ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Le Sezioni Unite (sent.n.24413/2021) si pronunciano nuovamente sulla protezione umanitaria: il giudizio di comparazione attenuata tra presente e futuro
di Rita Russo
Sommario: 1. L’ordinanza di rimessione e le ricadute sistemiche delle modifiche normative introdotte con il D.L. 130/2020 - 2. La protezione umanitaria e la sua evoluzione - 3. Il giudizio di comparazione attenuato - 4. Considerazioni conclusive.
1. L’ordinanza di rimessione e le ricadute sistemiche delle modifiche normative introdotte con il D.L. 130/2020
Con la sentenza depositata il 9 settembre 2021 (n. 24413) le sezioni unite della Suprema Corte tornano a pronunciarsi sulla protezione umanitaria, uno dei temi più complessi del sistema di asilo.
Con ordinanza n. 28316/2020 la sezione sesta (prima civile) aveva rimesso gli atti, evidenziando quale questione di massima di particolare importanza la configurabilità del diritto alla protezione umanitaria, alla stregua del testo del D.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, anteriore alle modifiche recate dal D.L. 4 ottobre 2018, n. 113, "quando sia stato allegato ed accertato il "radicamento" effettivo del cittadino straniero, fondato su decisivi indici di stabilità lavorativa e relazionale, la cui radicale modificazione, mediante il rimpatrio, possa ritenersi idonea a determinare una situazione di vulnerabilità dovuta alla compromissione del diritto alla vita privata e/o familiare ex art. 8 CEDU, sulla base di un giudizio prognostico degli effetti dello "sradicamento" che incentri la valutazione comparativa sulla condizione raggiunta dal richiedente nel paese di accoglienza, con attenuazione del rilievo delle condizioni del paese di origine non eziologicamente ad essa ricollegabili".
Le ragioni di tale rimessione sono riferite alla centralità assunta dall’art. 8 della Convenzione Edu (tutela della vita privata e familiare) e alle ricadute sistematiche delle modifiche introdotte dal D.L. 130/2020 che all'art.19 introduce un ulteriore divieto di respingimento “quando ciò comporti una violazione del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, a meno che esso sia necessario per ragioni di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica nonché di protezione della salute”.
In altre parole ci si chiede se anche la “vecchia” protezione umanitaria, definita dal testo dell’art. 5 previgente alle modifiche introdotte dal D.L. 113/2018 e applicabile a tutte le domande proposte prima dell'entrata in vigore (5 ottobre 2018) del medesimo decreto legge, debba essere oggi riletta, alle luce delle ultime modifiche legislative e assegnando all’art 8 della Convenzione Edu un particolare rilievo.
La questione non è di poco momento, perché se da un lato la giurisprudenza di legittimità è salda nell’attribuire rilevanza ai legami familiari ai fini della valutazione del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari[1], un approccio ermeneutico ancora più centrato sull’art. 8 consentirebbe di estendere la misura protettiva anche ad altri aspetti della vita privata che non costituiscono relazioni familiari e cioè a tutti quei casi in cui il radicamento del soggetto del territorio determina “una stabile condizione di vita, da intendersi riferita non solo all'inserimento lavorativo, che è indice indubbiamente significativo, ma anche ad altri ambiti relazionali rientranti nell'alveo applicativo dell'art. 8”.
Si consideri inoltre che, utilizzando il parametro dell’art. 8 della Convenzione Edu anche lo stesso concetto di relazione familiare si amplia, perché il riferimento non è solo alla idea di famiglia fondata sul matrimonio di cui all’art 29 Cost. ma a quello più ampio e mobile dato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo; ciò in particolare è rilevante per le famiglie di fatto, per le unioni same sex, e per i c.d. legami limping (come i rapporti tra genitori intenzionali e figli non biologici che non trovano riconoscimento giuridico, ma potrebbero comunque avere un solido rapporto de facto)[2].
L’ordinanza di rimessione, nell’ottica di una lettura unitaria della protezione residuale, propone, in sostanza, di intendere la vulnerabilità meritevole di protezione come perdita di ciò che lo straniero sarebbe costretto a lasciare in Italia, a nulla rilevando ciò che egli troverebbe nel suo Paese di origine.
Le sezioni unite, tuttavia scelgono di porsi in linea di continuità con la precedente giurisprudenza, precisando che per ricostruire i confini della protezione umanitaria (quella cioè definita dall’art 5 nella formulazione previgente al D.L. 113/2018) non possono utilizzarsi argomentazioni fondate sulla nuova disciplina (D.L. 130/2020) - quand'anche centrata sulle implicazioni sistematiche (invece che sui diretti effetti dispositivi) della stessa, diversamente si andrebbe contro l’espressa disposizione di legge che individua i procedimenti nei quali la disciplina dettata dallo stesso decreto trova applicazione. Si afferma così con estrema chiarezza che non è possibile ricostruire la disciplina applicabile ad una determinata fattispecie sulla base di disposizioni che a tale fattispecie risultino ratione temporis inapplicabili.
Ciononostante, le sezioni unite rendono importanti precisazioni sulla protezione umanitaria (nel testo dato dall’art 5 del D.lgs. 286/1998 anteriore al DL 113/2018) chiarendo in relazione a quali parametri debba accertarsi quella condizione di vulnerabilità idonea a fondare il rilascio del permesso di soggiorno.
2. La protezione umanitaria e la sua evoluzione
Distinta dalla protezione internazionale in senso stretto, che comprende le misure del rifugio e della protezione sussidiaria, la protezione umanitaria è una protezione nazionale, e non è regolata dal diritto dell'Unione Europea, che si limita a lasciare agli Stati membri la facoltà di riconoscerla.
La Direttiva 2008/115/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 16.12.2008, all'art. 6, par. 4, prevede infatti che gli Stati possano rilasciare in qualsiasi momento, "per motivi umanitari, caritatevoli o di altra natura", un permesso di soggiorno autonomo o un'altra autorizzazione che conferisca il diritto di soggiornare a un cittadino di un Paese terzo il cui soggiorno è irregolare. L'art. 3 della Direttiva 2011/95/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 13.12.2011 (c.d. direttiva "qualifiche") consente l'introduzione o il mantenimento in vigore di disposizioni più favorevoli in ordine ai presupposti sostanziali della protezione internazionale, purché non incompatibili con la direttiva medesima.
Anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha sottolineato come gli Stati membri possano riconoscere forme di protezione umanitaria e caritatevole diverse e ulteriori rispetto a quelle riconosciute dalla normativa Europea, purché non modifichino i presupposti e l'ambito di applicazione della disciplina derivata dell'Unione[3].
È bene però chiarire che la protezione umanitaria non è stata ricostruita dalla giurisprudenza nazionale come una protezione “caritevole”, ma come una misura di tutela di diritti fondamentali. L’esigenza qualificabile come umanitaria, secondo la giurisprudenza, è quella concernente diritti umani fondamentali protetti a livello costituzionale e internazionale [4].
Si è quindi affermato che questa misura è una tutela a carattere residuale, in posizione di alternatività rispetto alle due misure tipiche di protezione internazionale, riferibile a un “catalogo aperto” legato a ragioni di tipo umanitario non necessariamente fondate sul fumus persecutionis o sul pericolo di danno grave per la vita o per l’incolumità psicofisica, quanto su una condizione di vulnerabilità da accertare su base individuale; le situazioni di vulnerabilità da proteggere alla luce degli obblighi costituzionali ed internazionali gravanti sullo Stato italiano potevano avere l’eziologia più varia, senza dover necessariamente discendere come un minus dai requisiti delle misure tipiche del rifugio e della protezione sussidiaria [5].
Nella elaborazione giurisprudenziale della protezione umanitaria segna uno spartiacque la sentenza della Suprema Corte n. 4455/2018, la quale elabora la regola del giudizio di comparazione, secondo il quale il giudice deve operare una valutazione comparativa al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell'esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile, costitutivo dello statuto della dignità personale, in comparazione con la situazione d'integrazione raggiunta nel paese di accoglienza[6].
Questo principio è stato poi confermato e ulteriormente precisato dalle sezioni unite della Corte di Cassazione, con la sentenza 2945/2019, ove si rileva che nell’individuare i presupposti utili per il riconoscimento della protezione umanitaria non si può trascurare la necessità di collegare la norma che la prevede ai diritti fondamentali che l'alimentano. In particolare, osserva la Suprema Corte “gli interessi protetti non possono restare ingabbiati in regole rigide e parametri severi, che ne limitino le possibilità di adeguamento, mobile ed elastico, ai valori costituzionali e sovranazionali”[7]. Ne consegue che, l'apertura e la residualità della tutela non consentono tipizzazioni e che si tratta di una misura che le cui basi normative non sono affatto fragili, ma “a compasso largo” atteso che l'orizzontalità dei diritti umani fondamentali, col sostegno dell'art. 8 della Convenzione Edu, promuove l'evoluzione della norma, elastica, sulla protezione umanitaria a clausola generale di sistema, capace di favorire i diritti umani e di radicarne l'attuazione. Snodo fondamentale di questa sentenza pertanto è la presa di posizione contro la pretesa di rendere tipiche le misure di protezione, ma al tempo stesso il rigoroso richiamo ai diritti umani e non a qualsivoglia pretesa di stabilizzazione sul territorio.
Questi principi chiaramente segnano uno spartiacque rispetto alle prime prassi di riconoscimento di protezione umanitaria su base eccessivamente discrezionale per il solo fatto del radicamento, o solo in ragione delle criticità del paese di provenienza e legano la protezione umanitaria non solo all’art. 10, ma anche all’art. 2 Cost. Sicché dal 2018 in poi la protezione umanitaria seppure misura atipica, resta saldamente ancorata ai valori costituzionali e non a ragioni “caritatevoli” o a discrezione assoluta del giudice.
Nonostante questa elaborazione rigorosa, la rilevanza statistica di questa misura ha contribuito a diffondere l’idea che la protezione umanitaria fosse riconosciuta con eccessiva larghezza a migranti meramente economici ovvero anche a soggetti immeritevoli, e da qui il progetto di abrogarla, realizzato con il decreto sicurezza del 2018.
Con il D.L. 113/2018 abolendo la dicitura “motivi umanitari” nell’art. 5 comma 6 del D.lgs. 286/1998 il legislatore ha chiaramente espresso un disfavore verso un eccessivo uso della discrezionalità, - pur se invero già destinata ad essere temperata dalla applicazione dei principi sopra enunciati - nel manifesto intento di tipizzare le misure di protezione complementare; tuttavia al tempo stesso l’autorevole richiamo del Presidente della Repubblica ha chiarito che lo Stato non si può esimere dalla tutela di diritti costituzionalmente protetti (o protetti da convenzioni internazionali).
Ed invero, un sistema dell’asilo sfornito di una misura di chiusura atipica, che consenta di proteggere situazioni di vulnerabilità non codificate, ma saldamente ancorate al valore primo che è il rispetto della dignità umana, non può considerarsi interamente attuativo dei principi costituzionali, con la conseguenza che all’indomani dell’emanazione del D.L. 113/2018 si è da molti ipotizzato un ritorno all’applicazione diretta dell’art 10 Cost. [8].
Sul punto è comunque nuovamente intervenuto il legislatore e nell’attuale versione dell’articolo 5, comma 6, T.U.I., che non ripristina quella parte di testo che costituiva il principale fondamento della protezione umanitaria “a catalogo aperto” ma tuttavia richiama di nuovo espressamente gli obblighi costituzionali e internazionali, sembra superata l’idea della tassatività e tipicità legislative delle misure di protezione, sul presupposto che la varietà della situazioni umane comportano casi nei quali detti obblighi non risultino compiutamente soddisfatti dalle previsioni normative relative alle protezioni maggiori ed alle protezioni speciali e complementari tipizzate dal legislatore.
Se di una tipizzazione si può oggi parlare, essa deve intendersi come delimitata non strettamente dalle ipotesi legislative, ma dalle norme di rango superiore a quelle legislative e cioè dalla Costituzione, dalle norme eurounitarie e dal paramento interposto della Convenzione Edu.
Nello stesso senso oggi si esprimono anche le sezioni unite, le quali con la sentenza in esame osservano che con la reintroduzione, nell'art. 5 T.U.I., della clausola di salvaguardia del rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato, il D.L. n. 130 del 2020 ha rinforzato l'attuazione del diritto costituzionale di asilo di cui all'art. 10 Cost., comma 3. A questo richiamo infatti non può attribuirsi altro senso, se non lo si voglia degradare a mero orpello retorico, che quello di segnalare la possibilità di situazioni nelle quali detti obblighi non risultino compiutamente soddisfatti dalle previsioni normative relative alle protezioni maggiori ed alle protezioni speciali introdotte dal D.L. n. 113/2018 e incrementate dallo stesso D.L. n. 130/2020.
3. Il giudizio di comparazione attenuato
In questo quadro normativo così variegato, la sentenza in esame conferma - ai fini della interpretazione dell’art. 5 comma 6 cit. ratione temporis applicabile alle domande introdotte prima del 5 ottobre 2018 - la validità del giudizio di comparazione, criterio già elaborato dalla prima sezione nel 2018, rendendo però delle importanti precisazioni.
Si è affermato che la necessità di una comparazione discende, nella prospettiva della sentenza n. 4455/2018, dal rilievo che "i seri motivi di carattere umanitario possono positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all'esito di tale giudizio comparativo, risulti un'effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa (art. 2 Cost.)" implicitamente valorizzando, e ciò nella medesima prospettiva successivamente recepita dal D.L. n. 130 del 2020, il diritto al rispetto della vita privata e familiare di cui all'art. 8 della Convenzione Edu, quale prerequisito di una "vita dignitosa"; diritto, che peraltro è inscindibilmente connesso alla dignità della persona, riconosciuto nell'art. 3 Cost., ed al diritto di svolgere la propria personalità nelle formazioni sociali, riconosciuto nell'art. 2 Cost.
Così richiamati i parametri costituzionali, le sezioni unite hanno ulteriormente confermato l’orientamento già espresso nel 2019, e cioè il collegamento tra la tutela umanitaria e i diritti fondamentali riconosciuti alla persona umana dalla Costituzione e dalle Carte internazionali.
Con la sentenza odierna tuttavia, si fa un ulteriore passo avanti, affermando che per centrare il focus della comparazione sul rispetto dei diritti fondamentali dell'uomo quali definiti nelle Carte sovranazionali e nella Costituzione italiana, viene in primo luogo in rilievo il disposto dell'art. 8 della Convenzione Edu, centrale per valutare il profilo di vulnerabilità legato alla comparazione tra il contesto economico, lavorativo e relazionale che il richiedente troverebbe rientrando nel paese di origine e la condizione di integrazione dal medesimo raggiunta in Italia.
L’art. 8 della Convenzione Edu non tutela solo le relazioni familiari ma anche la vita privata dell’individuo e come ha chiarito la Corte di Stasburgo[9], e tutti i rapporti sociali tra gli immigrati stabilmente insediati e la comunità nella quale vivono fanno parte integrante della nozione di "vita privata" ai sensi dell'art. 8, indipendentemente dall'esistenza o meno di una "vita familiare".
La protezione offerta dall'art. 8 concerne, dunque, l'intera rete di relazioni che il richiedente si è costruito in Italia; relazioni familiari, ma anche affettive e sociali, come le esperienze di carattere associativo che il richiedente abbia coltivato, le relazioni lavorative ma anche in genere le relazioni economiche (come i rapporti di locazione immobiliare). Tutti questi aspetti, che in una parola sola possono definirsi come “radicamento” nel contesto sociale, concorrono a comporre la "vita privata" di una persona, rendendola irripetibile, nella molteplicità dei suoi aspetti, "sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità". Questa notazione consente alla Corte di recuperare il riferimento all’art. 2 Cost., nella necessaria considerazione della dimensione costituzionale nazionale del diritto alla protezione umanitaria, funzionale ad illuminare il senso della valutazione comparativa che i giudici di merito dovranno svolgere ai fini del riconoscimento del diritto al soggiorno per motivi umanitari.
Le indicazioni date dalla Suprema Corte ai giudici di merito sono piuttosto specifiche: si afferma infatti che deve essere valutato non solo il rischio di danni futuri - legati alle condizioni oggettive e soggettive che il migrante (ri)troverà nel Paese di origine - ma anche il rischio di un danno attuale da perdita di relazioni affettive, di professionalità maturate, di osmosi culturale riuscita.
Particolare attenzione merita poi il recepimento e l’ulteriore elaborazione di un orientamento che si era già affermato nelle sezioni semplici con riferimento ai soggetti che sono specialmente vulnerabili per avere subito esperienze traumatiche, anche nei paesi di transito[10]: la regola della comparazione attenuata o, come la chiamano le sezioni unite, la relazione di proporzionalità inversa. Le sezioni unite non si limitano a condividere il principio, ma lo sussumo in termini generali quale paradigma del giudizio di comparazione; la regola travalica quindi i confini della casistica legata ai traumi severi (violenze sessuali, torture) e diviene principio di diritto potenzialmente applicabile ad ogni caso in cui l’esperienza di radicamento si connoti per la sua intensità.
Si conferma dunque il principio che, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, occorre operare una valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al Paese di origine, in raffronto alla situazione d'integrazione raggiunta nel paese di accoglienza, senza che abbia rilievo l'esame del livello di integrazione raggiunto in Italia, isolatamente ed astrattamente considerato; con la precisazione, tuttavia, che tale valutazione comparativa dovrà essere svolta attribuendo alle condizioni soggettive e oggettive del richiedente nel Paese di origine un peso tanto minore quanto maggiore risulti il grado di integrazione che il richiedente dimostri di aver raggiunto nel tessuto sociale italiano.
Se vi è un radicamento forte sul territorio le condizioni soggettive e oggettive del paese di origine assumono una rilevanza minore; non va dunque considerato se le condizioni del paese di origine siano tali da determinare oggettivamente la lesione dei diritti fondamentali in evidenza, ma se lo è il rimpatrio, in relazione al divario tra ciò che l’interessata ha conseguito in Italia e ciò che irrimediabilmente perderebbe tornando nel paese di origine.
In sintesi il principio di diritto è formulato nel senso che situazioni di deprivazione dei diritti umani di particolare gravità nel Paese di origine possono fondare il diritto del richiedente alla protezione umanitaria anche in assenza di un apprezzabile livello di integrazione del medesimo in Italia. Per contro, quando si accerti che tale livello sia stato raggiunto, se il ritorno in Paesi d'origine rende probabile un significativo scadimento delle condizioni di vita privata e/o familiare sì da recare un vulnus al diritto riconosciuto dall'art. 8 della Convenzione Edu, sussiste un serio motivo di carattere umanitario, ai sensi dell'art. 5 T.U. cit., per riconoscere il permesso di soggiorno.
Non manca neppure una indicazione casistica, perché la Corte esemplifica cosa debba intendersi per radicamento. Il livello elevato d'integrazione effettiva nel nostro Paese è desumibile da indici socialmente rilevanti e tra essi la titolarità di un rapporto di lavoro, anche se a tempo determinato, la titolarità di un rapporto locatizio, la presenza di figli che frequentino asili o scuole, la partecipazione ad attività associative radicate nel territorio di insediamento.
4. Considerazioni conclusive
Nella sentenza in esame si percepisce e si apprezza lo sforzo per dare indicazioni chiare ai giudici di merito sui presupposti per riconoscere il permesso di soggiorno per motivi umanitari, elaborando dei principi che possono, con gli opportuni aggiustamenti, tornare utili anche nella futura applicazione della protezione complementare ai sensi dell’art 5 comma 6 come modificato dal D.L. 130/2020.
Sebbene la Corte esplicitamente dichiari che sta applicando la previgente normativa, senza considerare le ricadute sistemiche della modifica legislativa, è tuttavia evidente che il riferimento all'art. 8 della Convenzione Edu, bilanciato anche da un forte richiamo ai principi costituzionali nazionali, può costituire un trait d'union con le (future) elaborazioni giurisprudenziali sulla protezione complementare.
In sintesi, sono due i tratti salienti della sentenza: la conferma del criterio del giudizio di comparazione con la importante precisazione della regola della proporzionalità inversa, che opera in senso bidirezionale e cioè sia quando vi è un importante il radicamento sul territorio italiano, sia quando è grave la lesione dei diritti fondamentali che ricorrente rischia nel paese di origine; e la indicazione casistica sugli indici di integrazione sociale. In particolare merita attenzione l'affermazione che anche un contratto di lavoro a tempo determinato - poiché questa è la modalità odierna di accesso al lavoro più frequente - può costituire un indice di integrazione sociale, così come altri rapporti economici e non economici quali l'associazionismo o la titolarità di un contratto di locazione; particolare importanza poi, nell'ambito dei rapporti familiari, è data alle famiglie con figli, specie ove questi siano inseriti nel sistema scolastico nazionale, anche semplicemente per la scuola materna.
La sentenza rappresenta quindi uno snodo fondamentale per raggiungere una apprezzabile uniformità sui criteri da applicare alla protezione umanitaria, onde evitare da un lato una indiscriminata estensione della misura, che resta pur sempre uno strumento a tutela dei diritti fondamentali e non una forma di sanatoria degli ingressi illegali nel paese; dall’altro scongiurare l’eccessivo rigore, soprattutto nell’accertare la gravità della lesione dei diritti fondamentali nel paese di origine, con il conseguente rischio di sovrapporre la misura di protezione complementare alle protezioni c.d. maggiori, privandola così della sua autonomia.
[1] Cass. civ. sez. II Ord. n. 5506 del 26/02/2021; Cass. civ. sez. I, Ord. n. 1347 del 22/01/2021
[2] Si veda ad es. Corte EDU Paradiso e Campanelli c. Italia, 27/1/2015 e sullo stesso caso Corte EDU Grande Camera, 24/1/2017 entrambe in hudoc.echr.coe.int. La Corte riconosce che può essere tutelata anche la vita familiare di fatto tra uno o due adulti ed un minore, pur in assenza di un legame biologico o di un chiaro fondamento normativo, purché sussistano però legami personali genuini (relazione familiare de facto) Sulle relazioni omoaffettive si veda Corte EDU 24/6/2010, Schalk e Kopf c. Austria, hudoc.echr.coe.int
[3] CGUE 9.11.2010, Germania c. B. e D., C-57/09, C-101/09, in https://curia.europa.eu
[4] Cass., sez. un., n. 19393 del 09/09/2009
[5] Cass. civ. sez. I, Ord. n. 23604 del 09/10/2017; Cass. civ. sez. I n. 28990 del 12/11/2018; Cass. civ. sez. I , Ord. n. 1104 del 20/01/2020.
[6] Cass. civ. sez. I n. 4455 del 23/02/2018.
[7] Cass. civ. sez. un. n. 29459 del 13/11/2019
[8] Sul punto si rinvia a R. Russo I diritti fondamentali sono diritti di tutti? Uguaglianza, solidarietà e stereotipi nel trattamento dei migranti, in questa Rivista, 10 gennaio 2020.
[9] Corte EDU EDU 14/02/2019 Narijs c. Italia, in hudoc.echr.coe.int
[10] Si veda Cass. civ. sez. I - Ord. n. 1104 del 20/01/2020, citata dalle stese sezioni unite: “Il confronto tra il grado di integrazione effettiva raggiunto nel nostro paese e la situazione oggettiva del paese di origine deve essere effettuato secondo il principio di "comparazione attenuata", nel senso che quanto più intensa è la vulnerabilità accertata in giudizio, tanto più è consentito al giudice di valutare con minor rigore il "secundum comparationis", non potendo, in particolare, escludersi il rilievo preminente della gravità della condizione accertata solo perché determinatasi durante la permanenza nel paese di transito”. In senso conforme: Cass. civ. Sez. VI- I, Ord. n. 8990 del 31/03/2021; sez. I, Ord. n. 13565 del 02/07/2020; sez. I, Ord. n. 13096 del 15/05/2019; sez. VI -I, Ord. n. 12649 del 12/05/2021.
Il problematico obbligo di green pass per lavoratori pubblici e privati (magistrati compresi)
di Marcello Basilico
Preceduto da spifferi e anticipazioni, è entrato in vigore il decreto legge che vincola i lavoratori pubblici e privati a dotarsi del certificato verde per accedere ai luoghi di lavoro. È una disciplina non del tutto consonante con quella dei lavoratori della scuola, che ha fatto da apripista in materia. Il legislatore dimostra così ancora una volta di procedere per approssimazioni progressive. In questo quadro le misure per gli uffici giudiziari e per i magistrati non si distinguono per chiarezza di contenuti e d’intenti.
Sommario: 1. Introduzione - 2. Il decreto legge - 3. L’obbligo di certificazione nei luoghi di lavoro - 4. L’obbligo di certificazione per i lavoratori della PA - 5. L’obbligo per i magistrati - 6. Obblighi ed esenzioni per il personale operante negli uffici giudiziari diverso dai magistrati.
1. Introduzione
È legge l’obbligo di green pass nel mondo del lavoro, nella pubblica amministrazione e, per potere accedere agli uffici giudiziari, per i magistrati. Sulla Gazzetta Ufficiale del 21 settembre è stato infatti pubblicato il decreto legge 127/2021 intitolato “Misure urgenti per assicurare lo svolgimento in sicurezza del lavoro pubblico e privato mediante l’estensione dell’ambito applicativo della certificazione verde Covid-19 e il rafforzamento del sistema di screening”.
2. Il decreto legge
Il testo del provvedimento abbraccia vari aspetti della battaglia pubblica anti Covid. La tecnica legislativa continua a essere quella della sovrapposizione normativa, attraverso interpolazioni di (o rinvii a) disposizioni precedenti. Fatti salvi il 6 e l’8 del d.l. 127/2021, tutti gli altri articoli contengono soltanto modifiche o integrazioni di discipline già vigenti[1]. Come sempre ne deriva il risultato di una lettura faticosa cui seguono operazioni d’interpretazione inevitabilmente complicate.
Oltre alle misure dettate per i luoghi di lavoro pubblici e privati, il decreto contiene alcune norme di rilievo generale: l’obbligo di somministrazione di test antigienici rapidi e a prezzo calmierato per farmacie e strutture sanitarie convenzionate, autorizzate o accreditate (art. 4); modifiche a validità e durata delle certificazioni verdi (art. 5); adozione di misure per sport e attività del tempo libero (artt. 6 e 8); potenziamento del servizio di contact center per le certificazioni verdi.
Traspare anche da queste disposizioni l’idea dell’estensione graduale del green pass, individuato come strumento primario di contrasto alla pandemia, sempre più a fianco del cittadino nelle sue occupazioni primarie e nel suo tempo extralavorativo .
Significative appaiono sotto questo profilo la nuova calibrazione dell’efficacia della certificazione rispetto alle previsioni del d.l. 52/2021, che già erano state riadattate in sede di conversione con la legge n. 87 del 17 giugno scorso, e le previsioni di nuove spese dedicate ai tamponi rapidi gratuiti.
Questi ultimi sono previsti sino al 31 dicembre prossimo per coloro che non possano vaccinarsi o completare la vaccinazione sulla base della certificazione medica idonea, prescritta dall’art. 3, terzo comma, d.l. 105/2021 (conv. nella legge 126/2021) e rilasciata secondo i criteri stabiliti dal Ministero della salute[2].
Pur se previsto dunque per casi ancora eccezionali, l’accesso gratuito ai test antigenici rappresenta una prima e probabilmente provvisoria risposta alla questione – posta con toni apparentemente vibranti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori – del “chi pagherà” i tamponi ai quali dovranno sottoporsi i dipendenti che dal 15 ottobre volessero accedere ai loro luoghi di lavoro senza essersi vaccinati. Va ricordato che, ai sensi dell’art. 9, secondo comma, d.l. 52/2021 (conv. in l. 87/2021), la certificazione verde Covid-19 attesta l’effettuazione con esito negativo al virus SARS-CoV-2, del test antigienico, rapido o molecolare, in alternativa al completamento del ciclo vaccinale e all’avvenuta guarigione da Covid con contestuale cessazione dell’isolamento prescritto.
3. L’obbligo di certificazione nei luoghi di lavoro
La novità di maggiore impatto nel d.l. 127 è costituita dall’introduzione dell’obbligo di green pass per chi svolga un’attività lavorativa presso la pubblica amministrazione o in settori privati.
Per i lavoratori pubblici l’osservanza della prescrizione (art. 1, primo comma) condiziona l’accesso “ai luoghi di lavoro, nell’ambito del territorio nazionale, in cui il predetto personale svolge l’attività lavorativa”; per quelli privati (art. 3, primo comma) l’obbligo è posto per accedere “ai luoghi in cui la predetta attività è svolta”. La differenza testuale nelle due norme è solo apparente. In entrambe non sembra tenersi conto del lavoro a domicilio, in modalità agile o smart working. Si direbbe che l’obbligo possa essere escluso per chi renda la prestazione nell’abitazione e comunque non in presenza di altri lavoratori, risultando ingiustificato sulla base della finalità che si vede enunciata in premessa di ambedue le disposizioni.
Sono tenuti a possedere e, a richiesta, esibire il green pass non solo i lavoratori subordinati, ma tutti i soggetti che negli ambienti predetti svolgano un’attività di lavoro, di formazione o di volontariato, “anche sulla base di contratti esterni” (secondo comma degli artt. 1 e 3).
Quest’ultima, atecnica, espressione evoca il lavoro reso a vantaggio di terzi soggetti. Essa consente dunque di ritenere compresi tra i destinatari del precetto anche i lavoratori impiegati in somministrazione o in esecuzione di appalto che operino comunque nei luoghi individuati dal primo comma degli artt. 1 e 3. Il riferimento alla casistica contrattuale in cui si registra la scissione tra datore e utilizzatore della prestazione è confermato dal quarto comma dei due articoli, che obbliga i “rispettivi datori di lavoro” – diversi da quelli del primo comma – a esercitare verifiche autonome sul possesso della certificazione da parte dei propri dipendenti.
L’estensione colma una lacuna, avvertita dalla gran parte dei commentatori, presente nella disciplina relativa agli ambienti sanitari, giacché all’obbligo di vaccinazione introdotto per i professionisti e gli operatori del settore non corrispondevano obblighi o oneri di sicurezza in capo a quanti, pur non rientrando nelle categorie individuate, frequentavano stabilmente gli stessi luoghi di lavoro. Il pensiero correva ai lavoratori delle mense ospedaliere o delle imprese di pulizia in appalto.
Le disposizioni dell’art. 4 d.l. 44/2021 (conv. 77/2021) erano tese, del resto, a individuare le categorie di lavoratori obbligati; gli interventi normativi successivi, a cominciare dalla disciplina scolastica[3], identificano invece la platea dei soggetti obbligati (al green pass) per settori di attività: ecco un altro, ennesimo, indice dell’avanzamento progressivo del legislatore nella predisposizione delle misure emergenziali all’interno del mondo del lavoro.
Il d.l. 127/2021 ripropone l’esenzione dall’obbligo per i soggetti ai quali sia preclusa, per apposita certificazione medica, la facoltà di vaccinarsi (terzo comma degli artt. 1 e 3). Ripropone altresì l’apparato di disposizioni inaugurato per il settore scolastico, in punto di obblighi di verifica in capo ai datori di lavoro (quarto comma degli artt. 1 e 3) e di sanzioni amministrative a carico di coloro – lavoratori e datori – che abbiano violato le prescrizioni loro rispettivamente imposte (art. 1, settimo e ottavo comma; art. 3, ottavo e nono comma).
Vengono inoltre replicate, sul fronte del rapporto lavorativo, l’equivalenza tra assenza ingiustificata e difetto del green pass nonché la scelta di neutralità di tale condotta sul piano disciplinare (sesto comma degli artt. 1 e 3).
Ha invece rilievo disciplinare – oltre a essere sanzionato in via amministrativa, come detto – la differente condotta di accesso al luogo di lavoro in assenza di certificazione (art. 1, settimo comma; art. 3, ottavo comma).
Questo comportamento avrebbe trovato una sanzione già in base alle norme comuni, realizzando la violazione dei doveri di diligenza enucleati dall’art. 2104 c.c. e dei più generali doveri di collaborazione connessi alle modalità della prestazione. Pur tuttavia la precisazione pare opportuna al fine di sgombrare il campo da equivoci rispetto al trattamento della (diversa) fattispecie della mancata titolarità della certificazione.
Soltanto per i dipendenti d’imprese con meno di quindici dipendenti, però, scatta dopo il quinto giorno di assenza ingiustificata la sospensione dal servizio (e dalla retribuzione). L’art. 3, settimo comma, con l’espressione “può sospendere”, sembra rimettere alla facoltà del datore un intervento che invece nell’ambito scolastico e universitario l’art. 9-ter, secondo comma, d.l. 52/2021 rende automatico.
Per tutti gli altri lavoratori privati e per quelli pubblici non è invece previsto un provvedimento di sospensione. A livello retributivo l’effetto non è diverso, giacché per ogni giorno di assenza conseguente alla mancanza di green pass non spetta comunque il compenso.
4. L’obbligo di certificazione per i lavoratori della PA
L’art. 1 d.l. 127/2021 ha cura di precisare – principalmente mediante il richiamo agli artt. 1, secondo comma, e 3 del d. lgs. 165/2001 – che il nuovo obbligo vale per tutti gli enti pubblici e per tutto il personale pubblico, sia esso contrattualizzato o meno. Si cerca d’includere in un regime analogo persino i soggetti titolari di cariche elettive o istituzionali di vertice nonché gli organi costituzionali (art. 1, undicesimo e dodicesimo comma).
La portata totalizzante di queste misure rende ancora più sintomatico il fatto che si sia voluta inserire una disciplina speciale per i magistrati negli uffici giudiziari (art. 2), tanto più se si considera che, altrimenti, essi sarebbero stati indubitabilmente assoggettati al regime pubblicistico generale.
Quest’ultimo merita ancora qualche annotazione, prima di soffermarsi sulla posizione del personale di magistratura.
Va innanzi tutto rimarcata, tenuto conto della tempistica che generalmente connota l’attività in molte Amministrazioni, l’imminenza del termine del 15 ottobre, entro cui ogni ente dovrà approntare l’organizzazione delle verifiche, prevedendo se possibile controlli “al momento dell’accesso ai luoghi di lavoro” e individuando con atto formale i soggetti incaricati dell’accertamento e della contestazione delle violazioni di rilievo amministrativo. La scadenza appare ancora più ravvicinata se si considerano la tendenziale omogeneità delle modalità organizzative (art. 1, quinto comma, seconda parte) e l’invarianza finanziaria prevista per gli interventi organizzativi che si renderanno necessari (art. 1, tredicesimo comma).
Per espressa previsione (art. 1, decimo comma), nei confronti dei magistrati collocati fuori ruolo presso altre amministrazioni pubbliche si applicano le disposizioni dettate per la magistratura dall’art. 2. Ciò denota in primo luogo l’attenzione riservata dal legislatore alla categoria indipendentemente dal luogo di prestazione effettiva dell’attività. Quand’anche l’assimilazione dei fuori ruolo fosse dettata da preoccupazioni di parità di trattamento, si potrebbe dubitare della sua ragionevolezza, poiché, in materia di sicurezza e prevenzione del pericolo di diffusione del contagio, la loro situazione non è automaticamente assimilabile a quella dei magistrati in servizio negli uffici giudiziari.
La medesima norma del decimo comma consente inoltre di escludere, per ragionamento a contrario, che nei confronti del personale alle dipendenze di altre Amministrazioni e collocato fuori ruolo valgano disposizioni diverse da quelle generali.
5. L’obbligo per i magistrati
Tutti i magistrati, non solo quelli ordinari e non solo quelli professionali, sono tenuti a possedere la certificazione verde per accedere agli uffici giudiziari (art. 2, primo e quarto comma).
Come per gli altri lavoratori, l’assenza dall’ufficio per difetto di certificazione configura assenza ingiustificata, con perdita della retribuzione (secondo comma). La norma merita due rilievi.
Il primo – estensibile a ogni lavoratore di categoria dirigenziale e comunque non tenuto all’osservanza di un orario di lavoro o a obblighi di presenza – attiene all’accertamento dei casi di “assenza dall’ufficio conseguente alla carenza ..” del green pass: è evidente infatti che tale verifica sarà difficile quando il lavoratore non sia chiamato da impegni cogenti in ufficio; la violazione sarà più facilmente accertabile quando tali impegni siano previsti. Il caso più eclatante è rappresentato per il magistrato dalla presenza in udienza. Potrebbero rivelarsi fonte d’incertezza i turni di reperibilità, quando in concreto egli non venga chiamato ad accedere all’ufficio.
Può non essere superfluo sottolineare che siffatte considerazioni hanno lo scopo di testare la tenuta d’una disposizione nel quadro normativo o rilevarne profili di controvertibilità interpretativa o applicativa. Hanno dunque l’ambizione di fornire un contributo schiettamente giuridico, senza con ciò assecondare e, tanto meno, suggerire possibili comportamenti speculativi. Riteniamo al contrario che l’emergenza pandemica, prima ancora che la disciplina e l’onore che si richiedono a quanti esercitano pubbliche funzioni, ci richiami tutti ad atteggiamenti improntati alla massima solidarietà ed al più rigoroso senso di responsabilità
Il secondo rilievo deriva dalla mancata riproposizione, nella norma dell’art. 2, secondo comma, che qualifica l’assenza come “ingiustificata”, della puntualizzazione “senza conseguenze disciplinari”, presente invece nelle omologhe disposizioni degli artt. 1 e 3, rispettivamente per gli altri dipendenti pubblici e per i lavoratori privati.
Si potrebbe ipotizzare che l’omissione sia collegata alla tipicità degli illeciti disciplinari del magistrato. Nel catalogo dettato dal d. lgs. 109/2006, non c’è la fattispecie dell’assenza ingiustificata, che invece è sistematicamente contemplata nei codici disciplinari delle altre categorie di lavoratori. Ciò renderebbe superflua la precisazione che il legislatore ha viceversa ritenuto di dovere inserire negli altri articoli del decreto.
Questa possibile spiegazione non è tuttavia rassicurante, poiché la mancanza del certificato verde potrebbe pur sempre configurare per il magistrato, in presenza d’un precetto positivo che lo renda obbligatorio, “grave violazione di legge determinata da .. negligenza inescusabile” (lett. g) o “grave inosservanza delle .. disposizioni sul servizio giudiziario” (lett. n) o sottrazione ingiustificata all’attività di servizio (lett. r), a seconda delle situazioni in cui venga accertata[4].
È noto peraltro che il legislatore non ha voluto attribuire rilevanza disciplinare alla violazione dell’obbligo di certificazione – al pari, secondo la gran parte dei commentatori[5], di quello di vaccinazione, laddove prescritto – per la considerazione attribuita alle ragioni personalissime che possono indurre taluni a sottrarvisi; tali ragioni a oggi sono state ritenute meritevoli di qualche tutela, sebbene soccombenti nel bilanciamento con le esigenze di salute pubblica espressamente salvaguardate dalla legge.
In questo quadro normativo, l’attribuzione di rilevanza disciplinare solo all’omissione del magistrato appare irragionevole, poiché risulta difficile giustificarla in base a ragioni oggettive – quali il rilievo costituzionale della sua funzione e l’essenzialità del servizio giudiziario – quando l’identico comportamento di ogni altro funzionario pubblico ne risulti esentato.
Va aggiunto che invece l’accesso del magistrato privo di green pass all’ufficio giudiziario configura illecito disciplinare, punito con la sanzione non inferiore alla censura. Si tratta al contempo di una violazione sanzionata anche in via amministrativa. Salvo che per il diretto richiamo all’art. 12 d. lgs. 109/2016, queste specifiche norme dettate per i magistrati (art. 2, terzo e sesto comma) non si discostano sostanzialmente da quelle dettate in generale per il personale pubblico.
Ai magistrati onorari si applica, in quanto compatibile, il medesimo regime sanzionatorio (art. 2, quarto comma). In tal modo il legislatore finisce per accomunarli al regime, espressamente qualificato come “disciplinare”, dei magistrati togati. Il criterio di compatibilità non è idoneo a segnare una demarcazione chiara tra le due categorie. Pertanto è verosimile che in questo passaggio normativo si rinvenga un altro tassello nella costruzione giuridica che vedrebbe attribuita agli onorari, per comparazione con l’attività e la disciplina dei magistrati ordinari, la qualità di lavoratori professionali, se non addirittura subordinati.
Il procuratore generale presso la corte d’appello è individuato come responsabile della sicurezza tenuto a verificare il possesso della certificazione da parte di tutti i magistrati ordinari del distretto. Perché tale previsione abbia una sua effettività il quinto comma dell’art. 2 prevede che egli possa avvalersi di propri delegati. Si può immaginare che nei circondari diversi da quello in cui ha sede la corte d’appello il PG si affiderà soprattutto ai procuratori della Repubblica i quali si troveranno dunque ad organizzare sul territorio, a loro volta, i controlli e a individuare le figure titolate alla contestazione degli illeciti.
Per i magistrati onorari, così come per il personale amministrativo, il responsabile della sicurezza coinciderà invece con quello già presente nei rispettivi uffici giudiziari.
6. Obblighi ed esenzioni per il personale operante negli uffici giudiziari diverso dai magistrati
Il personale amministrativo non è più inserito espressamente dal decreto legge, diversamente da quanto riportava il testo circolante in bozza alla vigilia, tra i lavoratori tenuti al green pass per accedere agli uffici giudiziari. L’obbligo gli deriva dunque dalla norma generale relativa a tutti i dipendenti delle pubbliche amministrazioni.
In realtà, se preso alla lettera, l’ultimo comma dell’art. 2 parrebbe esentare pure gli addetti alle cancellerie (“Le disposizioni del presente articolo non si applicano ai soggetti diversi da quelli di cui ai commi 1 e 4 – rispettivamente magistrati professionali e magistrati onorari - n.d.r. – ivi inclusi ..”). La norma va però necessariamente coordinata con quella dell’art. 1, primo comma, anche perché non vi sarebbe ragione per ritenere dispensato il solo personale amministrativo del comparto giustizia da un obbligo altrimenti generalizzato nella P.A.; per converso il carattere apparentemente drastico dell’ultimo comma dell’art. 2 si spiega con la finalità di escludere tutte le categorie elencate nella sua parte terminale.
Per il personale di cancelleria è dunque nell’art. 1 che si rinviene la disciplina attinente i poteri e le responsabilità datoriali nonché le conseguenze delle violazioni in materia.
In virtù dell’esplicita previsione dell’art. 2, quinto comma, il Ministero della giustizia è l’unico dicastero cui sia affidato il potere di adottare modalità ad hoc. Per tutte le altre Amministrazioni, in base al quinto comma dell’art. 1, spetta invece alla Presidenza del Consiglio provvedervi.
Si auspica che il Ministro della giustizia assolva al compito, non agevole, con l’attenzione richiesta dalla parcellizzazione delle strutture giudiziarie sul territorio e dalla storica inadeguatezza del patrimonio immobiliare che vi è dedicato.
La delicatezza di questo compito rischia di essere incrementata dal vero punto dolente della disciplina concernente gli uffici giudiziari: l’esenzione dall’obbligo di green pass per tutti i professionisti che giornalmente praticano Tribunali, Corti e Procure e, tra costoro, soprattutto degli avvocati.
Le ragioni dell’esclusione possono ricercarsi nella loro qualità professionale, che li distingue rispetto ad un contesto normativo tutto impostato sulla relazione tra datore e lavoratore subordinato. La portata persuasiva dell’argomento si affievolisce al cospetto dell’inclusione tra i soggetti obbligati dei magistrati onorari, che – al netto delle rivendicazioni di categoria e di alcuni riconoscimenti giudiziari allo stato non definitivi – operano in presenza di vincoli contrattuali ancor meno stringenti.
Senza inseguire l’ipotesi, malignamente sussurrata, che con l’esonero si sia inteso eliminare possibili pretesti per istanze di rinvio basate sull’indisponibilità della vaccinazione, è più verosimile ritenere che la scelta legislativa sia dipesa dal fatto che l’avvocatura, al pari degli ausiliari del magistrato, non è incardinata in seno all’organizzazione dell’apparato amministrativo che presiede alle verifiche e alle contestazioni degli illeciti.
Questa spiegazione, pur se credibile, rappresenta tuttavia un vulnus per quanti – non solo all’interno dell’avvocatura – vedono nella figura del difensore una componente ineliminabile non del solo momento processuale, ma dell’intero assetto giudiziario.
In ogni caso, più che indagare le ragioni di una siffatta soluzione normativa, importa qui valutarne gli effetti. Il numero degli avvocati che hanno motivo di accedere agli uffici giudiziari rimane, anche dopo l’informatizzazione di molte attività, elevatissimo; in molti processi esso è preponderante rispetto a quello del personale di magistratura e amministrativo.
È quindi evidente che gli obiettivi di tutela della salute pubblica e di mantenimento di condizioni di sicurezza adeguate sarebbero molto più facilmente perseguibili vincolando la componente forense agli stessi o ad obblighi analoghi a quelli prescritti per i pubblici dipendenti. L’immagine di un’aula affollata da pochi giudici e cancellieri muniti di certificazione verde e di una moltitudine di avvocati e parti che ne siano potenzialmente sprovvisti contrasta in modo lampante con le finalità enunciate nella norma.
Allo stato attuale, non resta che confidare nella capacità dell’Amministrazione giudiziaria di allestire spazi convenienti per garantire le migliori misure di prevenzione dei pericoli di contagio, nel breve periodo fino alla conclusione del periodo emergenziale (15 dicembre). Inevitabile sarà il ricorso ancora massiccio, laddove possibile, ai meccanismi alternativi di trattazione, la cui utilizzabilità è stata ancora prorogata dell’art. 7, primo comma, d.l. 105/2021, e che peraltro sono stati concepiti soprattutto per le udienze meno affollate.
Le incertezze legate all’evoluzione del quadro pandemico e le difficoltà applicative della nuova disciplina rendono tutt’altro che improbabile l’introduzione di modifiche rilevanti e nuove misure in sede di conversione. Non è peraltro marginale il rilievo per cui la conversione avverrà a meno di un mese dalla scadenza attuale del periodo emergenziale.
[1] In particolare gli artt. da 1 a 3 del d.l. 127/2021 introducono altrettanti articoli (da 9-quinquies a 9-septies) al d.l. 52/2021, conv. nella legge 87/2021, secondo la tecnica già adottata nel 10 settembre 2021, n. 122, per il settore scolastico. Nel presente scritto si preferisce comunque riferire della disciplina in commento citando gli articoli dell’ultimo d.l., menzionando espressamente gl’innesti nel d.l. 52 quando opportuno.
[2] Allo stato è la circolare del Ministero della Salute del 4 agosto 2021 sulle certificazioni di esenzione alla vaccinazione anti Covid-19, aventi validità sino al 30 settembre.
[3] D.l. 122/2021, già menzionato nella nota 1.
[4] Cfr. art. 2 d. lgs. 109/2006.
[5] Per una rassegna della dottrina sul punto mi permetto di rinviare al mio precedente intervento Il punto sulla disciplina dell’obbligo vaccinale, in questa rivista, pubblicato il 15 giugno 2021.
Le opposizioni all’esecuzione e le c.d. preclusioni sospensive (a proposito di Cass., sez. III, n. 26285/2019) * di Bruno Capponi
Sommario: 1. Opposizione all’esecuzione e titolo esecutivo - 2.-Crisi del titolo esecutivo e crisi dell’opposizione. 3.-La tutela inibitoria ovvero del diritto a non subire un’esecuzione ingiusta - 4.-Il sistema delle inibitorie e delle sospensioni a fronte delle competenze del giudice dell’impugnazione, del giudice dell’opposizione a precetto e del giudice dell’esecuzione. - 5.-Se quello descritto sia davvero un sistema e se siano concepibili inibitorie e sospensioni “sui generis”. - 6.-Il problema del reclamo avverso il provvedimento inibitorio pronunciato dal giudice dell’opposizione a precetto.- 7.-Orientamenti nomopoietici della Cassazione - 8.-Analisi della sentenza della Sez. III n. 26285/2019. - 9.-Rapporto tra potere inibitorio del giudice dell’opposizione a precetto e potere sospensivo del giudice dell’esecuzione. - 10.-Critica della sentenza n. 26285/2019. - 11.-La consumazione e la preclusione sospensiva: istituti creati ex nihilo dalla Cassazione e apertamente confliggenti con la disciplina positiva. - 12.-L’art. 363 c.p.c.: una norma da rivedere con urgenza
1.-Opposizione all’esecuzione e titolo esecutivo. La formula impiegata dall’art. 615 c.p.c. per identificare il variabile contenuto dell’opposizione all’esecuzione - «contestazione del diritto della parte istante a procedere ad esecuzione forzata» - è generica soltanto in apparenza. Essa è infatti idonea ad abbracciare ogni possibile contestazione dell’azione esecutiva, sia essa minacciata o in atto, sia essa fondata sul titolo esecutivo (con riguardo a quello giudiziale, per fatti successivi alla sua formazione), sia su altre ragioni, anche di tipo soggettivo, che non investono direttamente il titolo (sebbene non possano prescindere dalla sua esistenza). È questa la caratteristica propria del nostro istituto: l’opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c., sovente accomunata all’opposizione all’esecuzione perché “di merito”, è in realtà una contestazione sul quomodo, cioè sulla direzione assunta dagli atti esecutivi che hanno colpito beni estranei alla responsabilità patrimoniale del debitore.
Si ritiene comunemente che l’opposizione all’esecuzione tenda ad attaccare il titolo esecutivo; ma così sempre non è, e infatti non sempre l’accoglimento dell’opposizione (di lato il problema dell’efficacia della sentenza) determina la caducazione del titolo a base dell’esecuzione. Al tempo stesso, posto che è dal titolo che deriva la legittimazione all’esecuzione forzata, non sembra corretto affermare che l’opposizione all’esecuzione abbia ad oggetto un diritto astratto all’esecuzione, ovvero una domanda di parte del quale il titolo sarebbe mero presupposto[1]. È vero che il «diritto della parte istante a procedere ad esecuzione forzata» sovente non si esaurisce nel titolo, ma affermare che il titolo è istituzionalmente estraneo all’opposizione confligge con la realtà, anche sotto l’aspetto semplicemente statistico.
2.-Crisi del titolo esecutivo e crisi dell’opposizione. Nel nostro sistema non esiste un’autorizzazione giudiziale preventiva all’esecuzione forzata; il creditore istante ha soltanto l’onere di annunciare le attività esecutive (art. 480 c.p.c.), in genere rispettando un termine dilatorio (art. 482 c.p.c.). Ciò anche quando il titolo non sia del tutto “certo” come, ad es., nella tutela dei crediti di mantenimento o nell’esecuzione forzata dell’astreinte. Si è assistito di recente al fenomeno della destrutturazione del titolo esecutivo, derivante da varie forme di eterointegrazione (anche “ipertestuale”). L’art. 2929 bis c.c. ha introdotto un caso di esecuzione forzata in cui il titolo esecutivo è soltanto una delle plurime condizioni legittimanti.
Possiamo ragionevolmente parlare di una fase di “crisi” del titolo esecutivo, per come tradizionalmente inteso. Ad essa corrisponde una “crisi” dell’opposizione ogni volta che si ammetta che, valendosi dell’estinzione atipica, l’esecutato possa far valere dinanzi al g.e. contestazioni tradizionalmente proprie dell’opposizione all’esecuzione.
3.-La tutela inibitoria ovvero del diritto a non subire un’esecuzione ingiusta. Nel 2005, il legislatore si è dato carico di assicurare una tutela più incisiva alla parte destinataria dell’atto di precetto, riconoscendola titolare del diritto a non subire un’esecuzione ingiusta. Lo ha fatto inserendo nel comma 1 dell’art. 615 c.p.c. la seguente espressione: «il giudice, concorrendo gravi motivi, sospende su istanza di parte l’efficacia esecutiva del titolo». Nel 2015 ha poi precisato (superfluamente) che la sospensione può essere anche parziale, «se il diritto della parte istante è contestato solo parzialmente»; in realtà, ha perso un’occasione per chiarire molti punti incerti individuati dalla giurisprudenza, circa la natura e l’estensione del nuovo potere attribuito al giudice dell’opposizione a precetto.
Possiamo chiederci perché il legislatore del 1940 non avesse pensato a una forma di tutela preventiva, posto che l’esecuzione non è soggetta ad autorizzazione. Probabilmente la risposta è nel fatto che il titolo esecutivo giudiziale era di norma la sentenza d’appello; il proliferare, in tempi relativamente recenti, di titoli più sommari e instabili ha acceso un faro sulla funzione garantistica dell’inibitoria.
Partiamo dalla formula utilizzata. Il legislatore del 2005 si è all’evidenza ispirato all’art. 283 c.p.c., che distingue la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo dalla sospensione dell’esecuzione[2]. La distinzione è frutto di una novellazione risalente al 1990, perché la norma nel suo originario dettato parlava di sospensione dell’esecuzione già iniziata e la giurisprudenza, interpretando la previsione alla lettera, escludeva la possibilità di una inibitoria sul titolo. Del resto, l’art. 373 c.p.c. continua tuttora a far riferimento alla sospensione dell’esecuzione, ciò che induce le corti d’appello a richiedere che quantomeno sia stato notificato l’atto di precetto; altrimenti, non provvedono sulla istanza.
Il legislatore del 2005 ha fatto un calcolo che si è rivelato sbagliato: intendendo riconoscere il diritto a non subire atti esecutivi ingiusti, ha ragionato come se il giudice dell’opposizione a precetto potesse provvedere sull’inibitoria prima dell’inizio dell’esecuzione; ciò che non avviene mai, perché nell’ipotesi normale il primo atto esecutivo segue di soli dieci giorni la notificazione del precetto. E in dieci giorni, ben difficilmente si riesce a ottenere un provvedimento di inibitoria, essendo dubbia l’applicabilità tanto dell’art. 625, comma 2, c.p.c., tanto dell’art. 669 sexies, comma 2, c.p.c. Per rendere davvero effettivo il diritto a non subire atti esecutivi, il legislatore avrebbe dovuto riconoscere alla stessa proposizione dell’opposizione a precetto un effetto sospensivo automatico; il giudice, poi, avrebbe dovuto confermare quell’effetto, o altrimenti autorizzare gli atti dell’esecuzione.
4.-Il sistema delle inibitorie e delle sospensioni a fronte delle competenze del giudice dell’impugnazione, del giudice dell’opposizione a precetto e del giudice dell’esecuzione. Sta di fatto che, mettendo insieme le norme che abbiamo richiamato con quelle vigenti nell’esecuzione, ne risulta che il giudice d’appello può sospendere sia l’efficacia esecutiva del titolo, sia l’esecuzione; il giudice dell’opposizione a precetto la sola efficacia esecutiva del titolo; il giudice dell’esecuzione (art. 624 c.p.c.) la sola esecuzione. La distinzione ha una sua logica astratta, perché il giudice dell’opposizione a precetto è estraneo all’esecuzione almeno quanto il giudice dell’esecuzione è estraneo al titolo esecutivo, che guarda dall’esterno. In concreto, però, questa frantumazione di competenze finisce per complicare i problemi.
Il più vistoso dei quali, forse, è dato proprio dal fatto che la contestazione dell’azione esecutiva può anche non riguardare direttamente il titolo (pur presupponendo la sua esistenza: non c’è esecuzione senza titolo); tuttavia, il provvedimento interinale che può ottenersi, in sede di opposizione a precetto, incide proprio e soltanto sul titolo esecutivo. È questo un dato letterale che difficilmente può essere eluso.
5.-Se quello descritto sia davvero un sistema e se siano concepibili inibitorie e sospensioni “sui generis”. Sarebbe importante stabilire se quello delle inibitorie e delle sospensioni sia un fenomeno sostanzialmente unitario, oppure se ciascuna previsione risponda a una sua logica non comune alle altre. La prima soluzione è quella più impegnativa per l’interprete; la seconda è quella che lascia l’interprete libero di ricostruire a suo libito le caratteristiche di ogni singola figura. Vedremo subito che la Cassazione (SS.UU. n. 19889/2019) ha scelto la seconda soluzione a proposito dell’opposizione a precetto, parlando di sui generis e “microsistema”.
Va peraltro precisato – ci verrà utile per l’esame della n. 26285/2019 – che l’art. 623 c.p.c., allorché cita il «giudice davanti al quale è impugnato il titolo esecutivo» intende non il giudice davanti al quale comunque si discuta del titolo bensì esclusivamente quello che può modificarlo, conoscendolo per così dire dall’interno: vale a dire il giudice dell’impugnazione o dell’opposizione a decreto ingiuntivo. Per questa ragione, l’art. 623 è sempre stato giudicato estraneo all’opposizione a precetto e ciò ha costretto il legislatore del 2005 a intervenire sull’art. 615, comma 1. Questa premessa è essenziale per valutare la portata della sentenza, oggetto di questa sessione di studio.
6.-Il problema del reclamo avverso il provvedimento inibitorio pronunciato dal giudice dell’opposizione a precetto. Tra le tante cose che il legislatore del 2005 (e quello successivo) ha omesso di regolare, c’è l’istituto del reclamo avverso il provvedimento sospensivo del giudice dell’opposizione a precetto. La questione ha diviso i tribunali, sino a che le SS.UU. con sentenza n. 19889/2019 non hanno affermato la regola della reclamabilità. Le SS.UU. hanno somministrato una lunga e articolata motivazione, non sempre limpida, volta a dimostrare che il potere (definito cautelare[3]) del giudice dell’opposizione a precetto è esercitato in un contesto sui generis, non inserito nel sistema delle inibitorie e delle sospensioni quale delineato dalle tante norme del c.p.c. che si occupano dell’esecutorietà della sentenza. Di un simile inquadramento “anti-sistematico” non si avvertiva il bisogno: infatti, la precedente Cass. n. 11243/2010, nell’ammettere il reclamo avverso il provvedimento sospensivo pronunciato nell’ambito dell’opposizione agli atti esecutivi (altra dimenticanza del legislatore), non ha avuto bisogno di far capo a “sotto- o micro-sistemi”. Sta di fatto che le SS.UU. si sono impegnate in una serie di dubbie affermazioni: (a) il provvedimento dell’art. 615, comma 1, non è un’inibitoria e non è assimilabile a quella dell’art. 283; (b) ha natura cautelare, ancorché sui generis, laddove la giurisprudenza ha sempre negato la natura cautelare delle inibitorie e così l’applicabilità del procedimento cautelare uniforme; (c) l’opposizione riguarda il diritto di procedere all’esecuzione e dunque interessa più il precetto, o altrimenti la domanda esecutiva, che non il titolo esecutivo in sé; (d) la garanzia del reclamo viene direttamente dall’art. 669 terdecies c.p.c., ma nel contempo viene esclusa l’applicabilità delle altre norme del procedimento cautelare uniforme (in primis revoca e modifica).
Possiamo parlare di una tecnica del patchwork, in cui la soluzione viene dall’assemblaggio di varie “pezze” e in cui il risultato finale – per usare un’espressione francese – non somiglia a niente.
7.-Orientamenti nomopoietici della Cassazione. Alla sentenza delle SS.UU. ha fatto seguito, pochi mesi dopo, la sentenza della sez. III n. 26285/2019, che è l’oggetto precipuo dei lavori odierni.
Le due sentenze sono in realtà un unicum. E se la SS.UU. n. 19889/2019, pur criticabile sotto vari aspetti, giunge a soluzioni che possiamo dire condivise dalla maggioranza della giurisprudenza di merito, la sentenza n. 26285 presenta soluzioni del tutto innovative, che esibiscono vistosi problemi di compatibilità col diritto vigente. Se la sentenza n. 19889 sembra riconoscere una garanzia aggiuntiva, la sentenza n. 26285 sottrae poteri alle parti e allo stesso giudice dell’esecuzione.
La sentenza n. 26285 ha inteso chiarire «come si ripartisce il potere di adottare provvedimenti interinali di carattere sospensivo» (§ 9.1.) tra i giudici indicati rispettivamente nel 1° e nel 2° comma dell’art. 615 c.p.c.; sulla premessa che «la sospensione disposta dal giudice dell’esecuzione (è) strutturalmente diversa da quella disciplinata dall’art. 615, 1° comma, c.p.c.» (§ 9.1.), la differenza si fonderebbe sull’art. 623 c.p.c., laddove si contrappone una sospensione «esterna», pronunciata dal «giudice davanti al quale è impugnato il titolo esecutivo» e una sospensione «interna», che è quella pronunciata dal giudice dell’esecuzione.
Tuttavia, come abbiamo già detto, l’art. 623, nella lettura tradizionalmente recepita e mai ridiscussa, non si occupa del giudice dell’opposizione a precetto, bensì esclusivamente del giudice dell’impugnazione (o dell’opposizione a decreto ingiuntivo); inoltre – e soprattutto – mentre il giudice dell’impugnazione può incidere, con effetti diversi, sia sull’efficacia esecutiva del titolo (inibitoria) sia sull’esecuzione in atto (sospensione), questo secondo potere è formalmente sottratto al giudice dell’opposizione a precetto, titolare soltanto del primo. La Sezione III finirà, dopo un tortuoso ragionamento, per affermare il contrario, palesemente contro la lettera della legge.
Vero quindi che la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo è di tipo «esterno», secondo una consolidata classificazione della dottrina; il problema è se essa – prevista dall’art. 615, comma 1, ovvero dall’art. 623 c.p.c. – risponda a un modello unitario e richieda, per poter essere efficace nell’esecuzione in atto, un provvedimento ricognitivo del g.e. In un primo momento (§ 9.1., in fine), la Corte sembra dare per scontato che il g.e. debba «dichiarare» – nel senso d’una mera «presa d’atto» – la sospensione disposta dal giudice dell’opposizione a precetto così come avviene, ex art. 623 c.p.c., per l’inibitoria del giudice dell’impugnazione; ma nello sviluppo della non breve motivazione giungerà ad affermare che il provvedimento ex art. 615, 1° comma, può autonomamente sospendere l’esecuzione: perché, in sostanza, esso è un omologo di quello che il g.e. può pronunciare a norma dell’art. 624 c.p.c. Risultato, anch’esso, contrastante con la lettera delle norme implicate.
8.-Analisi della sentenza della Sez. III n. 26285/2019. Il passaggio argomentativo centrale è il seguente (§ 9.3.): giacché nessuna norma circoscrive nel tempo il potere del giudice «innanzi al quale è impugnato il titolo esecutivo» (parliamo dunque sempre e soltanto del giudice dell’impugnazione), «è certo che la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo, anche se disposta dopo che sia già stato eseguito il pignoramento, determina parimenti gli effetti sospensivi del processo esecutivo previsti dall’art. 626 c.p.c., che infatti parla genericamente di “processo esecutivo sospeso” senza distinguere a seconda che la sospensione sia stata pronunciata ai sensi degli artt. 623 o 624 c.p.c.». Pertanto, continua la Corte, se il provvedimento del comma 1 dell’art. 615 è inquadrabile quale sospensione «esterna», non soltanto il potere del giudice non è temporalmente circoscritto e perdura anche se nelle more il pignoramento venga compiuto, ma gli effetti del provvedimento inibitorio «non differiranno, nella sostanza, dalla sospensione ex art. 624 c.p.c.: i beni staggiti resteranno soggetti al vincolo di indisponibilità, ma non potranno compiersi ulteriori atti esecutivi» (§ 9.3., in fine).
La Corte omette di considerare che, se il provvedimento del giudice dell’impugnazione può autonomamente sospendere l’esecuzione in atto (art. 623 c.p.c.), quella del giudice dell’opposizione a precetto, che non è una sospensione dell’esecuzione, è sempre, vista dalla prospettiva del g.e., una fattispecie di sopravvenuta carenza dell’efficacia del titolo esecutivo che chiama un provvedimento dello stesso g.e. che incida sull’esecuzione in atto: che sarà pure meramente ricognitivo, non fondato sull’apprezzamento di “gravi motivi” e così non reclamabile, ma che certo non potrà essere del tutto soppresso, se il risultato da raggiungere sarà quello della sospensione del processo esecutivo.
In tal modo, l’art. 615, comma 1, è stato sovrapposto all’art. 623 e allo stesso art. 283, nonostante la chiara diversità delle formule rispettivamente impiegate.
9.-Rapporto tra potere inibitorio del giudice dell’opposizione a precetto e potere sospensivo del giudice dell’esecuzione. Il risultato sa di posticcio: i poteri del giudice dell’impugnazione e quelli del giudice dell’opposizione a precetto vengono totalmente identificati, al punto che, nel § 9.4., potrà affermarsi che «la sospensione del processo esecutivo – che sia disposta ai sensi tanto dell’art. 615, 1° comma, c.p.c., quanto dell’art. 624 c.p.c. – ha natura cautelare (quantomeno in senso lato) tant’è che essa è in entrambi i casi reclamabile ex art. 669-terdecies c.p.c.». Ma non si aggiunge che nel caso dell’art. 624 c’è un’espressa previsione di legge, mentre nel caso dell’art. 615, comma 1, questa espressa previsione manca.
Quando poi si giunge a scrutinare il rapporto tra il potere inibitorio del giudice dell’opposizione a precetto e il potere sospensivo del g.e., sembrerà quasi naturale affermare (§ 9.4.) che «il provvedimento di sospensione disposto ex art. 615, 1° comma, c.p.c. comprende in sé anche gli effetti della sospensione che il giudice dell’esecuzione potrebbe pronunciare ex art. 624 c.p.c.: ed allora, l’opponente che abbia già richiesto la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo al giudice dell’opposizione pre-esecutiva non può rivolgersi per le medesime ragioni anche al giudice dell’esecuzione». E non sorprenderà neppure l’affermazione successiva, secondo cui il suo potere è consumato, «a prescindere dalla circostanza che sull’istanza si sia già provveduto oppure no».
Il potere processuale – nulla conta che inibitoria e sospensione siano oggettivamente due istituti diversi – si consuma anche se il giudice dell’opposizione a precetto ometta di provvedere (come molti giudici fanno, una volta iniziata l’esecuzione) e pertanto il g.e., richiesto della sospensione, dovrà preliminarmente verificare (i) se sia stata proposta un’opposizione a precetto fondata sulle medesime ragioni e (ii) se sia stato richiesto in quella sede il provvedimento inibitorio del comma 1 dell’art. 615: circostanze in presenza delle quali i suoi poteri sospensivi, ex art. 624 c.p.c., risulterebbero irrimediabilmente elisi. Qualora, invece, l’istanza di inibitoria non fosse stata presentata al giudice dell’opposizione a precetto riemergerebbe (o non sarebbe consumato) il potere sospensivo del g.e., previa introduzione di un’opposizione all’esecuzione: con la «particolarità» che la competenza del g.e. sarebbe limitata alla sola sospensione (fase sommaria), mentre il giudizio di merito continuerebbe dinanzi al giudice dell’opposizione a precetto: «è come se con il ricorso ex art. 615, 2° comma, c.p.c. si rivolgesse un’istanza cautelare in corso di causa ad un giudice dotato, ai soli fini sospensivi, di una competenza funzionale mutuamente alternativa a quella del giudice del merito» (§ 9.5.).
10.-Critica della sentenza n. 26285/2019. I principali punti critici della sentenza ci sembrano i seguenti:
a) essa non parla mai di inibitoria e, in generale, dei poteri del giudice dell’impugnazione (il cui prototipo è nell’art. 283 c.p.c.), che pure sono presupposti nell’art. 623 c.p.c., norma dalla quale l’intero ragionamento muove; essa, cioè, non dà mai conto del perché il giudice dell’impugnazione sia dotato (i) di un potere inibitorio che incide sul titolo esecutivo, vòlto a prevenire l’inizio in senso tecnico dell’esecuzione; (ii) di un potere che quest’ultima sospende. In conseguenza, la sentenza non dà mai conto delle differenze che si registrano nei due poteri che l’art. 283 tiene formalmente distinti;
b) la sentenza non si interroga sul perché il giudice dell’opposizione a precetto risulti dotato soltanto del potere inibitorio, e non anche di quello sospensivo (e, specularmente, del perché il g.e. sia dotato del solo potere sospensivo e non anche di quello inibitorio: cioè del perché il g.e. non possa occuparsi del titolo esecutivo), confondendo l’uno con l’altro[4];
c) non avendo valorizzato le differenze tra inibitoria e sospensione, la sentenza, quando parla – a proposito del giudice dell’opposizione a precetto, che sappiamo non essere considerato dalla norma – di sospensione «esterna» richiamando l’art. 623 c.p.c., pone sullo stesso piano il potere inibitorio e quello sospensivo, che pure hanno caratteristiche e oggetti distinti e che richiamano una diversa attività conformativa del giudice dell’esecuzione;
d) di qui quella confusione di riferimenti che fa dire alla Corte che la sospensione «esterna» ha un regime unitario che deriva dall’art. 623 c.p.c., laddove il potere del giudice dell’opposizione a precetto è tutto e soltanto nell’art. 615, 1° comma: la cui stessa esistenza si giustifica – tutto al contrario – proprio sul riflesso che la norma è da sempre considerata estranea all’àmbito di applicazione dell’art. 623;
e) la sentenza afferma, correttamente, che il pignoramento sopravvenuto (cioè l’inizio dell’esecuzione) non fa venir meno il potere sospensivo del giudice dell’opposizione a precetto, che è potere sul titolo; ma al tempo stesso ignora che quel potere – anche e proprio in ragione del richiamato art. 5 c.p.c. (§ 9.3.) – non può convertirsi in potere di sospendere l’esecuzione: se non altro perché l’art. 623 c.p.c. quel potere assegna, alternativamente ma esclusivamente, al giudice dell’impugnazione e al giudice dell’esecuzione, non anche al giudice dell’opposizione a precetto; e inoltre perché l’art. 5 c.p.c. può perpetuare una competenza che esiste, ma non può creare o trasformare competenze che non esistono;
f) la sentenza dà per scontato che i provvedimenti inibitori, una volta l’esecuzione iniziata, si convertano automaticamente in sospensivi. Ma così certamente non è: la prassi comunemente seguìta richiede un’attività ricognitiva del g.e. che prende atto della sospensione «esterna», cioè della sopravvenuta carenza di efficacia del titolo esecutivo, ed è proprio tale attività che arresta l’esecuzione (perché l’inibitoria sul titolo un siffatto potere non ha).
11.-La consumazione e la preclusione sospensiva: istituti creati ex nihilo dalla Cassazione e apertamente confliggenti con la disciplina positiva. Una volta posti sullo stesso piano il potere inibitorio e quello sospensivo, la Corte si avventura – ecco il punto indubbiamente più critico – sullo scivoloso terreno della «continenza cautelare» (§ 9.4.) spingendosi ad affermare che la semplice proposizione dell’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo consuma il potere di richiedere al g.e. la sospensione dell’esecuzione (che è cosa diversa) e questa affermazione, di per sé inedita e sorprendente, funge da premessa per una ricostruzione dei rapporti tra opposizione a precetto e opposizione all’esecuzione che non sembra sorretta da alcuna norma né del Libro I, né del Libro III.
Possiamo anzi dire che contrasta in modo palese col diritto vigente: al punto che il mancato esercizio di un potere non previsto dalla legge (il reclamo avverso il provvedimento ex art. 615, comma 1) consuma il solo potere previsto dalla legge (il reclamo avverso il provvedimento sospensivo ex art. 624 c.p.c.) e, prima ancora, la mera richiesta di inibitoria (anche se non seguita da alcun provvedimento) consuma il potere di richiedere la sospensione al g.e.: il quale, pur avendo la direzione del processo esecutivo, si trova privato del fondamentale strumento di raccordo con la contestazione dell’azione esecutiva. Ancora una volta, in assenza di un’esplicita previsione di legge. Questa conseguenza è davvero inaccettabile, e lo sarebbe, credo, anche se la regola della competenza «mutuamente esclusiva» fosse prevista per legge: perché nessun g.e., a fronte di una fondata contestazione e magari dinanzi alla vendita imminente, può essere privato del potere di sospendere la procedura. Nessun g.e. può accettare di essere privato di un simile potere: soluzione che abrogherebbe l’art. 624 c.p.c. e che tradisce lo spirito dello stesso art. 623 c.p.c., che indica come residuale proprio il potere sospensivo del g.e.
12.-L’art. 363 c.p.c.: una norma da rivedere con urgenza. Abbiamo detto che le sentenze n. 19889 e n. 26285/2019 vanno lette come un tutto unitario. Hanno anche una genesi comune, trattandosi di pronunce emesse ex art. 363 c.p.c.: la prima a seguito di una richiesta del P.G., la seconda in occasione di un ricorso dichiarato inammissibile per tardività, ma che ha dato alla Corte l’occasione di pronunciare d’ufficio “nell’interesse della legge” ben otto principi di diritto: due in relazione al ricorso non deciso, sei a seguito di «un’ulteriore riflessione» (§ 8.), che ha interessato appunto la c.d. “preclusione sospensiva” (istituto creato ex nihilo dalla Cassazione).
Il fenomeno non può non indurre a riflettere sulla legittimità dell’utilizzo del potere ex art. 363 c.p.c.[5], che non dovrebbe estendersi ad aspetti in alcun modo transitati nel giudizio e che vengano identificati dalla Corte, in contraddittorio con alcuno, seguendo uno schema simile a quello che la Consulta adotta allorché dichiara le illegittimità c.d. “consequenziali”: ma autorizzata da un’espressa previsione di legge[6].
Inoltre, la lettura dei sei principi di diritto dedicati alla “preclusione sospensiva”, concepiti quasi come autonome norme (una sorta di “foglio di allungamento” del codice), mostra che la Cassazione non ha nel caso assicurato «l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge» (art. 65 ord. giud.) bensì ha integrato la disciplina positiva con previsioni generali e astratte in alcun modo collegate con le norme che ha scrutinato: in nessuna norma si parla infatti di «competenza mutuamente esclusiva» tra giudice dell’opposizione a precetto e giudice dell’esecuzione, e ciò per l’ottima ragione che tali giudici intervengono in fasi processuali diverse esercitando poteri diversi: l’uno sul titolo, l’altro sul processo. In nessuna norma è previsto che, pendente l’opposizione a precetto, il g.e. della fase sommaria non debba assegnare il termine di cui all’art. 616 c.p.c., dovendosi limitare a provvedere sulla sospensione soltanto se l’inibitoria non sia già stata richiesta al giudice dell’opposizione a precetto. In nessuna norma si prevede che l’istanza di inibitoria proposta al giudice dell’opposizione a precetto consumi il potere di richiedere al g.e. la sospensione dell’esecuzione. Senza considerare che la peculiare lettura della norma che regge tutta la fragile impalcatura – l’art. 623 c.p.c. – contrasta frontalmente con orientamenti consolidati, mai messi in discussione.
Ove volessimo collegare le nuove regole create dalla Corte col diritto dell’esecuzione, dovremmo prendere atto che esse non possono essere riferite ad alcuna norma, ovvero che sono espressione di una lettura innovativa (e generalmente non condivisa) di norme che da sempre dicono altro: lettura che la Cassazione ha realizzato in totale solitudine, senza alcun tipo di contraddittorio culturale o anche processuale, di dibattiti preparatori e soprattutto senza alcun riferimento col caso che avrebbe dovuto decidere. Il risultato ne ressemble a rien, è cioè un’elaborazione molto libera, che non ha punti di contatto con la disciplina codicistica.
Siamo dinanzi, insomma, a un precedente fortemente negativo, che la Corte dovrebbe sforzarsi di mai più replicare. Ove dovesse essere replicato, ci si dovrebbe porre urgentemente il problema della riforma dell’art. 363 c.p.c. (per questo aspetto, in vigore dal 2006), perché la Corte di cassazione è un giudice, non un legislatore di complemento né un consulente giuridico né un libero dispensatore di regole di comportamento indirizzate ai pratici. La Corte ha il compito di affermare il principio di diritto quando decide il ricorso (art. 384, comma 1, c.p.c.) e la portata dell’art. 363, forse mal valutata dal legislatore delegato del 2006, deve intendersi del tutto eccezionale perché, qui, non c’è decisione del ricorso.
L’abnorme applicazione dell’art. 363 è peraltro frutto dell’attuale tendenza della Corte, manifestatasi per la prima volta con la notissima sentenza che, a norma invariata, ha sostanzialmente riscritto l’art. 37 c.p.c., a correggere la norma scritta secondo una sua visione “evolutiva” del diritto, anche processuale; ma si tratta di una tendenza che manifesta aspetti eversivi, che l’art. 65 ord. giud. in alcun modo giustifica.
Fortunatamente, le sentenze della Cassazione non hanno gli stessi effetti di quelle della Corte costituzionale, e dunque i giudici e la comunità dei giuristi sono tenuti a considerarle col massimo rispetto, senza però esserne vincolati. E io credo che la maggior parte dei giudici dell’esecuzione italiani non si sentano vincolati da una pronuncia “a sorpresa”, su argomenti mai seriamente discussi, che ha per effetto di privarli dei loro poteri di direzione del procedimento; e ciò grazie a interpretazioni oltremodo dubbie delle norme vigenti ovvero a libere ricostruzioni che, al di là della loro plausibilità, appaiono definitivamente distaccate dal dato positivo.
[1] È quanto opinato dalla SS.UU. n. 19889/2019, secondo cui «oggetto dell’opposizione pre-esecutiva è la contestazione del creditore di agire in executivis: pertanto, oggetto dell’azione non è il titolo esecutivo, il quale, se giudiziale, è intangibile in quanto tale, mentre, se stragiudiziale, si risolve in un atto di parte insuscettibile di impugnazione in senso tecnico». Entrambe le affermazioni paiono assai dubbie, ma non possono scrutinarsi qui.
[2] È necessaria sul punto una piccola precisazione. L’art. 283 utilizza la disgiuntiva “o”, il che indurrebbe a credere che prima dell’inizio dell’esecuzione vi sarebbe spazio per l’inibitoria, ad esecuzione già iniziata per la sospensione. In realtà, il provvedimento sospensivo della Corte d’appello compendia i due aspetti, perché da un lato occorre privare il titolo impugnato della sua efficacia esecutiva, dall’altro lato occorre sospendere l’esecuzione, se già iniziata. È appena il caso di precisare che la caducazione degli atti esecutivi è un fenomeno estraneo all’inibitoria, perché presuppone una pronuncia di merito (riforma o cassazione) di caducazione del titolo (art. 336, comma 2, c.p.c.).
[3] Il punto rimane controverso, perché i “gravi motivi”, presupposto della inibitoria come della sospensione, riguardano esclusivamente il fumus boni juris, non anche il periculum in mora che nell’esecuzione forzata non è prospettabile.
[4] Accettando la logica della sentenza, dovrebbe ritenersi che anche il provvedimento del g.e., che riguarda la sola esecuzione, non potrebbe che estendersi al titolo, sospendendone l’efficacia; conclusione contrastante con l’opinione consolidata e mai ridiscussa, che rinviene un solido fondamento testuale nell’art. 624 c.p.c. e nello stesso art. 623 c.p.c.
[5] Si consideri che la stessa Cassazione (sent. 11 gennaio 2011, n. 404) s’è posta il problema di individuare un limite per l’iniziativa del P.G., opinando che non si può «trarre occasione o spunto da una causa (magari ben decisa) per sollecitare l’interpretazione della Corte su questioni astratte, o, in ogni caso, non pertinenti alla specifica vertenza». L’art. 363 non consente infatti «interventi di tipo, per così dire, preventivo o addirittura esplorativo», perché il P.G. può attivarsi «soltanto nel caso di pronuncia contraria alla legge per denunciarne l’errore e chiedere alla Corte di ristabilire l’ordine, chiarendo il reale significato e l’esatta portata della normativa di riferimento».
[6] Si tratta dell’art. 27, della legge n. 87/1953: la Corte costituzionale, «quando accoglie una istanza o un ricorso relativo a questione di legittimità costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge, dichiara, nei limiti dell’impugnazione, quali sono le disposizioni legislative illegittime» e, inoltre, «dichiara, altresì, quali sono le altre disposizioni legislative, la cui illegittimità deriva come conseguenza dalla decisione adottata».
(*) Relazione presentata al convegno nazionale organizzato dal Cespec a San Servolo – Venezia (24, 25 e 26 settembre 2021) su Le fasi delle procedure immobiliari: criticità e questioni controverse nella giurisprudenza di merito e di legittimità, nell’ambito della sessione su Le opposizioni ex art. 615 c. 1 e c. 2 e le preclusioni sospensive. L’origine dello scritto giustifica l’assenza di note di riferimenti.
Green pass e protezione dei dati personali (nota a Cons. Stato, Sezione Terza, 17 09 2021 n. 5130)
Lamentando la lesione del loro diritto alla riservatezza sanitaria, il rischio di discriminazioni nello svolgimento di attività condizionate al possesso della certificazione verde, nonché il pregiudizio economico derivante dalla necessità di sottoporsi a frequenti tamponi, svariati ricorrenti impugnano innanzi al giudice amministrativo il DPCM 17 giugno 2021, recante le disposizioni attuative dell’articolo 9, comma 10, del decreto legge 22 aprile 2021 n. 52, relative al sistema di prevenzione, contenimento e controllo sanitario dell’infezione SARS-CoV-2, mediante l’impiego della certificazione verde COVID-19 (cd. “Green pass”).
Chiedendo l’integrale annullamento, previa sospensione, del DPCM, i ricorrenti assumono in buona sostanza la prevalenza dell’interesse alla protezione dei dati personali sanitari rispetto all’interesse pubblico perseguito dal provvedimento impugnato, nel duplice presupposto che la riservatezza sia un diritto fondamentale dell’individuo e che i dati sanitari non possano essere trattati dall’amministrazione senza l’esplicito consenso dell’interessato.
Sotto il profilo del contemperamento dei contrapposti interessi, anche se operato nei soli presupposti e limiti del giudizio cautelare, la pronuncia si segnala per ritenere meramente potenziale e comunque recessivo “il rischio di compromissione della sicurezza nel trattamento dei dati sensibili connessi alla implementazione del cd. Green pass”, rispetto a quello di sicuro “depotenziamento degli strumenti (quali, appunto, quello incentrato sull’utilizzo del cd. Green pass) destinati ad operare in modo coordinato, anche al fine di garantirne l’efficacia sul piano della regolazione delle interazioni sociali (con particolare riguardo ai contatti tra soggetti vaccinati, o altrimenti immunizzati, e soggetti non vaccinati), con la campagna vaccinale in corso”, con conseguente pregiudizio dell’esigenza primaria di salvaguardia della salute dei cittadini.
In tema su questa Rivista v. anche , F. Francario, Protezione dati personali e pubblica amministrazione; le prime pronunce cautelari del TAR Lazio sull’obbligo del green pass per il personale scolastico; Perché la Costituzione impone, nella presente congiuntura, di introdurre l’obbligo della vaccinazione a tappeto contro il Covid-19 di Antonio Ruggeri; Del green pass, delle reazioni avverse ai vaccini e di altre cianfrusaglie pandemiche come problemi biogiuridici: elementi per una riflessione di Aldo Rocco Vitale; note sul decreto legge 105/2021 che estende il green pass a attività e servizi della vita quotidiana di Giuliano Scarselli
Le misure patrimoniali penali e la liquidazione giudiziale nel codice della crisi. L’insostenibile leggerezza dei diritti dei creditori di fronte alle ragioni della prevenzione penale*.
di Paola Filippi
Sommario: 1. Liquidazione giudiziale, misure di prevenzione e misure cautelari penali. La direttiva della legge delega n. 155 del 2017 in materia penale. - 2. Il Titolo VIII “Liquidazione giudiziale e misure cautelari penali” del Codice della crisi e dell’insolvenza. - 3. Gli interessi sottesi alla liquidazione giudiziale e gli interessi sottesi alla misura penale. - 3.1. I soggetti che subiscono gli effetti ablativi della misura patrimoniale penale sul patrimonio dell’imprenditore commerciale insolvente. - 3.2. Gli effetti dell’adozione delle misure cautelari penali reali. - 3.3. L’obiettivo del salvataggio dell’azienda. - 3.4. La diseconomicità e l’inefficienza della prevalenza della misura patrimoniale penale sulla liquidazione giudiziale senza limiti temporali o di fase. - 4. Il coordinamento del fallimento e le misure patrimoniali penali nella giurisprudenza di legittimità. - 5. Le ragioni pubblicistiche sottese alla prevalenza della misura patrimoniale finalizzata alla confisca. - 5.1. La falcidia dei crediti - 6. Profili di criticità dell’art. 317 del Codice della crisi e dell’insolvenza. - 6.1. L’incomprensibile dissonanza dei commi quarto e quinto dell’articolo 63 d.lgs. n. 159/2011, un refuso? - 7. L’articolo 318. La prevalenza della liquidazione giudiziale, aperta ai sensi dell'art. 49 CCI, sul sequestro impeditivo. - 7.2. Il ruolo del curatore. - 8. Il sequestro ai danni dell’ente ex art. 53 d.lgs. n. 231/2001. - 9. La legittimazione del curatore. - 10. Conclusioni.
1. Liquidazione giudiziale, misure di prevenzione e misure cautelari penali. La direttiva della legge delega n. 155 del 2017 in materia penale.
L’art. 13 della legge n. 155/2017, rubricato “Rapporti tra liquidazione giudiziale e misure penali”, ha conferito al Governo la delega a adottare “disposizioni di coordinamento con il codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, stabilendo condizioni e criteri di prevalenza, rispetto alla gestione concorsuale, delle misure cautelari adottate in sede penale, anteriormente o successivamente alla dichiarazione di insolvenza”[1]. Nonché ad “adottare disposizioni di coordinamento con la disciplina di cui al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, e in particolare “con le misure cautelari previste dalla disciplina sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, nel rispetto del principio di prevalenza del regime concorsuale, salvo che ricorrano ragioni di preminente tutela di interessi di carattere penale”.
Le direttive di cui all’art. 13, con quella di cui all’art. 4 lett. h) (contenente delega a prevedere una causa di non punibilità per il delitto di bancarotta semplice e un’attenuante ad effetto speciale quali misure premiali per il tempestivo accesso del debitore alle procedure di composizione assistita) sono le sole direttive della legge delega che hanno riguardato la materia penale.
L’art. 2 lett. a), con riferimento alla materia fallimentare penale ha previsto il coordinamento delle disposizioni penali con sostituzione del termine fallimento con il termine liquidazione giudiziale.
Ciò detto, sono stati inseriti nel codice della crisi, attraverso mera trasposizione, le fattispecie di reato del sovraindebitato e dei componenti degli organismi di composizione della crisi, introdotti dall’articolo 16 legge 10.1.2012 n. 3 (recante disposizioni in materia di usura e di estorsione, nonché di composizione delle crisi da sovraindebitamento), successivamente modificato dal decreto legge n.179/2012 convertito in legge n. 221/2012.
Dette fattispecie ora trovano la loro collocazione all’articolo 344, ai commi primo e terzo, del codice della crisi. In questo contesto – senza specifica delega - era stato introdotto l’art. 345, - estensione dei reati propri del falso attestatore, come descritti dall’art. 236 bis l.fall.- ai compenti dell’OCRI, (ndr articolo abrogato con d.lgs.n. 83/22) In assenza di delega, le fattispecie di cui all’art. 236 bis legge fallimentare, inserite all’ articolo 342 del codice della crisi sono state modificate.
L’articolato licenziato dalla commissione Rordorf nel dicembre del 2017 è stato ridotto con eliminazione degli articoli che realizzavano nel dettaglio il coordinamento tra le misure di prevenzione, le misure penali e la liquidazione giudiziale e quelli che introducevano disposizioni di coordinamento tra le procedure concorsuali e la disciplina della responsabilità dell’ente in attuazione della direttiva di cui all’art. 13 n. 2.
In sintesi, da un lato, ci sono stati eccessi di delega; dall’altro - nonostante il ristretto margine di riforma della materia penale - la delega, alle fine, non è stata esercitata in tutta la sua estensione.
2. Il Titolo VIII “Liquidazione giudiziale e misure cautelari penali” del Codice della crisi e dell’insolvenza.
Il Titolo VIII, “Liquidazione giudiziale e misure cautelari penali”, contiene quattro articoli (gli articoli 317, 318, 319 e 320).
Due soltanto coordinano la liquidazione giudiziale, aperta ai sensi dell'art. 49 CCI, con le misure di prevenzione e le misure cautelari adottate in sede penale: l’articolo 317 e l’articolo 318.
L’articolo 319, rubricato sequestro conservativo, si riferisce all’articolo 316 cod. proc. pen. Trattasi di misura cautelare civile, espressione della previsione di cui all’art. 150 CCI – che riproduce l’art. 51 legge fall. – contenente divieto all’esericizio o alla prosecuzione di azioni esecutive e cautelari individuali, divieto compendiato nella previsione secondo la quale “Salvo diversa disposizione della legge, dal giorno della dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale nessuna azione individuale esecutiva o cautelare anche per crediti maturati durante la liquidazione giudiziale, può essere iniziata o proseguita sui beni compresi nella procedura” [2] (v. par. 6).
L’articolo 320, inserito nel medesimo titolo, codifica il prinicipio della legittimazione del curatore a ricorrere [3], sul presupposto che il curatore agisce nell’interesse della massa dei creditori, contro i provvedimenti di sequestro, principio costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità [4], sino alla sentenza dalle Sezioni unite Uniland S.p.a., 2014 [5] ma riconfermato dalle Sezioni Unite, Mantova Petroli S.r.l. in liquidazione, 2019.
3. Gli interessi sottesi alla liquidazione giudiziale e gli interessi sottesi alla misura penale.
Ogni considerazione in ordine al coordinamento tra misure patrimoniali penali e procedure esecutive concorsuali (fallimento, liquidazione giudiziale secondo il codice della crisi) e, la scelta della prevalenza non può prescindere dalla preventiva risposta a tre domande:
- chi subisce gli effetti della misura patrimoniale penale?
- qual è coordinamento che implementa le chances di salvataggio dei beni produttivi?
- qual è il criterio di prevalenza che meglio realizza il principio del giusto processo?
3.1. I soggetti che subiscono gli effetti ablativi della misura patrimoniale penale sul patrimonio dell’imprenditore commerciale insolvente.
Il combinato disposto degli articoli 150, 151 e 152 del codice della crisi e dell’insolvenza, ha confermato il principio secondo il quale la “liquidazione giudiziale apre il concorso dei creditori sul patrimonio del debitore e che, salvo diversa disposizione della legge, dal giorno della dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale nessuna azione individuale esecutiva o cautelare anche per crediti maturati durante la liquidazione giudiziale, può essere iniziata o proseguita sui beni compresi nella procedura”.
Trattasi di espressione del principio generale di cui all’articolo 2740 del codice civile che assegna ai beni del debitore l’inderogabile destinazione di patrimonio a garanzia delle pretese creditorie, “il debitore risponde dell’adempimento con tutti i suoi beni presenti e futuri”.
Va poi considerato che il patrimonio del debitore, in quanto garanzia dei creditori, è insensibile alla provenienza.
In applicazione dell’art. 2740 del codice civile entrano a far parte del patrimonio dell’imprenditore anche i beni di provenienza illecita[6].
A seguito dell’apertura della liquidazione giudiziale l’intero patrimonio dell’imprenditore commerciale è dunque sottoposto a esecuzione ai fini della soddisfazione dei creditori, che deve realizzarsi nel rispetto della par condicio creditorum.
È trasposto all’art 152 CCI l’art. 52 della legge fallimentare secondo cui: “ La liquidazione giudiziale apre il concorso dei creditori sul patrimonio del debitore. Ogni credito, anche se munito di diritto di prelazione o prededucibile, nonché ogni diritto reale o personale, mobiliare o immobiliare, deve essere accertato secondo le norme stabilite dal capo III del presente titolo, salvo diverse disposizioni della legge”.
Il credito ex delictu, è bene sottolinearlo, non è destinatario di rango speciale ma è un credito chirografario. Questo è un elemento da tener presente quando si considera il credito della persona offesa, al pari del credito dell’ente nei casi di responsabilità amministrativa ex d.lgs. 231/2001.
Lo Stato, con riferimento ai crediti dipendenti da reato gode di privilegio mobiliare ex art. 2768 c.c. e, ex art. 27 della legge n. 231/2001, con riferimento all’ente, così come mero privilegio mobiliare è riconosciuto ai crediti erariali.
Tanto evidenzia l’antinomia tra disposizioni penali in tema di prevalenza della misura patrimoniale penale e il principio della par condicio creditorum con il suo regime dei privilegi.
La scelta del legislatore, confermata dal codice della crisi, è stata quella della parità, salvo i privilegi richiamati, del creditore privato, rispetto a quello pubblico, scelta coerente con l’obiettivo che il danno dell’insolvenza sia solidarizzato anche in presenza dello Stato.
I creditori concorsuali sono in maggioranza imprenditori commerciali e dunque la solidarizzazione, ripartendo il danno, avvantaggia l’imprenditoria nazionale e con essa l’intera economia nazionale.
3.2. Gli effetti dell’adozione delle misure cautelari penali reali.
In caso di apertura di procedura liquidatoria concorsuale – sia che la misura cautelare sia disposta prima dell’apertura sia che venga disposta dopo – gli effetti si riverberano non sugli interessi patrimoniali del debitore, che con l’esecuzione concorsuale viene forzosamente spossessato dei suoi beni (v. art. 42 legge fall. e 152 CCI), bensì sugli interessi patrimoniali dei creditori.
3.3. L’obiettivo del salvataggio dell’azienda.
L’obiettivo precipuo del codice della crisi è quello del salvataggio dell’azienda e degli asset produttivi, obiettivo la cui realizzazione passa attraverso un sistema complesso che connota anche la procedura esecutiva liquidatoria.
Il recupero del patrimonio produttivo è difficilmente attuabile in sede penale, ad esempio attraverso il sequestro della prevenzione oppure ai sensi delle disposizioni di cui all’art. 104 bis disp. att. cod. proc., richiamato dall’art. 317 CCI, e ciò in ragione dei tempi irragionevolmente lunghi della liquidazione in sede penale, che inizia con la definitività della confisca.
È, d’altro canto, assolutamente fisiologica l’inattitudine del procedimento cautelare penale alla valorizzazione del patrimonio, e ciò in ragione della finalizzazione impeditiva e sanzionatoria della misura patrimoniale penale.
La confisca, nella quale si trasforma il sequestro all’esito del procedimento penale, si riferisce all’oggetto, senza distinzioni che tengano conto degli interessi patrimoniali di terzi.
La tutela dei creditori concorsuali è questione che, in sede penale, si presenta in via eventuale ed è trattata solo in via incidentale.
Non si teme di essere smentiti quando si afferma che nel procedimento penale la soddisfazione dei creditori costituisce un orpello collaterale e non è, come nella liquidazione giudiziale, l’obiettivo del procedimento.
Si pensi, ad esempio, ai casi della custodia sino alla vendita per confisca definitiva o, in ipotesi di assoluzione, alla restituzione, momento dal quale l’esecuzione concorsuale potrebbe, e dovrebbe, riprendere il suo corso.
Se si pone mente alle disposizioni di cui all’art. 213, comma 4, CCI, che regolano il programma di liquidazione, e alle disposizioni di cui all’art. 214 CCI, che regolano la vendita dell’azienda o i suoi rami o i beni o i rapporti in blocco, la risposta alle domanda “qual è coordinamento che implementa le chances di salvataggio dei beni produttivi?” è scontata.
3.4. La diseconomicità e l’inefficienza della prevalenza della misura patrimoniale penale sulla liquidazione giudiziale senza limiti temporali o di fase.
A prescindere dalla lunghezza dei tempi di soddisfazione dei creditori concorsuali, irragionevolmente lunghi se affidati ai tempi della misura penale, la prevalenza, senza limiti temporali e di fase, della misura patrimoniale penale sulla liquidazione giudiziale determina anche sotto il profilo dell’economicità dei mezzi processuali effetti aberranti.
Si pensi, ad esempio, al caso in cui – conclusa la fase di liquidazione e formalizzato il riparto, ovvero semplicemente prima della sottoscrizione dei mandati di pagamento in favore degli stremati creditori concorsuali – intervenga il sequestro penale; in ragione della prevalenza senza limiti di fase la misura patrimoniale penale determina non solo il congelamento delle somme liquidate al fine di soddisfare i creditori concorsuali ma anche la perdita delle spese sostenute da questi per il recupero del credito, con l’effetto dell’inutilità assoluta della dispendiosa attività compiuta in sede esecutiva concorsuale. Senza contare l’inutile dispendio di attività giurisdizionale svolta in sede concorsuale.
L’esempio appena citato non è un esempio astratto ma si riferisce al caso concreto sotteso alla massima secondo la quale “è legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di somme di denaro appartenenti alla società fallita e assegnate ai creditori con piano di riparto dichiarato esecutivo ma non ancora eseguito, in quanto il provvedimento del giudice delegato si limita ad accertare giudizialmente la misura dei crediti aventi diritto al riparto e ad ordinarne al curatore il pagamento, ma l'effetto traslativo del denaro appartenente alla società fallita si produce solo con la materiale "traditio" delle somme” (Sez. 4, Sentenza Sansone del 2019).
Il caso richiamato, che riguarda una procedura esecutiva concorsuale conclusa con creditori concorsuali prossimi alla soddisfazione, evoca il gioco dell’oca.
Tutto questo ha un costo che, attraverso il danno del singolo creditore, si riverbera sull’economia nazionale, e, attraverso l’inutilità ex post dell’esercizio della giurisdizione, sull’efficienza della giustizia e così, inevitabilmente, sulle scelte degli imprenditori europei in ordine alla dislocazione delle loro attività sul territorio dell’Unione.
Il percorso verso l’efficienza della risposta di giustizia alla quale l’Europa condiziona il recovery fund sembra assai arduo quando le scelte del legislatore e le scelte giurisprudenziali, a processo esecutivo finito, consentono di riportare gli utenti della giustizia “alla casella del via”. Anche la risposta alla terza domanda, quella della migliore scelta ai fini della realizzazione del principio del giusto processo, è scontata.
4. Il coordinamento del fallimento e le misure patrimoniali penali nella giurisprudenza di legittimità.
La legge fallimentare non contiene alcun tipo di coordinamento tra procedura fallimentare e misure patrimoniali penali e le regole del coordinamento hanno fonte giurisprudenziale.
Il criterio di prevalenza, coerente con i principi di sistema, è ben sintetizzato nell’affermazione contenuta nella sentenza della Quinta Sezione, Sajeva 2003, estensore Alberto Macchia secondo cui “il sequestro preventivo avente ad oggetto un bene confiscabile in via obbligatoria deve ritenersi assolutamente insensibile alla procedura esecutiva concorsuale, in ragione della prevalenza da attribuire all'esigenza di inibire l'utilizzazione di un bene intrinsecamente e oggettivamente "pericoloso" in vista della sua definitiva acquisizione da parte dello Stato” (nel caso considerato dalla Corte si trattava di denaro depositato in un conto corrente intestato alla società fallita)[7].
Con riguardo al principio di diritto enunciato dalla sentenza Sajeva, che pur si condivide, in un’ottica che estremizza la valorizzazione dell’obiettivo della soddisfazione dei creditori, potrebbe opporsi che l’illiceità della detenzione del bene a confisca obbligatoria, in alcuni casi potrebbe essere rimossa con specifica autorizzazione (si pensi alla pistola regolare o all’immobile abusivo suscettibile di sanatoria, o alla cannabis per usi terapeutici per cui astrattamente potrebbe autorizzarsi la cessione a impresa farmaceutica); trattasi di tesi che, come si vedrà (v. paragrafo 7), il legislatore ha accolto alla luce dell’inciso di cui all’art. 318 “sempre che la loro fabbricazione, uso, porto, detenzione e alienazione non costituisca reato e salvo che la fabbricazione, l'uso, il porto, la detenzione e l'alienazione possano essere consentiti mediante autorizzazione amministrativa”, ma come si dirà l’inciso è disarmonico rispetto al resto delle previsioni.
Il sequestro così detto impeditivo, considerato il venir meno dell’esigenza della prevenzione per il fatto stesso dello spossessamento conseguente all’apertura della liquidazione giudiziale, recede rispetto alla procedura fallimentare, come si legge nella richiamata sentenza nei casi in cui “il carattere "preventivo" finisca per coincidere con la finalità di impedire la dispersione delle garanzie patrimoniali cui è preordinato il sequestro conservativo, misura che essendo naturalmente anticipatoria rispetto ad una azione esecutiva individuale nei confronti dell'obbligato da delitto, ricade, in ipotesi di fallimento, nella generale inibitoria di cui all'art. 51 legge fall., con conseguente inefficacia nei confronti della massa patrimoniale”.
Il principio di diritto affermato con la sentenza Sajeva è stato sostanzialmente ribadito, con alcuni distinguo, dalle Sezioni Unite Focarelli 2004, che hanno affermato: “È legittimo il sequestro preventivo, funzionale alla confisca facoltativa, di beni provento di attività illecita e appartenenti ad un'impresa dichiarata fallita, nei cui confronti sia instaurata la relativa procedura concorsuale, a condizione che il giudice, nell'esercizio del suo potere discrezionale, dia motivatamente conto della prevalenza delle ragioni sottese alla confisca rispetto a quelle attinenti alla tutela dei legittimi interessi dei creditori nella procedura fallimentare”.
In ordine alle altre tipologie di sequestro le Sezioni Unite hanno precisato in motivazione che: “a) il sequestro probatorio può legittimamente essere disposto su beni già appresi al fallimento e, se anteriore alla dichiarazione di fallimento, conserva la propria efficacia anche in seguito alla sopravvenuta apertura della procedura concorsuale, trattandosi di una misura strumentale alle esigenze processuali, che persegue il superiore interesse della ricerca della verità nel procedimento penale; b) il sequestro conservativo previsto dall'art. 316 cod. proc. pen., in quanto strumentale e prodromico ad una esecuzione individuale nei confronti del debitore ex delicto, rientra, in caso di fallimento dell'obbligato, nell'area di operatività del divieto di cui all'art. 51 l. fall., secondo cui dal giorno della dichiarazione di fallimento nessuna azione individuale esecutiva può essere iniziata o proseguita sui beni compresi nel fallimento; c) il sequestro preventivo c.d. impeditivo, previsto dall'art. 321 comma 1 cod. proc. pen., di beni appartenenti ad un'impresa dichiarata fallita è legittimo, a condizione che il giudice, nel discrezionale giudizio sulla pericolosità della res, operi una valutazione di bilanciamento del motivo di cautela e delle ragioni attinenti alla tutela dei legittimi interessi dei creditori, anche attraverso la considerazione dello svolgimento in concreto della procedura concorsuale; d) il sequestro preventivo avente ad oggetto un bene confiscabile in via obbligatoria deve ritenersi assolutamente insensibile alla procedura fallimentare, prevalendo l'esigenza di inibire l'utilizzazione di un bene intrinsecamente e oggettivamente "pericoloso" in vista della sua definitiva acquisizione da parte dello Stato).[8]
Le Sezioni unite Uniland S.p.a. 2014 hanno mutato orientamento affrontando la questione del sequestro per equivalente con riferimento alla responsabilità dell’ente. Oltre ad affermare la mancanza di legittimazione del curatore fallimentare a proporre impugnazione avverso il provvedimento di sequestro preventivo funzionale alla confisca dei beni della società fallita, le richiamate Sezioni unite, hanno affermato che “In tema di responsabilità da reato degli enti, la confisca per equivalente, in quanto sanzione principale ed autonoma, è obbligatoria, al pari di quella diretta, atteso che il ricorso da parte del legislatore, nel secondo comma dell'art. 19 D.Lgs. n. 231 del 2001, alla locuzione "può", non esprime l'intenzione di riconoscere ad essa natura facoltativa, ma la volontà di vincolare il dovere del giudice di procedervi alla previa verifica dell'impossibilità di provvedere alla confisca diretta del profitto del reato e dell'effettiva corrispondenza del valore dei beni oggetto di ablazione al valore di detto profitto”. (Sez. U, n. 11170 del 25/09/2014, dep. 2015, Uniland S.p.a.)
Le Sezioni unite Mantovani Petroli S.r.l. in liquidazione 2019 hanno infine chiarito che “non ha senso distinguere in ordine a principi di priorità temporale[9] in quanto come disposto dall'art. 42, comma 1, legge fall. (disposizione trasposta all’articolo 152 CCI), «la sentenza che dichiara il fallimento priva dalla sua data il fallito dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data di dichiarazione di fallimento». La disponibilità di tali beni, da quel momento, si trasferisce dal fallito agli organi della procedura fallimentare. Di essi, il curatore è incaricato dell'amministrazione della massa attiva nella prospettiva della conservazione della stessa ai fini della tutela dell'interesse dei creditori, come indiscutibilmente affermato dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. 3, n. 17749 del 17/12/2018, dep. 2019, Casa di cura Trusso s.p.a., Rv. 275453; Sez. 5, n. 48804 del 09/10/2013, Fallimento Infrastrutture e Servizi, Rv. 257553); ed in questa veste, l'art. 43 legge fall. gli attribuisce la rappresentanza in giudizio dei rapporti di diritto patrimoniale compresi nel fallimento (Sez. 2 civ., n. 11737 del 15/05/2013, Rv. 626734)”.
La giurisprudenza civile si colloca sulla stessa lunghezza d’onda della giurisprudenza penale. Il principio affermato dalla prima Sezione civile della Corte è che “il carattere obbligatorio e sanzionatorio della confisca diretta o per equivalente del profitto dei reati tributari, prevista dall'art. 12 bis comma 1, del d.lgs. n.74 del 2000, comporta che il sequestro preventivo ad essa funzionale, benché sopravvenuto rispetto alla proposizione di una domanda di concordato preventivo, sia opponibile ai creditori, non potendo in contrario invocarsi l'art. 168 l.fall., il quale vieta l'inizio delle azioni cautelari in costanza di procedura, posto che una siffatta inibizione non sussiste per la potestà cautelare che lo Stato esercita, non a tutela del suo credito, bensì nell'interesse alla repressione dei reati”. (Sentenza n. 24326 del 03/11/2020). La prevalenza del sequestro preventivo funzionale alla confisca obbligatoria diretta e per equivalente è giustificato dalla prima Sezione civile in base all’argomento che “trattasi, senz'altro, di principi convincenti, tenuto conto, da un lato, che l'elaborazione giurisprudenziale consolidatasi alla luce dei criteri (da considerarsi generali) espressi dal cd. codice antimafia spinge per la netta prevalenza delle ragioni pubblicistiche sottese alle procedure di sequestro finalizzate alla confisca”, insomma un obiter dictum.
5. Le ragioni pubblicistiche sottese alla prevalenza della misura patrimoniale finalizzata alla confisca.
Ma quali sono le ragioni pubblicistiche sottese alla scelta della prevalenza?
La risposta che si trae dalla giurisprudenza di legittimità è che la ragione pubblicistica va individuato nell’interesse penale sanzionatorio preventivo – repressivo.
Ma come si realizza l’interesse pubblicistico considerato che ai creditori concorsuali è comunque riconosciuto il diritto a insinuarsi ai sensi degli articoli 52 d.lgs n. 159/2011, per far accertare il credito e la buona fede nell’ambito del procedimento di prevenzione o nell’ambito del procedimento ex art. 12 bis d.lgs. n. 74/2000 ?
Come scrive il Giorgio Costantino “Se il reo o l’autore dell’illecito viene privato della disponibilità dei beni, mediante il pignoramento o lo spossessamento conseguente all’apertura della liquidazione giudiziale, la questione consiste nello stabilire chi ha il potere di gestire i beni e di liquidarli e chi è competente a verificare i crediti e la sussistenza della buona fede dei creditori. La questione riguarda, pertanto, i rapporti tra giudici penali e giudici civili. Al fondo del problema, questi sono soltanto gli interessi in gioco. Nonostante l’enfasi con la quale è affrontato il problema, questo appare di basso profilo: si tratta di stabilire chi ha il potere di gestire i beni in pendenza del sequestro ovvero di nominare i professionisti che se ne occupano. Dopo l’apertura della liquidazione giudiziale, come dopo la dichiarazione di fallimento, non sembra assumano rilevanza le «esigenze pubblicistiche penali», pur richiamate dalla giurisprudenza, anche civile ed amministrativa: l’autore dell’illecito è stato spossessato e i creditori di mala fede non possono essere soddisfatti[10].
Se il problema è tutto nell’accertamento della buona fede, perché detto accertamento non potrebbe essere svolto dal giudice fallimentare (rectius giudice della liquidazione giudiziale)? L’accertamento della buona fede è poca cosa da aggiungere all’accertamento ben più complesso demandato al giudice delegato nella sede propria della liquidazione giudiziale.
Vale la pena rinunciare a svolgere la liquidazione nella sede propria, con collaudati programmi di liquidazione, disciplina specifica per le vendite e istituti vari finalizzati al salvataggio degli asset produttivi, solo ai fini di far accertare le buona fede al giudice penale?
A ciò si aggiungano, da porre sul piatto della bilancia dei pro e dei contra, i tempi di attesa della definitività della confisca che condizionano l’accesso alla fase della liquidazione.
5.1. La falcidia dei crediti.
All’irragionevole durata della liquidazione si aggiunge poi la falcidia dei crediti.
Nel procedimento accessorio della prevenzione i creditori ammessi, dunque in buona fede, sono infatti soddisfatti nella misura del 60%, come prevede l’art. 53 D.lgs. n. 159/2011.
Si tratta di disposizione irragionevole, in termini della disparità di trattamento. La falcidia del 40% dipende infatti esclusivamente da una qualità del debitore, qualità non nota ai creditori in buona fede nel momento in cui hanno avuto con quel debitore rapporti commerciali[11].
La falcidia assume effetti sanzionatori, nei termini definiti dalla CEDU, non giustificati dall’accertamento di condotte oggetto di disapprovazione.
6. Profili di criticità dell’art. 317 del Codice della crisi e dell’insolvenza.
Rispetto al testo licenziato dalla commissione Rordorf nel dicembre del 2017 che, in applicazione dei principi esposti, proponeva un coordinamento delle misure patrimoniali penali e della liquidazione giudiziale che tenesse conto degli obiettivi di salvataggio della procedura di liquidazione giudiziale e, conseguentemente, aveva articolato lo schema di legge nel senso della prevalenza della misura penale solo con riferimento ai beni dei quali, per espressa disposizione normativa, fosse vietata e non autorizzabile la vendita o la detenzione, nonché ai beni non suscettibili di liquidazione[12] in sede di approvazione, si è fatto un passo indietro.
È stato inserito l’art. 317 rubricato “Principio di prevalenza delle misure cautelari reali e tutela dei terzi”. L’art. 317 prevede che le condizioni e i criteri di prevalenza, rispetto alla gestione concorsuale, delle misure cautelari reali sulle cose indicate dall'articolo 142 CCI siano regolate dalle disposizioni del Libro I, titolo IV del decreto legislativo n. 159/2011, salvo quanto previsto dagli articoli 318, 319 e 320. In realtà, il riferimento significativo in termini di deroga al principio generale, riguarda solo l’articolo 318, essendo l’art. 319 mera esplicazione dell’art. 150 CCI, trasposizione dell’art. 51 della legge fallimentare. Pacifico, d’altro canto, anche senza tale norma il divieto di sequestri conservativi, come già nelle vigenza del Regio decreto senza necessità di alcuna specifica previsione. Il sequestro conservativo è infatti una di quelle azioni prodromiche alle esecuzioni sottesa a pretese private che possono trovare soddisfazione solo attraverso l’insinuazione allo stato passivo, misura che dunque nulla ha a che vedere con il sequestro ex art. 321 cod. proc. pen., quanto piuttosto è misura cautelare civile disciplinata dall’art. 316 cod. proc. pen. (v. paragrafo 2).
La tecnica adottata dal legislatore nella stesura dell’art. 317 CCI è quella del rinvio, il che rende particolarmente ostica l’interpretazione della norma se non addirittura la lettura della stessa.
È significativo della mancata focalizzazione dell’obiettivo satisfattivo della procedura esecutiva concorsuale, che per riferirsi alla prevalenza sia utilizzato il termine gestione concorsuale (mutuato letteralmente dalla legge delega) mentre sarebbe stato meglio utilizzare la dizione liquidazione giudiziale, visto che con il richiamo all’articolo 142 CCI si fa riferimento alla liquidazione giudiziale.
Il riferimento alla gestione anziché alla liquidazione svela l’attenzione eccentrica all’amministrazione dei beni sottoposti a vincolo da parte del legislatore delegato, piuttosto che all’aspetto del salvataggio degli asset produttivi o alla cessione per finalità satisfattive. D’altro canto anche nella sentenza delle Sezioni Unite Mantovana Petroli S.r.l. in liquidazione si fa riferimento all’amministrazione e alla conservazione.
Trattasi di plastica dimostrazione della sottovalutazione della finalità della liquidazione giudiziale.
Per le condizioni e i criteri di prevalenza il rinvio è all’articolo 63 d.lgs. n.158/2011, rubricato “Dichiarazione di fallimento successiva al sequestro”, e all’articolo 64 d.lgs. n.158/2011, rubricato “Dichiarazione di fallimento successiva al sequestro”. Sono questi gli articoli in che, attraverso il richiamo al Libro I, titolo IV del Testo unico antimafia, integrano la disposizione di cui al primo comma dell’art. 317 CCI.
In realtà non sono contenute in detti articoli disposizioni che stabiliscono “criteri e condizioni di prevalenza” ma semplicemente è ivi stabilita la prevalenza delle misure di prevenzione nonché la modalità di passaggio della massa attiva dalla procedura esecutiva concorsuale alla prevenzione.
L’art. 65 d.lgs. n. 158/2011 regola invece il controllo giudiziale, che non è una misura patrimoniale che realizza un vincolo sulla res, dando prevalenza alla liquidazione giudiziale. Con riguardo a detto articolo il richiamo al Libro I, titolo IV del Testo unico antimafia è dunque in eccesso.
Il secondo comma dell’art. 317 del Codice della crisi contiene la definizione di misure cautelari reali. Si legge nell’articolo “per misure cautelari reali di cui al comma 1 si intendono i sequestri delle cose di cui è consentita la confisca disposti ai sensi dell'articolo 321, comma 2, cod. proc. pen., la cui attuazione è disciplinata dall' articolo 104 bis norme di att. coor. e trans. del cod. proc. pen.”
L’articolo 104 bis disp att. cod. proc. pen. si riferisce all’amministrazione dei beni sottoposti a “sequestro preventivo” e “a sequestro e confisca in casi particolari” ovvero ai sequestri di aziende, società e beni di cui sia necessario assicurare l’amministrazione. Trattasi di articolo introdotto dalla legge n. 94/2009 e modificato dal d.lgs. n. 21 /2018. L’amministratore è nominato ai fini della gestione dei beni, come è fisiologico che sia, trattandosi di misura finalizzata a spossessare per ragioni preventivo- repressive l’autore del reato o dei traffici delittuosi.
Il richiamo all’art. 104 bis disp att. cod. proc. pen è senz’altro insoddisfacente a definire la misura cautelare penale e ciò anche a voler tener conto del rinvio all’art. 240 bis cod. pen., relativo sempre all’amministrazione, o al d.lgs. n. 159/2011.
La definizione comunque fa riferimento all’oggetto e non alle ragioni del sequestro che prevalgono sulla liquidazione giudiziale.
6.1. L’incomprensibile dissonanza dei commi quarto e quinto dell’articolo 63 d.lgs. n. 159/2011, un refuso?
Per effetto del rinvio al Libro I, titolo IV del Testo unico antimafia si riverbera sull’art. 317 l’antinomia contenuta ai commi quarto e quinto dell’art. 63 d.lgs. n. 159/2011.
Il comma quarto stabilisce che “Quando viene dichiarato il fallimento, i beni assoggettati a sequestro o confisca sono esclusi dalla massa attiva fallimentare. La verifica dei crediti e dei diritti inerenti ai rapporti relativi ai suddetti beni viene svolta dal giudice delegato del tribunale di prevenzione nell'ambito del procedimento di cui agli articoli 52 e seguenti”.
Il comma quinto stabilisce che “Nel caso di cui al comma 4, il giudice delegato al fallimento provvede all'accertamento del passivo e dei diritti dei terzi nelle forme degli articoli 92 e seguenti del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 , verificando altresì, anche con riferimento ai rapporti relativi ai beni sottoposti a sequestro, la sussistenza delle condizioni di cui all’articolo 52, comma 1, lettere b), c) e d) e comma 3 del presente decreto.”
Non si comprende il senso del riferimento al giudice delegato al fallimento, al quinto comma, quando al quarto comma, cui il quinto rinvia, il riferimento è al giudice delegato del tribunale della prevenzione. Giudice delegato della prevenzione o il giudice delegato della procedura concorsuale?
Le due disposizioni si negano a vicenda. Nella prassi si intende come non scritto il riferimento al giudice delegato al fallimento. Si tratta di un refuso che nello schema licenziato dalla commissione Rordorf nel dicembre del 2017 si era tentato di correggere.
7. L’articolo 318. La prevalenza della liquidazione giudiziale, aperta ai sensi dell'art. 49 CCI, sul sequestro impeditivo.
L’articolo 318 coordina la liquidazione giudiziale con il sequestro preventivo di cui all’art. 321 cod. proc. pen. Trattasi di disciplina in deroga al principio di prevalenza delle misure penali sancito all’art. 317, che gode di migliore intellegibilità e coordinazione della previsione generale.
Nel complesso il combinato disposto degli articoli 317 e 318 non realizza un chiaro coordinamento tra misure patrimoniali penali e liquidazione giudiziale in quanto non chiarisce il regime di prevalenza in relazione all’oggetto.
Ma andiamo per ordine. Il primo comma dell’articolo 318 stabilisce il principio della prevalenza del sequestro preventivo ex art. 321, comma primo, cod. proc. pen. sui beni oggetto della procedura esecutiva concorsuale ovvero i beni di cui all’art. 142 CCI - dai quali vanno esclusi i beni che non possono essere appresi ex art. 146[13] e beni non suscettibili di liquidazione-. La prevalenza è insensibile a principi di priorità temporale.
Il sequestro non può essere disposto sui beni di cui all’art. 142 CCI quando la procedura è aperta e se disposto prima deve essere revocato quando è aperta la liquidazione giudiziale.
Il primo comma dell’art. 318 prevede infatti che non può essere disposto sequestro preventivo sulle cose di cui all'articolo 142 CCI e il secondo comma dell’art. 318 prevede che quando viene disposto il sequestro preventivo, ed è dichiarata l'apertura di liquidazione giudiziale sulle medesime cose, il giudice è tenuto a revocare il decreto di sequestro e disporre la restituzione delle cose alla procedura di liquidazione.
La prevalenza riguarda le cose per cui fabbricazione, uso, porto, detenzione e alienazione non costituisca reato ma, in applicazione del principio di cui all’art. 2740 cod. civ., viene dato spazio alla possibilità di “sanatoria” e così, ai fini della massima redditività della liquidazione giudiziale, la prevalenza vale anche con riferimento a beni a detenzione e alienazione vietata quanto sia possibile ottenere un’autorizzazione amministrativa che renda lecita la detenzione e quindi l’alienazione.
L’inciso di cui al primo comma ultima parte dell’art. 318 è infatti “salvo che la fabbricazione, l'uso, il porto, la detenzione e l'alienazione possano essere consentiti mediante autorizzazione amministrativa”.
L’eccezione dell’autorizzazione amministrativa rende ancora più complessa la definizione di misura cautelare penale, formulata attraverso il richiamo all’art. 104 bis disp att. cod. proc. pen., destinata a prevalere sulla liquidazione giudiziale.
7.1. I flussi informativi tra giudice penale e giudice delegato.
A parte le criticità che sono state evidenziate, ma che riguardano innanzitutto l’articolo 317, il coordinamento ha il pregio di aver disciplinato i flussi informativi tra Uffici penali e Uffici della liquidazione giudiziale prima lasciati alla buona volontà degli organi delle procedure. Si tratta di flussi informativi destinati a semplificare i passaggi dei beni, agevolare la trasformazione dei vincoli e limitare i contrasti.
7.2. Il ruolo del curatore.
Il codice della crisi riconosce al curatore un ruolo fondamentale nell’ambito del coordinamento tra misure patrimoniali penali e liquidazione giudiziale.
È infatti riconosciuta al curatore la legittimazione a chiedere al giudice penale la revoca del sequestro penale quando viene aperta la liquidazione giudiziale.
Il curatore è tenuto altresì ad informare l’autorità penale del venir meno – per qualsiasi causa del vincolo derivante dall’apertura della liquidazione giudiziale affinché il sequestro riprenda efficacia.
Si tratta di compiti i quali costituiscono diretta manifestazione della legittimazione a svolgere azioni recuperatorie dell’attivo ovvero esercizio di facoltà collegata alle previsioni di cui agli artt. 142, 143 e 347 CCI, di cui anche l’art. 320 CCI, sulla legittimazione del curatore, è espressione.
L' articolo 318 al comma 1, prevede infatti che su richiesta del curatore il giudice revochi il decreto di sequestro e disponga la restituzione delle cose in favore della massa[14].
Sono posti in capo al curatore obblighi di comunicazione. Al terzo comma dell’art. 321 è previsto infatti che il curatore comunichi all’autorità giudiziaria che aveva disposto o richiesto il sequestro, il provvedimento di revoca o chiusura della liquidazione giudiziale, nonché l'elenco delle cose non liquidate e già sottoposte a sequestro.
È rimesso infine al curatore il compito di provvedere alla cancellazione delle iscrizioni e trascrizioni decorsi novanta giorni dalla comunicazione di cui al primo periodo.
La previsione, in tale occasione anche della comunicazione “della dichiarazione dello stato di insolvenza e di apertura della procedura della liquidazione giudiziale” è un chiaro refuso dovuto all’accorpamento, in fase di approvazione finale dell’articolato licenziato dalla commissione Rordorf, di disposizioni scritte nell’ambito di un più ampio articolato.
Il curatore, se deve comunicare la chiusura della procedura concorsuale, ha senz’altro già comunicato l’apertura della stessa. Le comunicazioni di cui al terzo comma si riferiscono infatti a quelle che il curatore è tenuto ad effettuare in relazione a vicende successive alla revoca del sequestro e che riguardano i beni acquisti alla massa in ragione dell’apertura della liquidazione giudiziale.
8. Il sequestro ai danni dell’ente ex art. 53 d.lgs. n. 231/2001.
L’articolo 318, come licenziato dalla commissione Rordorf, al primo comma, richiamava non solo il sequestro per equivalente e il sequestro di beni a confisca obbligatoria, ma anche il sequestro disposto ai sensi dell’art. 53 d.lgs. n. 231/2001.
Secondo la previsione proposta con lo schema la liquidazione giudiziale prevaleva su detto sequestro. Il silenzio del legislatore delegato e la natura di norma generale della previsione di cui al primo comma dell’art. 317 conduce a ritenere che con il silenzio serbato a seguito dell’eliminazione di quanto previsto nello schema Rordorf si sia voluto ricondurre il sequestro di cui all’art. 53 d.lgs. n. 231/2001 nello schema delle misure patrimoniali prevalenti.
Il sequestro di cui all’art. 53 d.lgs. n. 231/2001, e quello relativo alla confisca di cui all’art. 19 decreto legislativo n. 231/2001 riguarda il prezzo e il profitto del reato nonché la confisca per equivalente. Valgono, con riferimento a detto sequestro, le considerazione svolte a paragrafo 3. A ciò si aggiunga, per sottolineare l’antinomia riscontrata, che l’articolo 27, secondo comma, d.lgs. n. 231/2001 riconosce ai crediti dello Stato derivanti dagli illeciti amministrativi dell’ente il privilegio secondo le disposizioni del codice di procedura penale sui crediti dipendenti dal reato. La prevalenza della misura penale non è coerente con il sistema. Da un lato, per espressa disposizione di legge il credito gode solo di privilegio e dall’altro la prevalenza della misura penale determina l’ablazione del patrimonio in danno della massa, con effetti sanzionatori che ricadono sui debitori.
9. La legittimazione del curatore.
Corona la disciplina in tema di coordinamento la previsione di cui all’art. 320 rubricato “Legittimazione del curatore” che prevede che contro il decreto di sequestro e le ordinanze in materia di sequestro il curatore può proporre richiesta di riesame e appello nei casi, nei termini e con le modalità previsti dal codice di procedura penale. Nei predetti termini e modalità il curatore è legittimato a proporre impugnazione contro i provvedimenti dell’autorità giudiziaria penale.
Trattasi di disposizione avente natura di interpretazione autentica non collegata ad alcuna modifica normativa[15] – la previsione di cui all’art. 318 manifestazione di tale legittimazione e non viceversa - sono infatti rimaste le disposizioni di cui agli artt. 42, 43 e 240 legge fall. solo trasposte agli artt. 142, 143 e 347 CCI che fondavano l’affermazione anche prima di detta codificazione della legittimazione del curatore come peraltro affermato pacificamente dalla giurisprudenza di legittimità sino alle Sezioni unite Uniland S.p.a. e poi successivamente.
La circostanza che la disposizione entrerà in vigore il 16 maggio 2022 non rileva in ordine all’immediata applicazione della stessa.
L’espressa enunciazione del potere del curatore di agire in giudizio contro provvedimenti cautelari, lesivi della garanzia patrimoniale dei creditori è stata introdotta per “correggere” l’affermazione delle Sezioni unite Uniland S.p.a., che aveva relegato il curatore alla figura di “soggetto terzo rispetto al procedimento cautelare”, “soggetto senza titolo rispetto ai beni in sequestro, senza potere di azione e di rappresentanza dei creditori” e sostanzialmente ribadire quanto già affermato dalla Sezioni Unite Focarelli dal tempo della sentenza Sajeva 2004 [16].
10. Conclusioni.
In sintesi la disciplina in materia di coordinamento tra liquidazione giudiziale, aperta ai sensi dell'art. 49 CCI, e misure patrimoniali penali di cui agli artt. 318, 319 e 320 del codice della crisi offre soluzioni scarse e come si è visto di non agevole interpretazione.
L’osticità di lettura dell’art. 317, sulla sub valenza della liquidazione giudiziale, nonché le questione del coordinamento con l’art. 318, sulla prevalenza della liquidazione giudiziale, costituiscono la plastica rappresentazione, ahimè codificata, del contrasto tra i sostenitori della prevalenza dell’interesse alla repressione penale - che si attua come ha scritto G. Costantino con l’assegnazione delle decisioni al giudice penale - e i sostenitori della prevalenza degli interessi dei soggetti coinvolti nell’insolvenza, agli interessi dell’imprenditoria italiana e, attraverso i passaggi dei quali si è fatto cenno in questo breve saggio, dell’efficienza della risposta di giustizia con danno finale della competitività dell’Italia.
Il ceto creditorio coinvolto nelle procedure concorsuali è per il 60% composto da imprenditori commerciali. Su tale ceto si ripercuote l’irragionevole durata delle procedure esecutive e la scarsa misura di soddisfazione finale delle loro pretese e ciò senz’altro si riverbera nelle scelte commerciali degli imprenditori esteri.
La disciplina introdotta al titolo VIII del codice della crisi, sotto altro profilo è senz’altro apprezzabile quanto alla regolazione introdotta all’art. 318, al chiarimento in ordine alla legittimazione del curatore in coerenza con i principi di sistema [17] e all’introduzioni delle disposizioni in tema di revoca del sequestro e dei flussi informativi.
[1] Nella relazione alla legge di attuazione si legge: “Il tenore letterale della disposizione avrebbe consentito due possibili soluzioni: 1) il mero coordinamento fra normativa in tema di misure di prevenzione e liquidazione giudiziale, imponendo la prevalenza delle misure adottate nel procedimento di prevenzione rispetto alla normale attività di liquidazione giudiziale, in tal caso intendendo il riferimento alle “misure cautelari adottate in sede penale” in senso atecnico, atteso che i sequestri di prevenzione non sono annoverabili tra le misure cautelari adottate in sede penale; 2) la disciplina del rapporto fra misure cautelari penali in senso proprio, sequestri preventivi e conservativi, e procedure concorsuali secondo il sistema delineato dal decreto legislativo 6 settembre 2011, n.159. Così inteso, il coordinamento consiste nello stabilire condizioni e criteri di prevalenza non dissimili da quelle dettate dal citato decreto legislativo, sul presupposto che i sequestri penali e di prevenzione abbiano una funzione comune, quella di assicurare nell’ambito dei procedimenti in cui si inseriscono l’ablazione finale del bene e dunque la sua confisca”.
[2] Sul punto V. Sezioni Unite Focarelli 2004.
[3]Alla luce della lettura delle disposizioni di cui agli artt. 42, 43 e 240 L.fall, ora trasposte agli artt. 152, 153 e 347 CCI , non si ritiene condivisibile l’affermazione secondo cui “ il fatto che il legislatore abbia ritenuto di dover conferire al curatore tale facoltà confermi la mancanza della stessa nell'attuale assetto normativo” (Sez. 2, n. 27262 del 16/04/2019, Fallimento Eurocoop s.coop., Rv. 276284) in quanto la norma ha portata interpretativa ed è stata introdotta con lo specifico scopo di chiarire l’ambito dei poteri e della legittimazione del curatore fallimentare.
[4] V. V Sezione, Sajeva 2003 e poi Sezioni unite Focarelli 2004.
[5] Si tratta di legittimazione esclusa dalle Sezioni unite Uniland S.p.a. 2014 senza adeguata considerazione circa le finalità recuperatorie che devono orientare l’agire e quindi il potere del curatore ai fini della concreta realizzazione della previsione di cui all’art. 42, manifestazione del medesimo potere riconosciutogli ex art. 43 e all’art. 240 l. fall. (347 CCI). Si legga Cerqua F. Le Sezioni Unite precisano i rapporti tra il sequestro preventivo a carico degli enti ed il fallimento, in Il fallim.2016, 179; Romano E., Confisca e tutela dei terzi: tra buona fede e colpevole affidamento, Cass. Pen. 2016, 2894; Bontempelli M, Sequestro preventivo a carico della società fallita, tutela dei creditori di buona fede e prerogative del curatore, Archivio penale, 2015, 2894; Alesci T, Il curatore fallimentare non è legittimato a proporre impugnazione contro il provvedimento di sequestro adottato sulla base dell'art. 19 del D.lgs. 231/2001., in Processo penale e giustizia, 2015, 41; Bianchi D., Automatismi nel meccanismo sequestro-confisca ex D.Lgs. n.231/01 e ricadute problematiche sulla procedura fallimentare, in G.I 2015,1995.
[6] I frutti che l'imprenditore si procura attraverso attività criminose e, in particolare, mediante truffe contrattuali, pur provenendogli per effetto di negozio concluso con induzione in errore o mediante dolo e, quindi, soggetti ad annullabilità per vizi di consenso, ugualmente entrano a far parte del patrimonio del fallito e ad esso fanno capo fino all'esito positivo di una eventuale azione di annullamento da intentarsi ad opera del deceptus. Una volta fatto ingresso nel patrimonio del fallito, tali beni diventano cespiti sui quali i creditori possono pretendere di soddisfare le proprie ragioni, con la conseguenza ulteriore — si è pure affermato — che le eventuali sottrazioni operate su di essi configurano, in caso di dichiarazione di fallimento dell'imprenditore, il reato di bancarotta per distrazione (cfr. fra le altre, Cass., Sez. III, 28 febbraio 1992, Duval, nonchè, più di recente, e sia pure con riferimento ad una ipotesi particolare, Cass., Sez. V, 22 marzo 1999, Di Maio) Il reato di bancarotta fraudolenta, invero, non è escluso dal fatto che i beni distratti siano pervenuti alla società, poi dichiarata fallita, con sistemi illeciti, come ad esempio mediante truffe o appropriazioni indebite, atteso che il patrimonio di una società deve ritenersi costituito anche dal prodotto di attività illecite realizzate dagli amministratori in nome e per conto della medesima ( Sez. V Sentenza n. 37525/2020, Morandi). Tutta la disciplina delle misure di prevenzione patrimoniali, nonché delle misure interdittive indica il contrario. Pecunia olet ogniqualvolta il preposto non possa dimostrare la provenienza della ricchezza. Il sequestro per equivalente impone di valutare le fonti della ricchezza.
[7] Filippi P. Il sequestro penale di beni del fallito” nota a sentenza della Corte di Cassazione 3.6.2003, n. 24160 , in Il Fallimento, 2004, 12,1365
[8] Sez. U, Sentenza n. 29951 del 24/05/2004, Focarelli. La richiamata giurisprudenza superava l’affermazione secondo cui Quanto al sequestro preventivo finalizzato alla confisca di somme di denaro che costituiscono "profitto del reato". L’affermazione costante è nel senso che tale sequestro è ammesso sia quando la somma si identifichi in quella acquisita attraverso l'attività criminosa sia quando sussistano indizi per i quali il denaro di provenienza illecita sia stato depositato in banca ovvero investito in titoli, trattandosi di assicurare ciò che proviene dal reato e che si è cercato di occultare (vedi Cass., Sez. 6^, 25 marzo 2003, n. 23773, Madaffari). È evidente, a tal proposito, che la fungibilità del denaro e la sua funzione di mezzo di pagamento non impone che il sequestro debba necessariamente colpire le medesime specie monetarie illegalmente percepite, bensì la somma corrispondente al loro valore nominale, ovunque sia stata rinvenuta, purché sia attribuibile all'indagato (vedi Cass., Sez. 6^, 1 febbraio 1995, n. 4289, Carullo). Deve pur sempre sussistere, comunque, il rapporto pertinenziale, quale relazione diretta, attuale e strumentale, tra il danaro sequestrato ed il reato del quale costituisce il profitto illecito (utilità creata, trasformata od acquisita proprio mediante la realizzazione della condotta criminosa). In particolare, in relazione agli illeciti fiscali, devono escludersi collegamenti esclusivamente congetturali, che potrebbero condurre all'aberrante conclusione di ritenere in ogni caso e comunque legittimo il sequestro del patrimonio di qualsiasi soggetto venga indiziato di illeciti tributari. Il sequestro diretto nella specie si trattava di un sequestro, funzionale alla confisca diretta del profitto del reato, che attingeva beni non costituenti tale profitto e già nella disponibilità della procedura fallimentare. Conf. Sez. un., 24 maggio 2004, curatela fall. in proc. Romagnoli, non massimata sul punto.
[9] Questa sostanziale limitazione dell'operatività del principio, stabilito con la sentenza Uniland, ai casi nei quali la dichiarazione di fallimento sia successiva al sequestro, è stata successivamente confermata in base alla considerazione per la quale il fallimento non determina una successione a titolo particolare della curatela nei diritti del fallito (Sez. 3, n. 28090 del 16/05/2017, Falcone). Ma le conclusioni della sentenza Amista, nella parte in cui risultano ammissive della legittimazione del curatore all'impugnazione là dove il sequestro sia invece successivo alla dichiarazione di fallimento, hanno trovato positiva affermazione nell'esclusione della possibilità di eseguire il sequestro su beni appartenenti alla massa fallimentare, e quindi in una situazione cronologica di posteriorità rispetto alla dichiarazione di fallimento, in quanto sui beni che si trovano in questa condizione si è ormai costituito un potere di fatto della curatela (Sez. 3, n. 45574 del 29/05/2018, Evangelista)
[10] Giorgio Costantino Misure di prevenzione patrimoniali e procedure concorsuali (Relazione all’incontro «Processo penale e processo civile», Roma Tre, 2 dicembre 2019), in Processo penale e processo civile: interferenze e questioni irrisolte, Roma, 2020, 119
[11] La ratio della presente norma sarebbe quella di assicurare allo Stato, all'esito del procedimento di confisca, un saldo positivo netto onde evitare che l'impegno dello stato fosse finalizzato esclusivamente alla soddisfazione dei creditori del preposto L. De Gennaro, N. Graziano; Sequestri penali, Misure di prevenzione e procedure concorsuali, 2018, 102, D.lgs. 12.1.2019 n. 14 art. 317, Principio di prevalenza delle misure cautelari penali e tutela dei terzi a cura di F. Grieco, Fallimento, Codice commentato; I rapporti fra misure ablatorie penali e liquidazione giudiziale nel CCII, di Salvo Leuzzi in Fall., 2019, 12, 1440
[12] Nello schema di decreto legislativo licenziato dalla commissione Rordorf il primo comma dell’articolo 318 così stabiliva “La dichiarazione di liquidazione giudiziale prevale sulla misura cautelare reale del sequestro preventivo avente ad oggetto beni di cui all’art. [142], ivi compreso il sequestro per equivalente, il sequestro di beni a confisca obbligatoria e il sequestro disposto ai sensi dell’art. 53 decreto legislativo n. 231/01”.
L’articolato proseguiva con un sistema di utilizzabilità degli atti tra una procedura e l’altra , prevedeva flussi informativi, semplificazioni a tutela dei creditori per agevolare l’accertamento dei crediti nonché un sistema di comunicazioni con riferimento agli esiti dei due procedimenti paralleli interessanti i medesimi beni.
[13] i beni non compresi nella liquidazione giudiziale sono: a) i beni e i diritti di natura strettamente personale; b) gli assegni aventi carattere alimentare, gli stipendi, le pensioni, i salari e ciò che il debitore guadagna con la sua attività, entro i limiti di quanto occorre per il mantenimento suo e della sua famiglia; c) i frutti derivanti dall'usufrutto legale sui beni dei figli, i beni costituiti in fondo patrimoniale e i frutti di essi, salvo quanto è disposto dal’art. 17° l.f.; d) le cose che non possono essere pignorate per disposizione di legge.
[14] Con l’entrata in vigore del codice della crisi non sarà più valida l’affermazione secondo cui la legittimazione a rihiedere la revoca è condizionata dalla previa autorizzazione del giudice delegato (Sez. 5, Sentenza n.27334/2021)
[15] Non si condivide, per le ragioni esposte la decisione della secondo cui “Il curatore fallimentare non è legittimato a proporre impugnazione avverso il provvedimento di sequestro preventivo, anche per equivalente, emesso anteriormente alla dichiarazione di fallimento di un'impresa non essendo titolare di alcun diritto sui beni del fallito, né in proprio, né quale rappresentante dei creditori del fallito i quali, prima della conclusione della procedura concorsuale, non hanno alcun diritto restitutorio sui beni.” (In motivazione la Corte ha richiamato, a conferma dell'attuale assenza di legittimazione, la previsione del "nuovo codice della crisi di impresa" che, solo a decorrere dalla entrata in vigore nel 2020, attribuisce al curatore la legittimazione a proporre, nei confronti del decreto di sequestro e delle ordinanze in materia di sequestro, richiesta di riesame ed appello nonché ricorso per cassazione) (Sez. 2, Sentenza n. 27262/2019 curatela fallimento Eurocoop soc. coop. in liquidazione)
[16] Da ultimo v. Sez. 5 - , Sentenza n. 27050 del 30/04/2021, Cantile in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale, è inammissibile, per carenza di interesse, il ricorso per cassazione proposto dall'imputato avverso il provvedimento di confisca di uno o più beni della fallita, non potendo egli vantare alcun diritto alla restituzione. (In motivazione la Corte ha precisato che legittimato ad impugnare la misura ablatoria è il curatore fallimentare, in quanto portatore dell'interesse dei creditori alla rimozione di statuizioni incidenti sulla consistenza patrimoniale dell'attivo).
[17] “contro le ordinanze in materia di sequestro preventivo, legittimato a proporre appello, ai sensi dell'art. 322 bis cod. proc. pen., è anche il curatore del fallimento che, nell'espletamento dei compiti di amministrazione del patrimonio fallimentare, chieda la restituzione delle somme di denaro sequestrate, riferibili alla società fallita, ancorché derivanti da condotte illecite poste in essere dall'imprenditore”, (Sez. 2, sentenza n. 24160 del 16.5.2003, PM in proc. Sajeva) e quindi all’affermazione secondo cui “il curatore del fallimento, nell'espletamento dei compiti di amministrazione del patrimonio fallimentare, ha facoltà di proporre sia l'istanza di riesame del provvedimento di sequestro preventivo, sia quella di revoca della misura, ai sensi dell'art. 322 cod. proc. pen., nonché di ricorrere per cassazione ai sensi dell'art. 325 stesso codice avverso le relative ordinanze emesse dal tribunale del riesame”(Sezioni Unite, sentenza n. 29951 del 24.5.2004, proc. Focarelli). Il curatore fallimentare è legittimato a chiedere la revoca del sequestro preventivo a fini di confisca e ad impugnare i provvedimenti in materia cautelare reale (Sez. U - , Sentenza n. 45936 del 26/09/2019 fallimento Mantova Petroli S.r.l.)
In tema di reati tributari, è legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di somme di denaro appartenenti alla società fallita e assegnate ai creditori con piano di riparto dichiarato esecutivo ma non ancora eseguito, in quanto il provvedimento del giudice delegato si limita ad accertare giudizialmente la misura dei crediti aventi diritto al riparto e ad ordinarne al curatore il pagamento, ma l'effetto traslativo del denaro appartenente alla società fallita si produce solo con la materiale "traditio" delle somme. Sez. 4 - , Sentenza n. 7550 del 05/12/2018 ric. Sansone.
*Tratto dalla Relazione “I rapporti tra procedure regolatrici della crisi di impresa e misure penali patrimoniali” per il corso “Il diritto penale fallimentare e il nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza” organizzato dalla formazione decentrata della Corte di cassazione il 18 maggio 2021.
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