motivi particolarmente appropriata a quelle gay.
Probabilmente, non saranno molti gli omofobi che si asterranno, in futuro, dai loro squallidi comportamenti persecutori, del resto già punibili a termini di Codice penale, perché intimoriti dalle aggravanti di pena previste dalla nuova legge. Ma da ora in poi l’omosessualità entrerà ufficialmente, a pieno diritto, nella sfera dei comportanti “normali”, anzi con il fascino che hanno le cose un tempo proibite e ora rivalutate.
4. Le buone ragioni
Alla luce di questo carattere simbolico, si può capire perché tanti caldeggino la definitiva approvazione del disegno di legge. La nostra storia passata e presente è piena di «pregiudizi, discriminazioni, violenze» nei confronti di gay, lesbiche, transessuali. Le persone omosessuali sono state – e spesso sono ancora - derise, umiliate, emarginate, a volte anche perseguitate. Le si è costrette a nascondersi, a mascherare la loro vera identità e a darle libera espressione solo nell’oscurità di ambienti ambigui e violenti, privati del diritto di avere una vita affettiva – non solo sessuale! – come tutti gli altri. E ancora oggi suscita scandalo in tanti la presa di posizione di papa Francesco, quando afferma che «gli omosessuali sono figli di Dio», esattamente come gli etero, portatori come loro dell’immagine di Dio impressa nei loro volti.
Si capisce allora che alla base del disegno di legge ci sia non solo e non tanto la volontà di combattere, assumendoli come reati, comportamenti spregevoli ancora tristemente riscontrabili nella cultura diffusa, ma soprattutto quella di rivendicare la dignità umana di lesbiche, gay, bisessuali e transessuali. Sorprende che, da parte di tanti cattolici, che dovrebbero essere particolarmente sensibili al rispetto delle persone, quale che sia la loro condizione esistenziale, sia sfuggito questo aspetto, per concentrarsi solo sugli aspetti problematici e precludendosi così la possibilità di una diversa stesura, condivisa, del testo.
5. Dalla tutela delle persone alla teorizzazione dell’indifferenza sessuale
Resta il fatto che, così com’è, il ddl non si limita a difendere i diritti delle persone omosessuali, ma, proprio per il suo carattere simbolico e pedagogico, pone le basi per una educazione capillare alla cultura dell’indifferenza sessuale.
Se si guarda al ddl Zan sotto questo profilo, si può facilmente prevedere che i suoi effetti non si manifesteranno nelle aule dei tribunali, ma in tutte le sedi in cui si realizza un’opera educativa.
Acquista allora il suo pieno significato l’art. 6, che istituisce la Giornata nazionale contro l’omofobia - che sarà celebrata il 17 maggio – in cui saranno organizzate «cerimonie, incontri e ogni altra iniziativa utile, anche da parte delle amministrazioni pubbliche e nelle scuole».
Quale messaggio sarà proposto in questa occasione e in tutte le alte che indubbiamente, all’ombra di quella, si moltiplicheranno? È abbastanza ovvio. Che è una questione di “civiltà” riconoscere la perfetta equiparazione etica e giuridica tra omosessualità ed eterosessualità, con la consegente irrilevanza dell’essere biologicamente di sesso maschile o femminile. E poiché espressamente si è voluto che questo messaggio giungesse non solo agli studenti della scuola secondaria, maggiormente in grado di valutarlo criticamente, ma a quelli di ogni ordine e grado, fin dalle elementari, gli effetti, in termini di condizionamento, sono garantiti. Né sarà possibile sottrarre i propri figli più piccoli a questa campagna “civilizzatrice”, perché in Parlamento è stato espressamente respinto un emendamento che chiedeva fosse introdotta la condizione del consenso dei genitori.
6. Le linee guida per la scuola della Regione Lazio
Ma per questa deriva non c’è stato neanche bisogno di attendere l’approvazione formale del ddl Zan. Nelle linee guida appena diffuse dalla Regione Lazio per le scuole di ogni ordine e grado, col titolo «Strategie di intervento e promozione del benessere dei bambini e degli adolescenti con varianza di genere», si dice, nell’introduzione, che negli ultimi anni si è assistito al «superamento del concetto di “binarismo sessuale” che prevede l’esistenza di solo due generi (maschile e femminile), sostituito da quello di “spettro di genere” secondo il quale il genere si presenta in un’infinita varietà di forme, dimensioni e tonalità».
Il nuovo punto di riferimento sembra diventare l’identità di genere, definita nel testo come «sensazione di appartenere al genere maschile, femminile, entrambi o nessuno dei due». In base ad essa, si prevede la possibilità dell’«assegnazione di un’identità provvisoria, transitoria e non consolidabile» a chi non si ritrova a suo agio con la propria struttura maschile o femminile. Anche l’uso dei nomi e dei pronomi dovrà adeguarsi a questa scelta, permettendo allo studente «di sentirsi riconosciuto nella propria identità di genere». Una nota specificamente organizzativa è l’individuazione di bagni e spogliatoi non connotati per genere.
Regole per casi particolari o “piano inclinato” che faciliterà lo smarrimento della propria originaria identità maschile/femminile di ragazzini/e, in un momento delicatissimo del loro sviluppo? È inquietante l’esperienza del Regno Unito, all’avanguardia su questo fronte, dove, secondo dati ufficiali del sistema sanitario inglese, solo nel 2015, fra aprile e dicembre, 1.013 minorenni inglesi sono stati sottoposti a terapie per il “disordine dell’identità di genere”, trattamenti che vanno dalla consulenza psicologica fino al bombardamento ormonale per bloccare lo sviluppo del paziente in vista del cambiamento chirurgico del sesso. Cinque anni fa, nel 2009-2010, i minorenni trattati in questi modi erano 97.
Si spiega perché nel dicembre scorso l’alta Corte britannica abbia imposto uno stop a queste pratiche sempre meno controllabili, motivandolo con la considerazione che è «altamente improbabile» che un adolescente – specie al di sotto dei 16 anni – possa comprendere in maniera «appropriata» gli effetti a medio e lungo termine del cambio di genere e fornire a chi lo prende in cura per la transizione da un sesso all’altro un adeguato «consenso informato».
Una scuola dove si insinua il dubbio sistematico sulla identità sessuale non rischia di essere la migliore preparazione a questo tipo di derive?
7. Uscire dalla logica degli slogan e delle etichette
Il ddl Zan, ovviamente, non ha immediatamente a che fare con questi sviluppi, se non perché prevede esso stesso un intervento nelle scuole e, soprattutto, per il montare di un’onda di favore nei suoi confronti, entro cui si collocano le prese di posizione di Fedez e di altri personaggi dello spettacolo.
Forse se si facesse più attenzione alle critiche delle associazioni femministe ci si chiederebbe se davvero non si possa trovare un modo di tutelare le persone omosessuali, come è più che giusto fare, che non implichi la codificazione del concetto di «identità di genere», con ciò che essa comporta. Solo che per questo ora è tardi. Bisognava pensarci prima. Non è tardi però per aprire un dibattito in cui, invece di essere in primo piano, come ora, gli slogan e le etichette - “difensori della civiltà” vs. “reazionari e bigotti” - , si guardi alla complessità dei problemi, soprattutto per le loro conseguenze sulle nuove generazioni.
Pandemia, Stato e Regioni: quando la ‘materia’ non basta (nota a Corte Costituzionale n. 37/2021)
di Marcella Gola
Sommario: 1 L’emergenza come criterio autonomo di riparto delle competenze territoriali - 2. Emergenza e rischio: vecchie e nuove sfide per la gestione delle crisi - 3. Crisi sanitaria e unità economica - 4. Segue. Specificità del contesto e potere di decisione - 5. Considerazioni conclusive. Ampiezza degli interessi e sistema sanitario nazionale.
1. L’emergenza come criterio autonomo di riparto delle competenze territoriali
La pandemia da Sars – Covid 19 già per definizione evoca la distribuzione territoriale ampissima degli interessi che chiedono protezione, richiamando la necessità di concertarsi sull’efficacia delle misure adottate rispetto agli obiettivi identificati come reazione all’evento negativo sopravvenuto.
Efficienza ed economicità, come parametri di valutazione dell’agire pubblico, subiscono contingentemente un arretramento, rispetto all’efficacia, nella definizione di strumenti e decisioni straordinari da commisurare alle effettive esigenze di contenimento e cura della malattia.
La pandemia, termine attualmente usato per indicare l’emergenza sanitaria da Sars- Covid 19, è una denominazione dalla radice più antica di quella che indica la globalizzazione, fenomeno che da tempo ha rimesso in discussione la corrispondenza ideale tra i governi territoriali autonomi e gli interventi pubblici in ambito economico e sociale, basata prioritariamente sulla preferenza per la vicinanza dei primi al contesto sul quale i secondi incidono.
Questo criterio, espresso chiaramente in Costituzione con riferimento alla funzione amministrativa, ha fornito alle Regioni una sollecitazione ad affermare la propria competenza, anche legislativa, a fronte della situazione di crisi sanitaria e, di riflesso, economica, che si è verificata.
In generale, occorre infatti ricordare che la pandemia ha fatto un ingresso ‘a gamba tesa’ nel processo di differenziazione regionale, nel quale spiccava la richiesta di maggiori poteri in materia sanitaria.
Oltre alla rivendicazione della sfera di autonomia già riconosciuta a questi Enti, la spinta all’intervento ‘individuale’, cioè fuori sistema, si è basata anche sulla oggettiva diversificazione della distribuzione territoriale – specie in fase iniziale, nei primi mesi del 2020 – del virus, tale da motivare chiusure ed isolamento delle aree maggiormente colpite; il criterio della ‘colorazione’ ha concretizzato tale circostanza, dando anche visibilità alla valutazione del corrispondente rischio sottostante.
Alla condizione sanitaria, ritenuta in linea di principio riconducibile alla competenza concorrente in materia di ‘tutela della salute’ nonostante l’eccezionalità della sua consistenza ed estensione, si è presto affiancata la considerazione per l’impatto sociale di dette chiusure - estese cautelativamente all’intero territorio nazionale, pur con diverse gradazioni -, specie sull’economia, anch’essa entrata in crisi.
In questo contesto si colloca la l.r. Valle d’Aosta, 9 dicembre 2020, n. 11, recante ‘Misure di contenimento della diffusione del virus SARS-COV-2 nelle attività sociali ed economiche della Regione autonoma Valle d’Aosta in relazione allo stato d’emergenza’, oggetto d’impugnazione da parte del Governo, con la quale la Regione autonoma ha inteso intervenire sulle attività indicate, in particolare con attenzione al settore del turismo, attività centrale per lo sviluppo locale.
La finalità ‘multipla’ della legge – contenimento contagio tramite regolamentazione attività economiche – offre uno spunto di riflessione particolarmente interessante, anche per il futuro assetto dei rapporti tra Stato e Regioni.
L’occasione conseguente alla dichiarazione dello stato di crisi espressa dall’ONU che ha così sancito il ‘salto di qualità’ – in negativo, purtroppo, - dell’epidemia divenuta mondiale può servire, utilmente, a superare l’idea che il potere legislativo si distribuisca solo per materie, declinabili con contenuti predeterminati, condivisi e certi.
La sentenza della Corte si basa a prima lettura sull’applicazione del principio del riparto per materie, rinvenendo nella fattispecie la riserva statale che esclude la scelta alternativa voluta dalla Regione alla materia ‘profilassi internazionale’, ritenuta idonea ad assorbire tutta la complessità della emergenza che si è intesa contrastare coi provvedimenti statali disattesi dalla diversa determinazione del Consiglio regionale. Tale interpretazione, per inciso, vale ad escludere ogni potestà regolamentare in capo alle Regioni.
In realtà, le argomentazioni della Corte aprono la strada a più ampi scenari e riflettono un generale stato di insoddisfazione rispetto a soluzioni apparentemente rispettose di criteri formali ma non in linea con l’assetto complessivo dell’ordinamento giuridico attuale e dei livelli di competenza in cui questo è articolato.
Ferma restando la necessità di proporzionare le misure da adottare all’effettiva natura del caso – operazione non semplice, in buona parte condizionata da valutazioni tecnico scientifiche di cui la politica può offrire solo una sintesi, traducendole in iniziative concrete -, il dato che emerge nel caso considerato è infatti quello che assegna rilevanza determinante alla peculiarità della situazione, risultato di una combinazione di una pluralità di fattori e non riconducibile nel suo complesso al quadro ordinario e, potremmo dire, statico, che regola la distribuzione del potere.
L’emergenza riguarda infatti la situazione; non classifica il provvedimento adottato in quanto il legislatore non ne ha bisogno, essendo ampia la discrezionalità legislativa, condizionata dalla sua ragionevolezza variamente declinata, senza che sia ravvisabile la necessità di motivare l’esercizio di un potere con risultati derogatori rispetto al diritto vigente.
La Corte costituzionale segue questa impostazione quando esclude la pertinenza alla competenza statutaria delle norme impugnate, combinandole “alla luce delle finalità perseguite dal legislatore regionale e del fascio di compositi interessi coinvolti”: così al punto 5 del considerato in diritto della sent. n. 37 del 2021, aderendo alla prospettazione dello Stato in veste di ricorrente.
Eliminare il pericolo e diffondere sicurezza sono obiettivi propulsori del potere pubblico, validi ad intrecciarsi con ogni materia settoriale che deve pro quota cedere per garantire la conservazione dell’ordinamento giuridico, a partire da quello statale, sovrano e originario. Non trasversalità, non specialità ma straordinarietà ed emergenza determinano quindi il necessario assetto per un adeguato intervento unificato al livello più ampio dell’ordinamento. Nella recente dottrina, già prima della dichiarazione di pandemia, è stata ben evidenziata la necessità di affrontare l’emergenza con un nuovo approccio giuridico [1]
L’ordinamento giuridico contiene molti indizi in questo senso, prevedendo sempre clausole di apertura verso il contrasto dell’eccezionalità: nel diritto amministrativo è esemplare il caso delle ordinanze contingibili e urgenti, definite convenzionalmente ‘libere’. Per quello legislativo esiste lo strumento del decreto legge che sposta addirittura l’esercizio della funzione dal suo titolare, sacrificando in nome di straordinarietà, necessità e urgenza il fondamentale canone dell’azione del Parlamento, rappresentante della sovranità popolare.
Non si pone in discussione l’autonomia regionale, che anzi continua a rappresentare il livello organizzativo più adatto per collocare, tra gli altri, i servizi sanitari. La pandemia, si è già ricordato, si è manifestata mentre era in pieno svolgimento un processo evolutivo diretto proprio in questa direzione, interrotto appunto dal radicale cambiamento del contesto cui si rivolgeva e dall’emergenza riscontrata.
La stessa Corte, intervenendo sulla censurata scelta della Regione Valle d’Aosta, ha infatti ritenuto opportuno affermare espressamente “quanto fondamentale sia l’apporto dell’organizzazione sanitaria regionale, a mezzo della quale lo Stato stesso può perseguire i propri scopi”, ribadendo contestualmente che sia il legislatore statale “ titolato a prefigurare tutte le misure occorrenti”, da intendere “coessenziali al disegno di contrasto di una crisi epidemica” come si legge al punto 8 del considerato in diritto, sent. n. 37 del 2021 cit.
Ancor più concretamente, nella stessa sentenza, con riferimento all’art. 2 del d.l. n. 19 del 2020 e sul “percorso di leale collaborazione con il sistema regionale” ivi disposto, al punto 12 del considerato in diritto si reputa che quella adottata dal legislatore statale sia una “soluzione normativa consona sia all’ampiezza del fascio di competenze regionali raggiunte dalle misure di contrasto alla pandemia, sia alla circostanza obiettiva per la quale lo Stato, perlomeno ove non ricorra al potere sostitutivo previsto dall’art. 120 Cost., è tenuto a valersi della organizzazione sanitaria regionale, al fine di attuare le proprie misure profilattiche” (il corsivo è di chi scrive).
L’espressione adottata, si nota agevolmente, evoca quella di ‘avvalimento di uffici’ che il vecchio testo dell’art. 118 cost. proponeva come alternativa per lo svolgimento delle funzioni amministrative regionali, finalizzata più all’intento di evitare duplicazioni che a quello di rispettare l’autonomia degli enti locali sulla quale era destinata ad incidere. Difficile pensare alla casualità del termine scelto, che sottolinea piuttosto - e non senza problematicità - l’idea della chiamata non in sussidiarietà, ma all’unità del sistema a fronte della straordinarietà della situazione da affrontare.
Occorre in ogni caso riconoscere l’esigenza che l’ordinamento sappia adattarsi alla straordinarietà delle situazioni, non attraverso interventi speciali e in quanto tali non contemplati, ma ricorrendo a misure diversificate rispetto allo standard, previamente determinato in via generale ed astratta prefigurando un andamento ‘normale’ dei fenomeni che si intendono regolare.
Si tratta quindi di aprire la strada a strumenti adeguati alla situazione da affrontare, legittimi nei limiti – temporali, qualitativi e quantitativi - di quanto necessario a dare risposta e contrastare l’alterazione dell’assetto degli interessi delineato dalla legge. Non si tratta di distinguere per specialità un caso particolare dal genere cui è riconducibile, bensì di ripristinare l’ordine giuridico che è stato leso o è minacciato da eventi o circostanze eccezionali, con interventi mirati e proporzionati.
Il tema si sposta quindi sulla ricerca della titolarità non tanto dell’intervento in sé ma della definizione della sua giusta proporzione, da intendere integrato nel potere di agire.
In coerenza con questa affermazione, la Corte ricorda diverse fonti legislative che riconducono allo Stato la competenza di intervenire in caso di emergenza, anticipando il ricorso al principio di sussidiarietà in materia di igiene e sanità pubblica – tema principale della fattispecie -, e di polizia veterinaria. Ai sensi dell’art. 32, l. n. 833 del 1978, Regioni ed enti locali sono infatti legittimate ad adottare ordinanze contingibili e urgenti, a condizione che “l’efficacia di tali atti possa essere garantita da questo livello di governo, posto che compete invece al Ministro della salute provvedere quando sia necessario disciplinare l’emergenza” (sent. n. 37 del 2021 cit.) tramite l’adozione di provvedimenti “con efficacia estesa all’intero territorio nazionale o parte di esso comprendente più Regioni”, facendo altresì salvi, nelle stesse circostanze, “i poteri degli organi dello Stato preposti in base alle leggi vigenti alla tutela dell’ordine pubblico” (art. 32 cit., confermato anche dall’art. 117 del d.lgs. n. 112 del 1998 contestualmente ricordato). Nel brano estratto dalla sentenza richiamata si intende evidenziare – con il corsivo di chi scrive - l’uso dell’espressione “disciplinare l’emergenza”, riconosciuta perciò ‘materia’ (meglio: legittimazione) autonoma, oggetto del potere pubblico in discussione.
Il Giudice delle legge, a sottolineare l’affermazione che “il legislatore non abbia inteso riferirsi all’ovvio limite territoriale di tutti gli atti assunti in sede decentrata, ma, piuttosto, alla natura della crisi sanitaria da risolvere” (punto 8 del considerato in diritto) richiama anche il t.u.e.l,, d.lgs. n. 267 del 2000, il cui art. 50, comma 5, limita il potere sindacale di ordinanza alle emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale, sancendo il passaggio di competenza agli altri livelli di governo territoriale in base alla dimensione dell’emergenza da affrontare.
Ultima citazione è quella alla quale si deve una delimitazione legislativa dell’emergenza, costruendo appositamente un Servizio nazionale per fronteggiarla.
Secondo il d.lgs. n. 1 del 2018, Codice della protezione civile, ragionando a contrario, l’emergenza è ciò che l’organizzazione ivi istituita deve superare con la propria azione, consistente “nell’attuazione coordinata delle misure volte a rimuovere gli ostacoli alla ripresa delle normali condizioni di vita e di lavoro, per ripristinare i servizi essenziali e per ridurre il rischio residuo nelle aree colpite dagli eventi calamitosi, oltre che alla ricognizione dei fabbisogni per il ripristino delle strutture e delle infrastrutture pubbliche e private danneggiate, nonché dei danni subiti dalle attività economiche e produttive, dai beni culturali e dal patrimonio edilizio e all'avvio dell'attuazione delle conseguenti prime misure per fronteggiarli”: così recita l’art. 2, comma 7, d.lgs. n. 1 cit. Ripristino e conservazione della ‘normalità’, quindi, si contrappongono alla straordinarietà della situazione che si vuole contrastare, qualificata appunto come emergenziale.
Ai sensi del codice, ricorda la Corte, “è l’eventuale concentrazione della crisi su di una porzione specifica del territorio ad imporre il coinvolgimento delle autonomie quando, pur a fronte di simile localizzazione, l’emergenza assuma ugualmente “rilievo nazionale”, a causa della inadeguata «capacità di risposta operativa di Regioni ed enti locali» (sentenza n. 327 del 2003; in seguito, sulla necessità di acquisizione dell’intesa in tali casi, sentenza n. 246 del 2019)”: così il punto 8.1 del considerato in diritto, richiamando i precedenti indicati.
2. Emergenza e rischio: vecchie e nuove sfide per la gestione delle crisi
Spostata l’attenzione sulla crisi da fronteggiare, il punto è quello dell’attribuzione della gestione del rischio, e prima ancora delle decisioni da assumere sul rischio, le cui scelte non possono che essere accentrate o, se si preferisce, unificate, per esprimere al massimo la loro forza.
La competizione richiesta dalla fattispecie, in ragione della sua complessità, deve infatti concernere principalmente gli strumenti - modulabili in base alla specificità della situazione -, e non i soggetti [2]: le caratteristiche proprie del caso sul quale si deve intervenire, specie per il profilo dimensionale – ma non solo questo, in linea di principio – determinano già di per sé la riconducibilità al livello territoriale che possa adottare misure adeguate, per visione d’insieme, capacità tecnica, dotazione strumentale.
Lo stesso SSN combina bene i due sistemi, quello della regionalizzazione, ben corrispondente all’aziendalizzazione per la gestione ‘ordinaria’ – classificazione utilizzata non certo con l’intento di sminuirne la portata -, attenta al profilo produttivo e gestionale, e quello dell’uniformità di livelli prestazionali – i c.d. LEA, di competenza statale, non solo in considerazione della parità dei diritti che si intendono garantire ai cittadini, ma anche per razionalizzare e rafforzare l’intervento pubblico nel suo complesso.
La pandemia richiede una strategia prima delle prestazioni puntuali, e questa deve competere a un centro che dialoghi con le realtà territoriali e ne assuma al contempo la responsabilità – intesa prima di tutto come potere – delle scelte di indirizzo unitario.
Si tratta tra l’altro di decisioni che rispondono al fine ultimo della tutela della salute, a partire dall’evitare il diffondersi del pericolo connesso alla circolazione del virus, ma incidono anche su più settori funzionali, diversi da quello sanitario. Il fine della tutela della salute è in altri termini mediato da interventi strumentali che incidono direttamente su altri ambiti.
La legge regionale valdostana impugnata dal Governo, come già ricordato, ha infatti ad oggetto misure di contenimento della diffusione del virus nelle attività economiche e sociali del territorio. La normativa censurata, metodologicamente, consentiva tra l’altro una serie di attività economiche, purché nel rispetto di protocolli di sicurezza, discostandosi dalle più restrittive misure nazionali a vantaggio dell’impresa locale.
La Consulta ha ritenuto che la legge valdostana abbia invaso la competenza esclusiva statale in materia diprofilassi internazionale, con pregiudizio dell’interesse pubblico e ai diritti delle persone (art. 117 c. 2 lett. q) Cost.).
Per quanto già evidenziato in precedenza, la decisione è pienamente condivisibile per quanto concerne la necessità di un indirizzo unitario a fronte dell’emergenza così estesa, e ciò anche sotto il profilo pratico della certezza del diritto e della credibilità delle istituzioni, caratteristiche già di per sé messe in discussione da scelte non sempre lineari e comprensibili, che di certo non avrebbero sopportato l’ulteriore difficoltà dovuta a ‘zonizzazioni’ anche ravvicinate non rispondenti a criteri univoci.
Il problema è che, in generale, l’enfasi dell’affermazione dell’autonomia territoriale come soluzione risolutiva rispetto a un sistema inefficiente da superare rischia di assegnare allo Stato un ruolo di mero interprete e coordinatore di altri ‘centri’. Questi ultimi, sempre più destinati a esprimersi con decisioni autonome, portano a dimenticare che lo Stato ha una propria soggettività, legata a fini complessi ed espressione della sovranità che lo caratterizza, anche sul piano internazionale. Anche la tendenza alla negoziazione - pur in linea di principio garanzia di maggiore efficacia -, che permea la gran parte delle decisioni statali, come conseguenza di questa tendenziale parificazione tra livelli territoriali diversi, finisce per diventare occasione di ‘annacquamento’ delle responsabilità, depotenziando il ruolo di decisore anche quando l’attribuzione del potere è chiaramente ritenuta da Costituente e legislatore di dimensione sovra regionale.
Si avverte piuttosto la mancanza di una dimensione ancora superiore per la gestione della crisi: a livello mondiale si è visto come profili tecnici e politici confliggano, a livello europeo non si è raggiunta compitamente una politica comune e si è scontata la lontananza dei cittadini verso le istituzioni europee, che non esprimono quell’autorevolezza che può rassicurare gli utenti dei servizi sanitari nazionali.
Questo quadro giustifica la spinta sussidiaria delle Regioni, questa volta non mosse tanto da una competizione - anche perché gli attori in partenza più ‘forti’, dotati dei requisiti per aspirare alla differenziazione costituzionale, sono stati i più colpiti – ma dalla volontà di colmare un vuoto avvertito, anticipando le in-decisioni statali, senza a loro volta riuscire a fornire risposte proporzionate alla crisi affrontata.
3. Crisi sanitaria e unità economica.
Spostata, come si è proposto all’inizio di queste note, l’attenzione dal conflitto tra soggetti dell’ordinamento, ne risente anche quella sugli strumenti adeguati allo scopo che si persegue. Non serve quindi, si ribadisce, la ricerca di inesistenti ‘poteri speciali’ ma di misure proporzionate all’eccezionalità della situazione.
Nel descrivere l’ordinamento sanitario, non circoscrivendo l’analisi all’emergenza dichiarata relativamente al contagio da Covid-19, come ricordato la migliore dottrina ha già avuto modo di evidenziare la rilevanza assunta dal fattore ‘rischio’, collegato sia alla società contemporanea che ne è caratterizzata, sia alla condizione di incertezza che ad esso si collega, risolvibile solo attraverso un’adeguata procedimentalizzazione delle decisioni [3].
Lo spazio riservato al diritto amministrativo in ambito sanitario è quindi destinato ad aumentare, dando un rilievo sostanziale all’emergenza che non sempre trova nella scienza e nella tecnica medico sanitaria tutte le conoscenze valide a guidare le risposte in un’unica, incontrovertibile, direzione.
In questa prospettiva occorre però svolgere un’ulteriore riflessione.
Per meglio classificare gli interventi originati dall’emergenza sanitaria da Covid -19 occorre infatti distinguere tra norme dirette alla limitazione del contagio e quelle rivolte al ripristino - ristoro economico: il contrasto della pandemia soddisfa l’interesse sanitario, ma la ricaduta economica della pandemia muove strumenti di natura diversa da quelli riconducibili al potere sanitario quando nei provvedimenti di emergenza l’oggetto è l’attività economica e il suo sostegno.
Poco rileva infatti che la crisi sia determinata da catastrofi naturali, inefficienze del mercato, insufficienza energetica, emergenze sanitarie.
Le norme contingibili rivolte a regolare scuola, ristorazione, trasporti, esercizi commerciali, impianti sportivi ecc. incidono sul modo di erogazione dei relativi servizi, pubblici e privati, fino a imporre chiusure di alcune attività, inibite per la motivazione che la loro continuazione può favorire il diffondersi del contagio, in quanto occasione di aggregazioni.
Tra queste misure molte incidono direttamente sull’attività economica da esse considerata, o comunque producono un impatto importante sull’occupazione del settore di afferenza, con ripercussioni sul lavoro di intere categorie addette alle varie aree.
Questa situazione è riscontrabile nella l.r. Valle d’Aosta censurata dalla Corte costituzionale, disciplina la cui produzione di effetti è stata per la prima volta giudicata dalla Corte meritevole di utilizzo del potere cautelare ad essa assegnato dall’ordinamento ex art. 35 della legge 11 marzo 1953, n. 87, ‘Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale’, rendendo perciò ancora più interessante l’interpretazione data alla fattispecie dal Giudice delle leggi [4]
L’ordinanza della Corte del 14 gennaio 2021, n. 4 si basa sul presupposto che “la legge regionale impugnata disciplina la gestione regionale dell’emergenza epidemiologica indotta dalla diffusione del virus Covid-19”, riconducendo quindi tutta la legge di cui si dispone la sospensione all’ambito sanitario, pur nello sesso contesto evidenziando che” con tale legge regionale la Regione ha, tra l’altro, selezionato attività sociali ed economiche il cui svolgimento è consentito, nel rispetto dei protocolli di sicurezza, anche in deroga a quanto contrariamente stabilito dalla normativa statale, recante misure di contrasto alla pandemia da Covid-19”.
Nello specifico, la legge regionale di cui si sono sospesi gli effetti è stata ricondotta alle materie della profilassi internazionale (art. 117, secondo comma, lettera q, cost.), di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (art. 117, secondo comma, lettera m, cost.), oltre che a principi fondamentali della materia tutela della salute. Nella decisione del conflitto, tuttavia, come sopra anticipato la Corte decide di concentrarsi sull’appartenenza delle misure alla materia della profilassi internazionale, idonea a riassorbire ogni possibile interferenza e trasversalità in grado di aprire la strada a future rivendicazioni regionali, con un procedimento interpretativo analogo a quello che in ambito amministrativo consente di individuare l’interesse prevalente, e con esso l’amministrazione cui ne compete la cura.
Già in sede cautelare al Corte ha censurato il fatto che “l’intera legge regionale impugnata avrebbe … dato luogo ad un meccanismo autonomo ed alternativo di gestione dell’emergenza sanitaria, ‘cristallizzando con legge’ una situazione che la normativa statale consente alle Regioni di gestire ‘esclusivamente in via amministrativa’ ”, e “che tale assetto corrisponderebbe alla necessità di una gestione unitaria della crisi, di carattere internazionale, anche in ragione della allocazione delle funzioni amministrative, da parte del legislatore statale, secondo il principio di sussidiarietà (art. 118 Cost.), e a seguito di una “parziale attrazione allo Stato”: così si legge nella motivazione che accompagna l’ordine di sospensione degli effetti della legge valdostana.
Di certo il fattore tempo, che caratterizza l’emergenza, offre di per sé una rilevante giustificazione all’utilizzo della sospensiva, dato “che le modalità di diffusione del virus Covid-19 rendono qualunque aggravamento del rischio, anche su base locale, idoneo a compromettere, in modo irreparabile, la salute delle persone e l’interesse pubblico ad una gestione unitaria a livello nazionale della pandemia, peraltro non preclusiva di diversificazioni regionali nel quadro di una leale collaborazione”. La tempestività delle misure da adottare, tuttavia, varrà anche ai fini di calibrare la ricordata cooperazione tra livelli territoriali, che ne sarà corrispondentemente condizionata: si torna così ad evidenziare la necessità che la decisione, per quanto auspicabilmente condivisa, debba comunque trovare una definizione unitaria.
Per inciso, si osserva che la stessa Corte, nella sentenza qui richiamata, ricorda che il principio di leale collaborazione “ non è applicabile alle procedure legislative, ove non imposto direttamente dalll Costituzione (ex plurimis, sentenza n. 233 del 2019)” , mentre questo principio è stato ora inserito nella l. n. 241 del 1990, tra i principi dell’azione amministrativa [5] : si adatta quindi alla fase gestionale e non a quella decisionale presupposta, di definizione dei fini e allocazione dei poteri necessari a conseguirli.
Il rischio torna quindi ad assumere una rilevanza autonoma, anche indipendente dall’ambito materiale nel quale emerge, per definire un intervento ad esso contrapposto, proporzionato al contesto sul quale deve produrre gli effetti voluti. Al quadro già delineato si aggiunga, incidentalmente, che la profilassi richiama un’attività propria della scienza medica, il cui contenuto non può essere rigidamente predeterminato dalla legge, in ciò tornado ad evidenziare la rilevanza della fattispecie concreta cui si intende dare risposta.
Del resto, anche dall’interpretazione data dalla Corte emerge la preoccupazione che l’invasione della competenza esclusiva statale possa recare “pregiudizio dell’interesse pubblico e ai diritti delle persone”, ritenuto grave e irreparabile in sede cautelare.
L’aggancio alla profilassi internazionale consente alla Corte di sancire la «uniformità anche nell’attuazione, in ambito nazionale, di programmi elaborati in sede internazionale e sovranazionale», richiamandosi a proprie precedenti pronunce (Corte Cost., sentenze nn. 5 del 2018; 270 del 2016, 173 del 2014, 406 del 2005 e 12 del 2004).
Sin dall’istituzione del SSN la profilassi internazionale è riservata alla competenza statale, con chiara volontà di centralizzazione, così come la generale profilassi di malattie infettive e diffusive per le quali siano imposte la vaccinazione obbligatoria o misure quarantenarie, nonché le epidemie e le epizoozie: cfr artt. 6, comma 1, lett. a e b, e 7 della l. n. 833 del 1978. Il successivo art. 7 prevede la mera delega alle Regioni delle funzioni amministrative relative alla seconda categoria di interventi sopra citata (art. 6, lett. b cit.), perciò di livello diverso da quello internazionale partitamente enunciato, cui la pandemia deve essere ascritta. La struttura del sistema sanitario, quindi, garantisce l’unicità del centro di imputazione per questi interventi, destinati a non essere suscettibili di frammentazione.
Per questa strada la Corte trova una soluzione forte per bloccare le possibili fughe ‘in ordine sparso’ da parte delle Regioni, quando finalizzate a vanificare il livello di garanzia adottato sull’intero territorio nazionale.
Altre considerazioni, tuttavia, possono portare ad analogo risultato, fornendo un utile contributo per future occasioni in cui sia posta in discussione l’attribuzione della competenza a fronte di situazioni che presentino un’analoga connotazione di straordinarietà ed emergenza.
L’obiettivo costituzionale dell’unità economica [6] giustifica l’individuazione di una competenza riequilibratrice di titolarità statale, destinata a integrare il ‘normale esercizio’ delle funzioni distribuite in base all’autonomia territoriale, incidendo – temporaneamente e proporzionalmente - sugli ambiti materiali in grado di condizionarne il conseguimento.
Una conferma di questa lettura si rinviene nell’art. 119 cost., comma 5, in cui si sancisce il potere statale di intervento straordinario “per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni”.
Considerata la finalità garantistica della disposizione, se ne può trarre un principio interpretativo di base che, quanto all’impatto sull’economia e sui diritti della persona, costituisce una base solida per giustificare la riconducibilità allo Stato di ‘interventi speciali’, non necessariamente di solo contenuto finanziario, come richiesto dall’emergenza determinata dalla pandemia da Sars – Covid 19. La straordinarietà della situazione non altera in modo permanente l’assetto delle competenze, anzi per quanto possibile confermato a garanzia della continuità delle funzioni pubbliche ‘ordinarie’, compatibili con la gestione dell’emergenza sanitaria che, già di fatto, le condiziona.
Così come la corretta determinazione dei ‘LEA’ contemplata nell’art. 117, comma 2 lett. m) Cost. non si deve esaurire nella definizione del finanziamento necessario a garantirli, con lo stesso criterio argomentativo si può ritenere che il sostegno finanziario dei medesimi interventi contemplato dall’art. 119 cit. non esaurisca l’ambito della sfera riservata allo Stato.
L’unità economica richiamata dalla Costituzione è così più sistematicamente da intendere riferita non al solo piano della finanza pubblica – specie a sostegno del potere di controllo esterno ad essa ricondotto: cfr., ad esempio, l’uso dello stesso parametro in Corte cost., 6 marzo 2014, n. 39 – ma, ben più ampiamente, la sua affermazione travalica il rapporto tra livelli territoriali, coinvolgendo necessariamente l’insieme delle realtà economiche che determinano la ricchezza del Paese, rafforzando la possibilità di centralizzazione, alla bisogna, sulla base di un ragionamento analogo a quello sottostante la tutela della concorrenza, anch’essa riservata allo Stato ex art. 117, comma 2, lett. e).
Questo orientamento è tanto più valido per gli interventi del prossimo futuro, pianificati fino al 2026 sulla base del Piano nazionale di ripresa e resilienza, c.d. recovery plan: rafforzato dalla circostanza che le risorse di cui si dispone l’utilizzo sono di provenienza europea. Il primo comma aggiunto all’art. 97 cost dalla l. cost. n. 1 del 2012 diventa perciò principio guida per l’azione amministrativa di attuazione del piano: “le P.a., in coerenza con l’ordinamento dell’UE, assicurano l’equilibrio dei bilanci la sostenibilità del debito pubblico”, disposizione dalla quale emerge con evidenza la necessità della visione unitaria e sistematica degli interventi previsti, sempre senza incidere sull’autonomia organizzativa dei soggetti coinvolti, a uniformità di risultato garantita.
4. Segue. Specificità del contesto e potere di decisione.
Un altro precedente interessante per la lettura proposta, che combina misure straordinarie a tutela della salute con il connesso profilo economico, è quello affrontato dalla Corte con sentenza 13 gennaio 2004, n. 12, decisione che vede i contendenti ancora una volta parti inverse rispetto alla controversia decisa con la sent. n. 37 del 2021.
La fattispecie giudicata, anch’essa riferibile alla materia profilassi internazionale, volta al contrasto della pandemia determinata dalla così detta ‘mucca pazza’, ha infatti portato la Corte a sottolineare che “l’attribuzione a livello centrale di funzioni amministrative, quali la predisposizione di interventi per la protezione dall’influenza e la gestione di un apposito ‘fondo per l’emergenza ‘blue tongue’, trova giustificazione in esigenze di carattere unitario e, specificamente, nel principio di adeguatezza. Il coordinamento degli interventi economici e sanitari si rende infatti necessario proprio tenendo conto della diffusività della malattia, che travalica i confini territoriali delle Regioni e addirittura degli Stati” (corsivo aggiunto).
Il richiamo all’adeguatezza, pur sancito dall’art. 118 cost. con riferimento al riparto della distribuzione della funzione amministrativa, condiziona il suo presupposto legislativo che deve garantire il risultato perseguito, e perciò a sua volta trovare allocazione là dove questo obiettivo unitario sia disponibile.
In linea generale, occorre inoltre considerare che la pandemia non consente di individuare un modello di ‘bacino ottimale’ per adeguare gli interventi necessari per un efficace contrasto alla sua diffusione.
L’organizzazione territoriale non può che avvenire sulla base di una differenziazione riferita alla variazione delle situazioni (sanitarie, nella specie) localmente rilevate, delineando una graduazione delle misure che comunque richiede omogeneità in corrispondenza delle tipologie di zone classificate in base a parametri univoci, tecnicamente definiti.
Punto centrale della questione, a parere di chi scrive e come già esposto, è quello che ruota attorno alla considerazione del rischio, diffuso in corrispondenza con la pandemia, e alla sua riconduzione ad unità.
Si tratta di un tema ricorrente nel recente periodo, e che finisce per condurre, in sostanza, al fondamento del potere di assumere decisioni e dell’assunzione della relativa responsabilità. Proprio l’ambito degli interventi pubblici in materia di sanità rappresenta il contesto in cui tale fattore si avverte con particolare evidenza: sin dalle prime leggi di unificazione, la l. 20 marzo 1865, n. 2248 allegato C dedicato alla sanità pubblica, tracciava infatti le prime disposizioni per l’amministrazione della salute contemplando le misure per gli interventi emergenziali volti a fronteggiare il rischio sanitario [7]
Ciò è tanto più importante in quanto il fine della tutela della salute – che risponde chiaramente a livelli uniformi quanto alle prestazioni definite essenziali – si intreccia, e spesso si attua, attraverso interventi che incidono direttamente sulla vita della società. Si considerino in particolare la circolazione personale e l’iniziativa economica, principali ambiti sui quali incidono le misure di restrizione che mirano al contenimento del contagio. Entrambe sancite in Costituzione, pur con le differenze dovute anche alla collocazione delle due norme - artt. 16 e 41 -, che rispettivamente le sanciscono, tanto la libertà di circolazione, tanto quella economica nascono già con limitazioni interne, dirette infatti alla garanzia di sicurezza che il loro esercizio non deve contrastare.
Quella stessa sicurezza che, richiamata dal ‘nuovo’ testo dell’art. 120 cost., pone espressamente tra le ragioni che legittimano l’intervento sostitutivo del Governo sugli organi delle autonomie territoriali che non ne abbiano assicurato la garanzia. Lo Stato, quindi, è garante della sicurezza pubblica, cui, a legittimazione dello stesso potere sostitutivo, sempre nel testo dell’art. 120 Cost. comma 2 si aggiungono incolumità pubblica, “la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e locali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali”, oltre al rispetto di trattati e norme internazionali e ‘comunitarie’. La vicenda determinata dal contagio da Sars-Covid 19 è perfettamente riconducibile a questo quadro sostanziale, riferito a ipotesi in cui la competenza dei governi locali sia in linea di principio riconosciuta dall’ordinamento, condizione qui esclusa dalla Corte.
L’art. 120, in definitiva, modifica radicalmente il criterio di soluzione dei conflitti tra Stato e Regioni, ‘depoliticizzandolo’ rispetto al precedente coinvolgimento risolutivo del Parlamento, ma in sostanza si può ritenere che la norma vigente declini coi parametri indicati quello che nel vecchio testo dell’art. 127 era espresso dal ‘contrasto di interessi’.
Il richiamo implicito all’interesse nazionale, in definitiva, resta sempre valido, in una versione profondamente rivisitata e compatibile con il disegno autonomistico vigente[8]. La situazione straordinaria che l’ordinamento sta affrontando offre quindi nuovi spunti di interpretazione destinati a ridefinire i ruoli dei diversi livelli territoriali oltre l’emergenza.
5. Considerazioni conclusive. Ampiezza degli interessi e sistema sanitario nazionale.
Infine, un’interessante annotazione.
A volte il tempo, e i numeri, sono davvero sorprendenti: esattamente trenta anni fa, nel 1991, una sentenza con lo stesso numero di quella attualmente in discussione, affrontava una vicenda ben distinta rispetto a quella attuale ma con rilevanti similitudini, concernente un conflitto a parti inverse, cioè nella fattispecie Province autonome e Regione Lombardia contro lo Stato.
La pronuncia del 31 gennaio 1991, n. 37, riguarda anch’essa un intervento in ambito sanitario, e precisamente la lotta contro l'AIDS.
Nel caso si trattava dell’impugnazione di alcuni articoli della l. 5 giugno 1990 n. 135, atto con il quale si è prevista l'attuazione di numerosi interventi finalizzati “allo scopo di contrastare la diffusione dell'infezione da HIV mediante le attività di prevenzione e di assicurare idonea assistenza alle persone affette da tale patologia” (art. 1 comma 1), l. n. 135 cit. Si è trattato, tra l’altro, di sindacare la legittimità costituzionale di norme che sanciscono la competenza dello Stato a sostituirsi agli enti territoriali inattivi e la definizione di un programma di interventi da attuare sulla base di un piano ministeriale.
La Corte costituzionale, nel dichiarare la non fondatezza delle eccezioni allora sottopostele, ha espresso alcune considerazioni che, con un’operazione di ‘taglia – incolla’, potrebbero essere riportate a soluzione del caso attuale, anche a prescindere dalla intervenuta revisione costituzionale del Titolo V e del nuovo assetto delle competenze e dei rapporti tra Stato e autonomie.
Si afferma infatti nel punto 3 del considerato in diritto: “Prima di prendere in esame le specifiche questioni proposte, occorre, in una prospettiva di carattere generale e complessiva, osservare che la legge impugnata si presenta effettivamente, come risulta anche dai lavori preparatori, come intesa a dare una prima risposta seria e non frammentaria all'eccezionale situazione di emergenza sociale determinata dalla allarmante diffusione dell'infezione da HIV, patologia nuova e gravissima in espansione a livello non solo nazionale, ma mondiale, e ciò tenendo conto anche delle numerose iniziative esistenti in campo internazionale: si può ben dire dunque che tale legge vuole perseguire un interesse non frazionabile, ma concernente l'intera collettività nazionale e che richiede, per essere soddisfatto, misure e interventi di dimensioni corrispondenti. Inoltre, si tratta di un interesse che si presenta come particolarmente stringente e imperativo, essendo connesso alla indilazionabile necessità di contrastare, con mezzi adeguati, gli effetti eccezionali di un fenomeno morboso devastante, nell'intento di fornire uno standard minimo irrinunciabile di garanzia, in condizioni di eguaglianza in tutto il territorio della Repubblica, ad un valore, la salute, che, protetto dalla Costituzione come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività (art. 32), è stato costantemente riconosciuto come primario da questa Corte sia per la sua inerenza alla persona umana sia per la sua valenza di diritto sociale, caratterizzante la forma di stato sociale disegnata dalla Costituzione (v. spec., tra le tante, le sentt. nn. 455 del 1990; 324 del 1989; 1011 del 1988; 294 e 177 del 1986). Il perseguimento di un interesse siffatto, secondo la giurisprudenza di questa Corte, giustifica in principio la compressione da parte del legislatore statale di ogni tipo di competenza regionale o provinciale, e ciò anche con interventi di dettaglio, purché si tratti di misure necessarie e proporzionate rispetto alla realizzazione dell'interesse medesimo (v. spec., sentt. nn. 177 e 217 del 1988; 399 e 459 del 1989; 21 del 1991). Naturalmente, ciò non implica necessariamente che le provvidenze regionali o provinciali debbano essere comunque escluse, ma, al contrario, consente che esse siano fatte salve ove siano compatibili con le modalità e gli scopi dell'intervento nazionale e possano essere adeguatamente coordinate e utilizzate al medesimo fine” [9]: il corsivo è di chi scrive.
Molte e varie cose nel contesto sono cambiate rispetto a quello vigente al tempo della richiamata pronuncia, sia in conseguenza della dichiarazione della pandemia, sia in considerazione del nuovo assetto organizzativo che ha coinvolto i livelli territoriali competenti - dalla istituzione dell’UE alla revisione costituzionale e relative norme attuative -, senza considerare le riforme di settore che hanno toccato il SSN.
Quello che resta fermo, tuttavia, è il principio dell’unità della Repubblica che, per la prima volta in stato di assedio da parte di un nemico quanto mai potente e insidioso, deve saper garantire salute, benessere e sicurezza all’intera Nazione.
L’impressione che si ricava dalla lettura delle vicende che hanno attraversato in questi anni l’analisi sul SSN è che l’attenzione degli attori e degli interpreti sia stata concentrata su alcuni profili, di indubbia rilevanza– distinzione tra politica e amministrazione, personale, finanziamento tra i primi, nonché estensione delle competenze regionali – lasciando un po’ sullo sfondo il ruolo da riservare allo Stato.
L’esigenza di riconsiderare prioritariamente le attribuzioni statali, e non necessariamente in prospettiva relazionale con gli altri enti territoriali coinvolti nel SSN, pare emergere proprio in questo periodo, non per la straordinarietà della situazione da affrontare in sé ma perché la carenza di coordinamento da un lato e ancor più l’assenza di un centro decisionale unitario, con funzioni di guida del sistema per quella parte che, in ragione dell’unità di identificazione, non può essere frazionabile. Certo, in pratica il ragionamento richiesto può sembrare analogo, solo in ordine rovesciato rispetto a quanto svolto per costruire il quadro regionale: il fatto stesso che si sia proceduto ad una revisione costituzionale quale quella che ha riguardato il Titolo V dimostra il contrario, cioè la non indifferenza del punto di prospettiva assunto, e della conseguente individuazione di chi svolga un ruolo residuale rispetto ad altri. In questo senso però si è riproposto lo stesso modello incentrato unicamente sul criterio della competenza per materia, ritenendo che l’ampiamento – apparente – della gamma spettante ‘di norma’ alle Regioni, abbia disegnato un modello di Repubblica diverso da quello originario. Analogo ragionamento, questa volta senza il ricorso alla elencazione di materie, si può fare considerando l’impostazione alla base dell’abbandono del principio del parallelismo che orientava le funzioni amministrative nel previgente modello, ora superato dai criteri della sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione che paiono più adatti a regolare l’esercizio concreto della funzione stessa piuttosto che la sua titolarità, di cui si accetta la variabilità geometrica. Un’indicazione in questo senso, si ritiene, trova sostegno nella lettura della relazione annuale del Presidente della Corte Costituzionale relativa al 2020, in cui si afferma che “La peculiarità di un servizio sanitario nazionale ma a gestione regionale richiede un esercizio forte, da parte dello Stato, del potere di coordinamento e di correzione delle inefficienze regionali: un esercizio inadeguato di questo potere non solo comporta rischi di disomogeneità ma può ledere gli stessi livelli essenziali delle prestazioni, sul cui rispetto, anche nel 2020, la Corte si è più volte soffermata”
Quello appena riportato è uno dei passaggi della Relazione del Presidente Giancarlo Coraggio sull'attività della Corte costituzionale nel 2020 [10] La relazione richiamata fa espresso riferimento al caso considerato in questo breve studio, rilevando che “questo problema di fondo si è riproposto nel contesto attuale, pure caratterizzato dalla competenza esclusiva dello Stato in materia di profilassi internazionale, competenza che avrebbe dovuto garantire quell'unitarietà di azione e di disciplina che la dimensione nazionale dell'emergenza imponeva e tutt'ora impone”. È quindi il ruolo dello Stato nel suo complesso a essere considerato, presupposto necessario per delineare correttamente il rapporto con le Regioni, nel pieno rispetto dell’autonomia a esse riconosciuta, non essendo sufficiente un’interpretazione basata sulla ricerca dei confini della materia, anche quando essa consenta di escludere spazi al legislatore regionale come ritenuto nella fattispecie qui richiamata.
L’ipotesi più probabile è quella secondo al quale la complessità della società contemporanea, cui deve corrispondere un ordinamento giuridico adeguato, non consente più, almeno nella totalità dei casi, la definizione di ambiti di intervento che, per quanto ridisegnati, non si allontanano dal modello originario delle competenze per ‘fette di torta’, nonostante i tentativi di ricondurre a rete il quadro complessivo.
L’alternativa non è semplice, e passa scontatamente attraverso una semplificazione del quadro legislativo – che rischia invece l’aggravamento col doppio livello di competenze -, un rafforzamento degli atti che delineano gli obiettivi da perseguire in un ambito temporale ragionevole e finanziamenti proporzionati, la definizione di modelli coordinati e appositamente strutturati per far fronte a crisi e agire direttamente sul rischio, una collaborazione sia tra livelli territoriali sia tra pubblico e privato che renda chiare e predefinite le reciproche responsabilità. Molto altro resta all’autonomia di tutti i soggetti coinvolti nella gestione della tutela della salute: si pensi all’autonomia organizzativa e a quella negoziale delle strutture, che comprende anche la considerazione delle aspettative dei destinatari del servizio, il cui grado di soddisfazione deve restare il principale parametro di valutazione nelle decisioni che condizionano il funzionamento del Servizio sanitario nazionale.
[1] V. ampliamente gli studi raccolti in AA. VV., Dal diritto dell’emergenza al diritto del rischio, a cura di L. Giani, M. D’Orsogna, A. Police, Napoli, 2018 e bibliografia ivi citata; v. anche L. D’Andrea, Brevi considerazioni sui limiti dei poteri emergenziali nel sistema costituzionale, in AA. VV., Gli atti normativi del governo tra Corte costituzionale e giudici, Atti del Convegno annuale 2011 dell’Associazione “Gruppo di Pisa”, a cura di M. Cartabia, E. Lamarque, P. Tanzarella, Torino, 2011, p. 305 ss.
[2] V. le interessanti considerazioni di M.A. Sandulli, Le tante facce (non tutte auspicabili) del regionalismo differenziato: i presidi non rinunciabili della solidarietà e i gravi rischi della competizione, in www.cortisupremeesalute.it, evidenziando la tendenziale abdicazione del legislatore statale ad assumere il ruolo decisorio che gli compete
[3] V. ampiamente R. Ferrara, L’ordinamento della sanità, Torino, 2020, passim, spec. pp. 13 e ss., pp. 324 e ss., e bibliografia ivi citata, specie in riferimento al concetto di “società del rischio”.
[4] V. il commento di E. Lamarque, Sospensione cautelare di legge regionale da parte della Corte costituzionale. Nota a Corte cost. 14 gennaio 2021 n. 4, in Giustizia insieme, 2021.
[5] Ai sensi dell’art. 1, comma 2 bis della l. n. 241 cit, introdotto dall'art. 12, comma 1, lettera 0a), l. n. 120 del 2020, “I rapporti tar cittadini e P.a., sono improntati ai principi di collaborazione e buona fede”. Non è in dubbio che la norma in questione valga a escludere la responsabilità decisionale della P.a. agente, parificandola al destinatario della stessa: si tratta evidentemente di indicare e incentivare una modalità di azione che non incide sull’assetto delle competenze ad esercitare funzioni pubbliche.
[6] V. sul tema M. Luciani, Unità nazionale e struttura economica. La prospettiva della Costituzione repubblicana, in AA. VV., Costituzionalismo e Costituzione nella vicenda unitaria italiana, Annuario AIC 2011, Napoli, 2014, 3 ss.
[7] Sul tema v. M. P. CHITI, Il rischio sanitario e l’evoluzione dall’amministrazione dell’emergenza all’amministrazione precauzionale, in Annuario AIPDA 2005, Il diritto amministrativo dell’emergenza, Giuffré, Milano, 2006, 142 e in Riv.it. dir. pubbl. com., 2006, 1, 1 ss.; R. Ferrara, L’ordinamento della sanità, cit.
Per una definizione del ‘rischio sanitario’ in una prospettiva differenziata si veda il sito della protezione civile, ove si legge:” Il rischio sanitario è sempre conseguente ad altri rischi o calamità, tanto da esser definito come un rischio di secondo grado. Il fattore rischio sanitario si può considerare come una variabile qualitativa che esprime la potenzialità che un elemento esterno possa causare un danno alla salute della popolazione. La probabilità che questo possa accadere dà la misura del rischio, cioè dell’effetto che potrebbe causare. Questo tipo di rischio può essere: - antropico, se provocato dalle attività umane come incidenti industriali, attività industriali e agricole, trasporti, rifiuti; - naturale, se provocato da eventi naturali come terremoti, vulcani, frane, alluvioni, maremoti, tempeste di sabbia. Le variabili antropiche che comportano un rischio sanitario possono incidere sulla salute umana provocando danni o effetti sia temporanei, sia permanenti. Queste variabili possono essere di natura: biologica come batteri, virus, pollini, ogm; chimica come amianto, benzene, metalli pesanti, diossine; fisica come radiazioni UV, radiazioni ionizzanti, rumori, temperature troppo basse o troppo alte. Le variabili naturali rientrano invece in tutte le tipologie di calamità naturali come terremoti, eruzioni vulcaniche, tsunami, frane, alluvioni o altri fenomeni, sempre di tipo naturale”: tratto dahttp://www.protezionecivile.gov.it/attivita-rischi/rischio-sanitario/descrizione.
Con un rinvio generale alla ormai copiosa letteratura sul più ampio tema del principio di precauzione, ai fini del presente studio per la dottrina si rinvia anche, ampiamente, ad A. Barone, Il diritto del rischio, Milano, 2006; F.De Leonardis, Il principio di precauzione nell’amministrazione di rischio, Milano, 2005, in cui l’Autore rileva sin dall’inizio del suo studio come la precauzione “s’iscrive in una logica nettamente diversa da quella della prevenzione: quella dell’amministrazione di rischio”: op cit., p. 25.
[8] Tema amplissimo, eccedente le presenti note: v. le riflessioni di B. Caravita di Toritto, In tema di ‘interesse nazionale’ e riforme istituzionali, inFederalismi, Editoriale n. 6/2003, che analizza la posizione della Corte costituzionale all’entrata in vigore della revisione costituzionale.
[9] Il corsivo è di chi scrive. La Corte, in conclusione del punto in diritto qui citato, afferma inoltre che “Tutto ciò premesso, si deve riconoscere che la legge impugnata effettivamente incide nei diversi settori che le Province autonome e la Regione Lombardia rispettivamente rivendicano come attribuiti a vario titolo alla propria competenza, non potendo accedersi — dati i molteplici aspetti della normativa in esame — alla tesi dell'Avvocatura dello Stato che vorrebbe ricomprenderne l'oggetto nell'angusto e inappropriato ambito delle « epidemie », peraltro sottratto alle sole Regioni ordinarie (art. 6 comma 1 lett. b), l. n. 833 del 1978), ma non, come risulta dalle relative norme di attuazione statutaria, alle Province autonome. Tuttavia, tale riconoscimento non può per sé solo indurre a concludere per l'illegittimità delle norme impugnate, dovendo ancora verificarsi, secondo i ricordati criteri di giudizio, se le singole misure adottate siano tali, nel loro contenuto e modalità di realizzazione, da collegarsi o meno effettivamente e ragionevolmente con le esigenze unitarie sopra descritte”. Come detto, il giudizio della Corte si è espresso nel senso della non fondatezza delle eccezioni rilevate dalle ricorrenti. Anche in questo caso le considerazioni svolte in quella fattispecie presentano una significativa adattabilità con il problema giuridico affrontato tre decenni dopo.
[10] Citazione tratta dalla Relazione tenuta il 13 maggio 2021, consultabile in https://www.cortecostituzionale.it/jsp/consulta/composizione/paginePresidente/relazione_annuale.do.
Si nota come il brano riportato sia anche quello selezionato sul sito della Corte come abstract, ritenuto quindi particolarmente rappresentativo per testimoniare l’attività annuale del Giudice delle leggi.
L’Unione Europea e lo Stato di diritto. Fondamento, problemi, crisi *
di Vladimiro Zagrebelsky
1. L’Unione Europea si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini. Questo indica l’art. 2 del Trattato sull’Unione europea, nel testo derivante dal Trattato di Lisbona (2007), frutto della evoluzione del processo di unificazione europea e della crescente attenzione ai principi democratici e ai diritti fondamentali[1]. È naturale che gli stessi principi vincolino, non solo gli Stati membri, ma anche le istituzioni dell’Unione; espressamente l’art. 6 TUE stabilisce che l’Unione riconosce diritti, libertà e principi della Carta dei diritti fondamentali, il cui Preambolo richiama anche lo Stato di diritto.
Dall’art. 4 poi si ricava che l’Unione e gli Stati membri in virtù del principio di leale cooperazione si rispettano e si assistono reciprocamente nell’adempimento dei compiti derivanti dai Trattati e che gli Stati membri facilitano all’Unione l’adempimento dei suoi compiti e si astengono da qualsiasi misura che rischi di mettere in pericolo la realizzazione degli obiettivi dell’Unione. Si tratta di un principio di cruciale importanza, come ha rilevato la Corte di giustizia[2]: “Il diritto dell’Unione poggia, …, sulla premessa fondamentale secondo cui ciascuno Stato membro condivide con tutti gli altri Stati membri, e riconosce che questi condividono con esso, una serie di valori comuni sui quali l’Unione si fonda, così come precisato all’articolo 2 TUE. Tale premessa implica e giustifica l’esistenza della fiducia reciproca tra gli Stati membri quanto al riconoscimento di tali valori e, dunque, al rispetto del diritto dell’Unione che li attua. È proprio in tale contesto che spetta agli Stati membri, segnatamente, in virtù del principio di leale cooperazione enunciato all’articolo 4, paragrafo 3, primo comma, TUE, garantire, nei loro rispettivi territori, l’applicazione e il rispetto del diritto dell’Unione e adottare, a tal fine, ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti dai Trattati o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione…”.
La reciproca fiducia tra gli Stati membri è alla base del buon funzionamento delle istituzioni dell’Unione. Manifestazioni particolarmente significative ne sono la cooperazione giudiziaria, il riconoscimento dei provvedimenti giudiziari, il mandato di arresto europeo MAE.
Tali principi non indicano soltanto i tratti fondamentali della convivenza degli Stati membri in seno all’Unione, ma anche le condizioni di ammissione all’Unione degli Stati candidati (art. 49 TUE). Si può ritenere che siano non solo condizione di ammissione, ma anche condizione di permanenza. Di ciò è espressione l’art. 7 TUE, che prevede la possibilità (e la procedura) di raccomandazioni o di sospensione di diritti quando sia constatato l’evidente rischio di violazione grave dei valori dell’art. 2 o di violazione grave e persistente di essi da parte di uno Stato membro. Nel primo caso il Consiglio europeo delibera con la maggioranza dei quattro quinti dei suoi membri, nel secondo caso delibera alla unanimità.
2. Non estranea alla crescente esplicitazione dell’importanza dei principi democratici e dei diritti fondamentali nel quadro costituzionale[3] dell’Unione è stata la serie di allargamenti, che hanno portato da 6 a 28 (ora 27 con l’uscita del Regno Unito) gli Stati membri, aumentandone così la eterogeneità e richiedendo quindi opportune cautele per prevenire rischi di disgregazione. L’insistenza sulla preminenza dello Stato di diritto ne è conseguenza. Di essa nel 1993, in vista della possibile adesione degli Stati dell’Europa centrale e orientale che venivano liberandosi dal crollato sistema sovietico, gli Stati membri fecero menzione, come condizione di ammissione, nel testo noto come “criteri di Copenaghen”. Questo orientamento è stato poi rafforzato dagli Stati membri con deliberazioni del 1995. Successivamente, le conclusioni del Consiglio europeo del 5 dicembre 2011 hanno tra l’altro insistito, nell’ipotesi di successive adesioni, sulla necessità di riforme nel campo del “potere giudiziario e diritti fondamentali” e della “giustizia, libertà, sicurezza”. È del 2020 l’adozione di una nuova metodologia nelle trattative con nuovi Stati candidati, che ancora rafforza l’importanza dello Stato di diritto, giustizia, libertà, diritti fondamentali e istituzioni democratiche.
Si può allora affermare che l’Unione europea ha progressivamente sviluppato una importante politica di promozione dello Stato di diritto, con enunciazioni generali, messa in opera di meccanismi di sviluppo e controllo, di analisi dei problemi connessi[4] ed anche di collaborazione con altre istituzioni specializzate nel campo, come il Consiglio d’Europa[5] e la sua Commissione di Venezia[6].
3. La forma di stato che va sotto il nome di Stato di diritto ha alle spalle eventi storici diversi: dalla Rivoluzione inglese (1688-89) alla Rivoluzione americana (1776), dalla Rivoluzione francese (1789) alle Rivoluzioni europee del 1848 e poi lo sviluppo dello Stato costituzionale di diritto. Il risultato ha contenuti che possono ritenersi acquisiti, anche se i loro contorni possono apparire non definiti. Si tratta infatti di una nozione storica e politica, che può assumere caratteri diversi, più o meno marcati.
Si può riconoscere la qualità di Stato di diritto quando i poteri pubblici siano soggetti alla legge e siano previste ed efficaci la difesa e la promozione dei diritti dell’uomo (diritti civili, politici, sociali) e delle libertà fondamentali, nonché la indipendenza dei giudici (strumentale rispetto alla garanzia dei diritti). Nel corso del tempo, la libertà di stampa ha acquisito una importanza centrale e riconosciuta, come condizione del controllo sulla correttezza della azione dei poteri pubblici (e privati).
Il nesso tra organizzazione dei poteri dello Stato e garanzia dei diritti è risalente nella evoluzione della nozione di Stato di diritto. Nella dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino dell’agosto 1789 si leggono formule sintetiche e straordinariamente fertili di conseguenze:
“Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo” (art.2) e “Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri stabilita, non ha una costituzione” (art.16).
Nel corso del tempo gli sviluppi saranno enormi, a partire da quelli che derivano dalla crisi dell’assoluto potere della legge, e dal riconoscimento della potenza delle Costituzioni e delle Convenzioni e Dichiarazioni internazionali dei diritti. Una potenza derivante dai loro contenuti, prima ancora che dal loro rango formale, con la conseguente superiorità dei diritti umani e delle libertà fondamentali sulle leggi positive nazionali. Frutto questo dell’emergere dell’attenzione a non ridurre la garanzia della legge ad un vuoto fatto formale, suscettibile d’esser riempito di ogni contenuto, fosse pure aberrante.
La garanzia della legge, nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani si specifica nelle sue qualità di conoscibilità e prevedibilità, per escludere la sorpresa e l’arbitrio e si accompagna all’esigenza che nei suoi contenuti sia conforme o compatibile con i diritti fondamentali. Donde il limite che ne deriva al potere dell’autorità pubblica, rispetto alle libertà degli individui.
Fondamentale resta comunque la Dichiarazione del 1789 rispetto alla nozione di Stato di diritto, perché mette insieme le due condizioni, funzionali l’una all’altra, e indica lo scopo ultimo delle società.
La qualità di Stato di diritto da riconoscere o negare ad uno Stato specifico in un particolare momento storico riguarda il complesso delle norme e delle prassi che lo caratterizzano. Così persino la separazione dei poteri assume caratteri (e compromissioni e limiti) diversi nei vari Stati, tanto che la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani le riconosce crescente importanza, ma afferma che, piuttosto che la corrispondenza del sistema statale ad una specifica dottrina costituzionale, ciò che conta è l’indipendenza del giudice[7]. In vista della tutela dei diritti è infatti quest’ultima ciò che è richiesto (art. 6 Convenzione europea dei diritti umani).
Il giudizio sulla corrispondenza di uno specifico sistema statale ai requisiti dello Stato di diritto ha carattere complessivo piuttosto che derivare dalla considerazione singolare di questa o quella delle sue condizioni.
4. In varie occasioni diverse istituzioni dell’Unione e del Consiglio d’Europa hanno elaborato analitiche definizioni di ciò che deve intendersi per Stato di diritto nel quadro europeo. Ed hanno anche cercato di indicare i segni utili ad un giudizio di violazione dei principi dello Stato di diritto.
Così la Commissione di Venezia, con un rapporto del 2011, ha fornito una definizione di Stato di diritto, con l’ambizione di trovare una nozione compatibile con il principio di “preminenza del diritto” (menzionata nel Preambolo della versione francese della Convenzione europea dei diritti umani) e il “Rule of Law” (nella versione inglese) ed anche con il Rechtsstaat tedesco. Gli elementi indicati sono: la legalità (che suppone procedure legislative trasparenti e democratiche), la certezza del diritto e l’esclusione dell’arbitrio, l’accesso alla giustizia davanti a giudici indipendenti e imparziali, il rispetto dei diritti umani, la non discriminazione e l’eguaglianza davanti alla legge.
Più recentemente, una definizione di Stato di diritto non sostanzialmente diversa è esposta nel Regolamento 2020/2092 del 16 dicembre 2020 del Parlamento e del Consiglio relativo a un regime generale di condizionalità per la protezione del bilancio dell'Unione (art.2), ove si dichiara che “in esso rientrano i principi di legalità, in base alla quale il processo legislativo deve essere trasparente, responsabile, democratico e pluralistico; certezza del diritto; divieto di arbitrarietà del potere esecutivo; tutela giurisdizionale effettiva, compreso l’accesso alla giustizia, da parte di organi giurisdizionali indipendenti e imparziali, anche per quanto riguarda i diritti fondamentali; separazione dei poteri; non-discriminazione e uguaglianza di fronte alla legge. Lo Stato di diritto è da intendersi alla luce degli altri valori e principi dell’Unione sanciti nell’articolo 2 TUE”.
Ai fini dello stesso Regolamento (art. 3) “possono essere indicativi di violazioni dei principi dello Stato di diritto: a) le minacce all'indipendenza della magistratura; b) l'omessa prevenzione, rettifica o sanzione delle decisioni arbitrarie o illegittime assunte da autorità pubbliche, incluse le autorità di contrasto, la mancata assegnazione di risorse finanziarie e umane a scapito del loro corretto funzionamento o il fatto di non garantire l'assenza di conflitti di interesse; c) la limitazione della disponibilità e dell'efficacia dei mezzi di ricorso, per esempio attraverso norme procedurali restrittive e la mancata esecuzione delle sentenze o la limitazione dell'efficacia delle indagini, delle azioni penali o delle sanzioni per violazioni del diritto”. Il successivo art. 4 specifica poi le condizioni per l’adozione delle misure sanzionatorie per la violazione dello Stato di diritto.
E la fondamentale importanza dei principi dello Stato di diritto nel quadro dell’Unione europea, è ribadita nei Considerando del citato Regolamento, ove si riprendono le affermazioni già riportate della sentenza Achmea della Corte di giustizia, aggiungendo che le leggi e le prassi degli Stati membri dovrebbero continuare a rispettare i valori comuni sui quali l'Unione si fonda e che “Sebbene non esista una gerarchia tra i valori dell'Unione, il rispetto dello Stato di diritto è essenziale per la tutela degli altri valori fondamentali su cui si fonda l'Unione, quali la libertà, la democrazia, l'uguaglianza e il rispetto dei diritti umani. Il rispetto dello Stato di diritto è intrinsecamente connesso al rispetto della democrazia e dei diritti fondamentali. L'uno non può esistere senza gli altri, e viceversa”.
Alla luce di tali affermazioni sarebbe difficile credere che una efficace protezione delle regole dello Stato di diritto, nell’ambito dell’Unione e degli Stati membri, sia finalizzata ai soli rapporti finanziari tra l’una e gli altri, di cui il citato Regolamento si occupa.
5. L’accesso al giudice e l’indipendenza dei giudici nella applicazione della legge sono elemento fondamentale dello Stato di diritto. Essi sono strumentali rispetto alla garanzia dei diritti e della libertà fondamentali.
La Corte di giustizia dell’Unione ha elaborato importanti principi che sottolineano l’importanza della indipendenza dei giudici e dell’efficacia dei ricorsi giudiziari nel quadro dello Stato di diritto che deve essere proprio degli Stati membri dell’Unione. E gli Stati membri sono obbligati a stabilire i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione (art. 19/1 TUE), anche in adesione ai principi e valori espressi all’art. 2 TUE. “Le garanzie di indipendenza e di imparzialità presuppongono l’esistenza di regole, relative in particolare alla composizione dell’organo, alla nomina, alla durata delle funzioni nonché alle cause di astensione, di ricusazione e di revoca dei suoi membri, che consentano di fugare qualsiasi legittimo dubbio che i singoli possano nutrire in merito all’impermeabilità di detto organo rispetto a elementi esterni e alla sua neutralità rispetto agli interessi contrapposti” [8].
E nei Considerando del citato Regolamento si legge che l’indipendenza dei giudici “presuppone in particolare che, sia a norma delle disposizioni pertinenti quanto nella pratica, l'organo giurisdizionale interessato possa svolgere le sue funzioni giurisdizionali in piena autonomia, senza vincoli gerarchici o di subordinazione nei confronti di alcun altro organo e senza ricevere ordini o istruzioni da alcuna fonte, restando pertanto al riparo da interventi o pressioni dall'esterno tali da compromettere l'indipendenza di giudizio dei suoi membri e da influenzare le loro decisioni. Le garanzie di indipendenza e di imparzialità richiedono l'esistenza di disposizioni, specialmente per quanto riguarda la composizione dell'organo nonché la nomina, la durata delle funzioni, le cause di ricusazione e revoca dei suoi membri, che consentano di fugare qualsiasi legittimo dubbio che i singoli possano nutrire in merito all'impermeabilità di detto organo rispetto a elementi esterni e alla sua neutralità rispetto agli interessi contrapposti”.
Da parte sua la Corte europea dei diritti umani ha più volte affermato che la indipendenza del giudice di cui all’art. 6 della Convenzione dipende dal modo di designazione e la durata del mandato, l’esistenza di protezioni contro pressioni esterne ed anche l’apparenza di indipendenza[9].
Si può allora concludere che, con specificazioni e integrazioni, tutte le fonti indicano come cuore dello Stato di diritto, la indipendenza dei giudici, essenziale in funzione della garanzia dei diritti. Cioè quanto proclamava già la francese Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino.
6. Da tempo i principi dello Stato di diritto e il rispetto dei diritti e libertà fondamentali propri delle democrazie sono contestati e negati in alcuni Stati membri, con atti e dichiarazioni/rivendicazioni politiche (gravi, anche se si sa che ampie sono le aree di opinione pubblica dissenzienti, europeiste, democratiche). Se il primo ministro ungherese ha qualificato il suo sistema come quello di una “democrazia illiberale”, altrove fatti concludenti hanno indicato che la “democrazia” viene intesa solamente come il regime che si fonda sulle elezioni e sul potere della maggioranza. Ciò che, come emerge dalle pur non strettamente definite nozioni di Stato di diritto, ne mostra il contrasto e l’incompatibilità. Della maggioranza e del suo potere, infatti, si apprezza certo il valore, ma anche se ne teme la forza, quando sia intollerante e irrispettosa “dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze” (art. 2 TUE). La gravità della situazione, per la coesione dell’Unione e per la stessa sua ragion d’essere come qualcosa di più e meglio del solo Mercato Comune, deriva inoltre dalla messa in discussione dei principi dello Stato di diritto e, ancor più, della “pretesa” delle istituzioni dell’Unione di sindacarne le manifestazioni nei singoli Stati membri: messa in discussione che non appare soltanto in atti di governo e dichiarazioni formali in alcuni Stati membri, ma in misura più o meno larga è condivisa da parti delle opinioni pubbliche in molti o in tutti gli Stati membri. Base ideologica ne è il c.d. sovranismo, cioè il nazionalismo risorgente, nelle sue varie manifestazioni, anche di nazionalismo giudiziario o legale che vuol trovare fondamento nel rispetto della “identità nazionale” degli Stati membri (art. 4/2 TUE) e che finisce con il contraddire il progetto di “creazione di una unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa” (art. 1 TUE). Segno inequivoco della deriva contraria allo Stato di diritto è il contrasto e l’indebolimento dei contro-poteri, sia esso il potere giudiziario, sia la libertà e pluralismo della stampa.
7. L’Unione mostra difficoltà per ora insuperabili a contrastare la deriva in atto contro le esigenze proprie dello Stato di diritto. Per lungo tempo gli organi dell’Unione ha scelto la via dialogante con le autorità di alcuni Stati, in particolare di Ungheria e Polonia, con raccomandazioni e richieste di chiarimenti. E solo nel dicembre 2017 la Commissione ha lanciato la procedura dell’art. 7/1 TUE nei confronti della Polonia, invitando il Consiglio a constatare il rischio chiaro di violazione grave dello Stato di diritto. E il Parlamento ha deciso lo stesso passo nei confronti della Ungheria nel settembre 2018. Ma nell’un caso come nell’altro non si è avuta alcuna decisione da parte del Consiglio. Si può aggiungere che sorgono problemi riguardanti lo Stato di diritto anche in altri Stati membri (Bulgaria, Malta, Romania, Slovacchia), anche se forse non così importanti come in Ungheria e Polonia. In ogni caso solo in questi ultimi due Paesi la procedura dell’art. 7 Tue ha preso inizio. In più la Commissione ha investito la Corte di giustizia, la quale ha più volte constato mancanze riguardanti il diritto della Unione. Senza peraltro rilevanti conseguenze.
Lo strumento dell’art. 7 TUE si è dimostrato inefficace. Anche a supporre l’esistenza di una volontà politica da parte degli Stati membri, la condizione di unanimità della decisione ne impedisce l’uso. Polonia e Ungheria infatti hanno espresso il loro reciproco appoggio, così escludendo che il meccanismo possa giungere alla conclusione della sua fase due. Ma almeno la fase uno, che non richiede unanimità, avrebbe potuto essere portata a termine. Ma manca la volontà politica da parte degli Stati membri nel Consiglio europeo e si delinea così un contrasto grave tra le istituzioni dell’Unione. Per uscirne, da tempo si sono sviluppate discussioni e proposte dirette a legare l’erogazione dei fondi dell’Unione agli Stati all’osservanza dei principi fondatori dell’Unione e in particolare dello Stato di diritto. Si tratterebbe di un potente mezzo di pressione, indipendentemente dal meccanismo previsto dall’art. 7 TUE.
8. Recentemente in occasione dell’adozione dell’innovativo strumento del Next Generation EU, il già citato Regolamento n. 2020/2092, che porta nel titolo la menzione della introduzione di un regime generale di condizionalità per la protezione del bilancio dell’Unione, ha introdotto la possibilità di restrizioni in ordine alla erogazione dei finanziamenti da parte dell’Unione. Esse sono considerate qualora siano accertate violazioni dei principi dello Stato di diritto in uno Stato membro, che compromettono o rischiano seriamente di compromettere in modo sufficientemente diretto la sana gestione finanziaria del bilancio dell'Unione o la tutela degli interessi finanziari dell'Unione. Tra gli indici della violazione dei principi dello Stato di diritto è indicata la carenza di un effettivo controllo giurisdizionale, da parte di organi giurisdizionali indipendenti, nonché le azioni od omissioni compiute dalle autorità competenti per l’esecuzione del bilancio dell’Unione e per la prevenzione e repressione delle frodi.
Il Regolamento n. 2020/2092 al suo articolo 6, definisce la procedura di accertamento delle violazioni che giustificano le misure. Responsabile di tale procedura è la Commissione in vista della decisione da parte del Consiglio europeo a maggioranza qualificata.
Come è noto la reazione dei governi polacco e ungherese alla approvazione del Regolamento da parte del Parlamento è stata la minaccia di veto alla approvazione da parte del Consiglio europeo del Regolamento stesso e del bilancio pluriennale dell’Unione.
Sotto la guida della presidenza tedesca, il Consiglio europeo il 10-11 dicembre 2020 ha adottato un testo di Conclusioni che ha convinto quei governi a rinunciare alla loro opposizione.
Di che si tratta? Come sono stati rassicurati quei governi che sono oggetto di ricorsi davanti alla Corte europea dei diritti umani e di procedure alla Corte di giustizia della Unione? Quale la “soluzione” trovata? Essa si traduce in sintesi in un rinvio nel tempo dell’operatività del meccanismo di condizionalità, in una restrizione dell’area di rilevanza dei principi dello Stato di diritto e in un restringimento dei casi in cui la loro violazione può implicare conseguenze.
Rispetto al testo inizialmente approvato dal Parlamento, le Conclusioni del Consiglio europeo sono intervenute aggiungendo e modificando: aggiungono l’intenzione attribuita alla Commissione di adottare linee guida sulle modalità con cui applicherà il regolamento, compresa una metodologia per effettuare la propria valutazione. Tali linee guida saranno elaborate in stretta consultazione con gli Stati membri. Viene previsto un ruolo della Corte di giustizia: qualora venga introdotto un ricorso per l’annullamento del Regolamento, le linee guida saranno messe a punto successivamente alla sentenza della Corte di giustizia, in modo da incorporarvi eventuali elementi pertinenti derivanti dalla sentenza. Viene precisato che le misure a norma del meccanismo dovranno essere proporzionate all'impatto delle violazioni dello Stato di diritto sulla sana gestione finanziaria del bilancio dell'Unione o sugli interessi finanziari dell'Unione; il nesso di causalità tra tali violazioni e le conseguenze negative per gli interessi finanziari dell'Unione dovrà essere sufficientemente diretto e debitamente accertato. E viene espressamente dichiarato che la semplice constatazione di una violazione dello Stato di diritto non è sufficiente ad attivare il meccanismo: il Regolamento non riguarda carenze generalizzate.
È dunque ben chiarito che le uniche violazioni dello Stato di diritto capaci di produrre conseguenze quanto ai finanziamenti dell’Unione agli Stati membri saranno quelle che direttamente incidono sugli interessi finanziari dell’Unione. Fuori di essi, anche se assumessero carattere generalizzato, il nuovo meccanismo non opererebbe. Gli effetti delle conclusioni del Consiglio sui tempi (che potenzialmente si allungano di molto), modi e limiti del nuovo meccanismo, hanno convinto i governi polacco e ungherese a superare le loro preoccupazioni in ordine alla reazione che l’Unione avrebbe potuto avere nei confronti dei tratti di “democrazia illiberale” che ne caratterizzano la recente legislazione.
L’intervento del Consiglio europeo ha trovato negativa reazione da parte del Parlamento, che con una Risoluzione del 25 marzo 2021 ha richiamato e sollecitato la Commissione ad esercitare tutti i suoi poteri per il caso di violazione dei principi dello Stato di diritto e ha preannunciato il proprio intervento avanti la Corte di giustizia nelle cause C-156/21 e C-157/21 relative ai ricorsi contro il Regolamento nel frattempo introdotti da Ungheria e Polonia. Nel meccanismo, fino alla decisione della Corte di giustizia, la Commissione non può approvare le sue linee guida e quindi la procedura di eventuali sanzioni resta bloccata. Il Parlamento chiede alla Corte la procedura accelerata.
Nei loro ricorsi Ungheria e Polonia contestano la competenza degli organi dell’Unione rispetto ai Trattati per la introduzione del meccanismo di condizionalità legato allo Stato di diritto. L’insidiosità di tale motivo di ricorso deriva da quanto ora si dirà.
9. In una procedura nei confronti della Polonia riguardanti modifiche alle norme di ordinamento giudiziario capaci di incidere sulla indipendenza dei giudici[10], a fronte della contestazione della sua competenza da parte del governo polacco convenuto, la Corte di giustizia ha ritenuto la propria competenza, poiché “sebbene l’organizzazione della giustizia negli Stati membri rientri nella competenza di questi ultimi, ciò non toglie che, nell’esercizio di tale competenza, gli Stati membri siano tenuti a rispettare gli obblighi per essi derivanti dal diritto dell’Unione e, in particolare, dall’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE”. I giudici nazionali applicano il diritto dell’Unione e pertanto “la Corte ha dichiarato che il requisito di indipendenza dei giudici impone, in particolare, che le regole relative al regime disciplinare di coloro che svolgono una funzione giurisdizionale offrano le garanzie necessarie per evitare qualsiasi rischio di utilizzo di un regime siffatto come sistema di controllo politico del contenuto delle decisioni giudiziarie…”.
La decisione della Corte di giustizia è di particolare rilevanza, poiché attraverso l’affermazione della propria competenza in materia di organizzazione della magistratura negli Stati membri, afferma corrispondentemente che tale materia rientra nell’ambito delle competenze dell’Unione. Essa è conforme alla giurisprudenza della Corte, come già ricordata. La si cita ora perché espressa in controversie relative alla Polonia, che ora sulla incompetenza fonda il suo ricorso relativo al Regolamento 2092/2020.
La determinazione dell’area delle competenze trasferite dagli Stati membri all’Unione è stata oggetto recentemente di una rilevante vicenda giurisprudenziale. Il riferimento è alla sentenza della Corte costituzionale tedesca[11] del 5 maggio 2020, che ha affermato che le attività della Banca Centrale Europea oggetto dei ricorsi eccedevano le competenze dell’Unione, non ostante la contraria affermazione della Corte di giustizia[12], richiesta di esprimersi sul punto da ricorsi pregiudiziali proposti dalla stessa Corte nazionale.
La Corte costituzionale tedesca ha ritenuto che il controllo eseguito dalla Corte di giustizia sulla attività della BCE non fosse stato adeguato; che la Corte di giustizia avesse agito ultra vires oltre le competenze attribuite dai Trattati; che la decisione della Corte di giustizia fosse incomprensibile e arbitraria e quindi non vincolante.
Non è qui il luogo per sviluppare il rilievo della estrema gravità di simile argomentare che si traduce nella contestazione del pilastro della costruzione europea rappresentato dal ruolo assegnato alla Corte di giustizia dagli articoli 19/1 TUE e 267 TFUE nell’assicurare uniformità e coerenza della normativa dell’Unione. Ciò che però qui rileva è la suscettibilità della posizione della Corte costituzionale tedesca a divenire esempio, che potrebbe essere seguito da Corti o governi in ordine alla valutazione in sede nazionale di ciò che rientra o ciò che fuoriesce dalle competenze che gli Stati membri hanno trasferito all’Unione, anche in difformità dal giudizio della Corte di giustizia.
Come si è detto sopra, in una causa riguardante la indipendenza dei giudici -elemento costitutivo dello Stato di diritto- la Polonia ha negato che il tema rientrasse tra le competenze dell’Unione e della Corte di giustizia. La Corte ha affermato il contrario.
Commentando la sentenza della Corte costituzionale tedesca i due viceministri della giustizia polacchi ne hanno preso atto con soddisfazione, poiché da essa si trae conferma che ove gli organi dell’Unione oltrepassino i confini delle loro attribuzioni intervengono gli organi costituzionali nazionali[13]. Analogamente si sono pronunciati esponenti governativi ungheresi. E ora la incompetenza dell’Unione rispetto alla introduzione del meccanismo della condizionalità con il Regolamento n. 2020/2092 è eccepita da Ungheria e Polonia: adesso davanti alla Corte e poi, dopo la sentenza della Corte, con il rifiuto di darvi riconoscimento?
I principi dello Stato di diritto, invece che terreno e condizione della convivenza e della reciproca fiducia tra gli Stati membri, stanno diventando materia di scontro e disgregazione.
* Relazione svolta all’incontro di studio della Fondazione Lelio e Lisli Basso Dalla Carta dei diritti fondamentali alla riforma democratica e sociale dell’Unione Europea, 20 aprile 2021.
[1] V. Preambolo del Trattato di Maastricht (1992) e poi Preambolo e artt. 2 e 7 TUE come derivanti dal Trattato di Lisbona (2007).
[2] Corte di Giustizia, Repubblica Slovacca c. Achmea (C-284/, 16 marzo 2018).
[3] Così definiti i Trattati dalla Corte di giustizia in Parti écologiste Les Verts c. Parlamento europeo (294/83, 23 aprile 1986).
[4] Anche con la istituzione di un organismo consultivo come l’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali (Regolamento del Consiglio (CE) 168/2007 del 15 febbraio 2007).
[5] Consiglio europeo 13 luglio 2020, che stabilisce le priorità per il periodo 2020-2022.
[6] Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto.
[7] Stafford c. Regno Unito, 28 maggio 2002, § 78; Kleyn c. Paesi Bassi, 6 maggio 2003, § 193; Sacilor Lormines c. Francia, 9 novembre 2006, § 59.
[8] Si fa rinvio, anche per la giurisprudenza precedente, a Corte di giustizia, Repubblika (C-896/19, 20 aprile 2021) che ha considerato sia l’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, sia l’art. 19/1 TUE.
[9] Luka c. Romania, 21 luglio 2009 e recentemente, in particolare per il requisito della previsione per legge, Gudmundur Andri Astradsson c. Islanda, 1° dicembre 2020.
[10] Nell’ordinanza 8 aprile 2020 resa nella causa C‑791/19 R, avente ad oggetto la domanda di provvedimenti provvisori ai sensi dell’articolo 279 TFUE e dell’articolo 160/2, del regolamento di procedura della Corte, §§ 29-36. Successivamente v. anche la sentenza nella causa C‑824/18 (A. B. e altri c. Krajova Rada Sadownictwa) del 2 marzo 2021, che ha tra l’altro affermato che il primato del diritto dell’Unione dev’essere interpretato nel senso che esso impone al giudice del rinvio di disapplicare le modifiche di cui trattasi, siano esse di origine legislativa o costituzionale, e di continuare, di conseguenza, ad esercitare la competenza, di cui era titolare, a pronunciarsi sulle controversie di cui era investito prima dell’intervento di tali modifiche. V. anche C-585/18 (A.K. c. Krajova Rada Sadownictwa) del 19 novembre 2019 e, da ultimo, relativamente alla Romania C‑83/19, C‑127/19, C‑195/19, C‑291/19, C‑355/19 e C‑397/19 (Asociaţia Forumul Judecătorilor din România e altri c. Inspecţia Judiciară e altri) del 18 maggio 2021.
[11] Corte costituzionale federale tedesca, Secondo Senato, sentenza del 5 maggio 2020, 2 BvR 859/15, 2 BvR 1651/15, 2 BvR 2006/15, 2 BvR 980/16, espressione di una giurisprudenza inaugurata con la sentenza Maastricht del 1993.
[12] Corte giust. 16 giugno 2015, causa C-62/14, Gauweiler; Corte giust. 11 dicembre 2018, causa C-493/17, Heinrich Weiss.
[13] Varsavia, 6 maggio 2020 09:31 - (Agenzia Nova) - Laddove gli organi dell'Unione europea oltrepassano le loro attribuzioni, là intervengono gli organi costituzionali nazionali e le sentenze della Corte di Giustizia Ue perdono la loro legittimazione democratica. È quanto ha detto il viceministro della Giustizia polacco, Marcin Warchol, commentando la sentenza della Corte costituzionale tedesca sull'acquisto di titoli di Stato da parte della Banca centrale europea (Bce). "È una dimostrazione per tutti coloro che ci intimano di inginocchiarci davanti alle sentenze della Corte di giustizia dell'Ue. Diciamo chiaramente che l'identità costituzionale di ciascuno degli Stati membri è garantita, anche nei trattati", ha affermato Warchol. "La Germania difende la propria sovranità. La Corte costituzionale tedesca ha detto che l'Ue può tanto quanto i paesi membri le concedono", ha detto l'altro viceministro della Giustizia, Sebastian Kaleta.
Dalla Commissione è stato emesso il seguente commento: “In linea generale, si ricorda che, in base a una giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia, una sentenza pronunciata in via pregiudiziale da questa Corte vincola il giudice nazionale per la soluzione della controversia dinanzi ad esso pendente. Per garantire un’applicazione uniforme del diritto dell’Unione, solo la Corte di giustizia, istituita a tal fine dagli Stati membri, è competente a constatare che un atto di un’istituzione dell’Unione è contrario al diritto dell’Unione. Eventuali divergenze tra i giudici degli Stati membri in merito alla validità di atti del genere potrebbero compromettere infatti l’unità dell’ordinamento giuridico dell’Unione e pregiudicare la certezza del diritto. Al pari di altre autorità degli Stati membri, i giudici nazionali sono obbligati a garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione. Solo in questo modo può essere garantita l’uguaglianza degli Stati membri nell’Unione da essi creata”.
Polonia e Ungheria (e anche la Repubblica Ceca) hanno in passato protestato nei procedimenti di infrazione promossi dalla Commissione, affermando di non essere tenuti ad ottemperare alle decisioni di ricollocazione di richiedenti asilo o protezione internazionale.
Giustizia e comunicazione. 1)
Giustizia insieme comincia oggi il suo viaggio su
Giustizia e comunicazione anticipato dall'editoriale pubblicato il 18 maggio 2021.
Il linguaggio giudiziario e la comunicazione istituzionale. Questo il tema che
Gianni Canzio, Primo Presidente emerito della Corte di Cassazione, ha
affrontato, concludendo le sue raffinate ed al tempo stesso potenti considerazioni
con una "proposta" sulla giustizia che si apre al dibattito ed al
confronto, interno alle magistrature e soprattutto esterno, coinvolgendo
"il ceto dei giuristi e i protagonisti del processo". Di tutto questo
gli siamo davvero grati.
Il linguaggio giudiziario e la comunicazione istituzionale
di Giovanni Canzio
Sommario: 1. Una premessa - 2. Le forme del linguaggio giudiziario - 3. Sintesi, chiarezza e precisione - 4. La comunicazione istituzionale - 5. Una proposta.
1. Una premessa
Si assiste spesso a rumorose proteste, suscitate nell’animo delle persone offese e di gran parte della collettività dalla frattura fra l’esito decisorio di un processo e le aspettative, di tipo indennitario o securitario, che si ritengono insoddisfatte. E ciò a prescindere da ogni valutazione di merito circa la correttezza, o non, della soluzione adottata dal giudice. L’ “impopolarità” della deliberazione mette in forse la credibilità e l’autorevolezza della giurisdizione, insieme con la razionalità delle garanzie del “giusto processo”, quanto alla raccolta delle prove nel contraddittorio fra le parti e alle regole logico-giuridiche che presidiano l’operazione valutativa e decisoria e pretendono la giustificazione delle ragioni del provvedimento, a sua volta soggetto al controllo impugnatorio.
Come, quando e perché cresce il disorientamento delle vittime e dell’opinione pubblica? La risposta, nella sua ben nota e pacifica evidenza, resta drammaticamente inquietante perché investe le modalità di esercizio dell’attività giudiziaria e la deontologia dei magistrati. Il disorientamento, e con esso il moto di ribellione, nasce dalla discrasia fra l’ipotesi di ricostruzione dei fatti formulata dal pubblico ministero nelle indagini preliminari e il pre-giudizio di colpevolezza da subito instaurato attraverso i media, al di fuori quindi del contesto spazio-temporale del processo vero e proprio, da un lato, e le risultanze probatorie della verifica dibattimentale, nel giudizio reale, che inducono in non pochi casi alla falsificazione dell’enunciato di accusa, dall’altro. La decisione, infatti, talora smentisce la fondatezza dell’imputazione e però spesso segue a distanza di tempo, di troppo lungo tempo dalle indagini, già di per sé lunghe.
È in questa drammatica forbice che s’annida il nucleo del conflitto fra la giustizia “attesa” e il “diritto” applicato. Se poi – come in non rari casi avviene – l’ufficio del pubblico ministero, nella fase dell’inchiesta e al fine di rafforzarne l’attendibilità, intreccia un dialogo diretto con i media, pretendendo di anticipare le cadenze del rito e quasi di ipotecarne l’esito decisorio in palese violazione della presunzione d’innocenza dell’imputato, la morsa della contraddizione spazio-temporale fra il processo mediatico e quello penale è drammaticamente destinata ancor più ad allargarsi.
È infatti agevole constatare che l’inchiesta, in assenza di pregnanti controlli del giudice per le indagini preliminari, è divenuta l’effettivo baricentro del rito. Da essa sorge - anche per il ricorrente intreccio di relazioni fra uffici di Procura, organi di stampa e media - il rafforzarsi nella collettività del pregiudizio di colpevolezza dell’indagato, il quale viene immediatamente e inesorabilmente colpito dalla “gogna mediatica”. Nello stesso tempo, si assiste al prevalere di logiche autoreferenziali e corporative, opposte alla linea costituzionale dell’attrazione ordinamentale della figura del pubblico ministero nel sistema e nella cultura della giurisdizione.
D’altra parte, è innegabile, nel rapporto fra il tempo e la giurisdizione, lo scarto di paradigma rispetto al comune agire quotidiano. Questo appare orientato intorno al “presente continuo”[1], al contingente essere e vivere “qui e ora”, “adesso”. L’attività giudiziaria non può, viceversa, essere condizionata da frammentarie emergenze che alimentino l’ansia di deliberare comunque e in fretta, negando il tempo e lo spazio al ragionamento e alla riflessione critica. Dal pensiero “corto” alla sentenza “tweet” o al verdetto immotivato il passo sarebbe breve, ma verrebbero messi in discussione i valori della esclusiva soggezione del giudice alla legge e alla ragione e sarebbe tradita la cultura della giurisdizione.
2. Le forme del linguaggio giudiziario
È fortemente avvertita l’esigenza di un serio cambio di passo nella razionalizzazione delle forme del linguaggio dei provvedimenti giudiziari, nella consapevolezza che i criteri della trasparenza e della comprensibilità hanno ormai assunto la veste di parametri di qualità e di efficacia dell’amministrazione della giustizia.
Per un verso, ogni provvedimento giudiziario, a ben vedere, si risolve in un «agire comunicativo» del suo autore, essendo diretto, attraverso il tessuto argomentativo della motivazione, a con-vincere il dubbio e persuadere le parti, i difensori e la comunità delle valide ragioni che lo sostengono. Un agire, dunque, tendenzialmente orientato verso un “orizzonte di intesa”, secondo i principi dell’etica del discorso argomentativo (J. HABERMAS) e in funzione del consolidamento della fiducia dei cittadini nella giustizia, della legittimazione democratica e dell’indipendenza della magistratura, dello Stato di diritto.
Per altro verso, il linguaggio giudiziario è una sorta di metalinguaggio, che, nel decifrare e ricostruire nel presente la complessità e l’opacità di fatti e circostanze appartenenti al passato (lost facts), ha il compito di decodificarne il significante attribuendo ad esso il significato e la qualificazione di rilevanza secondo il diritto[2].
La potenza descrittiva ed evocativa della parola esige dunque nel giusdicente il buon uso della parola stessa, secondo una specifica professionalità e una peculiare formazione nelle tecniche della scrittura argomentativa (legal writing). Ne consegue che il magistrato, per potere correttamente valutare i fatti e interpretare il diritto, debba essere un uomo di cultura a tutto tondo, non solo giuridica ma anche umanistica e scientifica: un decisore di qualità, libero da vincoli e condizionamenti che non siano la legge, la ragione e l’etica del limite. Non va dimenticato che la “giustizia” ha una dimensione relazionale perché presuppone il compimento di atti di “ingiustizia”, i quali, prima ancora di essere repressi, esigono di essere conosciuti, descritti, comunicati, cioè “narrati”. Sicché, ciò che chiamiamo il senso della giustizia e la cultura della giurisdizione si realizzano anche attraverso l’esplorazione della giustizia nella letteratura, attingendo al bacino di esperienze che, nate dal movimento accademico delle Law Schools americane intitolato Law and Literature, presentano oggi una dimensione sovranazionale. Il confronto con le strutture linguistiche e con la forma retorica ed ermeneutica del testo letterario migliora la capacità espositiva e la crescita etica della persona, agevolando l’acquisizione da parte del giurista di una nuova e più concreta prospettiva della componente umana del diritto all’interno della società[3].
3. Sintesi, chiarezza e precisione
Un modello virtuoso di esposizione delle ragioni del provvedimento giudiziario, che nell’espressione lessicale, grammaticale e sintattica ne renda comprensibile il fondamento, deve ispirarsi ai canoni della sintesi, chiarezza, specificità e precisione nello sviluppo degli argomenti, dettati da varie prescrizioni e raccomandazioni, interne e sovranazionali, sia di soft law che di hard law.
È sufficiente citare: la Magna Carta dei giudici europei del 17/11/2010 (par. 16) e la Raccomandazione 12/2010 del 17/11/2010 Com. Min. CE (par. 63), per cui la motivazione dei provvedimenti va redatta in un «linguaggio semplice, chiaro e comprensibile»; le delibere del CSM del 5/7/2017 e del 20/6/2018 sulle modalità stilistiche di redazione dei provvedimenti; i decreti del primo Presidente della Corte di cassazione n. 84 e n. 136/2016, sulla motivazione semplificata o sintetica dei provvedimenti; i Protocolli d’intesa fra la Corte di cassazione, il CSM e il CNF, in merito alle regole redazionali degli atti, ispirate a criteri di chiarezza, sinteticità e comprensibilità.
Il codice del processo amministrativo, art. 3 comma 2, stabilisce a sua volta che «Il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica» e, secondo la Corte di cassazione[4], i doveri di specificità, chiarezza e sinteticità degli atti costituiscono «un principio generale del diritto processuale».
Possono costituire utili fonti d’ispirazione per l’agire comunicativo del giudice le raccomandazioni per «scrivere bene» suggerite da Italo CALVINO nelle sue “Lezioni americane”[5]:
a) la leggerezza («pensosa») dei concetti, nel senso della sottrazione di peso alla struttura del racconto, così da dissolvere l’opacità e la complessità dei fatti dell’esistenza, attraverso informazioni che li rendano comprensibili, grazie a un tessuto verbale leggero nello stile, nitido, non ridondante, e che evitino, negli stretti limiti dello specialismo necessario, le formule curiali della “antilingua”;
b) la rapidità[6], nel senso della agilità, focalità e velocità mentale del ragionamento, connotato da concentrazione, sobrietà, economicità ed essenzialità degli argomenti messi a fuoco, ariosità delle cadenze sintattiche e brevità del periodare per coordinate e non per subordinate, senza congestioni e mediante aggiustamenti progressivi;
c) l’esattezza, in funzione di un disegno dell’opera ben definito e calcolato, incisivo, esemplare per precisione, determinatezza, misura, realizzato sulla base di un ordine geometrico degli argomenti, idoneo a creare una rete di connessione fra la materialità dei fatti e le valutazioni giudiziali, con riguardo ai singoli capi e punti e alle evidenze probatorie e secondo titoli logici di verosimiglianza e probabilità.
Nell’ottica di tali raccomandazioni, si riconosce che, solo attraverso la loro composizione ordinata e geometrizzante, la forza evocativa e conoscitiva delle parole diventa efficace per la resa del pensiero e dello sviluppo argomentativo della motivazione. Ancora: solo una motivazione rigorosamente costruita con riguardo alla tenuta informativa e logica della decisione può costituire l’effettivo paradigma devolutivo sul quale si posizionano la facoltà di impugnazione delle parti e i poteri di cognizione di quel giudice.
Va sottolineata la portata del principio di diritto circa il requisito minimo di specificità dell’impugnazione, formulato dalla Corte di cassazione, sia civile che penale, in termini di responsabilizzazione di tutti i protagonisti del processo (giudici, parti, difensori). Si avverte[7] che «tale onere di specificità, a carico dell'impugnante, è direttamente proporzionale alla specificità con cui le predette ragioni sono state esposte nel provvedimento impugnato». Si pretende cioè che ciascuno esponga con un linguaggio chiaro e preciso gli specifici argomenti – «le ragioni di fatto e di diritto» - a sostegno, prima, della decisione e, poi, del gravame avverso la stessa.
4. La comunicazione istituzionale
La motivazione scritta del provvedimento giudiziario resta lo strumento primario di comunicazione all’esterno dell’azione dei magistrati (art. 111, comma 6, Cost.). E però, si va facendo strada la consapevolezza che sia necessario arricchirne le prestazioni superando le frammentarie esperienze del passato. Si ammette che, nei rapporti con i media, gli utenti e la collettività, la comunicazione istituzionale debba essere corretta, trasparente, tempestiva ed efficace, secondo precise regole metodologiche e di condotta.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, di recente, ha dato un esempio di come un intervento immediato, fuori dal normale dialogo processuale, possa essere utile a ripristinarne il circuito virtuoso. Con il comunicato stampa n. 58/20, diffuso a seguito della sentenza della Corte costituzionale tedesca del 5 maggio 2020, vertente sul programma PSPP della Banca Centrale Europea (BCE), la Corte di Lussemburgo richiama i compiti istituzionali della stessa Corte e dei giudici nazionali[8].
Le più recenti riflessioni in materia incoraggiano lo sviluppo di un approccio innanzitutto proattivo, rispetto sia a specifici casi che al funzionamento dell’intero sistema di giustizia, così da rendere comprensibili all’esterno il ruolo e l’attività della giurisdizione, le ragioni del suo agire, gli obiettivi, le priorità. Complementare è la comunicazione reattiva, finalizzata a contrastare informazioni errate, false o distorte, che recano pregiudizio alle indagini, ai diritti delle persone coinvolte o all’immagine di imparzialità del magistrato o dell’ufficio.
Nel quadro di precise indicazioni sovranazionali, dirette ad assicurare che i media abbiano un corretto accesso alle informazioni sull’azione dei pubblici ministeri e dei giudici, secondo modelli e prassi tendenzialmente uniformi, l’elaborazione di principio è assai articolata tra i vari ordinamenti nazionali a livello europeo, pur potendosi individuare una base condivisa di soft law[9].
Da ultimo, l’ENCJ (European Network of Councils for the Judiciary), nel rapporto “Public Confidence and the Image of Justice - Report 2017-2018”, discusso a Lisbona il 1° giugno 2018, nella prospettiva della comunicazione in ambito giudiziario suggerisce l’adozione di piani d’azione nazionali, verifiche periodiche del livello di fiducia del pubblico, la formazione professionale specifica (per capi degli uffici, giudici, procuratori, personale amministrativo), l’elaborazione di linee-guida sui rapporti tra il giudiziario e i media. In particolare, raccomanda la nomina come “spokeperson” di giudici o procuratori e l’istituzione di uno “specialised department” che impieghi professionisti nella comunicazione sotto la direzione del “press judge/prosecutor”.
Anche il CSM italiano è intervenuto per tracciare le linee d’indirizzo in questo settore nevralgico, nella convinzione che i valori di trasparenza e comprensibilità della giurisdizione, correttamente interpretati secondo una moderna visione della responsabilità, aumentano la fiducia dei cittadini nella giustizia e nello Stato di diritto, rafforzano l’indipendenza della magistratura e, più in generale, l’autorevolezza delle istituzioni. Con la delibera dell’11 luglio 2018, recante “Linee guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale”, il CSM mira ad implementare l’efficacia della performance comunicativa degli uffici giudiziari, in termini di oggettività, chiarezza, comprensibilità e tempestività[10].
La parte generale della delibera, che muove dai profili organizzativi, si articola a sua volta in sezioni dedicate alle procedure, ai contenuti, agli schemi d’azione e alle tecniche del linguaggio. Fra le cadenze della procedura assume un inedito rilievo la predisposizione da parte dell’organo decidente della notizia di decisione o abstract, contestuale o immediatamente successivo alla deliberazione, consistente nell’illustrazione sintetica, semplice e chiara della decisione e delle ragioni della stessa. Con speciale riguardo al processo penale, tale misura potrebbe essere idonea a ridimensionare la distanza temporale, talora eccessiva, fra la lettura del dispositivo e la pubblicazione della sentenza. L’abstract sembra muoversi nella direzione di limitare gli effetti perversi della deriva del processo mediatico, contribuendo a restringere la forbice fra quel rito (e la “gogna” che ne consegue) e il contesto spazio-temporale del giusto processo.
Nella cornice generale dei principi, diritti e doveri si avverte che la comunicazione deve essere obiettiva, sia che provenga da tribunali o corti sia che provenga da uffici di procura, poiché anche la presentazione dell’enunciato di accusa, non meno di una decisione giurisdizionale, dev’essere imparziale, equilibrata e misurata. Vanno perciò evitati alcuni atteggiamenti spesso riscontrabili nella prassi: la discriminazione tra giornalisti o testate; la costituzione e il mantenimento di canali informativi privilegiati con esponenti
dei media; la personalizzazione delle informazioni; l’espressione di opinioni personali e giudizi di valore su persone o eventi.
La comunicazione deve ispirarsi nella tecnica espositiva a criteri di chiarezza, sinteticità e tempestività e deve avere ad oggetto informazioni di effettivo interesse pubblico. Il catalogo dei doveri elenca, a sua volta: i doveri nei confronti delle persone, fra i quali il rispetto della vita privata, della sicurezza e della dignità dell’imputato e dei suoi familiari, dei testimoni, dei terzi, della vittima e delle persone vulnerabili; i doveri di matrice processuale, fra i quali il rispetto del giusto processo, delle garanzie della difesa e della presunzione di non colpevolezza, la chiarezza nella distinzione di ruoli tra magistratura requirente e giudicante, l’ossequio alla centralità del giudicato, il diritto dell’imputato e delle altre parti di non apprendere dai media quanto dovrebbe essere loro comunicato in via formale, il dovere del pubblico ministero di rispettare le decisioni giudiziarie, contrastandole nelle sedi processuali proprie.
Con particolare riguardo alla presunzione di non colpevolezza, il Parlamento, con la recentissima approvazione del disegno di legge di delegazione europea, ha infine recepito la direttiva UE 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali.
Nei Considerando della direttiva, tra l’altro, si afferma che:
“(16) La presunzione di innocenza sarebbe violata se dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche o decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza presentassero l'indagato o imputato come colpevole fino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente provata. Tali dichiarazioni o decisioni giudiziarie non dovrebbero rispecchiare l'idea che una persona sia colpevole (…).
(17) Per «dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche» dovrebbe intendersi qualsiasi dichiarazione riconducibile a un reato e proveniente da un'autorità coinvolta nel procedimento penale che ha ad oggetto tale reato, quali le autorità giudiziarie, di polizia e altre autorità preposte all'applicazione della legge, o da un'altra autorità pubblica, quali ministri e altri funzionari pubblici, fermo restando che ciò lascia impregiudicato il diritto nazionale in materia di immunità.
(18) L'obbligo di non presentare gli indagati o imputati come colpevoli non dovrebbe impedire alle autorità pubbliche di divulgare informazioni sui procedimenti penali, qualora ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all'indagine penale (…). Il ricorso a tali ragioni dovrebbe essere limitato a situazioni in cui ciò sia ragionevole e proporzionato, tenendo conto di tutti gli interessi. In ogni caso, le modalità e il contesto di divulgazione delle informazioni non dovrebbero dare l'impressione della colpevolezza dell'interessato prima che questa sia stata legalmente provata.
(19) Gli Stati membri dovrebbero adottare le misure necessarie per garantire che, nel fornire informazioni ai media, le autorità pubbliche non presentino gli indagati o imputati come colpevoli, fino a quando la loro colpevolezza non sia stata legalmente provata. A tal fine, gli Stati membri dovrebbero informare le autorità pubbliche dell'importanza di rispettare la presunzione di innocenza nel fornire o divulgare informazioni ai media, fatto salvo il diritto nazionale a tutela della libertà di stampa e dei media.
(20) Le autorità competenti dovrebbero astenersi dal presentare gli indagati o imputati come colpevoli, in tribunale o in pubblico, attraverso il ricorso a misure di coercizione fisica, quali manette, gabbie di vetro o di altro tipo e ferri alle gambe (…).”.
La Corte EDU, d’altra parte, ha ripetutamente avvertito che neppure la rilevanza pubblica del caso può azzerare la tutela della vita privata degli individui e che, nell’ipotesi d’illegittima pubblicazione di informazioni, sussiste un dovere dello Stato di adottare misure per prevenirne il rischio e di condurre efficaci investigazioni per rimediare alla violazione di siffatti doveri.
Va tuttavia rimarcato che il modello prefigurato dalla citata delibera del CSM, pure in coerenza con le indicazioni provenienti dagli organismi europei, stenta faticosamente a decollare. Ad esso si frappongono ingiustificate resistenze culturali insieme con obiettive difficoltà pratiche di organizzazione dei servizi. Sicché, in assenza di una seria strategia della comunicazione, è dato purtroppo assistere a frequenti episodi di illegittima diffusione di dati sensibili, lesivi della dignità e riservatezza e della presunzione di innocenza della persona, e di persistente violazione del dovere di garantire la tutela dei diritti dei soggetti coinvolti nel procedimento o dei terzi.
Va infine segnalata - in termini senz’altro positivi - la pregevole delibera sull’uso dei mezzi di comunicazione elettronica e dei social media da parte dei magistrati amministrativi, adottata il 18 marzo 2021 dal Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa, in perfetta coerenza con i codici etici e con le linee di indirizzo dell’ ENCJ, che ne suggeriscono un uso prudente, discreto e sobrio.
5. Una proposta
La magistratura e, più in generale, il ceto dei giuristi e i protagonisti del processo dovrebbero porsi l’obiettivo comune di rovesciare il paradigma concettuale per il quale, nel contrasto fra i tempi lunghi e le soluzioni incerte della giurisdizione e le contrapposte, legittime ansie di legalità dei cittadini e delle vittime, sarebbero le cadenze asfittiche del giudizio a giustificare il privilegio accordato all’ipotesi di accusa e alla gogna mediatica dell’indagato. Sarebbe necessario, viceversa, impegnarsi perché, da un lato, siano adottate adeguate misure legislative e organizzative in funzione della reale efficacia del ‘giusto processo’ vs. il parallelo rito mediatico e, dall’altro, venga promossa la cultura della giurisdizione vs. il populismo giudiziario. Il percorso riformatore si presenta stretto e impervio, ma valori, idee e passione democratica non mancano, né sembra di intravedere all’orizzonte alternative praticabili.
[1] D. RUSHKOFF, Presente continuo. Quando tutto accade ora, Codice Edizioni, 2014.
[2] N. IRTI, Riconoscersi nella parola, Il Mulino, 2020.
[3] G. FORTI, Introduzione a Giustizia e Letteratura I-II-III (a cura di Forti-Mazzucato-Visconti), Vita e Pensiero, 2012-2014-2016.
[4] Sez. un. civ., n. 642/2015 e n. 964/2017; Sez. un. pen., n. 40516/2016 (par. 9).
[5] I. CALVINO, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Einaudi, 1993.
[6] G. GALILEI, in Il Saggiatore: “Il discorrere è come il correre non come il portare. Un caval berbero solo correrà più di cento frisòni”.
[7] In termini, Sez. un. pen., n. 8825/2017. V. anche Sez. un. civ., n. 27199/2017.
[8] CGUE, comunicato stampa n. 58/20: “In linea generale, si ricorda che, in base a una giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia, una sentenza pronunciata in via pregiudiziale vincola il giudice nazionale per la soluzione della controversia dinanzi ad esso pendente e che eventuali divergenze tra i giudici degli Stati membri in merito alla validità di atti del genere potrebbero compromettere l’unità dell’ordinamento giuridico dell’Unione e pregiudicare la certezza del diritto; al pari di altre autorità degli Stati membri, i giudici nazionali sono obbligati a garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione e solo in questo modo può essere garantita l’uguaglianza degli Stati membri nell’Unione da essi creata”.
[9] Raccomandazione Rec (2010)12 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri, adottata il 17 novembre 2010, par. 19; Magna Carta dei giudici europei approvata il 17 novembre 2010 dal Consiglio consultivo dei giudici europei (CCJE), par. 14.
[10] G. CANZIO, Un’efficace strategia comunicativa degli uffici giudiziari vs. il processo mediatico, in Dir. pen. proc., 2018, p. 1537 ss.
Credo quindi sono: rileggere Dio esiste? 9 anni dopo
di Tommaso Manzon
Sommario: 1. Introduzione - 2. Dio esiste? - 3. Due soglie storiche - 4. Küng su Feuerbach - 5. La fine della storia? - 6. Conclusione.
1. Introduzione
Quando mi è stato proposto di contribuire di nuovo a queste pagine (virtuali) con un articolo che in qualche modo, e per quanto modestamente, potesse marcare il passaggio a miglior vita del teologo e filosofo cattolico Hans Küng, le sensazioni che questa commissione suscitarono in me si possono riassumere così: da un lato sorpresa e gratitudine, perché non mi aspettavo assolutamente di essere contattato – e quindi qui voglio cogliere anche l’opportunità per ringraziare Giustizia Insieme per la cortesia e l’interesse dimostratimi – dall’altro lato ho invece subito cominciato a chiedermi quale potesse essere il “taglio” adatto per questo pezzo. A questo proposito, quasi come una captatio benevolentiae, chiarisco subito che non sono né un esperto, né quindi tantomeno un’autorità sul pensiero di Küng e che pertanto non ho nessuna intenzione di esprimermi come tale.
Piuttosto, per citare C. S. Lewis dall’introduzione del suo Reflections on the Psalms, “scrivo come dilettante a un altro dilettante, discutendo delle difficoltà che ho incontrato o delle illuminazioni che ho ricevuto”[1]. Il mio desiderio è quindi quello di scrivervi a partire da un rapporto personale e non specialistico con un autore e i suoi testi, così come lo scrittore britannico fece, in maniera senz’altro più degna, con le composizioni del Salterio. Il mio contributo quindi non vuole essere né un in memoriam, di cui peraltro abbiamo avuto un’abbondanza nelle ultime settimane[2] né in qualche modo un tentativo di ricapitolazione o di inquadramento generale dell’opera del grande pensatore tedesco – compito per il quale non mi sento equipaggiato. Quello che vorrei fare è invece concentrarmi su di un’opera in particolare nella vasta produzione künghiana e con la quale per una serie di motivi intrattengo un legame affettivo particolare – non ultimo per il fatto che la copia in mio possesso del testo in questione mi fu regalata da mio Padre in occasione del natale del 2013, a poco più di un anno di distanza dalla mia conversione e a circa 9 mesi dal mio battesimo. Attraversando in modo sparso e irregolare questo testo – appunto, in base alle luci e alle difficoltà che vi ho trovato – vorrei aprire una finestra su un nesso molto importante della riflessione künghiana e che, ne sono convinto, si colloca al centro del tempo che stiamo vivendo.
2. Dio esiste?
Il libro a cui voglio fare riferimento s’intitola nella traduzione italiana Dio esiste? e già da questo si può facilmente comprendere quale sia il suo tema. In linea con lo stile di Küng, questo testo è scritto in un modo piano, ai limiti del divulgativo, il che lo rende una lettura agevole e coinvolgente nonostante le dimensioni particolarmente voluminose (943 pagine di testo nell’edizione italiana! – anche la tendenza a produrre libri-fiume è un tratto caratteristico del teologo svizzero). Lo scopo dell’opera è proprio quello di dare e di giustificare una risposta – affermativa, ovviamente – alla domanda che fa da titolo al volume. La ricchezza specifica del testo però, mi pare che non riposi solo nella sua conclusione e nelle motivazioni messe in campo dall’autore. Bensì essa si rinviene anche nel viaggio che Küng fa compiere al suo lettore, per poterlo portare, passo dopo passo, ad avere un’approfondita comprensione della problematica che si cela dietro la domanda di copertina, e in che modo sia possibile e vada compresa la risposta fornitagli al termine dell’argomentazione.
In altri termini potremmo dire che a un approccio di tipo problematico – per cui si ha una domanda e si cerca di argomentare a favore di una particolare risposta a questa domanda, tentando allo stesso tempo di mostrare al nostro interlocutore/lettore perché le risposte concorrenti non dovrebbero ricevere la nostra approvazione – Küng associa ed intreccia un modo di procedere genealogico. A questo proposito bisogna specificare che genealogico è simile a storico ma significa una cosa differente, e questa differenza è cruciale per capire il modo in cui Küng legga e affronti il suo materiale. Questo potrebbe sorprendere chi conosca il libro in questione o che abbia anche solamente dato una scorta al suo indice. Di primo acchito infatti, Dio esiste? sembra presentarsi proprio come un’indagine storica del come e del perché il problema dell’esistenza di Dio sia emerso nella coscienza dell’umanità europea, e di come si sia affermata una condizione culturale che di fronte a questo problema si pone con una risposta negativa se non più semplicemente con una scrollata di spalle. Ed è senz’altro vero che in Dio esiste? venga in qualche modo raccontata una storia, che comincia con Cartesio e giunge fino ai giorni nostri e che include frequenti excursus nella filosofia, teologia, politica e storia sociale della cultura europea degli ultimi 4 secoli. Eppure non si può descrivere quest’opera come lo sforzo di uno storico: troppa la velocità, troppe le digressioni, ma soprattutto troppe le semplificazioni di figure e momenti storici (e in qualche caso il volume mostra i suoi anni offrendo delle interpretazioni superate); non vi è quindi la dovizia di particolari che faccia assurgere la storia di Dio esiste? al rango di scientificità specifico di una storia nel senso accademico e disciplinare del termine.
Ciò non di meno cogliamo il punto, la “cosa” di cui Küng ci vuole parlare – andando così a cogliere anche le sue intenzioni che non sono comunque quelle di scrivere un libro di storia – se intendiamo questo racconto delle origini di una cultura e di un problema come una genealogia, intesa nel senso nietzscheano del termine[3]. Questo significa leggere Dio esiste? come uno studio – mi si perdoni la semplificazione di una questione molto dibattuta come quella della natura della pratica genealogica di Nietzsche – delle condizioni ed eventi che hanno causato le impressioni, che hanno attivato le forze, che hanno prodotto la nascita e la diffusione delle idee, forme di vita, istituzioni, gruppi sociali che hanno portato alla formazione della condizione odierna in cui ci troviamo. Pertanto questo giustifica lo stile e l’andamento della scrittura küngiana, che intreccia momenti descrittivi a momenti dialettici e prescrittivi, che si muove costantemente tra il piano diacronico dell’esposizione storica e quello sincronico della discussione problematica, e che fondamentalmente tende a voler definire il campo di emersione e lo strutturarsi di un problema; non si tratta quindi di voler esporre con dovizia di dettagli una cronaca della storia europea, né di esprimere giudizi personali sui suoi protagonisti, bensì si tratta di “illustrare la problematica moderna del rapporto ragione e fede”[4].
3. Due soglie storiche
In quest’ottica l’orizzonte sistematico-genealogico di Dio esiste? informa anche la scelta e l’ordine nella trattazione del materiale storico. Non è quindi arbitrario che il nostro cominci la propria discussione a partire dal ‘600 e dalle figure di Cartesio e di Pascal. Nello specifico Küng legge questi due pensatori come i “responsabili” principali per quanto riguarda la definizione della nostra attuale comprensione dei concetti di fede e di ragione, nonché dei loro possibili modi d’interrelazionarsi, in quanto piani che non s’identificano, che non si separano mai del tutto, ma che non riescono nemmeno a trovare una pace nella loro comunicazione reciproca – sicché, per semplificare al massimo, con Cartesio prevale la ragione che regola la fede e con Pascal è il contrario. Nella loro costante attualità i due pensatori francesi diventano quindi due interlocutori che non si può non invitare al tavolo della discussione al fine di comprendere la nostra situazione attuale. Insomma è a partire dal loro – non ad esclusione del passato ma come “soglia” che taglia la coscienza europea – che il lettore, alla luce dello scenario contemporaneo, non potrà evitare di chiedersi che cosa “in questa storia [fosse] ‘necessario’ e che cosa no” e se “questo processo storico verso l’ateismo pratico [sia] irreversibile, [se si sia] svolto una volta per tutte” o se invece ci sia “ancora un futuro per la fede in Dio”[5].
Un secondo effetto sulla disposizione del materiale causato dall’orizzonte problematico di Küng è evidente, a parere di chi scrive, nel fatto che l’analisi contenuta in Dio esiste? trovi il suo perno nella discussione della figura di Hegel. Per Küng il filosofo tedesco è stato capace sia di fare i conti in maniera onesta con l’ateismo in quanto opzione etica ed intellettuale, sia di offrirvi una risposta credibile. In questo senso la strada percorsa da Hegel sarebbe stata quella di prendere sul serio le obiezioni della non-fede facendone tesoro e includendole nel proprio discorso, per poi trascenderle; ossia, come scrive Küng, Hegel fu in grado di comprendere “l’ateismo moderno in maniera post-ateistica”[6], sicché quest’ultimo diventerebbe una critica ingenua fatta ad un’esposizione altrettanto ingenua della fede, entrambe le quali verrebbero raccolte e superate in una presentazione più matura del messaggio cristiano all’interno del pensiero hegeliano. In questo le unilateralità ereditate dal momento “Cartesio-Pascal” verrebbero inquadrate all’interno di una visione più ampia ma comunque amica e funzionale alla fede. Più in generale la prospettiva hegeliana è il punto di partenza da cui secondo il teologo svizzero dovrebbe prendere il via ogni discussione su Dio e il nostro rapporto con lui, perlomeno con riferimento alla tradizione cristiana – il che è peraltro in linea con il fatto che l’opera speculativamente più “incisiva” di Küng sia per l’appunto uno studio del pensiero teologico di Hegel con un interesse specifico per la sua cristologia[7].
Più nello specifico, secondo Küng il genio di Hegel è stato quello di ribadire l’essenziale della fede cristiana superando il debito contratto dalla teologia – e quindi inevitabilmente dalla expositio fidei – con il pensiero greco e con una certa immagine scientifica dell’universo pre-moderna. Data la crescente in-credibilità della seconda e l’eccessiva enfasi sulla staticità ed estraneità di Dio della prima, questo debito contratto dalla tradizione cristiana con mondi intellettuali a lei estranei aveva finito per produrre la problematica divaricazione tra fede e ragione emersa nei pensatori francesi del ‘600. Hegel sarebbe stato in grado di superare questo stallo riuscendo a pensare Dio nella sua trascendenza e nel contempo – e questo è lo specifico della sua proposta intellettuale e spirituale – di pensarlo nel suo più profondo coinvolgimento con e nella storia. Pertanto non vi è né può esserci divaricazione tra infinito e finito perché questi sono organicamente insieme in un’unione differenziata. Ancora più nel dettaglio la coscienza infinita di Dio e quella finita dell’uomo sono originariamente in comunione e questo impedisce che si possa dare una contrapposizione netta tra ragione e fede, o perlomeno che una delle due prevarichi sull’altra. Questo avviene in quanto sia il nostro rapporto con il finito che quello con l’infinito, ossia ragione & fede, pur essendo differenti e in una relazione non sempre chiara l’uno con l’altro, si sviluppano all’interno di una più vasta connessione con la divinità. In altre parole mi sembra di poter dire che Küng affermi come Hegel, a fronte delle sfide della modernità, sia stato capace di formulare in maniera convincente la classica affermazione cristiana circa il fatto che Dio sia dall’eternità il Vivente e il Creatore e che quindi egli non sia essere statico, ma essere dinamico che agisce e che non è originariamente esterno alla creazione bensì intimamente coinvolto con essa senza però esservi identico[8]. Quindi un Dio sì trascendente ma non distante e privo di passioni come nella tradizione greca e in particolare platonica, ma il Dio di Abramo, coinvolto e appassionato nella storia, slegato da una qualunque visione scientifica dell’universo e sperimentato come trascendente nel mentre la nostra vita e la nostra azione s’intrecciano con la sua.
Non è questo il luogo in cui poter discutere in modo approfondito una tesi articolata come quella di Küng su Hegel. Questo è senz’altro un dono prezioso che Dio esiste? si porta in dote ma che già a una prima lettura risulta tanto seria e pregna di conseguenze – e pertanto degna di essere presa in serissima considerazione – quanto discutibile, sia in base alla ricostruzione storica che essa sottende, sia dal punto di vista dei suoi effetti concreti. È proprio su un elemento di questo aspetto, ovverosia degli effetti delle tesi di Hegel, che voglio basare il resto di questo pezzo, perché qui si cela un altro “dono prezioso” del testo di Küng – forse l’aspetto che più mi colpì del testo che stiamo discutendo la prima volta che lo lessi, per il modo in cui riuscì a incontrare le domande e i dubbi che all’epoca mi si ponevano. Questo secondo “dono” consiste nella discussione che Küng fa della figura di Feuerbach.
4. Küng su Feuerbach
A chi abbia qualche nozione di base della storia della filosofia europea, sarà già venuto in mente che, come già sotteso nel paragrafo precedente, c’è un aspetto estremamente controverso nella lettura fatta da Küng di Hegel il quale ci porta direttamente alla “questione Feuerbach”. Perché se è indubbiamente vero che Hegel abbia nutrito la teologia cristiana e specialmente quella di scuola evangelica, dotandola di strumenti in grado di crescere e prosperare anche in un clima culturale e intellettuale che mutava e diventava sempre più difficile da navigare per la fede, è anche vero che dal seno del pensatore tedesco sono fuoriusciti alcuni tra gli atei più formidabili di tutti i tempi. Anzi si potrebbe aggiungere che quando l’Ateismo con l’A maiuscola è stato un movimento di massa – e con questo intendiamo quindi l’ateismo come posizione intellettuale rigorosamente meditata e portata per le strade come un grido di battaglia sociale, culturale ed etica, e in questo differenziandolo dall’ateismo odierno che più spesso è semplicemente il nome dell’indifferenza – ebbene esso lo è stato precisamente dietro la spinta di movimenti secolaristi, che in un certo qual modo si ponevano come l’onda lunga della rivoluzione del pensiero operata dalla filosofia hegeliana – e prima di tutto pensiamo al marxismo di stampo leninista e maoista.
Con il senno di poi si potrebbe quasi dire che la vicenda ora cristallizzata nei manuali di storia fosse inevitabile, o perlomeno una delle tante conseguenze, inevitabili, della meditazione hegeliana sulla storicità di Dio. Se infatti questa doveva dare un senso nuovo, vivo e concreto alla coscienza della trascendenza divina, risulta se non ovvio quantomeno intuibile il fatto che un’enfasi sulla presenza di Dio nella storia potesse portare alla sua confusione con la storia stessa, ossia che l’infinito trascendente collassasse nel finito immanente. Non è quindi un caso che, ritornando sull’intreccio tra finito e infinito descritto in precedenza, Küng scriva che
“basta mutare il punto di vista perché tutto appaia rovesciato: perché non sia più la coscienza finita a venire ‘superata’ nella coscienza infinita e lo spirito umano nello Spirito assoluto, ma viceversa la coscienza infinita in quella finita e lo Spirito assoluto nello spirito umano![9]”
Pertanto si può capire come al Dio nella storia di Hegel sia potuta seguire l’umanità come Dio di Strauss e il Dio come umanità di Feuerbach, per poi arrivare alla pura e semplice assenza di Dio e alla convinzione di Marx, Engels & soci che l’umanità potesse fare come Dio, creandosi il proprio paradiso in terra.
È proprio sul secondo membro di questa triade che vorrei soffermarmi perché Küng, che è ovviamente ben conscio di questa storia e che dedica sia a Feuerbach che a Marx delle pagine illuminanti, vede più nel primo che nel secondo l’insorgere di un ulteriore punto di non ritorno dopo quelli segnati da Hegel, Cartesio e Pascal – laddove Marx è invece visto soprattutto come colui che avrebbe portato certe intuizioni fuori dallo studio dell’intellettuale e al livello della politica di massa.
La posizione di Feuerbach in materia di religione è ben nota nelle sue linee fondamentali: l’uomo parlando di Dio e facendo quindi della teologia ha in realtà sempre e soltanto parlato di sé stesso, proiettando “in grande” i propri bisogni, le proprie aspettative e le proprie speranze. La teologia sarebbe quindi in realtà un’antropologia fatta sotto mentite spoglie. Ebbene secondo Feuerbach non vi è nulla di male in questo, di per sé, nella misura in cui i buoni sentimenti e le buone intenzioni alla base della parte migliore della religione vanno assolutamente approvati, diffusi e messi in pratica. Dovremmo però liberarci dell’illusione sottostante il linguaggio teologico e delle sue immagini per tradurle in quello che sono veramente – sicché l’amore per Dio diventerebbe l’amore per l’umanità, la speranza in un futuro escatologico si trasformerebbe in quella di un rinnovamento delle nostre condizioni materiali, etc., etc. [10].
La fortuna immediata di Feuerbach e specialmente della sua Essenza del cristianesimo – lavoro dove svolge per la prima volta in maniera sistematica le sue tesi a-teologiche – fu immensa, per poi venire presto superata da quella delle stelle nascenti della critica post-hegeliana. Il ruolo storico svolto dal suo pensiero – che comunque è ben più ricco e va ben al di là di quanto gli ha garantito uno spazietto nei manuali di storia della filosofia tra Hegel e Marx – è stato quello di fornire un’impostazione filosofica di fondo che giustificasse l’ateismo di alcuni dei più grandi critici della religione (specialmente cristiana) che si sono succeduti in seguito. Secondo la diagnosi di Küng questa fortuna è dovuta al fatto che la tesi di Feuerbach sembra – quantomeno di primo acchito – estremamente plausibile e convincente[11]: Dio è quello che in inglese si direbbe “pie in the sky” – una torta nel cielo – cioè una cosa molto bella, anche troppo per essere vera, e che la cosa più sobria e ragionevole sarebbe quella di ammettere che essa in realtà non esista e che non sia altro che un frutto della nostra immaginazione. Ma la tesi di Feuerbach tiene anche di fronte ad un esame più ravvicinato?
5. La fine della storia?
Fatti alla mano, si potrebbe rispondere di no. No perché da un lato Feuerbach non ha nutrito solamente la critica marxista ma anche il pensiero e la spiritualità cristiana, a partire d’altronde dallo stesso Küng, e ha spinto la teologia europea a riconoscere e sottolineare ancora una volta il primato della rivelazione di Dio. In altri termini, riconoscendo il concreto pericolo di una religiosità che sia semplicemente alienazione e proiezione dei propri desideri “in grande”, il pensiero teologico ha riscoperto la forza profetica della rivelazione biblica, sicché come viene ben cristallizzato dalle famose parole di Karl Barth – peraltro autore carissimo a Küng e al pensiero del quale egli dedicò il suo primo libro[12] -- nel XX secolo la teologia cristiana ha potuto nuovamente e più chiaramente affermare che “l’Evangelo di Dio” è “la interamente nuova, la indicibilmente buona e lieta verità di Dio. Ma appunto: di Dio! Non un messaggio religioso, dunque, non istruzioni o notizie sulla divinità o sulla deificazione dell’uomo, ma l’ambasciata di un Dio, che è totalmente altro, del quale l’uomo, come uomo, non saprà e non avrà mai nulla, e dal quale appunto per questo gli viene la salvezza”[13]. Ecco quindi una prima risposta a Feuerbach: grazie per averci indicato il pericolo di scambiare Dio per la nostra auto-deificazione, però quello di cui parliamo è qualcos’altro e possiamo farlo in una maniera coerente e convincente.
Una seconda risposta potrebbe essere quella di far semplicemente notare il perdurare più o meno indisturbato della religiosità umana, anche in luoghi che in precedenza avevano subito o subiscono ancora un regime di secolarismo, materialismo e ateismo forzato. In effetti gli studi in proposito sembrano indicare che la popolazione umana a livello mondiale stia diventando e diventerà sempre più religiosa, complice anche il calo demografico dei gruppi più secolarizzati. Allo stesso tempo anche l’Europa scristianizzata non sembra vedere una crescita esponenziale della non-fede, sebbene casomai della dis-affiliazione dalle comunità di fede – cosa ovviamente ben diversa. Citando due rilevazioni recenti – una globale e l’altra centrata sul Regno Unito, una delle aree più secolarizzate del continente europeo – la prima (2015) indica che l’84% della popolazione globale si identifica in una religione e come questa percentuale sia cresciuta negli ultimi anni[14], mentre la seconda (2018) indica che il 52% dei britannici non s’identifica con nessuna religione mentre solo il 38% si identifica come cristiana. Eppure solo la metà di quei “non-affiliati” si dichiara atea e la quantità di atei diminuisce mano a mano che il campione si fa più giovane: insomma, i britannici delle generazioni più recenti magari non frequentano molto le moschee o le chiese, però non considerano nemmeno l’ateismo una risposta valida alla domanda sulla fede[15].
È chiaro che di per sé accumulare numeri non può negare in alcun modo una tesi come quella di Feuerbach: casomai si potrebbe obbiettare che essi mostrano la pervasività del problema da lui identificato – cioè che in vario modo l’umanità continua a dipingersi il proprio infinito in base ai propri desideri, lo chiami Dio o meno. Non possiamo però nemmeno trascurare il dato in questione: una fetta così grande della popolazione umana continua ad identificarsi come religiosa anche due secoli dopo l’emersione dell’ateismo come un’opzione di massa e la sua propagazione a livello mondiale lungo i canali della cultura europea, e quindi dopo che il movimento di opinione che inizia con i vari Strauss e Feuerbach e Marx ha potuto influenzare menti e cuori ai quattro angoli del globo; né allo stato delle misurazioni attuali sembra che questo dato cambierà nell’immediato futuro. Ripeto, questa di per sé non è una prova né a favore né contro l’esistenza di Dio – e comunque qui ho riprodotto i dati in modo parziale e frettoloso – ma comunque anche a un livello così superficiale di discussione la cosa dovrebbe darci da pensare.
A questo potremmo pure aggiungere che al di là della questione di Dio in sé, anche l’essere umano più secolarizzato e ateo difficilmente può dire di aver smesso di credere. Se non crede in Dio crederà nello Spirito, o nel Dharma, o nella Nazione, nel Partito, nel Progresso, nel Libero Mercato – oppure perché no, in Chiara Ferragni. Insomma siamo sempre bravi a individuare nuovi oggetti di adorazione e di ammirazione verso i quali riversare la nostra devozione – più o meno intensa che essa sia – e questo ci consente di ritornare a Küng e alla critica da lui svolta a Feuerbach. Scrive infatti lo svizzero che per quanto le tesi di Feuerbach possano sembrare intuitive e ovvie, il fatto che la coscienza umana sia orientata verso l’infinito e che a partire da questo orientamento essa proietti una realtà infinita dotata di determinate caratteristiche, non è di per sé una prova contro l’esistenza di questa realtà – eppure questo è proprio quello che Feuerbach sembra proporre a piè sospinto[16]. Detto più semplicemente: il fatto che io desideri intensamente che Dio venga in soccorso della mia miseria non ci consente d’implicare automaticamente e logicamente che questo Dio sia solo un prodotto della mia immaginazione, magari generato sulla base delle mie ferite e dei miei dolori. In fondo la teologia cristiana ha sempre sostenuto che un tale desiderio esiste nell’uomo proprio grazie a un rapporto con Dio che, per quanto si sia velato, non si è mai dissolto del tutto e non ha mai smesso di essere almeno parzialmente, sebbene inconsciamente, visibile. Si potrebbe quindi interpretare facilmente questa tendenza a credere e a proiettare illusioni religiose come il bisogno profondo dell’umanità di conoscere quel Dio totalmente altro di cui parla Barth – e quindi come la risposta a un rapporto realmente esistente – e la cui rivelazione – sempre a rischio di essere distorta dalle mistificazioni umane – è proprio ciò che dissolve queste illusioni, dando così riposo alla nostra coscienza.
6. Conclusione
Ma questo è sufficiente per dire che possiamo smettere di leggere Feuerbach e mettere le sue tesi nel cassetto della memoria storica? Evidentemente no. Perché anche se volessimo restringere la storia dei suoi effetti concreti a quella parte di umanità – europea principalmente – che si è secolarizzata e che ha messo più profondamente in discussione la propria spiritualità storica, non potremmo comunque rinunciare a dire con Küng che dopo Feuerbach si attraversa una soglia. Perché se anche le sue tesi si possono contestare quanto alla loro solidità logica, rimane il fatto che sono suonate e tutt’ora suonano veramente convincenti. Anche un credente, come lo è chi scrive, deve fare i conti seriamente con Feuerbach e riconoscere la serietà delle sue obiezioni. Bisogna quindi prendere le sue parole come un esercizio di purificazione delle proprie convinzioni e semmai giungere alla conclusione che sì, si può credere in Dio anche nel 2021 nonostante Feuerbach, ma anche e proprio grazie a Feuerbach, che ci aiuta a liberarci da certe illusioni che sempre insidiano la coscienza cristiana. Quindi nelle parole di Küng Feuerbach è sia un “punto di non ritorno” che una “sfida permanente”[17].
Arrivati a questo punto è giunto il momento di concludere questo breve tragitto che abbiamo compiuto insieme al teologo svizzero di recente dipartito. La genealogia che Küng traccia per portarci a discutere i problemi della fede nel nostro tempo continua nel resto di Dio esiste?, e s’intreccia in maniera estremamente pregnante con un altro -ismo, a cui l’ateismo dei pensatori post-hegeliani fornisce la premessa. Questo è il nichilismo – parola tanto importante quanto di solito usata a sproposito – che il nostro qualifica come una conseguenza dell’ateismo e come un atteggiamento di fondo che ancora una volta interroga la fede. Su questo non mi dilungo, se non segnalando che nella narrazione di Küng il nichilismo indica il “fondo del barile”: da lì, o si raschia o si risale. A chi si fosse incuriosito consiglio di prendersi in mano Dio esiste? e di leggerselo da copertina a copertina – pesa come il proverbiale mattone e si potrebbe facilmente trasformare in uno strumento d’offesa, ma non vi deve spaventare: scorre via facilmente e appassiona anche quando non si è d’accordo con l’autore.
[1] C.S. Lewis, Reflections on the Psalms (Londra: Harvest Book, 1986), p. 2.
[2] Mi permetto d’indicarne due, che trovo estremamente rappresentative l’una di una lettura critica e l’altra di una lettura favorevole dell’opera del nostro; doppiamente interessanti perché prodotte entrambe da teologi nostrani, benché di orientamento molto diverso per non dire opposto, ma in questo rappresentativi di come l’opera e il pensiero di Küng possano essere interpretati in modo radicalmente diverso: Vito Mancuso, “In memoria di Hans Küng”, https://www.vitomancuso.it/2021/04/07/in-memoria-di-hans-kung/ [reperito il 04/05/2021]; Leonardo de Chirico, “Hans Küng (1928-2021), perhaps very little ‘Roman’ but certainly very much ‘Catholic’”, https://vaticanfiles.org/en/2021/04/187-hans-kung-1928-2021-perhaps-very-little-roman-but-certainly-very-much-catholic/ [reperito il 04/05/2021].
[3] Ovviamente questo si tratta di un libero riferimento alla Genealogia della Morale; Friedrich Nietzsche, Genealogia della morale: Uno scritto polemico (Milano: Adelphi, 1984).
[4] Hans Küng, Dio esiste?, a cura di Giovanni Moretto (Roma: Fazi Editore, 2012), p. 113.
[5] Küng, Dio esiste?, p. 130.
[6] Küng, Dio esiste?, p. 191.
[7] Hans Küng, Incarnazione di Dio: Introduzione al pensiero teologico di Hegel, prolegomeni ad una futura cristologia (Brescia: Queriniana, 1972).
[8] Alla luce di questa convinzione il nostro deduce da Hegel una serie di tesi, le quali vengono presentate al lettore come “punti di non ritorno” per ogni tentativo cristiano di pensare e parlare di Dio in un’epoca post-illuminista. Cfr. Küng, Dio esiste?, pp. 252-5.
[9] Küng, Dio esiste?, pp. 269-70.
[10] Küng, Dio esiste?, pp. 272-4.
[11] Küng, Dio esiste?, p. 276.
[12] Küng, La giustificazione (Brescia: Queriniana, 1979).
[13] Karl, Barth, L’Epistola ai Romani, a cura di Giovanni Miegge (Milano: Feltrinelli, 2009), p. 5.
[14] Harriet Sherwood, “Why faith is becoming more and more popular?”, https://www.theguardian.com/news/2018/aug/27/religion-why-is-faith-growing-and-what-happens-next [15/05/2021].
[15] The Guardian View, “The Guardian view on ‘post-Christian’ Britain: a spiritual enigma”, https://www.theguardian.com/commentisfree/2021/mar/28/the-guardian-view-on-post-christian-britain-a-spiritual-enigma [15/05/2021].
[16] Küng, Dio esiste?, p. 278.
[17] Küng, Dio esiste?, p. 285.
Bibliografia:
Barth, Karl, L’Epistola ai Romani, a cura di Giovanni Miegge (Milano: Feltrinelli, 2009).
De Chirico, Leonardo, “Hans Küng (1928-2021), perhaps very little ‘Roman’ but certainly very much ‘Catholic’”, https://vaticanfiles.org/en/2021/04/187-hans-kung-1928-2021-perhaps-very-little-roman-but-certainly-very-much-catholic/.
Küng, Hans, Dio esiste?, a cura di Giovanni Moretto (Roma: Fazi Editore, 2012).
Küng, Hans, Incarnazione di Dio: Introduzione al pensiero teologico di Hegel, prolegomeni ad una futura cristologia (Brescia: Queriniana, 1972).
Küng, Hans, La giustificazione (Brescia: Queriniana, 1979).
Lewis, C. S., Reflections on the Psalms (Londra: Harvest Book, 1986).
Mancuso, Vito, “In memoria di Hans Küng”, https://www.vitomancuso.it/2021/04/07/in-memoria-di-hans-kung/.
Nietzsche, Friedrich, Genealogia della Morale: Uno scritto polemico (Milano: Adelphi, 1984).
Sherwood, Harriet, “Why faith is becoming more and more popular?”, https://www.theguardian.com/news/2018/aug/27/religion-why-is-faith-growing-and-what-happens-next [15/05/2021].
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