ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Recensione a D. Bottillo: Il patrocinio a spese dello Stato nel processo penale e la difesa d’ufficio, Rogiosi, Napoli, 2021, pp. 575
di Maria Masi*
Il panorama giuridico-bibliografico si arricchisce di una nuova opera, frutto del lavoro meticoloso di un giudice del Tribunale di Napoli, la dott.ssa Diana Bottillo, che affronta due temi di particolare attualità: patrocinio a spese dello Stato e difesa d’ufficio.
La letteratura giuridica abbonda di saggi, trattati, manuali che si occupano di materie fortemente e, talora, aspramente dibattute su cui si arrovellano giuristi, accademici, magistrati, avvocati e operatori giuridici in senso lato; lo stesso dibattito politico-forense, quello più illuminato, cioè più sensibile al tema dei diritti, da anni è concentrato su temi che investono la “persona”, il “genere”, la “eutanasia”, la “maternità eterologa”, lo “ius soli” e via dicendo.
Patrocinio a spese dello Stato e difesa d’ufficio sembrano non suscitare particolari passioni negli amanti del diritto, argomenti negletti, obliterati, relegati, il più delle volte, alla categoria delle prassi burocratiche, circolari, adempimenti, compilazioni, moduli e, nella migliore delle ipotesi, ad un’altra categoria, fortemente in voga, quella dei protocolli d’intesa, che, tuttavia, finiscono per diventare, talvolta, strumento di contesa, talaltra, di rivendicazioni.
Eppure la differenza è netta ; anzi, a voler essere puntuali, il rango è diverso : nel primo caso parliamo di “temi”, le cui cure o fortune, per quanto “nobili e sensibili”, sono affidate al legislatore ordinario ; l’opera in questione, invece, si occupa di disposizioni che il legislatore Costituente ha avuto premura di collocare al primo posto nella parte in cui illustra i principi che devono informare l’intero sistema Giustizia, ritenendo di scolpirli nella nostra Carta con terminologia tanto chiara quanto perentoria: “Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione”.
L’affermazione di ogni diritto, da parte di ognuno, quale che sia la sua condizione economica, trova, dunque, il suo riconoscimento nel principio appena indicato e rende meno vera e meno beffarda la considerazione di Calamandrei che l’Autrice ha opportunamente epigrafato nel suo volume.
La dott.ssa Bottillo, dunque, ha avuto il merito di occuparsi degli appositi istituti e lo ha fatto in un momento di transizione e confusione, segnato da devastanti crisi economiche, da tragici flussi di migrazione e turbolenti sussulti politici che hanno investito larghe fasce di popolazione nostrana ed estera, ponendola in quella condizione di difficoltà che il previdente legislatore costituzionale ha ritenuto non dover essere ostativo all’esercizio del diritto sotteso.
Opera ancor più meritoria perché realizzata senza “fronzoli”: con sano approccio pragmatico la dott.ssa Bottillo passa in rassegna gli articoli del Testo Unico ( n. 115 del 2002 ), ne illustra il significato, li legge alla luce dei principi tracciati dalla Consulta e degli indirizzi più ricorrenti offerti dalla Corte di Cassazione, si sofferma sugli aspetti problematici e più oscuri della normativa, fornendo suggerimenti interpretativi calibrati sulla eterogenea e cospicua casistica disaminata ; indica con puntualità requisiti, condizioni, percorsi, procedure, applicazioni.
Non manca di sottolineare, nell’impostazione pur rigorosamente laica, le criticità di alcune procedure (ad esempio, quelle per il recupero del credito professionale) e di indicare compiutamente i rimedi attivabili avverso i provvedimenti giudiziari e il correlativo procedimento. Il tutto con mirabile chiarezza e con efficace semplicità espositiva : in altre parole, un esempio di perfetto manuale.
“Manuale”, insomma, declinato in tutte le sue accezioni, è la migliore definizione possibile per il volume della dott.ssa Bottillo: di agevole e facile consultazione, chiaro, pratico, esaustivo, sistematico; eseguito, inoltre, a regola d’arte, che rasenta la perfezione.
Il volume sin d’ora costituisce un punto di riferimento imprescindibile per un approccio ed un’applicazione corretti agli istituti in questione: apprezzamenti non celebrativi ma di pura gratitudine che l’Avvocatura sente doverosamente di dover rivolgere alla sua Autrice, senza contare che la stessa ha destinato i proventi delle vendite del volume alla “Casa di Tonia”, comunità di accoglienza delle madri in situazione di difficoltà.
*Presidente f.f. del Consiglio Nazionale Forense
Le Sezioni Unite (Cass.S.U. 10242/2021) affrontano una singolare ipotesi di sentenza non definitiva
di Mauro Mocci
Sommario: 1. Una doverosa premessa in tema di collegialità - 2. La vicenda - 3. L’inquadramento normativo - 4. La decisione e le motivazioni - 5. Le conclusioni.
1. Una doverosa premessa in tema di collegialità
Scorrendo l’epigrafe della sentenza n. 10242/2021 delle Sezioni Unite, salta subito agli occhi un particolare, normalmente assente nella generalità delle decisioni collegiali: la persona del relatore è diversa da quella dell’estensore.
È dunque solo ipotizzabile che – a prescindere dal caso di un impedimento alla stesura da parte del consigliere cui era stata affidata la relazione – la decisione sia stata presa a maggioranza, con il voto difforme del relatore. D’altronde, come è noto, la camera di consiglio è segreta (camera caritatis): la violazione di tale obbligo determina conseguenze disciplinari, giacché la segretezza delle deliberazioni dei giudici collegiali copre l'intero contenuto della discussione delle varie questioni affrontate dal collegio al fine di pervenire alla decisione e non è contraddetta dalle disposizioni sulla possibilità dei componenti dissenzienti del collegio di far risultare il loro dissenso in un verbale inserito in un plico sigillato[1].
Il confronto delle differenti sensibilità all’interno della camera di consiglio, se vale ad esaltare il principio di collegialità, deve però trovare una sintesi e deve apparire all’esterno come il risultato di una volontà unica (ossia la riduzione ad unità delle distinte opinioni dei partecipanti)[2]. Per tale motivo, l'art. 118 ultimo comma disp. att. c.p.c. regola la scelta dell'estensore, che è fatta dal presidente tra i componenti il collegio che hanno espresso voto conforme alla decisione. L'estensore deve poi consegnare la minuta della sentenza da lui redatta al presidente che, datane lettura - quando lo ritiene opportuno - al collegio, la sottoscrive insieme con l'estensore e la consegna al cancelliere, il quale scrive il testo originale o ne affida la scritturazione al dattilografo. Il giudice che ha steso la motivazione aggiunge la qualifica di estensore alla sua sottoscrizione (art. 119 disp. att.).
Nelle predette ipotesi si potrebbe determinare oggettivamente un allungamento del processo, perché l'estensore in minoranza impiega più tempo a costruire una decisione che non condivide, proprio quando tutto l'attuale sistema è volto a comprimere i periodi temporali di stesura delle sentenze (le statistiche inviate periodicamente dagli uffici giudiziari sono ripartire secondo le varie scadenze, trenta giorni, sessanta giorni, centoventi giorni, oltre).
Nei casi di persistenza del contrasto in seno alla camera di consiglio, appare perciò opportuno il trasferimento immediato dell'onere della motivazione su altro componente del collegio.
2. La vicenda
Il giudizio trae origine dalla domanda di risoluzione di una donazione modale (art. 793 c.c.)[3] formulata nei confronti del Comune di La Spezia. Quest’ultimo, donatario di un’area di circa 1.000 mq,, era però vincolato alla realizzazione di una costruzione da destinare agli scopi istitutivi dell’OMNI. Una volta soppresso quest’ultimo ente, il Comune aveva concesso a terzi il diritto di superficie nel sottosuolo dell’area, per la realizzazione di un parcheggio. Da ciò la reazione degli eredi del donante, che intendevano avvalersi della facoltà – contenuta nell’atto – di revocare la donazione, anche dopo la sua formale accettazione.
Il Tribunale adito dichiarò dapprima risolta la donazione, condannando il Comune al rilascio dell’immobile ed al rimborso delle spese di lite e rimettendo il processo in istruttoria per la quantificazione del danno. Successivamente, in esito all’istruttoria del caso, quantificò la somma dovuta a titolo di ristoro del danno da occupazione dell’area, nonché al pagamento delle spese di lite per le competenze maturate nel prosieguo.
Il Comune soccombente, che aveva formulato riserva di gravame avverso la sentenza del 2007, impugnò entrambe le pronunzie avanti la Corte d’Appello di Genova, la quale dichiarò inammissibile per tardività l’appello avverso la prima sentenza, rigettò l’impugnazione principale nei confronti della seconda sentenza ed, in accoglimento dell’appello incidentale, rideterminò la somma dovuta agli eredi del donante.
Con particolare riguardo alla declaratoria d’inammissibilità, la Corte territoriale affermò che la sentenza gravata, nel dichiarare l’intervenuta risoluzione della donazione, aveva altresì provveduto a liquidare le spese di lite rispetto al decisum, mentre la successiva pronunzia, statuendo sulle spese processuali, aveva liquidato solo quelle inerenti alle attività svolte appunto nella seconda fase. Da ciò il giudice di appello traeva la convinzione che fosse intervenuto, quanto agli effetti, un implicito provvedimento di separazione, il che avrebbe implicato, con la natura definitiva della decisione, anche la tardività dell’appello ed il passaggio in giudicato delle statuizioni ivi contenute.
A fronte del ricorso per cassazione da parte del Comune di La Spezia, con ordinanza interlocutoria del 9 marzo 2020 n. 6624, la Seconda Sezione Civile ha rimesso gli atti al Primo Presidente, sollecitando la trattazione del ricorso da parte delle Sezioni Unite, sui principi riguardanti l’individuazione o no di una sentenza non definitiva, con la conseguente ricaduta sui tempi di proposizione del gravame e l’ammissibilità della riserva di appello[4].
3. L’inquadramento normativo
Recita l’art. 340 c.p.c. “Contro le sentenze previste dall'articolo 278 e dal n. 4 del secondo comma dell'articolo 279, l'appello può essere differito, qualora la parte soccombente ne faccia riserva, a pena di decadenza, entro il termine per appellare e, in ogni caso, non oltre la prima udienza dinanzi al giudice istruttore successiva alla comunicazione della sentenza stessa. Quando sia stata fatta la riserva di cui al precedente comma, l'appello deve essere proposto unitamente a quello contro la sentenza che definisce il giudizio o con quello che venga proposto, dalla stessa o da altra parte, contro altra sentenza successiva che non definisca il giudizio. La riserva non può più farsi, e se già fatta rimane priva di effetto, quando contro la stessa sentenza da alcuna delle altre parti sia proposto immediatamente appello”. I richiami contenuti nella predetta norma riguardano la condanna generica (art. 278) o quella sentenza che, pur risolvendo alcune questioni, non definisce l’intero giudizio e impartisce distinti provvedimenti per l'ulteriore istruzione della causa (art. 279 comma 2° n. 4).
In altri termini, la separazione delle cause, che può avvenire anche in sede di decisione, determina la pronunzia di una sentenza su una sola parte del processo.
Originariamente, il codice di rito indicava tali sentenze con la denominazione di parziali. Con la novella del 1950, è stato mutato sia il nome (che è divenuto sentenze non definitive), sia il regime delle medesime, rendendole impugnabili anche separatamente dalla sentenza definitiva. Il nome originario si è peraltro conservato nella pratica[5].
In realtà, la giurisprudenza mantiene ancora una distinzione fra i due concetti. Le decisioni pronunziate su domande autonome introdotte con la stessa causa o su capi autonomi della domanda o che, in ogni caso, definiscono completamente singole posizioni costituiscono sentenze definitive ma parziali (ad esempio, si accerta la simulazione di un atto di alienazione fatto dal de cujus e si rimette la causa in istruttoria per la divisione ereditaria), mentre le decisioni pronunziate su questioni preliminari alla decisione finale e non contenenti alcuna statuizione sulle spese o in ordine alla separazione dei giudizi, costituiscono sentenze non definitive[6]. La distinzione va cioè operata sulla base di elementi formali, ma è importante giacché solo contro le sentenze non definitive è ammessa la riserva di appello ai sensi dell'art. 340 c.p.c.
Con particolare riguardo al giudizio di legittimità, dopo la riforma del 2006 le sentenze che decidano questioni insorte nel giudizio senza definirlo, anche parzialmente, non possono più essere impugnate con ricorso autonomo e immediato: il ricorso per cassazione avverso tali sentenze può ora essere proposto, senza necessità di riserva, unitamente all’impugnazione avverso la sentenza che definisce, anche parzialmente il giudizio (art. 360, 3° comma, c.p.c.). Restano invece immediatamente ricorribili, secondo l’art. 361 c.p.c., le sentenze di condanna generica previste dall’art. 278 c.p.c. e quelle che decidono solo su una o alcune delle domande, senza delibare l’intero giudizio: in tali ipotesi il ricorso per cassazione può essere differito, qualora la parte soccombente ne faccia riserva, a pena di decadenza, entro il termine per la proposizione del ricorso ed, in ogni caso, non oltre la prima udienza successiva alla comunicazione della sentenza parziale. Concludendo sul punto, le sentenze parziali sono immediatamente impugnabili sia in appello sia in cassazione, mentre per le sentenze non definitive può farsi riserva di appello, ma occorre attendere la pronunzia definitiva per l’impugnazione di legittimità.
Rientra nel genus della sentenza parziale anche la condanna generica prevista dall’art. 278 c.p.c., allorquando il giudice – sollecitato da un’istanza di parte – “può limitarsi a pronunziare con sentenza la condanna generica alla prestazione, disponendo con ordinanza che il processo prosegua per la liquidazione”. E’ il caso in cui si statuisca sulla sussistenza dell’an, lasciando l’accertamento del quantum alla prosecuzione del giudizio. Di solito, la condanna generica accerta solo la potenziale idoneità lesiva del fatto (contrattuale o extracontrattuale), da cui la parte vorrebbe far derivare il diritto al risarcimento: pertanto, il passaggio in giudicato della sentenza di condanna generica non produce effetti vincolanti, per il giudice del quantum, né sull’esistenza del credito, né sulla proponibilità della domanda[7]. Peraltro, nulla impedisce che il giudice possa accertare con la condanna generica anche l'effettivo avveramento del danno, lasciando impregiudicate le sole questioni relative alla liquidazione[8]. In tal caso, la prosecuzione del giudizio si risolve in un problema di quantificazione del risarcimento.
In buona sostanza, il carattere non definitivo di una sentenza presuppone, per un verso, il superamento delle questioni pregiudiziali o preliminari e, per altro verso, una pronunzia non sulla totalità delle domande di merito, ma solo su alcune di esse. Tuttavia, è sul piano formale che va posta la differenza con la sentenza definitiva, che deve contenere un provvedimento di separazione e la liquidazione delle spese di lite.7
4. La decisione e le motivazioni
Con la sentenza n. 10242, depositata il 19 aprile 2021, le Sezioni Unite hanno fissato il seguente principio di diritto: “Ai fini dell'individuazione della natura definitiva o non definitiva di una sentenza che abbia deciso su una delle domande cumulativamente proposte tra le stesse parti, deve aversi riguardo agli indici di carattere formale desumibili dal contenuto intrinseco della stessa sentenza, quali la separazione della causa e la liquidazione delle spese di lite in relazione alla causa decisa. Tuttavia, qualora il giudice, con la pronuncia intervenuta su una delle domande cumulativamente proposte, abbia liquidato le spese e disposto per il prosieguo del giudizio in relazione alle altre domande, al contempo qualificando come non definitiva la sentenza emessa, in ragione dell'ambiguità derivante dall'irriducibile contrasto tra indici di carattere formale che siffatta qualificazione determina e al fine di non comprimere il pieno esercizio del diritto di impugnazione, deve ritenersi ammissibile l'appello in concreto proposto mediante riserva".
Il contenuto decisorio della sentenza muove dalla discussione delle argomentazioni portate dal ricorrente, secondo il quale i criteri formali individuati dalla giurisprudenza (come l’adozione di un provvedimento di separazione, la liquidazione delle spese di lite, la decisione solo su alcune domande) sarebbero stati recessivi a fronte di una qualificazione espressa da parte del giudice a quo, che, nella specie, aveva appunto dichiarato “non definitiva” la prima pronunzia.
In proposito, una consolidata giurisprudenza di legittimità ha affermato che, proprio in tema d'impugnazioni, nell'ipotesi di cumulo oggettivo di cause per connessione propria (artt. 34, 36 cod. proc. civ.) o per effetto di riunione dei processi ai sensi degli artt. 40 e 274 cod. proc. civ., il giudice può scegliere tra una pronuncia non definitiva su una singola domanda e una sentenza definitiva parziale. Quest'ultima opzione deve essere resa manifesta da un esplicito provvedimento di separazione o dalla statuizione sulle spese in ordine alla controversia decisa. Invece, nell'ipotesi di cumulo litisconsortile (artt. 103, 105, 106 e 107 cod. proc. civ.), la sentenza che definisca integralmente la controversia in ordine ad uno dei litisconsorti od intervenienti o chiamati in causa deve sempre ritenersi definitiva e contenere una pronuncia sulle spese e un provvedimento di separazione dei restanti giudizi. Nell'ipotesi, infine, di cumulo solo oggettivo di cause tra le stesse parti, che non presentino alcun nesso di dipendenza, subordinazione o pregiudizialità e, conseguentemente, possano dar luogo ad una pronuncia parziale definitiva, è operante la disciplina della scelta tra l'impugnazione immediata e la riserva d'impugnazione differita.[9]
Inquadrato, dunque, il problema (derivato) del regime d’impugnazione nel problema (presupposto) della natura definitiva o no della sentenza che decida solo su alcune fra le domande proposte, le Sezioni Unite hanno ritenuto di restare ancorate all’orientamento espresso dal medesimo consesso dapprima con la sentenza 1° marzo 1990 n. 1577[10] e poi con le due pronunzie dell’8 ottobre 1999, nn. 711 e 712[11]. Secondo le suddette decisioni, la sentenza, che decida una o più di dette domande, con prosecuzione del procedimento per le altre, ha natura non definitiva, e come tale può essere oggetto di riserva d'impugnazione differita (artt. 340 e 361 cod. proc. civ.), qualora non disponga la separazione, ai sensi dell'art. 279 secondo comma n. 5 cod. proc. civ., e non provveda sulle spese relative alla domanda od alle domande decise, rinviando all'ulteriore corso del giudizio, atteso che, anche al fine indicato, la definitività della sentenza esige un espresso provvedimento di separazione, ovvero la pronuncia sulle spese, che chiude la causa cui si riferisce e quindi necessariamente implica la separazione medesima. In particolare, con la coppia di sentenze del 1999, la Suprema Corte cercava di risolvere – una volta per tutte, visto che il precedente pronunciamento non era stato seguito in modo uniforme dalle sezioni semplici - il contrasto circa la definitività della decisione, in allora esistente fra i fautori di un approccio “sostanzialista”, volto ad esaltare la pronunzia del giudice come tale rispetto alla singola domanda, ed una visione “formalista”, ancorata ad indici esteriori sintomatici della definitività, sancendo la preferenza per la seconda soluzione[12].
Quest’ultimo orientamento, che trova la sua ragion d’essere nella certezza del riferimento a parametri oggettivi, è stato altresì riproposto da S. U. 28 aprile 2011 n. 9441[13] e ribadito dalla decisione in commento.
Alla considerazione degli indici formali intrinseci alla decisione impugnata – rifuggendo così da criteri succedanei - è pertanto collegata la costruzione della fattispecie portata all’attenzione delle Sezioni Unite, la quale peraltro contiene una particolarità, messa in luce dal ricorrente: il Tribunale aveva espressamente qualificato la prima sentenza come non definitiva, ancorché avesse contestualmente liquidato le spese di lite maturate fino a quel momento.
In altri termini, a fronte di un provvedimento che disponeva la separazione del giudizio e la liquidazione delle spese, l’estensore qualificava quello stesso provvedimento come sentenza non definitiva. L’evidente incongruenza della pronunzia – di cui correttamente le Sezioni Unite rimarcano il “contrasto con le connotazioni di certezza che il provvedimento decisorio dovrebbe rivestire al fine di garantire il pieno esercizio del potere di impugnazione, poiché determina la difficoltà di attribuire prevalenza all’uno o all’altro degli indicatori rinvenibili” – ha posto il giudice di legittimità di fronte alla necessità di trovare una via d’uscita, che però evitasse di ricorrere all’utilizzo di elementi di tipo sostanzialistico.
In tal senso, le Sezioni Unite hanno fatto richiamo a principi di carattere generale dell’ordinamento, ossia all’affidamento ed all’apparenza, escludendo tuttavia, in carenza di elementi di carattere oggettivo desumibili dalle modalità di svolgimento del processo, l’utilità di un’indagine metodologica circa la consapevolezza del giudice in ordine alla qualificazione della sentenza emessa (cioè se definitiva o no), proprio per evitare di dare ingresso a criteri distintivi di tipo sostanzialistico.
Ma, oltre i predetti principi, è stata richiamata – e questo pare essere il passaggio dirimente della sentenza n. 10242/2021 – l’elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale in tema di diritto all’impugnazione, quale fondamentale espressione del diritto di azione, ai sensi dell’art. 24 della Costituzione[14]. In particolare, il riferimento ha riguardato la sentenza della Consulta n. 75 del 9 aprile 2019[15], la quale, nell’ambito di una questione concernente la notifica eseguita con modalità telematiche, ha ribadito la necessità di consentire la massima espansione del diritto fondamentale di azione e di difesa in giudizio. Da ciò la Suprema Corte ha tratto “una ragione giustificatrice di sistema che, nella concreta situazione oggetto di esame, impedisce il diniego alla parte dell’accesso all’impugnazione”.
5. Le conclusioni
La sentenza n. 10242 del 19 aprile 2021 appare in linea con la precedente, consolidata giurisprudenza (almeno a partire dal 1999, come si è visto) in tema di valutazione della natura definitiva o no di una sentenza, secondo i noti canoni formali. Probabilmente, la questione non sarebbe neppure stata rimessa alle Sezioni Unite, se la fattispecie non avesse presentato una dissonanza inconciliabile tra quegli stessi indici sintomatici della definitività (la liquidazione delle spese, da un lato, la dichiarazione di non definitività, dall’altro). E la scelta seguita a garanzia dell’effettività della tutela offerta dal processo – privilegiando la soluzione volta a consentire il potere d’impugnazione, altrimenti irrimediabilmente compromesso – si segnala, al di là del caso concreto, per la correttezza e la condivisibilità del criterio adottato. In altri termini, tutte le volte che il giudice si trovi in presenza di un contrasto tra elementi di segno opposto, che determinino una irrisolvibile ambiguità, dovrà fare ricorso ai principi generali dell’ordinamento e ragionare secondo gli stessi.
[1] Così Cass. Sez. Un. 5 febbraio 1999 n. 23, in Giust. Civ. 1999, 6, 1, 1629, con riguardo ad un processo penale, come richiamata da M. CICALA, Rassegna sulla responsabilità disciplinare e civile dei magistrati, in Riv. Dir. Priv. 1999, 3, 521.
[2] Il problema si è posto con ancor maggiore forza a seguito della pandemia. Mi permetto di rinviare, in proposito, a M. MOCCI, Il principio di collegialità alla prova del Covid-1, in Il diritto vivente numero monografico 2020, pag. 158
[3] Sul modus apposto ad una donazione, cfr. Sez. Un. N. 5702 dell’11 aprile 2012, in Corr. Giur. 2012, 11, 1358 con nota di M. MARTINO, E’ mera quaestio voluntatis decidere se la donazione sia cum onere ovvero sottoposta a condizione risolutiva?. In dottrina, A. RESTUCCIA, Donazione modale e rapporto obbligatorio, in Riv. Notariato, 2011, 5, 1, 1149; U. LA PORTA, Alcune questioni in materia di donazione modale e stipulazione a favore di terzo, in Riv. Dir. Civ. 2007, 1, 2, 15.
[4] Ne parla ampiamente R. LOMBARDI, Sentenze definitive e non definitive: si preannuncia un ulteriore intervento delle sezioni unite, in Judicium, 2020, 8 ottobre
[5] E. Redenti, Diritto processuale civile, II, Milano, rist. 1957, p. 262; S. SATTA, Dir. Proc. civ. 7°, 302. Sul tema è utile approfondire anche mediante le letture di C. CEA, Sentenze definitive e non definitive: una “querelle” interminabile, in Foro it., 1993,2,480; M. BOVE, Sentenze non definitive e riserva d’impugnazione, in Riv. trim. proc. civ., 1998, 2, 2, 415; E. FABIANI, Sulla distinzione tra sentenze definitive e non definitive, in Foro it. 1997, 7-8, 1, 2147.
[6] Cfr. Cass. 18 giugno 2019 n.16289; Cass. 16 giugno 2008, n. 16216;.
[7] Cfr. Cass. 24 aprile 2014, n. 9290. In dottrina Tomei, La sommarietà delle condanne parziali, in Riv. dir. proc., 1996, p. 350 ss.
[8] Cass. 19 giugno 2015, n. 12724 e Cass. 11 febbraio 2009, n. 3357.
[9] Cass. 25 marzo 2011 n. 6993
[10] In Foro it. 1990, 3, 1, 836
[11] Entrambe in Foro it. 2000, 1, 1, 123 con nota di A. FORTINI ed in Giust. civ. 2000, 1, 1, 63, con nota di GP. CALIFANO, Le sezioni unite civili ripropongono l’indirizzo formale in tema di sentenze non definitive su una fra più domande cumulate nel medesimo processo
[12] In dottrina, per la tesi sostanzialista cfr. V. DENTI, Ancora sull’efficacia della decisione di questioni preliminari di merito, Riv. Dir. Proc. 1970, 560; S. SATTA, Commentario, 1966, II, 1, 320; V. ANDRIOLI, Commentario, 1960, II, 246; per la tesi formalista, V. CARBONE, Definitività e non definitività della sentenza, in Corriere giur. 1990, 705; C. MANDRIOLI, Diritto processuale civile, XXV ed., 2016, II, 325; L. MONTESANO, Cumulo di domande e sentenze non definitive, in Giust. Civ. 1985, I, 3132
[13] Successivamente anche da Cass. 19 dicembre 2013 n. 28467
[14] L.P. COMOGLIO, Le garanzie fondamentali del <
[15] In Foro it, 2019, 11, 1, 3452, con nota di G.G. POLI, “I’m gonna wait” tillmidnight hour: la Consulta dichiara tempestive le notifiche telematiche effettuate dalle ore 21 alle ore 24.
9 maggio, festa dell’Europa!
di Guido Raimondi*
*Presidente emerito della Corte europea dei diritti dell'uomo e Presidente della sezione lavoro della Corte di Cassazione
Credo che le celebrazioni per la festa dell’Europa, che ricorda il discorso di Robert Schuman pronunciato al Quai d’Orsay nel pomeriggio del 9 maggio 1950 sull’idea di un’Europa economica e, in prospettiva, politica riguardino da vicino i giuristi.
Chi, come chi scrive, è grato a Giustizia insieme per il costante contributo di idee e di riflessioni che sono di quotidiano ausilio nella propria vita professionale, non può non rendersi conto che essa si ispira ad una visione umanistica del diritto. Non è perciò difficile riconoscere la sua adesione senza riserve al progetto europeo, le cui fondamenta si radicano in una concezione che pone al centro la persona umana.
Dobbiamo essere consapevoli che con i suoi difetti, con le sue battute d’arresto, con lo spazio che talvolta è stato accordato a comportamenti egoistici, il progetto europeo ci ha posti al riparo dal flagello della guerra e ci ha garantito il consolidamento del metodo democratico, dello Stato di diritto e della protezione dei diritti umani.
Ritroviamo questa idea nell’articolo 2 del Trattato sull’Unione europea, secondo cui l’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze, e aggiunge che questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini.
Si tratta dei valori fondanti dell’Europa, e paradossalmente, anche quelli meno conosciuti, giacché è una percezione molto diffusa quella dell’Europa vista come arcigna custode di comportamenti irragionevolmente austeri, sovente presentati come imposizioni di Stati più forti su Stati più deboli, con la spinta che ne consegue al successo di movimenti sovranisti e nazionalisti, la cui sensibilità verso questi valori non è delle più elevate.
Non credo che l’auspicio, che appartiene profondamente a chi scrive, che i giuristi si sentano pienamente partecipi del progetto europeo, e si sforzino di offrire quotidianamente il loro contributo di idee perché il diritto europeo – che sia quello dell’Unione o quello della Convenzione europea dei diritti dell’uomo – dispieghi tutte le sue potenzialità e si combini armonicamente con quello nazionale sia una posizione ideologica. Ciò, ovviamente, nel pieno rispetto di posizioni diverse.
La giurisprudenza delle corti europee ha forgiato i concetti di democrazia e di preminenza del diritto che oggi diamo per acquisiti, ma che occorre coltivare quotidianamente, perché il rischio che questi beni preziosi vengano offuscati è sempre presente,
Nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo troviamo l’idea che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo è stata concepita come uno strumento di concordia tra gli Stati europei intorno a un patrimonio comune d’ideali e di tradizioni politiche, di rispetto della libertà e di preminenza del diritto, uno strumento fondato sul concetto di società effettivamente democratica, caratterizzata dalla preminenza del diritto e sul rispetto dei diritti umani. Nella sua giurisprudenza la Corte ha chiarito che gli elementi caratteristici di una società effettivamente democratica sono il pluralismo, la tolleranza e l’apertura mentale (Handyside c. Regno Unito, 7.12.1976, § 49; Young, James and Webster c. Regno Unito, 13.8.1981, Serie A no. 44, § 63; Izzettin Dogan et a. c. Turchia (GC), 26.4.2016, §§108-109). In particolare, in Handyside la Corte ha sottolineato non solo l’importanza della libertà di espressione, protetta dall’articolo 10 della Convenzione, ma anche la necessità del rispetto di opinioni che sono diverse, e quindi del pluralismo come carattere essenziale della società democratica.
Per questa ragione credo sia importante la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione, Grande Sezione, del 20 aprile scorso nella causa C-896/19, Repubblika, che, nel ribadire che dall’articolo 2 TUE discende che l’Unione si fonda su valori, quali lo Stato di diritto, ne ha tratto la conseguenza, occupandosi del tema della indipendenza delle corti, che il rispetto da parte di uno Stato membro dei valori sanciti dall’articolo 2 TUE costituisce una condizione per il godimento di tutti i diritti derivanti dall’applicazione dei trattati a tale Stato membro. Uno Stato membro non può quindi modificare la propria normativa in modo da comportare una regressione della tutela del valore dello Stato di diritto, con un’affermazione che sembra abbracciare tutti i valori espressi dall’articolo 2.
Sono profondamente convinto della necessità di coltivare e di sviluppare ulteriormente il dialogo tra le corti europee e quelle nazionali. In questa prospettiva credo siano da salutare con grande favore tutte le iniziative volte ad incoraggiare il Parlamento alla ripresa dei lavori sulla ratifica del Protocollo n. 16 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nella consapevolezza che la mancata partecipazione italiana a questo strumento escluderebbe le corti superiori del nostro Paese dal dialogo con la Corte europea dei diritti dell’uomo proprio sui temi più attuali che, verosimilmente, saranno quelli interessati dalla giurisprudenza consultiva della Corte di Strasburgo. L’ampio dibattito su questo tema che è stato ospitato da questa rivista va senz’altro nella giusta direzione.
L’idea stessa di Europa è nata sulla base di una comunità di valori. San Benedetto è stato scelto da Papa Montini nel 1964 come primo Patrono d’Europa, perché è stata la regola benedettina ad unire spiritualmente popoli così profondamente divisi sul piano linguistico, etnico e culturale.
È ferma opinione di chi scrive che i valori fondanti dell’Europa possano svolgere oggi questo compito, e che la loro sempre maggiore penetrazione nei sistemi giuridici nazionali ne sia la migliore garanzia.
La sentenza CGUE del 2 marzo 2021: i giudici nazionali affrontano le criticità
La sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 2 marzo 2021 ha ridisegnato le modalità di acquisizione dei dati tramite tabulati telefonici. Il Tribunale di Rieti ha individuato alcuni punti critici di tale decisione, sollevando alcuni interrogativi sul come questo importante strumento investigativo debba essere gestito nell’ordinamento italiano, che ha rimesso alla Corte con una domanda pregiudiziale.
La pubblicazione della lista di evasori (caso L.B. c. Ungheria): il fine giustifica sempre i mezzi?
di Giulio Chiarizia
Sommario: 1.Premessa - 2. Il caso L.B. contro Ungheria - 3. Il rispetto della riservatezza e dei dati personali secondo la CEDU e la Carta di Nizza - 4. La posizione della Corte Costituzionale - 5. Considerazioni conclusive in ordine ai profili di contrasto tra i principi europei e la disciplina fiscale nazionale.
1. Premessa
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU), con la recente sentenza del 12 gennaio 2021 sul caso L.B. contro Ungheria (n. 36345/2016), ha ritenuto che la pubblicazione su internet di una lista di “grandi” evasori fiscali da parte dell’Amministrazione finanziaria ungherese non violi l’art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), in materia di protezione della riservatezza, ritenendo tale ingerenza nella “vita privata” giustificata e proporzionale in una “società democratica”.
Tale sorprendente decisione costituisce lo spunto per esaminare la portata delle garanzie dei diritti fondamentali alla riservatezza e alla protezione dei “dati personali”, di cui all’art. 8 CEDU e agli artt. 7 e 8 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’U.E. (Carta di Nizza), in relazione ai poteri conferiti all’Amministrazione finanziaria per eseguire le attività di analisi, prevenzione e accertamento dell’evasione fiscale.
Infatti, il tema della protezione dei “dati personali” e, in generale, della riservatezza del contribuente nonché del corretto bilanciamento della protezione dei diritti fondamentali con l’interesse generale alla lotta all’evasione fiscale merita una crescente attenzione, soprattutto a seguito dei nuovi e potentissimi strumenti tecnologici, in continua evoluzione, a disposizione dell’Amministrazione finanziaria (italiana, come quelle degli altri paesi sviluppati), ormai utilizzati massivamente e ulteriormente implementati dallo sviluppo della intelligenza artificiale (si pensi alla fattura elettronica, alle varie banche dati fiscali - quali l’archivio dei rapporti finanziari e l’anagrafe tributaria - nonché ai diversi strumenti internazionali di scambio di informazioni, anche automatici).
2. Il caso L.B. contro Ungheria
Nell’anno 2016, l’Amministrazione finanziaria ungherese ha pubblicato sul proprio sito internet i “dati personali” – segnatamente, nome, cognome, indirizzo di residenza, codice fiscale e ammontare del debito tributario – dei “grandi” evasori fiscali. Ciò in applicazione di una norma nazionale del 2003, che, per l’appunto, prevedeva la pubblicazione su internet della lista dei contribuenti che non avevano versato le imposte dovute sulla base di un accertamento diventato definitivo, per un importo superiore a dieci milioni di fiorini ungheresi (pari a circa 30.000,00 euro), entro il termine di 180 giorni.
A seguito della pubblicazione di tale lista “nera” di evasori, un sito web privato ha ripubblicato i dati in questione, realizzando una “mappa” interattiva degli evasori, diretta a individuare geograficamente i soggetti interessati mediante dei punti sulla mappa, cliccando i quali era possibile accedere ai “dati personali” degli evasori.
Premesso che il caso in esame non riguarda la ripubblicazione dei dati da parte del sito web privato (che costituisce un’ingerenza nella “vita privata” e nella protezione dei “dati personali”, difficilmente giustificabile quale “attività giornalistica”[1]), la Corte di Strasburgo, respingendo il ricorso di uno dei contribuenti indicati nella predetta lista predisposta dall’Amministrazione finanziaria, ha ritenuto che l’ampio margine di discrezione riconosciuto agli Stati contraenti in materia di scelte di politica sociale ed economica (nell’ambito della quale rientra quella fiscale) giustifichi, nel caso di specie, la prevalenza dell’interesse erariale alla pubblicazione della lista rispetto al diritto alla riservatezza della persona.
La Corte ha, in primo luogo, ribadito che i dati pubblicati dall’Amministrazione finanziaria (in particolare, il nome, l’indirizzo dell’abitazione e il codice fiscale) costituiscono “dati personali”, come definiti dall’art. 2 della Convenzione di Strasburgo n. 108 sulla protezione delle persone rispetto al trattamento automatizzato di dati di carattere personale del 28 gennaio 1981, e la relativa protezione rientra nell’ambito della tutela della riservatezza assicurata dall’art. 8 CEDU (§ 19).
Nel presupposto che, nella fattispecie, si fosse realizzata una ingerenza dell’Amministrazione finanziaria nella riservatezza del ricorrente, la Corte EDU ha poi verificato se tale ingerenza fosse giustificata, ai sensi del secondo paragrafo dell’art. 8 CEDU. A tal fine ha accertato se detta ingerenza nella vita privata (a) trovasse fondamento in una norma di legge, che avesse sufficienti requisiti qualitativi per proteggere gli interessati da eventuali abusi o arbitri delle Autorità, (b) perseguisse uno dei legittimi scopi indicati dall’art. 8 citato e (c) fosse necessaria in una “società democratica” (§ 43), vale a dire la misura fosse proporzionata tenuto conto del margine di apprezzamento che deve essere riconosciuto agli Stati contraenti nel caso di specie (§ 48).
Accertata agevolmente la base legale della interferenza nel diritto nazionale ungherese, la Corte di Strasburgo ha riscontrato la sussistenza di un legittimo scopo, ravvisato nella tutela del benessere economico del paese, per quanto concerne la finalità di contrasto e prevenzione dell’evasione fiscale, nonché nella esigenza di protezione dei diritti degli altri, in ordine all’interesse che gli operatori economici possano conoscere le pendenze fiscali delle loro potenziali controparti commerciali, al fine di poter valutare la solidità della loro situazione finanziaria (§ 46).
Più articolata è, poi, la valutazione della necessità della misura in esame in una “società democratica”, considerato che sono necessarie solo le ingerenze che costituiscono una risposta a un pressante bisogno sociale e sono altresì proporzionate rispetto al legittimo scopo perseguito, sulla base di giustificazioni adeguate e sufficienti delle Autorità (§ 47). Nel fare tale valutazione la Corte ha ricordato che la questione fondamentale consiste nel verificare se la misura rientri nel margine di apprezzamento concesso agli Stati (§ 48), vale a dire lo spazio in cui deve reputarsi rispettato il bilanciamento tra i contrapposti interessi.
In proposito la Corte ha sottolineato che detto margine di apprezzamento è ampio in relazione a misure di politica economica o sociale. Di conseguenza, per consolidata giurisprudenza della Corte EDU, quest’ultima ritiene che le Autorità nazionali siano in linea di principio in una migliore posizione rispetto a essa per valutare la proporzionalità delle misure di politica economica o sociale, che dunque devono essere rispettate salvo che siano manifestamente senza un fondamento ragionevole (§ 49).
Sulla base di tali premesse, la Corte ha innanzitutto ritenuto che rientri nel margine di apprezzamento degli Stati la scelta di rendere pubblici i “dati personali” degli evasori fiscali, nell’ottica di prevedere una misura di contrasto all’evasione, pur nella consapevolezza che non è affatto sicuro che una simile misura sia effettivamente idonea a contrastare l’evasione fiscale (§ 52). Analogamente, la Corte ha ritenuto che non sia manifestamente irragionevole ritenere che la misura in parola sia diretta anche a tutelare le persone nella scelta dei soggetti con cui avere rapporti economici (§ 53).
Inoltre, la misura è per la Corte proporzionata in quanto sufficientemente “circoscritta”, riguardando solo i “grandi” evasori, cioè coloro che sono debitori dell’Erario per oltre € 30.000,00 (somma ritenuta non troppo modesta per le condizioni economiche del tempo in Ungheria) e per un periodo di tempo sufficientemente lungo (oltre 180 giorni), i quali sono altresì repentinamente cancellati dalla lista in caso di pagamento (§§ 56 e 57).
In merito ai “dati personali” pubblicati, la Corte ritiene che quelli di carattere finanziario non sarebbero strettamente collegati all’identità personale degli interessati, mentre invece ha riconosciuto che la pubblicazione dell’indirizzo potrebbe avere ripercussioni anche gravi sulla vita privata (§ 58). Tuttavia, anche in questo caso, la Corte ha ritenuto che la misura rientri nel margine di discrezionalità in quanto necessaria per assicurare la precisione delle informazioni fornite e superare eventuali omonimie (§ 59). Tale passaggio delle decisione suscita notevoli perplessità, in quanto l’indicazione della residenza sembra invero eccedere quanto necessario per raggiungere lo scopo, essendo a tal fine sufficiente l’indicazione del codice fiscale; inoltre, la presenza di tale indicazione dimostra altresì che il vero scopo della misura, al di là delle “etichette” formali, è quello di prevedere una moderna “gogna mediatica” nei confronti degli evasori (come pure ritenuto dalla dissenting opinion, § 2), difficilmente compatibile con gli scopi che legittimamente possono perseguire le ingerenze nella “vita privata”[2].
Infine, la Corte ha escluso la violazione dell’art. 8 CEDU, respingendo anche l’argomento per cui la pubblicazione dei dati su internet non sarebbe necessaria, in quanto li rende potenzialmente conoscibili in tutto il mondo, cioè oltre il bacino di interesse individuato dagli scopi perseguiti dalla misura medesima. La Corte, infatti, pur riconoscendo la maggiore pericolosità della pubblicazione di dati su internet (§ 62), ha ritenuto che nel caso di specie ciò è conforme con il principale proposito della pubblicazione stessa, ossia informare il pubblico delle persone interessate, rendendo agevolmente accessibili i dati in questione (§ 64). I giudici europei hanno poi aggiunto che, sebbene la pubblicazione fosse liberamente accessibile, essa è avvenuta su una pagina del sito web dell’Amministrazione finanziaria, che non attrae particolare attenzione del pubblico, soprattutto a livello mondiale (§ 68), ed è avvenuta in modo “neutro”, ossia senza denigrare gli interessati (§ 69).
In definitiva, per la Corte EDU prevale l‘interesse alla prevenzione e al contrasto dell’evasione rispetto a quello della protezione della riservatezza dell’individuo.
Se tale ultima affermazione possa essere senz’altro condivisa in linea di principio, sembra tuttavia preferibile l’opinione contraria della minoranza dei giudici, che hanno preso le distanze dalla decisione in esame, ritenendo non necessaria la pubblicazione dell’indirizzo degli interessati, in considerazione dei rischi che ciò potrebbe comportare, soprattutto utilizzando la rete internet (§ 4).
I giudici di minoranza hanno innanzitutto rimarcato la sufficienza della pubblicazione del codice fiscale al fine di individuare con precisione l’evasore (§ 7). Poi, con riguardo alla pubblicazione dei dati in questione sul sito internet dell’Amministrazione finanziaria, essi hanno ritenuto che ciò non sarebbe necessario, né idoneo a perseguire lo scopo della lotta all’evasione, considerato che, eccetto per le persone famose, la mera pubblicazione, a livello nazionale o mondiale, dei dati identificativi delle persone interessate non permette di individuarli in concreto, attribuendo “una faccia al nome” (§ 11).
Infine, la minoranza dei giudici ha pragmaticamente sottolineato che, sebbene la ripubblicazione dei dati da parte di un sito privato fosse estranea alla controversia in esame, era perfettamente prevedibile, se non probabile che ciò accadesse, con la conseguenza che le Autorità nazionali non possono essere mandate esenti da responsabili per aver permesso che ciò accadesse, con la conseguenza che non è condivisibile l’assunto che la pubblicazione su un sito con pochi lettori non sarebbe paragonabile alla pubblicazione su un sito largamente visualizzato (§ 12).
3. Il rispetto della riservatezza e dei dati personali secondo la CEDU e la Carta di Nizza
La sentenza in esame costituisce l’occasione per riflettere sulla protezione del diritto fondamentale alla protezione dei “dati personali” dei contribuenti nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, confrontando il livello di protezione assicurato dalle fonti europee (art. 8 della CEDU e artt. 7 e 8 della Carta di Nizza) e quello riconosciuto in materia tributaria dal diritto interno, come interpretato e applicato dalla Corte di Cassazione.
Il punto di partenza della riflessione consiste nella circostanza che, secondo la giurisprudenza della Corte di Strasburgo confermata anche dal caso L.B., i “dati fiscali”[3] del contribuente, compresi quelli bancari[4], costituiscono “dati personali”, i quali rientrano nell’ambito della tutela della riservatezza della “vita privata” assicurata dall’art. 8 della CEDU. Ciò a prescindere dalla circostanza che detti dati fossero eventualmente già di pubblico dominio o memorizzati su un server[5], se fossero relativi ad attività professionali o commerciali ovvero dalla modalità con cui è realizzata l’ingerenza delle Autorità nella sfera di riservatezza, ossia mediante sequestro ovvero copia dei dati in questione.
Pertanto, seppure l’art. 8 della CEDU non preveda espressamente la protezione dei “dati personali” (in quanto detta Convenzione è stata redatta anteriormente allo sviluppo dei computer, di internet e, in generale, dell’ascesa della “società delle informazioni”), bensì il diverso ma affine diritto al “rispetto” della “vita privata e familiare”, del “domicilio” e della “corrispondenza” (e-mail comprese[6]), la Corte EDU ha ricondotto la tutela dei “dati personali” alla tutela della riservatezza di cui all’art. 8 citato, facendo leva sulla Convenzione di Strasburgo n. 108 del 1981 sulla protezione delle persone rispetto al trattamento automatizzato di dati di carattere personale, che nel preambolo richiama il diritto al rispetto della “vita privata” e all’art. 2 definisce i “dati personali” come ogni informazione concernente “una persona fisica identificata o identificabile”.
Anche la Corte di Giustizia ha, dal canto suo, sottolineato che i “dati fiscali” costituiscono “dati personali”, poiché si tratta di «informazion[i] concernent[i] una persona fisica identificata o identificabile»[7], con la conseguenza che la loro trasmissione da un’Amministrazione (quale quella finanziaria) a un’altra costituisce un «trattamento di dati personali»[8].
Del resto, nell’ambito del diritto dell’U.E., la tutela dei “dati personali” assume particolare importanza, considerato che la Carta di Nizza - proclamata nel 2000 e, poi, divenuta parte integrante del diritto primario dell’U.E. con l’art. 6 del TUE, come modificato a seguito del Trattato di Lisbona – prevede espressamente, tra i diritti fondamentali riconosciuti dall’Unione, quello alla protezione dei “dati personali” (art. 8 della Carta di Nizza). A ciò si aggiunga che l’art. 16 del TFUE ha riconosciuto la competenza dell’Unione a legiferare in materia di protezione e circolazione dei “dati personali”[9]. Ciò ha permesso l’emanazione del Regolamento U.E. 2016/679 del 27 aprile 2016 (General Data Protection Regulation - GDPR[10]), con cui l’Unione Europea ha previsto un moderno, dettagliato e coerente sistema di protezione dei “dati personali”, direttamente applicabile in tutti gli Stati membri e prevalente rispetto ai rispettivi diritti interni, a cui si deve aggiungere la Direttiva 2016/680, in materia di protezione dei dati personali con riguardo al trattamento delle Autorità competenti a fini di prevenzione, indagine, accertamento e perseguimento di reati.
Pertanto, la raccolta, la conservazione e in generale ogni trattamento di “dati personali”, anche di carattere fiscale e finanziario, da parte dell’Amministrazione finanziaria costituisce una ingerenza nella “vita privata” e nel diritto alla protezione dei “dati personali” in particolare, sia per la CEDU (che si applica a tutti gli Stati contraenti e in Italia ha rilevanza costituzionale in virtù dell’art. 117 Cost.), sia per il diritto dell’U.E. (che si applica ai soli Stati membri, ma prevale sul diritto interno eventualmente incompatibile, per il principio del primato del diritto dell’Unione).
Del resto, il concetto di “vita privata” in ambito CEDU è ampio, non suscettibile di una definizione esaustiva, e ricomprende anche le attività professionali ed economiche e, più in generale, quelle intraprese in un contesto pubblico. Ciò in quanto la “vita privata” non concerne solo la vita privata in senso stretto, bensì anche la riservatezza della vita sociale, da intendersi quale possibilità per l’individuo di sviluppare la sua identità sociale, nel cui ambito è ricompresa la possibilità di intraprendere e sviluppare rapporti sociali con altre persone. Da ciò consegue che la “vita privata” concerne anche la vita lavorativa, che per la maggioranza delle persone costituisce una significativa, se non la più grande, opportunità di sviluppare relazioni sociali con il mondo esterno[11].
In tale prospettiva, ogni ingerenza dell’Amministrazione finanziaria nella “vita privata” e nel diritto al rispetto dei “dati personali”, non essendo questi diritti assoluti, è legittima nel rispetto dei principi generali sanciti dagli artt. 8 CEDU e 7 e 8 Carta di Nizza, che possono essere trattati congiuntamente nei loro aspetti generali, considerato che, da un lato, la Corte EDU ha sottolineato più volte l’importanza del dialogo con la Corte di Giustizia, oltre che con le corti nazionali, ai fini della protezione dei diritti fondamentali[12] e, dall’altro, in quanto il diritto dell’Unione deve essere necessariamente interpretato tenendo in considerazione i diritti fondamentali, che fanno parte integrante dei principi generali del diritto ex art. 6, par. 3 TUE, nonché l’art. 52, par. 3 della Carta di Nizza, che prevede il c.d. “principio di equivalenza”, per cui laddove la Carta contenga “diritti corrispondenti” a quelli garantiti dalla CEDU, “il significato e la portata degli stessi sono uguali” a quelli conferiti dalla suddetta convenzione, salva la possibilità per il diritto dell’Unione di riconoscere una protezione più estesa.
Sempre a sostegno dello stretto rapporto tra tutela dei “dati personali” assicurata dalla CEDU e dal diritto dell’Unione, si aggiunge che la Corte di Giustizia ha affermato che «le limitazioni che possono essere legittimamente apportate al diritto alla protezione dei dati personali corrispondano a quelle tollerate nell’ambito dell’art. 8 della CEDU»[13] e, in generale, che le norme di diritto derivato dell’Unione che disciplinano «il trattamento di dati personali che possono arrecare pregiudizio alle libertà fondamentali e, segnatamente, al diritto al rispetto della vita privata, devono essere necessariamente interpretate alla luce dei diritti fondamentali garantiti dalla Carta» di Nizza[14].
Pertanto, sia per la CEDU, sia per il diritto dell’Unione, ogni ingerenza nella “vita privata” o nella protezione dei “dati personali”, anche se realizzata dalle Autorità fiscali o per motivi fiscali in generale, deve innanzitutto rispettare il principio di legalità; essa deve cioè avere una sufficiente “base legale”, che rispetti determinati requisiti di “qualità”, vale a dire sia accessibile, precisa e prevedibile nella sua applicazione. Tali requisiti qualitativi sono necessari, da un lato, per fornire un’adeguata protezione contro le interferenze arbitrarie e gli abusi delle Autorità e, dall’altro lato, per fare in modo che gli individui possano regolare adeguatamente la propria condotta, eventualmente con l’ausilio di un parere legale[15].
L’interpretazione della legge nazionale è tuttavia rimessa prioritariamente alle Autorità nazionali e in particolare ai giudici, che hanno il compito di interpretare e applicare la legge. Anche per la Corte EDU, infatti, essa deve prendere atto dell’interpretazione della legge da parte dei giudizi nazionali, riconoscendogli altresì la possibilità di una graduale precisazione dei concetti giuridici (salvo il limite della arbitrarietà[16]), dovendo solo verificare se la legge nazionale, come interpretata dalle Autorità nazionali, rispetti i diritti fondamentali tutelati dalla Convenzione.
Con specifico riguardo al livello della protezione dei “dati personali”, la Corte EDU richiede che la legge indichi lo scopo e la portata dei poteri conferiti alle Autorità competenti, comprese le modalità del loro esercizio e l’uso delle informazioni conservate. Ciò in quanto è uno dei principi basilari di una “società democratica” che i poteri discrezionali attribuiti alle Autorità non siano senza restrizioni[17]. Analogamente, anche il diritto dell’Unione richiede regole chiare e precise che disciplinino la portata e l’applicazione delle ingerenze nella protezione dei “dati personali”, imponendo requisiti minimi per assicurare garanzie sufficienti alle persone interessate contro il rischio di abusi, accessi e usi illeciti dei dati, soprattutto in caso di trattamenti automatizzati, sebbene la Corte di Giustizia riconduce l’esame di tali aspetti al principio di proporzionalità[18].
In secondo luogo, l’ingerenza deve essere giustificata da uno o più scopi legittimi, tra i quali, per la CEDU, rientra l’interesse alla tutela del benessere dell’economia nazionale, oltre all’interesse alla prevenzione e repressione dei reati e alla tutela dei terzi, mentre la Carta di Nizza richiede, in senso analogo, che i dati personali debbano essere trattati “per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge”.
Conseguentemente sono di norma giustificate le ingerenze (previste dalla legge) nella riservatezza e nella protezione dei “dati personali”, aventi rilevanza fiscale, al fine di verificare la compliance fiscale, l’efficienza dei controlli dell’Amministrazione finanziaria (che nella fasi preliminari non richiede necessariamente la sussistenza di sospetti nei confronti del soggetto verificato), lo scambio di informazioni fiscali tra Stati nonché la prevenzione e lotta all’evasione fiscale[19]. A questi interessi se possono essere altri, quale quello alla trasparenza e al controllo diffuso della spesa pubblica[20]. E’ stato pertanto sottolineato che «in tutti i sistemi fiscali i contribuenti debbono fornire le informazioni necessarie per permettere il calcolo delle impose»[21].
Infine, ogni ingerenza (prevista dalla legge e per uno o più scopi legittimi) deve essere altresì necessaria in una “società democratica”. A tal fine si deve esaminare la serietà delle ragioni a giustificazione dell’ingerenza nonché se essa sia diretta a soddisfare una esigenza sociale imperiosa e se sia proporzionata rispetto allo scopo perseguito[22].
Al tale riguardo, secondo la costante giurisprudenza della Corte di Lussemburgo, il principio di proporzionalità, che è parte integrante dei principi generali del diritto dell’Unione, esige che la misura sia idonea a realizzare l’obiettivo perseguito e che non vada oltre quanto sia strettamente necessario per raggiungerlo[23], specificando che «non può riconoscersi alcuna automatica prevalenza dell’obiettivo di trasparenza sul diritto alla protezione dei dati personali (v., in tal senso, sentenza Commissione/Bavarian Lager, cit., punti 75‑79), anche qualora siano coinvolti rilevanti interessi economici»[24].
Ai fini di tale valutazione, la Corte EDU riconosce agli Stati contraenti un diverso margine di apprezzamento a seconda della natura e della serietà degli interessi in gioco nonché della gravità dell’interferenza[25].
In tale prospettiva, i giudici di Strasburgo hanno riconosciuto un ampio margine di apprezzamento in caso di ingerenze concernenti dati puramente finanziari, in quanto non strettamente collegati alla identità del titolare degli stessi, a differenza di altri “dati personali” maggiormente collegati all’identità e all’esistenza della persona[26].
Ne consegue che la riservatezza della “vita privata” ovvero dei “dati personali” è generalmente superata dall’interesse erariale (diverso è il tema, che esula dal presente lavoro, della legittimità di eventuali sanzioni in caso di “silenzio” del contribuente nel corso di verifiche fiscali, che concerne segnatamente il diritto a non autoincriminarsi, tutelato dall’art. 6 CEDU).
Viceversa, le ingerenze nella vita privata “gravi”, in quanto riguardano dati (quali, la data, l’ora, la durata, i destinatari delle comunicazioni effettuate, i luoghi in cui tali comunicazioni sono avvenute o la frequenza delle stesse con determinate persone nel corso di un dato periodo[27]) dai quali è possibile trarre conclusioni precise sulla “vita privata” degli interessati, non sono giustificate dall’interesse di prevenire e perseguire i “reati in generale”[28], potendo essere invece giustificate solo dall’esigenza della lotta contro “reati gravi” (segnatamente, la criminalità organizzata, il terrorismo, gli abusi sessuali su minori)[29].
Tuttavia, in linea di principio, neppure la lotta ai “gravi reati” può autorizzare la conservazione automatica di tutti i “dati personali” di tutte le persone, senza alcuna distinzione, limitazione o eccezione in relazione all’obiettivo perseguito, permettendo alle Autorità il successivo accesso e uso dei dati in questione senza porre condizioni, rigorosamente ristrette e idonee a giustificare l’ingerenza[30]. Ciò, infatti, eccede lo stretto necessario, creando l’inaccettabile «sensazione che la […] vita privata sia oggetto di costante sorveglianza»[31].
Nel solco di tale orientamento, il Garante per la Protezione dei Dati Personali italiano ha più volte sottolineato che «un trattamento obbligatorio, generalizzato e di dettaglio di dati personali, anche ulteriori rispetto a quelli necessari a fini fiscali, relativo a ogni aspetto della vita quotidiana della totalità della popolazione, non appare proporzionato all’obiettivo di interesse pubblico, pur legittimo, perseguito» con la disciplina della fattura elettronica prevista dall’art. 1 del d.lgs. n. 127/2015, come modificata dall’art. 1, comma 909 della legge n. 205/2017[32].
Pertanto, «pur rilevando che l’integrale memorizzazione delle fatture prevista dall’impianto originario dell’Agenzia potrebbe apparire prima facie la soluzione più efficiente e rapida per dare attuazione al nuovo obbligo previsto dal legislatore», il Garante ha sottolineato che l’archiviazione integrale di tutte le fatture emesse e ricevute costituisce un «trattamento, sistematico e generalizzato, relativo a miliardi di fatture emesse e ricevute, e dei relativi allegati» manifestamente sproporzionato[33]. Infatti, «la previsione di un obbligo di memorizzazione (e potenzialmente di utilizzazione) di dati personali sproporzionato – per quantità e qualità delle informazioni – rispetto alle reali esigenze perseguite renderebbe […] la norma illegittima per contrasto con il principio di proporzionalità del trattamento dei dati», tenuto conto altresì che le «“deroghe e restrizioni” ai diritti fondamentali devono intervenire “entro i limiti dello stretto necessario” (cfr., ex plurimis, CGUE, C-362/14, Maximilian Schemes c. Data Protection Commisssioner [GC], 6 ottobre 2015»[34].
Inoltre, ai fini della valutazione della proporzionalità dell’ingerenza nella “vita privata”, è in genere fondamentale la sussistenza e la disponibilità di adeguate ed effettive garanzie contro i possibili arbitri e abusi, volti a evitare che i poteri discrezionali delle Autorità non siano senza limiti[35].
A tal fine, pur non essendo prescritta alcuna informativa nei confronti del contribuente nella fase delle indagini, al fine di non frustrare l’efficacia di quest’ultime[36], la Corte EDU richiede generalmente, salvo casi di urgenza, un’autorizzazione preventiva da parte di un giudice o un’Autorità indipendente[37], che tuttavia può anche mancare ed essere sostituita da un controllo giudiziale successivo, laddove, in ragione delle circostanze del caso concreto, vi siano effettive e adeguate salvaguardie[38], anche in ordine a una adeguata “selezione” dei dati trattati[39].
Detto controllo giudiziale successivo non può, tuttavia, limitarsi alla possibilità di stabilire un risarcimento dei danni per l’ingerenza nella “vita privata”, essendo invece richiesto un effettivo controllo in merito alla sussistenza delle condizioni di legittimità della ingerenza[40], che sia altresì in grado di assicurare una riparazione adeguata in favore dell’interessato in caso di violazioni. Pertanto, ferma l’autonomia degli Stati in ordine alla disciplina delle prove, l’esigenza di assicurare una riparazione adeguata può richiedere, anche in ragione delle circostanze del caso concreto, l’inutilizzabilità dei dati trattati illegittimamente dalle Autorità, analogamente a quanto sancito dalla Corte EDU con riguardo agli elementi di prova raccolti a seguito di una perquisizione domiciliare illegittima, per violazione delle garanzie di cui all’art. 8 della CEDU[41].
Inoltre, l’art. 8, par. 3 della Carta di Nizza stabilisce espressamente, da canto suo, che le garanzie previste in materia di protezione dei “dati personali” siano soggette al controllo di un’“autorità indipendente”, da intendersi un giudice o un’entità amministrativa indipendente.
L’indipendenza dell’Autorità deputata al controllo è funzionale ad assicurare l’efficacia e l’affidabilità del controllo medesimo, con la conseguenza che tale requisito è un elemento essenziale per rispettare sia la tutela delle persone con riguardo al trattamento dei “dati personali”, sia il principio dello Stato di diritto[42].
Pertanto, affinché le Autorità nazionali possano accedere ai dati conservati da soggetti privati, la legge nazionale deve prevedere con sufficiente precisione le condizioni sostanziali e procedurali che disciplinano tale accesso e l’utilizzo da parte delle Autorità[43].
In particolare, al fine di garantire effettivamente la tutela ai diritti fondamentali in esame, soprattutto in caso di gravi ingerenze, in presenza dati “sensibili” e nell’ambito della prevenzione e accertamento dei reati, il controllo in questione, da effettuarsi da parte di un’Autorità indipendente, deve essere preventivo (salvo giustificate urgenze), sulla base di una richiesta motivata delle Autorità procedenti[44].
L’indipendenza dell’Autorità comporta non solo che essa deve essere al riparo da qualsiasi influenza esterna, ma anche che deve essere neutrale rispetto alle parti coinvolte e, quindi, non deve essere coinvolta nella conduzione dell’indagini. Ne deriva che il Pubblico Ministero, in quanto Autorità deputata a dirigere l’indagine e a esercitare l’azione penale sulla base delle prove eventualmente raccolte, non è una “autorità indipendente” ai fini del controllo delle condizioni sostanziali e procedurali per l’accesso e l’utilizzo dei “dati personali” da parte delle Autorità[45].
Infine, in caso di violazione delle prerogative della tutela della “vita privata” e della protezione dei “dati personali” in particolare, la Corte di Giustizia ha ritenuto che, in virtù del principio dell’autonomia procedurale, spetti in linea di principio al diritto nazionale stabilire le regole relative all’ammissibilità e alla valutazione degli elementi di prova eventualmente ottenuti, nei limiti del rispetto dei principi di equivalenza ed effettività del diritto dell’Unione[46]. Tuttavia, per il principio di effettività, il giudice nazionale deve valutare la necessità della esclusione degli elementi di prova eventualmente ottenuti, laddove il loro utilizzo comporterebbe il rischio di compromettere i principi del contraddittorio e del giusto processo[47] (il quale, è bene sottolinearlo, per il diritto dell’Unione riguarda anche la materia tributaria in senso stretto, ossia l’accertamento dell’obbligazione tributaria, non essendo prevista alcuna limitazione in tal senso nell’art. 47 della Carta di Nizza).
4. La posizione della Corte Costituzionale
I principi sopra illustrati, soprattutto in relazione al bilanciamento tra il diritto alla riservatezza e alla protezione dei “dati personali” e i contrapposti interessi generali, sono stati oggetto di analisi e condivisione anche da parte della Corte Costituzionale.
Infatti, con la sentenza n. 20/2019, la Corte Costituzionale ha analizzato il bilanciamento tra il diritto costituzionalmente tutelato alla riservatezza dei “dati personali” (i cui riferimenti sono ravvisati negli artt. 2, 14, 15 Cost.) e il diritto dei cittadini al libero accesso ai dati e alle informazioni detenute dalla P.A., che discende dai principi di pubblicità e trasparenza e buon funzionamento dell’amministrazione (artt. 1 e 97 Cost.).
A tal proposito la Consulta ha applicato in modo esemplare il principio di proporzionalità di matrice europea, sottolineando che il giudizio di ragionevolezza sulle scelte legislative si avvale del c.d. “test di proporzionalità”, che «richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi»[48].
Con specifico riguardo alla rilevanza della protezione della riservatezza dei “dati personali”, la Corte Costituzionale ha dato atto che la Corte di Giustizia ha ripetutamente affermato che le esigenze di controllo democratico non possono travolgere il diritto fondamentale alla riservatezza delle persone fisiche, dovendo sempre essere rispettato il principio di proporzionalità, definito cardine della tutela dei “dati personali”. Pertanto, le deroghe e limitazioni alla protezione dei “dati personali” devono operare «nei limiti dello stretto necessario, e prima di ricorrervi occorre ipotizzare misure che determinino la minor lesione, per le persone fisiche, del suddetto diritto fondamentale e che, nel contempo, contribuiscano in maniera efficace al raggiungimento dei confliggenti obiettivi» legittimamente perseguiti. Il tutto, fermo restando che, come precisato dalla giurisprudenza europea, non può riconoscersi alcuna automatica prevalenza dell’obiettivo di trasparenza sul diritto alla protezione dei “dati personali”.
Ai fini del giudizio di proporzionalità rilevano i principi di base che governano il trattamento dei “dati personali” sanciti dall’art. 5, comma 1 del regolamento GDPR (con norma sostanzialmente sovrapponibile a quella dell’art. 6 della previgente direttiva 95/46/CE), e, tra di essi, assumono particolare rilievo quelli afferenti la limitazione della finalità del trattamento (lettera b) e la “minimizzazione dei dati”, che si traduce nella necessità di acquisizione di dati adeguati, pertinenti e limitati a quanto strettamente necessario alla finalità del trattamento (lettera c).
Muovendo da tali presupposti, la Consulta ha ravvisato il rispetto del principio di proporzionalità in presenza di una “connessione funzionale” tra i dati oggetto di pubblicazione ai sensi dell’art. 14 del d.lgs. n. 33/2013 e l’incarico affidato ai dirigenti; laddove tale connessione manchi, infatti, non si verrebbe a soddisfare legittime esigenze di controllo diffuso sulla gestione della cosa pubblica, ma solamente la c.d. “sete di informazioni sulla vita privata”, che la Corte EDU ha chiarito essere inidonea a far prevalere sul diritto alla riservatezza della vita privata l’interesse all’accesso a “dati personali” per fini di interesse pubblico[49].
Di conseguenza, con la sentenza in esame, la Consulta ha ritenuto che fosse rispettato il principio di proporzionalità in relazione all’obbligo imposto a ciascun titolare di incarico dirigenziale di pubblicare i dati relativi ai compensi di qualsiasi natura connessi all’assunzione della carica, nonché gli importi di viaggi di servizio e missioni pagati con fondi pubblici (art. 14, comma 1, lett. c, del d.lgs. n. 33/2013) in quanto funzionale a consentire, in forma diffusa, il controllo sull’impiego delle risorse pubbliche; viceversa, è stato accertato che non rispetta il “test di proporzionalità” la generalizzata pubblicazione di dichiarazioni e attestazioni contenenti dati reddituali e patrimoniali dei dirigenti e dei più stretti congiunti, ulteriori rispetto alle retribuzioni e ai compensi connessi alla prestazione dirigenziale (art. 14, comma 1, lett. f, del d.lgs. n. 33/2013), in quanto non necessariamente e direttamente connessi con l’espletamento dell’incarico affidato.
5. Considerazioni conclusive in ordine ai profili di contrasto tra i principi europei e la disciplina fiscale nazionale
Dall’esaminato caso L.B. contro Ungheria così come dai principi sopra illustrati ed affermati dalla Corte EDU e dalla Corte di Giustizia, recepiti anche dalla Corte Costituzionale, si evince che, nell’ambito del rapporto tra fisco e contribuente, non è certamente possibile invocare la riservatezza quale “scudo” contro i controlli della Amministrazione finanziaria, certamente necessari in qualsiasi “società democratica”, e, più in generale, contro le diverse possibili ingerenze giustificate da rilevanti esigenze o interessi fiscali.
Ciò non deve tuttavia far ritenere che i diritti fondamentali della riservatezza della “vita privata” e della protezione dei “dati personali” siano sempre soccombenti nei confronti degli interessi erariali, per quanto rilevanti e meritevoli di attenzione.
Non si deve, dunque, cadere nella tentazione – rectius, nell’errore – di legittimare, in nome della lotta all’evasione, raccolte e trattamenti di “dati personali” che si dimostrino indiscriminati ed eccessivamente pervasivi, finendo per oltrepassare lo scopo del trattamento, considerato il principio consolidato secondo cui le deroghe e restrizioni ai diritti fondamentali - quale quello alla riservatezza e alla protezione dei “dati personali” - debbano intervenire entro i limiti dello stretto necessario, ossia nel rispetto dei principi di pertinenza, adeguatezza e minimizzazione dei dati (art. 5 del GDPR).
Deve, pertanto, escludersi che l’interesse fiscale possa legittimare eventuali trattamenti generalizzati, indistinti, illimitati, incondizionati e automatici dei “dati personali” dei contribuenti, che sarebbero all’evidenza sproporzionati in una “società democratica” e incompatibili con le garanzie assicurate dagli artt. 8 CEDU e 7 e 8 Carta di Nizza, come si evince dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia sorta con il caso Digital Rights e poi costantemente ribadita (cfr., in particolare, i casi Tele2 Sveringe, La Quadrature e H.K.).
Infatti, seppure il trattamento dei dati finanziari in quanto tali non costituisca una ingerenza grave nella “vita privata”, a conclusioni diverse si dovrebbe giungere in caso di profilazione massiva, indiscriminata e continua dei contribuenti, mediante l’utilizzo dell’intelligenza artificiale e la costante analisi incrociata delle numerose banche dati possedute dall’Amministrazione finanziaria, a cui si è aggiunta da ultimo la fattura elettronica. Ciò in quanto esaminando, ad esempio, gli acquisti dei contribuenti - sotto i diversi profili del “cosa”, “quando” e “quanto” acquistato nonché del “dove” - si possono trarre conclusioni di una certa precisione sulle abitudini e sullo stile di vita della persona, vale a dire conclusioni precise in ordine alla “vita privata” dei singoli contribuenti. In altre parole, si potrebbe realizzare una situazione non molto diversa rispetto a quella del trattamento dei dati del “traffico” delle telecomunicazioni (escluso il relativo contenuto), che ha caratterizzato il caso Digital Rights e le sentenze successive in materia, che secondo la Corte di Giustizia realizza un’ingerenza “grave” nella vita privata, non ammissibile in una “società democratica”, se non in presenza di rigorose condizioni.
Pertanto, una simile sorveglianza di massa, generalizzata, costante e indiscriminata, anche se effettuata dall’Amministrazione finanziaria al fine di prevenire e contrastare l’evasione fiscale, verrebbe a creare una società di tipo “orwelliano”, in cui l’individuo sarebbe costantemente sotto il controllo delle Autorità e ciò non è accettabile e giustificabile neppure per prevenire e reprimere i “gravi reati” (quali la criminalità organizzata, il terrorismo o gli abusi sessuali sui minori) e, dunque, a fortiori non è giustificato nemmeno dall’interesse alla lotta all’evasione fiscale, che del resto è difficilmente sussumibile nell’alveo dei “gravi reati”.
Deve essere dunque valutata positivamente l’attenzione posta dal Garante per la Protezione dei Dati Personali, quale autorità indipendente ai sensi dell’art. 8 della Carta di Nizza, alla istituzione e al continuo sviluppo della disciplina della fattura elettronica, il quale, da ultimo nel 2020, ha espresso nuovamente parere negativo alla memorizzazione integrale, per sostanzialmente nove anni, dei file delle fatture elettroniche, al fine di svolgere le diverse attività di analisi del rischio e di controllo fiscale, come previsto dall’art. 14 del d.l. n. 124/2019.
Altrettanta attenzione deve essere rivolta anche con riguardo alle altre forme di trattamento di “dati personali” dei contribuenti, contenuti nelle numerose banche dati del Fisco, e propedeutici agli accertamenti fiscali.
In proposito, già in passato il Garante ha rilevato criticità nel bilanciamento tra l’interesse generale alla lotta contro l’evasione fiscale e il diritto alla riservatezza della “vita privata” dei contribuenti in relazione alla disciplina del c.d. “spesometro”, come riformata dal d.m. 24 dicembre 2012. Infatti, con il parere del 21 novembre 2013, il Garante ha inibito l’Agenzia delle Entrate a utilizzare le spese medie ISTAT per ricostruire voci di spesa non connesse a elementi certi, riducendo notevolmente le ipotesi di scostamento che potessero legittimare l’emanazione di un atto impositivo mediante l’utilizzo dello strumento di accertamento in parola. Le indicazioni del Garante sono state, poi, recepite dapprima dall’Agenzia delle Entrate con la circolare 11 marzo 2014, n. 6/E e, poi, dal decreto ministeriale 16 settembre 2015, che ha eliminato definitivamente il riferimento alle spese medie ISTAT ai fini della determinazione del reddito complessivo determinato mediante lo strumento dello “spesometro”[50].
Particolare attenzione deve essere rivolta pure alle procedure di scambio di informazioni tra Stati, soprattutto automatici e con paesi extra-U.E.[51]
A tale riguardo si pongono i problemi del rispetto delle finalità del trattamento e dei limiti all’utilizzo dei dati ricevuti da parte dello Stato estero, che comportano il rischio che sia oltrepassata la finalità dell’originaria trasmissione prevista dalla legge. A ciò si aggiunge il tema dell’eventuale successivo ritrasferimento dei dati medesimi a Stati extra-U.E., che potrebbero non rispettare standard di tutela dei diritti fondamentali compatibili con quelli assicurati dal GDPR, come dichiarato dalla Corte di Giustizia nei casi Schrems e Schems II, concernenti il potenziale utilizzo da parte delle Autorità statunitensi dei “dati personali” trasferiti e conservati negli Stati Uniti da Facebook Ireland Ltd. [52]
In tale contesto, del tutto peculiare è il caso in cui, a seguito di scambi automatici di informazioni, uno Stato riceva “dati personali” che lo Stato che li ha trasmessi ha raccolto in modo illegittimo o comunque a seguito di atti illeciti di terzi, come nel noto caso della c.d. “lista Falciani”.
In proposito, gli artt. 8 della CEDU e 7 e 8 della Carta di Nizza, non imponendo il riconoscimento della “fruit of the poisonous tree doctrine” (cioè, la dottrina del frutto dell’albero “avvelenante”, che rende inutilizzabili i frutti – vale a dire le prove - che da esso provengono), non sembrano impedire l’utilizzo di tali dati da parte delle Autorità dello Stato ricevente, a cui non è imputabile la violazione della riservatezza del contribuente interessato. Analogamente, anche in un’ottica di bilanciamento tra contrapposti interessi, fintanto che le Autorità dello Stato ricevente non siano responsabili di alcuna violazione dei presupposti sostanziali o processuali che legittimano il trattamento dei dati ricevuti, sembra prevalente l’interesse di tale Stato a utilizzare i dati ricevuti per contrastare l’evasione fiscale rispetto al contrapposto diritto alla riservatezza del contribuente (salvo ovviamente il suo diritto a una efficacia tutela nei confronti dello Stato a cui è imputabile la violazione). E’ pertanto condivisibile la consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione in ordine all’utilizzabilità, da parte delle Autorità fiscali italiane, della “lista Falciani”, così come delle altre liste che si sono susseguite nel tempo[53].
Con riguardo, invece, alle circoscritte e mirate ingerenze nella “vita private” e nella protezione dei “dati personali” giustificate dall’esigenza di controlli tributari puntuali, sussiste l’esigenza che la legge nazionale preveda con sufficiente precisione adeguate condizioni sostanziali e procedurali, compreso il controllo da parte di una Autorità indipendente, per legittimare l’ingerenza delle Autorità fiscali nella sfera di riservatezza del contribuente, al fine di assicurare una efficace protezione dei diritti fondamentali di matrice europea contro il rischio di comportamenti illegittimi e di abusi delle Autorità.
Si pensi alla disciplina degli accertamenti bancari prevista dall’art. 51, comma 2, n. 7) del d.p.r. n. 633/1972 in materia Iva e dall’art. 32, comma 1, n. 7) del d.p.r. n. 600/1973 ai fini delle imposte dirette, in relazione ai quali la legge richiede - soltanto - la “previa autorizzazione del direttore centrale dell’accertamento dell’Agenzia delle entrate o del direttore regionale della stessa, ovvero, per il Corpo della guardia di finanza, del comandante regionale”.
I vertici centrali o locali dell’Agenzia delle Entrate e/o della Guardia di Finanza non sembrano soddisfare il requisito di “indipendenza” richiesto dalla Corte di Giustizia con il caso H.K., poiché non sono certamente Autorità neutrali rispetto alle parti contrapposte, essendo interessate ai risultati delle relative indagini. Ciò comporta che l’attuale disciplina dei controlli bancari (anche ai fini delle imposte dirette, in ragione dell’attribuzione all’Unione della materia della protezione dei “dati personali” ai sensi dell’art. 16 del TFUE) presenta rilevanti dubbi di compatibilità con le garanzie europee[54].
Un secondo profilo di attrito della disciplina degli accertamenti bancari con le garanzie europee concerne il consolidato orientamento della Corte di Cassazione[55], secondo cui un accertamento basato sulle risultanze delle movimentazioni bancarie sarebbe legittimo anche se effettuato in assenza della suddetta autorizzazione, sebbene prescritta dalla legge, in quanto questa esplicherebbe una funzione organizzativa incidente esclusivamente nei rapporti tra uffici, salvo che tale omissione abbia prodotto un concreto pregiudizio per il contribuente, secondo la concezione sostanzialistica dell’interesse del privato alla legittimità del provvedimento amministrativo prevista dall’art. 21-octies della legge n. 241/1990, dunque diversa dal mancato rilascio della autorizzazione, ovvero venga in discussione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale del contribuente, come l’inviolabilità della libertà personale o del domicilio (tra cui, evidentemente, a giudizio della Cassazione, non è ricompresa la protezione dei “dati personali”, con buona pace degli artt. 2, 14 e 15 Cost. nonché dell’art. 117 Cost.).
Tale orientamento rende, dunque, ancora più evanescente, apparente e illusorio il controllo preventivo da parte delle Autorità preposte, tanto che potrebbe addirittura mancare, svilendo pure il controllo giurisdizionale successivo, posto che la mancata autorizzazione è considerata irrilevante[56]. Ciò dimostra una evidente carenza di garanzie procedurali previste dalla legge; il tutto ulteriormente aggravato dall’assenza di specifiche condizioni sostanziali per l’accesso ai dati bancari, essendo la relativa scelta rimessa all’esclusiva e indiscriminata discrezionalità degli organi procedenti. Infatti, il diritto alla protezione della riservatezza risulta violato laddove l’ordinamento nazionale riconosca alle Autorità preposte poteri eccessivamente ampi e discrezionali in merito alla valutazione dell’opportunità della misura che incide sulla riservatezza, al numero delle ingerenze, alla loro ampiezza e lunghezza temporale nonché al rapporto con altre misure istruttorie alternative e meno lesive dei diritti dell’interessato[57].
Ciò comporta che la legge nazionale in materia sembra essere priva di quelle garanzie necessarie per proteggere effettivamente i contribuenti da eventuali abusi o arbitri delle Autorità, con la conseguente inadeguatezza “qualitativa” della relativa “base legale”, che risulta quindi inidonea a legittimare l’ingerenza, secondo la giurisprudenza della Corte EDU, ovvero a soddisfare il principio di proporzionalità, per la Corte di Giustizia.
Dette “frizioni” con le prerogative europee della riservatezza non sono superabili con la mera possibilità di conseguire un risarcimento del danno subito per l’illegittima ingerenza nella “vita privata” (per altro di difficile, se non impossibile quantificazione). Ne consegue che, sul piano processuale, si deve valutare l’inutilizzabilità quali prove dei dati così recepiti, estendendo anche alla protezione dei “dati personali” l’orientamento giurisprudenziale in ordine alla inutilizzabilità delle prove reperite in occasione di perquisizione domiciliare illegittima[58]. Ciò per la necessità di assicurare una riparazione adeguata per l’interessato nonché l’effettività dei diritti fondamentali di fonte europea nei confronti delle Autorità, che altrimenti sarebbe totalmente frustrata.
Ciò induce a ritenere che debbano essere riesaminate, in chiave critica, molteplici posizioni della Corte di Cassazione, che tende a “svalutare” la rilevanza delle condizioni sostanziali e procedurali previste per l’utilizzo di strumenti di accertamento e/o per trattamenti dati che comportano un’ingerenza nel rispetto dei diritti garantiti dall’art. 8 della CEDU e dagli artt. 7 e 8 della Carta di Nizza, al fine strumentale di escludere che la loro eventuale violazione avrebbe conseguenze sulla legittimità dell’ingerenza e, in definitiva, sull’utilizzabilità degli elementi di prova in tal modo reperiti[59].
Infine, riconducendo le materie della protezione dei “dati personali” e della loro libera circolazione nell’ambito delle competenze dell’Unione in virtù dell’art. 16 TFUE, si avrebbero ulteriori rilevanti conseguenze anche sul profilo dei diritti di difesa del contribuente. Infatti, in tale prospettiva, anche gli accertamenti bancari in materia di imposte dirette presentano quel “collegamento” con il diritto dell’Unione che legittimerebbe il riconoscimento del contraddittorio preventivo di cui all’art. 41 della Carta di Nizza, superando la discutibile giurisprudenza della Cassazione in ordine al relativo riconoscimento solo a “macchia di leopardo”, a seconda che il tributo sia “armonizzato” o meno[60].
[1] Cfr. Corte di Giustizia, Satakunnan Markkinapörssi e Satamedia, C‑73/07, p. 37, e Corte EDU, Satakunnan Markkinapörssi e Satamedia c. Finlandia [GC], 27 giugno 2017, n. 931/13, § 198.
[2] Cfr. Corte EDU, 8 novembre 2016, Magyar c. Ungheria, n. 18030/2011, §§ 161 e 162.
[3] Cfr. Corte EDU, Satakunnan Markkinapörssi, cit., §§ 129 e 133; G.S.B. c. Svizzera, 22 marzo 2016, n. 28601/11, §§ 89 e 90; Othymia Investments Bv c. Paesi Bassi, dec. 16 giugno 2015, n. 75292/10, § 37; dec. F.S. c. Germania, 27 novembre 1996, n. 30128/96; Comm. dec. Lundvall c. Svezia, 1° dicembre 1985, n. 10473/83.
[4] Cfr. Corte EDU, M.N. e altri c. San Marino, 7 giugno 2015, n. 28005/12, §§ 51 e 54.
[5] Cfr. Corte EDU, Bernh Larsen Holding e altri c. Norvegia, 8 luglio 2013, n. 24117/08, §§ 105 e 106.
[6] Cfr. Corte EDU, Copland c. Regno Unito, 3 aprile 2007, n. 62617/00, § 44.
[7] Cfr. Corte di Giustizia, Satakunnan Markkinapörssi, cit., p. 35; Bara, C-201/14, § 29; Puškár, C- 73/16, pp. 34, 38, 39 e 41.
[8] Cfr. Corte di Giustizia, Österreichischer Rundfunk e altri, C‑465/00, C‑138/01 e C‑139/01, p. 64; Huber, C‑524/06, p. 4. Più in generale, sulla conservazione di “dati personali” e l’accesso da parte delle Autorità pubbliche per il loro utilizzo cfr. Corte di Giustizia, Schrems II, C-311/18 [GS], p. 171.
[9] Cfr. il dodicesimo considerando del Regolamento U.E. 2016/679 (GDPR), secondo cui «L’articolo 16, paragrafo 2, TFUE conferisce al Parlamento europeo e al Consiglio il mandato di stabilire le norme relative alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati di carattere personale e le norme relative alla libera circolazione di tali dati».
[10] Esula dal presente scritto l’esame della disciplina del GDPR, che comunque, quale norma di diritto derivato, recepisce i principi fondamentali desumibili dall’art. 8 della Carta di Nizza.
[11] Cfr. Corte EDU, 28 novembre 2017, Antović e Mirković c. Montenegro, n. 70838/13, §§ 41 e 42; M.N., cit., § 54, nonché, per l’assimilazione dei locali professionali o commerciali al domicilio, Bernh Larsen Holding, cit., § 104; André e altri c. Francia, 24 luglio 2008, n. 18603/03, § 36; Sallinen e altri c. Finlandia, 27 settembre 2005, n. 50882/99, § 70; Niemietz c. Germania, 16 dicembre 1992, n. 13710/88, §§ 30 e 31; Marckx c. Belgio, 13 giugno 1979, § 31; Corte di Giustizia, Schecke e altri, C‑92/09 e C‑93/09, p. 59; Österreichischer Rundfunk, pp. 73 e 74.
[12] Cfr. Corte EDU, Satakunnan Markkinapörssi, cit., 150; Bosphorus Hava Yollari Turizm ve Ticaret Anonim Şirketi c. Irlanda, 30 giugno 2005 [CG], n. 45036/98, § 164.
[13] Cfr. Corte di Giustizia, Schecke, cit., p. 52; Schrems II, C-311/18, p. 98.
[14] Cfr. Corte di Giustizia, Schrems, C‑362/14, p. 38; Google Spain, C‑131/12, p. 68.
[15] Cfr. Corte EDU, M.N., cit., § 72; Bernh Larsen Holding, cit., § 123; Corte di Giustizia, Österreichischer Rundfunk, cit., p. 77; Corte Giustizia, Schrems II, cit., pp. 174 e 175; La Quadrature du Net e altri, C-511/18, C-512/18 e C-520/18, p. 132; Schrems, cit., 91; Digital Rights Ireland e altri, C‑293/12 e C‑594/12, pp. 54 e 55.
[16] Cfr. Corte EDU, G.S.B., cit., § 72.
[17] Cfr. Corte EDU, G.S.B., cit., § 68; Gillan e Quinton c. Regno Unito, 12 gennaio 2010, n. 4158/05, § 77.
[18] Cfr. Corte di Giustizia, H.K., C-746/18 [GS], p. 48; La Quadrature du Net, cit., p. 132; Tele2 Sverige e altri, C‑203/15 e C‑698/15, pp. 117 e 118; Digital Rights, cit., pp. 54 e 55.
[19] Cfr. Corte EDU, G.S.B., cit., § 83; Othymia Investments, cit., §§ 41 e 44; Bernh Larsen Holding, cit., §§ 130 e 135; Andrè, cit., 39; dec. F.S., cit.; Corte di Giustizia, Puškár, cit., pp. 106 e 108.
[20] Cfr. Corte di Giustizia, Schecke, cit., p. 71; Österreichischer Rundfunk, p. 81.
[21] Cfr. Comm. EDU dec. J.Z. c. Francia, 4 dicembre 1989, n. 12846/87.
[22] Cfr. Corte EDU, Satakunnan Markkinapörssi, cit., 164; cfr. Corte di Giustizia, Österreichischer Rundfunk, cit., p. 90.
[23] Cfr. Corte di Giustizia, H.K., cit., p. 38; La Quadrature du Net, cit., p. 130; Puškár, cit., p. 112; Tele2 Sverige, cit., p. 96; Digital Rights, cit., pp. 47 e 52.
[24] Cfr. Corte di Giustizia, Schecke, cit., pp. 74 e 85, che ha ritenuto che la pubblicazione dei nomi di tutte le persone fisiche beneficiarie di aiuti per l’agricoltura, con i relativi importi precisi, superi i limiti imposti dal rispetto del principio di proporzionalità, a differenza dell’analoga pubblicazione dei dati indentificativi delle persone giuridiche.
[25] Cfr. Corte EDU, Bernh Larsen Holding, cit., §§ 130 e 135.
[26] Cfr. Corte EDU, G.S.B., cit., § 93 nonché L.B. c. Ungheria, cit., § 58.
[27] Cfr. Corte di Giustizia, H.K., cit., pp. 34 e 40.
[28] Cfr. Corte di Giustizia, Ministerio Fiscal, C‑207/16, p. 57; La Quadrature du Net, cit., p. 140.
[29] Cfr. Corte di Giustizia, H.K., cit., pp. 33 e 35; La Quadrature du Net, cit., p. 146; Tele2 Sverige, cit., p. 102; Digital Rights, cit., p. 60.
[30] Cfr. Corte Giustizia, La Quadrature du Net, cit., p. 141; Schrems, cit., p. 93; Tele2 Sverige, cit., pp. 103 e 107; Digital Rights Ireland, cit., pp. 39, 57 a 61, in cui si è negato che le Autorità possano accedere in maniera generalizzata a una vasta gamma di dati del traffico delle comunicazioni elettroniche (anche se non al relativo contenuto) per finalità di prevenzione e/o repressione di “gravi reati”.
[31] Cfr. Corte di Giustizia, Tele2 Sverige, cit., p. 100; Digital Rights, cit., p. 37.
[32] Cfr. Garante per la Protezione dei Dati Personali, provvedimento n. 481 del 15 novembre 2018.
[33] Cfr. Garante per la Protezione dei Dati Personali, provvedimento n. 511 del 20 dicembre 2018, nel quale è stato altresì sottolineato che: a) ai fini dei controlli automatizzati, nonché per finalità di assistenza e controllo finalizzato all’erogazione dei rimborsi Iva e alla predisposizione della dichiarazione dei redditi e dell’Iva, «nel rispetto del principio di minimizzazione, tra i dati utilizzabili per i controlli automatizzati non può rientrare il campo del file XML contenente la descrizione dell’operazione oggetto di fattura»; b) «ai fini dei controlli puntuali, che possono richiedere l’esame analitico delle fatture», anche in considerazione del numero limitato di tali controlli, «un’archiviazione integrale di tutte le fatture emesse e ricevute per l’esecuzione di controlli puntuali nell’ambito di accertamenti fiscali e verifiche, anche da parte della Guardia di Finanza, […] risulta, quindi, sproporzionata».
[34] Cfr. Garante per la Protezione dei Dati Personali, memoria sul disegno di legge C.2220, di conversione in legge del decreto-legge n. 124 del 2019. Nello stesso senso cfr. Garante per la Protezione dei Dati Personali, provvedimento n. 133 del 9 luglio 2020, con il quale è stato espresso parere negativo alla memorizzazione integrale, per nove anni, dei file delle fatture elettroniche per le diverse attività di analisi del rischio e di controllo a fini fiscali, previsto dall’art. 14 del d.l. n. 124/2019.
[35] Cfr. Corte EDU, M.N., cit., § § 73 e 80; Funke c. Francia, 25 febbraio 1993, n. 10828/84, § 56; Crémieux c. Francia, 25 febbraio 1993, n. 11471/85, § 39; Miailhe c. Francia, 25 febbraio 1993, n. 12661/87, § 37; Huvig c. Francia, 24 aprile 1990, n. 11105/84, § 34; Corte di Giustizia, Schrems II, cit., pp. 176.
[36] Cfr. Corte EDU, Othymia Investments, §§ 43 e 44; Corte di Giustizia, Berlioz Investment Fund SA, C‑682/15, pp. 46 e 94, Sabou, C-276/12, p. 41 e art. 23 GDPR.
[37] Cfr. Corte EDU, Funke, cit., § 57; Crémieux, cit., § 39; Miailhe, cit. § 37.
[38] Cfr. Corte EDU, Bernh Larsen Holding, cit., § 172.
[39] Cfr. Corte EDU, Zakharov c. Russia, 4 dicembre 2015, n. 47143/06, § 260; Corte di Giustizia, La Quadrature du Net, cit., p. 133; Tele2 Sverige, cit., pp. 111 e 119.
[40] Cfr. Corte EDU, M.N., cit., § 81.
[41] Cfr. Corte EDU, Trabajo Rueda c. Spagna, 30 maggio 2017, n. 32600/12, § 37; Uzun c. Germania, n. 35623/05, §§ 71 e 72; Panarisi c. Italia, 10 aprile 2007, n. 46794/99, §§ 76 e 77.
[42] Cfr. Corte Giustizia, Schrems II, cit., p. 187; Schrems, cit., pp. 41 e 95.
[43] Cfr. Corte di Giustizia, H.K., cit., p. 49; Privacy International, C-623/17, p. 77, La Quadrature du Net, cit. p. 176.
[44] Cfr. Corte di Giustizia, H.K., cit., pp. 40 e 53; La Quadrature du Net, cit., 51; Tele2 Sverige, cit., p. 120.
[45] Cfr. Corte di Giustizia, H.K., cit., pp. 54 - 56.
[46] Corte di Giustizia, H.K., cit., p. 42; La Quadrature du Net, cit., p. 223.
[47] Corte di Giustizia, H.K., cit., p. 44; La Quadrature du Net, cit., p. 226.
[48] In tal senso cfr. anche Corte Cost., n. 137/2018; Corte Cost., n. 272/2016; Corte Cost. n. 23/2015; Corte Cost., 162/2014; Corte Cost., n. 1/2014.
[49] Cfr. Corte EDU, Magyar, cit., §§ 161 e 162.
[50] Inoltre, l’esigenza di tutelare i dati sensibili, quali quelli afferenti la salute delle persone, ha indotto il Garante ha rispondere in senso positivo al quesito relativo alla necessità per un medico, sottoposto a verifica fiscale, di acquisire il consenso scritto del paziente per comunicare all’Amministrazione finanziaria le prestazioni mediche eseguite nei suoi confronti; il consenso non è, invece, necessario se le Autorità fiscali vengano ad “apprendere” direttamente i dati in questione (cfr. provvedimento 31 dicembre 1998).
[51] Tali procedure sono state, infatti, oggetto di attenzione del Comitato Consultivo della Convenzione n. 108, che in materia ha espresso la “Opinion on the implications for data protection of mechanisms for automatic inter-state exchanges of data for administrative and tax purposes”del 4 giugno 2014 nonché più volte del Garante per la Protezione dei Dati Personali, con i pareri n. 411 dell’8 luglio 2015, n. 438 del 23 luglio 2015, n. 661 del 17 dicembre 2015, n. 289 del 7 luglio 2016 e n. 283 del 22 giugno 2017.
[52] L’art. 49, par. 1, lett. d) del GDPR legittima il trasferimento di dati verso paesi terzi anche in assenza di una decisione di adeguatezza o adeguate salvaguardie, se ciò “sia necessario per importanti motivi di interesse pubblico”, come ad esempio - chiarisce il considerando 112 - «nel caso di scambio internazionale di dati tra autorità garanti della concorrenza, amministrazioni fiscali o doganali». Tuttavia, l’art. 49 citato specifica che siffatto trasferimento è “ammesso soltanto se non è ripetitivo, riguarda un numero limitato di interessati, è necessario per il perseguimento degli interessi legittimi”. Inoltre, il Comitato Consultivo della Convenzione n. 108, con la citata opinione del 2014, ha sottolineato che deve essere evitato il trasferimento di massa di informazioni personali e sensibili a paesi senza un livello di protezione adeguato e che non possono esserci trasferimenti successivi da parte dell’Autorità richiedente a un’altra Autorità stabilita in un paese terzo, a meno che l’Autorità di trasmissione non lo abbia autorizzato. Dunque, anche in questo settore non sono ammessi trasferimenti di massa, strutturali e indiscriminati.
[53] Cfr., per tutte, Cass. n. 8605/2015; Cass. n. 8606/2015; Cass. n. 16950/2015. Dubbi sussistono invece in ordine al valore probatorio di tali liste, in assenza di alcun riscontro circa la loro attendibilità, considerata l’origine “opaca” delle stesse.
[54] Analoghe considerazioni rilevano anche in relazione alla disciplina dell’accesso presso i locali del contribuente ex art. 52 del d.p.r. n. 633/1972, compresi gli accessi presso le abitazioni, in cui l’autorizzazione deve essere concessa (non più dal “capo ufficio”) bensì dal Procuratore della Repubblica. Infatti, come chiarito dalla Corte di Giustizia nel caso H.K., il Pubblico Ministero difetta di indipendenza, per essere il soggetto deputato a utilizzare in sede penale le eventuali prove così reperite.
[55] Cfr., tra le tante, Cass. n. 7538/2021; Cass. n. 4745/2021; Cass. n. 4310/2021; Cass. n. 3440/2021; Cass. n. 30786/2018; Cass. n. 13353/2018; Cass. n. 9480/2018; Cass. n. 3628/2017; Cass. n. 10675/2010; Cass. n. 16874/2009.
[56] Analoghe considerazioni rilevano anche per la disciplina della trasmissione all’A.d.E. di atti, documenti e notizie acquisite nell’ambito di un’indagine o di un processo penale, in quanto la mancanza della “previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria”, richiesta dagli artt. 63, comma 1 del d.p.r. n. 633/1972 e 33, comma 3 del d.p.r. n. 600/1973, avrebbe rilevanza esclusivamente interna, a tutela della riservatezza delle indagini penali e non anche del contribuente (cfr., tra le tante, Cass. n. 23729/2013; Cass. 7279/2009; Cass. n. 11203/2007; Cass. n. 2450/2007; Cass. 28695/2005). Le criticità rilevate aumentano ulteriormente nel caso in cui le risultanze trasmesse fossero state acquisite in sede penale illegittimamente, venendo a mancare in questo caso addirittura la “base legale” per il trattamento dei dati (ciò è invece irrilevante secondo Cass. n. 32185/2019).
[57] Cfr. Corte EDU, Funke, cit., § 57; Klass e altri c. Germania, n. 5029/71 [CG], 6 settembre 1978, § 50.
[58] Cfr., tra le tante, Cass. n. 10664/2021; Cass. n. 673/2019; Cass. n. 14701/2018; Cass. n. 20028/2010; Cass. n. 19689/2004; Cass. n. 1344/2002; Cass. n. 15230/2001.
[59] Cfr. precedenti note 53 e 55.
[60] Cfr. Cass. S.U. n. 24823/2015.
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