ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Il Ministero per la promozione della Virtù e la prevenzione del Vizio
di Maria Teresa Covatta
E' notizia di questi giorni che i talebani al potere in Afghanistan hanno chiuso il Ministero degli Affari Femminili e lo hanno sostituito con quello per la promozione della Virtù e la prevenzione del Vizio.
In realtà non si tratta di un una istituzione ex novo ma del ripristino di un dicastero che già esisteva durante il precedente regime talebano cessato nel 2001, ben noto per l'imposizione di rigide regole religiose, portato di un'altrettanto rigida interpretazione della sharia, che imponeva agli uomini di partecipare alle preghiere e di non tagliarsi la barba ma, ben più duramente, proibiva alle donne qualsiasi partecipazione alla vita pubblica, intesa come divieto, persino, di camminare per strada se non accompagnate da un maschio con stretti vincoli di parentela.
Come in passato la struttura del ministero si completa con la cosiddetta Polizia della Moralità, incaricata di assicurare l'assoluto rispetto della sharia e nota per garantirlo con l'uso della frusta, della carcerazione e della lapidazione.
Tracotanza o cecità ?
Il nome del ministero, che già di per sè, è tutto un programma, non stride con tutto quello che sta accadendo in Afghanistan e quindi, purtroppo, non desta particolare sorpresa .
La caccia alle donne, specialmente quelle istruite, per non parlare di quelle che esercitano professioni quali l'avvocatura e la magistratura o quelle che si occupano di tutela dei diritti umani e tutto quell'insieme di violazioni dei diritti immediatamente perpetrate fin dal primo momento della conquista del potere sono ormai noti a tutti
E' sorprendente, invece, che questa iniziativa, insieme a quella di riaprire le scuole, siano esse primarie, medie e superiori, solo per studenti maschi e solo con docenti maschi o quella di dare la caccia alle cicliste, nel mirino del regime perchè "evidentemente non più vergini", sia adottata in questo particolare momento storico-politico in cui l'Afghanistan è al centro del dibattito internazionale, nell'ambito del quale i talebani stanno cercando di rappresentare se stessi come profondamente diversi da quelli che persero il potere nel 2001.
Il contesto internazionale
Il 20 settembre ha avuto inizio la 76esima Assemblea Generale ONU e naturalmente, oltre ai temi già programmati quali clima e pandemia, la crisi afgana si è collocata al centro dell'agenda dei lavori. Oltre 100 capi di stato e di governo si stanno occupando del collasso afgano e dei gravi problemi che ha sollevato, dalla crisi umanitaria al crollo delle istituzioni di un Paese di grande importanza strategica, affrontando i timori dati dalla posizione geopolitica dell'Afghanistan e dal pericolo del riaffermarsi di forze estremiste radicali armate, su cui hanno dibattuto in particolare, il 22 settembre, i capi delle diplomazie dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza
Nello stesso contesto si sono svolti anche incontri bilaterali che hanno posto il focus sul problema specifico delle donne afgane oltre che sul rispetto dei diritti umani in generale.
I talebani non hanno mancato di farsi sentire.
La loro richiesta è, evidentemente, il riconoscimento internazionale.
Chiedono la parola all'Assemblea Generale, sottolineando che l'Afghanistan e' membro dal 1946.
Chiedono la riapertura di tutte le ambasciate straniere,quale forma anticipata di riconoscimento internazionale
In una lettera inviata al Segretario Generale Guterres chiedono di far intervenire immediatamente il ministro degli affari esteri designato dal nuovo regime in luogo del rappresentante del governo Ghani, affermando che questi, secondo le regole del diritto internazionale, non può sedere in Assemblea poichè quel governo è ormai deposto e non può più essere riconosciuto dalla comunità internazionale.
La richiesta non potrà essere accolta poichè dovrà essere sottoposta al vaglio del Comitato ONU per la valutazione delle credenziali, che si riunirà a fine novembre, ma rappresenta plasticamente la volontà del regime talebano di acquisire una dignità internazionale rispetto alla quale sono tutt' altro che disinteressati.
La situazione afgana sarà al centro del G20 Straordinario sul quale la presidenza del Consiglio italiana sta lavorando da tempo, predisponendo un vertice dei leader G20 sul futuro dell'Afghanistan che sembra ormai in via di definizione e che sta subendo una forte accelerazione anche durante l'Assemblea Generale
Si è già svolto un G7 straordinario che ha riunito i ministri degli esteri dei Paesi membri e il 7 ottobre è convocato dalla commissaria per gli affari interni della Commissione UE Ylva Johansson un forum di alto livello, cui parteciperanno , oltre all'Alto Rappresentante Borrell e ai rappresentanti degli Stati membri anche i rappresentanti di USA, Canada, Regno Unito e di molte organizzazioni internazionali
Insomma l'attenzione della comunità internazionale sull'Afghanistan non è calata e anzi fornisce la misura di quali siano i timori di destabilizzazione dell'area, dell'affluenza incontrollata dei profughi e del pericolo del riaffermarsi del terrorismo
In tutti questi contesti la parola d'ordine è "badare ai fatti più che alle dichiarazioni" : e i fatti sono, attualmente, che sul terreno i mullah continuano a tradire le promesse di un approccio moderato e inclusivo , anche in termini di tutela dei diritti umani e delle donne in particolare, sostanzialmente non corrispondendo, nei fatti appunto, a nessuna delle richieste della comunità internazionale di cui hanno un bisogno assoluto, dato il contesto attuale del Paese
Il contesto nazionale
L'Afghanistan è un Paese a rischio fame. Non a caso si parla di emergenza nell'emergenza. La siccità minaccia sette milioni di afgani e se entro ottobre i contadini non potranno seminare si rischia il fallimento dei prossimi raccolti, prospettiva allarmante se si pensa che l'80% degli afgani vive di agricoltura .
La FAO ha fornito e fornisce assistenza che non è tuttavia sufficiente a garantire tutti e neppure la maggior parte di loro . Le analisi dicono che almeno il 30 % del bestiame è a rischio;
i 3,5 milioni di sfollati all'interno a causa dell'irruzione dei talebani ha aumentato a dismisura la pressione sulle città e diminuito drasticamente la comunità degli allevatori e degli agricoltori costretti ad abbandonare le loro attività e a spostarsi verso i centri urbani dove vivono in situazioni di povertà estrema e ad incalcolabile rischio di malattie
Il sistema sanitario è al collasso: mancano le forniture mediche, anche le più basiche, mancano le medicine e la benzina per le autoambulanze. La pandemia è fuori controllo
L'ONU ha stanziato 45 milioni di dollari in aiuti umanitari per far fronte all'emergenza , che saranno gestiti da OMS e da UNICEF. Stanziamenti umanitari provengono anche da altri Paesi ma rappresentano una goccia nel mare dei bisogni attuali della popolazione afgana
La nuova situazione politica pone problemi di diritto internazionale che potranno incidere anche sulla situazione economica del Paese, dal rischio della denuncia degli accordi stipulati dagli Stati occidentali con la Repubblica Islamica afgana, che prevedevano finanziamenti a lungo termine in favore del precedente governo al taglio dei fondi di sviluppo ( in poche parole le sovvenzioni fatte direttamente ai governi per l'attuazione di progetti di sviluppo) in favore di aiuti umanitari alle popolazioni (che non vengono gestiti dai governi).
Concludendo, sembrano esserci due certezze: il regime talebano ha assoluto bisogno della comunità internazionale, il regime talebano non sta facendo nulla per corrispondere alle richieste della comunità internazionale di cui ha bisogno.
Questa antitesi neppure si risolve con l'accusa, molto (e giustamente ) diffusa che i talebani mentono e che mentire all'evidenza sia uno stile consolidato. Perchè la menzogna, per quanto rozza, per essere "accettabile", in genere è si ammanta di un minimo di apparente verità che la renda, almeno apparentemente credibile.
La pericolosa certezza di essere nel giusto
Come si possano conciliare tra loro questi aspetti è difficile dire, forse anche per osservatori politici di grande spessore ed per esperti di geopolitica e degli equilibri internazionali
Da profana lettrice di stampa nazionale ed internazionale, mi ha colpito, però, una recente intervista rilasciata al Corriere della Sera da Zabihullah Mujahid, portavoce dei talebani,che parrebbe suggerire una risposta che non fa ben sperare.
Afferma Mujahid che l'Afghanistan ha assoluto bisogno del mondo esterno. " Noi abbiamo bisogno del vostro aiuto . Ma voi dovete capire il nostro Paese e rispettare i nostri valori. . Per noi taliban la nostra tradizione è insuperabile, compresa la nostra concezione della donna"
Questa visione è stata velatamente criticata persino - è tutto dire- dal premier del Pakistan, Paese che com'è noto, non brilla per la tutela dei diritti delle donne posto che, tanto per dirne una, il Gender Equality Forum lo colloca al penultimo gradino della scala di valutazione sotto il profilo del rispetto della parità di genere.
Il premier pakistano, forse anche perchè (si potrebbe maliziosamente pensare) particolarmente interessato agli ingenti aiuti che gli stanno arrivando dall'Europa e dagli Stati membri per il sostegno ai profughi afgani , ha detto infatti che il divieto di far studiare le donne non ha nulla a che vedere con la religione islamica
Si potrebbe concludere, sempre da profani osservatori alla finestra, che se la certezza granitica di essere nel giusto e di agganciare le proprie convinzioni alla tradizione ed alla legge di dio è medioevale, agganciarla al rispetto di valori non condivisi e non condivisibili perchè estranei a valori universali è pericolosa e senza via di uscita.
Per questo anche il "semplice" mutamento del nome di un ministero è una terribile minaccia
La vis expansiva della sanatoria edilizia e il limite delle aree naturali protette (nota a Consiglio di Stato, sez. VI, 6 luglio 2021, n. 5152)
di Marco Brocca
Sommario: 1. La fisionomia della sanatoria edilizia. 2. Il sistema delle tutele parallele e il modello delle aree naturali protette. 3. La vicenda e la questione giuridica all’esame dei giudici. 4. La posizione del Consiglio di Stato e un ulteriore capitolo.
1. La fisionomia della sanatoria edilizia
È noto che la cd. sanatoria edilizia costituisca una manifestazione – tra le più eloquenti – del potere dell’amministrazione di regolarizzare ex post un’attività del privato che è contra ius, perché posta in essere senza il supporto del titolo abilitativo prescritto dall’ordinamento ovvero in difformità del titolo rilasciato per quella fattispecie. Si tratta di potere con forza sanante che differisce dalla sanatoria amministrativa propriamente detta, la quale è espressione del potere di autotutela attraverso cui l’amministrazione emenda i provvedimenti amministrativi viziati, con l’effetto di convalidarli e di conservarne l’efficacia. Si è in presenza di potestà differenti, ma accomunate dall’effetto sanante prodotto nei confronti di attività contra ius, di privati in un caso e dell’amministrazione nell’altro, che condividono un ulteriore profilo. La capacità sanante non è possibile in relazione a qualsivoglia vizio invalidante, in quanto possono essere emendati solo vizi formali e non sostanziali. Questa distinzione ha fornito tradizionalmente un’utile chiave di lettura per affrontare la questione dell’ammissibilità di siffatti poteri in assenza di esplicita copertura legislativa. Questione che ha portato la dottrina e la giurisprudenza ad ammettere in termini generali la sanatoria amministrativa e altri provvedimenti di secondo grado, come la convalida, perché emanazione dell’autotutela amministrativa, a sua volta ritenuta immanente al potere amministrativo e connaturata all’imperatività e all’inesauribilità del potere stesso, nonché in applicazione del principio di conservazione dei valori giuridici con i corollari dell’economicità dell’azione amministrativa e del divieto di aggravio procedimentale. Al contempo, l’applicabilità della sanatoria amministrativa e di altri provvedimenti ad esito conservativo è stata ristretta alla presenza di vizi formali e non sostanziali, in assenza di diversa statuizione normativa.
La medesima impostazione è stata seguita in relazione all’attività di privati posta in essere senza i necessari titoli abilitativi. Esemplare è l’ambito dell’attività edilizia: la questione dell’ammissibilità di un titolo edilizio postumo, sorta all’indomani della legge urbanistica fondamentale del 1942 (legge 17 agosto 1942, n. 1150), introduttiva dell’obbligo di licenza edilizia, e corroborata dalla cd. legge ponte del 1967 (legge 6 agosto 1967, n. 765) che ha esteso l’obbligo agli interventi da realizzare sull’intero territorio comunale, è stata affrontata proprio secondo il discrimen tra abusi formali e abusi sostanziali. In altre parole, non appariva ragionevole l’applicazione delle medesime sanzioni agli interventi realizzati senza il titolo abilitativo, ma conformi alla disciplina urbanistica e a quelli sprovvisti di autorizzazione e, in ogni caso, contrari alle previsioni urbanistiche. Si sosteneva, altresì, l’irrazionalità e l’antieconomicità di un’azione amministrativa, prima applicativa delle sanzioni (anzitutto quella demolitoria) e poi permissiva del medesimo intervento, perché conforme alla disciplina urbanistica vigente al momento della presentazione della domanda. Inoltre, si evidenziava che la ratio del potere di vigilanza edilizia non è tanto quella del controllo meramente formale e strumentale dell’attività costruttiva, quanto quella di assicurare la tutela dell’assetto del territorio e il suo ordinato sviluppo come configurato dagli strumenti urbanistici, di cui anzi l’intervento realizzato è attuativo se è accertata la sua conformità, sia pure ex post. Insomma, l’inversione dell’ordine ‘atto amministrativo di assenso-attività del privato’ non è da considerare inficiante e sanzionabile in termini assoluti e aprioristici, qualora l’amministrazione accerti, sebbene ex post, la conformità dell’intervento[1].
Questo ragionamento ha trovato formalizzazione normativa dapprima con la legge 28 febbraio 1985, n. 47, art. 13[2], poi con il d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (testo unico dell’edilizia), art. 36, che hanno configurato la sanatoria edilizia[3]in termini di istituto generale e permanente, tipizzandone al contempo i presupposti: tra questi rileva, come noto, la necessità per l’autore dell’abuso edilizio di dimostrare la conformità dell’intervento edilizio alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell’intervento che a quello della presentazione della domanda di sanatoria (cd. doppia conformità)[4].
2. Il sistema delle tutele parallele e il modello delle aree naturali protette
L’approccio tradizionalmente seguito dal legislatore nella regolazione del territorio è quello di massimizzare i diversi interessi emergenti (uso del suolo, protezione della natura, gestione forestale, difesa dell’assetto idrogeologico, tutela del paesaggio, ecc.) con apposite normative, con l’effetto di creare un sistema multiplo di disciplina del territorio, che, se da un lato denota lo sforzo del legislatore di cogliere e curare molteplici esigenze connesse al territorio, dall’altro suscita un problema di sovrapposizione di regole che pretendono, ma nella pratica difettano di adeguate forme di coordinamento e integrazione. Gli effetti, come noto, sono moltiplicatori e quasi mai eliminatori, di frantumazione e dispersione delle competenze, di complicazioni e incertezze procedurali, di performance amministrative inefficienti, di dispersione dei controlli, di annacquamento delle responsabilità, di aggravi non sempre preventivabili per gli operatori privati, di conflittualità processuali[5].
Alla logica delle tutele parallele risponde anche la disciplina sui parchi, la cui normativa di riferimento a livello statale è rappresentata dalla legge 6 dicembre 1991, n. 394. Si tratta di legge-quadro sulle aree naturali protette che ha sancito un deciso cambio di rotta nella protezione della natura: l’opzione non è più quella di promuovere la realizzazione di “sacrari” ambientali, destinati a una musealistica ed elitaria contemplazione, quali erano i primi parchi nazionali (istituiti negli anni ‘20 e ‘30)[6], bensì quella di istituire aree in cui la finalità della «conservazione di specie animali o vegetali» si concilia con l’«applicazione di metodi di gestione o di restauro ambientale idonei a realizzare una integrazione tra uomo e ambiente naturale» (art. 1, comma 3, lett. a-d).
In altre parole, il parco è concepito quale locus di confluenza e integrazione di vari interessi, ovvero, come ha avuto modo di affermare la Corte costituzionale, come «centro di imputazione di una serie di valori non meramente naturalistici, ma anche culturali, educativi e ricreativi, in una corretta e moderna concezione dell’ambiente»[7].
Sul fondamento che l’elemento antropico concorra alla formazione del patrimonio naturale e del suo carattere dinamico anziché esserne un elemento di disequilibrio, la legge non assoggetta il territorio protetto a un indistinto sistema di tutela statico-conservativa, ma ne articola il regime secondo un criterio di gradualità e differenziazione che fa corrispondere alla diversa qualificazione delle zone – «riserve integrali», «riserve generali orientate», «aree di protezione», «aree di promozione economica e sociale», «aree contigue» – differenti regimi (art. 12). Come è stato detto, la sfida proposta dalla legge è ambiziosa, quella di rendere i parchi “preziosi laboratori in grado di coniugare la conservazione rigorosa delle risorse naturali con lo sviluppo delle popolazioni locali”[8].
L’ottica di un “uso multiplo” delle aree protette ispira l’impianto complessivo della normativa ed è rinvenibile espressamente in disposizioni, quali l’art. 7 sulle misure di incentivazione per gli enti locali (restauro dei centri storici, opere di risanamento dell’acqua, dell’aria e del suolo, attività sportive compatibili, ecc.), gli artt. 11-12-25 sul regolamento e sul piano del parco, quali strumenti preposti alla disciplina dell’«esercizio delle attività consentite entro il territorio del parco» e l’art. 14 di promozione di «iniziative atte a favorire lo sviluppo economico e sociale delle collettività eventualmente residenti all’interno del parco e nei territori adiacenti».
La massimizzazione dell’interesse naturalistico si traduce in un regime di tutela speciale sul piano organizzativo e funzionale. Dal primo punto di vista basti pensare all’istituzione di un’apposita struttura amministrativa, l’ente parco, quale organo gestore dell’area protetta, titolare di poteri di regolazione, gestione e controllo delle attività potenzialmente in grado di incidere sul territorio. La sua una composizione è di tipo “misto”[9], espressiva di più interessi e competenze, quelle propriamente tecnico-scientifiche e quelle di portata più generale, di provenienza statale e locale, canalizzate attraverso le tradizionali rappresentanze politiche e amministrative, nonché per il tramite delle associazioni ambientaliste.
Sul piano funzionale rilevano peculiari strumenti di tipo regolamentare (il regolamento del parco, art. 11), programmatorio/pianificatorio (il piano del parco, art. 12; il piano pluriennale economico e sociale, art. 14) e autorizzatorio (il nulla osta, art. 13).
La presenza anche in questo settore ambientale del regime autorizzatorio e la sua estensione su ambiti di attività vasti e variegati riflette bene un profilo essenziale della configurazione giuridica dell’ambiente. Quello che muove dalla considerazione per cui gli interventi pregiudizievoli, se non impediti, comportano effetti spesso irreversibili: ne consegue la centralità di principi come quelli di prevenzione e precauzione e l’essenzialità di controlli preventivi dell’amministrazione secondo un parametro, quello ambientale, rafforzato e prioritario.
Il regime autorizzatorio compare nella gran parte della legislazione settoriale e il dato che emerge è la sommatoria dei diversi controlli amministrativi, che evocano competenze e procedimenti distinti. Questo è particolarmente evidente per le aree naturali protette. Salvo ulteriori e peculiari situazioni, un intervento modificativo in area protetta impone la previa acquisizione di tre distinti titoli abilitativi: il titolo edilizio (ai sensi del d.P.R. 380/2001), l’autorizzazione paesaggistica (in quanto il parco è bene paesaggistico secondo il d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, codice dei beni culturali e del paesaggio) e il citato nulla osta dell’ente parco.
La compresenza di questi regimi abilitativi suscita non poche difficoltà applicative, legate soprattutto alla natura delle relazioni tra i diversi atti di assenso (se di autonomia, presupposizione, unificazione, fungibilità, ecc.). La questione affrontata dai giudici amministrativi nella vicenda in esame riguarda proprio il collegamento tra il titolo edilizio comunale e il nulla osta di competenza dell’ente parco.
3. La vicenda e la questione giuridica all’esame dei giudici
A seguito di accertato abuso edilizio e di ingiunzione di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi i ricorrenti, autori dell’abuso, hanno presentato domanda di accertamento di conformità ai sensi dell’art. 36 d.P.R. 380/2001. L’area interessata dagli interventi abusivi rientra in un parco nazionale (Parco nazionale del Vesuvio) e, per questo, l’amministrazione comunale, competente per l’accertamento di conformità, ha richiesto i pareri di accertamento della compatibilità paesaggistica alla soprintendenza che rispondeva positivamente, e all’ente parco, per l’accertamento della conformità naturalistico-ambientale, che invece si esprimeva dapprima con un’ordinanza di sospensione dei lavori in corso e di ingiunzione di demolizione delle opere abusive e poi con un parere negativo.
Le determinazioni dell’ente parco sono state impugnate per molteplici profili, ma la questione giuridica principale – e preliminare – riguarda l’ammissibilità della sanatoria edilizia in aree naturali protette. Infatti, nell’ambito delle aree perimetrate a parco, l’art. 36 d.P.R. 380/2001, che, come visto, disciplina l’accertamento di conformità (prodromico al rilascio del permesso edilizio in sanatoria), va coordinato con l’art. 13 legge 394/1991 secondo cui il rilascio di concessioni o autorizzazioni relative ad interventi, impianti od opere è subordinato al preventivo nulla osta dell’ente parco che ne verifica la conformità con la tutela dell’area naturale protetta (comma 1).
La questione è se il nulla osta previsto dal citato art. 13, con la necessaria “previetà” del suo rilascio, vada interpretato nel senso di ritenerlo riferito soltanto agli interventi ancora da realizzare ovvero anche rispetto a opere già realizzate. Detto altrimenti, la lettura combinata delle due disposizioni evoca due possibili ‘scenari’: 1) all’interno di un’area protetta un’opera abusivamente realizzata è sanabile secondo la procedura dell’art. 36 testo unico dell’edilizia anche qualora non sia stato previamente acquisito il nulla osta dell’ente parco di cui all’art. 13 legge 394/1991, per il cui rilascio può innestarsi un sub-procedimento nell’ambito del procedimento edilizio; 2) l’opera abusiva non è sanabile neanche se sussistono i presupposti dell’art. 36 citato qualora l’intervento, prima della sua realizzazione, non sia stato supportato dal nulla osta dell’ente parco.
Secondo la prima tesi il nulla osta dell’ente parco può essere acquisito anche successivamente alla realizzazione dell’opera nell’ambito del procedimento di sanatoria edilizia; per la seconda tesi l’acquisizione previa alla realizzazione dell’opera del nulla osta dell’ente parco è condicio iuris per l’accertamento di conformità edilizia, con l’effetto che l’applicabilità di quest’ultimo istituto si sterilizza in assenza, appunto, del rilascio del titolo abilitativo dell’ente parco prima della realizzazione dell’intervento edilizio.
Alla prima tesi ha aderito il giudice di primo grado (Tar Campania, Napoli, sez. III, 16 aprile 2019, n. 2160), alla seconda il Consiglio di Stato con la sentenza qui annotata.
Il Tar opta per la prima interpretazione richiamando “ragioni di ordine sistematico e funzionale”: in particolare, i giudici osservano che “con l’espressione ‘previa’ riferita al rilascio del nulla osta adoperata nel citato art. 13 si è inteso evidenziare il carattere necessariamente strumentale e funzionale assolto dal nulla osta (pur nella sua testuale ‘immediata’ impugnabilità) nell’ambito di un più ampio procedimento teso al rilascio di concessioni o autorizzazioni evidentemente al fine di condizionarne il contenuto”, nella consapevolezza che l’ente parco deve esprimere la propria valutazione in modo autonomo e esclusivo, in quanto attributario di un interesse distinto da quello proprio delle altre amministrazioni coinvolte nella vicenda amministrativa (comune e soprintendenza). Concludono i giudici che “per assolvere ad una tale funzione, il nulla osta deve avere carattere necessariamente preventivo (non rispetto alla realizzazione dell’opera abusiva, ma) in funzione del rilascio del permesso in sanatoria, altrimenti non comprendendosi come sarebbe in grado di influenzare un provvedimento (l’accertamento di conformità ex art. 36 d.P.R. 380/2001) che, per definizione, deve essere emesso soltanto in sanatoria”.
Più articolato è l’iter argomentativo seguito dal Consiglio di Stato per affermare la natura esclusivamente preventiva del nulla osta di cui all’art. 13 della legge sulle aree protette, con il corollario dell’inapplicabilità della sanatoria edilizia con riferimento a interventi realizzati nell’ambito di aree protette qualora non supportati, sin dall’inizio, dal nulla osta dell’ente parco.
4. La posizione del Consiglio di Stato e un ulteriore capitolo
Il ragionamento del Consiglio di Stato muove da una considerazione, ritenuta insuperabile e dirimente: la “differenziazione di ambiti” che connota la disciplina dei parchi, rispetto alla quale quella che può essere considerata la disciplina generale (la normativa urbanistico-edilizia) deve confrontarsi e, ove inevitabile, arrestarsi.
Richiamando giurisprudenza dell’Adunanza plenaria[10] e della Corte costituzionale[11], ricorda il Consiglio di Stato che il legislatore italiano con la legge-quadro sulle aree protette ha voluto introdurre per determinare aree uno “speciale regime di tutela e di gestione”, riconoscendo i parchi “come aree di protezione integrale della natura nelle quali vale il principio della c.d. ecologia profonda che implica la conservazione integrale della natura e limitati interventi di antropizzazione”. L’approccio differenziato si traduce in una serie di “strumenti essenziali e indefettibili della cura dell’interesse naturalistico e ambientale in ragione della quale è istituito il parco”, che sono atti sia generali (regolamento del parco) e pianificatori (piano del parco) e valgono a disciplinare ex ante “in dettaglio e per tutto il territorio del parco gli interventi e le attività vietati e quelli solo parzialmente consentiti, le loro ubicazioni, destinazioni, modalità di esplicazione e così via, secondo un disegno organico inteso a «la conservazione e la valorizzazione del patrimonio naturale»”; sia di natura provvedimentale, il nulla osta dell’ente parco, che “si inserisce, nella trama normativa della legge quadro, come punto terminale di contatto, come elemento di congiunzione tra le esigenze superiori della protezione naturalistica e le attività economiche e sociali e va letto coordinandolo con le altre previsioni di meccanismi operativo-funzionali. In un’area integralmente protetta, infatti, sono vietate tutte quelle attività che non siano espressamente consentite dal piano e dettagliatamente disciplinate nel relativo regolamento”.
Ricorda il Consiglio di Stato inoltre che la specialità della materia si manifesta parimenti sul piano organizzativo, con la previsione di un ente di scopo, l’ente parco, titolare, tra l’altro, di un generale potere di controllo a presidio dell’interesse naturalistico e ambientale di cui è attributario.
Un ulteriore passaggio compiono i giudici attraverso il richiamo della rilevanza costituzionale dell’interesse naturalistico massimizzato dalla legge-quadro, in quanto sussumibile in quello ambientale, che – come ricordano i giudici – assurge al rango di “valore costituzionalmente rilevante”. Questa qualificazione induce i giudici a due approdi: da un lato, la primarietà dell’interesse naturalistico-ambientale che comporta l’autonomia, nonché l’irriducibilità e l’infungibilità, del regime speciale dei parchi rispetto alla disciplina generale urbanistico-edilizia, cui consegue il corollario per cui il nulla osta dell’ente parco costituisce atto non solo autonomo e preliminare rispetto al titolo edilizio, ma anche sempre preventivo rispetto agli interventi e alle opere edilizie. In altre parole, il nulla osta dell’ente parco non mutua caratteri e attitudini di altri titoli abilitativi, come la possibile acquisizione postuma, né si adatta ad altri regimi amministrativi, come quello di accertamento di conformità ex art. 36 testo unico dell’edilizia. Conclude il Consiglio di Stato che “si ritiene corretta l’interpretazione rigorosa dell’art. 13 della legge sulle aree protette, che ammette solo nulla osta preventivi”, con l’effetto che “non rileva in alcun modo l’istituto dell’accertamento di conformità che rimane di applicazione generale”, ma non nell’ambito dei parchi rispetto ai quali sussistono “ragioni di tutela così ampie [che] non ammettono sanatorie su opere realizzate senza titolo”.
Il richiamo del piano costituzionale vale ai giudici anche per esprimersi su una questione correlata, benchè non invocata dai ricorrenti. Il modello sancito dalla legge quadro potrebbe essere derogato a livello regionale, nel senso che potrebbero sussistere disposizioni regionali che ammettono l’acquisizione del nulla osta dell’ente parco anche in via postuma: osservano i giudici che simili disposizioni permissive “sarebbero comunque da sottoporre a vaglio costituzionale, perché la tutela dell’ambiente spetta allo Stato”. L’inciso evoca evidentemente la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale secondo cui la disciplina dei parchi deve intendersi espressione dell’esercizio della competenza esclusiva statale in materia di tutela dell’ambiente, di cui all’art. 117, secondo comma, lett. s, Cost., con la specificazione che la legislazione regionale può soltanto determinare livelli di maggior tutela, in virtù della natura primaria e trasversale dell’interesse ambientale[12].
A fondamento delle conclusioni i giudici richiamano due ulteriori argomentazioni. La prima muove dalla considerazione fattuale e dalla correlata finalità di “evitare che l’antropizzazione del Parco segua una logica casuale e connotata dalla creazione di stati di fatto quale quella che connota talvolta inevitabilmente lo sviluppo urbano, una volta introdotta la regola generale di ammissibilità delle valutazioni postume (art. 36 del t.u. edilizia)”.
La seconda richiama la disciplina paesaggistica (applicabile anche per le aree protette, che come visto costituiscono beni paesaggistici vincolati ex lege). Nella normativa di riferimento, il d.lgs. 42/2004, è espressamente sancito il divieto di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica in sanatoria (art. 146, comma 4), ma la statuizione si completa con la previsione, del tutto eccezionale e limitata alle fattispecie tipizzate, per cui l’autorizzazione paesaggistica postuma è ammessa per specifici interventi di lieve entità (cd. abusi minori, art. 167, comma 4)[13]. Ebbene, osserva il Consiglio di Stato che “nulla di analogo è prescritto per il nulla osta ad interventi nell’ambito dei parchi”.
Come si vede, la considerazione della specialità della materia dei parchi e della primarietà dell’interesse naturalistico-ambientale sotteso ispira e fonda l’intero percorso argomentativo e le conclusioni del Consiglio di Stato.
La chiave di lettura adoperata dai giudici evoca indirettamente una delle questioni, classiche e perenni, del trattamento giuridico dell’interesse ambientale: la tensione tra la necessità di un regime differenziato, che implica la resistenza rispetto all’applicazione di istituti generali, come quelli di semplificazione o ad efficacia sanante, ovvero la permeabilità e idoneità (se non utilità) a recepire i medesimi istituti generali. Una tensione, che come noto, caratterizza la genesi e l’evoluzione di tutta la legislazione ambientale, ma anche e prima, della legge generale sui procedimenti amministrativi: si tratta di una ‘storia’ che ha conosciuto alterne vicende con un dato normativo che oscilla tra i due poli con accentuazione ora di una opzione ora dell’altra secondo disegni non sempre razionali. Peraltro, la direzione che sta prevalendo è nel senso di un’attenuazione della differenziazione dei regimi e questo dato è emerso dapprima nella legislazione speciale (si pensi all’accontamento del parere soprintendizio nell’ambito del procedimento di rilascio dell’autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146 d.lgs. 42/2004 ovvero all’applicazione del silenzio assenso in alcune procedure relative alla gestione dei rifiuti, come quelle di cui agli artt. 214 e 221 d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, testo unico dell’ambiente, nonché al rilascio del nulla osta dell’ente parco, esaminato nel presente commento) poi in quella generale (si pensi al silenzio assenso tra pubbliche amministrazioni, anche quelle esponenziali di interessi sensibili, secondo il nuovo art. 17-bis legge 7 agosto 1990, n. 241).
L’approccio seguito dal Consiglio di Stato che enfatizza la specialità della materia può essere utile per comprendere l’evoluzione di un altro istituto a efficacia sanante, il condono edilizio, anch’esso al centro di traiettorie divergenti – peraltro più delicate e controverse perché innervate da preliminari questioni sulla ‘tollerabilità’ dell’istituto – quando si discute del suo accostamento con gli interessi sensibili.
Il condono edilizio, come noto, vale per legittimare interventi abusivi non sanabili e risponde a una logica, come chiarito dalla Corte costituzionale, “contingente e del tutto eccezionale”, è istituto ammissibile solo “negli stretti limiti consentiti dal sistema costituzionale” e il suo fondamento giustificativo va individuato nella “necessità di ‘chiudere un passato illegale’ in attesa di poter infine giungere ad una repressione efficace dell’abusivismo edilizio, pur se non sono state estranee a simili legislazioni anche ‘ragioni contingenti e straordinarie di natura finanziaria’ ”[14]. Un istituto, dunque, da considerare come extra ordinem e destinato a operare una tantum nell’ottica di un definitivo superamento di situazioni di abuso. L’istituto è stato introdotto con la legge 28 febbraio 1985, n. 47, poi confermato con la legge 23 dicembre 1994, n. 724, quindi ribadito con il decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 convertito in legge 24 novembre 2003, n. 326.
La legislazione sul terzo condono ha previsto condizioni di applicabilità dell’istituto più restrittive, proprio con riferimento alle aree vincolate. Infatti, la prima legislazione sul condono (quella del 1985, ribadita nel 1994) ammette che «le opere insistenti su aree vincolate dopo la loro esecuzione» «[s]ono suscettibili di sanatoria» (art. 32, comma 2, legge 47/1985) in presenza di determinate condizioni, indicate nel comma 2 del medesimo art. 32 e che per esse «il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria [...] è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso» (comma 1). Inoltre, l’art. 33 della legge 47/1985 stabilisce che «non sono suscettibili di sanatoria» le opere che siano in contrasto con vincoli posti «a tutela di interessi storici, artistici, architettonici, archeologici, paesistici, ambientali, idrogeologici», «qualora questi comportino inedificabilità e siano stati imposti prima della esecuzione delle opere stesse». Quindi, secondo la prima legislazione il condono è possibile anche per interventi abusivi realizzati in aree vincolate, come i parchi: la differenziazione di regime rispetto al condono edilizio in area non vincolata è garantita dalla previsione dell’obbligo di acquisizione di parere favorevole dell’amministrazione preposta alla tutela dell’area vincolata e dall’avvertenza dell’inapplicabilità nel caso di vincolo che comporta l’inedificabilità assoluta, con l’ulteriore precisazione che deve trattarsi di vincolo preesistente alla realizzazione dell’intervento.
La legislazione del 2003 sul terzo condono sancisce l’inapplicabilità del condono edilizio nell’ambito delle aree vincolate prevedendo che «le opere abusive non sono comunque suscettibili di sanatoria, nel caso in cui: [...] d) siano state realizzate su immobili soggetti a vincoli [...] qualora istituiti prima della esecuzione di dette opere, in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio e non conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici» (art. 32, comma 27); peraltro, dispone la permanente vigenza della normativa precedente (più favorevole) ai fini dell’esame delle istanze di condono presentate in base alle leggi del 1985 e del 1994 (art. 32, comma 43-bis).
Il superamento della precedente distinzione tra inedificabilità assoluta e relativa con il corollario dell’effetto ostativo al condono anche dei vincoli che comportano inedificabilità relativa, si comprende in ragione dell’attenzione prestata dal legislatore agli interessi sensibili implicati, che sono, secondo le parole della Corte costituzionale, “per loro natura – i più esposti a rischio di compromissione da parte delle legislazioni sui condoni edilizi”[15].
Il nuovo assetto normativo ha suscitato diverse questioni, come quella dell’ammissibilità di soluzioni legislative, di fonte regionale, che estendono il suddetto effetto ostativo al caso di vincoli sopravvenuti. È questa l’opzione seguita ad esempio dal legislatore laziale secondo cui non sono condonabili le opere abusive eseguite su immobili sottoposti a vincolo ambientale “realizzate, anche prima della apposizione del vincolo” (art. 3, comma 1, lett. b, l.r. Lazio 8 novembre 2004, n. 12), norma che è stata portata recentemente all’attenzione della Corte costituzionale per questioni legate, più che al consueto parametro dell’art. 117 Cost.[16], alla tenuta della norma rispetto ai principi di ragionevolezza e certezza del diritto[17]. La Corte ha ritenuto la disposizione regionale pienamente legittima perché “il regime più restrittivo introdotto dalla legge regionale ha come obiettivo la tutela di valori che presentano precipuo rilievo costituzionale, quali quelli paesaggistici, ambientali, idrogeologici e archeologici, sicché non è irragionevole che il legislatore regionale, nel bilanciare gli interessi in gioco, abbia scelto di proteggerli maggiormente, restringendo l’ambito applicativo del condono statale, sempre restando nel limite delle sue attribuzioni”[18].
[1] Sulla genesi della sanatoria edilizia e sulla sua legittimità in assenza di un’espressa previsione legislativa v., soprattutto, F. Saitta, Commento dell’art. 36, in M.A. Sandulli (a cura di), Testo unico dell’edilizia, Milano, 2015, 863 ss.; A. Crosetti, Commento dell’art. 36, in M.A. Sandulli (a cura di), Testo unico dell’edilizia, Milano, 2004, 434 ss.; G. Pagliari, Corso di diritto urbanistico, Milano, 2010, 580 ss.; V. Milani, Commento dell’art. 36, in S. Battini – L. Casini – G. Vesperini – C. Vitale, Codice di edilizia e urbanistica, Torino, 2013, 1397 ss.; V. Brigante, Accertamenti di conformità: tracce di una controversa evoluzione, in Riv. giur. edil., 2018, 173 ss.
[2] Una prima ipotesi era prevista dalla legge 28 gennaio 1977, n. 10 (cd. legge Bucalossi), art. 15, che limitava il permesso in sanatoria ai casi di annullamento della concessione edilizia e di varianti non essenziali.
[3] L’art. 36 del testo unico dell’edilizia denomina l’istituto come «accertamento di conformità», che va considerato come la “condicio iuris” per l’emanazione del permesso in sanatoria. In altre parole, l’accertamento di conformità costituisce “l’atto di valutazione tecnico-giuridica della rispondenza dell’intervento realizzato alla disciplina urbanistico-edilizia vigente, su cui si deve fondare il titolo abilitativo de quo”, con l’effetto della “configurazione del permesso in sanatoria come provvedimento vincolato” rispetto all’accertamento di conformità: così G. Pagliari, Corso di diritto urbanistico, cit., 586-587.
[4] Per questa via la sanatoria edilizia si pone a metà strada tra il permesso di costruire e il condono edilizio. Rispetto al titolo abilitativo ex ante, la sanatoria edilizia si differenzia non solo per l’obbligo della doppia conformità, ma anche sul piano dell’onerosità per il pagamento del contributo di costruzione maggiorato a titolo di oblazione. Dal punto di vista procedimentale rilevante è anche il distinto significato attribuito dalla legge all’inerzia della p.a. rispetto all’istanza del privato, in quanto nel caso del procedimento di rilascio del permesso di costruire il silenzio vale assenso, mentre la mancata pronuncia sull’istanza di sanatoria edilizia è qualificata come silenzio diniego (sul punto rileva l’ordinanza del Tar Lazio, Roma, sez. II-bis, 22 luglio 2021, n. 8854, di rimessione alla Corte costituzionale di questione di legittimità, segnalata da M.A. Sandulli, Addenda 2021 a “Principi e regole dell’azione amministrativa”, in www.giustiziainsieme.it, 2 settembre 2021). Rispetto al condono edilizio la sanatoria si differenzia perché si tratta di un istituto generale e permanente, mentre il condono ha carattere temporaneo ed eccezionale e vale a regolarizzare opere abusive insanabili, su cui v. infra par. 4. Il criterio della doppia conformità tipizzato dalla legge con l’istituto dell’accertamento di conformità ha suscitato la questione della sopravvivenza di un’ulteriore ipotesi di sanatoria, cd. impropria o giurisprudenziale, che richiederebbe la sola conformità dell’opera abusiva alla disciplina vigente al momento del rilascio del titolo abilitativo. Ipotesi che denota la vis expansivadell’istituto in nome dei principi di buon andamento, ragionevolezza ed economicità dell’azione amministrativa, ma che appare recessiva in ragione del preciso modello impresso dal legislatore e, dunque, in ossequio al principio di legalità (per tutti, v. A. Travi, La sanatoria giurisprudenziale delle opere abusive: un istituto che non convince, in Urb e app., 2007, 339 ss.).
[5] Per un’analitica descrizione della situazione normativa attuale in termini di «tutele parallele e concorrenti», a seconda cioè delle intersecazioni o meno della disciplina (generale) relativa al governo del territorio con quelle (speciali) per la tutela dell’ambiente, si rinvia, tra gli altri, a F. Salvia – C. Bevilacqua, Manuale di diritto urbanistico, Milano, 2017, 257 ss.; G. Pagliari, Corso di diritto urbanistico, cit., 877 ss.; A. Crosetti, Le tutele differenziate, in A. Crosetti – R. Ferrara – F. Fracchia – N. Olivetti Rason, Diritto dell’ambiente, Roma-Bari, 2018, 271 ss.; Id., Il rapporto autorità-libertà nei modelli di tutela dell’ambiente, in S. Perongini (a cura di), Al di là del nesso autorità/libertà: tra legge e amministrazione, Torino, 2017, 358 ss.: P. Chirulli, I rapporti tra urbanistica e discipline differenziate, in F.G. Scoca – P. Stella Richter – P. Urbani (a cura di), Trattato di diritto del territorio, I, Torino, 2018, 20 ss. Il problematico confronto non è solo “esterno” nei rapporti tra la disciplina generale e quella/e speciale/i, perché possono verificarsi situazioni di conflittualità “interna” nel confronto tra discipline speciali (ad es. tra la tutela del paesaggio e la promozione di fonti energetiche rinnovabili, come nel caso dell’installazione di pale eoliche su dorsali collinari vincolati), su cui vale la felice metafora della “lotta tra giganti dai piedi di argilla” formulata da F. Salvia, Emergenza e tutela ambientale, in P. Dell’Anno – E. Picozza (diretto da), Trattato di diritto dell’ambiente. Tutele parallele norme processuali, III, Padova, 2015, 17 ss. Il sistema multiplo delle tutele evoca anche la questione istituzionale, su cui rileva la considerazione di R. Ferrara, Precauzione e prevenzione nella pianificazione del territorio: la “precauzione inutile”?, in Riv. giur. edil., 2012, 63, secondo il quale si tratta di categorie «troppo spesso costruit[e] come semplici paraventi con i quali schermare il caos irrisolto delle relazioni intersoggettive fra lo Stato ed il sistema delle autonomie territoriali». Sottolinea che tra le tutele differenziate quella del paesaggio costituisca una delle espressioni più concrete ed emblematiche del pluralismo istituzionale ed amministrativo A. Crosetti, Paesaggio e natura: la governance in uno Stato multilivello, in R. Ferrara, M.A. Sandulli (diretto da), Trattato di diritto dell’ambiente. La tutela della natura e del paesaggio, III, Milano, 2014, 163; similmente P. Marzaro, Epistemologie del paesaggio: natura e limiti del potere di valutazione delle amministrazioni, in Dir. pubbl., 2014, 865.
[6] Si tratta dei parchi nazionali: Gran Paradiso, r.d.l. 3 dicembre 1922, n. 1584; Abruzzo, r.d. 11 gennaio 1923, n. 257; Circeo, legge 25 gennaio 1934; Stelvio, legge 24 aprile 1934, n. 740. Nel senso che i parchi di prima generazione erano posti “a presidio di un interesse specifico la cui realizzazione determina la neutralizzazione degli interessi che non ricadono nelle finalità di conservazione della natura”, G.F. Cartei, La disciplina del paesaggio tra conservazione e fruizione programmata, Torino, 1995, 37. In dottrina, peraltro, si sottolinea che l’approccio di tipo statico e vincolistico sotteso alla legislazione iniziale dei parchi appare, più che funzionale a un obiettivo primario ed esclusivo di tutela della natura, “soprattutto come un’operazione di supporto economico alle iniziative turistiche” (U. Leone, Nuove politiche per l’ambiente, Roma, 2002, 192-193. Per analoghe considerazioni v. A. Cederna, La distruzione della natura in Italia, Torino, 1975, 30 ss.).
[7] Corte cost., 15 luglio 1994, n. 302, in Giur. cost., 1994, 2589.
[8] C.A. Graziani, Le ragioni del convegno, in Id. (a cura di), Le aree protette e la sfida della biodiversità, Atti del XV Convegno annuale del Club dei Giuristi dell’Ambiente (Pescasseroli, 14 settembre 2013), Roma, 2018, 13. Ancora, secondo l’Autore (Id., Le aree naturali protette, in N. Ferrucci, a cura di, Diritto forestale e ambientale. Profili di diritto nazionale ed europeo, Torino, 2020, 137, “i parchi rappresentano dei veri e propri laboratori in cui anche per gli esseri umani si sperimentano modelli di vita nel segno dell’armonia con la natura. Dimostrare che oggi è ancora possibile uno sviluppo diverso, non più aggressivo nei confronti della natura, ma in armonia con essa: è questa la grande missione affidata ai parchi”. Peraltro, l’Autore denuncia la deriva economicistica cui si ispirano i più recenti disegni di legge di riforma della legge-quadro, “segno di una visione aridamente mercantile del territorio, perfino delle aree più sensibili”, p. 143).
[9] Nel senso che la presenza di un ente di scopo e la sua peculiare strutturazione garantiscano l’obiettivo della “quadratura del cerchio” in quanto le decisioni sono assunte “dagli organi preposti al perseguimento degli interessi protezionistici, ma sempre sulla base di una concordanza espressa con aspettative e finalità rappresentate dalla comunità locale”, D. Borgonovo Re, Parchi naturali e regionali, in Dig. disc. pubbl., X, Torino, 1995, 600; in senso sostanzialmente positivo anche C. Desideri, Alla ricerca dell’ente parco, in C.A. Graziani (a cura di), Un’utopia istituzionale. Le aree naturali protette a dieci anni dalla legge quadro, Milano, 2003, 66. Per la qualificazione dell’ente parco come organo misto, nell’accezione di forma di cooperazione strutturale Stato-regioni-enti locali, in attuazione del principio di leale collaborazione, v. G. Sciullo, Pianificazioni ambientali e pianificazioni territoriali nello Stato delle autonomie, in F. Bassi – L. Mazzarolli (a cura di), Pianificazioni territoriali e tutela dell’ambiente, Torino, 2000, 24-25. Sottolinea il delicato equilibrio tra la componente tecnico-scientifica e quella politica nella gestione del parco, di cui evidente espressione è data dalla composizione degli organi dell’ente parco, G. Cordini, Aree protette vent’anni dopo. L’inattuazione “profonda” della legge n. 394/1991, in Riv. quadr. dir. amb., 2011, 29 ss., il quale denota negativamente il progressivo espandersi della politica, con l’effetto di erodere l’impostazione originaria della legge quadro della protezione integrale della natura. Esprime rilievi critici verso l’assetto organizzativo delineato dalla legge 394/91, in quanto “espressione di un principio tecnocratico e non democratico” e in cui è rinvenibile “un così massiccio spostamento di potere a favore di entità tecniche e a discapito delle collettività locali”, B. Caravita, Potenzialità e limiti della recente legge sulle aree protette, in Riv. giur. amb., 1994, 10-11. Il dato organizzativo è, peraltro, tutt’altro che assestato: si veda il d.P.R. 16 aprile 2013, n. 73, di riordino degli enti parco, che ha modificato, tra l’altro, la composizione del consiglio direttivo nella direzione del ridimensionamento della componente scientifica, su cui si rinvia alle considerazioni critiche di C.A. Graziani, Le aree naturali protette, cit., 144.
[10] Cons. Stato, ad. plen., 8 giugno 2016, n. 17, in Riv. giur. edil., 2016, 742.
[11] Corte cost., 29 dicembre 2004, n. 429, in Foro it., 2005, 1311.
[12] Ex pluribus, Corte cost., 6 luglio 2020, n. 134, in Foro amm., 2021, 13; 27 dicembre 2019, n. 290, in Giur. cost., 2019, 3292; 16 luglio 2019, n. 180, in Giur. cost., 2019, 2102; 13 giugno 2018, n. 121, in Giur. cost., 2018, 1359; 11 febbraio 2011, n. 44, in Foro amm. CdS, 2011, 3045; 18 marzo 2005, n. 108, in Foro amm. CdS, 2005, 679.
[13] La preclusione del rilascio del permesso di costruire in sanatoria in caso di vincolo paesaggistico e in assenza di previa autorizzazione paesaggistica (salvi i limitati casi di autorizzazione postuma) è affermazione ricorrente in giurisprudenza: ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 8 ottobre 2007, n. 5203, in Riv. giur. edil., 2008, 368; Tar Campania, Napoli, sez. III, 3 maggio 2001, n. 2925, in www.giustizia-amministrativa.it; Tar Campania, Napoli, sez. VIII, 21 gennaio 2010, n. 268, in www.giustizia-amministrativa.it.
[14] Corte cost., 28 giugno 2004, n. 196, in Foro it., 2005, 327; Corte cost., 10 maggio 2002, n. 174, in Giur. cost., 2002, 1421; Corte cost., 12 settembre 1995, n. 427, in Giur. cost., 1995, 3333; Corte cost., 28 luglio 1995, n. 416, in Giur. cost., 1995, 2978; Corte cost., 31 marzo 1988, n. 416, in Foro it., 1989, 3383.
[15] Corte cost., 28 giugno 2004, n. 196, cit.
[16] La disposizione non viola infatti il riparto di competenze legislative tra Stato e regioni in materia di «governo del territorio», in quanto, per consolidata giurisprudenza costituzionale, il legislatore regionale può adottare una disciplina più rigorosa e restringere l’ambito applicativo del condono.
[17] La questione della rilevanza del vincolo sopravvenuto alla realizzazione di un’opera urbanisticamente abusiva è stata già affrontata dai giudici amministrativi, da altra visuale: il procedimento congegnato dall’art. 32 legge 47/1985 che implica il parere favorevole dell’amministrazione titolare di interesse sensibile ha suscitato la questione se l’amministrazione comunale competente a esaminare l’istanza di condono edilizio debba richiedere il suddetto parere anche in caso di sopravvenienza di un vincolo di protezione dell’area interessata. Questione su cui la giurisprudenza amministrativa si è divisa al punto da richiedere la pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (dec. 22 luglio 1999, n. 20, in Foro amm., 1999, 1423), la quale ha affermato che “in mancanza di indicazioni univoche desumibili dal dato normativo”, la questione deve essere risolta privilegiando la normativa “vigente al tempo in cui la funzione si esplica (tempus regit actum)”, ossia quella di controllo edilizio in sede di esame della domanda di condono, essendo la più idonea alla “cura del pubblico interesse, in che si concreta la pubblica funzione”.Ha poi aggiunto che, “[q]uanto alla preoccupazione che siffatta soluzione esporrebbe il singolo caso, in violazione del principio di certezza del diritto e di non disparità di trattamento, alla variabile alea dei tempi di decisione sull’istanza, […] l’ordinamento appresta idonei strumenti di sollecitazione e, se del caso, di sostituzione dell’Amministrazione inerte”.
[18] Corte cost., 30 luglio 2021, n. 181, in www.giurcost.it.
La giustizia civile al tempo della pandemia (Sulla approvazione da parte del Senato del ddl 21 settembre 2021)
di Giuliano Scarselli
“Se Dio ci inviasse di sua mano i nostri governanti, converrebbe prestar loro obbedienza di gran cuore”.
(Blaise Pascal, citato da Lodovico Mortara, ne La lotta per l’eguaglianza, 1888)
Sommario: 1. Premessa. Le recenti vicende - 2. Segue: una brevissima sintesi delle novità più rilevanti - 3. Il nuovo processo civile nello spirito della pandemia - 4. Sull’art. 2 Costituzione.
1. Premessa. Le recenti vicende
Questa la breve, recentissima storia, del nostro processo civile.
Il Governo nomina una commissione affinché rediga un progetto di riforma.
La commissione, evidentemente formata da giuristi non invisi al Governo se da questo nominati, redige in poco tempo il progetto, ma il Governo lo condivide solo in parte, e quindi lo recepisce non integralmente.
Lo stesso presidente di quella commissione, in più di una occasione, ha modo di sottolineare che la prima riforma da fare per ridurre i tempi del processo è quella di aumentare il numero dei magistrati; ma di questa cosa nessuno parla, e niente in tal senso è previsto da questo progetto, che dovrebbe essere finalizzato, appunto, a contenere la durata del contenzioso civile.
Il progetto, così recepito e così confezionato, è reso pubblico, ed esso riceve critiche piuttosto numerose e conformi, tanto dalla dottrina, quanto dall’avvocatura, e da parte della magistratura.
Altri processualisti, in quei giorni, ribadiscono che per ridurre i tempi del processo la prima cosa da fare è, ovviamente, quella di aumentare il numero dei giudici.
Il Governo, tuttavia, non si preoccupa, se non marginalmente, di queste critiche e di questi commenti, e presenta in modo sostanzialmente invariato il suo progetto di riforma al Senato.
Arrivato al Senato, il Senato è tenuto ad approvare il progetto senza discussione parlamentare, in quanto su esso viene messa da parte del Governo la fiducia.
In questo modo, e in queste condizioni, il Senato, approva il disegno di legge delega di riforma del processo civile in data 21 settembre 2021; il tutto, sia consentito, in una situazione che può apparire grottesca, poiché ai sensi dell’art. 76 Cost., una legge delega dovrebbe essere una legge con la quale il Parlamento delega il Governo a fare un decreto legislativo nel rispetto di certi principi; qui è il Governo che, imponendo la legge al Parlamento, di fatto delega sé stesso a fare quella medesima cosa.
E, sempre al fine di evitare la discussione parlamentare, il disegno di legge delega viene riscritto, seppur con analogo contenuto, in un solo articolo a fronte di 16 articoli che conteneva il progetto n. 1662.
Questo unico articolo approvato dal Senato è lungo ben 39 pagine!
E ora noi, cosa dovremmo fare?
Dovremmo fare l’esegesi delle norme e valutare se esse si applicano in un certo modo piuttosto che in un certo altro?
Dovremmo procedere, con libertà di spirito interpretativo, a dare la nostra visione di questa riforma?
Io non lo farò.
Io credo che in un contesto del genere non sia dignitoso farlo.
Qualcosa che nasce così, a mio parere, impedisce ogni commento ermeneutico; non si può discutere delle piccole cose senza tenere in considerazione le più grandi.
Quando qualcuno chiederà ad un giurista come funziona una certa norma processuale, o un certo istituto processuale, il giurista dovrà solo rispondere che non lo sa, e che cose del genere non devono essere chieste a lui ma a chi esercita il potere.
2. Segue: una brevissima sintesi delle novità più rilevanti
L’unica cosa che mi sento di dire è che questo processo mi sembra proprio il processo civile del tempo della pandemia.
Con la pandemia, i principi etico/giuridici che si sono affermati sono noti, e credo possano riassumersi con l’idea che il bene comune prevale sempre, necessariamente ed inevitabilmente, sui diritti della persona.
Questa regola, penso, a breve si estenderà dal diritto pubblico a quello privato, e si applicherà conseguentemente anche al processo civile, che infatti mi sembra già scritto in più di un punto in suo ossequio.
Precisamente:
- è stata estesa e rafforzata la mediazione, anche nella sua condizione di procedibilità della domanda, e anche nelle ipotesi in cui la stessa sia demandata al giudice; ad essa sono poi stati riconosciuti incentivi ed agevolazioni fiscali; inoltre si è di nuovo prevista, come già senza successo era stato previsto con la riforma del ’90, l’obbligatorietà della presenza della parte in prima udienza ai fini della conciliazione, e si è altresì previsto che il giudice possa, oltreché mandare sempre in mediazione le parti, anche formulare proposte di conciliazione fino al momento in cui trattiene la causa in decisione.
- Si sono poste in essere nuove contrazioni del diritto all’azione e alla difesa, inasprendo ulteriormente le preclusioni, e prevedendo che gli atti introduttivi del giudizio, citazione e comparsa di risposta, debbano già indicare in modo specifico i mezzi di prova e i documenti offerti in comunicazione; si è poi portato a ipotesi residuale la stesura delle comparse conclusionali e di replica, da scriversi “salvo che le parti non vi rinuncino espressamente” e comunque in termini ridotti rispetto agli attuali; si è previsto che gli atti del processo siano strutturati entro campi necessari all’inserimento delle informazioni nei registri del processo, nel rispetto dei criteri e dei limiti stabiliti con decreto adottato dal Ministro della Giustizia, il che non esclude che i difensori si vedano a breve costretti a scrivere gli atti riempendo moduli prestabiliti.
- Si è previsto che la responsabilità aggravata processuale danneggia l’Amministrazione della giustizia, e quindi che v’è la necessità di dare nuove sanzioni, oltre quelle che già vi sono in base al raddoppio del contributo unificato e agli artt. 96 e 283, 2° comma c.p.c., a favore della cassa delle ammende contro chi “abusi” del diritto di azione e di difesa; si sono poi previste sanzioni per chi rifiuti ispezioni sul proprio corpo o sulle proprie cose (art. 118 c.p.c.) o rifiuti la consegna di documenti che abbia in possesso (art. 210 c.p.c.).
- Si sono ancora ridotti i casi nei quali il Tribunale pronuncia in composizione collegiale, e si è potenziato e interamente ri-disciplinato il c.d. Ufficio del processo, che certamente sarà utile strumento per agevolare il lavoro del giudice, ma che di fatto consiste nell’assunzione a tempo determinato e con minima retribuzione, di giovani laureati senza alcuna esperienza professionale, ai quali poi vengono demandati compiti centrali della funzione giurisdizionale, quali quelli di studiare il fascicolo, fare ricerche di giurisprudenza e indicare i precedenti, scrivere (in bozza) i provvedimenti giudiziali, assistere il giudice nell’assunzione dei mezzi di prova e nelle verbalizzazioni, selezionare i presupposti di mediabilità della lite.
- Si è creato il nuovo istituto del rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione, che assegna alla stessa compiti che prima non aveva, e che tende da una parte ad una gerarchizzazione della funzione giurisdizionale fino ad oggi inesistente, e dall’altra a limitare la possibilità dei cittadini di ricorrere in cassazione per far valere propri diritti a fronti di processi conclusi e già esaminati dal giudice del merito.
- Nei processi in materia di famiglia, tra le infinite novità che si sono date, e che certo non possono essere esaminate in questa sede, si è previsto che con il ricorso introduttivo del giudizio le parti debbano depositare “un piano genitoriale che illustri gli impegni e le attività quotidiane dei minori, relativamente alla scuola, al percorso educativo, alle eventuali attività extrascolastiche, sportive, culturali e ricreative, alle frequentazioni parentali e amicali, ai luoghi abitualmente frequentati, alle vacanze normalmente godute”.
3. Il nuovo processo civile nello spirito della pandemia
Se v’è una linea che mette insieme tutti questi punti, questa è quella di una sempre maggiore incidenza del pubblico sui diritti e sulla vita delle persone.
Da ragazzo, negli anni ’70, nei movimenti studenteschi ai quali prendevo parte, si diceva: “Il personale è politico”; e qui mi sembra che il concetto sia interamente rinato e tornato.
Non so, forse mi sono fissato con questo tema, però invito tutti, come dicevano certi nostri filosofi del passato, ad avere occhi per il lontano e il lontanissimo.
Sembra che ormai l’idea che il processo civile, nel rispetto dei principi classici (o, se si vuole, liberali) della domanda, di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, di disponibilità delle prove, ecc………, non abbia più il compito di attuare i diritti soggettivi dei privati, ovvero di attribuire, secondo il monito di Giuseppe Chiovenda, a chi ha un diritto praticamente tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire, ma piuttosto quello di gestire e valutare le posizioni dei litiganti in un’ottica più generale, ove tutto è dato e/o riconosciuto solo entro certi limiti.
La parte, precisamente - sembra e si ha la sensazione- non deve insistere oltre una certa misura nella tutela dei suoi diritti, ne’ avere sicuro e libero accesso alla decisione giurisdizionale, perché ciò costituisce atteggiamento egoistico/individuale in contrasto con lo spirito che oggi deve invece darsi nelle relazioni intersoggettive.
La parte, tutto al contrario, deve preferibilmente mediare, ovvero trovare un accordo che soddisfi l’esigenza del contenimento delle liti, e ciò anche a costo di qualche sacrifico individuale, perché compito primario dell’ordinamento, prima ancora che la tutela dei diritti, è quello di ridurre la durata dei processi del 40%.
Se poi, al contrario, la parte sceglie di volere in tutti modi il riconoscimento giudiziale del suo diritto, va da sé che questo non gli può essere impedito, tuttavia è giusto che per questa sua scelta asociale gli si riservino delle difficoltà: l’esercizio della difesa dovrà così trovare dei limiti, e sempre questa parte potrà essere rinviata dinanzi ad un mediatore, la gestione e l’indirizzo del processo spetterà interamente al giudice, la funzione giurisdizionale non potrà essere nella sua interezza resa da magistrati ordinari e togati e vi provvederà, in gran parte, per ragioni di economia, l’ufficio del processo, i mezzi di impugnazione saranno limitati e misurati, soprattutto vi saranno sanzioni e spese da pagare per ogni abuso e per ogni eccesso.
Ripeto: forse esagero, ma preferisco esagerare piuttosto che far finta di non aver capito.
E mi diverte pensare che, se un qualunque giurista del passato dovesse, per caso, tornare nel nostro mondo, e vedere l’attuale processo civile, rileverebbe senza dubbio questo dato, e ne rimarrebbe certamente sorpreso.
Solo noi non siamo più in grado di accorgersi di nulla perché ormai ci siamo abituati a tutto, remissivi e silenziosi, pronti solo a fare resilienza, ovvero ad adeguarci a qualunque cosa ci venga imposta.
4. Sull’art. 2 Costituzione
Aggiungo, a chiusura di questa breve riflessione, che, al fine di giustificare questo nuovo modo di interpretare il mondo, sempre più spesso, e anche in ambito di diritto privato, si è menzionato l’art. 2 Cost, e il dovere di solidarietà che incombe su tutti i consociati.
Io credo, però, fermo il valore della solidarietà, che certamente non può essere messo in discussione, che si tratti di un richiamo spesso fatto in modo non corretto e non appropriato, e che niente abbia invece a che fare con questo nuovo mondo il nostro art. 2 Cost.
L’art. 2 Cost., giova a questo fine ricordare, riconosce e garantisce, in primo luogo, “I diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali”, e solo dopo prosegue affermando: “e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà”.
Emerge, così, in modo chiaro, che la norma pone prima i “diritti inviolabili dell’uomo” e solo dopo “l’adempimento dei doveri inderogabili”; e i diritti inviolabili dell’uomo sono riconosciuti con priorità “come singolo”, e solo dopo nelle “formazioni sociali”.
E nessuno, credo, vorrà mettere in dubbio che i nostri costituenti, nello scrivere la norma, non pesarono bene, e dopo lunghe discussioni, le parole da usare, e soprattutto il loro ordine nella composizione del testo normativo.
E se noi oggi, al contrario, invertiamo completamente l’ordine di cui all’art. 2 Cost., e diamo priorità non più all’uomo e alla sua umanità bensì allo Stato, e chiediamo l’adempimento dei doveri prima del riconoscimento dei diritti, e anzi usiamo la solidarietà come strumento di negazione dei diritti, e asseriamo a questo fine che i diritti dei singoli, in tanto esistono in quanto resistenti ad un giudizio di bilanciamento di contrapposti interessi, ove, sempre e sistematicamente, ogni interesse pubblico è considerato non solo prevalente su quello privato, bensì legittimato, a discrezione, ad invadere gli spazi e gli ambiti dell’autonomia privata, allora noi andiamo a comporre un nuovo ordine delle cose, e ci poniamo in disarmonia con la nostra stessa storia, che, dall’umanesimo al rinascimento passando per l’illuminismo e la rivoluzione francese, ha creato una civiltà che, appunto, mette l’uomo al centro del sistema.
E in tutto questo, si badi, il processo civile non ha un ruolo secondario.
Se ai cittadini va riconosciuta una zona di non-invadenza, e questa zona di non-invadenza costituisce l’ambito dei suoi diritti soggetti, e questi diritti soggettivi, per rimanere integri e tali, devono essere assicurati, in modo pieno e libero, dal processo civile, va da sé che il processo civile deve continuare ad avere quell’assetto che ha avuto fino ad oggi.
Ove il processo civile, tutto al contrario, dovesse perdere questa sua identità e non rispondere più a questo compito perché la sua durata deve ridursi del 40%, allora i diritti soggettivi dei cittadini rischieranno di non esistere più, allora i privati non avranno più alcuna zona di non-invadenza, allora tutto diventerà incerto e nebuloso.
E credo che, se non ci mettiamo ora e subito a difendere i nostri diritti - forse anche a fronte di rischi che al momento sono lontanissimi - probabilmente, poi, diventerà più difficile poterlo fare.
Il lavoro dello spirito dopo Max Weber. Riflessioni di un giurista pratico sul lavoro libero e fondamento della giustizia*
di Francesco Perrone
Sommario: 1. Il fondamento della giustizia - 2. L’ordine teleologico della comunità politica - 3. Etica del capitalismo e spirito - 4. Il fondamento oggettivo della libertà - 5. Il problema del volontarismo - 6. Il riduzionismo quantitativo - 7. La crisi identitaria delle democrazie in Occidente - 8. Homo oeconomicus e homo politicus.
1. Il fondamento della giustizia
Il saggio di Massimo Cacciari Il lavoro dello spirito (Adelphi, 2020) elabora il tema cruciale del fondamento del lavoro libero (geistige Arbeit) nel capitalismo contemporaneo. La questione interpella anche il giurista, sollecitando la riflessione sul risvolto etico e ontologico di tale analisi filosofica. Etico in quanto appartiene alla sfera del dover essere l’imperativo che impone alla comunità politica di garantire la libertà del lavoro. Ontologico in quanto tale imperativo, se scollegato da un ancoraggio razionale che valga a radicare tale libertà come ordine oggettivo della realtà, verrebbe ridotto a flatus vocis dalla potenza delle tecniche economiche, finanziarie, geopolitiche, biotecnologiche di cui il sistema capitalistico (e invero non solo) si serve per attuare il proprio fine.
Il tema della libertà del lavoro è un punto critico per la civiltà occidentale. Il lavoro è la dimensione privilegiata in cui la persona si esprime come homo faber e si avvale della tecnica nel compimento del proprio destino di libertà. Al contempo il lavoro è un’acqua perigliosa, che espone l’essere umano al rischio d’essere ridotto egli stesso a mezzo per il conseguimento di fini a sé estranei e di divenire strumento nelle mani di una volontà tecnica volta al potenziamento indefinito di sé stessa (Emanuele Severino, Téchne. Le radici della violenza, BUR, 2010).
Il lavoro dello spirito approfondisce una peculiare linea di sviluppo del tema analizzato in Il destino di Dike (Massimo Cacciari, in Elogio del diritto, La nave di Teseo, 2019) su se e dove debba essere ricercato il fondamento di ogni giustizia: antico nodo che il giurista contemporaneo, sempre più costretto nel ruolo di tecnico del diritto e perito dell’interpretazione, ha espunto dal proprio orizzonte di riflessione.
Certamente, fintantoché una comunità politica condivide un sistema di riferimento valoriale sufficientemente perspicuo, alla scienza giuridica è concesso l’atteggiamento minimalista di chi si autodefinisca come portatore di una tecnica avalutativa e assiologicamente neutrale. Come osservato da Nicolò Lipari, quando vi sia sostanziale equilibrio tra “testi dettati e valori radicati”, diventa nei fatti indifferente l’approccio ermeneutico (giuspositivista, realista, giusnaturalista) impiegato dal tecnico del diritto, in quanto il risultato di giustizia sostanziale concretamente non muta (Nicolò Lipari, Elogio della giustizia, il Mulino, 2021).
Diversamente accade quando una comunità politica viva una crisi identitaria sui fondamenti costitutivi della polis (Massimo Cacciari, Geo-filosofia dell’Europa, Adelphi, 1994; L’Arcipelago, Adelphi, 1997). L’assalto portato al Congresso USA il 6 gennaio 2021, la crisi del rapporto tra laicità di Stato e pluralismo culturale e religioso in Francia (caso Mila), il disorientamento progettuale che ha frantumato l’institution building in Afghanistan, il progressivo tramonto a Hong Kong del principio di preminenza della personalità individuale, sono solo alcune delle faglie su cui la postura culturale delle democrazie occidentali rischia di sgretolarsi.
Lo smarrimento di fini ultimi condivisi pone il giurista dinanzi all’ineludibile insufficienza di ogni teoria che riduca la giustificazione della norma a pura questione procedurale. Il giurista del lavoro – in realtà ogni giurista – è sempre più tentato dalla seducente idea che la procedura di costituzionalizzazione (nazionale, eurounitaria, convenzionale) dei diritti fondamentali assicuri al diritto un fondamento ultimo e stabile: come se le costituzioni non potessero essere modificate per vie più o meno legali o fattuali, la tutela dei diritti non potesse degradarsi da fine dell’ordinamento a tecnica di governo in competizione con tecniche concorrenti, e i diritti costituzionalizzati, plasmati nel loro contenuto per factum principis, non potessero divenire strumento di auto accrescimento della stessa volontà autoritativa che ha imposto il “proprio” sistema costituzionale.
Nessuna speculazione giuridica su originarismo o evoluzionismo costituzionale basterebbe da sola a porre il sistema dei diritti fondamentali davvero al riparo dagli attacchi volontaristici delle nuove “sovranità popolari” di cui le mutevoli maggioranze parlamentari (anche a Bruxelles-Strasburgo) sono espressione, qualora la si immaginasse assolta da un’idea di ordine anticipante capace di giustificare i sistemi normativi anche costituzionali, di legittimare la giurisdizione e di fondare gli atti di governo politico, economico, tecnologico. I processi storici non mancano mai, prima o poi, di spogliare la “sovranità popolare” del manto delle astratte definizioni politologiche, per disvelarne la nudità nella dimensione fattuale in cui i poteri autenticamente sovrani dimostrano la propria effettività.
Di ciò offre prova l’impasse in cui oggi versano le istituzioni dell’Unione europea, imbrigliate nell’arduo tentativo di ricomporre l’ordine a fronte delle regressioni di sistema che, in taluni Stati membri, erodono le strutture portanti del rule of law, in special modo l’indipendenza della funzione giudiziaria. Uno sguardo disincantato costringe ad ammettere che, qualora non si disinceppassero i meccanismi istituzionali di sanzione (la procedura dell’art. 7 TUe, i procedimenti giurisdizionali dinanzi alla Corte di giustizia Ue), tali opzioni di politica interna, definitivamente tradotte in atti consolidati di governo efficaci nello spazio e nel tempo, finirebbero prima o poi per concorrere alla definizione degli standard delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri (art. 6 TUe). Il peso condizionante di tali standard, per quanto “degradati”, sarebbe tanto più influente sul complessivo assetto costituzionale europeo quanto più dette opzioni politiche si diffondessero ulteriormente nella prassi legislativa ed amministrativa nello spazio eurounitario senza incorrere in effettive sanzioni ripristinatorie.
Analogamente, i livelli di protezione assicurati dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo sono fisiologicamente permeabili rispetto al complessivo trend dei variabili standard di fatto applicati dagli Stati, i quali dispongono, e talvolta si appropriano, di un tanto più ampio margine di apprezzamento quanto più è esiguo il grado di consensus circa il contenuto sostanziale irrinunciabile di un determinato diritto fondamentale. Tanto che formale menzione al margine di apprezzamento è ora contenuta nel Preambolo della Cedu in forza dell’art. 1 del Protocollo n. 15, in vigore dall’1 agosto 2021. Lo stesso metodo c.d. “autonomo” d’interpretazione delle clausole Cedu richiede che la ricostruzione dei concetti giuridici convenzionalmente rilevanti – quali “indipendenza del potere giudiziario”, “accusa penale”, “diritto alla vita” – trovi mediazione nella ricognizione comparativa del significato concretamente assunto da tali nozioni nei diversi Stati membri del Consiglio d’Europa (cfr., amplius, Stefano Piedimonte Bodini, Metodo comparativo nella giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell’Uomo: la teoria, la pratica ed il ruolo della Divisione Ricerca, in Questione Giustizia, speciale n. 1/2019, http://www.questionegiustizia.it/speciale/2019-1, nonché, ibidem, Francesco Perrone, I rapporti della divisione ricerca della Corte Edu: metodo di lavoro e profili di criticità).
Ciò a ulteriore dimostrazione che non esiste livello normativo di garanzia che le procedure di costituzionalizzazione siano di per sé sole in grado di mettere al riapro dalle spinte erosive scaturenti dal fondo delle pratiche di governo burocratico-legislative.
2. L’ordine teleologico della comunità politica
Nell’Occidente contemporaneo il giurista, anche il giudice, è percepito ed essenzialmente si percepisce come tecnico del diritto e perito dell’interpretazione del ius positum (Natalino Irti, Il destino di Nomos, in Elogio del diritto, 2019), qualunque sia il sistema normativo (legale, costituzionale, eurounitario, convenzionale) assunto come termine di più diretta referenza interpretativa-applicativa (cfr., sul sito di Labour Law Community, Qual è l’identità del giudice del lavoro oggi? Le visioni di tre giudici a confronto, https://www.labourlawcommunity.org/dialoghi/la-giustizia-del-lavoro/; Gustavo Zagrebelsky, La giustizia come professione, Einaudi, 2021).
Ciò è il prodotto culturale del geometrismo con cui la dottrina illuministica sulla divisione dei poteri, specialmente nella sua declinazione giacobina (Augustin Cochin, L’esprit du jacobinisme, Presses Universitaires de France, 1979), è stata metabolizzata negli ordinamenti europei di diritto continentale, e della conseguente esclusione dalla iurisdictio di qualunque competenza nella selezione dei fini cui l’ordinamento è orientato. Ma è anche un riflesso del più complessivo processo di secolarizzazione che, nella postmodernità, ha eletto la cultura tecnica a forma privilegiata del sapere, necessariamente quantitativo e deterministico, in quanto tale unico affidabile e capace di garantire il meccanismo di funzionamento dello Stato liberaldemocratico e tecnologico.
Tuttavia, il giudizio di bilanciamento dei diritti, struttura logico-argomentativa di aggiudicazione tradizionalmente riservata alla giustizia costituzionale, ha sempre più permeato, e oggi capillarmente conforma la logica decisionale dei giudici comuni grazie alla pervasività della crescente integrazione tra giurisdizioni nazionali e Corti europee. La logica strutturale del giudizio di bilanciamento assume che il sistema costituzionale (nazionale, eurounitario, convenzionale) non individui punti di equilibrio rigidi e testuali, ma ne rimetta la dinamica concretizzazione alle autorità investite della relativa competenza legislativa, amministrativa, giurisdizionale. La necessità che tale processo di concretizzazione trovi compimento secondo linee di sviluppo razionali, al riparo da arbitrii soggettivistici (cfr. Intervista a Fabrizio Amendola, https://www.labourlawcommunity.org/author/fabrizio-amendola/), necessariamente reclama la precostituzione di un sistema assiologico capace di indicare i fini ultimi cui l’ordinamento complessivamente tende.
Tra diritti economici e di ritti sociali peculiarmente vige un equilibrio dinamico di interessi in opposizione (Silvana Sciarra, Solidarity and Conflict. European social Law in Crisis, Cambridge University Press, 2018), la cui composizione razionale non è attuabile se non è determinato il fine cui il sistema sociopolitico nel suo complesso tende. Ogni tentativo razionale d’armonizzazione della libertà d’iniziativa economica privata (art. 41 Cost., art. 16 CdfUe) con la tutela dei diritti sociali disvela l’intrinseco teleologismo in cui l’attività di bilanciamento dei diritti si struttura. La distribuzione delle risorse tra impresa e lavoratore, tra individui produttivi e individui bisognosi d’assistenza, spetta a ciascuno secondo i propri meriti (come sostenuto dal retore Callicle in Platone, Gorgia, Bompiani, 2001, 484 C, 491 D; Michael Young, The Rise of the Meritocracy, Pelican Book, 1958) o a ciascuno secondo i propri bisogni (Atti degli Apostoli, 4, 35)?
Non è la ratio legis di una specifica norma a indicare se e in che misura l’uno o l’altro dei due criteri distributivi debba trovare applicazione e prevalere, bensì il modello di giustizia sociale che una determinata comunità si pone il fine di realizzare.
Analogamente, in assenza di un modello antropologico in funzione del quale una comunità orienti il fine del proprio essere civitas, come è possibile armonizzare da un lato il diritto alla vita del minore in stato vegetativo e il diritto alla vita familiare anche dei genitori (unitamente al portato di responsabilità giuridiche e morali ad esso connesse), dall’altro lato la pretesa dello Stato di imporre una propria dottrina su cosa sia la dignità umana, su se e come “valga la pena” impiegare le risorse pubbliche nel servizio sanitario? (Corte Edu, Parfitt c. Regno Unito, 20 aprile 2021, http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-209750)
In questo angusto anfratto della legalità si annida il rischio dell’arbitrio che si rimette al decisore quando una comunità politica non abbia la libertà d’immaginare o di riconoscere il proprio telos. Sono le dottrine dello Stato totalitarie a teorizzare l’appropriazione esclusiva della disponibilità del telos in capo al detentore del potere, e il conseguente disconoscimento di qualsivoglia principio d’ordine capace di limitare e d’orientare la pretesa d’assolutezza della volontà del sovrano.
3. Etica del capitalismo e spirito
È il problematico nodo d’intersezione tra libertà del lavoro, potenza della tecnica e ordine fondativo della giustizia l’attualissimo tema su cui Massimo Cacciari in Il lavoro dello spirito concentra il proprio fuoco. La sensibilità del giuslavorista consapevolmente votato al fine pratico della scienza giuridica è fortemente sollecitata dall’inattesa centralità che tale scritto restituisce allo spirito: da algoritmo di frequenze neurali (secondo la riduzione predicata dalle neuroscienze), al ruolo di soggetto che agisce il lavoro intellettuale.
Il saggio assume quale punto di riferimento concettuale la riflessione di Max Weber sullo spirito del lavoro intellettuale che il sociologo tedesco, in due conferenze tenute a Monaco di Baviera nel 1917 e nel 1919 (Die geistige Arbeit als Beruf), identifica nella professione scientifica e nella professione politica (Max Weber, Il lavoro intellettuale come professione, trad. it., Mondadori, 2006). Alla base della riflessione weberiana sul rapporto tra lavoro e capitalismo (Max Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, 1904-1905) vi è l’assunto che quest’ultimo abbia derivato dall’etica del protestantesimo il proprio spirito. È il riconoscimento, anche nel capitalismo, di una propria dimensione spirituale a rendere disperato il tentativo di trovare una via definitiva di riconciliazione razionale, e praticamente agibile, tra lavoro libero e sistema capitalistico, realtà nella loro essenza irriducibili, in quanto entrambe espressione di uno spirito, e al contempo inconciliabili, in quanto orientate a finalità irrimediabilmente incomponibili.
Massimo Cacciari, in Il lavoro dello spirito, fa un passo oltre l’orizzonte weberiano, promuovendo il ruolo dello spirito da attributo del capitalismo – in L’etica protestante è il capitalismo ad avere uno spirito – a quello di soggetto agente della storia, essendo lo spirito il soggetto che “lavora”. Nel pensiero cacciariano il capitalismo non ritrova in sé alcuna dimensione spirituale per una ragione costitutiva: la macchina capitalistica assume quale proprio fine la produzione del profitto (cfr. Benjamin Franklin in Necessary Hints to Those who Would be Rich, 1736 e in Advice to a Young Tradesman, 1748), non la libertà della persona. Essa anzi mira per natura ad inglobare qualunque lavoro, manuale e intellettuale, politico e scientifico, nel proprio sistema organizzativo, annientandone lo spirito in funzione della sua riduzione a tecnica, di cui il capitalismo si avvale utilitaristicamente – così come avviene per la tecnica economica, la tecnica finanziaria, la tecnologia – in assenza di un fine che sia al di là del suo stesso attuarsi.
Ciò non esclude che il capitalismo abbia un proprio ethos, che si compie nell’asservimento delle tecniche, incluso il lavoro umano di qualunque natura esso sia, in funzione della generazione di un profitto. Il lavoro dello spirito è ben lungi dal denunciare l’assenza di etica nel capitalismo. L’opera semmai afferma la scissione di ogni possibile legame tra etica del capitalismo e spirito, rifiuta l’idea che il capitalismo possieda o possa appropriarsi di uno spirito per erigere sé stesso a religione. Non è concepibile l’asservimento del lavoro libero, quando sia autenticamente tale in quanto agito dallo spirito, in funzione del perseguimento dei fini propri di un sistema che spirituale non è.
Tale posizione radicale pone l’Occidente contemporaneo dinanzi ad uno sconcertante interrogativo: residua un piano di possibile integrazione in concerto del lavoro libero nel sistema economico organizzato, ovvero ogni sforzo è destinato a fallire nell’insanabile lacerazione che oppone libertà dello spirito ed etica capitalistica?
La questione è evidentemente cruciale in un tempo in cui il capitalismo ha dato storicamente prova di essere l’unico sistema di organizzazione economica capace di finanziare gli onerosissimi costi della democrazia. Il dilemma weberiano non può allora restare senza ricomposizione, pena la degradazione della libertà dal piano della realtà dell’essere a mera rappresentazione astratta, disancorata dalla storia e ridotta a ideologia, o forse a vaneggiamento.
La riflessione cacciariana non spinge l’analisi sino alla questione sul come, nella pratica, il lavoro dello spirito possa essere integrato nel sistema economico e rendersi produttivo senza che ne sia intaccata la natura libera. Essa tuttavia individua con nitidezza il principio d’ordine capace di validare la via d’uscita dall’impasse weberiano, ricostruendo rigorosamente l’ordine spirituale e oggettivo di gerarchia tra libertà del lavoro, potenza politica, scientiam facere e governo delle tecniche. Si ritrova quindi la fondazione dell’ordine assiologico chiamato a governare ogni processo di bilanciamento tra esigenze tecniche del capitalismo (in primis l’organizzazione dei fattori della produzione), dignità della persona e libertà del lavoro (artt. 1, 3 e 4 Cost.; artt. 1, 15 e 31 CdfUe; punto 26 del preambolo Cse; artt. 4, 23, 26 Cse).
È interessante riscontare, su questo tema cruciale per la civiltà occidentale, un significativo punto di convergenza tra pensiero laico e il magistero dell’enciclica Laborem exercens (Giovanni Paolo II, Paoline Editoriale Libri, 1982). Quest’ultima, approfondendo l’ultrasecolare analisi sociale intrapresa nella Rerum Novarum (1891) e rinnovata nella Quadragesimo Anno (1931), col ricordare che “il lavoro è per l’uomo, e non l’uomo per il lavoro”, già aveva affermato il “principio della priorità del lavoro nei confronti del capitale” (cfr. anche Giovanni Paolo II, Centesimus annus, Paoline Editoriale Libri, 1995; Luigi Mengoni, Mario Napoli, Il lavoro nella dottrina sociale della Chiesa, Vita e Pensiero, 2004).
4. Il fondamento oggettivo della libertà
Max Weber riconosce che il capitalismo ha un proprio spirito, così come il protestantesimo ha la sua etica. In entrambi gli ordini – quello socioeconomico e quello religioso – assume centralità il valore esistenziale dell’agire umano. Il termine utilizzato da Weber per indicare la professione è Beruf (Gaetano Vardaro, Tecnica, tecnologia e ideologia della tecnica nel diritto del lavoro, in Lorenzo Gaeta, Anna Rita Marchitiello, Paolo Pascucci (a cura di), Itinerari, Franco Angeli, 1989), che è anche il vocabolo impiegato da Lutero nella propria traduzione in tedesco della Bibbia per significare il concetto di “vocazione”. Beruf è intrinsecamente legato al concetto di “chiamata a”, al compimento di un destino esistenziale di libertà spirituale di cui il lavoro è estrinsecazione (sul rapporto tra lavoro e dimensione vocazionale della persona cfr. Francesco, Fratelli tutti, Marsilio, 2020, n. 162).
Weber, frutto maturo del positivismo, ha operato in un contesto culturale fortemente influenzato, per contrapposizione, dall’idealismo tedesco, che è il terreno filosofico nel quale la stessa filosofia marxiana affonda criticamente le proprie radici. A fronte di un così forte termine di referenza concettuale, che concepisce la storia quale sviluppo fenomenologico dello spirito che si fa assoluto, sembra riduttivo intendere nella riflessione di Massimo Cacciari la parola spirito - “l’operare di tutti e di ciascuno” nella definizione di Hegel - in senso neutro alla stregua di semplice sinonimo di intelletto, o peggio ancora nell’accezione moralistica di un non ben identificato afflato sentimentalistico.
È invece riconoscibile una peculiare connessione tra l’analisi cacciariana e il tema epocale con cui l’Europa contemporanea è chiamata a confrontarsi: quale sia il rapporto esistente tra ragione, giustizia e ontologia. E infatti al di fuori di una filosofia dello spirito o, potremmo dire in via più generale, di una filosofia del principio, capace di legare con vincolo di necessità i sistemi etico-assiologici all’essere, non scorgo alcuna possibilità di sintesi, ma semmai contrapposizione di opposti o, al più, giustapposizione di visioni non comunicanti e di volontà irrelate. Nella postmodernità tale concorso non dia-logante di volontà può assumere molti nomi, come società liquida o relativismo, la cui unica etica possibile è l’utilitarismo. Unico punto di ammissibile contatto, temporaneamente non bellicoso ma reso precario dalla preminenza teleologica della prefigurazione dell’utile, è la tecnica contrattuale, contingente incontro di volontà il cui inadempimento ben può essere utilitaristicamente giustificato dall’opportunità di rottura efficiente del vincolo, come predetto dalle tecniche di Law & Economics (Adalberto Perulli, Intervista a Massimo Cacciari, https://www.labourlawcommunity.org/news-eventi/llc-interviews-series-adalberto-perulli-intervista-massimo-cacciari/; John Cartwright, Contract Law: An Introduction to the English Law of Contract for the Civil Lawyer, Hart Publishing, 1957).
Lo scontro tra volontà oppositive - tra il sé e ciò che è radicalmente altro da sé - è deflagrazione, puro scontro violento, da cui vincitori e vinti sono ugualmente travolti (Simone Weil, L’Iliade, o il poema della forza, Les Cahiers du Sud, 1943). Non è un caso che in tutte le città, a Roma come a Parigi, il campo marzio sia situato al di fuori dal perimetro della civitas, cioè fuori dallo spazio politico-relazionale. Nemmeno ritengo immaginabile che dal nulla prodotto dal conflitto assoluto possa sorgere una qualunque sintesi. Nel sistema hegeliano l’aporia della sintesi trova soluzione grazie all’azione del principio spirituale d’ordine che gli è immanente, atteso che il di più che emerge nella sintesi è frutto non del mero conflitto tra tesi e negazione della tesi (a, non a), che in sé condurrebbe al reciproco annichilimento, ma dell’arricchimento che la realtà, tramite la contraddizione, vive nell’inveramento dello spirito. Nel pensiero classico Polemos, dio della forza oppositiva, è sì “padre di tutte le cose”, ma in quanto osservante dell’ordine indiviso del logos eracliteo. Polemos è il rimedio tramite il quale l’ordine dialogico, in quanto costitutivo dell’essere, impone la connessione tra i distinti che rifiutino di relazionarsi e pretendano di rimanere nella separatezza assoluta (Cacciari, Geo-filosofia dell’Europa, 132).
Per contro, una visione liquida o relativistica della realtà non dispone di strumenti capaci di fondare una compiuta etica della libertà, necessariamente oggettiva e relazionale (dia-logica). In sé è flatus vocis l’aforisma kantiano, ricorrente in John Stuart Mill (On Liberty, John W. Parker and Son, 1859) e Martin Luther King, secondo cui la libertà dell’uno finisce dove inizia quella dell’altro: al di fuori di un principio d’ordine nel quale ritrovare il fine cui tende la libertà di ciascuno non mi sembra consentito individuare, senza cadere nell’arbitrio, alcun punto di bilanciamento tra la libertà propria e la libertà altrui, né addivenire a una sintesi della giustapposizione delle volontà individuali che affermino la pretesa di assolutezza del potere d’azione di ciascuna. Inesorabilmente, la visione “liquida” della realtà confonde la libertà con la potenza d’azione, decompone il piano oggettivo dell’etica a quello puramente soggettivo dell’arbitrio, ove la libertà degrada a fare ciò che si ha il potere materiale di fare.
Una società appagata dal torpore relativistico non ammette né pace, né armonia, ma al più tolleranza, la quale è atto della volontà non fondato su alcuna ragione, e quindi arbitrio (Cacciari, Geo-filosofia dell’Europa, 145).
Nelle società democratiche si affida alla logica del bilanciamento dei diritti il compito di governare il conflitto che fatalmente si instaura tra la vocazione al lavoro libero e la pretesa (giuridicamente tutelata) di perseguire un profitto avvalendosi di lavoro comandato, mattone costitutivo della produzione organizzata nel sistema capitalistico. Tuttavia, l’intero meccanismo di tutela dei diritti fondamentali rischia di ridursi a techne, come tale facilmente strumentalizzabile in funzione di fini estranei a sé, qualora ab-solto da un principio d’ordine capace di fondarne oggettivamente la giustificazione.
È questo il piano ove si celebrano le nozze (o si consuma il divorzio) tra diritto e etica: non la posizione di valori “sovrani” quale fine ultimo della volontà di chi dispone del potere nomopoietico (il legislatore ordinario, quello costituente, il potere esecutivo-amministrativo, il giudice), ma il riconoscimento in un principio anticipante (“sottano”, citando l’ironica intelligenza di Gustavo Zagrebelsky) che riflette la dialogicità della propria natura sull’ordine legittimo delle cose. Per contro, il disconoscimento di ogni principio d’ordine fondativo preclude a qualunque dottrina sui diritti umani ogni possibilità di trovare giustificazione diversa dal puro presupposto giuspositivista, e di sottrarsi al portato volontaristico che esso sottende (cfr. Norberto Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, 1990). Ecco che si ridurrebbe a inutile snobismo la pretesa di liquidare come pittoresche stravaganze le visioni estreme di pensatori estremi come Julius Evola (Rivolta contro il mondo moderno, Edizioni Mediterranee, 1978) o Alain de Benoist (Au-delà des droits de l’homme. Pour défendre les libertés, Éditions Krisis, 2004).
5. Il problema del volontarismo
Lo stesso utilitarismo hobbesiano resta puro polemos disgregativo se svincolato dal principio d’ordine di cui pacta sunt servanda è espressione. Tale principio assiologico trascende – mi sembra oltre la ferrea logica hobbesiana – l’etica puramente utilitaristica, che di per sé sola legittima la rottura di ogni patto. Esso anzi è intrinseca contraddizione della legge che governa lo stato di natura. La stessa società contrattualistica del “patto sociale”, nelle sue varie declinazioni hobbesiane, spinoziane o lockiane, e al di là di ogni pedanteria critica circa la realtà o metaforicità del patto, non può trovare realizzazione storica al di fuori di un ordine che valga a fondarla al di là del puro stato di natura (fondamentale sul tema, con prospettiva parzialmente diversa, John Rawls, A Theory of Justice, Harvard University Press, 1971).
Nella critica di Cacciari lo Stato di diritto, perduto il senso del principio, è lo Stato che considera sopra di sé la pura forma del contratto. All’esito del processo di costituzionalizzazione che ha elevato il contratto a ente fondativo del diritto pubblico, la rimozione dell’arché è il sacrificio che la postmodernità ha offerto sull’altare di ciò che Paolo Perulli definisce il “dio contratto” (Il debito sovrano. La fase estrema del capitalismo, La nave di Teseo, 2020).
Nell’era del capitalismo le stesse potenze politiche, che Alessandro Aresu minuziosamente descrive nel loro incessante contrattare con le concorrenti potenze economiche, finanziarie, tecnologiche, geopolitiche (Alessandro Aresu, Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina, La nave di Teseo, 2020), si relativizzano in una dinamica contingente di reciproco dominio-asservimento che contraddice la natura spirituale e libera del lavoro politico (cfr., su ruolo della comunità internazionale e concezioni economiciste, Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, Paoline Editoriale Libri, 1998).
La società politica contemporanea, perduta la fiducia di poter ordinare la civitas su assetti regolativi di principio, affida la propria funzionalità organizzativa all’efficienza tecnica di “accordi parzialmente teorizzati” (Cass R. Sunstein, Designing democracy: what constitutions do, Oxford University Press, 2001), a tecniche di negoziazione che prefigurano l’elusione della discussione sugli aspetti sostanziali che la comunità politica non è in grado ricondurre ad uno spirito condiviso, e quindi di armonizzare. Ecco abbracciata, per questa via, la nuova “religione nichilista” (Walter Benjamin Capitalismo come religione, in Alfabeta 2, 6 dicembre 2014).
L’immanenza della matrice contrattualistico-utilitaristica nell’etica del capitalismo è in stretta connessione con la questione del volontarismo. Nella logica capitalistica è la primazia della volontà orientata al profitto a trovare affermazione. La volontà si fa tecnica (“la tecnica è volontà” secondo Emanuele Severino) e avoca a sé, riducendolo a tecnica, ogni tipo di lavoro umano, in primis quello scientifico, la cui produttività viene inglobata nel ciclo economico in funzione strumentale rispetto alla redditività del capitale. Il lavoro politico è coartato nel ruolo di tecnica anticiclica (Cacciari), degradato dalla funzione spirituale che gli è propria di pontifex tra principio d’ordine e comunità a strumento servente di un fine contingente ad esso estraneo.
È sul modo in cui concepisce il rapporto tra volontà e principio d’ordine che una comunità politica decide il proprio destino. Quando la volontà si volge al principio ordinante, il Beruf politico è capace di salvaguardare la propria autonomia spirituale e d’orientare il sapere scientifico alla libertà della persona umana tramite il governo della tecnica. Se è invece la volontà di chi dispone del maggior potere d’azione sul mondo (la techne) ad imporre la strumentalizzazione del lavoro umano in funzione di fini estranei alla struttura dialogica del principio, anche il lavoro politico seguirà il destino della de-spiritualizzazione, e il lavoro scientifico opererà disumanizzato e de-personificato.
La primazia della volontà sull’ordine razionale della realtà è l’assunto fondativo di ogni totalitarismo. L’assolutezza del potere si impone in modo tanto più estremo quanto più essa sia in grado di affermare la realizzazione di sé quale fine ultimo dell’esercizio della potestas, anziché tendere all’armonizzazione delle relazioni politiche, economiche e sociali secondo l’ordine dia-logico della persona umana. La costruzione di un proprio linguaggio autorappresentativo (Victor Klemperer, LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo, Giuntina, 1998), di una neolingua (George Orwell, Nineteen Eighty-Four, Secker & Warburg, 1949), è la techne privilegiata con cui il potere totalitario costringe la realtà ai dettami della propria volontà (come l’appropriazione di un Lebensraum) e ai vincoli delle autorappresentazioni (l’autopercepita appartenenza alla razza ariana o la discendenza dal popolo mitico di Thule), sopprimendo la natura dialogica dell’essere.
Non è un caso che Il trionfo della volontà, terribile capolavoro cinematografico di Reni Riefensthal, è il titolo assegnato al più noto filmato di propaganda nazista.
6. Il riduzionismo quantitativo
Un arcigno ostacolo culturale alla rifondazione del rapporto assiologico tra libertà oggettiva, volontà e tecnica è rappresentato dal quantitativismo scientifico, che nella postmodernità si è imposto quale preteso fondamento di ogni possibile forma di conoscenza razionale. Le tecniche, ognuna prodotto applicativo di una scienza particolare, si ergono a sistemi autosufficienti di governo della natura, svincolati da qualunque principio d’ordine che stia “oltre” il segmento di realtà suscettibile di quantificazione. Nemmeno lo sconvolgimento subito nel corso del ‘900 dai concetti di spazio-tempo e di causa-effetto a seguito delle scoperte della fisica subatomica è valso a mettere radicalmente in discussione il convincimento quantitativistico-deterministico diffuso nell’immaginario di larga parte del mondo scientifico, e le ricadute antropologiche che ne conseguono (Jacques Monod, Il caso e la necessità, Mondadori, 1970).
Secondo una potente interpretazione, il riconoscimento dei numeri quali elementi costitutivi dell’essere varrebbe a qualificare la scienza contemporanea quale sapere intrinsecamente platonico (Cacciari), proprio in quanto la matematizzazione è espressione del métron su cui il mondo classico, a partire dalla tradizione pitagorica, fonda l’ordine razionale della realtà (Platone, Timeo, Bompiani, 2000).
È anche vero, tuttavia, che l’idea che la matematizzazione sia espressione o struttura costituente di un principio d’ordine cosmico fondativo non appartiene, ubiquitariamente, al pensiero scientifico contemporaneo in quanto tale. E in effetti lo stesso Massimo Cacciari distingue la matematizzazione propria della scienza platonica dal calcolo meramente quantitativo.
La degradazione a techne della stessa matematizzazione e la riduzione della realtà a mera somma di quantità sono precipui aspetti della weltanschauung postmoderna. La disgregazione degli oggetti nelle loro quantità costitutive elementari è il risultato cui il metodo analitico intrinsecamente tende (ἀνα + λύσις, λύειν, sciogliere). La riduzione quantitativa, in sé considerata, è scioglimento dei legami e, in ultima istanza, scomposizione dell’intero in frammenti irrelati, come tali strumentalizzabili in funzione di qualunque fine voglia porsi una volontà orientata a un’etica puramente utilitaristica.
Appartiene alla comune esperienza l’impatto metodologico che il modello di ragionamento analitico deduttivo ha prodotto anche sulla scienza giuridica, dalla logica tomistica all’ideologia illuministica del giudice bocca della legge, sino alle aporie del geometrismo giuridico kelseniano. E tuttavia nel Signore degli anelli Gandalf il grigio (il mago buono) mette in guardia Saruman (il mago buono diventato cattivo, “il saggio che ha abbandonato la ragione per la pazzia”) ammonendolo che è folle colui che rompe un oggetto per scoprire cos’è (sulla rilevanza nella modernità dell’idea di adaequatio tra ragione individuale e natura cfr. Maurizio Manzin, La natura (del potere) ama nascondersi, in Francesco Cavalla (a cura di), Cultura Moderna e interpretazione classica, Cedam, 1997).
Il matematismo quantitativo è, in fin dei conti, un’eredità fraintesa di Voltaire, al quale Nietzsche significativamente dedica Umano troppo umano, opera che segna l’apertura alla nuova era della volontà di potenza, liberata da ogni principio autoritativo. Così, la derisione delle superstizioni medievali (non di rado create dall’immaginario dei moderni e attribuite per transfer al pensiero degli antichi), e in genere metafisiche, è diventata nel positivismo ottocentesco vera e propria postura filosofica (“Keine Metaphysik mehr!”). Se l’illuminismo ha avuto quantomeno il merito storico di recuperare la ragione al centro dell’esperienza umana, alla sua propaggine positivista va addebitato il demerito di aver generato la superstizione del riduzionismo quantitativo e idolatrato il dogmatismo dell’intelletto.
Pur a fronte della critica epistemologica mossa alle scienze galileiane dalla filosofia novecentesca (Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, trad. it., Il Saggiatore, 2015), l’immaginario dei contemporanei è diffusamente suggestionato dalla distorsione quantitativistica. Ciò emerge con evidenza nel best seller di Stephen Hawking e Leonard Mlodinow The grand design (Transworld, 2010). I due scienziati, mossi dal dichiarato intento di dimostrare la non necessità fisica di qualunque principio divino e in genere metafisico a fondamento ultimo dell’essere, sembrano davvero convinti che il gioco-esperimento digitale di Conway sia in grado di offrire una riprova empirica dell’autosufficienza cosmogonica del modello d’automa deterministico-quantitativo. Invero, lo scritto altro non è se non una riedizione aggiornata del famoso saggio di Hawking Dal big bang ai buchi neri (1988), con l’aggiunta di una sorta di prefazione filosofica la quale, muovendo da alcune rapide suggestioni sugli elementi (principi materiali) presocratici e sugli atomi democritei, salta a piè pari 2500 anni di storia del pensiero occidentale per proporre una rifondazione della fisica quantitativa come nuova filosofia dell’essere (la questione della scienza come compimento della metafisica è posta semmai da Martin Heidegger, La fine della filosofia e il compito del pensiero, in Tempo ed essere, 1969. Il tema ha origini antiche: sul rapporto tra episteme e metafisica come ricerca del principio e della causa cfr. Aristotele, Metafisica, Bompiani, 2000).
Così, una significativa componente della weltanschauung contemporanea, disconoscendo ogni “platonicità” nella matematizzazione della realtà, erige una cortina ferrea tra reale e “chimerico” (Auguste Comte, Discorso sullo spirito positivo, trad. it., Laterza, 1985).
La tracimante diffusività del riduzionismo quantitativo non può non contaminare anche la dimensione antropologica. Ne costituisce manifestazione, nella forma più estrema, il dramma delle due guerre mondiali, ove lo stesso individuo guerriero ha cessato di essere qualità (si pensi al valore dell’antico cavaliere medievale, come Dante Alighieri a Campaldino, o del samurai giapponese), per diventare mera quantità nella guerra di trincea, e più ancora sotto i bombardamenti di massa che hanno colpito i civili a Dresda come a Londra. Sciocca, ma non stupisce, che nei rapporti degli ufficiali della prima guerra mondiale le perdite umane in battaglia siano contabilizzate algebricamente allo stesso modo delle perdite di cannoni, derrate alimentari, animali da carico (Alessandro Barbero, Caporetto, Laterza, 2017).
Con coerenza estrema, l’antropologia nazista ha generato il modello d’individuo “non completamente nato” (Tommaso Tuppini, La caduta. Fascismo e macchina da guerra, Orthotes, 2019), che è entità irrelata, segregata sia dal mondo esterno, sia dal proprio mondo interiore tramite una pelle che opera come “corazza” difensiva-segregativa. Il nazista è unità numerica perfettamente disgregata e segregata da qualunque forma di dia-logos con ogni altro umano.
Le guerre mondiali sono state un’esperienza collettiva di dissolvimento dell’esistenza individuale, unico valore posseduto dal soldato sul campo di battaglia, a mera quantità irrelata. Su tale sostrato esperienziale il pensiero esistenzialista ha prodotto una rappresentazione dell’essere umano quale entità ridotta a pura esistenza, condannata all’assurdo in quanto incapace di relazione sensata – di diálogos – con sé stessa e con l’altro (Albert Camus, L’Étranger, Gallimard, 1942). Inevitabilmente, l’enfer, c’est les autres (Jean-Paul Sartre, Huis clos, 1943).
Sono innumerevoli i contesti, seppur meno estremi, in cui l’Occidente ha vissuto esperienze di disumanizzazione del lavoro e di riduzione dell’umano a mera quantità, come nelle catene produttive delle prime rivoluzioni industriali o, talvolta, nelle contemporanee catene transnazionali del valore. Non è un caso che il positivismo, emblematicamente, sia divenuto la bandiera filosofica della borghesia capitalistica ottocentesca, del pensiero economico liberista e della sua rivoluzione tecnico-industriale.
7. La crisi identitaria delle democrazie in Occidente
Quando le comunità politiche affrontano una crisi d’identità, le forme di pensiero “debole” esercitano una particolare capacità di fascinazione (Gianni Vattimo, Dialettica, differenza, pensiero debole, in Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti (a cura di), Il pensiero debole, Feltrinelli, 1983). Nel dopoguerra, la capacità delle democrazie europee di riconoscersi nei propri fondamenti costituitivi è stata ripetutamente messa in crisi da una molteplicità di fattori d’innesco (l’esaurimento dell’ordine di Jalta, la fine delle ideologie, i nuovi fenomeni migratori, la crisi demografica, i “sovranismi”, lo stallo nel processo d’integrazione europea). Specularmente, nel momento in cui la democrazia ateniese ha raggiunto l’apice del proprio splendore, la concezione socratico-platonica del logos è entrata in competizione con il nuovo approccio etico utilitaristico delle emergenti scuole retoriche e sofistiche (Platone, La Repubblica, Bompiani, 2009; Gorgia, Laterza, 1997; Protagora, Bompiani, 2001; Minosse, La Vita Felice, 2015).
Il pensiero “forte” socratico fonda la disposizione armonica (kòsmos) della società e delle leggi (nomoi, nomizomena) nell’ordine pregiuridico e prepolitico del logos. Finché la comunità ateniese si è riconosciuta nel principio già presocratico di corrispondenza tra pensiero ed essere (cfr. Platone, Lettera VII), la buona legge non poteva essere intesa quale mera deliberazione della polis, bensì tou ontos exeuresis, “scoperta di ciò che è” (Minosse, 315 A). Coerentemente, nei dialoghi platonici giovanili l’osservanza delle leggi è considerata atto giustizia in sé (Platone, Critone, Bompiani, 2000), essendo le leggi manifestazione armonica dell’ordine cosmico presupposto.
In Gorgia, dialogo di quasi un decennio successivo al Critone, Platone appare irrimediabilmente sconcertato dall’incomprensibile messa a morte del maestro. Qui, l’identificazione spirituale con la polis è radicalmente messa in dubbio, tanto che Socrate questa volta sente il dovere di distinguere le leggi giuste, espressione del logos, da quelle ingiuste, puro strumento di dominio. Per contro il retore Gorgia, maestro del nuovo corso della democrazia, è fermo assertore del predominio della volontà sull’essere, e considera la retorica “il più grande bene” proprio in quanto techne capace di conferire “il potere di dominare sugli altri nella propria città” (Gorgia, 452 D, 456 C). Invero Gorgia, con sorprendente attualità, si atteggia ancora a dottrinario di transizione, vittima del suo stesso moralismo. In alcuni passi del dialogo egli sembra ancora diviso tra l’affermazione incondizionata della nuova potenza volontaristica e il legame con i vecchi schemi, che lo imbrigliano nella contraddizione di chi ancora sente il bisogno di proclamare, a dispetto dei presupposti da cui egli stesso muove, che la retorica sia arte della persuasione “sul giusto e sull’ingiusto” (Gorgia, 460 C).
Il processo di separazione dal principio dialogico trova compimento nella figura di Callicle, spregiudicato discepolo di Gorgia, appartenente ad una generazione formatasi in un contesto culturale e politico fortemente “secolarizzato” e spiritualmente distaccato da ogni idea condivisa di principio d’ordine. Il giovane retore non ha remore nel condurre il ragionamento del maestro alle estreme conseguenze. Nella sua visione, le leggi della polis sono stabilite dagli uomini deboli per spaventare i più forti, in modo che quest’ultimi non abbiano più di loro. Esse sono quindi per ciò solo contrarie alla natura. Secondo natura è invece giusto che chi è più potente abbia di più di chi è meno potente, l’uguaglianza è per i deboli (Gorgia, 483 C). Ecco esplicitato, in poche parole, il nucleo di ogni dottrina sulla violenza tirannica, divenuta costume politico nell’età dell’imperialismo ateniese (Tucidide, Il dialogo dei Melii e degli Ateniesi, Marsilio, 1991; Platone, Gorgia, 492 C, 508 A). Tanto che Callicle evoca senza imbarazzo la necessità correzionale del “menar botte” (Gorgia,485 D, 521 A-D).
Massimo Cacciari individua nel pensiero classico e nel cristianesimo due elementi strutturali della civiltà occidentale (v. anche, seppur in diversissima prospettiva, James Hillman, Un terribile amore per la guerra, Adelphi, 2005). La civiltà europea ha intessuto queste due tradizioni culturali in un sorprendente e potentissimo intreccio identitario. Come in origine la paideia greco-platonica è stata il veicolo concettuale privilegiato per la costituzione teologica del protocristianesimo (Werner Jaeger, Cristianesimo primitivo e paideia greca, trad. it., Bompiani, 2013), così non vi è oggi meandro della weltanschauung dell’Europa contemporanea che non sia plasmato, razionalizzato, concettualizzato e vivificato (per mimesi o contrapposizione) dalle radici strutturali di tali tradizioni del pensiero europeo. Rivolgendo l’attenzione a un particolare profilo d’analisi, Paolo Perulli in Il debito sovrano sviscera i fittissimi intrecci che, nella visione del mondo occidentale, legano etica politico-economica e pensiero teologico-religioso.
Nel solco di questa tradizione culturale il principio d’ordine, seppur trascendente, non assume la forma di ombra metafisica relegata nell’arcano imperscrutabile, e nemmeno di mistero (μυστήριον) nel senso esoterico antico (Edgar Wind, Misteri pagani nel rinascimento, Adelphi, 1971). Esso, in quanto mistero semmai nel significato assunto nella teologia cristiana neotestamentaria (Gv, 15, 15), è per natura accessibile alla conoscenza umana, certo secondo prospettive particolari, ma pur sempre veritative in quanto fondate sull’essenziale natura dialogica che l’essere persona e il principio-logos condividono. L’incarnazione del logos (σὰρξ ἐγένετο, Gv, 1, 14) è omousia (della stessa sostanza) del Padre, e al contempo riflette l’immagine dell’uomo, essendo l’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio (Gn, 1, 26-27). Così, come l’uomo è ragione e parola, così è ragione, parola e persona il principio-logos (Joseph Ratzinger, Introduzione al cristianesimo. Lezioni sul simbolo apostolico, Queriniana, 2005).
Nella condivisione di tale natura dialogica trova fondamento un atteggiamento gnoseologico intrinsecamente ottimista: è aperta alla comprensione umana una naturale porta d’accesso al principio d’ordine che anticipa la realtà, giustifica la morale, fonda la giustizia, indica il fine delle leggi e ne orienta l’interpretazione.
8. Homo oeconomicus e homo politicus
Come mostrato nel mito fondativo di Prometeo (Platone, Protagora. Laterza, 1996, 315 A-326 A; Esiodo, Teogonia, BUR, 1984; Eschilo, Prometeo incatenato, La Vita Felice, 1996), la tecnica senza diritto distrugge l’essere umano, (Werner Jaeger, Elogio del diritto, trad. it., La nave di Teseo, 2019; Sofocle, Antigone, vv. 364-371), così come il diritto senza giustizia si trasforma esso stesso in tecnica distruttiva. Massimo Cacciari esclude radicalmente che il capitalismo possa essere espressione di uno spirito. Il capitalismo è ciò che è e non può che essere, portando con sé la propria ineluttabile etica utilitaristica. Una volta escluso che l’operari scientifico abbia in sé “a che fare con idee di salvezza, di libertà, di felicità” (Cacciari, Il lavoro dello spirito, 37-38), proprio in quanto estraneo a ogni giudizio sul valore delle finalità universali, come può l’homo oeconomicus trasformarsi in homo politicus? Come può fondarsi una società politica in cui non sia la volontà di profitto (la techne economica) ad asservire strumentalmente il lavoro scientifico e il lavoro politico, ma sia il Beruf politico ad orientare il sapere scientifico al governo di una civitas che pone la libertà della persona umana come fine e subordina la techne a puro mezzo (cfr. sul tema la prospettiva di Benedetto XVI, Caritas in veritate, Libreria Editrice Vaticana, 1999)?
La trasformazione dell’homo oeconomicus, de-umanizzato dal dominio dalla tecnica o ridotto esso stesso a strumento tecnico, in homo politicus, relazionale, dialogico e votato all’esercizio libero della ragione, richiama ineludibilmente la contemporaneità al recupero di un principio d’ordine condiviso, capace di fondare il concetto di libertà come ordine oggettivo della realtà e capace di orientare l’applicazione delle leggi secondo una teleologia che sfugga dall’arbitrio dei soggettivismi individuali o “partitici”. È il dia-logos tra i distinti l’unico fondamento possibile di una pace che non sia fatua tolleranza, istinto alla decreatio (Simone Weil) o immobilità impersonale dell’essere (Parmenide), salvo ammetterne il compimento nella forma più radicale della caritas cristiana (Cacciari, Geo-filosofia dell’Europa, 155), la quale connette a sé il nemico (il completamente altro da sé) nell’abbraccio non regredibile dell’agàpe-amore (Lc, 6, 27-38).
Ecco quindi la radicale questione identitaria sulla quale la contemporaneità europea sfida il giurista: se sia egli un perito della tecnica giuridica, istituzionalmente indifferente alla questione del fondamento di principio del diritto, ovvero se egli sia un professionista del lavoro dello spirito, come tale chiamato a porsi in incessante relazione dialogica con l’ordine oggettivo di libertà che costituisce l’essenza giustificativa della giurisdizione, del sistema normativo e della comunità politica.
Non rientra nelle forze del giurista offrire una risposta compiuta alla poderosa questione. Egli è chiamato a fare la propria parte, unitamente ai filosofi, agli scienziati, ai politici.
* La presente riflessione trae origine dalla lettura di Il lavoro dello spirito di Massimo Cacciari (Adelphi, 2020), di Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina di Alessandro Aresu (La nave di Teseo, 2020) e di Il debito sovrano. La fase estrema del capitalismo di Paolo Perulli (La nave di Teseo, 2020), nonché dalle analisi sviluppate dai tre autori nel seminario Il capitalismo dopo Max Weber, Università Ca' Foscari Venezia, 19 marzo 2021, a cura di Adalberto Perulli. Lo scritto è già apparso, nel suo contenuto essenziale, sul sito web di Labour Law Community. Ringrazio il Prof. Luca Ratti, l’Avv. Vincenzo Poso, la Prof. Marta Ferronato, il Prof. Gianandrea Di Donna, il Prof. Andrea Sitzia per aver condiviso con me i loro arricchenti punti di vista sui temi che questo scritto percorre.
LE TABELLE DEGLI UFFICI GIUDIZIARI – ultima parte - La funzione organizzativa del Csm, i progetti organizzativi e le proposte di riforma.
di Gianfranco Gilardi
Sommario: 1. La funzione organizzativa del Csm e le Procure della Repubblica. L’evoluzione normativa e le proposte pendenti di riforma dell’ordinamento giudiziario - 2. L’effettività del sistema tabellare. – 3. Le proposte di riforma dell’ordinamento giudiziario.
1. La funzione organizzativa del Csm e le Procure della Repubblica. L’evoluzione normativa e le proposte pendenti di riforma dell’ordinamento giudiziario
Come si è ricordato, anteriormente alla riforma dell’ordinamento giudiziario il Consiglio superiore della magistratura - alla luce della normativa primaria e secondaria sviluppatasi nel tempo[1] e sfociata, da ultimo, nell’art. 7 ter ord. giud. che peraltro recepiva le indicazioni elaborate dallo stesso Consiglio – era venuto definendo i propri spazi di intervento anche in relazione alle modalità di esercizio del potere del Procuratore della Repubblica nei rapporti con i sostituti e nell’esplicazione più tipicamente organizzative, allo scopo di dare attuazione ai principi costituzionali inerenti alla figura del pubblico ministero e, in particolare, agli artt. 105 e 112 della Cost. Il Csm aveva pertanto precisato nelle proprie circolari che - nel rispetto di un procedimento volto a garantire, come per gli uffici giudicanti, il contraddittorio degli interessati e ad acquisire il parere del Consiglio giudiziario - anche per gli uffici delle Procure dovessero essere formulati i programmi organizzativi, con le indicazioni relative alla loro composizione complessiva, a quella degli eventuali gruppi di lavoro specializzati per la trattazione di materie richiedenti particolari tecniche di indagine e/o la conoscenza di settori specialistici, all’assegnazione dei procedimenti ai gruppi di lavoro ed ai singoli magistrati, alle funzioni delegate ai procuratori aggiunti, ai turni d’udienza. Per quanto concerne l’enunciazione di criteri relativi alla assegnazione degli affari, era stato chiarito da tempo che il potere di direzione e di organizzazione dell’ufficio spettante al Procuratore della Repubblica ai sensi dell’art. 70 ord. giud., e la circostanza che in base a tale norma egli esercitasse personalmente le funzioni attribuite al pubblico ministero dal codice di procedura penale e dalle altre leggi, quando non avesse designato altri magistrati addetti all’ufficio, non escludeva che anche per gli uffici del pubblico ministero fossero da indicare criteri organizzativi idonei ad individuare in modo oggettivo e predeterminato quali affari il Procuratore della Repubblica intendesse riservare a se stesso, e quali invece delegare ai sostituti dell’ufficio, che l’assegnazione di un determinato affare in deroga i criteri organizzativi indicati richiedesse una motivazione espressa e che la revoca della designazione dovesse essere non solo sottoposta all'obbligo di motivazione[2], ma anche giustificata da determinati presupposti, in coerenza con i principi di imparzialità, trasparenza e buon andamento dell’amministrazione, posti a garanzia dell’autonomia e indipendenza riconosciute dalla Costituzione a tutti gli appartenenti all’ordine giudiziario, nell’interesse primario della collettività.
Nella circolare sulla formazione delle tabelle relativa al biennio 2006/2007, che raccoglieva e sviluppava tali indicazioni, veniva tra l’altro precisato che, pur rientrando l’assegnazione degli affari nella responsabilità del dirigente dell’ufficio, non fossero ammissibili parametri genericamente equitativi o tali da realizzare una discrezionalità incontrollata del dirigente; che i criteri di assegnazione degli affari potessero essere derogati, con provvedimenti adeguatamente motivati, in presenza di esigenze di servizio, ivi comprese quelle di riequilibrio dei carichi di lavoro, ovvero in considerazione della specifica professionalità richiesta dalla trattazione di singoli affari; che fossero adottati gli opportuni accordi tra Procuratore della Repubblica, Presidente della sezione GIP o magistrato incaricato della direzione della medesima e Presidente del Tribunale allo scopo di permettere la tendenziale continuità nella designazione del sostituto, finalità cui era correlata anche la previsione che nel corso delle indagini preliminari la sostituzione del magistrato designato dovesse essere adeguatamente motivata con riferimento ad esigenze oggettive e verificabili, e che ove la sostituzione non fosse stata richiesta o condivisa dal sostituto designato, il provvedimento di sostituzione, corredato delle osservazioni dei magistrati interessati e del parere del Consiglio giudiziario, dovesse essere immediatamente trasmesso al Consiglio superiore della magistratura. Nei par. 63-65 veniva quindi descritto il procedimento - analogo a quello già esaminato per gli uffici giudicanti – concernente il deposito dei criteri organizzativi, le eventuali osservazioni dei magistrati dell’ufficio, il parere del Consiglio giudiziario e la successiva trasmissione al Csm, alla cui approvazione l’efficacia del programma era subordinata.
Tale quadro si è successivamente modificato con la riforma dell’ord. giud. e la soppressione dell’art. 7 - ter, terzo comma ( v. par. 4 LE TABELLE DEGLI UFFICI GIUDIZIARI - prima parte- Il sistema tabellare di Gianfranco Gilardi), mantenuta ferma anche dopo che la legge 269/2006, aveva fatto venir meno alcune delle più vistose accentuazioni in senso gerarchico delle Procure della Repubblica contenute nel testo originario del d. lgs. 106 /2006, i cui profili di illegittimità costituzionale erano stati ribaditi nella risoluzione urgente del 5 luglio 2006 con la quale il Csm aveva evidenziato altresì le ricadute negative della nuova disciplina sull’efficienza degli uffici[3].
La riforma dell’ordinamento giudiziario ha comportato l’estromissione del Csm dal procedimento di definizione dell’assetto organizzativo delle Procure, salva la previsione che i progetti organizzativi, ivi compresi quelli regolanti l’assegnazione dei procedimenti, siano comunicati al Consiglio. Ciò tuttavia non ha precluso gli spazi per un’interpretazione costituzionalmente orientata, come il Csm ha avuto modo di chiarire con la ricordata risoluzione del 12 luglio 2007, i cui principi sono stati poi ripresi nella delibera dell’11 ottobre 2007 ed ai quali la circolare sulla formazione delle tabelle relative al triennio 2009/2011 fece esplicito richiamo all’art. 128 (“per l’organizzazione degli Uffici del Pubblico Ministero occorre fare riferimento alla risoluzione consiliare del 12 luglio 2007 ed alla Circolare per l’organizzazione degli Uffici Giudiziari per il biennio 2006-2007 esclusivamente nelle parti compatibili con il Decreto Legislativo n. 106 del 2006”)[4].
Dopo essersi occupato della materia in altri documenti[5], il CSM è da ultimo intervenuto in argomento con la Circolare approvata il 6 dicembre 2020 mediante la quale, muovendo dai principi costituzionali di cui agli artt. 105, 107, 108 e 112 Cost., dalle delibere del 2007 e del 2009 e dall’analisi delle problematiche emerse nell’applicazione della circolare del 2017, si è proceduto ad una incisiva opera di riscrittura della materia.
Nella consapevolezza che gli aspetti organizzativi costituiscono una componente essenziale ai fini dell’esercizio imparziale ed effettivo dell’azione penale, della celerità dei procedimenti e del diritto di difesa, si è posta particolare attenzione:
- all’interpello come strumento per l’assegnazione dei magistrati ai gruppi di lavoro, per l’assegnazione degli incarichi di coordinamento ai Procuratori aggiunti e per gli incarichi di collaborazione. Al riguardo sono stati contestualmente indicati i criteri di valutazione (anche con riferimento all’assegnazione alla DDA, per la quale viene valorizzata l’esperienza giudiziaria, nonché quella non giudiziaria, ove particolarmente formativa;- al metodo partecipato per l’adozione del progetto organizzativo, valorizzando a tal fine la centralità dell’assemblea dei magistrati come momento preliminare e necessario di condivisione del progetto organizzativo ed il confronto con il dirigente del corrispondente ufficio giudicante;
- alla regolamentazione delle funzioni semidirettive, con la previsione altresì dell’obbligo di svolgimento di una quota di lavoro “giudiziario” in senso stretto per i procuratori aggiunti e del divieto di esonero per i magistrati con funzioni di collaborazione non titolari di funzioni semidirettive;
- alla trasparenza ed imparzialità nell’attività del dirigente;
- alla previsione di espressi criteri per l’assegnazione degli affari, la coassegnazione e l’autoassegnazione, ed alla necessità di specifica motivazione in caso di deroga a criteri automatici di assegnazione;
- alla qualificazione del “visto” come manifestazione delle competenze organizzative del dirigente e quindi come strumento di conoscenza e informazione sulle attività dell’ufficio;
- all’individuazione di criteri predefiniti per l’assegnazione dei magistrati alle DDA e per le coassegnazioni dei procedimenti di competenza della DDA;
- alla definizione del ruolo dei Consigli giudiziari;
- alla regolamentazione dell’organizzazione della DNAA, anche con riferimento alla assegnazione dei magistrati ai gruppi di lavoro, alla assegnazione degli affari ed al ruolo dei Procuratori aggiunti.
È inoltre da segnalare, anche per il rilievo che la questione è tornata ad assumere nell’ambito delle proposte di riforma dell’ordinamento giudiziario[6], la disposizione di cui all’art. 3, ove è tra l’altro disposto che il “Procuratore della Repubblica, nel rispetto del principio di obbligatorietà dell’azione penale e dei parametri fissati dall’art. 132-bis disp. att. c.p.p. e delle altre disposizioni in materia, può elaborare criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti. Indica i criteri prescelti al fine dell’efficace e uniforme esercizio dell’azione penale, tenendo conto della specifica realtà criminale e territoriale, nonché delle risorse tecnologiche, umane e finanziarie disponibili” e che nell’elaborazione dei criteri di priorità, egli “cura l’interlocuzione con il Presidente del tribunale ai fini della massima condivisione, ed opera sia tenendo conto delle indicazioni condivise nella conferenza distrettuale dei dirigenti degli uffici requirenti e giudicanti, sia osservando i principi enunciati nelle delibere consiliari del 9 luglio 2014 e dell’11 maggio 2016 in tema, rispettivamente, di “criteri di priorità nella trattazione degli affari penali” e di “linee guida in materia di criteri di priorità e gestione dei flussi di affari - rapporti fra uffici requirenti e uffici giudicanti” [7].
2. L’effettività del sistema tabellare
Come osservato, anche dopo la riforma dell’ordinamento giudiziario resta saldo il postulato su cui poggia il sistema tabellare, quello cioè che l’organizzazione del lavoro giudiziario deve ispirarsi all’esigenza, comune a ogni ramo della pubblica amministrazione, di garantire il buon funzionamento e l’imparzialità del servizio e, insieme, di assicurare che lo svolgimento delle funzioni giurisdizionali avvenga al riparo da ogni condizionamento non solo esterno, ma anche interno alla magistratura.
L’esperienza ormai pluridecennale in materia tabellare, le direttive sempre più precise dettate dal Csm, i controlli esercitati dai consigli giudiziari, la partecipazione al procedimento tabellare realizzata attraverso le osservazioni dei magistrati, un’intensa attività di formazione a livello sia centrale sia decentrato, alcune pronunce della Corte costituzionale hanno contribuito, nel corso del tempo, a radicare la consapevolezza del valore fondante del principio del giudice naturale e, insieme, la consapevolezza circa la validità delle regole tabellari quale strumento di equa e razionale organizzazione del lavoro giudiziario. Di tale crescita costituisce parte importante il diretto coinvolgimento dei dirigenti degli uffici nella stessa formazione delle circolari sulle tabelle, la cui elaborazione viene preceduta ormai da diversi anni da appositi incontri con i dirigenti medesimi al fine di raccoglierne proposte e suggerimenti, nella convinzione che “l’autogoverno implica il contributo responsabile di tutti gli operatori del sistema – giustizia” e che “proprio la condivisione delle scelte organizzative si traduce in garanzia di buon funzionamento ed efficienza degli Uffici giudiziari”[8].
Ma, se ciò è vero, bisogna aggiungere che ai principi enunciati ed alle regole dichiarate non corrisponde ovunque un’immagine simmetrica della realtà. Si deve infatti assistere ancora oggi (benché molto meno che in passato) ad uffici nei quali la vita si svolge al di fuori di occasioni di confronto sullo stato dei servizi, i problemi organizzativi, gli orientamenti giurisprudenziali e le novità normative, e nella mancanza, a volte, anche delle forme più elementari di controllo e di vigilanza. Le prescrizioni relative a parti ordinamentali di fondamentale importanza, come le riunioni interne alle sezioni ex art. 46-quater ord. giud. o i monitoraggi necessari anche per dar corso ad eventuali riequilibri dei ruoli, restano spesso lettera morta.
Vi sono proposte tabellari che evidenziano non soltanto carenze di capacità organizzativa e progettuale, ma persino – e prima ancora – mancanza di conoscenza della realtà di fatto, conoscenza che costituisce il presupposto indispensabile di ogni meditata proposta. Le regole tabellari restano spesso prive di attuazione e le delibere del Consiglio, che dovrebbero servire a farle rispettare, non solo arrivano spesso in ritardo ma, una volta adottate, restano non di rado lettera morta. Piuttosto che di carenza di regole, si deve parlare di una loro diffusa ineffettività, con conseguenze negative per la corretta gestione del sistema di autogoverno ed il funzionamento organizzativo della giurisdizione.
Di ciò è ben consapevole il Csm che più volte ha messo in evidenza la progressiva formazione di uno iato tra realtà effettiva degli uffici (l’organizzazione concreta ed operativa) e realtà “virtuale” sottoposta al controllo tabellare, sottolineando come il dilatarsi dei tempi di esame delle proposte e delle variazioni abbia fatto sì che il controllo del Consiglio finisse con il concentrarsi su un assetto dell’organizzazione spesso non più attuale in quanto superato da una molteplicità di modifiche, provvisorie o anche definitive, nel frattempo intervenute, o come in altri casi la dilatazione dei tempi avesse indotto alcuni dirigenti a non adottare variazioni (salvo procedere in via di fatto suscitando anche contenziosi all’interno degli uffici) nonostante l’insorgere di situazioni che richiedevano tempestivi interventi. I rimedi adottati per superare tali inconvenienti, come ad esempio l’introduzione della procedura semplificata per le proposte costituenti riproduzione di quelle che abbiano già conseguito l’integrale approvazione del CSM, o la previsione di esecutività delle proposte organizzative sulle quali sia intervenuto un parere favorevole unanime del consiglio giudiziario[9] hanno certamente contribuito ad accelerare la definizione di un gran numero di proposte, ma a tale vantaggio si è accompagnato l’effetto negativo di trascurare le verifiche sostanziali in ordine alla concreta gestione degli uffici ed alla qualità delle scelte organizzative[10].
Un sistema tabellare caratterizzato da ampi margini di ineffettività dei controlli rischia conseguenze gravi non solo sul piano della buona organizzazione ma anche, e correlativamente, con riguardo al principio del giudice naturale, la funzionalità del servizio costituendo un elemento intrinseco della naturalità del giudice, da intendere (anche alla luce del canone costituzionale della durata ragionevole del processo) come garanzia dell’insieme delle condizioni preordinate all’attuazione di diritti, nella consapevolezza che ciò che conta per la corretta amministrazione della giustizia non è tanto – come accennato - la selezione dei più «bravi», quanto un sistema idoneo ad assicurare che ogni magistrato, nel contesto di un’organizzazione adeguata, assolva ai propri compiti con capacità e impegno, quale che sia la funzione in concreto esercitata.
Restituire effettività al sistema dei controlli significa recuperare chiarezza in ordine ai fini e, prima ancora, in ordine all’oggetto stesso dei controlli. Il sistema tabellare, infatti, altro non è che uno strumento per rispondere nel modo più razionale ed efficace possibile alla domanda di giustizia presente o prevedibile in ciascuna realtà territoriale; e nel corso degli anni – parallelamente al recupero della centralità della questione organizzativa, cui ha dato impulso anche l’apporto di studiosi di scienze dell’organizzazione[11]- si è venuta sempre più precisando l’idea che le proposte tabellari debbono costituire un vero e proprio progetto organizzativo funzionale a questo obiettivo, che i dirigenti degli uffici giudiziari hanno il dovere di perseguire in modo da coniugare il principio del giudice naturale con la funzionalità del servizio.
Questa concezione è venuta maturando nel contesto di una più generale riflessione circa l’importanza strategica di una svolta sul piano organizzativo, che nella realtà di molti uffici ha visto diffondersi il fermento degli Osservatorii e dei protocolli per le udienze[12]; ha portato al recepimento a livello normativo dell’idea dell’Ufficio per il processo, costituente in gran parte l’esito di questi fermenti e di un dibattito maturato in alcuni ambiti associativi; ha trovato specifiche enunciazioni nell’esperienza del Csm, che a partire dalla circolare relativa all’organizzazione degli uffici giudiziari per il biennio 2002/2003 ha fatto esplicito richiamo, tra l’altro, al principio della ragionevole durata del processo ora anche formalmente enunciato dall’articolo 111 della Costituzione ed ha successivamente introdotto le Commissioni per l’analisi dei flussi e delle pendenze e le ulteriori innovazioni richiamate supra, al par. 2.
Anche nel cantiere delle proposte governative in corso per migliorare il funzionamento della giustizia gli interventi non sono stati limitati alla consueta opera di “novellazione” della disciplina processuale che ha visto un progressivo accumulo di norme e di riti il cui effetto, anziché aiutare a risolvere i problemi, è stato quello di complicarli rendendo sempre più difficoltosa l’attività degli interpreti e degli operatori, ma, a differenza di quanto accaduto in tante altre occasioni, sono stati inseriti in un quadro più articolato e complesso di misure destinate a comporre nel loro insieme il disegno riformatore; e ciò nella consapevolezza della necessità di evitare l’equivoco “per il quale l’obiettivo di una giustizia più effettiva ed efficiente, oltre che più giusta, possa essere raggiunto solo attraverso interventi riformatori sul rito del processo o dei processi”, essendo necessario muoversi seguendo tre direttrici tra loro inscindibili e complementari: il “piano organizzativo”, la “dimensione extraprocessuale” e quella “endoprocessuale”[13].
La “nuova” professionalità verso cui spingono anche le proposte di riforma dell’ordinamento giudiziario è, come io credo, anche quella legata all’idea del governo autonomo realizzato nei fatti come strumento di responsabilizzazione collettiva capace di dare risposta ai tanti colleghe e colleghi che chiedono di poter svolgere dignitosamente il proprio lavoro, nella certezza di contare su condizioni organizzative adeguate, su uno sviluppo della vita professionale presidiato da regole certe ed effettivamente applicate, su un contesto capace di distinguere i meritevoli dagli incapaci, con organi del governo autonomo dediti, al centro ed in periferia, a svolgere in modo rigoroso ed imparziale i propri compiti, con dirigenti impegnati a difendere l’indipendenza degli uffici da ogni interferenza e nell’assicurare le regole di buona amministrazione, con l’opera di tutti i magistrati nell’essere custodi e garanti di queste regole e dei propri doveri senza chiudere gli occhi sui fenomeni di inefficienza, di malcostume e disimpegno che purtroppo non mancano e che non di rado per colpa di pochi espongono al discredito l’intera magistratura. Di tutto ciò è parte essenziale il sistema tabellare, che sta anche a tutti noi rendere sempre più rispondente alla sua funzione ed ai suoi scopi[14].
3. Le proposte di riforma dell’ordinamento giudiziario
Com’è noto, nel corso delle presente legislatura il Consiglio dei Ministri - nella precedente composizione governativa – ha approvato in data 7 agosto 2020 il “Disegno di legge recante deleghe al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario e per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario militare, nonché disposizioni in materia ordinamentale, organizzativa e disciplinare, di eleggibilità e ricollocamento in ruolo dei magistrati, e di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura” (c.d. ddl “ Bonafede”) contenente numerose previsioni, anche in materia tabellare, in particolare per ciò che concerne:
* la reintroduzione [art. 2, secondo comma lettere a) e d)] del procedimento tabellare per quanto concerne i progetti organizzativi degli uffici di Procura, sia pure con gli adattamenti suggeriti dalle peculiarità degli uffici;
* la semplificazione della procedura di approvazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudicanti e dei progetti organizzativi degli uffici requirenti (e delle relative modificazioni), con la previsione che essi debbano intendersi approvati qualora il Consiglio giudiziario abbia espresso parere favorevole all’unanimità ovvero – in caso di parere non unanime del Consiglio giudiziario – qualora il Consiglio Superiore non si esprima <<in senso contrario entro un termine stabilito in base alla data di invio del parere del consiglio giudiziario [art. 2, secondo comma lett. e)”[15] ;
* la previsione inerente alla possibilità che il dirigente dell’ufficio, all’esito del quadriennio, si limiti a confermare, con provvedimento motivato, il progetto organizzativo previgente (ipotesi questa già prevista a norma dell’art. 7 della vigente circolare sull’Organizzazione degli Uffici di Procura), ferma tuttavia - è da ritenere - la necessità che il progetto sia comunque trasmesso all’organo consultivo e, successivamente al CSM;
* la durata del periodo di efficacia delle tabelle di organizzazione degli uffici giudicanti e dei progetti organizzativi degli uffici requirenti, stabilita in quattro anni;
* la facoltà per i componenti avvocati e professori universitari del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei Consigli Giudiziari di partecipare alle discussioni ed assistere alle deliberazioni relative alle valutazioni di professionalità dei magistrati, peraltro senza diritto di voto, secondo una scelta in base alla quale - come si legge nel parere del CSM - il legislatore delegante <<sembra aver voluto contemperare l’esigenza di consentire ai componenti laici, compresi gli avvocati, che, nella quotidianità del loro lavoro, sono i primi destinatari dell’azione giudiziaria e sono, quindi, in grado di apprezzare la professionalità di un magistrato, di prendere parte alla fase di valutazione, con quella di evitare che nel procedimento siano veicolati elementi ulteriori (e non verificati) rispetto a quelli già acquisiti, comprendenti, peraltro, anche le eventuali segnalazioni effettuate dagli avvocati, per il tramite del Presidente del Consiglio dell’Ordine, ai sensi dell’art. 3, co. 1, lett. b)>> (3, comma 1 del ddl);
* la riduzione a 37 del numero dei magistrati facenti parte della pianta organica dell’Ufficio del Massimario e del ruolo della Corte di cassazione.
Le previsioni contenute nel ddl “Bonafede”[16] sono state modificate dalla Commissione nominata con decreto ministeriale del 26 marzo 2021 per elaborare proposte di interventi relativi alla riforma dell’ordinamento giudiziario, e presieduta dal Prof. Massimo Luciani. In particolare, per quanto concerne l’art. 2, comma 2 del dll d.d.l. AC 2681, dedicato alle tabelle di organizzazione degli uffici, la Commissione ha confermato la scelta del di reintrodurre i progetti organizzativi degli uffici requirenti, ma ha proceduto “ad una riscrittura delle sue disposizioni con l’obiettivo, da un lato, di coordinare i vari documenti di organizzazione degli uffici giudiziari (documenti organizzativi generali, progetti tabellari e progetti organizzativi, programmi di gestione) e, dall’altro, di rendere più omogenee e snelle le relative procedure di approvazione”. In particolare, alle lett. a) e b), la Commissione ha indicato “la necessità di un significativo ripensamento dei contenuti delle proposte tabellari” e con riferimento ai contenuti dei progetti organizzativi degli uffici di procura ha mantenuto “il riferimento ai criteri di priorità, specificando, tuttavia, che essi devono essere stabiliti dalla legge”. Inoltre, è stata prevista “la necessità di definire i criteri e le modalità di revoca dell’assegnazione “in tutti i casi” di dissenso tra magistrato e procuratore” (cfr. la relazione della Commissione).
Il nuovo comma 2 dell’art. 2 è stato quindi formulato prevedendo che, nell’esercizio della delega, il decreto o i decreti legislativi di attuazione siano adottati nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi:
“a) prevedere che il presidente della corte d’appello trasmetta le proposte tabellari corredate da documenti organizzativi generali, concernenti l’organizzazione delle risorse e la programmazione degli obiettivi di buon funzionamento degli uffici, anche sulla base dell’accertamento dei risultati conseguiti nel quadriennio precedente; stabilire che tali documenti siano elaborati dai dirigenti degli uffici giudicanti, sentito il dirigente dell’ufficio requirente corrispondente e il presidente del consiglio dell’ordine degli avvocati;
“b) prevedere che i suddetti documenti possono essere modificati nel corso del quadriennio anche tenuto conto dei piani di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 25 luglio 2006, n. 240, e dei programmi di cui all’articolo 37 del decreto legge 6 luglio 2011, n. 98, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 luglio 2011, n. 111; b) individuare, anche riformulando le relative disposizioni degli articoli 7-bis e 7-ter del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, il contenuto minimo delle proposte tabellari di cui alla lettera a);
“c) prevedere che il procuratore generale trasmetta i progetti organizzativi corredati da documenti organizzativi generali concernenti i criteri di organizzazione delle risorse e di programmazione degli obiettivi di buon funzionamento degli uffici; prevedere che tali documenti siano elaborati dai dirigenti degli uffici requirenti sentito il dirigente dell’ufficio giudicante corrispondente e il presidente dell’ordine degli avvocati; prevedere che tali documenti possano essere modificati nel corso del quadriennio anche tenuto conto dei piani di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 25 luglio 2006, n. 240;
“d) prevedere che il progetto organizzativo, corredato dal documento organizzativo generale, sia approvato con decreto del Ministro della Giustizia in conformità alla deliberazione del Consiglio superiore della magistratura, previo parere dei consigli giudiziari;
“e) stabilire che il Consiglio superiore della magistratura definisca i princìpi generali per la redazione del documento organizzativo generale e per la formazione del progetto organizzativo con cui il procuratore della Repubblica determina i criteri di cui all’articolo 1, comma 6, del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106;
“f) stabilire che il progetto organizzativo contenga in ogni caso:
“1) la costituzione dei gruppi di lavoro ove la disponibilità di risorse umane lo consente, nel rispetto della disciplina della permanenza temporanea nelle funzioni, e i criteri di designazione dei procuratori aggiunti e di assegnazione dei sostituti procuratori a tali gruppi, che valorizzino il buon funzionamento dell’ufficio e le attitudini dei magistrati;
“2) i criteri di assegnazione e di coassegnazione dei procedimenti e le tipologie di reati per i quali i meccanismi di assegnazione dei procedimenti sono di natura automatica;
“3) le misure organizzative dell’ufficio, che tengano conto degli eventuali criteri di priorità indicati dalla legge per la trattazione dei processi;
“4) i compiti di coordinamento e direzione dei procuratori aggiunti;
“5) i compiti dei vice procuratori onorari e le attività loro delegate;
“6) il procedimento di esercizio delle funzioni di assenso alle misure cautelari;
“7) i criteri e le modalità di revoca dell’assegnazione e la motivazione del provvedimento di revoca in tutti i casi di dissenso fra il magistrato e il procuratore della Repubblica;
“8) per le procure distrettuali, l’indicazione dei criteri per il funzionamento e l’assegnazione dei procedimenti della direzione distrettuale antimafia e delle sezioni antiterrorismo;
“9) l’individuazione del procuratore aggiunto o comunque del magistrato designato come vicario, ai sensi dell’articolo 1, comma 3, del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106, con la specificazione dei criteri che ne hanno determinato la scelta;
“10) i criteri ai quali i procuratori aggiunti e i magistrati dell’ufficio si attengono nell’esercizio delle funzioni vicarie o di 16 magistratura non si esprima in senso contrario entro un termine stabilito in base alla data di invio del parere del consiglio giudiziario, al quale devono essere allegati le osservazioni eventualmente proposte dai magistrati dell’ufficio e l’eventuale parere contrario espresso a sostegno del voto di minoranza. coordinamento o comunque loro delegate dal capo dell’ufficio;
“g) prevedere che i documenti organizzativi generali degli uffici, le tabelle e i progetti organizzativi siano elaborati, con cadenza quadriennale, secondo modelli standard stabiliti con delibera del Consiglio superiore della magistratura e trasmessi in via telematica; prevedere altresì che i pareri dei consigli giudiziari siano redatti secondo modelli standard, contenenti i soli dati concernenti le criticità, stabiliti con delibera del Consiglio superiore della magistratura.» coordinamento o comunque loro delegate dal capo dell’ufficio”
Sotto il profilo organizzativo occorrerà inoltre tener conto anche delle proposte elaborate da un’altra Commissione ministeriale (quella presieduta dal Prof. Francesco Paolo Giuseppe Luiso) con il compito di apportare emendamenti al ddl 1662/S/XVIII (“Delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie”) presentato al Senato, sempre nel corso della presente legislatura ed in altra composizione governativa, il 9 gennaio 2020.
Inserendo, infatti, previsioni (art 1-bis, 1-ter, 1-quater e 1-quinquies) che non figuravano nel ddl appena citato, ma che attengono ad una scelta ritenuta fondamentale sia nelle dichiarazioni programmatiche della Ministra Cartabia[17], sia nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR)[18], viene introdotta una dettagliata normativa in ordine all’”Ufficio per il processo”[19], indicandosi che, nell’esercizio della delega, il decreto o i decreti legislativi recanti modifiche alla disciplina dell’ufficio per il processo istituito presso i tribunali e le corti d’appello vengano adottati nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi:
* prevedere che l’ufficio per il processo, sotto la direzione e il coordinamento di uno o più magistrati dell’ufficio, sia organizzato individuando i requisiti professionali del personale da assegnare a tale struttura facendo riferimento alle figure già previste dalla legge nonché ad ulteriori professionalità da individuarsi, in relazione alla specializzazione degli uffici, sulla base di progetti tabellari o convenzioni con enti ed istituzioni esterne, demandati ai dirigenti degli uffici giudiziari;
* prevedere che all’ufficio per il processo siano attribuiti, previa formazione degli addetti alla struttura:
- compiti di supporto ai magistrati, comprendenti, tra le altre, le attività preparatorie per l’esercizio della funzione giurisdizionale quali lo studio dei fascicoli, l’approfondimento giurisprudenziale e dottrinale, la selezione dei presupposti di mediabilità della lite, la predisposizione di bozze di provvedimenti, il supporto nella verbalizzazione; la cooperazione per l’attuazione dei progetti organizzativi finalizzati a incrementare la capacità produttiva dell’ufficio, ad abbattere l’arretrato e a prevenirne la formazione;
- compiti di supporto per l’ottimale utilizzo degli strumenti informatici;
- compiti di coordinamento tra l’attività del magistrato e l’attività del cancelliere;
- compiti di catalogazione, archiviazione e messa a disposizione di precedenti giurisprudenziali;
- compiti di analisi e preparazione dei dati sui flussi di lavoro;
e prescrivendosi che:
anche per la Corte di cassazione sia costituita, presso ogni sezione e presso le sezioni unite, la struttura organizzativa denominata “ufficio per il processo”, in relazione alla quale:
* individuare i requisiti professionali (anche diversi e ulteriori rispetto a quelli previsti dall’articolo 16-octies, del decreto-legge n. 179/2012 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 221/2012, in coerenza con la specificità delle funzioni della Corte di legittimità) del personale che dovrà esservi assegnato[20], ed a cui attribuire, sotto la direzione e il coordinamento del Presidente o di uno o più magistrati da lui delegati, compiti:
- di assistenza per l’analisi delle pendenze e dei flussi delle sopravvenienze;
- di supporto ai magistrati, comprendenti, tra l’altro, la compilazione della scheda del ricorso, corredata delle informazioni pertinenti quali la materia, la sintesi dei motivi e l’esistenza di precedenti specifici, lo svolgimento dei compiti necessari per l’organizzazione delle udienze e delle camere di consiglio, anche con l’individuazione di tematiche seriali, lo svolgimento di attività preparatorie relative ai provvedimenti giurisdizionali, quali ricerche di giurisprudenza, di legislazione, di dottrina e di documentazione; contribuire alla complessiva gestione dei ricorsi e relativi provvedimenti giudiziali;
- di supporto per l’ottimale utilizzo degli strumenti informatici;
- di raccolta di materiale e documentazione anche per le attività necessarie per l’inaugurazione dell’anno giudiziario;
che presso la Procura generale della Corte di Cassazione siano istituite una o più strutture organizzative denominate “Ufficio spoglio, analisi e documentazione”, in relazione alle quali:
* individuare i requisiti professionali (anche diversi e ulteriori rispetto a quelli previsti dall’articolo 16-octies, del d.l. n. 179/2012 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 221/2012, in coerenza con la specificità delle attribuzioni della Procura generale in materia di intervento dinanzi alla Corte di Cassazione) del personale che dovrà esservi assegnato[21] ed a cui attribuire, sotto la supervisione e gli indirizzi degli Avvocati generali e dei magistrati dell’ufficio, compiti:
- di assistenza per l’analisi preliminare dei procedimenti che pervengono per l’intervento, per la formulazione delle conclusioni e per il deposito delle memorie dinanzi alle Sezioni unite e alle Sezioni semplici della Corte;
- di supporto ai magistrati comprendenti, tra l’altro, l’attività di ricerca e analisi su precedenti, orientamenti e prassi degli Uffici giudiziari di merito che formano oggetto dei ricorsi e di individuazione delle questioni che possono formare oggetto del procedimento per l’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge previsto all’articolo 363 del codice di procedura civile;
- di supporto per l’ottimale utilizzo degli strumenti informatici;
- di raccolta di materiale e documentazione per la predisposizione dell’intervento del Procuratore in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario.
[1] Cfr. per richiami la risoluzione del Csm in data 12 luglio 2007 (“Disposizioni in materia di organizzazione degli uffici del Pubblico Ministero a seguito dell’entrata in vigore del D.L.vo 20 febbraio 2006 n. 106”).
[2] Secondo quanto, peraltro, già prescritto in forza della sentenza della Corte costituzionale n. 143 del 1973.
[3] Sul nuovo assetto delle Procure, durante l’iter e dopo la riforma dell’ordinamento giudizio cfr., tra gli altri, Borraccetti, Il dirigente dell’ufficio di Procura dopo la riforma dell’ordinamento giudiziario, in Questione Giustizia, 2008, 7 ss.; Idem, Note sulla controriforma annunciata del pubblico ministero, in Questione Giustizia, 2003, 680 ss.; Monetti, Spunti sulle valutazioni di professionalità dei capi degli uffici di procura, in Questione Giustizia, 2007, 677 ss.; Messineo, L’organizzazione del Pubblico Ministero, Relazione all’incontro di studio del Csm sul tema La riforma dell’ordinamento giudiziario, Roma 8 – 10 ottobre 2007; Nannucci, L’organizzazione degli uffici di Procura, Relazione all’incontro di studio del Csm sul tema La riforma dell’ordinamento giudiziario, Roma 8 – 10 ottobre 2007; Menditto, L’organizzazione delle Procure nella stagione della controriforma, in Questione Giustizia, 2006, 890 ss.; Amato, Procuratore e sostituti, scelte di facciata, in Guida al diritto, 2006, n. 43, 37; Albamonte, Uffici inquirenti, ecco da dove si riparte. Il procuratore capo resta padre – padrone. Interventi marginali, risultati deludenti. Al Pm serve più tutela, in Diritto e giustizia, 2006, n. 42, 115; Amato, Così il procuratore della Repubblica diventa manager della sua struttura, in Guida al diritto, 2006, 16, 22; Melillo, L’organizzazione dell’ufficio del Pubblico Ministero, in Il nuovo ordinamento giudiziario, a cura di D. Carcano, 2006, Milano, 217; Mura, L’ufficio del pubblico ministero, in Dir. pen. e proc., 2006, 154; Gianfrotta, L’organizzazione degli uffici del Giudice e del PM e i tempi del processo, anche nelle prospettive di riforma dell’Ordinamento giudiziario, Relazione all’incontro di studio del Csm sul tema: Tempo e processo penale, Roma, 10 – 12 aprile 2006; Monetti, Organizzazione del pubblico ministero e poteri di amministrazione della giurisdizione, (orientamenti del Consiglio d’Europa e situazione italiana), in Questione giustizia, 2001, 195 ss.; Diotallevi, L’organizzazione degli uffici del pubblico ministero (nuovi criteri di interpretazione dell’art. 70 ordinamento giudiziario o coerente rivisitazione della disciplina esistente?), in Questione giustizia, 2000, 721. In argomento cfr. altresì, più recentemente, P. Gaeta, L’organizzazione degli uffici di procura, in Questione Giustizia, 18 dicembre 2019, http://questionegiustizia.it/articolo/l-organizzazione-degli-uffici-di-procura_18-12-2019.php
[4] Cfr., per la disciplina di dettaglio, il testo della circolare.
[5] Si segnalano, tra quelli degli ultimi anni, la risoluzione del 9 luglio 2014 sui “Criteri di priorità nella trattazione degli affari penali”, la delibera su “Linee guida in materia di criteri di priorità e gestione dei flussi di affari - rapporti fra uffici requirenti e uffici giudicanti” (risposta a quesito dell’11 maggio 2016); la circolare in tema di organizzazione degli uffici di Procura del 16 novembre 2017 (con la quale il CSM, nell’ambito delle sue funzioni regolamentari, ha ribadito la necessità che il potere di organizzazione dell’ufficio affidato dalla legge al procuratore della Repubblica venga esercitato secondo forme procedimentali chiare e trasparenti, condensate in particolare negli artt. 8 e 9 della circolare, in direzione di un modello di ufficio caratterizzato da criteri di efficienza, trasparenza ed efficacia, indipendenza dei magistrati del pubblico ministero, valorizzazione della loro professionalità, rispetto delle regole del giusto processo, per garantire al meglio il corretto, puntuale ed uniforme esercizio dell’azione penale) ed alcuni provvedimenti successivi riguardanti le procure minorili.
[6] Nell’articolo 2, secondo comma del ddl AC 2681 (ddl “Bonafede”) è previsto tra l’altro che il progetto di organizzazione relativo all’ufficio del pubblico ministero contenga anche l’indicazione di criteri di priorità nella trattazione degli affari. La Commissione ministeriale presieduta dal prof. Luciani (infra, par. 13) ha ritenuto di mantener fermo il riferimento ai criteri di priorità, “specificando, tuttavia, ch’essi devono essere stabiliti dalla legge” (così la Relazione) La formula con cui la proposta viene tradotta nell’articolato (i progetti organizzati dovranno tener conto “degli eventuali criteri di priorità indicati dalla legge per la trattazione dei processi” lascia il dubbio se -fermi i criteri di priorità stabiliti dalla legge – sia possibile individuarne ulteriori base all’orientamento consolidato nella normativa regolamentare del CSM: cfr., infra, la nota che segue).
[7] Negli ultimi anni il Consiglio Superiore della Magistratura è intervenuto in più occasioni sul tema dei criteri di priorità degli affari penali, con un insieme di indicazioni ai dirigenti degli uffici utili a razionalizzare la trattazione dei procedimenti e l'impiego delle risorse disponibili. Nella risoluzione del 9 luglio 2014, richiamati i precedenti consiliari, e sottolineata l'urgenza di regolare situazioni che, in quanto caratterizzate “da una oggettiva impossibilità di tempestiva trattazione di tutti i procedimenti penali pendenti, richiedono l'adozione di moduli organizzativi adeguati, al fine di evitare o la mera casualità nella trattazione degli affari (e quindi il rifiuto di ogni razionalizzazione del lavoro) oppure l'adozione di criteri di fatto disomogenei all'interno dello stesso ufficio, non verificabili e perciò più esposti ad abusi e strumentalizzazioni ", individuò una possibile soluzione organizzativa consistente nel collocare “il rischio prescrizione su di un piano paritario (e non più oggettivamente preminente, come nell’ottica abbracciata dalla risoluzione del 13 novembre 2008) rispetto agli altri criteri di individuazione di priorità ulteriori rispetto a quelle legali, costituiti dalla gravità e dalla concreta offensività del reato, dalla soggettività del reo, dal pregiudizio che può derivare dal ritardo per la formazione della prova e per l’accertamento dei fatti, nonché dall’interesse (anche civilistico) della persona offesa”: ferma restando l’esigenza di celere trattazione delle priorità legali, e la necessità di evitare qualsiasi “forma di definitivo “accantonamento” di procedimenti (così abbandonando intere categorie di reati ad un destino certo di estinzione per prescrizione)” .
L’individuazione di tali priorità (ulteriori rispetto a quelle legali), sino ad allora lasciata esclusivamente al prudente apprezzamento del singolo giudicante, avrebbe dovuto essere filtrata con atti di indirizzo rimessi alla responsabilità del capo dell'ufficio e da emanare dunque, in primo luogo. in occasione della formazione delle tabelle di organizzazione dell'ufficio e delle tabelle infradistrettuali, previo coordinamento nell’ambito della conferenza distrettuale di tutti gli uffici giudicanti e requirenti del distretto e con la partecipazione dei presidenti degli ordini forensi territoriali, o di loro delegati. Quanto agli uffici requirenti, in assenza di un sistema di tipizzazione delle priorità legislativamente predeterminato, l’individuazione di linee guida finalizzate a scongiurare l'insorgenza di ingiustificate disparità nel concreto esercizio dell'azione penale avrebbe dovuto “essere rimessa ai singoli dirigenti delle Procure della Repubblica, tenendo conto dei criteri adottati dai corrispondenti uffici giudicanti”.
Sul tema il Consiglio è tornato con la risoluzione del 17 giugno 2015 in materia di “ buone prassi “ e con quella dell’11 maggio 2016 ("Linee guida in materia di criteri di priorità e gestione dei flussi di affari - rapporti fra uffici requirenti e uffici giudicanti") in cui si osserva che le scelte organizzative e di priorità dei dirigenti degli uffici "costituiscono una corretta risposta di I efficienza, razionalità, trasparenza ed efficacia della funzione giudiziaria, pienamente rispettosa dei relativi valori costituzionali ed attuativa del principio di obbligatorietà dell'azione penale alle condizioni date", e viene sottolineata la necessità che i criteri siano adottati in sintonia tra gli uffici requirenti e giudicanti; e tali linee sono state ribadite, con un’articolata serie di indicazioni, nella circolare del 16 novembre 2017 relativa all'organizzazione degli uffici di Procura.
Sui criteri di priorità e, più in generale, di organizzazione del lavoro nelle Procure, cfr., tra gli altri, Nuovo – Pignatone, L’assegnazione dei procedimenti, i criteri di priorità, la specializzazione delle funzioni, la gestione delle misure cautelari, il coordinamento con il Tribunale, Relazione all’incontro di studio del Csm sul tema La riconversione da magistrati giudicanti a direttivi requirenti, Roma 17 – 18 marzo 2008; Nannucci, L’organizzazione degli uffici di Procura, Relazione all’incontro di studio del Csm sul tema La riforma dell’ordinamento giudiziario, Roma 8 – 10 ottobre 2007; Petrillo, L’organizzazione dell’ufficio. Criteri di distribuzione del lavoro. La misurazione della produttività. La gestione del personale, Relazione all’incontro di studio del Csm sul tema L’organizzazione del lavoro dei magistrati del settore penale, Roma, 21 – 23 novembre 2005; Mannucci Pacini, L’organizzazione della Procura della Repubblica di Torino: criteri di priorità o esercizio discrezionale dell’azione penale?, in Questione giustizia, 2000, 175 ss.; Ichino. Obbligatorietà e discrezionalità dell’azione penale, in Questione giustizia, 1997, 287 ss.
Più recentemente Salvi, Discrezionalità, responsabilità, legittimazione democratica del pubblico ministero, in Questione Giustizia, 7 giugno 2021 https://www.questionegiustizia.it/articolo/discrezionalita-responsabilita-legittimazione-democratica-del-pubblico-ministero; Rossi, Per una cultura della discrezionalità del pubblico ministero, ivi, 3 giugno 2021 https://www.questionegiustizia.it/articolo/per-una-cultura-della-discrezionalita-del-pubblico-ministero: Russo, I criteri di priorità nella trattazione degli affari penali: confini applicativi ed esercizio dei poteri di vigilanza, in Diritto penale contemporaneo; Grasso, Sul rilievo dei criteri di priorità nella trattazione degli affari penali nelle delibere del Csm e nelle pronunce della sezione disciplinare, in Foro it., 2015, III, p.48, a cui si rinvia anche per l’ampia bibliografia.
[8] Così, ad esempio, la premessa alla circolare sulla formazione delle tabelle per il triennio 2009/2011. Vedi, già, la Risoluzione del 20 aprile 2000 sulle “problematiche applicative della circolare sulle tabelle del biennio 2000/2001; risposte ai quesiti posti dagli uffici giudiziari”.
[9] Cfr., attualmente, l’art. 24 della circolare sulla formazione delle tabelle per il triennio 2029 - 2022: supra, par. 5, lett. c).
[10] La disposizione del ddl “Bonafede” (art. 2, secondo comma lett. e) che mira a semplificare la procedura di approvazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudicanti e dei progetti organizzativi degli uffici requirenti, prevedendo che esse debbano intendersi approvate qualora il Consiglio giudiziario abbia espresso parere favorevole all’unanimità, mira indubbiamente a farsi carico dei problemi emersi nell’esperienza concreta in cui l’esame dei progetti organizzativi da parte del CSM avviene spesso a distanza di molto tempo dalla rispettiva formazione. Tale disposizione, tuttavia, finirebbe per incidere anche sulle prerogative dell’organo di governo autonomo, di cui non può escludersi (come viene osservato nel parere del CSM richiamato nello scritto Ancora sulle proposte di riforma dell’ordinamento giudiziario etc, supra, nota 9) una valutazione discordante dal parere adottato, seppure all’unanimità, dall’organo consultivo territoriale; e ciò significa non soltanto indebolire le funzioni di controllo del CSM, ma determinare un potenziale “vulnus” a quell’esigenza di unitarietà dei principi organizzativi cui è preordinato il potere regolamentare del CSM nella materia in esame. Appare dunque più congrua la soluzione, più sopra richiamata, di collegare al parere unanime del consiglio giudiziario non l’approvazione, ma l’esecutività delle tabelle.
Ad analoghi rilievi si presta la previsione del ddl secondo cui, nel caso in cui le tabelle di organizzazione degli uffici giudicanti ed i progetti organizzativi degli uffici requirenti abbiano ricevuto un parere favorevole non unanime del Consiglio giudiziario, i relativi provvedimenti dovrebbero considerarsi approvati, qualora il Consiglio Superiore non si esprima <<in senso contrario entro un termine stabilito in base alla data di invio del parere del consiglio giudiziario>>. Proprio in considerazione dei tempi normalmente lunghi che occorrono al Consiglio per procedere all’esame dei provvedimenti tabellari, il meccanismo del silenzio-assenso finirebbe per tradursi, nella maggior parte dei casi, in un’approvazione definitiva senza che, di fatto, il CSM abbia avuto la possibilità di svolgere le proprie funzioni di controllo.
[11] Cfr., ad es, Zan, Fascicoli e tribunali. Il processo civile in una prospettiva organizzativa, Bologna, 2003, Idem, Tecnologia, organizzazione e giustizia. L’evoluzione del processo civile telematico, Bologna, 2004. Cfr, pure, AA.VV., Processo e organizzazione. Le riforme possibili per la giustizia civile, a cura di Gilardi, Milano, 2004; I magistrati e la sfida della professionalità, a cura di Bruti Liberati, in Le proposte della magistratura, Milano, 2003; Il nuovo articolo 111 della Costituzione e il giusto processo civile, a cura di Civinini – Verardi, in Quaderni di Questione giustizia, Milano, 2001; L’organizzazione della giustizia: servizio o disservizio? a cura di De Ruggiero – Pinto, in Quaderni di Questione Giustizia, Milano, 1994.
[12] Su cui vedi Gilardi, Dialogo processuale e buone relazioni tra giudici e avvocati, in Questione Giustizia, 2007, fasc. 5; Breggia, Prassi e norme tra cultura e diritto, Caponi, L’attività degli Osservatorii sulla giustizia civile nel sistema delle fonti del diritto, Gilardi, Appunti su una storia breve ma intensa, tutti in Questione Giustizia, 2006, 965 ss.; Cataldi, Giustizia civile, proposte di riforme e protocolli per la gestione delle udienze, ivi, 2006, fasc. 3; Breggia, L’autoriforma possibile, in La magistratura, 1/2 del 2005, 56 ss. ove è riportato anche il testo dei protocolli per le udienze elaborati da alcuni Osservatorii. Gli Osservatorii – oltre ai siti specifici di ciascuno – hanno anche un sito comune cui è possibile attingere per l’ampia raccolta di materiale elaborato in un periodo ormai molto ampio di intensa attività, ivi compresa una raccolta comparata dei vari protocolli curata alcuni anni fa dall’avv. Berti Arnoaldi Veli.
L’importanza degli Osservatorii quali tramite di una migliore organizzazione è stata chiaramente riconosciuta dal Csm, il quale al punto 2 a) della premessa della circolare relativa alla formazione delle tabelle per il triennio 2009/2001 ha previsto espressamente che il presidente del tribunale, all’interno del documento organizzativo generale, illustri il contenuto di eventuali incontri, finalizzati alla predisposizione della proposta tabellare, “con esponenti della società civile quali ad esempio rappresentanti delle istituzioni territoriali, delle organizzazioni sindacali, degli osservatori per la giustizia civile e per la giustizia penale”.
[13] Così le dichiarazioni programmatiche con le quali la Ministra Cartabia, all’indomani del suo insediamento, ha sottolineato la priorità dell’”azione riorganizzativa della macchina giudiziaria e amministrativa”.
[14] Come è stato osservato da Minniti, L'organizzazione del lavoro negli uffici giudiziari, in Questione Giustizia, n. 4/2008, per riformare l’0rganizzazione della giustizia non bastano le norme, le competenze, il riferimento ai diritti ed ai doveri, ma occorrono anche “altre parole ed altri concetti e, più precisamente, quelli per il cui tramite vengono evocate le relazioni tra soggetti che muovono verso obiettivi comuni, che fanno riferimento agli strumenti di coordinamento, ai risultati programmati e progressivamente verificati, alle prassi condivise, al presidio del risultato”, alla “responsabilità sociale della funzione giurisdizionale come sistema”.
[15] Per alcune considerazioni critiche sul punto nel parere del CSM. La disposizione del ddl “Bonafede” (art. 2, secondo comma lett. e) che mira a semplificare la procedura di approvazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudicanti e dei progetti organizzativi degli uffici requirenti, prevedendo che esse debbano intendersi approvate qualora il Consiglio giudiziario abbia espresso parere favorevole all’unanimità, mira indubbiamente a farsi carico dei problemi emersi nell’esperienza concreta in cui l’esame dei progetti organizzativi da parte del CSM avviene spesso a distanza di molto tempo dalla rispettiva formazione. Tale disposizione, tuttavia, finirebbe per incidere anche sulle prerogative dell’organo di governo autonomo, di cui non può escludersi (come viene osservato nel parere del CSM richiamato nello scritto Ancora sulle proposte di riforma dell’ordinamento giudiziario etc, supra, nota 9) una valutazione discordante dal parere adottato, seppure all’unanimità, dall’organo consultivo territoriale; e ciò significa non soltanto indebolire le funzioni di controllo del CSM, ma determinare un potenziale “vulnus” a quell’esigenza di unitarietà dei principi organizzativi cui è preordinato il potere regolamentare del CSM nella materia in esame. Appare dunque più congrua la soluzione, più sopra richiamata, di collegare al parere unanime del consiglio giudiziario non l’approvazione, ma l’esecutività delle tabelle. Ad analoghi rilievi si presta la previsione del ddl secondo cui, nel caso in cui le tabelle di organizzazione degli uffici giudicanti ed i progetti organizzativi degli uffici requirenti abbiano ricevuto un parere favorevole non unanime del Consiglio giudiziario, i relativi provvedimenti dovrebbero considerarsi approvati, qualora il Consiglio Superiore non si esprima <<in senso contrario entro un termine stabilito in base alla data di invio del parere del consiglio giudiziario>>. Proprio in considerazione dei tempi normalmente lunghi che occorrono al Consiglio per procedere all’esame dei provvedimenti tabellari, il meccanismo del silenzio-assenso finirebbe per tradursi, nella maggior parte dei casi, in un’approvazione definitiva senza che, di fatto, il CSM abbia avuto la possibilità di svolgere le proprie funzioni di controllo.
[16] Su cui cfr. le considerazioni contenute nel parere del CSM richiamato nel mio Ancora sulle proposte di riforma dell’ordinamento giudiziario etc, citato in nota 9.
[17] Cfr. il mio ADR e proposte di riforma per la giustizia civile, in Questione Giustizia, 9 aprile 2021 https://www.questionegiustizia.it/articolo/adr-e-proposte-di-riforma-per-la-giustizia-civile .
[18] Premesso che i progetti presentati nell'ambito del Recovery Plan <<consentono di declinare sotto diversi aspetti l’azione riorganizzativa della macchina giudiziaria e amministrativa: il rafforzamento della capacità amministrativa del sistema, che valorizzi le risorse umane, integri il personale delle cancellerie, e sopperisca alla carenza di professionalità tecniche, diverse da quelle di natura giuridica, essenziali per attuare e monitorare i risultati dell’innovazione organizzativa; il potenziamento delle infrastrutture digitali con la revisione e diffusione dei sistemi telematici di gestione delle attività processuali e di trasmissione di atti e provvedimenti>>, nel PNRR l’innovazione fondamentale sotto il profilo organizzativo viene individuata nella piena attuazione dell’Ufficio del processo (introdotto nel sistema in via sperimentale con il d.l. n. 90/2014 e convertito, con modificazioni, dalla l. n. 114/2014) ed il cui scopo è quello di <<affiancare al giudice un team di personale qualificato di supporto, per agevolarlo nelle attività preparatorie del giudizio e in tutto ciò che può velocizzare la redazione di provvedimenti>>, offrendo <<un concreto ausilio alla giurisdizione>> capace di determinare <
Nel documento si specifica che le risorse, reclutate a tempo determinato con i fondi del PNRR, saranno impiegate dai Capi degli Uffici giudiziari secondo <<un mirato programma di gestione idoneo a misurare e controllare gli obiettivi di smaltimento individuati>>, che saranno create <<apposite figure professionali con specifiche mansioni e compiti (addetti all’ufficio del processo, operatori data entry etc.>> e che <<nel lungo periodo, al fine di non disperdere lo sforzo e i risultati conseguiti con lo straordinario reclutamento temporaneo di personale>>, verrà verificata la possibilità di rendere operativa in via permanente la struttura organizzativa così costituita al fine di mantenerne inalterata composizione e funzione.
Alle risorse reclutate con contratto a tempo determinato nell’ambito del Recovery saranno poi riconosciuti titoli preferenziali e una riserva di quota nei concorsi che verranno effettuati dal Ministero e da altre pubbliche amministrazioni; ed allo scopo di garantire la speditezza del reclutamento, l’Amministrazione procederà alle assunzioni mediante concorsi pubblici per soli titoli, da svolgere su basi distrettuali.
[19] L’ufficio per il processo (“UPP”) trova attualmente disciplina in una serie frastagliata e disomogenea di testi di legge e di provvedimenti di normativa secondaria, richiamati nella relazione della Commissione ministeriale. Per contributi sul tema, anteriori alle proposte in considerazione, cfr. tra gli altri M. Ciccarelli, I mobili confini di un possibile Ufficio per il processo, in Questione Giustizia, 25 novembre 2020 https://www.questionegiustizia.it/articolo/i-mobili-confini-di-un-possibile-ufficio-per-il-processo; Braccialini, L’Ufficio per il processo tra storia, illusioni, delusioni e prospettive, in Questione Giustizia, 1 giugno 2020 (http://questionegiustizia.it/articolo/l-ufficio-per-ilprocesso-tra-storia-illusioni-delusioni-e-prospettive_01-06-2020.php) nonché il documento in data 2 aprile 2021 di AreaDG “Dieci proposte per la riforma della Giustizia civile” (https://www.areadg.it/articolo/dieci-proposte-per-la-riforma-della-giustizia-civile).
[20] Dovrà esservi destinato personale assunto a tempo determinato, all’esito di adeguata selezione, tra: coloro che abbiano conseguito il titolo di dottore di ricerca in materie giuridiche o economiche; assegnisti di ricerca nelle stesse discipline; coloro che, presso la Corte di cassazione o gli uffici giurisdizionali di merito, abbiano svolto con profitto il tirocinio formativo a norma dell’articolo 73 d.l.n. 69/2013, n. 69, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 98/2013 o la formazione professionale dei laureati a norma dell’articolo 37, comma 5, del d.l. n. 98/2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111/2011; avvocati iscritti all’albo da non più di cinque anni, i quali, durante il periodo di impegno presso la Corte di cassazione, vengono sospesi o cancellati dall’albo, con possibilità di reiscrizione al termine del periodo; i laureati da un numero limitato di anni, anche in possesso di titoli specifici post lauream. Della struttura dovranno far parte, altresì, coloro che svolgono, presso la Corte di cassazione, il tirocinio formativo a norma dell’articolo 73 del d.l. n. 69/2013 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 98/2013 o la formazione professionale dei laureati a norma dell’articolo 37, comma 5, d.l.n. 98/2011 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 111/2011; personale amministrativo con competenze specifiche, anche informatiche.
[21] Si tratta di personale analogo a quello previsto per la Corte di cassazione (cfr. G.Gilardi, La gestione degli uffici giudiziari a Milano, in Questione Giustizia, 1986, 331 ss.).
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