ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Riflessioni sul programma di gestione della Corte di cassazione per il settore penale
di Gabriella Cappello
1. Il documento
Il documento è diviso in due parti.
Una contiene un vero e proprio masterplan dell’attività giudiziaria dell’ufficio e tiene conto soprattutto dei dati ricavabili dal lavoro della Commissione flussi nel tentativo di impostare l’organizzazione del lavoro e una distribuzione della forza-lavoro tra le sezioni civili e penali, anche sulla base della percentuale di carico esigibile dai consiglieri.
In quest’ottica, assume rilievo la indicata redistribuzione dei 48 consiglieri (previsti ex lege in aumento di organico) tra il settore civile e quello penale (dei quali solo 19 sono assegnati a tale ultima articolazione interna dell’ufficio, numero che, tuttavia, risente di una discrasia rilevabile dal confronto tra l’attuale organico e la somma dei consiglieri destinati al civile e al penale che dà il diverso risultato di 53, cioè 34 più 19, con una differenza dunque di cinque unità).
2. Considerazioni per il settore penale
Va positivamente rilevata la precisazione secondo cui la lettura dei dati statistici deve essere rapportata all’esigenza di non aggravare ulteriormente il carico di lavoro dei Consiglieri che, negli ultimi anni, hanno raggiunto gli obiettivi programmati di riduzione dei tempi sotto l’anno, ma a costo del massimo sforzo esigibile.
Al contempo, nella parte dedicata alla ripartizione interna del nuovo organico si rileva una contraddizione, che riguarda la redistribuzione dell’aumento dell’organico tra i due settori, civile e penale, e una lacuna, invero di tipo strutturale, nella raccolta dei dati a monte, da parte cioè della Commissione flussi, che finisce per condizionare l’analisi multifattoriale della complessità dei procedimenti.
Quanto alla prima, data la premessa del rapporto tra la produttività media del settore civile e quella del settore penale (pari a più di 1 a 2), la redistribuzione proposta non farà che confermare tale divario e, in tal modo, anche la eterogeneità (in qualche misura giustificata dalla diversità delle materie, non certo dalla diversità del rito che penalizza il penale, siccome caratterizzato da una maggiore incidenza del rito partecipato) dei criteri di gestione delle due articolazioni interne della Corte.
Pertanto risulta contraddittorio sottolineare la maggiore produttività del settore penale e l’esigenza di non aggravare le condizioni di lavoro dei consiglieri assegnati al settore penale e non individuare, al contempo, come la premessa avrebbe indotto a ritenere, un tetto massimo al pari del settore civile. Si è scelta, invece, la assai meno incisiva strada di rimettere ai presidenti titolari di conciliare produttività e condizioni di lavoro nella formazione dei ruoli, che determinerà inevitabilmente (come già sperimentato anche durante l’emergenza pandemica) una eterogeneità di interventi rimessi alla diversa sensibilità dei presidenti titolari, con prassi più o meno virtuose.
All’interno del comparto penale, poi, è del tutto ignorato l’indice di smaltimento pro capite (in altri termini, il dato che riguarda il numero delle sentenze diviso per i consiglieri effettivi in servizio presso ciascuna sezione). Esso assume particolare rilevanza nei casi di sezioni che registrano carenze di organico numerose e pluriennali (come nel caso della Quarta sezione penale che ha sperimentato e sperimenta in atto il fenomeno in maniera esponenziale con un totale di sette vacanze, alcune esistenti da anni, dovute a trasferimenti, pensionamenti, fuori ruolo e così via).
Di fronte ad una produttività pro capite invariata, del tutto fuorviante è allora il dato riferibile all’indice di smaltimento e al c.d. arretrato, rispetto al quale va tenuto conto di un anno e mezzo di emergenza pandemica. Se si parte da questo dato, a indice di smaltimento pro capite invariato (se non addirittura incrementato), non ha alcun pregio una valutazione che si basi sul dato sezionale, a meno di ritenere che dai consiglieri delle sezioni svantaggiate deve pretendersi di più (e già si è sottolineato lo sforzo enorme dei consiglieri del settore penale) rispetto a quelli che prestano servizio in sezioni che hanno addirittura goduto di due unità lavorative in più rispetto all’organico in precedenza previsto.
Quanto alla lacuna, invece, va fatta una premessa.
L’organizzazione del lavoro della sezione dipende in larga parte dal rapporto percentuale numero procedimenti/forza lavoro. In tale rapporto s’inserisce, quale dato di preminente rilievo, la c.d. “pesatura” del fascicolo. Ebbene, un aspetto tradizionalmente sottovaluto (e non considerato dallo stesso programma) riguarda la presenza delle parti civili. Il numero di queste, spesso, è indicativo della natura del procedimento a rilevante impatto, sia sociale, che mediatico (il riferimento va, in primo luogo, ai reati in materia di malattie professionali, agli infortuni sul lavoro, ai disastri…), da cui deriva una maggior difficoltà, direttamente proporzionale, nello studio del procedimento e nella predisposizione della relazione, da un lato; una maggior durata del processo, con conseguente maggiore impegno del collegio in udienza, dall’altro; infine, più lunghi tempi della camera di consiglio, anche per la verifica delle diverse cadenze temporali ai fini di prescrizione.
Tale dato, certamente rilevabile dal singolo magistrato addetto all’esame preliminare e dallo stesso presidente titolare, non sembra però trovare alcuna cittadinanza in sede di rilevazione flussi e, quindi, resta del tutto neutro ai fini della redistribuzione dell’organico. Con la conseguenza che, per esempio, la Quarta sezione penale, competente per i reati colposi secondo le previsioni tabellari (nei quali il fenomeno è maggiormente apprezzabile), ha un organico tra i più ridotti, a fronte di un numero molto alto (5) di presidenti di sezione non titolari. Peraltro, nello stesso progetto si sottolinea che la rilevazione in sede di esame preliminare risente di un certo indice di variabilità soggettiva, il che rischia di “disperdere” completamente il dato segnalato rispetto a ogni tipo di rilevazione, nella quale, invece, trova notevole risalto la tradizionale “pesatura” per numero di imputati (propria dei procedimenti in materia di criminalità organizzata, assegnati per rotazione trimestrale alle sezioni Prima, Seconda, Quinta e Sesta). Inoltre, tale dato incide, e non poco, sulla percentuale di assegnazione (e, quindi, definizione semplificata) dei procedimenti in settima sezione. Si rileva, peraltro, che la “volubilità” del dato ricavabile dallo spoglio avrebbe suggerito di trovare rimedi che consentissero di utilizzare meglio quegli stessi dati, piuttosto di attestarne una sorta di sub valenza rispetto al dato numerico degli imputati (più che delle imputazioni, altro dato che la rilevazione sembra trascurare e che, forse, restituirebbe maggior grado di affidabilità alla rilevazione nel suo complesso).
Criteri più stringenti e modelli di scheda di spoglio più definiti potrebbero aiutare a superare la percentuale di variabilità segnalata nel progetto e recuperare così anche i dati relativi alla settima sezione che vanno inevitabilmente dispersi.
Un dato sicuramente apprezzabile, nel progetto, è quello di aver evidenziato la sostanziale invariabilità del tasso di ricambio, nonostante gli eventi pandemici. In tal modo si è riconosciuto che solo il sacrificio imposto ai singoli consiglieri ha in parte neutralizzato il fisiologico rallentamento della produttività nel periodo pandemico, garantendo lo smaltimento dei fascicoli a corsia preferenziale (a rischio prescrizione e con imputati soggetti a misura cautelare).
Questo ci permette di addentrarci nella valutazione degli aspetti organizzativi.
Il programma si muove lungo tre direttrici (§3.1) e individua i seguenti obiettivi per il settore penale: a) valorizzare la funzione della settima sezione, attraverso un miglioramento dell’attività dell’ufficio preposto all’esame preliminare dei ricorsi; b) assegnare ai presidenti di sezione non titolari il compito di prevenire la formazione di contrasti infra-sezionali; c) orientare la formazione dei ruoli da parte dei presidenti titolari, sì da conciliare l’esigenza della pronta definizione dei procedimenti a carico di detenuti e prossimi alla prescrizione, con quella del raggiungimento della qualità del lavoro, in chiave di maggiore adeguatezza della risposta nomofilattica.
Quanto al primo punto, prendo atto delle osservazioni di P. Di Stefano che condivido, eccezion fatta per alcuni punti (come quello, a mio parere del tutto impraticabile, di ridistribuire sulle sezioni che hanno numeri più bassi di ricorsi destinati alla inammissibilità il surplus di settima di alcune sezioni che ne hanno uno più alto, cfr. penultimo paragrafo, suggerimento che non tiene in alcun conto l’aspetto della specializzazione e, soprattutto, le ragioni di tale diversa proporzione tra sezione e settima).
Quanto al secondo, è apprezzabile lo sforzo di rivalutare il ruolo dei presidenti di sezione non titolari, quali soggetti ai quali ricondurre un attento monitoraggio, magari suddiviso per materie o comparti di materie, degli orientamenti sezionali e intersezionali. Si tratta di un lavoro prezioso che potrebbe alleggerire gli ordini del giorno delle riunioni ai sensi dell’art. 47 O.G. che, a questo punto, ritornerebbero alla primigenia funzione di luogo di discussione di aspetti più propriamente organizzativi del lavoro.
Resta il terzo punto.
È quello più complicato ed è condizionato da molteplici fattori. Occorre partire dalla considerazione che, una volta preso atto della sostanziale invariabilità dell’indice di ricambio nel periodo pandemico (la flessione registrata è stata infatti considerata fisiologica), rimasto superiore a 100, non può non ribadirsi come ciò sia stato possibile a costo di enormi sacrifici dei singoli consiglieri, in un ufficio che sostanzialmente non registra arretrato (il dato riguarda gli anni 2019 e 2020, perché i singoli, più risalenti procedimenti non costituiscono un dato rilevante) e che si pone sulla scena europea come uno dei più efficienti (il riferimento è ovviamente al solo settore penale).
In altri termini, può dirsi, per il penale, che la pandemia è stata effettivamente “assorbita” dal sacrificio personale dei consiglieri, la cui presenza in ufficio per celebrare udienza, a differenza del civile, è ripresa a cadenze sostanzialmente normali sin da subito (dopo il primo lockdown) e per i quali minore è stata l’incidenza delle udienze cc.dd. “da remoto”. Il lavoro è proseguito su ruoli di udienza sostanzialmente normali, con l’unico dato del minor numero di procedimenti a trattazione orale che ha determinato un accorciamento dei tempi di permanenza in ufficio. Tuttavia, a tale fenomeno – e il dato merita di essere sottolineato – ha fatto da contrappeso un notevole aumento del tempo dedicato alla preparazione delle udienze a causa della prassi virtuosa invalsa presso alcune sezioni di tenere camere di consiglio su piattaforma Teams in giorni diversi da quelli destinati all’udienza stessa, così invadendo anche spazi della vita privata normalmente e fisiologicamente sottratti agli impegni lavorativi.
La gestione dei procedimenti che sono stati rinviati per motivi legati all’emergenza pandemica pone poi ulteriori problemi per la formazione dei relativi ruoli che hanno raggiunto livelli elevatissimi in termini di peso ponderale pro capite.
Sotto tale specifico aspetto, va preliminarmente sottolineata l’esigenza che sia assicurato il rispetto della regola tabellare della predisposizione dei ruoli di udienza a cadenza semestrale (cfr. art. 13.2 delle vigenti tabelle). Si tratta di un criterio che assicura una effettiva trasparenza nella organizzazione degli uffici, con riflessi notevoli anche sulle condizioni lavorative e il benessere dei singoli consiglieri, soprattutto provenienti da aree del territorio diverse da quella romana.
Quanto alla formazione dei ruoli, poi, l’emergenza pandemica costringe a trovare alcune soluzioni, anche temporanee, per conciliare la necessità di recuperare l’arretrato (sia pur minimo, tenuto anche conto di un anno e mezzo di emergenza pandemica) con il carico esigibile da ciascun consigliere. In tal senso, sono sperimentabili prassi quali le udienze monotematiche e l’invio in settima dei procedimenti destinati alla declaratoria di estinzione dei reati per prescrizione.
L’emergenza pandemica, come dicevo, ha determinato l’adozione della prassi, secondo la maggioranza dei consiglieri intervistati virtuosa, della cosiddetta camera di consiglio mediante applicativo Teams di Microsoft. Tale metodo di lavoro ha consentito di abbreviare i tempi di permanenza in ufficio da parte del collegio e degli altri soggetti coinvolti nel rito pubblico, ma anche di affinare le capacità di approfondimento e studio del singolo fascicolo, spesso possibili solo a spese della camera di consiglio vera e propria.
Ebbene, mantenere tale prassi virtuosa nel post pandemia consentirebbe di sfruttare meglio il rapporto presenza/lavoro di ogni singolo consigliere a condizione, però, che anche le camere di consiglio “da remoto” vengano disciplinate e considerate come parte dell’impegno del singolo componente del collegio nello studio e smaltimento dei fascicoli.
L’altra sezione del progetto contiene la parte di c.d. indirizzo programmatico (§10). Essa è, sostanzialmente, finalizzata a garantire la certezza del diritto e la maggiore prevedibilità delle decisioni, per un verso, attraverso una migliore definizione del rapporto tra sezioni semplici e sezioni unite; per altro, con l’introduzione di un modello motivazionale sempre più conciso che tenga che conto di una standardizzazione della tecnica del linguaggio utilizzato.
Si tratta forse della parte più ambiziosa dell’intero progetto che introduce il tema del futuro stesso della Corte di cassazione.
Le due parti del documento sono, però, intimamente connesse e pongono un preliminare quesito: quale modello di giudice di legittimità si vuole coltivare? Se la nomofilachia deve essere concentrata nelle SS.UU., allora il ruolo delle sezioni sarà sostanzialmente quello di confrontarsi con i “numeri”. Quanto al settore penale, le sezioni serviranno soltanto a preservare il tasso di ricambio e dimostrare che la giurisdizione di legittimità italiana è la più produttiva e veloce d’Europa.
Se la nomofilachia invece comincia, come a mio modesto parere dovrebbe (e forse ancora si tenta a fatica di fare) nelle sezioni, allora tutto quello che si è detto sopra, a partire da una più equilibrata redistribuzione del numero dei consiglieri tra il settore civile e quello penale, è fondamentale e, come singoli consiglieri, abbiamo il dovere di porci quali effettivi interlocutori della dirigenza perché si raggiungano condizioni lavorative che ci mettano nella posizione di svolgere il nostro lavoro sì da dare impulso alla funzione nomofilattica propria delle funzioni di legittimità, a cominciare dalle sezioni semplici.
In tale prospettiva, allora, gli obiettivi del programma opportunamente individuano la necessità del rilancio dell’ufficio spoglio, quale snodo dell’articolazione interna che può consentire la formazione di ruoli monotematici, funzionali a un rafforzamento del messaggio nomofilattico e alla coerenza degli orientamenti, nonché alla definizione di un maggior numero di ricorsi; ma anche l’esigenza di diffondere un nuovo modello motivazionale che, nell’attuale assetto costituzionale, garantisca la certezza del diritto oggettivo e la parità di trattamento dei cittadini.
Sotto tale aspetto, il contenuto del progetto è altamente apprezzabile perché ricollega direttamente al parametro di cui all’art. 111 Cost. e all’art. 6 CEDU l’autorevolezza e la persuasività del discorso giustificativo, strumentali a garantire l’uniformità della giurisprudenza, quale valore fondamentale per l’ordinamento e la prevedibilità delle decisioni. Ma è ancora più apprezzabile laddove eleva il parametro della chiarezza delle decisioni allo stesso rango di quello della celerità dei procedimenti («La corretta e sintetica struttura della motivazione aiuta la progressione logica del ragionamento, evita inutili ripetizioni, favorisce un confronto costruttivo tra le parti e tra queste e il giudice»).
Se questo è l’obiettivo (peraltro non inedito per la Corte di cassazione, già da qualche anno essendo stata introdotta la c.d. motivazione semplificata, quale dato rilevante anche ai fini della valutazione della professionalità del singolo magistrato), non può sottacersi come esso sia di quelli più difficili da perseguire: la “imposizione” di un modello redazionale è estranea alla cultura e alla formazione dei magistrati, ciò che differenzia l’esperienza italiana da quella di altri paesi europei.
La difficoltà di inverare tale modello risente, peraltro, di un’impostazione culturale comune anche all’avvocatura: è evidente come la ridondanza dei motivi influenzi la lunghezza del documento finale, nel quale essi devono essere riportati. Se – nella prospettiva del giudice – la concisa illustrazione dei passaggi argomentativi agevola la ricostruzione della ratio decidendi e garantisce una più efficiente attività difensiva, in maniera coerente al disposto di cui all’art. 24 Cost., l’avvocatura non può, dal canto suo, esimersi dall’avviare una analoga riflessione che ponga la tecnica redazionale dei motivi del ricorso (e, in genere, dell’impugnazione) al centro della programmazione formativa. Solo lo sforzo congiunto, infatti, può garantire risultati apprezzabili in termini di utile impiego della forza lavoro nella giurisdizione che resta, come altri, un servizio a favore della collettività e che necessita, dunque, di un approccio lavorativo improntato alla massima razionalità.
In altri termini, chiarezza e concisione dovrebbero entrare ufficialmente nel codice, incidendo in buona misura sulle abitudini di avvocati e giudici. Su tale aspetto, è significativo e altamente apprezzabile che il Primo Presidente si sia rivolto, non solo ai magistrati, ma anche agli avvocati, nel ricordare la centralità della concinnitas degli atti processuali, quale elemento per una migliore razionalizzazione del servizio giustizia, soprattutto in un ufficio, quale la Corte di cassazione, la cui funzione primaria è quella di assicurare la certezza del diritto attraverso decisioni che siano chiare, non soltanto ai giudici del merito (ai fini dell’eventuale giudizio di rinvio ai sensi dell’art. 627 cod. proc. pen. o quali precedenti), ma soprattutto alla collettività che fruisce del servizio.
Questa, come dicevo, è la parte più ambiziosa, quasi visionaria, del progetto e richiede il coinvolgimento di più figure, all’interno delle singole sezioni, oltre a un continuo confronto a livello intersezionale e tra i presidenti titolari e il vertice dell’ufficio. È necessario diffondere un modello culturale che assegni primario rilievo alla tecnica redazionale rispetto alla qualità del lavoro svolto dal singolo e prevedere modelli redazionali stringenti, a partire da quelli della Settima penale, per i quali le stesse schede di spoglio dovrebbero contenere formule più calibrate (magari con riferimenti al diritto vivente, elaborati sulla scorta delle questioni più ricorrenti), capaci di dar conto in maniera concisa delle ragioni della inammissibilità.
In sostanza, le schede di spoglio potrebbero diventare vere e proprie bozze di decisione o, comunque, le relative formule potrebbero costituire la base per le motivazioni delle ordinanze di inammissibilità, trasfuse a loro volta in modelli predisposti, nei quali siano comunque assicurati inevitabili margini di adattabilità.
Brevissime osservazioni sulla relazione della Commissione “della Cananea” per la riforma del processo tributario riguardanti il giudizio di legittimità
di Roberto Succio
Sommario: 1. Il ruolo e la situazione della Corte Suprema nell’ordinamento tributario - 2. La centralità attribuita al miglioramento dell’“offerta di giustizia” nel contesto della Corte Suprema - 3. La possibile e proposta introduzione di forme di definizione agevolate delle liti di fronte alla Corte di cassazione - 4. Le vere innovazioni processuali suggerite: il rinvio pregiudiziale e il ricorso nell’interesse della legge in materia tributaria - 5. Le proposte modifiche ordinamentali e organizzative: la copertura dei posti di organico in Cassazione.
1. Il ruolo e la situazione della Corte Suprema nell’ordinamento tributario
Il presente scritto intende commentare brevemente i risultati della Commissione istituita dal decreto emanato dal Ministro della giustizia e dal Ministro dell’economia e delle finanze il 14 aprile 2021, alla quale sono stati attribuiti più compiti in materia di elaborazione di proposte di riforma del processo tributario.
Detta Commissione, composta da magistrati, accademici, funzionari dei Ministeri ridetti, avvocati, e presieduta dal Prof. Giacinto della Cananea, ha redatto un documento assai interessante e per vero non adeguatamente conosciuto, a parere di chi scrive, né dagli operatori, né dai commentatori; solo recentemente – e in misura minore rispetto a quanto era legittimo attendersi – si sono infatti registrati interventi di annotazione e commento allo stesso[1].
In particolare, l’organo consultivo istituito ha avuto funzioni di tipo ricognitivo, relativamente alla legislazione vigente e al contenzioso pendente presso i giudici di merito e il giudice di legittimità, ossia la Corte di Cassazione, oltre che propositivo con riguardo ai profili di difficoltà e inefficienze di funzionamento del sistema processuale dedicato alla risoluzione delle controversie tra contribuente e amministrazione Finanziaria.
Il presente contributo si incentra solamente sulla rilevanza e sul contenuto delle considerazioni e proposte esaminate e formulate con riguardo alla funzione e all’attività della Corte di cassazione alla quale è come noto assegnata, anche in materia tributaria, dall’art. 65 Ord. Giud. quella nomofilattica.
La Commissione - sul piano delle premesse generali - prende dapprima atto, e proclama, per chi ancora ne dubitasse, che “fin dagli anni cinquanta del secolo scorso la normazione nel settore tributario è stata additata come un esempio negativo, per via della variabilità e dell’incoerenza che ne deriva. Nel corso dei decenni successivi, man mano che la pressione tributaria è salita, la complessità è aumentata. Ne sono responsabili varie concause: le innegabili difficoltà tecniche, che rendono il diritto tributario ‘speciale’ rispetto ad altri rami del diritto; la notevole diversità degli indirizzi politici impartiti dal legislatore, finanche all’interno della medesima legislatura; il frequente ricorso a norme di legge interpretative”.
In questo contesto, la normativa fiscale può essere (ed effettivamente è) d’ostacolo agli investimenti esteri in Italia: la sua complessità e incoerenza danno luogo a un ostacolo forse anche più rilevante. Come tutte le analisi internazionali segnalano, ribadisce la Commissione, “l’incertezza del diritto è uno dei principali freni alla permanenza degli investimenti in essere e in misura anche maggiore all’arrivo dei nuovi. Non hanno certamente giovato gli arretramenti rispetto allo statuto del contribuente approvato nel 2000”.
Nel concreto, quindi, la funzione istituzionale stessa della Suprema Corte, assegnatale dal già citato art. 65 ord. giud., se non compromessa, è fortemente compressa in materia tributaria.
Impressionante ed inaccettabile il quantitativo di ricorsi relativi a giudizi che si svolgono dinanzi alla Suprema Corte di Cassazione. L’arretrato, in costante incremento, ha raggiunto e superato la ragguardevole soglia dei 55.000 ricorsi, alcuni dei quali (5171) sono stati presentati in primo grado da più di un decennio[2].
Le dimensioni dell’arretrato incidono evidentemente in primo luogo sulla certezza del diritto: non può certo escludersi l’insorgere di contrasti anche inconsapevoli.
Dette dimensioni incidono anche, e in modo non di rado disastroso per le aspettative delle parti, sulla complessiva durata dei procedimenti giudiziari. Nell’arco di un decennio, il tempo medio necessario per espletare il primo grado del giudizio di merito è benvero diminuito (da 903 giorni nel 2011 a 608 nel 2019); nondimeno è aumentato quello relativo al secondo grado (da 589 giorni a 906) (allegato n. II, p. 26 della Relazione della Commissione). A ciò si aggiungono specialmente, per quanto qui interessa, i quattro anni in media necessari per il giudizio di legittimità.
Quest’ultimo, secondo la Commissione “è lungo e oneroso. Penalizza oltremodo il contribuente che abbia ottenuto una pronuncia favorevole nel secondo grado di giudizio o in entrambi. Incentivando la proposizione di ricorsi anche da parte dei privati, penalizza anche gli interessi dell’erario, oltre all’interesse generale all’adeguata e sollecita composizione delle dispute”.
Tal lunga durata del processo, in sé, è del tutto opposta a ogni esigenza di certezza, per una ulteriore e assai importante ragione.
Da un lato, infatti, la Corte decide oggi questioni di diritto risalenti negli anni, che erano magari oggetto di dibattito giurisprudenziale e dottrinale all’epoca e che successivamente si sono chiarite (basti pensare alle plurime questioni inerenti il condono di cui alla L. n. 289 del 2002: Cass. civ. Sez. V, 30-11-2016, n. 24392; Cass. civ. Sez. V, 28-10-2016, n. 21872; Cass. civ. Sez. Unite, 16-01-2015, n. 643; Cass. civ. Sez. VI - 5 Ordinanza, 09-01-2014, n. 272; Corte di Cassazione sentenza 28 marzo 2006, n. 7111); contemporaneamente si pongono oggi ai giudici del merito questioni di diritto che, salvo rari casi, saranno scrutinate dalla Corte solo tra 6-8 anni.
Venendo al contenuto delle pronunce della Suprema Corte, e all’esito che le stesse producono sulle sentenze impugnate, si rileva poi da parte della Commissione come siano assai frequenti i casi in cui risultano cassate, quindi annullate, con o senza rinvio al giudice del merito, le decisioni delle commissioni tributarie regionali: “da vari anni essi sono stabilmente attestati attorno al 50 per cento, pur con oscillazioni (47 per cento nel 2020)”.
Ulteriore elemento, stavolta ordinamentale, che incrementa ancora l’incertezza, quale fattore endogeno, è poi il breve il tempo di permanenza dei magistrati all’interno della sezione tributaria istituita dalla Corte. Le ragioni sono qui numerose: la maggioranza (se non la quasi totalità) dei Consiglieri provengono da decenni di attività giudiziaria nella giurisdizione civile o penale, nelle sue anche lontane tra loro specializzazioni e non hanno in genere certo una particolare aspirazione ad occuparsi di una differente – e delicata, oltre che complessa – materia, a maggior ragione approssimandosi una età non più giovanile.
È allora evidente che solo all’interno d’una riforma strutturale si possono pienamente giustificare alcuni interventi legislativi volti a ridurre il contenzioso pendente presso la Corte di Cassazione.
2. La centralità attribuita al miglioramento dell’”offerta di giustizia” nel contesto della Corte Suprema
Va premesso che, con ottimo pragmatismo, la Commissione individua subito tra gli strumenti processuali degni di attenzione quello della “introduzione di meccanismi di definizione agevolata delle liti (discussa nel § 15)”, ma non limita a questo (sul quale risultato tornerò nel prosieguo dello scritto) il proprio sguardo, individuando sia proposte riguardanti il giudizio di legittimità sia proposte riguardanti gli aspetti dell’azione amministrativa su cui si può agire per diminuire il contenzioso, gli strumenti deflattivi e alcuni istituti processuali.
Considerate nel loro complesso, le iniziative che il Governo e il Parlamento possono adottare secondo il documento qui in nota attengono a ben sette linee direttrici individuate dal documento che si commenta.
Tra queste, per quanto interessa l’argomento di questo scritto, si individua immediatamente quella di “migliorare l’offerta di giustizia all’interno del giudizio di legittimità, relativamente alla Corte di Cassazione (§ 14)”.
Una prima considerazione personale può subito esprimersi: l’offerta di giustizia presuppone, per migliorare, un upgrade (vale a dire un miglioramento, come direbbero - e non sono citati a caso - gli informatici) in primo luogo nella disponibilità in capo alle persone e nell’uso da parte di queste delle moderne tecnologie.
È inconcepibile che il processo tributario, come quello civile, sia da tempo del tutto telematico nei gradi del merito, per poi tornare a svolgersi in forma cartacea solamente quando giunge di fronte alla Corte di Legittimità.
La recente introduzione del desk del Consigliere[3], sotto questo profilo, non sta trovando il successo sperato: il meccanismo di accesso alla consultazione dei fascicoli è lento (e lo stesso sistema wi-fi della Corte, così come le prestazioni del CED, nonostante un impegno fuori del comune delle persone che vi prestano servizio, sono del tutto inadeguate allo scopo), farraginoso (è ad ora impossibile “caricare” files da proprio PC sulla macchina virtuale nella quale si opera, con ciò costringendo il singolo magistrato a lente operazioni di copia e incolla continue e macchinose), contorto (si possono, con tempi di svariati minuti, non di qualche secondo, visualizzare gli atti di parte, ma il loro salvataggio è operazione ben più lunga e mai sicura quanto all’esito).
Senza dubbio sono anche presenti – anche se in misura per lo più inconsapevole – alcune resistenze o rigidità, umanamente comprensibili, in capo a un numero invero assai contenuto di operatori ancora “sospettosi” o poco avvezzi a strumenti ormai consolidati nei processi di merito, quali le firme digitali o le PEC; sotto questo profilo l’attività di formazione ampiamente propugnata ed attuata dal Ministero della Giustizia potrà certamente essere risolutiva.
Essa però non può certo curare le difficoltà tecniche e il gap tecnologico abissale tuttora esistente tra le strutture della Corte di cassazione e il resto delle Amministrazioni, non solo di quelle della Giustizia: né risulta a chi scrive – allo stato – alcuna espressa e decisa iniziativa del CSM diretta, nel dialogo istituzionale con il Ministero della Giustizia, a sollecitare rapide decisioni nei confronti del fornitore del software dirette a ottenere la risoluzione di tali problemi, o in difetto l’azione giudiziaria e la sostituzione di tal soggetto con altro. Si tratta certamente di profili che, in quanto inerenti la amministrazione della Giustizia, possono e debbono vedere presente nella discussione l’organo di autogoverno della Magistratura con la sua autorevolezza e capacità propulsiva.
La stessa Relazione della Commissione Ministeriale ha ben presente la centralità che assume, nel contesto del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza[4]), l’esigenza insopprimibile di modernizzare l’attività giudiziaria, specie quella della Corte Suprema.
Il Consiglio europeo, nelle sue annuali Raccomandazioni ha costantemente e più volte sollecitato l'Italia a "ridurre la durata dei processi civili in tutti i gradi di giudizio", nonché ad "aumentare l'efficacia della prevenzione e repressione della corruzione riducendo la durata dei processi penali e attuando il nuovo quadro anticorruzione" (cfr. Raccomandazioni del 2017-2019).
La Commissione Europea, nella Relazione per Paese relativa all'Italia 2020 (cd. Country Report 2020) del 26 febbraio 2020, rileva come l'Italia abbia compiuto progressi solo limitati nel dare attuazione alle sopra citate Raccomandazioni.
Se la riforma della Giustizia costituisce, per l’Italia, come detto, un elemento ineludibile del PNRR, non stupisce che nel contesto del Piano, secondo le indiscrezioni giornalistiche alla Giustizia sia stato dato un posto assolutamente centrale di vera e propria “precondizione” per l’accesso dell’Italia ai fondi europei[5].
In questo contesto, è a mio avviso inspiegabile la mancata considerazione, nel dibattito, della possibilità per l’Amministrazione della Giustizia – proprio per adempiere all’onere appena citato - di “mutuare” (nelle forme tecniche che paiono pur possibili, ancorché non di immediata soluzione) la struttura del PTT (il processo tributario telematico) trasponendola o trapiantandola nel giudizio di Legittimità se del caso con le opportune modifiche sul piano tecnico, superando difficoltà di adattamento che per quanto presenti non sono certo insormontabili.
Ad ora non mi pare irrealizzabile la realizzazione di architetture informatiche in grado di render comunicanti tra di loro (si passi l’approssimazione) le singole CTR con la Corte Suprema, sul modello di quelle che da tempo ormai realizzano lo stesso risultato tra le singole CTP e la CTR loro giudice di appello.
Sotto questo profilo, forse, la Commissione avrebbe forse potuto sollecitare in modo più diretto i Ministeri (Giustizia ed Economia e Finanze) a prender in esame fattivamente tal possibilità, che non mi pare irrealizzabile anche se si rendessero necessarie, oltre le opportune innovazioni normative - siano esse legislative che regolamentari – ulteriori operazioni di coordinamento e concerto tra i Ministeri coinvolti.
Venendo ad altro, l’azione riformatrice secondo il documento in annotazione può utilmente concentrarsi su due punti, che ruotano attorno alla necessità di realizzare condizioni che permettano alla Corte di esercitare la funzione nomofilattica che l’ordinamento le assegna.
Si tratta della introduzione di due istituti processuali ad hoc: il rinvio pregiudiziale in cassazione e l’intervento del pubblico ministero nell’interesse della legge.
In entrambi i casi, le proposte elaborate dalla Commissione Luiso possono essere, secondo la Commissione Della Cananea riprese e applicate con successo alle controversie tributarie. Si tratta, inoltre, di proposte – fatte proprie dalla Commissione ridetta (ed inserite nell’allegato n. XX, p. 149) – di norme direttamente applicabili, senza alcun bisogno di ricorrere alla delegazione legislativa e quindi di spedita e diretta introduzione nell’ordinamento processuale tributario.
Va ancora ricordato, come si scrive nella Relazione, che non esiste, nell’Europa d’oggi né in precedenti periodi storici noti, alcuna corte di ultima istanza con un carico di lavoro paragonabile a quello della Corte di Cassazione italiana. Non esiste alcun altro giudice delle liti tributarie che abbia un arretrato anche solo lontanamente paragonabile ai più di 55.000 ricorsi pendenti. La circostanza che più di un decimo di quei ricorsi attenga a liti intraprese in primo grado da oltre un decennio può essere vista come un’eclatante rinuncia dell’ordinamento italiano a prevenire il diniego della giustizia, come un deficit di tipo sistemico, nel senso in cui l’espressione è impiegata dagli ordinamenti sovranazionali europei.
Sotto il profilo processuale, si ritiene allora opportuno fare tesoro dell’esperienza acquisita all’interno del processo amministrativo e di quello contabile circa l’utilizzo di strumenti (si tratterebbe di un terzo istituto, o di un terzo gruppo di istituti) che richiedono ai ricorrenti di ribadire entro un preciso termine la persistenza dell’interesse, pena la perenzione estintiva del giudizio. Sono certamente indispensabili alcuni adattamenti, dal momento che sia per la parte privata, sia per quella pubblica l’interesse può venir meno solo nel caso del sopravvenire di nuove disposizioni di legge o di nuove interpretazioni da parte della stessa Corte.
In tali casi, per vero, l’Amministrazione finanziaria già oggi, sia pur con i tempi che le sono propri, emana di frequente apposite direttive agli Uffici sottordinati volte all’abbandono della lite.
Tale orientamento va – secondo la Commissione – adeguatamente rafforzato e magari fatto oggetto di specifica normazione.
3. La possibile e proposta introduzione di forme di definizione agevolate delle liti di fronte alla Corte di cassazione
Anche sul piano macroeconomico, nel quale si colloca l’attribuzione delle risorse di cui al PNRR, vi è da chiedersi se le condizioni straordinarie in cui la giustizia tributaria versa richiedano un intervento legislativo straordinario, nella forma d’una definizione agevolata delle liti.
Un intervento di questo tipo sarebbe giustificato dall’interesse pubblico a una ordinata composizione delle controversie, non dall’interesse a fare cassa; esso avrebbe ad oggetto soltanto il contenzioso dinanzi alla Corte di Cassazione.
Non mancano precedenti, ai quali si può fare utilmente riferimento. Disposizioni recenti, correttamente, non hanno mai imposto soluzioni, offrendo una mera facoltà ai contribuenti.
Questo tipo di approccio può essere ripreso, secondo la Commissione, nel senso di consentire ai contribuenti di decidere – in connessione con lo strumento processuale cui è appena fatto riferimento – se intendano servirsene o meno. Possono prevedersi quindi forme d’incentivazione economica, maggiori nel caso in cui il contribuente abbia prevalso nel secondo grado di giudizio; che ci si debba chiedere se, a fronte di due sentenze sfavorevoli, la resistenza dell’amministrazione debba essere, assoggettata ad aggravamenti sul piano organizzativo o procedurale.
A tale riguardo occorre considerare che normalmente la misura del condono[6] (perché nella sostanza di una misura clemenziale si tratta, in verità) è accompagnata da una sospensione dei giudizi potenzialmente interessati; la fissazione di un limite di valore consentirebbe alla Corte di non vedere paralizzata o rallentata la sua attività (come è avvenuto in passate occasioni), potendo invece la stessa proseguire senza sospensione alcuna a vantaggio delle controversie di valore più elevato che peraltro verrebbero definite con tempi più celeri.
Ad esempio, secondo i dati disponibili alla Commissione, una definizione delle liti di valore fino ad € 100.000, interesserebbe circa il 63,89% del contenzioso pendente in Cassazione, per un totale di 33.337 controversie (probabilmente si tratta di un numero in concreto minore, dovendosi escludere le liti aventi per oggetto gli atti di mera riscossione quali ad esempio le cartelle di pagamento e le cause relative all’impugnazione dei dinieghi di rimborso).
Affinché la definizione possa avere un effetto deflattivo di rilievo, è opportuno però che – a differenza di tutti i precedenti condoni – il legislatore preveda non solo che dagli importi dovuti per condonare “si scomputano quelli già versati a qualsiasi titolo in pendenza di giudizio” (v. ad es. art. 6 comma 9 del d.L. 119/2018), ma anche che l’eventuale eccedenza debba essere restituita al contribuente (e non invece, sempre secondo l’art. 9 comma 6 citato, che “La definizione non dà comunque luogo alla restituzione delle somme già versate ancorché eccedenti rispetto a quanto dovuto per la definizione”.
Se infatti si riproponesse anche questa volta tale ultimo inciso, molti contribuenti non avrebbero alcun interesse ad aderire al condono, soprattutto quando (come avviene di norma), dopo la soccombenza in CTR sono stati tenuti a pagare l’intero importo indicato nell’atto impugnato, come previsto dall’art. 68 comma 1 lett. c) del d. Lgs. 546/1992. Tali somme infatti, anche se nettamente superiori a quelle necessarie per definire la vertenza, non verrebbero mai restituite con conseguente importante incentivo per il debitore dei tributi a proseguire la causa.
A tale riguardo la Corte di Cassazione ha affermato che “la norma in esame ha natura di disposizione eccezionale e derogatoria della previsione generale in forza della quale il condono, in quanto incide in via definitiva sui debiti tributari dei contribuenti, che vengono ad essere definiti transattivamente con il versamento delle somme a tal fine dovute, non può dare luogo a restituzione alcuna degli importi in precedenza corrisposti (cfr. Cass. S.U. 14828/08), sebbene eccedenti rispetto a quanto dovuto per il perfezionamento della definizione stessa” (Cass. 26776/2020).
Tuttavia l’applicazione di tale principio da un lato (come si è detto) fa sì che molti soggetti non siano interessati a definire la vertenza; dall’altro crea una disparità di trattamento in situazioni processuali identiche, a favore dei contribuenti che non hanno spontaneamente versato quanto dovuto in sede di riscossione graduale, rispetto a quelli che hanno tempestivamente provveduto al pagamento e che, proprio per tale motivo, si trovano a dover pagare somme maggiori per usufruire del condono rispetto ai primi (per effetto della mancata restituzione della differenza).
Qualora dunque – nell’ottica di ottenere una massima adesione alla definizione agevolata – la legge non prevedesse (per la prima volta) il citato divieto di restituzione della differenza tra le somme già versate e quelle necessarie per la definizione, si amplierebbe la platea dei soggetti interessati al condono e si potrebbero anche prevedere aliquote che garantiscano un gettito adeguato.
In particolare, si potrebbe prevedere – suggerisce ancora la Commissione - che le somme da versare per ottenere l’estinzione del giudizio per condono siano pari, in via esemplificativa al 30% del tributo (senza interessi e sanzioni), qualora il contribuente sia risultato vittorioso nel giudizio davanti alla C.T.R.; al 60% del tributo (senza interessi e sanzioni), qualora il contribuente sia risultato soccombente nel giudizio davanti alla CTR.
Trattasi di importi comunque senza dubbio convenienti per i contribuenti, tenuto conto della non debenza di interessi e sanzioni, che porta spesso ad un dimezzamento dell’aliquota reale, se rapportata all’intero credito (e pertanto, di fatto, rispettivamente al 15 e 30% del valore complessivo della causa).
Non appare opportuno, secondo la Commissione, introdurre altre aliquote per i casi di c.d. doppia conforme, (cioè di vittoria del contribuente sia in primo che in secondo grado), tenuto conto da un lato che la situazione processuale è identica a quella di chi è stato vittorioso solo in CTR, e dall’altro che statisticamente non sembra vi siano evidenze secondo cui nei casi di doppia conforme gli annullamenti da parte della Suprema Corte siano in misura inferiore.
È inoltre opportuno che le aliquote per la definizione agevolata non siano troppo basse, onde evitare
rilievi sotto il profilo comunitario[7], soprattutto in materia di IVA (imposta armonizzata). Né è altrimenti pensabile escludere tale imposta dalla definizione, in quanto ciò ridurrebbe in maniera rilevante l’effetto deflattivo, tenuto conto che spesso l’IVA viene richiesta con un unico avviso di accertamento insieme alle imposte dirette. Prevedendo un condono solo per queste ultime, la causa dovrebbe comunque proseguire per l’IVA e tal circostanza costituirebbe evidente disincentivo in capo al contribuente a definirla.
Un condono strutturato come sopra, potrebbe potenzialmente comportare un abbattimento del contenzioso pregresso tra le 15.000 e 20.000 cause (riducendo l’arretrato della Corte, sotto il profilo temporale, di 1,5/2 anni).
Il complesso delle misure proposte mira dunque a restituire alla Corte di Cassazione la funzione ordinamentale centrale che le spetta ex artt. 111 Cost e 65 ord. Giud. anche quale organo di vertice delle impugnazioni nei giudizi tributari.
La Commissione sottolinea poi l’intento di tener conto delle proposte di modifica che parallelamente stava formulando la “Commissione per l’elaborazione di proposte di interventi in materia di processo civile e di strumenti alternativi” presieduta dal Prof. Francesco Paolo Luiso, che ritiene ampiamente condivisibili: in particolare viene richiamata l’opportunità condivisa di unificare i riti camerali, attualmente disciplinati dall’art. 380-bis c.p.c. (procedimento per la decisione in camera di consiglio sull’inammissibilità o sulla manifesta fondatezza o infondatezza del ricorso) e dall’art. 380-bis.1 (Procedimento per la decisione in camera di consiglio dinanzi alla sezione semplice). A ciò si aggiunge la suggerita abolizione della "apposita sezione" (tabellarmente definita quale Sesta Sezione civile) di cui all’art. 376 c.p.c.
4. Le vere innovazioni processuali suggerite: il rinvio pregiudiziale e il ricorso nell’interesse della legge in materia tributaria
Si è detto come l’interpretazione autorevole quanto all’origine, sistematica nella collocazione a livello dei principi, convincente quanto ad argomenti, resa della Corte con tempestività, in poco tempo ed in concomitanza alle prime pronunzie della giurisprudenza di merito, possa svolgere un ruolo deflattivo significativo, prevenendo la moltiplicazione dei conflitti e con essa la formazione di contrastanti orientamenti nei gradi precedenti di giudizio.
Nella materia del diritto tributario, peraltro, l’esigenza appena descritta è avvertita con particolare importanza e urgenza per due ordini di ragioni: il continuo succedersi di norme di nuova introduzione, rispetto alle quali il giudice del merito non dispone all’atto della propria decisione di un indirizzo interpretativo di legittimità cui fare riferimento e la serialità dell’applicazione delle norme che si riflette sulla serialità del contenzioso: basti pensare alle frequenti controversie relative all’impugnazione di più avvisi di accertamento recanti i medesimi rilievi replicati per più periodi d’imposta.
La Commissione quindi propone pertanto due novità di tipo processuale tendenti a rendere più tempestivo l’intervento nomofilattico, con auspicabili benefici in termini di uniforme interpretazione della legge: ciò in diretta attuazione dell’art. 3 Cost. corollario è la prevedibilità delle decisioni e conseguenza del quale è la riduzione del contenzioso.
Il primo istituto, sulla scorta, peraltro, di esperienze straniere (e segnatamente dell’ordinamento francese che conosce la saisine pour avis al quale si fa espresso richiamo, sia pur con tutte le incognite in ordine al legal transplant di un istituto – specie processuale – da un sistema a un altro[8]), è denominato “rinvio pregiudiziale in cassazione”: si tratta di consentire al giudice tributario, in presenza di una questione di diritto nuova, che evidenzi una seria difficoltà interpretativa e che appaia probabile che si verrà a porre in numerose controversie, di chiedere alla Corte di legittimità l’enunciazione di un principio di diritto.
Il secondo istituto che può essere aggiuntivo o sostitutivo rispetto al primo è quello denominato “ricorso nell’interesse della legge in materia tributaria”. Tale strumento consente al Procuratore Generale presso la suprema Corte di formulare una richiesta al Primo Presidente della Corte stessa di rimettere una questione di diritto di particolare importanza che rivesta il carattere della novità o della serialità o che ha generato un contrasto nella giurisprudenza di merito in modo che venga enunciato un principio di diritto nell’interesse della legge, cui il Giudice del merito tendenzialmente deve uniformarsi, salva la possibilità di discostarsene con assunzione di responsabilità e con onere di adeguata motivazione.
I due istituti si fondano, a ben vedere, sui medesimi presupposti da intendersi alternativi tra loro.
La “novità” della questione da intendersi non solo come novità della norma che deve essere oggetto di interpretazione ma anche come assenza di precedenti espressi in termini dalla giurisprudenza di legittimità. Gli strumenti in esame potranno essere quindi utilizzati anche con riferimento a normative meno recenti o risalenti che, tuttavia, non siano state esaminate dal giudice della nomofilachia sotto lo specifico profilo oggetto di dubbio interpretativo.
Deve sussistere poi la particolare importanza della questione e la oggettiva difficoltà di interpretazione della norma, manifestate e conclamate nel formarsi di orientamenti contrastanti nella giurisprudenza di merito. Tali circostanze possono dipendere dalla oscura formulazione del testo di legge ovvero alla esistenza di disposizioni contrastanti che regolano la medesima materia, ovvero ancora alle difficoltà di coordinamento della legge nazionale con disposizioni di fonte comunitaria o internazionale.
In ultimo, deve prospettarsi quantomeno ex ante al giudice di merito remittente, la serialità della questione. Quando una determinata norma abbia generato un rilevante contenzioso o sia astrattamente idonea ad essere applicata in un numero indeterminato di controversie, in modo tale da definire in modo rapido e per quanto possibile uniforme le stesse.
Tali strumenti processuali, sin qui concordi, divergono nella concreta modalità di applicazione da parte degli operatori chiamati a darvi attuazione.
Il rinvio pregiudiziale, infatti, è rimesso al prudente apprezzamento del giudice tributario del merito e necessita quindi di un filtro particolarmente rafforzato, per evitare il rischio di un eccesso di ordinanze di rinvio che sortirebbe l’effetto opposto rispetto a quello sperato, gravando la Corte di un numero inaccettabile e inutile di ordinanze di rinvio.
Si prevede pertanto un vero e proprio filtro di ammissibilità affidato al Primo Presidente, che potrà avvalersi anche dell’Ufficio del Massimario, per una valutazione preliminare di ammissibilità che non preveda oneri motivazionali in caso di restituzione al Giudice per mancanza dei presupposti legittimanti il rinvio. Potrebbe qui risultare sufficiente, per negare l’accesso al procedimento incidentale di fronte alla Corte, il rilievo del difetto delle condizioni previste per l’instaurazione, o il mero rimando ad una pronuncia della Corte stessa che abbia medio tempore risolto la questione proposta, o ancora l’indicazione dello ius superveniens che risulti anch’esso risolutivo.
Il rischio di abuso dell’istituto qui paventato non sussiste con riferimento al secondo istituto proposto: l’affidamento dell’iniziativa alla Procura Generale della Corte di Cassazione, alla quale ben potrebbero comunque rivolgersi con apposite istanze sia il contribuente sia l’Amministrazione Finanziaria, segnalando l’opportunità di intervenire, è cautela idonea. La garanzia di equilibrio dell’Ufficio, peraltro, avrebbe potuto condurre la Commissione a prevedere la obbligatoria partecipazione, con onere di dare proprio parere, in sede di valutazione da parte del Primo Presidente in ordine all’ammissibilità del rinvio alla Suprema Corte onde consentire al decidente – nell’esercizio di una funzione del tutto monocratica – di fruire di un importante contributo dell’amicus curiae.
Altra differenza tra gli istituti dovrebbe risiedere nella diversa natura e forze del principio di diritto enunciato: ove la Corte esprima il principio di diritto richiestole, andrebbe prevista la sua natura vincolante solo nel caso del rinvio pregiudiziale e solo per il giudice che ha sollevato la questione in quei termini trattati e risolti dal Giudice della Legittimità, non diversamente da quanto accade in sede di giudizio di rinvio nel sistema ora vigente.
Nell’altro caso, resta fermo che l’interpretazione della Corte di Cassazione costituirà un autorevole precedente, al quale il giudice del merito potrà fare riferimento e dal quale difficilmente potrà discostarsi, sicuramente previo adempimento ad un onere motivazionale supplementare.
Infatti, una decisione del giudice di merito “difforme” dai precedenti della Cassazione, soprattutto se pronunciati dalle Sezioni Unite, “immotivata”, o “gratuita” o “immediata” può avere conseguenze anche in termini di responsabilità disciplinare a carico del giudice di merito stesso.
5. Le proposte modifiche ordinamentali e organizzative: la copertura dei posti di organico in Cassazione
La relazione della Commissione “Della Cananea” si sofferma anche sull’esigenza di coprire urgentemente i vuoti nell’organico della Corte Suprema di Cassazione, onde definire il gravoso arretrato, proprio nella Sezione Tributaria, ulteriormente incrementato dalla temporanea sospensione delle attività giudiziali durante l’emergenza sanitaria da Covid-19.
Si ritiene nel documento che tale esigenza, come si legge nella relazione illustrativa della parte a ciò dedicata, possa essere soddisfatta dall’adozione di una norma che impieghi presso la Corte di Cassazione i magistrati del Massimario che, oltre ad aver maturato un quadriennio di servizio presso
l’Ufficio (e, cioè, il minimo previsto per il tramutamento ex art. 194 ord. Giud.), abbiano già svolto le funzioni di legittimità presso la sezione tributaria per un biennio o che siano prossimi alla maturazione di tale significativa e formativa esperienza.
L’Ufficio del Massimario e del Ruolo era composto – prima della modifica apportata dall’art. 74, comma 1, lett. a), d.L. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla Legge 9 agosto 2013, n. 98 – da 37 magistrati, la cui attività era rivolta a supporto dell’esercizio delle funzioni di legittimità attraverso a) l’ordinata catalogazione dei precedenti della Corte Suprema (analisi dei provvedimenti e stesura delle massime), b) l’individuazione e la segnalazione di contrasti, problematiche meritevoli di attenzione, novità normative o giurisprudenziali, c) la predisposizione di relazioni e approfondimenti rivolti alle Sezioni Unite e alle Sezioni Semplici per la risoluzione delle controversie, d) l’elaborazione di rassegne periodiche tese a ricostruire l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità.
La predetta norma – aggiungendo un comma all’art. 115 Ord. Giud. – ha elevato il numero dei componenti dell’Ufficio a 67 magistrati e – fermo il principio secondo cui «Le attribuzioni dell’ufficio del massimario e del ruolo sono stabilite dal primo presidente della corte suprema di cassazione, sentito il procuratore generale della Repubblica» (art. 68, comma 3, Ord. Giud.) – ha istituito il compito di «assistente di studio», magistrato dell’Ufficio destinato alle Sezioni della Corte con compiti nuovi e con specifica facoltà di assistere alle camere di consiglio, pur senza possibilità di prendere parte alla deliberazione o di esprimere il voto sulla decisione (art. 74, comma 1, lett. b), d.L. 21 giugno 2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla Legge 9 agosto 2013, n. 98).
Successivamente, l’art. 1, comma 1, D.L. 31 agosto 2016, n. 168, convertito con modificazioni dalla Legge 25 ottobre 2016, n. 197, ha inciso sul già menzionato art. 115 Ord. Giud., aggiungendo ulteriori due commi e ha previsto la possibilità, per il Primo Presidente, di disporre l’applicazione dei magistrati addetti all’ufficio del massimario e del ruolo con anzianità di servizio nel predetto ufficio non inferiore a due anni, che abbiano conseguito almeno la terza valutazione di professionalità, alle sezioni della Corte per lo svolgimento vero e proprio delle funzioni giurisdizionali di legittimità.
In seguito, l’art. 1, comma 980, Legge 27 dicembre 2017, n. 205, con disposizione temporanea la cui efficacia è cessata il 31 dicembre 2020, ha stabilito che i magistrati dell’Ufficio possano essere applicati esclusivamente alla sezione tributaria (sezione quinta civile della Corte). Dal 2021, i magistrati del Massimario sono tornati a potere essere applicati anche alle altre Sezioni civili e alle Sezioni penali per lo svolgimento delle funzioni di legittimità.
L’art. 1, comma 379, della Legge 30 dicembre 2018, n. 145 ha previsto poi un aumento del ruolo organico del personale della magistratura ordinaria e aumentato il numero dei posti nella Corte di Cassazione.
La proposta normativa, analogamente a quanto operato in passato (art. 5 d. Lgs. 23 gennaio 2006, n. 24), prevede la destinazione (su domanda) dei magistrati del Massimario alla copertura delle vacanze della Corte di cassazione, la cui pianta organica è stata recentemente aumentata; costituiscono requisiti per tale destinazione 1) il possesso di una effettiva anzianità di servizio presso l'Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione di almeno 4 anni (ex art. 194 ord. Giud.), anche maturata entro un anno dall'entrata in vigore della norma; 2) lo svolgimento delle funzioni di legittimità in applicazione alla sezione tributaria per almeno due anni (requisito che identifica, tra i vari magistrati, coloro che già abbiano acquisito o che, stanti le perduranti applicazioni, acquisiscano, nell’anno successivo all’entrata in vigore della norma, la peculiare attitudine all’esercizio delle predette funzioni).
Proprio per far fronte al gravoso carico incombente sulla Sezione Tributaria si prevede che i magistrati del Massimario destinati alla copertura dei posti vacanti di consigliere della Corte di cassazione siano assegnati alla Sezione tributaria per un periodo non inferiore a quattro anni.
Ritengo sul punto che la soluzione di ricorrere ai magistrati del Massimario sia non solo coerente con la funzione di centro culturale della Corte che l’ordinamento assegna a quell’Ufficio, ma risulti anche adeguata sul piano funzionale e organizzativo.
L’Ufficio del Massimario costituisce infatti un’importante struttura ausiliaria della Corte, il cui compito tradizionale consiste nell’analisi sistematica della giurisprudenza di legittimità, poi trasfusa in una capillare attività di massimazione dei provvedimenti, nella redazione a supporto dell’attività delle Sezioni unite e delle Sezioni ordinarie di relazioni periodiche e nella effettuazione di ricerche di legislazione, dottrina e giurisprudenza.
Se quindi, come scrive autorevole dottrina la cui affermazione pienamente condivido “specializzazione e circolazione, dei saperi e delle esperienze, sono, infatti, valori e indirizzi equiordinati, da preservare religiosamente”[9], è evidente che l’ingresso nella sezione tributaria e il ritorno al Massimario garantisce proprio tali effetti sia per i magistrati del massimario che veicolano quanto è oggetto della circolazione, sia per i magistrati della sezione tributaria, che arricchiscono quanto è oggetto della propria specializzazione nel confronto con i primi.
È quindi da auspicare convintamente che la riforma, sotto questo profilo, mantenga ferma l’integrazione in parola e anzi ne valorizzi e renda sistematica l’occorrenza accogliendo con decisione la sollecitazione proposta dalla Commissione nel contributo in commento.
[1] Ampio lo spazio che dedica questa Rivista; si vedano gli articoli che precedono questo contributo a firma di Alberto Marcheselli e Luigi Salvato. Si registrano invece commenti alle più sintetiche e meno specifiche, come è naturale, “Linee programmatiche sulla giustizia” tracciate dal nuovo Ministro Guardasigilli Marta Cartabia, emerito presidente della Corte costituzionale, in data 14 marzo 2021: si veda (con il consueto tono salace) Glendi Cesare, Riforma della giustizia tributaria: (finalmente) verso un conclusivo approdo, in Diritto e pratica tributaria, n. 3 del 2021, pag. 1278 e seguenti.
[2] Chi scrive ha preso parte, nel contesto delle attività della EJTN (European Judicial Training Network, la piattaforma comunitaria che promuove la formazione e lo scambio di conoscenze tra giudici dell’Unione), a un periodo di formazione presso la UK Supreme Court, vertice delle giurisdizioni (inclusa quella Costituzionale) del Regno Unito. Quella Corte, che svolge nell’ordinamento britannico per l’appunto la funzione di Corte di cassazione, di Consiglio di Stato e di Corte Costituzionale negli ordinamenti di civil law, ha esaminato nel 2019 unicamente 83 (proprio ottantatré!) casi. In quell’ordinamento, però, tale Corte “hears appeals on arguable points of law of general public importance; concentrates on cases of the greatest public and constitutional importance maintains and develops the role of the highest court in the United Kingdom as a leader in the common law world” (sottolineatura aggiunta - https://www.supremecourt.uk/about/role-of-the-supreme-court.html).
[3] https://www.giustiziainsieme.it/it/attualita-2/875-verso-il-processo-telematico-in-cassazione
[4] https://www.senato.it/application/xmanager/projects/leg18/file/Finale_PNRR.pdf
[5] https://ntplusdiritto.ilsole24ore.com/art/recovery-plan-priorita-riforma-riti-tagliare-durata-processi-ADDJbu6
[6] La Corte costituzionale in numerose occasioni si è pronunciata a favore della legittimità dei condoni fiscali (per tutte C. cost., 23.7.1980, n. 119; C. cost., 26.2.1981, n. 33; C. cost., 7.7.1986, n. 172; C. cost., 23.7.1992, n. 361; C. cost., 13.7.1995, n. 321; C. cost., 16.12.2004, n. 433; C. cost., 7.7.2005, n. 305; C. cost., 13.7.2007, n. 270), in quanto “l’istituto del condono costituisce una forma tipica di definizione del rapporto tributario, che prescinde da un’analisi delle varie componenti dei redditi ed esaurisce il rapporto stesso mediante definizione forfettaria ed immediata, nella prospettiva di recuperare risorse finanziarie e ridurre il contenzioso e non in quella dell’accertamento dell’imponibile”.
[7] https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/it/CJE_08_55
Sarà perdonato il rimando, sul tema, al mio Succio R., Comparazione delle procedure di soluzione dei conflitti in materia tributaria nei sistemi italiano e statunitense, in Annali della Facoltà di Giurisprudenza della Università del Piemonte Orientale, Giuffrè, 2012.
[9] https://www.giustiziainsieme.it/it/diritto-tributario/1852-aspettando-godot-note-minime-e-minoritarie-a-margine-della-proposta-di-riforma-della-giustizia-tributaria-di-alberto-marcheselli
La Riforma della filiazione e l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità (nota alla sentenza della Corte costituzionale n. 133 del 25.6.2021)
di Riccardo Rosetti
Sommario: 1. La sentenza della Corte costituzionale - 2. La disciplina del Codice civile e l’elaborazione giurisprudenziale successiva - 3. La Riforma della filiazione e l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità - 4. Significato e limiti dell’intervento della Corte costituzionale.
1. La sentenza della Corte costituzionale.
Con la sentenza n. 133 del 25 giugno 2021 la Corte costituzionale si è pronunciata sulla disciplina dettata dalla Riforma della filiazione per l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità e ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 263, terzo comma, codice civile, come modificato dall’art. 28, comma 1, del decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154 (Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219), nella parte in cui non prevede che, per l’autore del riconoscimento, il termine annuale per proporre l’azione di impugnazione decorra dal giorno in cui ha avuto conoscenza della non paternità. Con la stessa pronuncia la Corte ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263, terzo comma, cod. civ., come modificato dall’art. 28, comma 1, del d.lgs. n. 154 del 2013, nella parte in cui prevede che «l’azione non può essere comunque proposta oltre cinque anni dall’annotazione del riconoscimento» sollevata in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 8 della CEDU.
Si tratta di un intervento che assume rilievo nella delicata materia delle azioni di stato. Per comprendere rettamente i limiti e le conseguenze della pronuncia occorre sinteticamente ricostruire il sistema dalla disciplina originaria del codice, ai successivi sviluppi nella giurisprudenza costituzionale e di legittimità, fino alle innovazioni introdotte dalla riforma della filiazione recata dal decreto legislativo n. 154 del 2013.
2. La disciplina del Codice civile e l’elaborazione giurisprudenziale successiva.
Nel sistema del Codice civile del 1942, l’articolo 263 c.c. regolava l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità e assolveva alla tradizionale finalità di rimuovere il valore accertativo dello stato di filiazione naturale recato da un falso atto di riconoscimento. La disciplina ed era caratterizzata dal riconoscimento a qualsiasi interessato della legittimazione attiva e dalla imprescrittibilità. La regolamentazione dell’azione dipendeva in larga misura dal carattere indisponibile del diritto dedotto e dall’interesse pubblico a porre un obiettivo rimedio alla antigiuridicità della mancata corrispondenza tra l’accertamento dello stato di filiazione recato dal riconoscimento e la verità biologica del rapporto di filiazione. L’azione era, per questa ragione, concessa all’autore del riconoscimento a prescindere dal suo stato soggettivo, di buona o di mala fede, e senza limiti di tempo. L’interesse dell’ordinamento a rimuovere detta antigiuridicità accertando la verità biologica del rapporto era considerato prevalente rispetto al contrapposto interesse del soggetto riconosciuto alla stabilità dello stato di filiazione.
Ben diversa era la disciplina dell’azione diretta a rimuovere lo stato di filiazione legittima, con i rigidi limiti che caratterizzavano, quanto ai presupposti e ai termini di proponibilità, l’azione di disconoscimento della paternità.
La dottrina e la giurisprudenza non mancarono di rilevare la differenza tra la stabilità dello stato di figlio legittimo e la precarietà dello stato di figlio naturale e la discriminazione che ne conseguiva.
La Corte costituzionale, più volte interpellata sul punto, aveva sempre confermato la legittimità costituzionale della disciplina nella parte in cui la stessa esponeva il figlio naturale alla rimozione del suo stato di filiazione senza limiti di tempo e per iniziativa di qualsiasi terzo, a fronte della garanzia di stabilità riconosciuta allo stato di filiazione legittima. La Corte affermava che, anche diversamente opinando, solo il legislatore avrebbe potuto stabilire la durata del termine da sostituire all'imprescrittibilità disposta dall'art. 263 (Corte cost. n. 134 del 1985). Secondo la Corte la legittimazione attiva dell’autore del riconoscimento era da considerarsi come un progresso nell’evoluzione legislativa essendosi adottato il principio di ordine superiore secondo cui ogni falsa apparenza di stato doveva cadere (Corte cost. n. 158 del 1991). La Corte escludeva ancora che potessero utilmente invocarsi, in senso contrario, il principio di solidarietà familiare discendente dall’art. 2 Cost., trattandosi di legame familiare fondato su una falsa apparenza di status, ovvero il principio della parità di trattamento con il figlio legittimo, fondandosi l’accertamento della paternità nel matrimonio sulla presunzione di cui all’art. 231 c.c. e sul favor legitimitatis. Ancora nel 2012 la Corte costituzionale rimetteva al legislatore ordinario la possibilità di effettuare una diversa scelta circa i termini di esperimento dell’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità onde garantire maggiore solidità dello status di figlio naturale (Carte cost. ord. n . 7 del 2012).
Nonostante i pronunciamenti della Corte costituzionale, la giurisprudenza e la dottrina posero, negli anni, in discussione la prevalenza dell’interesse pubblico alla verità biologica del rapporto rispetto alla tutela dell’interesse del minore alla stabilità dello stato di filiazione.
Si negava, in particolare, che la valenza costituzionale del principio del favor veritatis fosse incontrastata, rilevandosi come l’art. 30, comma quarto, della Costituzione avesse rimesso alla legge il compito di definire i limiti della ricerca della paternità, così autorizzando l’idea che l’accertamento del fondamento biologico della filiazione potesse incontrare i limiti derivanti dalla necessità di bilanciamento con altri interessi costituzionalmente garantiti (Cass. 23 ottobre 2008, n. 25623; Cass. 17 marzo 2007, n. 6302; Cass. 19 settembre 2006, n. 20254).
Si poneva, altresì, in rilievo come il principio del favor veritatis non fosse prevalente sull’interesse del minore nemmeno nell’ambito dell’azione di disconoscimento di paternità: in tale prospettiva si è sottolineava come la giurisprudenza di legittimità avesse, in quel contesto, considerato prevalente l’interesse alla stabilità dei rapporti familiari negando la proponibilità dell’azione di disconoscimento di paternità al padre che avesse dato il proprio consenso alla fecondazione eterologa della moglie (Cass. 16 marzo 1999, n. 2315). Analoghi principi di valenza generale hanno trovato, poi, riconoscimento nel diritto positivo con l’entrata in vigore dell’articolo 9 della legge n. 40 del 19 febbraio 2004 recante "Norme in materia di procreazione medicalmente assistita”.
La stessa Corte costituzionale giustificava i limiti alla ricerca della verità biologica della filiazione naturale sottolineando, per i figli minori infrasedicenni, come la valutazione fosse rimessa al giudice, ai sensi dell’art. 273 c.c., ogni volta che fosse emerso un interesse del minore contrario alla privazione dello stato di figlio legittimo ovvero all'assunzione dello stato di figlio naturale e comunque ogni volta che il mutamento dello status familiare avesse potuto pregiudicare l'educazione del minore (Corte cost. n. 429 del 1991 e n. 341 del 1990). La Corte costituzionale, anche nel dichiarare l’incostituzionalità dell’art. 274 c.c. e del procedimento volto a valutare l’ammissibilità della dichiarazione giudiziale di paternità, chiariva come l’interesse del minore dovesse essere, in ogni caso, verificato nel giudizio di merito così ribadendo la centralità dell’interesse del minore nelle azioni di stato (Corte cost. n. 50 del 2006).
La Corte costituzionale ha, di seguito, dichiarato la parziale incostituzionalità della fattispecie incriminatrice di alterazione di stato prevista dall’art. 567 c.p., nella parte in cui prevedeva la automatica decadenza della potestà genitoriale per il genitore condannato, ad esempio, per la falsità del riconoscimento. La Corte affermava la necessità di una valutazione caso per caso, fondata sull’accertamento della concreta corrispondenza della sanzione agli interessi del minore, ammettendo il venir meno della pretesa punitiva pubblicistica con rinuncia all’applicazione della sanzione della decadenza dalla potestà genitoriale ogni volta che fosse verificato l’interesse al mantenimento dello stato di filiazione e di un equilibrato ambiente familiare (Corte cost. n. 31 del 2012).
Sulla scorte degli stessi principi, la giurisprudenza di merito (in tal senso Trib. Roma, 17 ottobre 2012, n. 19563, in Giur. mer., 2013, 1282; Trib. Civitavecchia, 19 dicembre 2008, in Giur. mer. 2010, 1250; Trib. Napoli, 28 aprile 2000, in Giur. Napoletana, 2000, 1277) valorizzando la norma che sancisce l’irretrattabilità del riconoscimento, giungeva ad escludere la legittimazione all’impugnazione dell’autore del riconoscimento effettuato in mala fede, con ciò ponendosi in consapevole contrasto con il contrario, risalente, orientamento della Corte di cassazione (Cass. 24 maggio 1991, n. 5886).
Alla luce di questi elementi, lo sviluppo del diritto vivente autorizzava l’idea che lo status familiare fosse sempre meno legato al vincolo meramente biologico, quanto piuttosto alla volontaria assunzione di responsabilità quale primigenia fonte della comunità familiare della quale garantire la stabilità.
3. La Riforma della filiazione e l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità.
In questo contesto interveniva la Riforma della filiazione recata dalla legge 219 del 2012 che, con l’art. 2, co. 1, lettera g), affidava al legislatore delegato il compito di provvedere alla “modificazione della disciplina dell'impugnazione del riconoscimento con la limitazione dell'imprescrittibilità dell'azione solo per il figlio e con l'introduzione di un termine di decadenza per l'esercizio dell'azione da parte degli altri legittimati”.
Il criterio di delega tendeva, allora, a porre un limite alla precarietà dello stato di figlio nato fuori del matrimonio e a creare una tendenziale equiparazione tra figli nati nel matrimonio e figli nati fuori del fuori del matrimonio anche con riguardo alle azioni a rimuovere lo stato di filiazione.
La novella, in questa prospettiva, riformulava innanzi tutto i termini per l’esercizio dell’azione di disconoscimento della paternità: salva l’imprescrittibilità per il figlio, che rimaneva titolare del diritto di disporre in ogni tempo del suo status, il decreto legislativo confermava i consueti brevi termini di decadenza degli altri legittimati, con le differenti regole circa la decorrenza, ma introduceva un termine quinquennale di proponibilità dell’azione a tutela dell’interesse del figlio alla stabilità del rapporto di filiazione ormai consolidatosi.
Sulla base di queste stesse premesse l’art. 263 c.c. era riformulato dal d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154 nei termini seguenti.
Il primo comma riproduceva il testo della norma previgente senza alcuna modifica: la legittimazione attiva era riconosciuta al figlio, all’autore del riconoscimento e, in ogni caso, a chiunque vi abbia interesse. Si confermava, sotto questo profilo, una differenza con la disciplina che l’azione di disconoscimento della paternità riserva al figlio nato nel matrimonio, per il quale la legittimazione è limitata ai genitori e al figlio stesso. La delega della legge 219 del 2012, tuttavia, non autorizzava modifiche in materia e la differenza, nella prospettiva del legislatore, non determinava una disparità tra figli nati nel matrimonio e figli nati fuori del matrimonio ma si giustificava piuttosto in ragione della differente tutela riservata alla famiglia fondata sul matrimonio. La pubblicità del vincolo, l’obbligo di fedeltà tra i coniugi, l’operatività della presunzione di paternità consigliavano di riservare ai membri della famiglia la legittimazione attiva all’azione di rimozione dello stato di figlio nato nel matrimonio.
Tali elementi non si riscontrano nella filiazione fuori del matrimonio laddove non si tratta di verificare la paternità del figlio generato da una donna coniugata ma di verificare se il riconoscimento è conforme alla realtà biologica del rapporto di filiazione.
In attuazione del criterio di delega già citato, il nuovo secondo comma dell’art. 263 limita al figlio l’imprescrittibilità dell’azione, unico legittimato attivo abilitato a disporre senza limiti dello stato di filiazione.
Con riguardo al padre e alla madre, autori del riconoscimento, il terzo comma della disposizione prevedeva un termine di decadenza di un anno che decorre dal giorno dell’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita. La norma – prima dell’intervento della Corte costituzionale in commento - prevedeva che il termine decorresse anche dal momento, eventualmente successivo, in cui il padre ovvero la madre avessero avuto conoscenza dell’impotenza paterna. Per il padre autore del riconoscimento non era prevista altra ragione di deroga alla decorrenza del termine dal giorno dell’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita.
Non era, in altre parole, riconosciuta la possibilità di proporre l’impugnazione nel termine di un anno dalla eventuale scoperta della circostanza che la madre avesse intrattenuto rapporti sessuali con altri uomini all’epoca del concepimento. Tale ipotesi di dilazione del termine era riservata dal legislatore alla sola azione di disconoscimento perché, essendo fondata sulla violazione del vincolo di fedeltà nascente dall’art. 143 c.c., non si giustificava, nella prospettiva del legislatore, al di fuori del matrimonio. Il padre del figlio nato fuori del matrimonio era considerato autore volontario dell’atto di riconoscimento e non mero destinatario degli effetti della presunzione di paternità tipica della filiazione nel matrimonio.
Il quarto comma dell’art. 263 dispone che “l’azione di impugnazione da parte degli altri legittimati deve essere proposta nel termine di cinque anni che decorrono dal giorno dall’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita”. Onde garantire la stabilità del rapporto di filiazione è stabilito un termine finale di proponibilità dell’azione per gli altri legittimati all’impugnazione diversi dal figlio: tale termine è fissato in cinque anni dalla annotazione del riconoscimento a margine dell’atto di matrimonio e ciò a prescindere dalla ragione dell’impugnazione e del ritardo. Si tratta di un termine non prorogabile, volto a presidiare l’interesse insopprimibile del minore alla stabilità del rapporto di filiazione che, costituito in ragione del riconoscimento dei genitori, deve trovare nel - più che congruo - periodo fissato dal legislatore una definitiva intangibilità. Per non determinare discriminazione con i figli nati nel matrimonio – come rilevato - il legislatore ha fissato analogo termine per il disconoscimento di paternità, sussistendo la medesima esigenza di definire una linea oltre la quale lo stato di filiazione diviene incontestabile e il contrapposto interesse, proprio dell’ordinamento e dei legittimati attivi, a verificare la corrispondenza con la verità biologica del rapporto viene a cadere.
Il termine quinquennale si applica solo per gli altri legittimati, mentre per entrambe le azioni la Riforma ha previsto l’imprescrittibilità con riguardo all’azione del figlio che mantiene per sempre la disponibilità del proprio stato di filiazione.
4. Significato e limiti dell’intervento della Corte costituzionale.
Con la pronuncia in commento la Corte ha, allora, innanzi tutto, affermato la legittimità del termine quinquennale di proponibilità delle azioni dirette alla rimozione dello stato di filiazione.
La Corte ha, così, riconosciuto alla norma la funzione di essenziale punto di equilibrio tra la ricerca della verità biologica della filiazione e l’interesse del figlio alla stabilità dello stato di filiazione. La Corte ha ritenuto che detto limite alla proponibilità dell’azione da parte degli altri legittimati, benché si affermino non consapevoli dei fatti che valgano ad escludere la paternità, debba andare esente da censure anche se valutato alla luce delle pronunce della CEDU intervenute in materia: “Un così lungo decorso del tempo (cinque anni dal riconoscimento) radica il legame familiare e sposta il peso assiologico, nel bilanciamento attuato dalla norma, sul consolidamento dello status filiationis, in una maniera tale da giustificare che la prevalenza di tale interesse sia risolta in via automatica dalla fattispecie normativa. Nessuna censura di non proporzionalità può, dunque, muoversi – anche nel coordinamento fra l’interpretazione dell’art. 8 CEDU, offerta dalla Corte EDU, e il quadro dei principi costituzionali – alla scelta operata dal legislatore che, nella sua discrezionalità, ha ritenuto di sacrificare l’interesse dell’autore del riconoscimento, a far valere in via giudiziale l’identità biologica, a beneficio dell’interesse allo status filiationis consolidatosi dopo cinque anni dal suo sorgere. Da ultimo, deve, peraltro, rilevarsi che l’interesse a far valere la verità biologica non risulta in assoluto estromesso dal giudizio, in quanto esso può essere fatto valere dallo stesso figlio, per il quale l’azione di impugnazione del riconoscimento risulta imprescrittibile”.
La Corte ha, invece, dichiarato la parziale incostituzionalità dell’art. 263 c.c. nella parte in cui non prevede che, per l’autore del riconoscimento, il termine annuale per proporre l’azione di impugnazione decorra dal giorno in cui ha avuto conoscenza della non paternità. Secondo la Corte “la norma censurata comporta una irragionevole disparità di trattamento anche nel confronto tra le regole dettate per il padre che intenda far valere la verità biologica, impugnando il riconoscimento, e quelle previste per il padre che agisca per il disconoscimento di paternità. Il padre non coniugato può dimostrare solo l’impotenza, onde far decorrere il termine annuale di decadenza da un dies a quo diverso rispetto all’annotazione del riconoscimento; il padre coniugato può, invece, avvalersi anche di altre prove, tra cui quella dell’adulterio, onde sottrarsi al dies a quo che altrimenti decorre dalla nascita. Anche a fronte di tale diversità di trattamento, che finisce per rendere più stabile lo status filiationis sorto al di fuori del matrimonio rispetto a quello del figlio concepito o nato durante il matrimonio, deve, dunque, ritenersi fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263, terzo comma, cod. civ. (..)”.
In questa prospettiva la Corte ha ammesso la proponibilità dell’impugnazione del riconoscimento entro un anno dalla conoscenza di qualsiasi fatto idoneo ad escludere la paternità, ritenendo irragionevole la distinzione che il legislatore aveva introdotto rispetto ai termini di decorrenza per la proposizione dell’azione di disconoscimento di paternità.
Per giungere a tale conclusione la Corte ricostruisce la genesi del testo dell’art. 263 c.c. come introdotto dalla Riforma della filiazione e la definisce come una “trasposizione meramente parziale delle regole dettate dal legislatore per il disconoscimento di paternità del figlio nato nel matrimonio” cioè come una riproduzione solo parziale dell’art. 235 c.c. come modificato, prima della Riforma, dalle pronunce di incostituzionalità additive. Tanto determina, secondo la Corte, una disparità di trattamento a danno dell’autore del riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio che non sia in condizione di impotenza a generare e che non possa essere ammesso a provare le circostanze, diverse, che escludano la sua paternità. Secondo la Corte, in definitiva, la prova deve essere sempre ammissibile se diretta a dimostrare la mancata paternità biologica (e non solo se diretta a dimostrare l’impotenza) e il termine deve decorrere dalla scoperta di ogni circostanza che valga ad escludere la paternità.
Il ragionamento della Corte offre, tuttavia, da una lettura parziale delle ragioni dell’intervento del legislatore della Riforma.
Secondo il legislatore della Riforma l’azione di disconoscimento della paternità e l’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità meritavano, sotto questo profilo, una disciplina differente in ragione delle differenti regole che presiedono, nei due casi, alla formazione dello stato di filiazione.
Nella filiazione nel matrimonio la paternità è attribuita con la formazione dell’atto di nascita che discende dalla applicazione in via automatica della presunzione di paternità. Il marito, che in via generale può confidare sull’obbligo di fedeltà della moglie quale obbligo nascente dal matrimonio e che si vede attribuita la paternità senza alcun contributo volontario, può esercitare l’azione di disconoscimento dal momento in cui abbia avuto conoscenza di tutti i fatti che valgano ad escludere la sua paternità come l’impotenza a generare e come anche l’adulterio della moglie. In ragione della operatività della presunzione di paternità e della tutela della famiglia fondata sul matrimonio, il legislatore ha limitato la legittimazione attiva all’azione di disconoscimento di paternità, che rimane riservata alla moglie, al marito, al figlio maggiorenne e, nei casi previsti dall’art. 244, ultimo comma, c.c. ad un curatore del figlio minore, con esclusione del presunto padre.
Nella filiazione fuori del matrimonio non opera alcuna presunzione di paternità, mancando il matrimonio e l’obbligo di fedeltà, e la paternità discende dall’atto volontario di chi si affermi padre e cioè dal riconoscimento. Il riconoscimento può essere impugnato da chiunque vi abbia interesse perché l’ordinamento preserva l’accertamento della verità biologica della filiazione a fronte di falsi riconoscimenti. La stabilità dello stato di filiazione è garantita essenzialmente dal termine quinquennale di proponibilità dell’azione che vale, come rilevato, per tutti i legittimati e con esclusione del solo figlio. Con riguardo all’autore del riconoscimento la Riforma poneva chiari limiti all’impugnazione, esercitabile solo entro un anno dall’annotazione del riconoscimento sull’atto di nascita ovvero solo entro un anno dalla scoperta dell’impotenza dell’autore. Per questa via il legislatore aveva ammetteva che l’autore del riconoscimento potesse far valere la propria impotenza perché si tratta di una circostanza comunque idonea ad escludere in radice la paternità e tale da poter essere anche incolpevolmente ignorata, mentre aveva escluso che l’autore del riconoscimento potesse far valere la sussistenza di rapporti sessuali della madre con altri uomini all’atto del concepimento e tanto perché in mancanza di un matrimonio e spesso anche di una relazione stabile, la circostanza contraria, e cioè l’insussistenza di rapporti tra la madre e altri uomini, non poteva ragionevolmente presumersi e non riposava su alcun obbligo giuridico legato ad una formalizzazione dell’unione. Secondo la prospettiva del legislatore della Riforma, la possibilità che la madre avesse intrattenuto rapporti con diversi uomini all’epoca del concepimento andava considerata prima del riconoscimento e doveva indurre ad un esercizio consapevole dell’atto di attribuzione della paternità che così profondamente vale a incide sulla dignità del figlio. Il legislatore ha, in tal senso, considerato come allo stato attuale delle conoscenze scientifiche la certezza sulla paternità biologica possa essere acquisita con estrema rapidità e con esami tutt’altro che invasivi, tanto da poter assicurare all’autore del riconoscimento la certezza circa il fondamento biologico della paternità prima del compimento dell’atto volontario idoneo a fondare lo stato di filiazione. La Riforma aveva, allora, inteso valorizzare l’assunzione di responsabilità dell’autore del riconoscimento e assicurare la stabilità dello stato di figlio anche a fronte di riconoscimenti compiuti in mala fede o in modo compiacente ovvero in modo superficiale.
La decisione della Corte ha inteso rideterminare l’equilibrio tra ricerca della verità biologica della filiazione e stabilità dello stato di filiazione, assicurando maggiore tutela all’autore del riconoscimento che dimostri di aver proceduto al riconoscimento in buona fede e senza conoscere della sussistenza di rapporti della madre con altri uomini al momento del riconoscimento: si tratta, tuttavia, di una prova che, per sua natura, si presta a strumentalizzazioni anche da parte di chi abbia effettuato un riconoscimento nella consapevolezza di non essere padre e, piuttosto, per affermare la stabilità del rapporto con la madre e che, di seguito, impugni il riconoscimento in ragione del mutare dei rapporti con la stessa madre, con sostanziale violazione del principio dell’irretrattabilità del riconoscimento dettato dall’art. 256 c.c..
La decisione della Corte va, ad ogni modo, valutata come un ulteriore capitolo nella ricerca di un difficile punto di equilibrio tra l’esigenza di tutela del principio di verità della filiazione e l’esigenza di tutela dell’interesse del figlio; in questo caso è riaffermata la prevalenza dell’interesse alla verità biologica della filiazione ma l’interesse del minore alla stabilità dello stato di figlio rimane tutelato dalla decorrenza del termine quinquennale di proponibilità dell’azione del quale la Corte ha confermato la legittimità costituzionale.
Si considerino, nella medesima prospettiva, i principi affermati dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 127 del 2020. Detta pronuncia ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata con riguardo all’art. 263 c.c. nella parte in cui non esclude la legittimazione ad impugnare il riconoscimento del figlio in capo a colui che abbia compiuto tale atto nella consapevolezza della sua non veridicità. In questa occasione la Corte ha confermato la legittimità della norma rimettendo, comunque, al Giudice la valutazione dell’interesse del minore ed escludendo che la disposizione valga ad ammettere comunque l’impugnazione da parte dell’autore del riconoscimento in mala fede e senza adeguata valutazione dell’interesse del minore.
La corte ha affermato che: “nel caso dell’impugnazione del riconoscimento consapevolmente falso da parte del suo autore, il bilanciamento tra il concreto interesse del soggetto riconosciuto e il favore per la verità del rapporto di filiazione non può costituire il risultato di una valutazione astratta e predeterminata e non può implicare ex se il sacrificio dell’uno in nome dell’altro. L’esigenza di operare una razionale comparazione degli interessi in gioco, alla luce della concreta situazione dei soggetti coinvolti, impone al giudice di tenere conto di tutte le variabili del caso concreto, sotteso alla domanda di rimozione dello status di cui all’art. 263 cod. civ. È appena il caso di aggiungere che di tale apprezzamento giudiziale non può non far parte la stessa considerazione del diritto all’identità personale, correlato non soltanto alla verità biologica, ma anche ai legami affettivi e personali sviluppatisi all’interno della famiglia. In conclusione, anche nell’impugnazione del riconoscimento proposta da chi lo abbia effettuato nella consapevolezza della sua falsità, «la regola di giudizio che il giudice è tenuto ad applicare in questi casi [deve] tenere conto di variabili molto più complesse della rigida alternativa vero o falso. Tra queste variabili, rientra sia il legame del soggetto riconosciuto con l’altro genitore, sia la possibilità di instaurare tale legame con il genitore biologico, sia la durata del rapporto di filiazione e del consolidamento della condizione identitaria acquisita per effetto del falso riconoscimento, sia, infine, l’idoneità dell’autore del riconoscimento allo svolgimento del ruolo di genitore. Pertanto, nel caso dell’impugnazione del riconoscimento consapevolmente falso da parte del suo autore, il bilanciamento tra il concreto interesse del soggetto riconosciuto e il favore per la verità del rapporto di filiazione non può costituire il risultato di una valutazione astratta e predeterminata e non può implicare ex se il sacrificio dell’uno in nome dell’altro. L’esigenza di operare una razionale comparazione degli interessi in gioco, alla luce della concreta situazione dei soggetti coinvolti, impone al giudice di tenere conto di tutte le variabili del caso concreto, sotteso alla domanda di rimozione dello status di cui all’art. 263 cod. civ. È appena il caso di aggiungere che di tale apprezzamento giudiziale non può non far parte la stessa considerazione del diritto all’identità personale, correlato non soltanto alla verità biologica, ma anche ai legami affettivi e personali sviluppatisi all’interno della famiglia”.
Metodologia dei metodi e metodologia dei risultati. Per una riforma dell’art. 12 delle preleggi al codice civile [1]
di Angelo Costanzo
Sommario: 1. Metodologia dei metodi e metodologia dei risultati. La gerarchia dei metodi - 2. L’origine storica dell’art. 12 delle preleggi al codice civile - 3. Rilettura dell’art. 12 delle preleggi nel sistema costituzionale - 4. La metodologia del risultato nella ricostruzione dei fatti.
1. Metodologia dei metodi e metodologia dei risultati. La gerarchia dei metodi
1.1. Dentro la stessa cultura giuridica, i giuristi e i giudici svolgono due ruoli differenti: i primi rispondono a domande del tipo “quale significato può essere attribuito all’enunciato X?”; i secondi rispondono a domande del tipo “quale significato deve essere attribuito all’enunciato X ?” [2].
Entrambe le categorie e, in generale, tutti gli interpreti del diritto si trovano a affrontare il problema nodale della scelta dei criteri interpretativi, che magari non conducono ai 144 modi diversi di interpretare una stessa disposizione − tramite l’applicazione combinata dei vari criteri (letterale, sistematico, storico, a contraris, a fortiori, ab exemplo, psicologico, teleologico, analogico, della sedes materiae, et cetera) calcolati da Lombardi Vallauri − ma certamente sono plurimi.
Molti codici civili e qualche codice penale tentano di limitare la discrezionalità degli interpreti nelle scelte esegetiche con disposizioni sulle tecniche che possono e/o debbono essere impiegate nell’applicazione delle leggi.
Si è osservato, al riguardo, che l’interpretazione è «un’attività mentale, in quanto tale non suscettibile di regolamentazione», sicché, malgrado le apparenze, le disposizioni che pretendono di disciplinarla sono, in realtà, non già regole sull’interpretazione, ma piuttosto regole sull’argomentazione dell’interpretazione prescelta, quale che sia il processo mentale (del resto inconoscibile) attraverso cui l’interprete è pervenuto a quella conclusione»[3].
Inoltre, in alcuni ordinamenti i giudici sono autorizzati a usare più tecniche senza seguire una gerarchia, per cui il tentativo di circoscrivere e indirizzare la loro discrezionalità risulta inefficace, tanto più che spesso i metodi dell'interpretazione sono defettibili perché implicitamente ammettono delle eccezioni che non possono essere enumerate in anticipo: a ogni criterio è possibile opporne un altro che condurrebbe a una conclusione interpretativa differente.
1.2. In realtà, ancora prima che fra i diversi criteri interpretativi, l’interprete deve scegliere tra la metodologia dei metodi e la metodologia dei risultati.
La metodologia dei metodi presuppone una scelta fra i metodi fondamentalmente sulla base del ruolo istituzionale che l’interprete si riconosce rispetto al diritto legislativo. In altri termini, questa scelta non poggia su argomenti che non strettamente giuridici ma lato sensu politici (la certezza del diritto, la separazione dei poteri, l’efficacia della normazione, et cetera) che inducono gli interpreti a sottacere il criterio metodologico che indirizza le loro argomentazioni. Una importante conseguenza di questa condizione è che i ragionamenti risultano non stringenti perché le maglie delle inferenze basculano, o saltano: la componente deduttiva del ragionamento si riduce e l’argomentazione si fa entimematica[4]. Invece, proprio questi nodi originari dei ragionamenti andrebbero sciolti con un linguaggio chiaro che renda esplicita l’assunzione di responsabilità ermeneutica[5].
La metodologia dei risultati sceglie il metodo sulla base degli obiettivi da realizzare volta per volta nella singola decisione. Poiché i criteri interpretativi risultano tra loro complementari e variamente intrecciabili, la preferenza conferita all’uno invece che un altro si fonda su ciò che nel singolo caso un determinato criterio interpretativo può offrire come risultato.
Certamente la parificazione dei diversi metodi è la condizione più funzionale alla scenografia legalistica caratterizzante l’approccio giuspositivista (che permette di trarre risultati interpretativi fra loro divergenti basandosi sulle stesse regole legislative) e la scelta di una strategia esegetica eclettica, si rivela tanto più efficace nel produrre il risultato mirato quanto più è mantenuta criptica.
1.3. Invece, ciò che legittima l’attività giurisdizionale e, in generale, quella degli interpreti qualificati del diritto è la chiara determinazione del perimetro del ruolo istituzionale secondo il quale si svolge.
Rispetto a questa determinazione vale l’esigenza fondamentale di frenare − ricorrendo alle risorse che la tecnica legislativa può offrire − la surrettizia inserzione di valori personali (travestiti da principi normativi in realtà inesistenti) nel percorso della interpretazione dei dati normativi.
Ne deriva la seguente questione: è possibile creare le condizioni per una metodologia dei metodi che non si risolva in una metodologia dei risultati?
Non si può affermare con sicurezza (anche se qualcuno lo fa[6]) se nelle prassi la seconda metodologia sia quella più comunemente adottata per giungere alle decisioni, ma è comunque facilmente riscontrabile che i criteri interpretativi adottati nelle motivazioni delle sentenze sono ordinariamente utilizzati senza gerarchie che diano loro un ordine. Si va dal criterio letterale, a quello storico, dalle valutazioni di sistema a quelle teleologiche ristrette alla singola norma, dall’interpretazione conforme (alla Costituzione, alla Convenzione EDU, al diritto UE) a opzioni di natura pragmatica, seguendo argomentazioni spurie.
Può presumersi che anche molte delle difficoltà della Corte di cassazione a esprimere orientamenti uniformi non dipendono soltanto dall’eccessivo numero dei ricorsi e dai limiti della sua organizzazione interna ma dalle stesse ragioni culturali che indeboliscono la metodologia delle decisioni di merito.
Questa condizione è aggravata dalla crisi della democrazia rappresentativa, che nel ridimensionare il ruolo del potere legislativo influisce anche sulla legittimazione del potere giudiziario a esercitare la sua funzione che nel nostro ordinamento si fonda sull’essere interpreti della volontà del legislatore, che deve essere a sua volta espressione della volontà dei cittadini[7].
2. L’origine storica dell’art. 12 delle preleggi al codice civile
Nel nostro ordinamento, il legislatore ha disciplinato disciplina l’attività ermeneutica con gli artt. 12 e 14 disp. prel. cod. civ.
L’articolo 12 delle preleggi – che nella rubrica è denominato interpretazione della legge, mentre nel suo testo si riferisce all’applicazione della legge – fra i criteri ermeneutici considera solo quello letterale, quello dell’intenzione del legislatore e quello analogico (in entrambe le sue forme: analogia legis e analogia iuris).
Tuttavia, come ogni altra disposizione, anche l’art. 12 disp. prel. cod. civ. deve essere interpretato.
Soprattutto va inteso secondo il contesto storico in cui fu posto.
In un suo insostituibile saggio del 1969, Gino Gorla spiegò, sulla base di una ricca analisi storica di precedenti disposizioni analoghe, che l’art. 12 delle preleggi al codice civile non tratta dell’interpretazione della legge in generale[8].
In realtà, con questa disposizione si intese circoscrivere i modi di applicare le norme espresse per i vari casi alla risoluzione delle controversie demandate ai giudici.
In effetti, l’art. 12 delle preleggi riguarda fondamentalmente l’applicazione del codice civile alle controversie.
L’opinione tralaticia che gli artt. 12 e 14 delle preleggi pongano e risolvano il problema delle regole di interpretazione della legge costituisce una estrapolazione che risulta indebita nel suo prolungarsi oltre il campo normativo delineato da codice civile, ossia da un testo legislativo, dotato di una solida architettura concettuale, nel quale le questioni inerenti alla individuazione delle rationes e alla interpretazione sistematica sono state oggetto di precise e ponderate scelte legislative che le hanno in gran parte impostate e già risolte.
Se questo è vero, l’art. 12 delle preleggi al codice civile del 1942 non pone e (quindi) non risolve tutte le principali questioni che sorgono circa l’interpretazione dei dati legislativi in generale (che sia così, del resto, lo mostrano, con evidenza, le differenti prassi ermeneutiche nei vari settori del diritto). Esso è costruito fondamentalmente in relazione al problema della lacune delle norme ma non fornisce indicazioni circa i percorsi da compiere per comporre fra loro le norme secondo corretti criteri logico-giuridici. Né aveva la necessità di farlo all’interno di una architettura normativa ben composta qual è quella del codice civile italiano del 1942.
Certamente gli articoli 12 e 14 delle preleggi restano dei prismi che rifrangono importanti questioni relative alla interpretazione della legge e al rapporto fra il legislatore e i giudici. Tuttavia, non risultano adeguati rispetto alle attuali questioni interpretative che non riguardano tanto l’interpretazione di singole disposizioni all’interno di un testo legislativo ordinato concettualmente ma la loro interpretazione sistematica (plurisussunzione) in un contesto normativo in larga parte decodificato e caratterizzato da una pluralità di fonti eterogenee poste a diversi livelli e non sempre secondo una gerarchia ben definita.
In quei coacervi di testi legislativi che compongono gli ordinamenti giuridici contemporanei, il significato di una disposizione-norma non deriva soltanto dal singolo enunciato ma dal discorso generale entro cui si inserisce (norma-ordinamento). Anzi, in un tale contesto, la scelta interpretativa fondamentale spesso sta nell’individuare l’articolarsi delle fonti del diritto pertinenti al caso da trattare.
3. Rilettura dell’art. 12 delle preleggi nel sistema costituzionale
3.1. La Costituzione e, per via diversa, il diritto comunitario hanno rimodellato l’ordinamento giuridico e la coerenza dell’interpretazione giuridica va ora cercata anzitutto rispetto ai principi costituzionali − che costituiscono i principali fattori dell’unità dell’ordinamento − sicché acquistano nuova forza gli argomenti fondati sulle rationes.
La Corte costituzionale afferma il dovere del giudice di adottare, tra più possibili interpretazioni di una disposizione, quella idonea a fugare ogni dubbio di legittimità costituzionale (dovendo sollevare la questione di legittimità costituzionale solo quando la lettera della norma sia tale da precludere ogni possibilità ermeneutica idonea a offrirne una lettura conforme a Costituzione).
Per questa via introduce un canone ermeneutico che si incentra sulle rationes delle norme.
L'interpretazione alla luce della ratio, che non sia in contrasto inconciliabile con il significato letterale della disposizione (Corte cost. n. 692 del 1988, Sez. Un. civ. n. 6518 del 1987), si fonda sull’argomento della razionalità, secondo il quale, tra più significati possibili, deve preferirsi quello che corrisponde alla ratio sia della specifica norma sia del sistema che la contiene e una regola conforme alla sua ratio supera un primo vaglio di costituzionalità nel senso che è conforme al principio (costituzionale) di razionalità normativa.
In questa prospettiva è evidente che l’interpretazione fondata sulla ratio e l’interpretazione sistematica si interpenetrano[9].
Su queste basi può affermarsi che il sopravvenire (rispetto all’art. 12 delle preleggi al codice civile) dei principi costituzionali e della giurisprudenza della Corte costituzionale, conduce a reinterpretare, a sua volta, lo stesso l'art. 12 delle preleggi nel senso di privilegiare la «connessione» delle parole legislative rispetto al dato letterale)[10].
L’esito può anche essere una interpretazione antiletterale che assume che l’interpretazione letterale è necessaria ma non sufficiente per individuare il significato di un testo linguistico perché la considerazione del contesto nel quale si inserisce una disposizione normativa può condurre a una sua interpretazione (almeno apparentemente) antiletterale (Cass. civ., Sez. 5, n. 14376 del/06/2007, Publiemme, Rv. 599325). L’idea – espressa nella sentenza – e che il valutazione di chiarezza circa un testo e la necessità di una sua interpretazione non sono antitetiche: non basta che un testo sia chiaro perché esso non richieda di essere interpretato quando non vi è accordo sul suo significato nel contesto in cui si colloca. Nella stessa sentenza si osserva: «il contesto nel quale s'inserisce una disposizione normativa è un fenomeno più vasto e più complesso di quello fissato dalla connessione delle parole in una proposizione. Il contesto normativo è l'insieme delle disposizioni normative di un ordinamento giuridico e delle formule non poste, cioè della formule prodotte dalle fonti non scritte. Nell'interpretazione normativa si deve tener conto anche di questo secondo contesto e non si può escludere che, utilizzando le molteplici e complesse tecniche elaborate dalla dottrina giuridica e dalla giurisprudenza, non si possa e non si debba giungere sia ad estrarre più significati dalla stessa formula letteraria, a seconda del contesto nel quale si opera, sia a giungere addirittura ad un'interpretazione antiletterale o solo apparentemente antiletterale»[11].
In queste condizioni si innestano operazioni come la re-interpretazione (Re-interpretation, Umdeutung) − un processo di interazione tra testo e interprete dove questi ha il problema di trovare un senso coerente e compiuto nel quale integrare l'interpretazione dell'elemento di disturbo, del segmento incompatibile con gli altri, tramite una retroazione ermeneutica con la quale si abbandona una precedente interpretazione in actu di un anteriore segmento di un testo − o come la selezione retroattiva di senso, che attualizza una delle interpretazioni compossibili di un dato normativo, interpretazioni in potentia nessuna delle quali ancora attuata[12].
Nel campo del diritto penale sostanziale questo tipo di operazioni a volte incontra delle inibizioni in posizioni come quella espressa nella massima (non recente) secondo la quale «il criterio della individuazione del bene giuridico protetto non può valere ad inficiare principi essenziali, come quelli di legalità e tassatività, che costituiscono la chiave di volta del sistema penale. Non è pertanto consentito all'interprete ridurre sia pure in bonam partem, il contenuto della previsione normativa, introducendo in essa un elemento estraneo, mutuato dalla identificazione, spesso problematica, del bene giuridico, del quale la medesima costituirebbe proiezione e protezione. È questa un'operazione interpretativa, che non è legata ad un metodo di logica assiomatica e rientra quindi nella semplice logica argomentativa» (Sez. 3, 7576 del 25/03/1983, Torti, Rv. 160264).
3.2. In definitiva, la razionalizzazione dei testi legislativi ordinariamente non si impernia soltanto sulla ratio legis ma attinge alla complessiva ratio iuris: la volontà legislativa non può riferirsi soltanto a quella del legislatore storico concreto ma va riconsiderata alla luce del sistema in cui la disposizione inserisce. Per questa via, sebbene non possa giungersi a stravolgere il significato letterale dei testi legislativi, si accampa nello spazio della interpretazione il principio di ragionevolezza in termini anzitutto di razionalità sistematica (coerenza), ma anche di efficienza strumentale (congruenza, pertinenza, proporzionalità) e di giustizia-equità [13].
In questo contesto, non rilevano soltanto la contraddittorietà o la contrarietà semantica fra gli enunciati legislativi ma anche la incongruenza fra fini, principi e rationes normative: una disposizione può non essere coerente con la qualificazione che dà della fattispecie, oppure con la sua ratio o con le rationes del settore normativo in cui si iscrive (contraddittorietà teleologica), o con i suoi concreti ambiti di applicabilità.
Su queste basi, è ammissibile una interpretazione correttiva della disposizione legislativa per ricavarne un significato anche meno prossimo di altri al significato letterale, ma comunque compreso nel suo orizzonte di senso, per pervenire a una interpretazione conforme alla sua ratio e, se sorgono dubbi di costituzionalità, dovrà privilegiarsi l’interpretazione che fuga tali dubbi.
Allora, il punto di partenza della interpretazione non è offerto più soltanto dal testo legislativo quanto dal problema ermeneutico da risolvere, sebbene la conclusione del procedimento interpretativo debba, comunque, sempre riferirsi al testo legislativo come reinterpretato nella sua collocazione nel sistema[14] .
In definitiva, l’argomento logico-sistematico consente di razionalizzare i testi (in particolare quando le formule linguistiche che li compongono non sono recenti) per la risoluzione del problema concreto.
Emerge il canone della «coerenza con l’intero sistema normativo» (che ha una implicita conferma nel secondo comma dell’art. 12, dove l’analogia legis e l’analogia iuris sono indicate come strumenti per colmare le lacune della legge) che richiede un metodo che assicuri la certezza del diritto, intesa non come prevedibilità dell’applicazione delle norme ma (minimalmente) come certezza della considerazione del principi posti dal legislatore, secondo il limite costitutivo della interpretazione giuridica che sta nella auto inibizione a porre (principi, rationes) diversi da quelli mirati dal legislatore. Per ridurre il rischio che questo avvenga, è opportuno sviluppare tecniche legislative che indichino, in modi manifesti (così da chiarirli anche ai loro autori), i principi che si vogliono implementare nel sistema delle norme[15].
4. La metodologia del risultato nella ricostruzione dei fatti
4.1. Nella interpretazione dei dati normativi l’opzione (o le oscillazioni) fra la metodologia dei metodi e la metodologia dei risultati è connessa alla assenza di una reale gerarchia fra i metodi.
Invece, nella ricostruzione dei fatti essa si traduce in una variegata gamma di errori epistemologici che spazia dalla semplice difficoltà a astenersi da giudizi per le conclusione dei quali manchino sufficienti premesse a una esasperata ricerca.
4.2. Il giudizio di cassazione relativo alle prospettazioni di vizi della motivazione nelle porzioni dei provvedimenti dei giudici di merito relativi alla ricostruzione dei fatti (art. 606, comma 1, lett. e, cod. proc. pen.; art. 360. comma 1, n. 4, cod. proc. civ.) sicuramente offre molteplici occasioni per fissare, come la giurisprudenza della Corte di cassazione non ha mancato di fare, alcuni principi al riguardo.
Tuttavia, rimane fondamentalmente un giudizio destruens perché è incentrato sulla rilevazione di illogicità − anzi di manifeste illogicità – nei ragionamenti, sicché soltanto in modo occasionale e in forme indirette può contenere delle indicazioni circa i corretti metodi da seguire per la ricostruzione dei fatti rilevanti per l’applicazione dei dati normativi.
Anzi, esorbiterebbe dal proprio ruolo la Corte di cassazione se, dopo avere rilevato una manifesta illogicità nel ragionamento, non si limitasse a annullare (con o senza rinvio secondo le specificità del caso) il provvedimento viziato ma si spingesse a esprimere valutazioni sugli elementi probatori o a indicare i dati da valorizzare o a tracciare un percorso da seguire nello sviluppo delle inferenze idonee a collegarli.
Il legislatore ha assegnato alla Corte di cassazione un compito minimale ma essenziale: annullare i provvedimenti dai contenuti manifestamente illogici: cioè privi delle condizioni necessarie per risultare logicamente accettabili.
Rinunciare (con modifiche legislative o per altre vie) a questo compito impoverirebbe le garanzie che il nostro sistema offre e che sono particolarmente opportune nella fase cautelare del procedimenti, quando le libertà personali e/o economiche delle persone possono essere compresse sulla base di dati non ancora dotati di una compiuta valenza probatoria.
Al riguardo occorre, però, la fissazione di canoni precisi[16]. Questo è possibile perché la logica formale lo consente secondo le sue norme, cioè in termini generali e astratti sotto i quali sussumere le fallacie riscontrabili nei ragionamenti censurati, certamente considerando i contenuti dei dati acquisti ma sulla base di criteri che non siano generati dal caso concreto.
Invece, indicazioni ulteriori, quelle idonee a delineare il percorso da seguire nel caso concreto per una ricostruzione dei fatti logica e persuasiva appartengono, appunto, alla sfera della mera logicità (rectius: della plausibilità o della persuasività) cioè a quella che si definisce la componente discrezionale o anche (con espressione criptica che è auspicabile divenga desueta) il merito del provvedimento. Quando accade che si impegni nel fornire indicazioni siffatte la Corte si indirizza verso un ruolo di giudice di terzo grado che non le compete e che non serve (anzi, in definitiva, nuoce) alla organizzazione giudiziaria.
Con il rischio, peraltro, di delineare una metodologia del metodo che, poiché elaborata in stretta relazione al caso concreto, potrebbe assumere i connotati di una (indesiderabile) metodologia del risultato.
[1] Relazione svolta presso Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Messina il 18/05/2021, nel seminario sul tema: L'art. 12 delle preleggi. Tra illusioni e prospettive di riforma.
[2] Interessanti spunti in: F. FOSCHINI, Interpretazione della legge e legistica: spunti di riflessione sull’interconnessione di questi due momenti dell’esperienza giuridica, in: Tigor: rivista di scienze della comunicazione, pp. 110-120.
[3] Così, ripetendo la posizione di Kelsen: R. GUASTINI, Interpretare, costruire, argomentare, in: Osservatoriosullefonti.it, fasc. 2/2015, p. 24.
[4] R. GUASTINI, Teoria e ideologia dell’interpretazione costituzionale, in: Giurisprudenza costituzionale, 1, 2006, pp. 743 ss.
[5] Sulla necessità di un “rinnovamento culturale” delle forme di espressione dei provvedimenti giurisdizionali, sia nella loro struttura che nei contenuti, puntuali osservazioni in: M. BRANCACCIO, Oltre il linguaggio giuridico, per un rinnovamento culturale della motivazione delle sentenze, in questa Rivista, 14 luglio 2021.
[6] L. Lombardi Vallauri, Corso di filosofia del diritto, Padova, Cedam, 2012; V. SPEZIALE, Le regole interpretative nella giurisprudenza, in: Lavoro e diritto, 2014, 2-3, pp. 273 ss.; P.Chiassoni, L'interpretazione nella giurisprudenza: splendori e miserie del "metodo tradizionale", in: Giornale di diritto del lavoro, 2008, 4, pp. 553. Sul tema anche: S. Cotta, Giustificazione e obbligatorietà delle norme, Milano, 1981.
[7] Sulla questione il recente: A. CORBINO, L’eredità ideologica della “politica” antica, Eurylink University Presse, Roma, 2021. Con postfazione di B. MONTANARI, L’eclisse del politico e la retorica democratica. pp. 163 ss.
[8] G. GORLA, I precedenti storici dell’art. 12 disposizioni preliminari del codice civile del 1942 (un problema di dritto costituzionale?), in: Il Foro italiano, 1969, 5, pp.112-132; E.Spagnesi, Reminiscenze storiche di una formula legislativa, in: Foro italiano, 1971, 9, pp.99-118; A.Ciervo, Soltanto alla legge? Il problema dell'ermeneutica giuridica dall' articolo 12 delle preleggi all'interpretazione adeguatrice, in: Rivista critica di diritto privato, 4, 2010, pp.631-664; V. VELUZZI, Commentario al codice civile diretto da E.Gabrielli, 2012, pp. 210-301; G.Cian, Articolo 12 delle preleggi, in: G.Cian (a cura di) Commentario al codice civile, *, 2020, pp. 10-12
[9] L’argomentazione sistematica nelle sue varie forme (il combinato disposto, la coerenza, la congruenza, l’eccezione) e l’argomentazione per principi sono entrambe ricondotte alla categoria della giustificazione esterna ossia quella che consiste nell’addurre ragioni per considerare una norma come valida e applicabile al caso: D. CANALE-G.Tuzet, La giustificazione della decisione giudiziale, Torino, Giappichelli, 2020, 61 ss., 119 ss., 133 ss.
[10] M. Ruotolo, Per una gerarchia degli argomenti dell'interpretazione, in: Giurisprudenza costituzionale, 5, 2006, pp. 3418 ss.
[11] Per un commento: G. PELAGATTI Efficacia sociale del linguaggio ed interpretazione antiletterale, in: Corriere giuridico, n. 6, pp. 825 ss. La pronuncia citata nel testo ha un precedente in altra sentenza (Cass. civ. Sez. 5, n. 15133 del 30/06/2006, Sfredda, Rv. 591293) che ha ritenuto che una disposizione concernente l’espressione «i diritti e gli obblighi delle società estinte» dovesse essere interpretata come se il termine «estinte» non vi fosse affatto, in modo da considerare le società fuse ancora esistenti dopo la fusione.
[12] Sul tema: A. COSTANZO, Condizioni di incoerenza. Un’analisi dei discorsi giuridici, Milano, Giuffrè, p.16 ss.
[13] G. SCACCIA, Gli «strumenti» della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, Milano, Giuffrè, 2000, specie 1 ss. e 182 ss.192 ss.
[14]Pare questo l’esito proprio dei percorsi ermeneutici sorti dalla esigenza di valutare la compatibilità o la conformità di norme (ordinarie) con altre norme (costituzionali) di livello gerarchico superiore anche se resta banalmente vero (come sottolinea: R. GUASTINI, Ancora sull’interpretazione costituzionale, in: Diritto pubblico, 2005, pp. 457 ss.) che vale anche per l'interpretazione costituzionale tutto lo strumentario concettuale elaborato in sede di teoria generale dell'interpretazione giuridica. Fra tutti: F. MODUGNO, Metodi ermeneutici e diritto costituzionale, in: Idem, Scritti sull’interpretazione costituzionale, Napoli, Editoriale Scientifica, 2008, 42, 68 e 79.
[15] Questioni complesse sorgono quando i principi fondamentali si presentano come fra loro incompatibili: in queste situazioni il loro bilanciamento non può compiersi in astratto ma calibrandolo in relazione alle particolarità di ciascun caso concreto. I disaccordi interpretativi radicali possono riguardare, in modo diretto, il contenuto delle disposizioni oggetto di interpretazione oppure, in modo indiretto, il modo di accostarsi alla loro interpretazione. Quelli più difficoltosi da risolvere riguardano l’interpretazione dei principi che riconoscono diritti fondamentali o i conflitti fa principi normativi, oppure l’applicazione delle clausole generali. V. Villa, Disaccordi interpretativi profondi. Saggio di metagiurisprudenza ricostruttiva, Torino, Giappichelli, 2017, 5,43, 99.
[16] Mi permetto di rinviare sul tema a: A. COSTANZO, Anomia della illogicità manifesta, in: Cassazione penale, 3, 2019, pp. 1308-1326.
Spunti per la riforma della giustizia tributaria nella relazione della Commissione interministeriale del 30 giugno 2021
di Francesco Pistolesi
Sommario: 1. Premessa - 2. La specializzazione dei giudici tributary - 3. Il contraddittorio preprocessuale e l’autotutela - 4. Gli strumenti deflativi del contenzioso tributario - 5. La giustizia predittiva - 6. L’indipendenza dei giudici tributari - 7. Le difese processuali - 8. Il giudizio di legittimità - 9. Conclusioni.
1. Premessa
La relazione finale del 30 giugno 2021 della Commissione interministeriale per la riforma della giustizia tributaria[1] offre molti interessanti spunti di riflessione e discussione.
Prima di esaminare nel dettaglio le proposte avanzate in detta relazione, credo sia doveroso esprimere apprezzamento per l’atteggiamento pragmatico e libero da condizionamenti mostrato dalla Commissione. Essa ha individuato con puntualità le criticità dell’attuale assetto del processo tributario e ne ha delineato una possibile riforma, che appare sostanzialmente idonea ad assicurarne maggiori efficienza e celerità.
Forse, qualche ulteriore accorgimento avrebbe potuto prospettarsi per cercare di assicurare anche una maggiore aderenza di questo giudizio al principio, di rango sovranazionale e costituzionale, del “giusto processo”, ma avrò occasione di segnalarlo nello svolgimento di queste note di commento alla menzionata relazione finale.
2. La specializzazione dei giudici tributari
La relazione individua sette direttrici di azione per la possibile riforma del processo tributario.
Esse consistono:
1) nell’intervenire sui procedimenti tributari, ampliando il contraddittorio e il ricorso all’autotutela;
2) nel migliorare l’offerta complessiva di giustizia, con correttivi agli strumenti deflativi del contenzioso e, in specie, alla conciliazione giudiziale;
3) nel colmare il deficit di informazione sulla giurisprudenza tributaria;
4) nel rafforzare la specializzazione dei giudici tributari;
5) nel consolidare l’indipendenza dei medesimi giudici;
6) nell’apprestare migliori difese processuali degli interessi in gioco;
7) nel migliorare l’offerta di giustizia nel contesto del giudizio di legittimità.
Tutte le illustrate direttrici sono condivisibili e, come anticipato, lo sono pressoché tutte le proposte avanzate dalla Commissione con riferimento a esse.
Peraltro, su una delle direttrici più significative – quella concernente la specializzazione dei giudici tributari – la relazione prospetta due diverse opzioni, rimettendo la scelta su quale perseguire al Governo, prima, e al Parlamento, poi.
Le due soluzioni enunciate, seppur significativamente diverse (l’una consistente nella creazione di un corpo di giudici speciali tributari a tempo pieno che abbiano superato un pubblico concorso e l’altra volta alla conservazione della magistratura tributaria onoraria, seppur prevedendo – nella fase di appello e per le controversie più rilevanti – l’introduzione di sezioni composte da magistrati ordinari, amministrativi o contabili che optino per l’esercizio a tempo pieno delle funzioni giurisdizionali tributarie e da avvocati, commercialisti e docenti che si dedichino prevalentemente a tali funzioni), sono entrambe in grado di realizzare il fine di incrementare la specializzazione dei giudici tributari.
Infatti, tale specializzazione è raggiungibile, oltre che con l’istituzione di una magistratura speciale selezionata per concorso, anche grazie all’impegno in via esclusiva o prevalente degli odierni componenti delle Commissioni Tributarie.
Seppure a chi scrive appaia preferibile la prima opzione[2], non può sottacersi che la seconda consente di meglio preservare l’esperienza degli attuali giudici tributari, che non merita di essere dispersa.
Tant’è che, nell’immaginare la creazione di un corpo di giudici speciali tributari a tempo pieno vincitori di un pubblico concorso, si sarebbe forse potuto prevederne l’assunzione in misura tale da colmare, con cadenza annuale, le carenze di organico degli odierni giudici tributari da qualsivoglia ragione determinate. Per dirla semplicisticamente, tanti giudici “entrano” quanti ne “escono”. Così si otterrebbe un ordinato turn over nei ranghi dei giudici tributari, prevedendo una lunga fase transitoria con la compresenza dei nuovi giudici con gli attuali, che risulterebbero “in esaurimento”. Compresenza che potrebbe consentire una proficua condivisione di esperienze, nel segno al contempo dell’incremento della specializzazione dei componenti delle Commissioni Tributarie e dell’auspicata condivisibilità delle relative decisioni.
Tuttavia, come anticipato, la scelta fra le due soluzioni è eminentemente politica, ma – quale essa sia – è ragionevole attendersi che potrà conseguirsi l’auspicata migliore preparazione dei giudici tributari. E con essa l’indipendenza e la terzietà di costoro, che inevitabilmente ne discendono.
In ogni caso, e per concludere sul punto, occorrerà che i giudici tributari svolgano una costante e obbligatoria attività di formazione e aggiornamento, che è essenziale nella nostra materia e che ben potrà essere promossa e verificata dal Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria.
3. Il contraddittorio preprocessuale e l’autotutela
La prima delle direttrici segnalate riguarda l’ampliamento del contraddittorio preprocessuale e dell’autotutela.
L’introduzione nello Statuto dei diritti del contribuente di una norma generale che riconosca il “diritto del contribuente al contraddittorio” è senz’altro positiva.
Per come tale norma è formulata, si prospetta una tutela del contraddittorio preprocessuale particolarmente spiccata.
Da un lato, il comma 1 dell’ipotizzato art. 6-bis dello Statuto, secondo cui “il contribuente ha diritto di partecipare al procedimento amministrativo diretto alla emissione di un atto di accertamento o di riscossione dei tributi”, consente di affermare che il contraddittorio si esplichi non solo prima che l’ente impositore o l’agente della riscossione notifichino l’atto che hanno adottato, ma anche in quella istruttoria. Quindi, in una fase in cui la giurisprudenza europea non riconosce il diritto al contraddittorio[3].
Dall’altro lato, il comma 2 dello stesso art. 6-bis, prevedendo che “l’atto emesso in violazione del comma precedente è nullo”, esclude la cosiddetta “prova di resistenza” richiesta dal vigente comma 5 dell’art. 5-ter del D.L.vo n. 218/1997. Ciò, di nuovo, diversamente da quanto sostenuto dalla giurisprudenza europea[4].
Il primo dei profili evidenziati merita incondizionata condivisione. Il confronto nel momento in cui si forma il materiale istruttorio adducibile a sostegno dell’atto impositivo può rivelarsi proficuo per entrambe le parti del rapporto tributario. Sono numerose le occasioni nelle quali vengono compiute – pur in assenza di accesso nei locali ove opera il contribuente – attività istruttorie che, per la loro natura, palesano l’opportunità di un confronto fra l’organo procedente e il privato. Si pensi al rilascio di dichiarazioni da parte di soggetti terzi, al controllo dei dati bancari o ad altre attività in ordine alle quali l’anticipazione del confronto nella fase di raccolta degli elementi probatori può essere preziosa sia per l’ente impositore che per il contribuente.
Diversamente, possono avanzarsi dei dubbi sull’opportunità di escludere la menzionata “prova di resistenza”. È innegabile, difatti, come essa dissuada, indirettamente ma efficacemente, il privato da un approccio formalistico e strumentale al contraddittorio.
In subordine, la Commissione – forse conscia della profonda portata innovativa del menzionato art. 6-bis e delle resistenze che la sua approvazione potrebbe incontrare – suggerisce una modifica del comma 2 dell’art. 5-ter, restringendo più che opportunamente la deroga all’operatività del contraddittorio preventivo ai soli avvisi di accertamento parziale “fondati esclusivamente su dati in possesso dell’anagrafe tributaria”[5].
Anche l’approdo nello Statuto di una norma che renda obbligatoria l’autotutela è più che apprezzabile, oltre a risultare un’opzione del tutto legittima come ha riconosciuto pure la Corte Costituzionale con la sentenza n. 181 del 13 luglio 2017.
Opportuna anche la previsione di un termine, per così dire, di “sbarramento” al doveroso esercizio dell’autotutela (in caso di atti definitivi, decorsi due anni dal giorno dell’intervenuta definitività o, se posteriore, da quello in cui si è verificato il presupposto per la proposizione dell’istanza di autotutela da parte del privato). Ciò soddisfa la ben comprensibile esigenza di certezza dei rapporti giuridici nella materia tributaria.
Parimenti, appare perfettamente coerente con i principi che governano il processo tributario la necessità di impugnare il rifiuto espresso o tacito all’esercizio dell’autotutela in caso di atti definitivi. La previsione della tutela giurisdizionale rende effettiva la rilevata doverosità dell’autotutela.
Inappuntabile si rivela altresì l’estensione del termine di impugnazione del rifiuto tacito di rimborso (il ricorso può proporsi decorsi novanta giorni dalla presentazione della relativa istanza e finché il diritto alla restituzione non è prescritto) al rifiuto parimenti tacito di avvalersi dell’autotutela da parte dell’ente impositore o dell’agente della riscossione.
4. Gli strumenti deflativi del contenzioso tributario
La seconda direttrice concerne gli strumenti deflativi del contenzioso tributario.
Preliminarmente, è da condividere la scelta di non modificare l’odierno assetto del reclamo e della mediazione.
La creazione di un organo “terzo” cui rimettere detta mediazione, di cui da più parti si era segnalata l’opportunità, avrebbe creato più problemi di quanti ne avrebbe potuti risolvere.
Prescindendo dalle difficoltà applicative e dagli oneri che tale scelta avrebbe determinato, si sarebbe spezzato l’essenziale nesso sussistente fra questo istituto e l’autotutela.
Il reclamo non potrebbe essere accolto da un organo diverso dall’ente impositore poiché ciò ne lederebbe le prerogative, volte ad assicurare il rispetto dei principi di legalità nella materia tributaria e di capacità contributiva. Prerogative che devono, però, essere esercitate con massime equanimità e trasparenza, al fine di evitare inaccettabili disparità di trattamento fra i privati e perché si possa realizzare un efficace filtro all’accesso alla giustizia tributaria.
Ben si comprende, quindi, perché il comma 4 dell’art. 17-bis del D.L.vo n. 546/1992 affidi la gestione del reclamo e della mediazione a strutture “diverse ed autonome” da quelle che hanno consentito l’adozione degli atti reclamabili.
Obiettivo, questo, agevolmente raggiungibile per le Agenzie fiscali, in virtù delle relative dimensioni organizzative, ma non per molti enti locali – si pensi ai tanti piccoli Comuni presenti in Italia – chiamati ad accertare i tributi di propria spettanza.
Sarebbe pertanto auspicabile, per questi ultimi enti, la creazione di consorzi o l’affidamento delle funzioni di accertamento, liquidazione e riscossione ai soggetti contemplati dall’art. 53 del D.L.vo n. 446/1997[6], se dotati di adeguate autonome ripartizioni di competenze al loro interno.
Ciò potrebbe valorizzare la mediazione, che ha comunque consentito un significativo abbattimento delle liti tributarie e, soprattutto, ha stimolato un più diffuso ricorso all’autotutela.
La Commissione, invece, propone di intervenire sulla disciplina della conciliazione.
Scelta opportuna poiché è esperienza diffusa che le soluzioni stragiudiziali intervengono più diffusamente grazie alla mediazione che non alla conciliazione. Quindi, è da salutare con favore il tentativo di rafforzare questo istituto.
Le proposte formulate sono convincenti: l’aggravio della condanna alla refusione delle spese di lite in caso di ingiustificato rifiuto dell’ipotesi conciliativa e la possibilità, per le cause soggette alla disciplina del reclamo e della mediazione, che il giudice formuli alle parti una proposta conciliativa favoriranno un maggior ricorso alla conciliazione.
Si sarebbero, però, potute prendere in considerazione anche altre iniziative, parimenti tese a rendere più efficienti gli istituti deflativi del nostro contenzioso. In particolare:
a) si potrebbe prevedere la possibilità di conciliare le cause tributarie anche nella fase di legittimità: ne risulterebbe favorito l’abbattimento dell’enorme mole delle controversie fiscali pendenti di fronte alla Corte Suprema;
b) si potrebbero estendere alla conciliazione e all’accertamento con adesione i criteri di stampo squisitamente transattivo previsti per la mediazione (allorché l’ente impositore o l’agente della riscossione si risolva a formulare un’ipotesi di mediazione può far riferimento, stando al comma 5 dell’art. 17-bis del D.L.vo n. 546, “all’eventuale incertezza delle questioni controverse, al grado di sostenibilità della pretesa e al principio di economicità dell’azione amministrativa”). Si eliminerebbe così una palese incoerenza del vigente sistema di soluzione stragiudiziale dei rapporti tributari perché con riferimento alla stessa obbligazione, interessata ad esempio da un atto di accertamento, il contribuente ha tre opzioni per evitare la lite o per porvi fine: in ordine di successione temporale, l’accertamento con adesione, la mediazione e la conciliazione. Di tali istituti solo la mediazione, l’unico obbligatorio a differenza dell’accertamento con adesione e della conciliazione, offre la possibilità di impiegare criteri transattivi, pur nel rispetto dei principi di trasparenza, imparzialità e correttezza che sempre devono caratterizzare l’operato, ai sensi dell’art. 97 Cost., dell’ente impositore e dell’agente della riscossione;
c) si potrebbe eliminare la sovrapposizione fra accertamento con adesione e mediazione, riservando quest’ultima ai soli atti impositivi e della riscossione non interessati dal procedimento di accertamento con adesione o per i quali detto procedimento non si è in concreto svolto. Non ha senso rinnovare il tentativo di soluzione stragiudiziale allorché quello intrapreso con l’accertamento con adesione è appena naufragato. Una volta radicato il processo, potrà eventualmente farsi ricorso alla conciliazione. Ovviamente, se si perseguisse questa iniziativa, occorrerebbe rivedere la misura dell’abbattimento delle sanzioni, prevedendo che spetti la riduzione contemplata per l’accertamento con adesione qualora si pervenga alla soluzione stragiudiziale in sede di mediazione.
5. La giustizia predittiva
La terza direttrice attiene alla necessità di colmare il deficit informativo, anche nell’ottica della cosiddetta “giustizia predittiva”.
Di nuovo, possono sposarsi senza remore le considerazioni e la raccomandazione svolte dalla Commissione interministeriale, che collimano pure con quanto si legge in ordine alla riforma della giustizia tributaria nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (in seguito, PNRR).
Si può solo osservare che anche i giudici tributari possono essere all’oscuro delle prese di posizione degli altri collegi all’interno della medesima Commissione Tributaria, oltre che delle altre Commissioni.
Ben vengano, dunque, le iniziative che il Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria e le Agenzie fiscali adotteranno per rendere conoscibili a tutti gli operatori del nostro processo le pronunce di merito.
6. L’indipendenza dei giudici tributari
Della quarta direttrice, relativa alla specializzazione dei giudici tributari, si è già detto.
La quinta prospettiva di riforma ha per oggetto il consolidamento dell’indipendenza dei giudici tributari.
La Commissione non reputa necessario suggerire la collocazione dei giudici tributari presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri o il Ministero della Giustizia.
Risulta, così, confermata la dipendenza, ovviamente dal punto di vista organizzativo, delle Commissioni Tributarie dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, che retribuisce anche i magistrati tributari.
Tuttavia, ciò non concorre a consolidare l’indipendenza dei giudici tributari, in considerazione del fatto che il Ministero dell’Economia e delle Finanze controlla e indirizza l’attività delle Agenzie fiscali, che sono parti del nostro giudizio.
È indubbio che detto Ministero non eserciti alcuna forma di condizionamento dei giudici, ma il solo fatto che da esso ne dipenda la retribuzione getta un’ombra sugli organi del contenzioso tributario. Ombra che si potrebbe agevolmente dissipare prevedendo appunto che l’organizzazione delle Commissioni Tributarie e la retribuzione dei relativi membri competa alla Presidenza del Consiglio dei Ministri o al Ministero della Giustizia.
Viceversa, sono assolutamente da apprezzare i rilievi e le raccomandazioni, esposti dalla Commissione, sulle concrete modalità di determinazione dei compensi dei giudici tributari, sulla creazione di un apposito ruolo di dirigenti e impiegati al servizio del Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria e sul reclutamento e sulla formazione professionale del personale amministrativo addetto alle Commissioni Tributarie.
7. Le difese processuali
La sesta direttrice attiene all’introduzione di migliori difese processuali degli interessi in giuoco.
Probabilmente, è l’argomento su cui – a giudizio di chi scrive – la Commissione avrebbe potuto avanzare maggiori proposte.
Ma procediamo con ordine, esaminando anzitutto i suggerimenti recepiti nella relazione finale.
Il primo si sostanzia nel prospettato inserimento del comma 4-bis nell’art. 7 del D.L.vo n. 546/1992, in base al quale “Le Commissioni tributarie non possono porre a fondamento della propria decisione elementi di prova acquisiti in violazione di diritti fondamentali di rango costituzionale”.
Sostanzialmente, la Commissione recepisce l’indirizzo interpretativo della Corte di Cassazione, secondo cui le sole prove acquisite in spregio di fondamentali principi costituzionali sono inutilizzabili[7].
Si tratta di una soluzione comprensibile, frutto del bilanciamento fra interessi contrapposti, quello volto ad assicurare la legittimità del procedimento istruttorio e la tutela dei diritti del privato, da una parte, e quello teso ad accertare la verità dei fatti controversi, dall’altra, in un processo – qual è quello tributario – avente a oggetto rapporti di decisiva rilevanza economica e sociale e in cui, conseguentemente, è spiccato l’anelito ad appurare detta verità.
Non può, peraltro, nascondersi come questa opzione presenti un inconveniente. Essa finisce per assecondare le condotte illegittime nel corso dell’istruttoria fiscale, beninteso diverse da quelle che si traducono nella lesione dei rammentati “diritti fondamentali di rango costituzionale”. Non vi sarà più alcun dubbio, per esempio, sul lecito impiego degli esiti delle indagini finanziarie svolte indebitamente.
V’è solo da esprimere l’auspicio che il giudice, pur ammettendo le prove acquisite illecitamente, evidenzi e stigmatizzi il contegno contra legem. Così risulterebbe almeno stimolata l’applicazione di misure disciplinari a carico dei verificatori che hanno violato le regole che sovrintendono la raccolta dei dati istruttori.
Inoltre, sarebbe opportuno che le Commissioni Tributarie, qualora dovessero respingere le tesi del privato valendosi di tali prove, evitassero di addossargli le spese processuali.
La seconda proposta della Commissione riguarda la non impugnabilità degli estratti di ruolo.
Essa è frutto della contingente e recente esperienza della sospensione delle notifiche delle cartelle di pagamento a causa dell’emergenza sanitaria, che ha determinato un eccezionale proliferare dei ricorsi avverso detti estratti.
Ad ogni modo, la norma suggerita è formulata in termini più che ragionevoli, poiché ammette il ricorso contro tali estratti quando obiettivamente si rende necessario tutelare le ragioni del contribuente, ossia per evitare l’esclusione da una procedura di appalto o per non incorrere nel blocco dei pagamenti da parte di soggetti pubblici.
Pure il terzo suggerimento che si legge nella relazione finale merita di essere condiviso. L’estensione della possibilità di difesa tecnica ai Centri di Assistenza Fiscale (CAF) per le liti di valore fino a 3.000 euro, anche se non riguardanti adempimenti dei propri assistiti, va nell’apprezzato senso di consentire un’assistenza adeguata e non particolarmente onerosa per le controversie di minor rilievo economico. E, sempre con riferimento al tema dell’assistenza tecnica, merita di essere sviluppata l’idea esposta dal Prof. Franco Gallo, audito dalla Commissione, di imporre a chiunque sia abilitato al patrocinio innanzi alle Commissioni Tributarie di rispettare una sorta di “codice etico”, ossia regole deontologiche idonee a indirizzare un contegno probo e leale dei difensori nei rapporti con i propri assistiti, con le controparti e con il giudice.
Grazie al quarto consiglio si prospetta finalmente l’abrogazione dell’inaccettabile vigente divieto di assunzione della prova testimoniale nel processo tributario.
Non rinnovo qui l’indicazione delle ragioni che militano contro tale divieto[8]. Ed esprimo, perciò, sincero apprezzamento per il fatto che la Commissione abbia assunto l’iniziativa volta a elidere questa anomalia del nostro processo.
Al contempo, però, segnalo che si sarebbe potuto osare di più.
Vero è che, nella gran parte dei casi, la necessità della prova per testi emerge allorché nell’istruttoria condotta dall’ente impositore o dalla Guardia di Finanza vengono rese dichiarazioni da parte di soggetti terzi rispetto al contribuente.
Tuttavia, l’esigenza di assumere una testimonianza può sorgere anche in altre circostanze. Si faccia il caso in cui l’Agenzia delle Entrate contesti la fittizietà di determinate fatture adducendo – come di frequente avviene – la mancanza di struttura organizzativa del venditore dei beni o servizi e/o la non congruenza dei prezzi praticati. In un contesto del genere, potrebbe essere importante chiamare a teste il dipendente della parte acquirente che ha seguito le operazioni contestate e/o l’agente che ha messo in contatto i contraenti e/o un esperto operatore del settore merceologico cui sono riconducibili dette operazioni. Gli esempi potrebbero proseguire, ma non credo sia arduo rendersi conto che, una volta intrapresa la meritoria strada della soppressione del divieto di acquisizione della prova testimoniale, sarebbe stato preferibile non porre una limitazione del genere di quella che si legge nell’ipotizzato nuovo comma 4 dell’art. 7 del D.L.vo n. 546/1992[9].
Appaiono, invece, ragionevoli le scelte di utilizzare la testimonianza in forma scritta ex art. 257-bis cod. proc. civ., in quanto sicuramente più adatta all’assetto del giudizio tributario in cui manca una vera e propria fase istruttoria, e di riservare la prova per testi al contribuente, dal momento che l’ente impositore – se vuole – può, nel corso dell’istruttoria che precede l’adozione degli atti impositivi, assumere informazioni e dichiarazioni da parte del contribuente medesimo e dei terzi.
Comunque, se la norma suggerita nella relazione finale vedesse effettivamente la luce, vi sarebbe ragione di esserne lieti. Il divieto di prova testimoniale ha mostrato una tale resistenza, che sarebbe in ogni caso un risultato importante l’averne ottenuto l’eliminazione, seppur con la rilevata nota critica sulla compressa estensione di siffatto mezzo istruttorio.
Infine, la Commissione formula una condivisibile raccomandazione sul miglioramento del processo tributario telematico[10]. Non solo ne è apprezzabile il contenuto, ma è meritevole di segnalazione la più che opportuna attenzione mostrata su uno dei profili più importanti – e, a mio avviso, più positivi – dell’odierno regime del nostro processo. Semplificare e ottimizzare il funzionamento del giudizio telematico ha un rilievo decisivo per rendere più accessibile, celere ed efficiente la tutela giurisdizionale nella materia tributaria.
A questa nota positiva deve, peraltro, accompagnarsene una di diverso tenore.
Infatti, la Commissione avrebbe potuto considerare altri aspetti funzionali ad assicurare migliori difese processuali degli interessi in giuoco.
Anche alla luce della rilevanza assunta dal principio europeo e costituzionale del “giusto processo”, avrebbero potuto trovare spazio fra le ipotesi di riforma i profili di seguito succintamente illustrati:
a) l’art. 47 del D.L.vo n. 546/1992 contempla solo la sospensione dell’atto impugnato, di modo che per gli atti a contenuto negativo tale inibitoria è inutile. Si pensi al rifiuto, espresso o tacito, del rimborso dei tributi o al diniego di un’agevolazione (ma non la sua revoca, che ben può essere sospesa) o, ancora, al rigetto della domanda di definizione agevolata di rapporti tributari o all’istanza di dilazione di pagamento dei tributi. Per essi la tutela cautelare postula l’adozione di una misura sostitutiva del provvedimento negativo, ossia, nei casi fatti, l’atto che riconosce il diritto al rimborso e ne dispone l’erogazione e l’atto che concede l’agevolazione o accoglie la domanda di “condono” o quella di rateazione. Siccome detta misura sostitutiva fuoriesce dall’ambito di operatività dell’art. 47 cit., ne sarebbe apparsa opportuna la revisione. Ciò al fine di assicurare la tutela cautelare, che è componente essenziale del diritto di tutela giurisdizionale, anche nelle cause vertenti sui menzionati provvedimenti negativi;
b) la preclusione, sancita dall’art. 32, comma 4, del D.P.R. n. 600/1973 e dall’art. 52, comma 5, del D.P.R. n. 633/1972, all’impiego in sede contenziosa dei documenti non forniti dal privato nel corso dell’istruttoria fiscale, in assenza di cause di forza maggiore, non assicura la pienezza del diritto di difesa. Questa preclusione, pur potendosi spiegare invocando il principio di collaborazione e lealtà ex art. 10, comma 1, dello Statuto dei diritti del contribuente, contrasta con il principio del “giusto processo” e con l’affermazione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per cui è espressione di detto principio anche il “diritto al silenzio” del soggetto interessato dalla verifica tributaria[11]. Il divieto sancito dalle norme sopra indicate lede altresì il principio di proporzionalità, sempre di matrice europea, poiché sanziona in termini eccessivi detta mancata collaborazione. In tal senso, oltretutto, depone la recente sentenza n. 81 del 30 aprile 2021 della Corte Costituzionale, che ha sancito l’illegittimità della norma che sanzionava colui che si rifiutava di fornire alla CONSOB risposte che avrebbero potuto far emergere la sua responsabilità per un illecito punibile in via amministrativa o penale. Pertanto, la Commissione sarebbe potuta intervenire per eliminare questa preclusione;
c) l’art. 23, comma 3, del D.L.vo n. 546/1992 prevede che la parte resistente, nelle proprie controdeduzioni, proponga le eccezioni non rilevabili d’ufficio e ivi faccia istanza per la chiamata di terzi in causa. Secondo la giurisprudenza[12], queste attività devono essere eseguite presentando tempestive controdeduzioni, ossia nel termine di sessanta giorni dalla ricezione del ricorso. Qualora il resistente non intenda svolgere eccezioni non rilevabili d’ufficio e chiamare terzi in causa, sempre la giurisprudenza[13] ritiene che la costituzione in giudizio possa avvenire – senza incorrere in alcuna preclusione – anche oltre il termine di sessanta giorni. Siccome le eccezioni riservate all’iniziativa della parte nel nostro processo sono solo quelle di prescrizione e di compensazione, si comprende come il resistente possa, nella gran parte dei casi, determinarsi a costituirsi tardivamente. Se si aggiunge che la decadenza dal diritto di rimborso azionato dal contribuente è rilevabile d’ufficio, ex art. 2969 cod. civ., poiché integra una causa di improponibilità dell’azione giudiziaria in materia sottratta alla disponibilità della parte pubblica, qual è quella tributaria[14], e che la chiamata di terzi non ricorre frequentemente, si ha conferma che il resistente può fare affidamento sulla costituzione tardiva. Sennonché, ciò non è apprezzabile per due ragioni: perché contraddice i principi di speditezza e concentrazione cui si ispira il giudizio tributario e poiché introduce una disparità di regime fra le parti, stante la perentorietà del termine di costituzione in giudizio per il solo ricorrente, non giustificata alla luce del principio di parità delle armi, ritraibile dal canone del “giusto processo”[15]. Le stesse considerazioni valgono per la costituzione nel giudizio di appello, ove la parte appellata è tenuta a rispettare il termine di sessanta giorni decorrente dalla notifica dell’atto di impugnazione solo qualora intenda proporre appello incidentale. Sarebbe stato, quindi, apprezzabile se la Commissione si fosse fatta latrice della proposta di rendere perentorio il termine per la costituzione in giudizio della parte resistente in primo grado e della parte appellata in secondo grado;
d) La Commissione avrebbe potuto farsi promotrice della riforma della L. n. 89/2001 affinché anche il processo tributario figuri fra quelli che danno titolo a ottenere un’equa riparazione in caso di relativa eccessiva durata. Infatti, la ragionevolezza del tempo di svolgimento di ogni processo è sancita dall’art. 111, comma 2, Cost. e si ritrae, di nuovo, dal principio del “giusto processo”.
8. Il giudizio di legittimità
La settima e ultima direttrice attiene al giudizio di legittimità, sul quale fra l’altro si concentra il principale obiettivo indicato nel PNRR con riferimento alla riforma della giustizia tributaria[16].
La Commissione avanza delle proposte “tecniche” assolutamente condivisibili. Il rinvio pregiudiziale, espressamente contemplato nel PNRR, e il ricorso nell’interesse della legge del Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione[17] potrebbero consentire di anticipare la formazione di autorevoli indirizzi interpretativi, idonei a orientare le scelte dei contribuenti nell’intraprendere o meno il contenzioso e a confortare le decisioni dei giudici di merito. Ciò con indubbie positive ricadute in termini di riduzione delle liti pendenti e di uniformità delle pronunce delle Commissioni Tributarie.
Anche i suggerimenti volti a favorire una maggiore permanenza dei magistrati nella sezione tributaria della Corte di Cassazione e l’assegnazione a quest’ultima dei giudici addetti all’ufficio del Massimario della medesima Corte sono del tutto apprezzabili.
In specie, la limitazione del turn over dei giudici della sezione tributaria, oltre a consentirne l’affinamento della preparazione e dell’esperienza, contribuirebbe a stabilizzare la giurisprudenza della sezione stessa, accrescendone così l’autorevolezza.
Per contro, penso che potrebbe avere una minor incidenza nell’abbattere il considerevolissimo stock dei giudizi pendenti nella fase di legittimità l’introduzione – sulla falsariga di quanto avviene nei processi amministrativo e contabile – della necessità, decorso un dato termine dalla proposizione dei ricorsi, di ribadire l’interesse alla relativa decisione. Già gli istituti dell’autotutela e della rinuncia al ricorso per cassazione possono adeguatamente sovvenire in proposito.
Infine, nella relazione si ipotizza anche il ricorso a un “condono” per le controversie rimesse all’esame della Corte Suprema.
Trattasi di una scelta squisitamente “politica”, le cui controindicazioni – dal punto di vista etico, della parità di trattamento fra i contribuenti, del rispetto del principio di capacità contributiva, dell’effettività della tutela giurisdizionale offerta dal nostro ordinamento, della frustrazione degli sforzi compiuti dagli enti impositori per assicurare il rispetto della disciplina fiscale e via discorrendo – sono talmente note che non v’è bisogno di attardarsi al riguardo.
Tuttavia, come si suol dire, “a mali estremi, estremi rimedi”. Credo che questa massima di buon senso, unitamente alla constatazione dell’impossibilità o comunque dell’estrema difficoltà di assorbire in tempi ragionevoli l’enorme arretrato pendente dinanzi alla sezione tributaria della Corte di Cassazione, abbia indotto la Commissione a formulare l’ipotesi della “definizione agevolata delle liti” ivi in attesa di decisione.
In ogni caso, quale che sia la scelta che il Governo e il Parlamento effettueranno, i termini di detta “definizione agevolata delle liti” suggeriti nella relazione finale appaiono, sotto il profilo “tecnico”, equilibrati e più che ragionevoli.
9. Conclusioni
Concludo queste brevi note permettendomi di avanzare qualche ulteriore ipotesi di intervento sulla disciplina del processo tributario.
In sintesi:
a) si potrebbe pensare di istituire un giudice monocratico in primo grado per controversie di valore contenuto e, di regola, “seriali”: si pensi a quelle in materia di tributi regionali, provinciali e comunali e di contributi spettanti ai consorzi di bonifica. Il giudice monocratico andrebbe individuato fra i giudici tributari appartenenti alle magistrature ordinaria, amministrativa o contabile o fra quelli nominati a seguito di concorso, qualora si perseguisse questa opzione riformatrice. Introducendo una soglia di valore più elevata (ad esempio, di euro 25.000) rispetto a quella (di euro 3.000) proposta da una parte della Commissione per l’eventuale istituzione di un “giudice onorario monocratico”, si potrebbe ridurre il carico di lavoro dei collegi giudicanti in primo grado e velocizzarne i tempi di decisione delle liti. E ciò, stante la natura “specialistica” e “seriale” delle cause che verrebbero rimesse al giudice monocratico, senza ragionevolmente pregiudicare la qualità delle sentenze che sarebbero rese;
b) si potrebbe armonizzare il regime del procedimento cautelare pro Fisco previsto dall’art. 22 del D.L.vo n. 472/1997 con quello regolato dall’art. 47 del D.L.vo n. 546/1992, disciplinandolo nel contesto del medesimo D.L.vo n. 546 e, soprattutto, eliminando la previsione secondo cui esso si conclude con l’adozione di una sentenza (anziché di un’ordinanza, com’è previsto per il procedimento cautelare in favore del contribuente);
c) si potrebbe pensare di regolare il regime della cosiddetta “impugnazione facoltativa”, frutto di un’ormai consolidata interpretazione giurisprudenziale, prevedendo le conseguenze che ne discendono laddove all’atto impugnabile “facoltativamente” faccia seguito quello impugnabile “necessariamente”, secondo quanto stabilito dall’art. 19 del D.L.vo n. 546/1992. Ciò andrebbe a beneficio della certezza del diritto di azione giurisdizionale in materia tributaria e ne determinerebbe un indubbio rafforzamento. Non solo, in detto contesto, si potrebbe pure immaginare di rendere “facoltativamente” impugnabile la risposta alla domanda di interpello ex art. 11, comma 1, lett. a), dello Statuto dei diritti del contribuente, quando l’ente impositore risolva un dubbio interpretativo su una norma tributaria o qualifichi una fattispecie e, in relazione al concreto caso prospettato, non occorra svolgere alcuna attività istruttoria. La possibilità di agire contro questa risposta eviterebbe l’adozione dell’atto “necessariamente” impugnabile, di cui all’art. 19 del D.L.vo n. 546, ove il contribuente disattenda la tesi dell’ente impositore o la domanda di rimborso qualora il privato si adegui al responso ricevuto ma intenda comunque rimettere al giudice la soluzione della controversa questione interpretativa o della dibattuta qualificazione di fattispecie. In tal modo, entrambe le parti del rapporto tributario conseguirebbero anticipatamente la sentenza idonea ad assicurarne l’auspicata certezza.
Insomma, il lavoro svolto dalla Commissione è di stimolo per ipotizzare anche altri interventi di riforma dell’odierno assetto del giudizio tributario.
A questo punto, v’è solo da auspicare che il Governo e il Parlamento, consapevoli di quanto sia importante assicurare l’efficienza e la celerità del processo tributario in ogni fase unitamente al suo pieno adeguamento al principio del “giusto processo”, intervengano sollecitamente per realizzare questi obiettivi.
[1] La relazione è consultabile sul sito www.fiscooggi.it. Sull’argomento, v. A. Marcheselli, Aspettando Godot. Note minime e minoritarie a margine della proposta di riforma della Giustizia tributaria, in questa Rivista, 12 luglio 2021.
[2] Come, anche di recente, ho avuto occasione di precisare in “Il processo tributario”, Torino, 2021, pp. 8-9.
[3] V., in particolare, Corte Giust. Eur., 22 ottobre 2013, causa C-276/12, Sabou.
[4] V., in specie, Corte Giust. Eur. 3 luglio 2014, causa C-129/13, Kamino.
[5] Sul punto sia consentito rinviare ai più approfonditi rilievi che ho svolto in “Il contraddittorio generalizzato”, in Giur. imp., 2019, n. 2, pp. 147 ss.
[6] Ossia i soggetti privati abilitati a effettuare attività di liquidazione, accertamento e riscossione dei tributi e delle altre entrate di Comuni e Province e iscritti in apposito albo istituito presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze.
[7] V., per esempio, Cass., sez. V, 22 febbraio 2013, n. 4498, concernente l’inviolabilità del domicilio.
[8] Mi permetto di rinviare ancora a “Il processo tributario”, cit., pp. 127-128.
[9] Secondo la proposta della Commissione, il nuovo comma 4 dell’art. 7 cit. risulta così formulato: “Non è ammesso il giuramento. Su istanza del ricorrente il giudice può autorizzare la prova testimoniale assunta in forma scritta ai sensi del codice di procedura civile su circostanze oggetto di dichiarazioni di terzi contenute in atti istruttori”.
[10] Il contenuto di tale raccomandazione è il seguente: “La Commissione auspica un intervento legislativo diretto alla estensione e al miglioramento del processo tributario telematico, con la finalità di semplificare per tutti i soggetti del processo tributario l’esercizio delle rispettive attività, eliminando adempimenti superflui e prevedendo per quelli indispensabili, meccanismi automatici o semplificati di esecuzione. Il tutto nell’ambito di una omogeneizzazione e semplificazione dei diversi processi telematici esistenti, finalizzate ad un dialogo tra i vari sistemi con collegamenti tra le relative banche dati”.
[11] V. la sentenza “Chambaz” del 5 aprile 2012.
[12] V. Cass., sez. V, 2 aprile 2015, n. 6734.
[13] V., nuovamente, Cass. n. 6734/2015, nonché Cass., sez. VI, 6 febbraio 2020, n. 2876.
[14] In tal senso, cfr. Cass., sez. VI, 26 settembre 2017, n. 22399.
[15] Di diverso avviso, però, è la Corte Costituzionale, che con l’ordinanza n. 273 del 13 dicembre 2019 ha escluso tale disparità di trattamento, senza tuttavia soffermarsi sull’art. 111 Cost. In passato, si era comunque ipotizzato che l’omessa sanzione per la costituzione tardiva del resistente comportasse una violazione degli artt. 3 e 111 Cost., ma la Consulta lo aveva negato con l’ordinanza n. 144 del 7 aprile 2006.
[16] Si legge, infatti, nel PNRR che gli interventi riformatori “… sono rivolti a ridurre il numero dei ricorsi alla Cassazione, a farli decidere più speditamente, oltre che in modo adeguato”. Il PNRR individua quali “modalità di attuazione” del menzionato obiettivo: a) “… un migliore accesso alle fonti giurisprudenziali”; b) “… il rinvio pregiudiziale per risolvere dubbi interpretativi, per prevenire la formazione di decisioni difformi dagli orientamenti consolidati della Corte di Cassazione”; c) allo scopo di smaltire l’arretrato presso la Corte Suprema, “… il rafforzamento delle dotazioni di personale”, anche tramite adeguati incentivi economici.
[17] Su questi argomenti, v. L. Salvato, Verso la riforma del processo tributario: il “rinvio pregiudiziale” ed il ricorso del P.G. nell’interesse della legge, in questa Rivista, 19 luglio 2021.
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