ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Data retention: le questioni aperte*
di Giorgio Spangher
Con il d.l. n. 132 del 2021 il Governo ha dato attuazione alla decisione della Corte di Giustizia riguardante i tabulati telefonici in relazione a un caso riguardante l’Estonia (Corte Giustizia U.E. Grande Sezione, 2.3.2021, H.K. Prokuratuur, C 746/18) nonché all’impegno assunto in sede di approvazione del d.m. relativo ai costi delle intercettazioni telefoniche.
La materia è disciplinata dall’art. 1 attraverso due modifiche al comma 3 dell’art. 132 del dlg n. 196 del 2003, nonché attraverso l’inserimento di un comma 3 ter.
Il contenuto delle nuove previsioni, delle decisioni intervenute nella giurisprudenza prima dell’approvazione del decreto-legge, è già stato esposto nei commenti di Resta (La nuova disciplina dell’acquisizione dei tabulati) e di Gittardi (Sull’utilizzabilità dei dati del traffico telefonico e telematico acquisiti nell’ambito dei procedimenti pendenti alla data del 30 settembre 2021) già pubblicati nella rivista.
Ad memoriam: si prevede che, fermi i termini di conservazione, per i reati indicati nel d.l., la competenza all’autorizzazione all’acquisizione dei data retention spetti al giudice, su richiesta del p.m., ma anche del difensore dell’imputato, della persona offesa e delle altre parti private.
In altri termini, c’è un allargamento della platea dei richiedenti anche in relazione al fatto che l’acquisizione può essere richiesta non solo nella fase delle indagini preliminari.
Le perplessità della nuova previsione si incentrano sul fatto che manca il riferimento, che andrebbe esplicitato, che la violazione delle citate disposizioni va sanzionata con l’inutilizzabilità che risulta espressamente prevista solo dal novellato comma 3 bis. Ancorchè non possa dubitarsi che si tratti di divieto probatorio, una specificazione non appare inopportuna.
Suscita qualche ulteriore riserva l’indicazione dei reati per i quali è possibile l’acquisizione dei tabulati: invero, sembrano largamente superate le indicazioni della Corte di Giustizia che parla di forme gravi di criminalità e di prevenzione a gravi minacce alla sicurezza pubblica.
Peraltro, non è già mancato qualcuno che invece ritiene che restino estranei alla norma reati significativi puniti sotto la soglia indicata.
È già stato segnalato come la norma sconti un difetto di coordinamento con l’art. 254 bis cpp che adeguandosi alla Convenzione di Budapest disciplina le sequenze procedimentali del sequestro di dati informatici presso fornitori di servizi, stabilendo che questo venga disposto dall’autorità giudiziaria (quindi anche dal p.m., ma non dai difensori).
Sempre in attuazione della decisione della Corte di Giustizia, il comma 3 bis disciplina l’intervento d’urgenza del pubblico ministero e la successiva convalida del giudice.
Non è stato riproposto l’art. 2 (che regolava la disciplina transitoria) innestando la questione sulla retroattività o meno della nuova disciplina rispetto alle acquisizioni disposte – nei procedimenti in corso – da parte del pubblico ministero, in linea con quanto previsto dalla legge (art. 132 cit.) e della giurisprudenza a sezioni unite Amuri, che aveva riformato la precedente sez. u. Gallieri.
Forse non è infondato ritenere che la mancata riproposizione, che avrebbe consentito di porre la questione in tutti i procedimenti in qualsiasi grado si fossero trovati, sia stata determinata dalla diseconomia della procedura legata al ritardo che la richiesta di trasmissione di atti – per la decisione – avrebbe determinato.
Resta naturalmente aperto il problema dell’applicabilità della nuova norma alle acquisizioni effettuate al di fuori delle sue previsioni.
Non appare infondato ritenere che trattandosi di norma a valenza processuale questa sia regolata dal principio del tempus regit actum. Pertanto le acquisizioni, pendente l’art. 132 cit, disposta dal pm senza autorizzazione del giudice, dovrebbero conservare efficacia. Tuttavia, si dovrebbe ritenere che se i fatti per i quali sono state richieste sono estranei all’ambito di operatività della nuova disciplina le risultanze debbano ritenersi inutilizzabili, non potendo il giudice acquisirle, trattandosi di un limite probatorio.
Restano, inevitabilmente, consegnati agli sviluppi processuali le iniziative sviluppate dai difensori dopo la pronuncia europea (trasmissione alla Corte di Giustizia, riproposizione delle questioni rigettate).
Non può escludersi che all’esito del processo, la difesa possa attivare iniziative presso le Corti sopranazionali, lamentando il pregiudizio dei diritti fondamentali.
Sul medesimo argomento si rinvia inoltre in questa Rivista a Conservazione dei dati e diritto alla riservatezza. La Corte di giustizia interviene sulla data retention. I riflessi sulla disciplina interna di Federica Resta - I tabulati: un difficile equilibrio tra esigenze di accertamento e tutela di diritti fondamentali di Giorgio Spangher e La sentenza CGUE del 2 marzo 2021: i giudici nazionali affrontano le criticità.
Si rinvia altresì a Acquisizione di dati di traffico telefonico e telematico per fini di indagine penale: il decreto-legge 30 settembre 2021 n. 132.
Diritti delle donne, diritto di essere donna
Intervista di Ilaria Buonaguro a Maura Gancitano
Sabino Cassese, nell’introdurre il numero speciale dedicato ai settant’anni della Rivista trimestrale di diritto pubblico da lui stesso diretta da altrettanti cinquanta, si è interrogato sull’effettivo “stato dell’arte” dell’attuazione della nostra Costituzione, guardandosi indietro come è consuetudine fare in occasione di un traguardo importante. La domanda che si è posto e ci pone provocatoriamente il Giurista ha però il sapore amaro del realismo e tradisce subito la prospettiva critico-negativa adottata: non ripercorrere, quindi, gli obbiettivi raggiunti per appuntare le medaglie sul petto, ma elencare quelli falliti, riconoscere le occasioni perse e mancate, per poi poterne sviscerare ed esaminare le cause. Ricorrendo alla metafora delle “promesse costituzionali”, Cassese parla perciò di promesse “non mantenute o tradite”. E, prima fra tutte, annovera la promozione della parità di genere, la cui causa lucidamente individua in “lentezze culturali”.
Sarebbe stata sufficiente questa premessa per ricordare la cifra di perenne attualità della tematica della parità di genere – che si iscrive nel più ampio spettro dei diritti delle donne e della “questione femminile”. Ma i recentissimi episodi riportati dalle cronache – la cadenza ormai giornaliera delle notizie di femminicidi commessi nel nostro paese, tale da aver fatto parlare di una vera e propria emergenza o di una “strage delle donne”, da una parte; e il dramma umano che stanno vivendo le donne afghane e a cui assistiamo imperterriti, dall’altra – ci riportano ad uno stato emotivo di allarme e di sgomento più impellente, toccando le corde che trascendono la riflessione lucida, maturata a freddo, da cui pur si è inteso partire, del puro irrazionale dolore.
La tragica condizione delle donne afghane, in particolare, ci ricorda come il solo fatto di nascere ed essere donna in una parte “sbagliata” del mondo possa ancora segnare irreparabilmente il destino di una vita umana. E tutte le storie di donne interrotte per mano violenta ci ricordano, ancora, di come i diritti delle donne, lungi dall’aver raggiunto una meta (ideale) stabile, meritino una attenzione costante ed un fronte unito.
Dei macro-temi dei diritti delle donne, della parità di genere e di tutte le loro sfaccettature conversiamo oggi con Maura Gancitano, giovane filosofa del panorama culturale italiano, co-fondatrice assieme al marito e filosofo Andrea Colamedici della casa editrice, blog e scuola di filosofia Tlon. Un progetto culturale ambizioso e coraggioso (e indubbiamente riuscito) che Maura e Andrea hanno coltivato perseguendo uno scopo preciso: restituire alla filosofia la sua primigenia ed essenziale funzione di stimolo incessante alla riflessione, in grado di raggiungere – in un certo qual modo, democraticamente – tutti e di fungere da strumento universalmente valido nel comune vivere quotidiano. Attraverso una comunicazione diretta e di immediata comprensione e sfruttando le potenzialità della fluidità del web, Maura Gancitano e Andrea Colamedici hanno così riportato la filosofia nelle piazze, seppur non più solo fisiche, ma anche virtuali, rendendosi artefici di una filosofia che potremmo definire 2.0. o, come pure è già stata efficacemente denominata, “pop”.
Tra le riflessioni che accompagnano la ricca attività di promozione filosofico-culturale di Maura Gancitano, un posto di prim’ordine è stato sempre occupato dalle donne e dalla parità di genere.
Il libro Liberati dalla brava bambina scritto a quattro mani con Andrea Colamedici, edito da Harper Collins e pubblicato nel 2019 – che pure è richiamato nel corso dell’intervista – costituisce solo un esempio di questa sensibilità verso l’universo femminile.
Tentando di ricostruire un quadro che, seppur variamente articolato, non è certo completo, l’intervista intende affrontare le ombre, ma anche le luci del nostro tempo, tanto analizzando le storture sistemiche, i punti di arresto e i passi falsi sul cammino della parità di genere, quanto riconoscendo i progressi che sono stati compiuti – in particolare nell’ultimo anno – grazie allo sforzo unanime e corale delle istituzioni e della società civile. A partire dal riscontro di un dato, dal quale speriamo non si possa più tornare indietro: la maggiore consapevolezza del “problema” e il crescente interesse verso le sue possibili soluzioni.
1) Il lessico di genere è certamente una tematica verso la quale negli ultimi anni si è manifestata un’attenzione crescente, che al tempo stesso non ha tardato a divenire terreno di conflitti e diversità di vedute, soprattutto con specifico riguardo all’ambito delle professioni e degli incarichi politico-istituzionali (sull’argomento già in questa Rivista, l’intervista a più voci curata da Marco Dell’Utri, Lessico di genere).
Se infatti l’accostamento lessico di genere/parità di genere può essere letto come un climax ascendente in cui il raggiungimento della parità passa attraverso il riconoscimento della diversità di genere espressa attraverso la declinazione al femminile di tutti i termini che esprimono una qualifica, l’imprinting della diversità che consegue al ricorso al femminile è da taluni letto come una contraddizione in termini e di risultato.
Peraltro, nella maggior parte dei casi, si registra una certa resistenza proprio da parte delle donne, le quali – come Lei stesso ha già avuto modo di rilevare – riconoscono in “selettivi” titoli al femminile una perdita di autorevolezza, che temono si possa riflettere sulla loro immagine.
Quanto ancora – incrociando così un tema di più ampio respiro – il potere è avvertito dalle donne e dalla società esclusivamente in termini maschili? Come si può interrompere questo cortocircuito che conduce le donne a mimetizzarsi nel “maschile inclusivo”?
In questo momento coesistono molteplici sensibilità, ed è difficile quantificare con esattezza quanto il potere sia ancora avvertito come un fatto maschile a cui, spesso in modo inconsapevole, bisogna adeguarsi. Ci sono senza dubbio ancora molte donne che lo sentono e che si sentono addirittura attaccate da chi invita a usare il femminile, eppure voltandoci indietro possiamo riconoscere quanto sia cambiata la consapevolezza nella società civile, quanto la riflessione sul linguaggio abbia uno spazio in ogni ambito della vita - nell’editoria scolastica, nelle comunicazioni aziendali, nella pubblicità, nella pubblica amministrazione, solo per fare alcuni esempi - laddove fino a pochi anni fa non rappresentava neppure una questione da affrontare. Le cose, seppur lentamente, stanno cambiando.
2) Le donne e il loro corpo. Un argomento vastissimo e dalle implicazioni caleidoscopiche, che tuttavia condividono la medesima origine: parlare delle donne rimanda in maniera diretta, a tratti automatica, all’esteriorità e alla dimensione della corporeità. Un legame, questo, reso ancor più stretto dal rilievo che l’estetica assume nella società contemporanea.
A proposito di questo riflesso condizionato, troppo spesso oggi accade che il giudizio, tanto negativo quanto positivo, sulla fisicità di una donna sia utilizzato per screditare il suo pensiero, instaurando un vero e proprio rapporto di proporzionalità tra corpo e valore dell’argomentazione.
Quanto influisce ancora la componente fisica nella libertà di espressione di una donna e, di converso, nella percezione di credibilità delle proprie opinioni?
Influisce ancora molto, e in ogni ambito. Condiziona la stessa vita di noi donne, ci porta sempre a chiederci come appariremo in una situazione pubblica, come verremo giudicate, e di conseguenza assorbe tempo, energie economiche e pensieri. Non siamo libere di dedicare tutto il nostro tempo a cosa diremo e a cosa lo diremo, come accade agli uomini. In effetti in ogni situazione pubblica il corpo della donna viene giudicato, centimetro per centimetro, indipendentemente dalle sue forme, dalle sue dimensioni e dalle scelte di abbigliamento e trucco. È importante sottolineare che il problema non è essere belle o brutte, con un corpo conforme o no: è il fatto stesso di essere riconosciute donne a rappresentare un problema, e questo è un fatto culturale. Il corpo femminile è ancora visto come non civilizzato e disturbante, per questa ragione in molti settori lavorativi le donne tendono a nasconderlo sotto abiti “maschili”, in modo che non dia fastidio.
3) Nel Suo libro “Liberati della brava bambina”, uscito nel 2019 ed edito da Harper Collins, scritto assieme a Suo marito Andrea Colamedici, analizzate, da un punto di vista filosofico, otto storie di donne tratte dalle più antiche alle più moderne forme di narrazione. Fornendone una lettura diversa, seppur basata sui testi originali, compite una vera e propria opera di decostruzione di stereotipi che hanno storicamente accompagnato determinate figure femminili e che hanno contribuito ad alimentare una visione monolitica della donna, incastrata in ruoli rigidi e precostituiti che ancora oggi condizionano il libero percorso di “fioritura” – per usare la vostra terminologia – di ogni donna. Attraverso questo percorso di disvelamento, al tempo stesso, tentate di ricucire quella ferita atavica e profonda che è comune a tutte le donne.
C’è, come si usa dire con espressione anglofona, un problema di storytelling? Abbiamo cioè conosciuto determinate versioni di figure femminili, e con esse introiettato certi condizionamenti, perché ci è stata tramandata una interpretazione fondata su un univoco punto di vista maschile?
Le storie hanno un potere, veicolano valori, visioni del mondo, giudizi e pregiudizi. È sempre stato così nella storia, a qualunque latitudine, ed è così ancora adesso. I miti omerici hanno influenzato profondamente il nostro sguardo sul mondo, che è poi la ragione per cui Platone ha scelto di sostituirli con i propri, e la mitologia greca ci ha trasmesso una certa visione del rapporto uomo-donna. Abbiamo considerato Zeus e Hera la coppia monogamica fondata della cultura occidentale, e oggi possiamo riconoscere - senza gettare via quel patrimonio, ma al contrario recuperando le storie apocrife - quanto fosse problematico. Ecco perché la psicologia nell’ultimo secolo ha iniziato a indagare questi significati, occupandosi di fiabe, racconti popolari e storie che sembravano solo intrattenimento, ma che invece cementavano una certa cartografia dei rapporti umani. Anche il modo di dare la notizia di un femminicidio sui giornali ha una componente narrativa importante, che ci aiuta a capire quanto la prospettiva con cui si racconta una storia abbia a che fare con la vita e la morte.
4) L’11 febbraio la Corte Costituzionale ha sollevato dinanzi a sé questione di legittimità costituzionale dell’art. 262, comma primo, del codice civile, nella parte in cui, in mancanza di diverso accordo dei genitori, impone l’acquisizione alla nascita del cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi.
La Corte, nel ripercorre le tappe della propria giurisprudenza, si sofferma in particolare su quanto riconosciuto già dall’ordinanza n. 61 del 2006, ovvero che «l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna». Successiva a tale fondamentale pronuncia è la sentenza n. 286 del 2016, con la quale, ravvisando il contrasto della regola del patronimico con gli artt. 2, 3, 29, secondo comma, Cost., la Corte aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma che non consentiva di trasmettere di comune accordo ai figli al momento della nascita anche il cognome materno, e riconoscendo al tempo stesso la necessità di pervenire ad un ristabilimento del principio della parità dei genitori attraverso un intervento del legislatore che disciplinasse organicamente la materia. A tale invito è seguita la consueta inerzia del decisore politico, che ha portato la Corte a tornare, seppur in termini diversi, sulla medesima questione.
In attesa che la Consulta si pronunci, ponendo nuovamente allo scoperto le deficienze e i ritardi del nostro consesso parlamentare e parimenti gettando luce sui punti ancora bui del nostro impianto legislativo, ritiene sia un segnale importante in vista del superamento, anche ideologico, del sistema patriarcale?
È un segnale importantissimo, e negli ultimi decenni ne sono arrivati molti, per fortuna. Stiamo progressivamente abbandonando, con lentezza ma con costanza, una serie di retaggi culturali che ponevano la donna in una condizione di subordinazione, o addirittura di assoggettamento, rispetto all’uomo. In questa prospettiva anche la questione del cognome è importante, perché se è vero che la famiglia e la relazione genitore-figlio dovrebbero fondarsi sull’amore, come ogni rapporto umano rappresentano una dinamica di potere. Se il potere di dare il cognome è solo di un genitore, ne segue che ci sarà uno squilibrio, se non altro nella dimensione pubblica. Quella verso cui stiamo andando in questi anni è, al contrario, una società in cui i genitori possano avere parità di potere, possano davvero cooperare senza che uno prevalga sull’altro, e questo ci porta a mettere in dubbio anche degli aspetti che di primo acchito potrebbero apparire superflui.
5) La ancora oscura vicenda della diciottenne pakistana Saman Abbas ha riportato all’attenzione dei media il fenomeno dei matrimoni combinati (e di quello, in qualche modo affine, delle cc.dd. “spose bambine”). Il Viminale ha da poco pubblicato il primo report statistico sulla costrizione e induzione a nozze in Italia, con molta probabilità sottostimato rispetto al numero reale, a circa due anni dall’introduzione del relativo delitto di cui all’art. 558bis c.p. Sebbene vada certamente ascritto merito all’iniziativa del legislatore di criminalizzare i matrimoni forzati (i quali nella maggior parte dei casi coinvolgono giovani o addirittura minorenni), va altresì considerato come nei reati culturalmente orientati - o comunque connotati da motivi di matrice ideologico-culturale nonché religiosa - l’intervento penale assuma carattere eminentemente sanzionatorio. Difatti, gli auspicati meccanismi di coazione psicologica che la parte precettizia del divieto dovrebbe attivare secondo la funzione di prevenzione generale integratrice che le è propria, sono in questi contesti largamente inefficaci.
Crede pertanto che, così come nel caso del più vasto problema della violenza sulle donne, lo Stato debba farsi carico di intervenire in un’altra direzione, che miri a potenziare la prospettiva della prevenzione rispetto a fenomeni così strutturalmente complessi e, appunto, espressivi di identità culturale?
È un tema molto complesso e difficile da riassumere. Credo prima di tutto che, nonostante la comunità musulmana in Italia conti milioni di persone, sia l’opinione pubblica sia le istituzioni ne sappiano ancora molto poco, e questo rischia di favorire l’islamofobia, specie di fronte a un caso come quello di Saman Abbas. È importante, per questa ragione, dare voce a tutte le attiviste femministe musulmane che possono fare chiarezza e permettere di orientarsi nella complessità delle questioni religiose. La religione musulmana non è in contraddizione con i principi democratici, prova ne è proprio l’espressione del femminismo musulmano, ma perché si possa fare prevenzione di certi fenomeni è urgente che lo Stato abbia prima di tutto conoscenza e consapevolezza della cultura di cui si sta parlando. Spesso non si capisce quanto, oltre all’aspetto repressivo, sia necessario un lavoro culturale. Non accade solo in casi come questi, ma anche in tutto quello che ha a che fare con la violenza di genere.
6) Affacciandoci ora sul panorama internazionale, il primo luglio la Turchia è ufficialmente uscita dalla Convenzione di Istanbul, a seguito della decisione del Consiglio di Stato turco di respingere il ricorso con cui l’opposizione aveva chiesto che la decisione del presidente Erdogan fosse annullata.
Non erano mancate reazioni, sia di aperta protesta delle donne turche, scese in piazza ad Istanbul, come ad Ankara e a Smirne; sia di denuncia delle istituzioni ed autorità europee ed extraeuropee.
E se la motivazione ufficiale di tale volontà di recesso è stata indicata nel (presunto) raggiungimento di un adeguato standard di tutela delle donne attraverso strumenti di protezione interni allo Stato turco, – il che fa amaramente sorridere, guardando ai numeri dei femminicidi e delle violenze sulle donne perpetrate in Turchia solo tra il 2020 e questa prima metà di 2021, senza considerare un certa cifra “oscura” di morti di donne dubbie –; è fin troppo evidente che si tratti di una calcolata scelta politica, da collegare all’intento di Erdogan di avvicinare a sé quella consistente parte dell’elettorato conservatore che vede nella libertà delle donne un nemico della famiglia tradizionale.
Sorvolando sulle sabbie mobili su cui si pretenderebbe di reggere la motivazione ufficiale, e scomodando il secondo imperativo categorico di Kant, sono le donne ancora una volta trattate solo come mezzo, e mai come fine, come bieco strumento di consenso politico?
La Turchia è sempre di più l’ago della bilancia di molte questioni geopolitiche, quindi quello che accade lì è da osservare con attenzione e con estrema serietà. L’uscita dalla Convenzione di Istanbul rientra in un progetto internazionale di smantellamento dei diritti riproduttivi e sessuali delle donne, che si scontra invece con quello che l’Unione Europea sta cercando di fare, ponendo la violenza di genere come eurocrimine. Io credo che il progetto di sottrazione dei diritti delle donne sia prima di tutto un fatto ideologico, più che una questione di consenso politico. Le donne fanno paura, se sono libere diventano pericolose e mettono in dubbio i ruoli di genere, quindi devono perdere dei diritti acquisiti, a cominciare da quello all’aborto. Questo è pericolosissimo, ma dagli Stati Uniti, all’Ungheria, alla Polonia e anche a certe regioni italiane, accade sempre più di frequente.
7) Il tema degli stereotipi di genere è stato in questa Rivista acutamente sviscerato da Marco Dell’Utri entro la cornice specifica del linguaggio giuridico, Sugli stereotipi nel ragionamento giuridico.
L’analisi – che si iscrive all’interno di un più ampio ciclo di riflessioni allo stesso dedicato – prende le mosse dal Programma di Gestione per l’anno 2021 della Corte di cassazione, predisposto dal Primo Presidente Pietro Curzio.
Dalla ricostruzione di significative decisioni giudiziarie – talune più lontane altre più vicine nel tempo – si evincono due aspetti: il primo è indubbiamente la tenace pervasività e diffusività del fenomeno finanche nelle trame motivazionali dei provvedimenti giudiziari (oltre che, ancora, nelle modalità di conduzione di interrogatori e contro-esami, specie nell’ambito di reati a sfondo sessuale); il secondo, che vi è, allo stesso tempo, una consapevolezza crescente e una maggiore sensibilità rispetto al problema, che si traduce nella attivazione di politiche settoriali di contrasto.
Intravede, anche nell’ambito di tale contesto, che è espressione di uno dei poteri fondamentali dello Stato e ha diretta incidenza sulla vita delle persone, un momento di significativa apertura e propulsione al cambiamento?
Credo proprio di sì. Fino anche solo a due anni fa questo tipo di decisioni sarebbero state quasi impossibili e sarebbero state ritenute superflue o addirittura incomprensibili. Oggi ci troviamo al centro del dibattito, di fronte a posizioni inconciliabili e a tantissime resistenze, ma finalmente il dibattito è aperto. È una rivoluzione, nonostante tutto.
8) Lo scorso 4 marzo il quotidiano la Repubblica ha pubblicato una lettera aperta indirizzata all’Istituto dell’Enciclopedia Treccani, su iniziativa di Maria Beatrice Giovanardi - l’italiana che ha già ottenuto la modifica in chiave non sessista della definizione di “woman” dell’Oxford Dictionary - e firmata da cento personalità del mondo della politica e della cultura. Con questa lettera si reiterava, rendendola di dominio pubblico, la richiesta (già fatta pervenire direttamente alla Treccani) di procedere ad un aggiornamento delle definizioni sinonimiche del termine donna, da operare in due direzioni: la rimozione dei “vocaboli espressamente ingiuriosi riferiti alla donna, limitandosi a lasciarli sotto la lettera di riferimento”; l’inserimento di “espressioni che rappresentino, in modo completo ed aderente alla realtà di oggi, il ruolo delle donne nella società”.
Ne è dapprima seguita una replica pubblicata sia sul sito della Treccani che su la Repubblica, a firma della direttrice del Vocabolario Valeria Della Valle, ove si precisava come l’intento dell’Istituto fosse quello di registrare tutte le espressioni che, nel corso della storia della lingua italiana, sono state riferite alla parola “donna”, comprese, dunque, quelle che ne dipingono una visione esclusivamente dispregiativa.
Il successivo 14 maggio la Repubblica ha informato i propri lettori dell’avvenuta espunzione di tutte le espressioni denigratorie in precedenza contenute nella definizione di “donna” del vocabolario online della Treccani, alla quale seguirà a breve un più completo aggiornamento del lemma.
È concorde nel ritenere che le istituzioni della cultura, qual è indubbiamente l’Istituto dell’Enciclopedia Treccani, debbano essere a pieno titolo partecipi del processo di cambiamento di un habitus mentale che, seppur non ancora del tutto smantellato, rivela una sempre maggiore inadeguatezza a rappresentare la società contemporanea?
Rispetto a questa vicenda ho letto pareri molto discordanti, e in effetti credo che rappresenti una domanda aperta, che è poi legata a due differenti approcci della linguistica: quello descrittivo e quello normativo. Un vocabolario deve descrivere un termine o prescrivere come andrebbe usato? Molte persone pioniere del linguaggio inclusivo in Italia (penso a Vera Gheno e Federico Faloppa) hanno espresso disaccordo rispetto alla cancellazione, proprio perché i vocabolari registrano tutto quello che la comunità dei parlanti usa, quindi anche le espressioni dispregiative e offensive. È piuttosto la comunità dei parlanti a dover cambiare il giudizio di valore che esprime rispetto a un termine o scegliere di non usarlo più, così da espellerlo dal vocabolario. Io sono abbastanza d’accordo, anche perché questo non solleva le istituzioni che osservano e descrivono la nostra lingua dal partecipare al processo. Purtroppo, a differenza di Treccani, ci sono molte altre istituzioni che hanno paura di questo cambiamento.
9) Ancora in ambito di istituzioni culturali. L’Università di Bari ha di recente comunicato di aver previsto, a partire dal prossimo anno accademico, una riduzione del 30% delle tasse universitarie in favore delle studentesse (con reddito ISEE inferiore a 30mila euro) che sceglieranno di iscriversi a corsi di laurea (puntualmente elencati) che registrano storicamente una percentuale molto bassa di “presenza” femminile.
L’iniziativa ha suscitato reazioni di diverso segno: la più eclatante, tra le contrarie, è certamente quella del senatore Pillon, che ha sostenuto la inopportunità di tali politiche, difettando – a suo dire – nelle donne una predisposizione naturale all’apprendimento delle materie “tecniche”, essendo viceversa più portate per “materie legate all’accudimento”.
Di poco successiva è la notizia del bando per quindici borse di studio stanziate dal Politecnico di Milano e finanziate da privati, destinate esclusivamente a diplomande che intendano iscriversi alle facoltà di ingegneria.
Al di là di qualsivoglia preconcetto, Lei che attraverso il progetto Tlon e la sua Scuola di filosofia si occupa in particolare di “fioritura personale” e che ha esperienza di formatrice nelle più affermate aziende, crede sia possibile sostenere una correlazione tra genere e inclinazione?
O è anch’essa il frutto di un’operazione subdola di “etichettamento”?
È senza dubbio un condizionamento culturale, non c’è alcuna ragione biologica per credere che ci sia una correlazione. Come esseri umani, al di là del nostro genere possiamo avere inclinazioni per certe discipline e non per altre. Del resto, le donne hanno iniziato a frequentare l’università poco più di un secolo fa, per millenni è stato detto loro che studiare non fosse “femminile” e che leggere rendesse sterili. Parlare di discriminazione di genere, infatti, non significa dire che le donne siano migliori degli uomini o che debbano voler fare tutto, ma significa valutare le proprie capacità e quelle delle altre persone senza i pregiudizi legati al genere, senza pensare che ci siano cose per donne e cose per uomini. Purtroppo in Italia ci sono ancora questi pregiudizi diffusi.
10) Altro tema controverso che ritorna ciclicamente nel dibattito pubblico è quello delle quote rosa. Le critiche che le stesse donne muovono al c.d. quotismo si fondano sulla convinzione che riservare dei posti sulla base della mera appartenenza al genere femminile offuscherebbe il ricorso ai canoni del merito e della competenza quali univoci criteri del processo di selezione, disegnando una corsia privilegiata.
Di contro, chi si professa a favore delle quote rosa, vi riconosce una funzione di “cura necessaria” rispetto ad uno stato di cose malsano, costituito da un dislivello di potere incapace di riassestarsi da solo. Chi infatti detiene un privilegio non è disposto a cederlo sua sponte.
Secondo Lei è questo il modo in cui devono essere intese le quote rosa? Ritiene che possano svolgere una funzione simil-pedagogica, che le renderà addirittura superflue in un prossimo futuro?
Secondo me bisogna partire dal fatto che ci siano donne e uomini capaci e competenti in ogni campo, ma che per i cosiddetti gender bias le donne vengano sistematicamente escluse (perché ritenute poco autorevoli o perché si pensa che non siano adatte a ricoprire una certa carica perché madri, per fare due esempi). Le quote, in questo senso, non sono uno strumento premiale, ma hanno lo scopo di smantellare i bias. Se pensiamo che le quote siano un premio, siamo in sostanza dicendo che stiamo dando una posizione a una persona che non la merita, quindi che non è competente. La legge Golfo Mosca ha dimostrato, al contrario, che le donne in grado di partecipare ai CdA c’erano eccome, ma non venivano viste. Sarebbe augurabile, come sta accadendo in altri paesi, che le quote diventino superflue a un certo punto, ma in Italia la discriminazione è talmente grande che purtroppo sono ancora essenziali.
11) Le cc.dd. audizione cieche – da Lei ricordate in una recente intervista – sperimentate a partire dagli anni ’50 dalla New York Philharmonic hanno avuto l’esito di un aumento fino al del 30% delle orchestrali assunte.
Non si tratta della prima forma di “occultamento” dell’identità di genere – rectius genere femminile – che ha ottenuto riscontri di favore per le donne: si pensi, ad esempio, all’utilizzo di pseudonimi, nomi maschili o addirittura all’anonimato da parte di tante scrittrici nella storia della letteratura, resosi funzionale se non addirittura necessario in alcuni casi per essere ritenute meritevoli di pubblicazione, in altri per incrementare il numero delle vendite.
Da qui il seguente quesito: è opportuno incentivare simili prassi di oscuramento del proprio genere come metodi più imparziali di selezione, privilegiando il dato pratico favorevole alle donne, o invece valorizzare l’aspetto della conduzione, riconoscendo l’inganno di un sistema che non affronta l’ostacolo ma semplicemente lo aggira?
Le audizioni cieche dimostrano che la ragione per cui le orchestrali non venivano scelte era il genere, e rappresentano un caso di studio interessante per smontare l’idea che la discriminazione non esista. Ovviamente doversi nascondere perché emerga il proprio talento è svilente e dimostra quanto lo sguardo sui corpi e sulle identità sia pervasivo. Serve come caso limite, ma dovrebbe portare a una riflessione sui gender bias nei processi di selezione. Ogni persona dovrebbe essere libera di mostrarsi in pubblico senza dover nascondere una parte di sé per essere considerata adatta a un ruolo.
12) Il c.d. Family Act – riforma che si colloca nel quadro del PNRR – realizza per la prima volta un approccio “integrato” nelle politiche di sostegno alle famiglie, prevedendo l’adozione di misure che operano in direzioni diverse ma convergono su un medesimo fronte. Tra queste meritano di essere menzionate gli incentivi al lavoro femminile, l’estensione del congedo obbligatorio di paternità, la revisione dei congedi parentali (per una ricostruzione dei due istituti e delle relative differenze si rimanda in questa Rivista all’articolo di Francesco Bordonali, La tutela delle pari opportunità: un primo (mezzo) importante passo in avanti).
Ritiene che, anche su impulso della normativa europea (si guardi in ultimo la diretttiva UE n. 2019/1158 del 20 giugno 2019, relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza) nonché delle sfide lanciate dall’Unione per far fronte alle “questioni sociali” acuite dalla pandemia, il Family Act testimoni una maggiore coscienza del sempre più necessario ricorso alla logica della condivisione, che deve partire dalle famiglie, per poi permeare tutti i contesti lavorativi e infine i piani più alti del potere?
Credo che la sensibilità stia cambiando, e che in questo l’Unione Europea abbia un ruolo centrale, così come lo hanno - sebbene in modo diverso - altre realtà sovra-nazionali. L’agenda 2030 dell’ONU, per esempio. è un documento fondamentale per il cambiamento di una serie di processi sociali, economici, ambientali, ma anche di stereotipi e dinamiche relazionali. L’obiettivo di sviluppo sostenibile relativo alla parità di genere (SDG 5) parla sia della salute riproduttiva, della contraccezione, delle mutilazioni genitali femminili, ma anche della divisione dei carichi domestici, della distruzione degli stereotipi e di un’altra serie di comportamenti culturali che sono ovviamente meno gravi di altri, ma che rientrano nella stessa visione dei rapporti tra i generi.
13) Grazia Deledda, scrittrice premio Nobel per la letteratura 1926, e Hannah Arendt, filosofa politica collocata tra i pensatori più influenti del Novecento. Due donne, tra le tante, che si sono distinte in diversi campi della cultura. Allo stesso tempo due donne spesso ignorate dai programmi scolastici e di conseguenza poco conosciute dagli studenti.
Inserire stabilmente nei programmi, per lo meno delle scuole superiori, figure di donne come la Deledda per la letteratura e la Arendt per la filosofia, aiuterebbe a comunicare agli studenti un messaggio duplice: fornire un esempio e un modello di ispirazione per le giovani donne e di inclusione nei campi artistici, culturali e latu sensu politici per chi è in una fase cruciale della propria formazione.
Esiste anche in questo caso un difetto di rappresentazione, da imputare ai nostri programmi scolastici, che sarebbe opportuno correggere?
Le donne vengono ancora sistematicamente dimenticate e cancellate, anche se - come Deledda - hanno vinto il premio Nobel per la Letteratura, finendo per essere lette più all’estero che nel proprio paese. Ancora una volta, rappresentare l’opera delle donne non è un premio o un contentino, ma il riconoscimento giusto di un valore. Se prima dell’Ottocento le donne non potevano, salvo davvero pochissime eccezioni, occuparsi di letteratura e filosofia, da un secolo e mezzo questo accade, dunque come è possibile che nei manuali scolastici siano ancora assenti?
14) “La prima donna che…” La prima donna a…” o “Per la prima volta una donna…” sono frasi che – complici i mass media – sentiamo in maniera sempre più ricorrente.
Eppure, nella positività del messaggio che questi “annunci mediatici” intendono trasmettere, essi testimoniano anche l’eccezionalità di vedere una donna ricoprire determinati ruoli.
Non a caso, nella bellissima intervista di Paola Filippi a Margherita Cassano, La prima magistrata nominata Presidente aggiunto della Corte di Cassazione, pubblicata in questa Rivista, la Dott.ssa Cassano ha ribadito quanto già significativamente detto poco dopo la sua nomina, e cioè che “potremmo ritenere raggiunta la parità solo quando cesserà di fare notizia la nomina di una donna” in un ruolo apicale della magistratura.
Questo, in effetti, è l’obiettivo che tutti noi, non solo le donne, ci dovremmo prefiggere.
Ma nel frattempo che ciò accada, potrebbe suggerirsi una riflessione: se le notizie di donne che hanno raggiunto i vertici nella loro professione, che si sono distinte in un determinato settore, che hanno scalato con successo il cursus honorum, realmente comunicano messaggi ambivalenti, nel lungo frangente di questo percorso tutto in salita probabilmente dovremmo continuare a privilegiare la faccia della medaglia che ci sorride. Per offrire l’idea della possibilità a chi è cresciuta invece nella cultura della impossibilità e della negazione delle opportunità; per offrire un messaggio di speranza a chi stava lottando ma stava per cedere…
Io non credo che sottolineare queste situazioni sia del tutto sbagliato, specie perché sono frequenti e danno l’idea che un altro muro sia crollato, e che dunque sia possibile anche per altre donne fare lo stesso. Il problema è quando la donna che raggiunge un certo ruolo per la prima volta viene raccontata solo in quanto donna, e spesso in quanto madre, oscurando così il suo nome, la sua individualità, le sue competenze. È importante raccontare cosa sta cambiando in tutti i settori, ma soprattutto raccontare le storie di queste donne, che spesso sono potenti, particolari, uniche, e che rischiano di essere appiattite sullo stereotipo de “la prima donna che…” Abbiamo bisogno di sapere che il soffitto di cristallo si può infrangere, ma abbiamo bisogno di ascoltare la storia di chi l’ha fatto.
Sull’utilizzabilità dei dati del traffico telefonico e telematico acquisiti nell’ambito dei procedimenti pendenti alla data del 30 settembre 2021
di Claudio Gittardi
Il decreto-legge 30 settembre 2021 n° 132 pubblicato in Gazzetta Ufficiale in pari data ed avente efficacia immediata introduce come noto all'articolo 1 modificazioni all'articolo 132 del decreto legislativo 30 giugno 2003 n° 196 in materia di acquisizione dei dati di traffico telefonico e telematico per fini di indagine penale.
Tale disciplina risulta introdotta per adeguare il sistema normativo nazionale alla luce dei principi enunciati dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea Grande Camera del 2 marzo 2021 e nello specifico al punto 2 del dispositivo ove si ritiene non conforme alle direttive europee una normativa nazionale che attribuisca al Pubblico Ministero quale autorità avente esclusivamente "…il compito di dirigere il procedimento istruttorio penale e di esercitarle, eventualmente l'azione penale in un successivo procedimento…" la competenza ad autorizzare l'accesso di un'autorità pubblica ai dati relativi al traffico ed i dati relativi all'ubicazione ai fini di un'istruttoria penale.
Il novellato art 132 comma 3 DLVO 196/2003 prevede dunque che in presenza di sufficienti indizi di reati per i quali la legge stabilisce la pena dell'ergastolo o della reclusione non inferiore al massimo a tre anni, e dei reati di minaccia e di molestia o disturbo gravi alle persone col mezzo del telefono, ove tali dati siano rilevanti ai fini della prosecuzione dell'indagine, gli stessi devono essere acquisiti con decreto motivato del Giudice su richiesta del Pubblico Ministero o su istanza del difensore dell'imputato, della persona sottoposta a indagini, della persona offesa e delle altre parti private.
Il Pubblico Ministero mantiene, in base al nuovo comma 3 bis del citato art 132, la possibilità di disporre l'acquisizione dei dati con decreto motivato soltanto quando ricorrono ragioni di urgenza e vi sia fondato motivo di ritenere che dal ritardo possa derivare grave pregiudizio alle indagini.
Ma anche in questo caso è previsto l'intervento del Giudice con l'emanazione di un provvedimento di convalida entro quarantott'ore dalla trasmissione del decreto motivato da parte del Pubblico Ministero. E in tale caso la mancata convalida del decreto del PM nel termine stabilito determina l'inutilizzabilità dei dati acquisiti.
Nella versione originaria del DL 132/2021 all'articolo 2 veniva in realtà dettata una disposizione transitoria che prevedeva l'utilizzabilità dei dati relativi al traffico telefonico e telematico acquisiti dall'Autorità giudiziaria nei procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del decreto ove tale acquisizione fosse stato convalidata dal Giudice nella prima udienza successiva alla data di entrata in vigore del decreto ovvero, in caso di mancato esercizio dell'azione penale, da parte del Giudice per le indagini preliminari all'atto dell'adozione del primo provvedimento successivo all'entrata in vigore del decreto legge
Tale disposizione transitoria che avrebbe determinato per inciso notevoli problemi in sede applicativa e di interpretazione non è stata reiterata nel testo definitivo del DL 132 /2021. Si deve pertanto ritenere che, in assenza di una specifica disposizione transitoria e in base al principio di disciplina temporale degli atti processuali , siano utilizzabili i dati del traffico telefonico e telematico acquisiti nell'ambito dei procedimenti pendenti alla data del 30 settembre 2021 a seguito di provvedimento emesso dal Pubblico Ministero prima di tale data in vigenza della precedente disciplina; e questo anche nell'ipotesi che il provvedimento del Pubblico Ministero sia stato emesso anteriormente a tale data e i relativi dati risultino trasmessi allo stesso dall'autorità competente successivamente al 30.9.2021, data di entrata in vigore del DL 132/2021, posto che si tratta di dati acquisiti e trasmessi in base a provvedimento legittimamente emesso dall’Autorità giudiziaria in conformità al contenuto dell’allora vigente art 132 DLVO 196/2003 .
Altro e diverso aspetto attiene all’applicabilità o meno di tale disciplina anche ai provvedimenti di acquisizione dei c.d files di log ora emessi dal PM. I files di log contengono due tipologie di informazioni:
- i c.d. Registration Data, ossia le informazioni inserite dall’utente all’atto della creazione dell’account, come ad esempio nome, cognome, data e luogo di nascita, account di posta elettronica principale e secondario (di recupero), data/ora di creazione del profilo ed eventuale relativo indirizzo IP (pubblico), stato dell’account (attivato/disattivato con relativo gruppo data/ora), nonché altre informazioni descrittive dell’utente, per i quali non è previsto alcun sistema di autenticazione dei dati immessi, fatta eccezione per l’account di posta elettronica principale e, in alcuni casi, per il numero di cellulare, per cui esiste invece un’apposita procedura di verifica tramite mail o SMS;
- i c.d. Traffic Data, ovvero le informazioni relative alle connessioni effettuate verso lo specifico profilo utente, ossia indirizzo IP (pubblico) e gruppo data/ora della relativa connessione.
Le informazioni ricavabili dall’analisi delle citate tipologie di files di log appaiono strettamente riconducibili al legittimo utilizzatore del profilo (fatta eccezione per i casi di accesso abusivo ex art.615-ter c.p.), di cui sarà possibile rilevare, al massimo e non direttamente, l’eventuale impiego di una connessione assegnata ad un’utenza domestica, del luogo di lavoro o mobile.
In tale documentazione non è pertanto contenuta alcuna informazione che consenta di ricostruire direttamente l’interazione del soggetto con terzi e/o di geolocalizzare direttamente le attività svolte.
In altri termini con le acquisizioni dei files di log non si acquisiscono dati relativi al traffico telematico o dati relativi all’ubicazione idonei a “fornire informazioni sulle comunicazioni effettuate da un utente” di comunicazione telematica (posto che la comunicazione implica interazione con altro soggetto) o “sull’ubicazione delle apparecchiature terminali da costui utilizzate”, che sono appunto le informazioni a cui si riferisce la citata sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea Grande Camera .
Si deve ritenere pertanto che i provvedimenti di acquisizione dei files di log non rientrino nella previsione del DL 132/2021 come novellato e possano essere sempre autonomamente emessi dal PM.
Il tempo e la responsabilità della P.A. nella visione del legislatore all’epoca della pandemia
di Antonella Manzione
Sommario: 1. Premessa - 2. La violazione del termine di chiusura del procedimento - 3. L’inefficacia quale strumento di rafforzamento dell’istituto del silenzio - 4. La certificazione del silenzio - 5. Le conseguenze del mancato rispetto del termine per il potere conformativo o inibitorio in materia di scia - 6. Le modifiche al potere di annullamento di ufficio - 7. L’autotutela in relazione alla S.C.I.A. - 8. Ancora sull’impatto della disciplina dell’autotutela sulla s.c.i.a. - 9. ll monitoraggio dei tempi dei procedimenti - 10. Le responsabilità - 11. Conclusioni
1. Premessa.
L’art. 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241, come modificato dall’art. 7 della l. 18 giugno 2009, n. 69,rubricato “Conclusione del procedimento”, declina la doverosità amministrativa -in risposta ad un’istanza di parte necessaria all’attivazione del procedimento ovvero ad un obbligo di attivarsi ex officio- sia in termini di avvio che di conclusione del procedimento con un provvedimento espresso entro un tempo dato[1]. La sussistenza dell’obbligo, tuttavia, non è stata ancorata in maniera assolutistica ad una qualche previsione normativa che formalmente vincoli la Pubblica Amministrazione, ma ravvisata in tutti quei casi in cui ragioni di giustizia -recte, di giustiziabilità- e di equità impongono l’adozione di un provvedimento. La fonte dell’obbligo giuridico di provvedere, quindi, in genere consiste in una norma di legge, di regolamento od in un atto amministrativo, ma non dovendo necessariamente derivare da una disposizione puntuale e specifica, può scaturire anche da prescrizioni di carattere generale e/o dai principi regolatori dell’azione amministrativa[2]. La non semplice ricerca di un punto di equilibrio tra la doverosa responsabilizzazione del privato, che deve darsi cura di corredare le proprie istanze con quanto necessario da subito ad attribuire loro consistenza e renderle “esaminabili” dall’Amministrazione e, quale contraltare, l’approccio collaborativo di quest’ultima, si gioca spesso proprio sulla auspicata unicità e tempestività delle richieste di integrazione, evitando la reiterazione dei contatti per il semplice tramite di una valutazione iniziale esaustiva e trasparente. Da un lato, infatti, si pone un’esigenza di corretta individuazione del dies a quo a decorrere dal quale computare la maturazione del provvedimento tacito, ovvero la possibilità di controllo “fisiologico” di un’attività soggetta a s.c.i.a., non potendosi dare certo rilievo a istanze meramente strumentali in quanto prive finanche del corredo documentale e descrittivo richiesto dalla norma; dall’altro, all’opposto, di far sì che un atteggiamento ondivago o comunque insistito dell’Amministrazione finisca per vanificare la portata anche responsabilizzante degli istituti, avvalorando la comprensibile ritrosia del privato ad accontentarsi di un atto non ostensibile all’organo di controllo. È in tale ambito che si collocano le più recenti novelle in materia che nella cornice dell’alleggerimento burocratico teleologicamente orientato a favorire la ripresa economica del post pandemia individuano modalità di rafforzamento degli istituti del silenzio assenso e della segnalazione certificata di inizio attività, sulla cui concreta efficacia può al momento avanzarsi solo un giudizio di prognosi[3].
2. La violazione del termine di chiusura del procedimento.
Come noto, in termini generali, tranne che nei casi di silenzi significativi, alla violazione del termine finale di un procedimento amministrativo non consegue l’illegittimità dell’atto tardivo - salvo che il termine sia qualificato perentorio dalla legge - trattandosi di una regola di comportamento e non di validità[4]. La perentorietà dei termini procedimentali, peraltro, può aversi, quale eccezione alla regola della loro natura meramente ordinatoria o acceleratoria, nei soli casi in cui disponga in tal senso una norma che disciplini in modo specifico i procedimenti di volta in volta considerati, o sanzioni espressamente con la decadenza il mancato esercizio del potere dell’amministrazione entro gli stessi. L’art. 2-bis della medesima legge sul procedimento correla all’inosservanza del termine finale conseguenze sul piano della responsabilità dell’Amministrazione, ma non include profili afferenti la legittimità dell’atto tardivamente adottato. Il ritardo, in definitiva, non è un vizio in sé dell’atto ma un presupposto che può determinare, in concorso con altre condizioni, una eventuale forma di responsabilità risarcitoria dell’Amministrazione, ferma restando la possibilità per gli interessati di chiedere la condanna della stessa a provvedere ai sensi dell’art 117 c.p.a.[5].
3. L’inefficacia quale strumento di rafforzamento dell’istituto del silenzio.
Al fine di meglio comprendere i recenti interventi del legislatore sulla tematica, occorre ancora richiamare, ancorché sinteticamente, le linee di contorno dell’istituto del silenzio assenso. Esso costituisce la soluzione che da tempo il legislatore ha inteso individuare per porre rimedio al problema dell’inerzia della amministrazione, ovvero al fatto che non sia stato adottato il provvedimento finale nei procedimenti ad istanza di parte entro il termine certo e predeterminato di cui al richiamato art. 2 della l. n. 241 del 1990. Con il silenzio assenso, perciò, il richiedente ottiene automaticamente il bene della vita a cui tende, in conseguenza di un meccanismo normativamente determinato nei presupposti e nei limiti di applicazione che produce un effetto legale equipollente a quello di un provvedimento favorevole[6]. Il suo ambito di applicazione è stato declinato in chiave ricognitiva nella elencazione delle attività e dei procedimenti ad esso soggetti contenuta nella Tabella A allegata al d.lgs. 25 novembre 2016, n. 222 (c.d. “SCIA 2”), che riporta anche quelli, comunque riferiti ai settori del commercio e delle attività assimilabili, dell’edilizia e dell’ambiente (per un totale di 246 attività/procedimenti) soggetti al regime dell’autorizzazione o della s.c.i.a. Va infine sinteticamente ricordato che nei casi in cui equivale ad accoglimento della domanda, il silenzio, in quanto provvedimento, può essere annullato o revocato, in via di autotutela, dall’Amministrazione (art. 20, comma 3, della l. n. 241 del 1990).
Dapprima con il c.d. “decreto semplificazioni”, 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni, dalla l. 14 settembre 2020, n. 120, indi con il più recente d.l. 31 maggio 2021, n. 77, convertito dalla l. 29 luglio 2021, n. 108, il quadro normativo ha subito, quanto meno nelle intenzioni del legislatore, un “rafforzamento”, nel dichiarato intento di colmare quell’area chiaroscurale tra l’astrazione giuridica e l’operatività pratica per come declinata nelle scelte gestionali delle Amministrazioni. Pur lasciando inevitabilmente immutata la struttura essenziale del provvedimento tacito, comprensiva delle scansioni temporali che ne determinano la formazione, si è dunque cercato di ovviare alla ricordata riluttanza del privato a ritenersi “appagato” dallo stesso, piuttosto che aspirare alla sua “materializzazione” sul piano formale, a torto o a ragione percepita come più cautelante a fronte di un eventuale controllo. Emblematica al riguardo è la casistica in ambito edilizio: nel procedimento di rilascio del permesso di costruire, disciplinato dall’art. 20 del d.P.R. n. 380 del 2001, che ne scansiona anche la relativa tempistica, è espressamente ribadita la possibilità di interruzione dello stesso per una sola volta per la motivata richiesta di documenti che integrino o completino quelli presentati e che non siano già nella disponibilità dell’Amministrazione o che questa non possa acquisire autonomamente[7]. Al contrario, le lungaggini istruttorie sono all’ordine del giorno e vengono denunciate come fattore di criticità spesso portato ad esempio delle difficoltà pratiche connesse all’effettivo utilizzo degli strumenti di semplificazione via via introdotti dal legislatore. La problematica peraltro ha assunto contorni ancor più rilevanti in seguito al mutato significato del decorso del tempo da originario rifiuto di provvedere al rilascio del titolo in assenso allo stesso (art. 5, comma 2, lett. a), del d.l. 13 maggio 2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla l. 12 luglio 2011, n. 106, che ha riscritto in parte qua l’art. 20 del d.P.R. n. 380/2001)[8].
Con la prima delle richiamate novelle, dunque (art. 12 del più volte ricordato d.l. n. 76/2020), è stato inserito nell’art. 2 della l. n. 241/1990 un comma 8 bis ai sensi del quale «Le determinazioni relative ai provvedimenti, alle autorizzazioni, ai pareri, ai nulla osta e agli atti di assenso comunque denominati, adottate dopo la scadenza di alcuni termini, sono inefficaci». Vale la pena ricordare come la nozione dell’efficacia dei provvedimenti amministrativi trovi consacrazione formale nell’art. 21 bis, che con riferimento a quelli limitativi della sfera giuridica dei privati, superando la teorica dell’atto ricettizio, la individua nell’avvenuta messa a conoscenza dei contenuti da parte dei destinatari. Più in generale, e senza addentrarsi nella questione della capacità di un atto di produrre effetti nella sfera giuridica del destinatario, come ben sintetizzato da autorevole dottrina, l’efficacia di un atto amministrativo indica la sua idoneità a produrre effetti e conseguenze giuridiche e, allo stesso tempo, per una sovrapposizione semantica, il complesso medesimo di tali conseguenze[9].
Dopo la novella del 2020, dunque, l’inefficacia del provvedimento quale “sanzione” del mancato rispetto di alcuni termini, per lo più endoprocedimentali, consegue alla violazione di quelli previsti dalle seguenti norme, tassativamente individuate:
- art. 14, bis, comma 2, lett. c), relativo alle determinazioni delle amministrazioni coinvolte in sede di conferenza di servizi semplificata, che devono essere adottate entro il termine comunicato dall’amministrazione procedente, non superiore a 45 giorni (90, in caso di interessamento di amministrazioni preposte alla cura di interessi sensibili). La legge qualifica la mancata comunicazione della determinazione nei termini come assenso senza condizioni (articolo 14 bis, comma 4);
- art. 17 bis, commi 1 e 3, relativo all’acquisizione di assensi, concerti, nulla osta comunque denominati di competenza di altre amministrazioni pubbliche ovvero di gestori di beni o servizi pubblici per l’adozione di provvedimenti normativi e amministrativi da parte di una pubblica amministrazione. Anche in questo caso è prevista la formazione del silenzio assenso decorso il termine di 30 giorni dal ricevimento dello schema di provvedimento, di 90 nel caso di amministrazioni preposte alla tutela di interessi sensibili[10];
- art. 20, comma 1, che disciplina il silenzio assenso;
- art. 14 ter, comma 7, relativo ai lavori della conferenza di servizi simultanea, che si concludono non oltre 45 giorni decorrenti dalla prima riunione (90 giorni nel caso in cui siano coinvolte amministrazioni preposte alla cura di interessi sensibili ai sensi dell’art. 14 ter, comma 2). Anche in tale ipotesi sono previsti meccanismi di silenzio assenso: all’esito dell’ultima riunione l’amministrazione procedente adotta la determinazione motivata di conclusione del procedimento e si considera acquisito l’assenso senza condizioni delle amministrazioni il cui rappresentante non abbia partecipato alle riunioni ovvero non abbia espresso, partecipandovi, la propria posizione, ovvero infine abbia espresso un dissenso motivato riferito a questioni estranee all’oggetto della conferenza.
La decorrenza del termine normativamente previsto è foriera di conseguenze, nell’accezione sopra delineata, solo ove la domanda sia ammissibile: ciò non tanto e non solo in senso finalistico, bensì, ancor più a monte, con riferimento a quel minimo di consistenza, anche di corredo documentale, che la rende esaminabile dall’Amministrazione procedente. In alcuni casi, peraltro, è lo stesso legislatore che specifica quali informazioni sono necessarie al fine di rendere l’istanza scrutinabile, come tipicamente avviene ancora una volta in ambito edilizio avuto riguardo agli oneri e alle sanzioni che “accompagnano” le istanze di sanatoria, lato sensu intese[11].
Mentre, dunque, non risulta messo in discussione il principio, consolidato in giurisprudenza, in forza del quale il termine non decorre in mancanza della documentazione completa prescritta dalle norme in materia per il rilascio del titolo[12], lo stesso non pare potersi affermare con riferimento alla egualmente diffusa considerazione in forza della quale il tempo di maturazione del silenzio non decorre laddove la domanda non sia assistita da tutti i presupposti per l’accoglimento per mancanza dei requisiti di fatto e di diritto richiesti dalla legge. La novella, infatti, nel sancire l’inefficacia del provvedimento tardivo, finisce per erodere l’affermazione che l’eventuale inerzia dell’Amministrazione non può far guadagnare agli interessati un risultato che gli stessi non conseguirebbero in virtù di un provvedimento espresso. Una decisione tardiva, infatti, sembrerebbe ormai limitata ai soli casi di esercizio dell’autotutela, richiedendo dunque, secondo i canoni generali sottesi alla stessa, la valutazione dell’esistenza di un interesse pubblico prioritario, non identificabile, per quanto già chiarito, con il mero ripristino della legalità lesa.
4. La certificazione del silenzio.
Non pago di tale meccanismo, il legislatore è tornato sulla materia del silenzio assenso anche con l’art. 62 del d.l. n.77 del 2021, inserendo il comma 2 bis direttamente nell’art. 20 della l. n. 241 del 1990: si è dunque previsto l’obbligo per l’amministrazione, nei casi in cui è previsto il silenzio assenso, di rilasciare in via telematica, su richiesta del privato, un’attestazione «circa il decorso dei termini del procedimento e pertanto dell’intervenuto accoglimento della domanda»[13]. Decorsi inutilmente dieci giorni dalla richiesta, il privato, anziché agire avverso l’inadempimento, può sopperire in via autonoma, sostituendo alla (mancata) attestazione dell’Amministrazione una propria autodichiarazione resa ai sensi dell’art. 47 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445 (Testo unico sulla documentazione ammnistrativa)[14]. Come esplicitato nella relazione illustrativa che ha accompagnato questa ulteriore novella, la finalità della disposizione è ancora una volta quella di «consentire la piena operatività e il rafforzamento dell’efficacia del silenzio assenso», evidentemente ravvisandosene uno strumento nella fornitura di un documento che cristallizzi formalmente l’avvenuta legittimazione dell’attività. Si è così confermato come nella prassi la disciplina del silenzio assenso abbia finito per costituire un blando incentivo a provvedere, incapace di offrire totale certezza al privato in merito alla sua equiparazione alla valutazione favorevole compiuta da parte dell’Amministrazione sull’istanza presentata. Il decorso dei termini per la sua formazione, cioè, in assenza di un provvedimento di diniego espresso, è stato ritenuto compatibile sia con tale valutazione positiva, sia con un’istruttoria ancora non completa, sia con una pura inerzia, sia infine con un giudizio negativo. In tale ultima ipotesi, tuttavia, occorrerà ora tenere anche conto da un lato della sancita inefficacia del provvedimento tardivo, dall’altro della -eventuale- presenza della dichiarazione sostitutiva resa dal privato per “materializzare” la propria legittimazione. Entrambe le previsioni, ove non le si voglia considerare lettera morta, finiscono per rafforzare l’obbligo motivazionale dell’annullamento d’ufficio, accentuando altresì la responsabilità del dipendente chiamato ad intervenire con un procedimento di revisione del proprio precedente operato. Il legislatore, infatti, non ha elevato la dichiarazione del privato, al pari della ricevuta rilasciata dall’Amministrazione, a provvedimento di secondo livello, capace di rafforzare l’atto originario formatosi per silentium, sì da metterne in discussione i tempi di maturazione (spostandoli in avanti): mantenendo nella norma l’inciso «fermi restando gli effetti comunque intervenuti del silenzio assenso», ha piuttosto ribadito la portata solo formale e aggiuntiva dei rimedi indicati, la cui effettiva valenza è dunque esclusivamente pratica, ovvero di ulteriore sollecitazione all’adempimento. Non avendo tuttavia la novella toccato il comma 3 dell’art. 20, laddove continua appunto a fare salve le determinazioni dell’Amministrazione in via di autotutela ai sensi degli artt. 21 quinquies e 21 nonies della medesima legge sul procedimento amministrativo, la motivazione delle stesse anche in termini di comparazione di interessi dovrà necessariamente dare atto della prevalenza di quello pubblico rispetto all’inefficacia del provvedimento tardivo, esplicitando altresì le ragioni dell’inerzia serbata anche a fronte dell’istanza di rilascio dell’attestazione[15].
5. Le conseguenze del mancato rispetto del termine per il potere conformativo o inibitorio in materia di scia.
Il comma 8 bis dell’art. 2 della l. n. 241 del 1990 riveste particolare importanza anche nella parte in cui sanziona con l’inefficacia pure l’adozione fuori termine dei provvedimenti interdittivi dell’attività intrapresa sulla base di s.c.i.a. in assenza dei presupposti di legge. La norma peraltro circoscrive la previsione a ridetta tipologia di atti, non menzionando invece quelli espressivi del potere conformativo, che peraltro dopo le modifiche apportate dalla c.d. “riforma Madia” devono essere privilegiati, giusta il richiamo esplicitato nella norma al “possibile” ricorso agli stessi, associati o meno alla sospensione dell’attività, a sua volta limitata ai soli casi di attestazioni non veritiere o di sussistenza di pericolo per la tutela dell’interesse pubblico in materia di ambiente, paesaggio, beni culturali, salute, sicurezza pubblica o difesa nazionale. Si ricorda per completezza come il termine per provvedere alla regolarizzazione dell’attività, con o senza sospensiva della stessa, non può essere inferiore a 30 giorni, decorso il quale, senza che le misure siano state adottate, essa si intende vietata. L’atto motivato dell’amministrazione interrompe il termine di 60 giorni dalla segnalazione per l’effettuazione dei controlli (30 giorni in materia edilizia) che ricomincia a decorrere dalla data in cui il privato comunica l’adozione delle misure richieste. Vale anche in tale ambito la clausola di chiusura della norma che rinvia all’applicabilità dell’art. 21 nonies«ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni». Non essendo la segnalazione un provvedimento, è chiaro che l’esercizio dell’autotutela assume la diversa veste giuridica dell’intimazione tardiva a cessare l’attività e ripristinare lo stato dei luoghi, adottata cioè oltre il termine previsto dalla legge per i relativi controlli. Il che conferma che anche i provvedimenti conformativi adottati in maniera tardiva sono inefficaci.
6. Le modifiche al potere di annullamento di ufficio.
L’art. 21 nonies declina il potere di annullamento d’ufficio, in combinato disposto con l’art. 21 octies, che ne individua i presupposti nella teorica dei classici vizi dell’atto amministrativo (violazione di legge, eccesso di potere o incompetenza). Le istanze centripete e contrapposte di tutela della certezza delle situazioni giuridiche, da un lato, e di ripristino della legalità, dall’altro, hanno indotto a non ritenere sufficiente quest’ultima quale motivazione per l’esercizio del potere (discrezionale) di agire in autotutela per l’annullamento di provvedimenti di autorizzazione o di attribuzione di vantaggi economici, circoscrivendone altresì la possibilità di utilizzo nel tempo. Il punto di equilibrio fra ridette contrapposte esigenze è stato ravvisato con le modifiche del 2015 in 18 mesi, ritenendo il relativo termine congruo a consentire lo ius poenitendi dell’Amministrazione, nel contempo non lasciando il privato cittadino in un limbo di incertezza sostanzialmente ad libitum. Con il d.l. n. 77 del 2021, tale termine è stato ridotto a 12 mesi, decorrenti dal momento dell’adozione del provvedimento di primo grado[16]. Non si è tuttavia modificato l’art. 21 della l. n. 241 del 1990, che dopo aver declinato le sanzioni che conseguono alle declaratorie mendaci o all’utilizzo di false attestazioni mediante rinvio all’art. 483 c.p. (comma 1), fa comunque salve «le attribuzioni di vigilanza, prevenzione e controllo su attività soggette ad atti di assenso da parte di pubbliche amministrazioni previste da leggi vigenti». Facendo pertanto leva sulla sostanziale imprescrittibilità dei poteri di vigilanza edilizia di cui all’art. 27 del d.P.R. n. 380 del 2001 (T.U.E.), in correlazione con la natura permanente dell’illecito edilizio, si ha pertanto che, pur non essendo egualmente consentito l’annullamento del titolo, esplicito o implicito, al di fuori delle regole sopra delineate, resta ferma la possibilità di intervenire in repressione dell’abuso edilizio, siccome richiesto da generali esigenze di buon governo del territorio. L’importanza di chiarire con esattezza i confini tra attività di repressione di un abuso, e configurabilità dello stesso in tutti i casi in cui manchi un titolo espresso, essendo stato l’intervento legittimato per silentium, finisce tuttavia per creare un’ulteriore sacca chiaroscurale che rischia ulteriormente di vanificare la previsione di qualsivoglia tempistica, rendendo plasticamente percepibile la ravvisata necessità da parte del legislatore di dare veste formale al decorso del tempo[17].
7. L’autotutela in relazione alla S.C.I.A..
Si è già detto della natura non provvedimentale della segnalazione certificata di inizio attività di cui a livello generale all’art. 19 della l. n. 241 del 1990[18]. Superando le pregresse diatribe, correlate in particolare alle ravvisate esigenze di tutela del terzo, infatti, il legislatore sin dal 2011 ( d.l. 13 maggio 2011, n. 70, convertito in l. 12 luglio 2011, n. 106), in aperta risposta alla dettagliata ricostruzione dell’istituto effettuata dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato[19], ha inserito il comma 6 ter nella norma per negare espressamente la equiparabilità della segnalazione, ovvero degli analoghi istituti della denuncia o della dichiarazione di inizio attività (dizioni corrispondenti alla precedente declinazione dell’istituto, residualmente presenti in singole disposizioni, anche di secondo livello) a «provvedimenti taciti direttamente impugnabili». La legittimità di tale previsione è stata confermata dalla Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi a seguito di rimessione della relativa questione da parte del T.A.R. per la Toscana: i giudici della Consulta in tale occasione hanno affermato chiaramente che i poteri spettanti all’amministrazione che il privato può sollecitare sono esclusivamente quelli previsti dai commi 3 e 6 bisdell’art. 19, ovvero quelli inibitori, sospensivi e conformativi. A ciò consegue che se il terzo segnalante agisce nel termine di 30 o 60 giorni dalla presentazione della scia indicati dalla norma, ha diritto all’attivazione degli stessi e può tutelarsi a fronte dell’inerzia serbata dall’Amministrazione sul punto, in quanto inadempimento ad un obbligo di legge; se invece si attiva nei successivi 18 mesi (oggi 12), può aspirare solo al (discrezionale) esercizio del potere di autotutela. Decorsi i termini originari, infatti, la situazione soggettiva del segnalante si consolida definitivamente nei confronti dell’amministrazione ormai priva di poteri, e quindi anche nei confronti del terzo. Questi, dunque, è titolare di un interesse legittimo pretensivo all’esercizio del controllo amministrativo, ma venuta meno la possibilità di dialogo con il corrispondente potere, anche il suo interesse si estingue. «Questa conclusione, che, oltre che piana, è necessitata, non può essere messa in discussione dal timore […] di un vulnus alla situazione giuridica soggettiva del terzo, in quanto il problema esiste ma trascende la norma impugnata»[20]. Il terzo potrà pertanto attivare, oltre gli strumenti di tutela già richiamati, i poteri di verifica dell’amministrazione in caso di dichiarazioni mendaci o false attestazioni ai sensi dell’articolo 21, comma 1, della legge 241 del 1990, che vieta la conformazione dell’attività e dei suoi effetti a legge in tali ipotesi, per i quali parrebbe residuare il più lungo termine di 18 mesi; ovvero potrà sollecitare i poteri di vigilanza repressivi “di settore”, spettanti all’amministrazione ai sensi dell’articolo 21, comma 2 bis, come, ad esempio, quelli già ricordati in materia di edilizia, regolati dagli articoli 27 e seguenti del d.P.R. 6 giugno 2001, n.380, espressamente richiamati anche dall’articolo 19, comma 6. In caso di mancato esercizio del potere di verifica, avrà infine la possibilità di agire in sede risarcitoria nei confronti della pubblica amministrazione siccome previsto dall’art. 21, comma 2 ter, che fa espressamente salva la connessa responsabilità del dipendente che non abbia agito tempestivamente nel caso in cui la segnalazione certificata o l’istanza del privato non fosse conforme alle norme vigenti. In sintesi, se l’inefficacia dell’atto tardivo, quale ulteriore limite all’esercizio dell’autotutela, finisce per comportarne il mancato esercizio, essere annullato d’ufficio perché ne sussistono i presupposti, «Rimangono ferme le responsabilità connesse [sia] all’adozione [che] e al mancato annullamento del provvedimento illegittimo» (art. 21 nonies, comma 1, ultimo periodo).
8. Ancora sull’impatto della disciplina dell’autotutela sulla s.c.i.a..
In relazione, tuttavia, all’impatto della disciplina dell’autotutela sulla s.c.i.a., seppure in riferimento al regime giuridico antecedente la novella del 2020, va anche segnalata una pronuncia del Consiglio di Stato che, ravvisando un’unica lacuna nella cornice delineata dalla Corte costituzionale nel 2019, ha chiarito in che termini essa presenti un margine di doverosità estraneo al quadro generale dell’istituto. In verità, la differenza terminologica nella formulazione del comma 4 dell’art. 19, laddove prevede, mediante ricorso al modo verbale indicativo, che l’Amministrazione competente “adotta” comunque i provvedimenti previsti dal medesimo comma 3, seppure in presenza delle “condizioni previste dall’articolo 21 nonies”, rispetto al servile facoltizzante “può” utilizzato proprio in tale ultima disposizione, aveva già indotto qualche commentatore a dubitare del carattere discrezionale dei poteri inibitori ivi contenuti. I giudici di Palazzo Spada hanno individuato la quadratura del cerchio nella ritenuta doverosità non dell’azione inibitoria, ma della risposta da dare all’esponente sulla richiesta di attivazione della stessa -recte, dei sottesi poteri di controllo[21]. Dopo avere dunque richiamato i principi espressi dalla Consulta, hanno ritenuto che la stessa non abbia lambito la questione della sussistenza o meno in capo all’amministrazione di un obbligo di avvio del procedimento di controllo tardivo sollecitato dal terzo, ferma restando la piena discrezionalità nel quomodo dello stesso, ed hanno conseguentemente affermato la operatività di una sorta di deroga al consolidato orientamento secondo cui l’istanza di autotutela non è coercibile sulla base dell’argomento letterale poc’anzi esposto. Una lettura costituzionalmente orientata del disposto normativo, infatti, avendo il legislatore optato per silenzio inadempimento quale unico mezzo di tutela amministrativa messo a disposizione del terzo, non consente di ritenere che non sussista alcun obbligo di iniziare e concludere il procedimento di controllo tardivo con un provvedimento espresso, privando il terzo di tutela effettiva davanti al giudice amministrativo in contrasto con gli artt. 24 e 113 della Costituzione. Così da concludere nel senso che è necessario riconoscere, rispetto alla sollecitazione dei poteri di controllo, quanto meno l’obbligo dell’amministrazione di fornire una risposta. Anche dopo la decorrenza del termine di verifica della regolarità della scia, pertanto, la pubblica amministrazione ha la possibilità di intervenire purché effettuando la doverosa comparazione di interessi sottesa all’esercizio dell’annullamento d’ufficio, secondo la cornice generale in materia di autotutela. Non trattandosi di un provvedimento da caducare, come già detto, potrà farlo soltanto con un atto inibitorio ovvero sospensivo, comunque da motivare, a pena di inefficacia dello stesso (ora prevista anche dopo i 60 giorni o 30, a seconda della materia) e tale motivazione è da ritenere attenga anche al motivo del ritardo e alla portata sostanziale della carenza dei presupposti per l’esercizio dell’attività.
9. ll monitoraggio dei tempi dei procedimenti.
Va infine ricordato che il quadro delle modifiche della disciplina sulla tempistica del procedimento si completa con una disposizione di tipo organizzativo, in verità scarsamente coordinata con altre, anche risalenti nel tempo, egualmente volte ad enfatizzare il monitoraggio dell’andamento dei procedimenti in ciascuna amministrazione, quale strumento di efficientamento e controllo del rispetto delle regole sopra indicate. Con il d.l. n. 76 del 2020, infatti, è stato introdotto nell’art. 2 anche il comma 4 bis, che contiene l’obbligo per le pubbliche amministrazioni di misurare e rendere pubblici i tempi effettivi di conclusione dei procedimenti amministrativi di maggiore impatto per i cittadini e per le imprese, comparandoli con i termini previsti dalla normativa vigente. Come detto, l’attenzione alla tempistica di conclusione dei procedimenti non costituisce in realtà una novità per il legislatore. Già con l’art. 1, comma 9, della legge 190 del 2012, si prevedeva infatti l’individuazione di modalità di monitoraggio del rispetto dei termini procedimentali previsti dalla legge e dai regolamenti, eliminando tempestivamente le anomalie riscontrate e rendendo pubblici i risultati sul sito web istituzionale (art.1, comma 28). Tale metodica deve essere riportata nel piano di prevenzione della corruzione, il che ne sottintende la ritenuta valenza cautelativa avverso fenomeni di mala gestio. Analogamente, quindi, il d.lgs. n. 33 del 2013, con disposizione successivamente abrogata dal d.lgs. n. 97 del 2016, insisteva su tale obbligo di pubblicazione. Il d.l. 9 febbraio 2012, n. 5, cosiddetto “semplifica Italia”, a sua volta, ha previsto un vero e proprio programma per la misurazione della riduzione dei tempi dei procedimenti amministrativi e degli oneri regolatori gravanti su imprese e cittadini inclusi gli oneri amministrativi, poi adottato con DPCM del 28 maggio 2014, da integrare con l’agenda per la semplificazione condivisa tra Stato, regioni e autonomie, cui era assegnato il compito di individuare sulla base degli esiti delle attività di misurazione sia i più rilevanti interventi di riduzione degli oneri e dei tempi da adottare, che le misure per assicurare effettività agli interventi già adottati. L’elemento di novità del novellato art. 2 della l. n. 241 del 1990 è una sorta di passaggio dall’astratto al concreto: la comparazione con i termini previsti dal legislatore serve per valutare la forbice di scostamento, evidentemente in termini riduttivi, quanto meno in relazione ai procedimenti amministrativi considerati “di maggiore impatto” (se pure non sia affatto chiaro con quali criteri questi ultimi vengano classificati tali). Ad ogni buon conto, la norma, secondo una deplorevole prassi mai abbandonata dal legislatore, non è autoapplicativa, in quanto rinvia ad un decreto attuativo, da adottare su proposta del Ministro per la pubblica amministrazione e previa intesa in conferenza unificata, la definizione delle modalità e dei criteri di misurazione dei tempi effettivi di conclusione dei procedimenti. Sicché all’attualità non può che trarsene un monito ad enfatizzare l’importanza del rispetto della tempistica procedurale quali epifenomeno del buon andamento della pubblica amministrazione, recuperando la relativa finalità sulla base delle norme pregresse citate. Essa è peraltro accentuata dal fatto che il decreto-legge n. 76 del 2020 ha modificato anche l’art.29 comma 2 bis, della l. n.241, concernente il suo ambito di applicazione. La norma già ascriveva ai livelli essenziali delle prestazioni di cui all’art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, le disposizioni concernenti gli obblighi per la pubblica amministrazione di garantire la partecipazione dell’interessato al procedimento, di individuarne un responsabile, di concluderlo entro il termine prefissato e di assicurare l’accesso alla documentazione amministrativa, nonché quelli relativi alla durata massima dei procedimenti (comma 2). Con il decreto legislativo 126 del 30 giugno 2016 ai livelli essenziali delle prestazioni sono state ricondotte anche le disposizioni concernenti la dichiarazione di inizio attività -ora scia- e il silenzio assenso nonché la conferenza di servizi, salva la possibilità di individuare, con intese in sede di conferenza unificata, casi ulteriori in cui tali disposizioni non si applicano (comma 2 ter). Con la novella del 2020 infine anche le disposizioni relative all’obbligo per le amministrazioni di misurare i tempi effettivi di conclusione dei propri procedimenti vengono inserite tra i livelli essenziali delle prestazioni. A ciò consegue che nel disciplinare i procedimenti amministrativi di loro competenza le regioni e gli enti locali non possono stabilire garanzie inferiori a quelle assicurate ai privati dalle disposizioni in esame, ma solo prevedere livelli ulteriori di tutela (comma 2 quater). Le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano hanno l’obbligo a loro volta di adeguare la propria legislazione alle disposizioni in questione, secondo i rispettivi statuti e relative norme di attuazione.
10. Le responsabilità.
Si è via via ricordato come le singole disposizioni nel declinare gli istituti in esame hanno fatto salve le responsabilità degli autori del ritardo, vuoi in ragione dell’avvenuta necessità di intervenire ex postsull’atto implicito o sull’attività, vuoi per il fatto che ciò non è più possibile per mancanza dei presupposti dell’autotutela (art. 2 bis, comma 1, 21, comma 2 ter e art. 21 nonies, comma 1, ultimo periodo). L’art. 2, commi 9 bis, 9 ter e 9 quater, dopo aver descritto il meccanismo di individuazione del soggetto istituzionalmente deputato a sostituirsi a quello competente, rimasto inerte, che dopo la novella del 2021 è individuabile anche nell’unità organizzativa, anziché nel singolo dipendente, gli impone di comunicare annualmente, entro il 30 gennaio, i procedimenti, divisi per tipologia e struttura coinvolta, per i quali non è stato rispettato il termine previsto. Il quadro descritto si completa con la nuova disciplina della responsabilità erariale introdotta con l’art. 21 del d.l. n. 76 del 2020. La norma contiene una modifica per così dire strutturale, che va ad incidere a regime sulla l. n. 20 del 1994, declinando il dolo richiesto quale uno dei possibili modi di atteggiarsi della colpevolezza nell’illecito erariale in chiave penalistica, e non civilistica (ovvero come coscienza e volontà anche dell’evento dannoso), sì da superare approcci, in verità minoritari, orientati in senso opposto; ed altra di portata eccezionale e temporalmente limitata, astrattamente correlata alla situazione emergenziale per la pandemia in corso, riferita alle fattispecie commesse nel lasso di tempo dal 17 luglio 2020 (data di entrata in vigore del decreto) al 30 giugno 2023 ( giusta la proroga da ultimo operata dal d.l. n. 77 del 2021 che ha esteso il termine originariamente individuato nel 31 dicembre 2021). Sulla base di tale norma transitoria opera una limitazione di responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica alla sola forma di colpevolezza costituita dal dolo, con esclusione quindi della colpa grave. Tale limitazione tuttavia si applica ai soli danni cagionati con una condotta attiva, mentre non si estende a quelli riconducibili all’inerzia del soggetto agente, che continuano ad essere perseguibili anche a titolo di colpa (grave). La volontà del legislatore è chiaramente di far sì che i pubblici dipendenti siano incentivati ad agire piuttosto che a rimanere inerti anche dal timore di incorrere in maggiore responsabilità.
Solo per completezza, va infine ricordato come l’art. 28 del d.l. 21 giugno 2013, n.69, recante disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia, convertito, con modificazioni, dalla l. 9 agosto 2013, n.98, che ha disciplinato l’indennizzo per la ritardata conclusione del procedimento inserendo nell’articolo 2 bis il comma 1 bis, prevede che l’istante ha diritto ad ottenere un indennizzo per il mero ritardo alle condizioni stabilite dalla legge. Sulla base della stessa con direttiva del Ministero per la pubblica amministrazione e la semplificazione del 9 gennaio 2014 sono state dettate apposite linee guida. La direttiva ha in primo luogo sottolineato la diversa natura dell’indennizzo da ritardo rispetto alla fattispecie del risarcimento del danno da ritardo in quanto sganciato da ogni profilo di colpevolezza dell’amministrazione e dunque riconoscibile anche nel caso in cui il ritardo sia scusabile o addirittura dovuto a forza maggiore. Esso, cioè, viene inquadrato come una forma di ristoro, prevista equitativamente dal legislatore, in caso di disagio patito per la violazione dei termini di conclusione del procedimento. La sua erogazione tuttavia può costituire un tipico caso di danno erariale riconducibile ad inerzia e come tale sanzionato anche in fase emergenziale a titolo di colpa grave, secondo il paradigma ordinario.
11. Conclusioni.
L’analisi, pur sommaria, degli istituti del silenzio assenso e della scia, nonché, più in generale, della tempistica di adozione dei provvedimenti, per come innovati dai più recenti interventi normativi, evidenzia la continua ricerca, da parte del legislatore, di rimedi non tanto alla configurazione astratta degli stessi, quanto più propriamente all’attuazione che ne danno le Amministrazioni pubbliche. La paura delle responsabilità, tradizionalmente indicata quale fattore frenante l’esercizio delle funzioni pubbliche, in particolare laddove impattino con attività dei privati tutt’affatto aliene da risvolti economici, ha da sempre ostacolato l’individuazione di scelte di governo del territorio, intese nel senso etimologico del termine, innovative, ovvero celeri e contrassegnate dalla riduzione al minimo dei contatti con i cittadini, posti in grado da subito di conoscere le modalità di accesso ai servizi ovvero di esercizio delle proprie prerogative. Ed è la necessità di superare tale fattore che costituisce l’autentico fil rouge delle riforme degli ultimi mesi, il cui maggiore elemento di novità finisce per essere proprio l’accentuazione delle responsabilità che conseguono all’inerzia ovvero al ritardo: ferma restando, infatti, l’ormai consolidata natura di provvedimento del silenzio assenso e di non provvedimento della sciai, e rimaste inalterate le scansioni procedurali sottese all’uno e all’altra, la dichiarata inefficacia “spezza” il meccanismo, senza alterarlo, di fatto imponendo un maggiore onere motivazionale laddove si intenda annullare l’atto ovvero far cessare l’attività. La “certificazione” dell’avvenuto decorso del termine diviene dunque la cartina di tornasole di ridetta inefficacia, sicché la sua ostensione imporrà all’organo di controllo di verificare non solo la mancanza del titolo, bensì piuttosto quella dei presupposti per il suo conseguimento, intervenendo in vigilando, ove consentito sine die dalla legislazione di settore, ovvero in autotutela, nei rimanenti casi, e dunque nel limite temporale dei 12 mesi e ferma restando la sottesa, doverosa comparazione tra interessi in gioco, avuto riguardo alla situazione del privato che nel frattempo si è consolidata. La responsabilità civile, disciplinare e amministrativo-contabile che può conseguirne resta immanente ad un sistema immutato nei suoi assetti definitori, ancorché intriso di un’attenzione sempre crescente, chiaro indice del fallimento nella pratica dei pregressi tentativi di attribuire alla semplificazione l’effettiva portata di strumento regolatorio volto ad eliminare oneri, non certo a stimolare incertezze.
[1] Il vocabolario della giurisprudenza evoca quello del legislatore nell’incipit della norma, facendo espresso riferimento ai casi in cui «il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’istanza, ovvero debba essere iniziato d’ufficio». Ciò ha consentito di non ritenere dovute le cc.dd. “risposte di cortesia”, salvo in una logica di correttezza e buona fede dei rapporti (essa pure positivizzata mediante inserimento di esplicito richiamo nel comma 2 bis dell’art. 1 della l. n. 241/1990 introdotto in sede di conversione del d.l. n. 76/2020); ovvero quelle a domande palesemente incomplete o inammissibili, con riferimento alla idoneità delle quali a far decorrere i termini di maturazione del silenzio assenso vedi più avanti nel testo.
[2] Sul punto cfr. da ultimo CGARS, 2 marzo 2021, n. 167.
[3] Nella stessa logica va collocata la modifica all’art. 10 bis della l. n. 241 del 1990 riconducibile al decreto “semplificazioni” n. 76 del 2020: il preavviso di diniego, diversamente che in passato, sospende, non interrompe i tempi del procedimento, sicché gli stessi ricominciano a decorrere, senza azzerarsi, una volta scaduto quello per la presentazione delle osservazioni ovvero all’avvenuta presentazione delle stesse. Del mancato accoglimento delle osservazioni deve essere data ragione nel provvedimento finale, indicando «i soli motivi ostativi ulteriori che sono conseguenza delle osservazioni». Infine, sul piano processuale, l’annullamento del provvedimento impedisce di rieditare il potere adducendo per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato.
[4] Sulla natura perentoria dei termini previsti dall’art. 14 della l. 24 novembre 1981, n. 689 e la sua applicabilità agli atti delle Autorità indipendenti, v. Cons. Stato, sez. VI, 17 marzo 2021, n. 2308; nonché id., 19 gennaio 2021, n. 584, ove si è affermato che « il termine per la conclusione del procedimento sanzionatorio promosso dall’Autorità [nel caso di specie, l’ARERA] ha natura perentoria, sicché il suo superamento inficia il provvedimento sanzionatorio impugnato, con ciò che ne consegue in termini di illegittimità dello stesso».
[5] Per una ricostruzione della tematica del danno da ritardo, v. M.L. Maddalena, Gli incentivi a decidere tempestivamente e i danni da ritardo, in www.giustiziaamministrativa.it, 2020. Con riferimento al danno da c.d. “contatto sociale”, definitivamente superato dalla pronuncia dell’A.P. del Consiglio di Stato (23 aprile 2021, n. 7), v. anche G. Tulumello, Le Sezioni Unite e il danno da affidamento procedimentale: la “resistibile ascesa” del contatto sociale, ibidem, 2020.
[6] Il tema è stato da sempre al centro del dibattito dottrinario e giurisprudenziale. Fra i molti contributi sulla c.d. “attività silenziosa”, si segnala, anche per la diversità dell’approccio sistemico, G.P. Cirillo, Sistema istituzionale di diritto comune, Milano, 2021, in particolare p. 142 e ss. V. altresì M. D’Orsogna e R. Lombardi, Il silenzio assenso, in Codice dell’azione amministrativa, a cura di M.A. Sandulli, Milano, 2017, p. 968 e seguenti; A. Police, Il dovere di concludere il procedimento e il silenzio inadempimento, ibidem, p. 273 ss.; N. Paolantonio, Il provvedimento in forma semplificata, ibidem, p. 301 ss.; nonché S. Cogliani, Il giudizio avverso il silenzio della P.A.: i nuovi poteri del giudice amministrativo, ibidem, p. 309 ss.; G. Mari, L’obbligo di provvedere e i rimedi preventivi e successivi alla relativa violazione, in Principi e regole dell’azione amministrativa, a cura di M.A. Sandulli, 3 adizione, Milano, 2020, e ivi ulteriori richiami;
[7] Trattasi evidentemente della declinazione della regola contenuta a livello generale nell’art. 2, comma 7, della l. n. 241 del 1990, che il legislatore ha inteso richiamare espressamente al fine di enfatizzarne i contenuti di garanzia in tale specifico ambito, rivelatosi particolarmente “impermeabile” alle esigenze di certezza dei rapporti giuridici.
[8] Per una ricostruzione della tematica, v. Cons. Stato, sez. II, 17 febbraio 2021, n. 1448. In dottrina, v. G.P. Cirillo, L’attività edilizia e la tutela giurisdizionale del terzo, in www.giustiziaamministrativa.it, anno 2011.
[9] V. Cerulli Irelli, Lineamenti del diritto amministrativo, II, Torino, 2010, p. 422; G. Gardini, L’efficacia del provvedimento limitativo della sfera giuridica dei privati, in Codice dell’azione amministrativa, cit. sub nota precedente, p. 1002 ss.
[10] Anche l’art. 17 bis è stato inciso dalla riforma del 2020 nella logica acceleratoria dell’estenderne l’applicabilità a tutti i casi di procedimenti nei quali interagiscono una pluralità di pubbliche amministrazioni, in particolare sotto il coordinamento di quel collettore organizzativo che è il SUAP: innanzitutto è stata sostituita, in maniera molto significativa, la rubrica, che ora recita «Effetti del silenzio e di inerzia nei rapporti tra amministrazioni pubbliche e tra amministrazioni pubbliche e gestori di beni o servizi pubblici », sottolineando l’ampliamento delle fattispecie disciplinate dalla norma. Il meccanismo del silenzio è poi esteso ai casi in cui per l’adozione di provvedimenti normativi e amministrativi è prevista la proposta di una o più amministrazioni pubbliche diverse da quella competente ad adottare l’atto; conseguentemente, in via analoga alla disciplina vigente per l’acquisizione del concerto, in tali casi, qualora l’amministrazione proponente rappresenti esigenze istruttorie, motivate e formulate in modo puntuale, si applica lo stesso termine di 30 giorni previsto dalla medesima norma.
[11] Per una compiuta ricostruzione della incidenza della tempestività del pagamento dell’oblazione nella sua interezza ai fini dell’accoglimento della domanda di condono, anche per silentium, v. Cons. Stato, sez. II, 4 maggio 2020, n. 2814.
[12] Con riferimento al titolo edilizio, v. Cons. Stato, sez. VI, 20 maggio 2021, n. 3904, ove si legge che «il silenzio assenso su una domanda di condono edilizio può formarsi solo in presenza di tutti i requisiti, formali e sostanziali, per ’accoglimento della stessa»; sez. IV 5 settembre 2016, n. 3805; T.A.R. per il Piemonte, sez. II, 27 febbraio 2018, n. 270; id., 3 gennaio 2018, n. 12; T.A.R. per la Campania, Napoli, sez. VIII, 3 aprile 2017 n. 1776).
[13] La formulazione apparentemente poco felice della norma, tende a disgiungere il fatto oggettivo dell’avvenuto decorso del tempo, che si richiede all’Amministrazione inadempiente di attestare, dal suo significato, che consegue all’operatività del meccanismo del silenzio (equivalente «pertanto» ad accoglimento della domanda). Ciò non può non valere per il caso in cui in luogo dell’attestazione dell’Amministrazione il privato si avvalga della propria autodichiarazione, circoscrivendo le potenziali responsabilità dello stesso, il cui spettro rischia di divenire comprensibilmente il vero argine al concreto utilizzo dell’istituto.
[14] Sulle criticità di tale sistema, per l’ulteriore carico di responsabilità di cui si onera l’istante, v. M.A. Sandulli, Addenda 2021 a “Principi e regole dell’azione amministrativa” 2020, in www.giustiziainsieme.it, 2 settembre 2021 e, più in generale, sui rischi delle autodichiarazioni, dello stesso autore si segnala “Autodichiarazioni e dichiarazione non veritiera”, ivi, 15 ottobre 2020.
[15] Il fatto che la dichiarazione sostitutiva non possa essere utilizzata in prima battuta, ma presupponga a sua volta un tentativo non andato a buon fine di compulsare l’Amministrazione quanto meno al rilascio dell’attestazione dell’avvenuta decorrenza del termine, implica necessariamente un’accentuazione del piano della responsabilità della stessa laddove decida poi di agire in autotutela, salvo motivazione aggiuntiva anche a giustificazione della propria (reiterata) inerzia.
[16] In relazione alla modifica introdotta, va segnalato che l’art. 21-nonies della l. 241/1990, al comma 2-bis, dispone anche che i provvedimenti amministrativi conseguiti sulla base di false rappresentazioni dei fatti o di dichiarazioni sostitutive di certificazione e dell’atto di notorietà false o mendaci per effetto di condotte costituenti reato, accertate con sentenza passata in giudicato, «possono essere annullati dall’amministrazione anche dopo la scadenza del termine di diciotto mesi di cui al comma 1». Il testo non risulta coordinato con il nuovo termine di 12 mesi di recente introdotto.
[17] Al riguardo, si veda l’importante pronuncia dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 8 del 2017 ove si è affermato che il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consuma il potere di adozione dell’annullamento d’ufficio e che, in ogni caso, il termine ‘ragionevole’ per la sua adozione decorre soltanto dal momento della scoperta, da parte dell’amministrazione, dei fatti e delle circostanze posti a fondamento dell’atto di ritiro.
[18] Da ultimo, sulla s.c.i.a., v. M.A. Sandulli, La segnalazione certificata di inizio attività (s.c.i.a.), in Principi e regole dell’azione amministrativa, 2020, cit. sub note precedenti, p. 261 ss. (e ivi ulteriori richiami e focus di approfondimento di G.Strazza, su “La s.c.i.a. e la tutela del terzo”, ibidem, p. 281 ss) e G. Strazza, La s.c.i.a. tra semplificazione, liberalizzazione e complicazione, Napoli, 2020.
[19] Cfr. Cons. Stato, A.P. n. 15 del 2011.
[20] V. ancora Corte cost., n. 45/2019.
[21] Cons. Stato, sez. VI, 8 luglio 2021, n. 5208.
Legittimazione, accertamento e risarcimento: il punto sulla capacita’ delle associazioni esponenziali (nota a Consiglio di Stato, Sezione Terza, 28 maggio 2021 n. 4116)
di Silvia Casilli
Sommario: 1. Premessa: i fatti di causa e il ricorso al Consiglio di Stato – 2. La soluzione della Sezione Terza – 3. Interessi diffusi e collettivi: approdi in tema di legittimazione (soggettiva) ad agire delle associazioni (Ad. Plen. n. 6/2020). La funzione tutoria dell’interesse collettivo come interesse proprio dell’associazione di consumatori – 4. Sulla legittimazione (oggettiva) delle associazioni: azioni di accertamento e annullamento.
1. Premessa: i fatti di causa e il ricorso al Consiglio di Stato.
Con la sentenza n. 4116 del 2021, la Terza Sezione del Consiglio di Stato si è pronunciata in tema di legittimazione a ricorrere in capo alle associazioni esponenziali di utenti e consumatori affermando, coerentemente con i più recenti ed ormai consolidati orientamenti giurisprudenziali[1], l’ammissibilità dell’azione di accertamento, proposta da un’associazione a tutela dei consumatori, essenzialmente volta a verificare l'illegittimità del comportamento asseritamente omissivo dell'amministrazione per i danni causati dalla commercializzazione e dall' utilizzo delle protesi mammarie di gel di silicone.
La vicenda contenziosa trae origine dal ricorso presentato davanti al Tar Lazio dalle due associazioni, Coordinamento delle associazioni per la difesa dell’ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori (di seguito “Codacons”) e Associazione Italiana per i Diritti del Malato e del Cittadino (di seguito “AIDMA”), nonché da alcune persone fisiche, le quali chiedevano la condanna dei Ministeri della Salute e dello Sviluppo Economico al risarcimento dei danni asseritamente derivati dall’omesso esercizio dei poteri di vigilanza sulla commercializzazione dei presidi sanitari.
A sostegno della domanda, le associazioni allegavano che il responsabile per i dispositivi medici aveva comunicato al Ministero della Salute di aver sospeso la commercializzazione e distribuzione dei presidi a seguito di un’ispezione presso lo stabilimento di produzione – da cui erano emerse difformità rispetto al procedimento di autorizzazione all’immissione in commercio – originata dall’incremento della segnalazione di incidenti; il Ministero della Salute disponeva di conseguenza il ritiro di tutti i dispositivi medici, invitando il distributore italiano del prodotto a ritirarlo dal mercato.
Le parti ricorrenti lamentavano di aver subito, per effetto del comportamento della società produttrice delle protesi, ma anche e soprattutto in ragione dell’omissione di controllo da parte dei Ministeri, ingenti pregiudizi anche di natura non patrimoniale, per cui chiedevano la condanna degli enti resistenti al risarcimento dei danni.
Costituitisi in giudizio i Ministeri, il Tar Lazio[2] dichiarava parzialmente inammissibile il ricorso, con riferimento alla sola domanda proposta dalle due associazioni ricorrenti, e lo respingeva nel merito, poiché infondato, con riguardo alle parti ricorrenti e alle persone fisiche. In particolare, venivano differenziate le posizioni dell’AIDMA e del Codacons. Per la prima, il Tar ravvisava una carenza di legittimazione attiva, e soggettiva, motivata in ragione della mancata iscrizione[3] nell’elenco delle associazioni di consumatori ed utenti previsto dall’art.137 comma 1 del Codice del consumo[4]. Per quanto riguarda il Codacons, invece, il Tar ha sostenuto che la legittimazione al ricorso prevista dal Codice del consumo riguardasse esclusivamente la proposizione di domande di annullamento di atti e non potesse estendersi anche alle azioni risarcitorie, dal momento che la pretesa patrimoniale inerisce a situazioni individualizzabili, riferite alle posizioni dei singoli danneggiati e, non già alla lesione subita dalle due associazioni in sé considerate.
Dunque, a titoli diversi, ma entrambe le associazioni sarebbero prive di legittimazione ad agire, soggettiva in un caso, oggettiva nell’altro.
Avverso la sentenza proponevano appello Codacons e AIDMA, sostenendo nuovamente la sussistenza della responsabilità concorrente e solidale dei Ministeri per omessa vigilanza sui prodotti risultati dannosi e ribadendo la propria legittimazione attiva, nonché la fondatezza della pretesa risarcitoria azionata.
2. La soluzione della Sezione Terza.
Il Collegio ha ritenuto l’appello in parte fondato.
Affrontata, seppur con un obiter dictum dal momento che il difetto era stato sollevato tardivamente ed irritualmente, la questione sulla giurisdizione[5], la decisione della Terza Sezione del Consiglio di Stato ha poi fornito importanti risposte sulla questione della legittimazione attiva delle associazioni ricorrenti.
Le appellanti avevano contestato, in sede di ricorso al Consiglio di Stato, la dichiarazione di difetto di legittimazione attiva dell’AIDMA, incentrata, secondo il Tar, sulla mancata iscrizione nel registro di cui all’art. 137 del Codice del consumo. Il Collegio ha accolto la ricostruzione delle appellanti, perfettamente coerente con la sua stessa giurisprudenza, culminata con la pronuncia dell’Adunanza Plenaria n. 6/2020, secondo la quale l’iscrizione nel registro delle associazioni dei consumatori non costituisce condizione ineludibile ai fini della legittimazione degli enti portatori di interessi collettivi, ben potendo le associazioni di categoria interessate dare dimostrazione di possedere quegli indici univoci e chiari delineati dalla giurisprudenza e da ultimo confermati dalla stessa Adunanza[6]. Dunque, la mancata iscrizione nel registro dei consumatori non può, per mero automatismo, comportare l’assenza della legittimazione ad agire, ma deve verificarsi, come d’altronde era già previsto prima dell’introduzione dell’art. 137 Codice del consumo, la sussistenza effettiva dei citati criteri.
In sostanza, se l’iscrizione nel registro comporta certamente una presunzione iuris et de iure ai fini del riconoscimento della legittimazione ad agire degli enti collettivi, al contrario, la mancanza dell’iscrizione non impedisce di riconoscere la medesima legittimazione in capo ad enti che siano comunque in possesso di adeguati indici di rappresentatività della categoria.
Sotto un diverso profilo si pone, invece, la questione inerente alla legittimazione oggettiva del Codacons. La sentenza impugnata, infatti, aveva fondato, in secondo luogo, la pronuncia di inammissibilità sul fatto che, pur riconosciuta la legittimazione a ricorrere[7] sotto il profilo soggettivo, quest’ultima dovesse riguardare solo la proposizione di azioni dirette all’impugnazione di atti, non potendosi dunque estendere anche a domande risarcitorie. In particolare, la sentenza impugnata affermava che le Associazioni non potessero chiedere il risarcimento del danno spettante ai singoli utenti, in quanto si sarebbe venuta così a realizzare un’inammissibile sostituzione processuale; d’altra parte, non potrebbero far valere, in proprio, alcuna pretesa risarcitoria, perché il pregiudizio descritto riguarda esclusivamente la lesione delle posizioni giuridiche dei singoli.
Pur ritenendo tali premesse condivisibili, il Collegio ha ritenuto ammissibile la domanda proposta dalle due associazioni, riqualificandola, tuttavia, sul piano sostanziale, come “azione di accertamento dell’illegittimità dell’inerzia della amministrazione” il cui carattere, oltre che rispondere al principio di effettività della tutela, risulterebbe anche dal tema decisorio introdotto dalle ricorrenti, nonché dalle posizioni assunte dalle parti resistenti.
Dunque, un “interesse all’accertamento del mancato esercizio del potere di controllo”, volto a verificare l’illegittimità del comportamento, asseritamente omissivo, dei Ministeri.
L’interesse e la legittimazione delle associazioni ricorrenti sussistono, ma vengono ancorati esclusivamente all’azione di accertamento; quest’ultima potrà poi eventualmente fungere da presupposto per la responsabilità risarcitoria delle amministrazioni e, sempre che i singoli utenti possano effettivamente beneficiare degli effetti del giudicato[8], costituire la base per ulteriori iniziative nei riguardi delle soccombenti. Si legge infatti che “la prospettata dimensione generale della lamentata violazione e la sua attitudine a coinvolgere una pluralità di soggetti giustifica la legittimazione degli enti esponenziali della categoria all’esercizio di un’azione diretta all’accertamento della violazione, costituente il presupposto (necessario, ancorché non sufficiente) della responsabilità risarcitoria delle amministrazioni convenute”.
Tale pronuncia si colloca nella scia di quella, già citata, dell’Adunanza Plenaria[9], riconoscendo in capo agli enti associativi esponenziali una legittimità generale in ordine alla tutela degli interessi collettivi, anche in assenza di una previsione di legge che espressamente autorizzi l’esercizio dei relativi strumenti.
Diverse sono le questioni rilevanti affrontate, seppur talvolta implicitamente, dalla sentenza in commento. Il nodo centrale, attinente alla legittimazione, sembrerebbe apparentemente incontrare dei limiti nel generale divieto di sostituzione processuale, sancito dall’art. 81 c.p.c., e nelle norme del Codice del consumo. Il Codice del consumo prevede, infatti, che gli enti esponenziali in possesso dei requisiti di rappresentatività di cui all’art. 137 possano iscriversi nell’elenco delle associazioni rappresentative a livello nazionale, legittimate ad agire a tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli utenti (art. 139). Dette associazioni sono titolate ad invocare provvedimenti inibitori di comportamenti lesivi, nonché ad esercitare azioni riparative del danno subito (art. 140). Proprio a partire dal dato letterale dell’art. 140 Codice del consumo, si è sviluppato un orientamento giurisprudenziale che sostiene la tassatività sia delle ipotesi di legittimazione straordinaria degli enti esponenziali, sia delle azioni esperibili, in relazione alle quali, a detta di tale indirizzo, sarebbe sempre necessaria un’espressa previsione di legge.
Si reputa, pertanto, opportuno soffermarsi di seguito su questi aspetti.
3. Interessi diffusi e collettivi: approdi in tema di legittimazione (soggettiva) ad agire delle associazioni (Ad. Plen. n. 6/2020). La funzione tutoria dell’interesse collettivo come interesse proprio dell’associazione di consumatori.
Aspetto preliminare nella risoluzione delle questioni poste, e tutt’altro che secondario, è quello attinente agli interessi collettivi ed al loro strettissimo legame, tale da valere a qualificarli, con la sussistenza di un ente esponenziale di un gruppo non occasionale. In assenza di un ente che sia predisposto per la loro tutela, non potrà più parlarsi di interessi collettivi, ma semplicemente di interessi diffusi, interessi di mero fatto non tutelabili giuridicamente, a carattere adespota, riferibili in modo indistinto ad una collettività di soggetti[10].
La questione definitoria circa l’interesse collettivo e la sua distinzione rispetto agli interessi diffusi, non è sempre di agevole risoluzione, dal momento che spesso le due espressioni vengono usate promiscuamente, ma è, tuttavia, essenziale scioglierla, perché è proprio sul riconoscimento degli interessi collettivi che si fonda la pronuncia in esame, confermando ancora una volta il superamento della teoria che ancora la legittimazione ad una specifica previsione normativa.
La Terza sezione, collocandosi nel solco dell’orientamento tradizionale, cd. “del doppio binario”, abbracciato da ultimo dalla citata Ad. Plen. n. 6/2020 riconosce la legittimazione generale ad agire in capo alle associazioni, superando il contrasto giurisprudenziale interno allo stesso Consiglio di Stato sorto in passato[11].
La legittimazione a ricorrere in capo alle associazioni di consumatori e utenti deve dunque desumersi, laddove presente, da un riconoscimento legislativo (quale l’iscrizione nel pubblico registro di cui all’art. 127 del Codice del consumo), ma, in assenza di esplicita tipizzazione legislativa, deve ricavarsi dal possesso dei requisiti a tal fine individuati dalla giurisprudenza[12]. Si fa riferimento, in particolare, a degli “indici di selezione”[13] consistenti: nel fine istituzionale statutario di protezione di un bene a fruizione collettiva; nell’assetto organizzativo dell’ente che deve essere adeguato rispetto al raggiungimento del fine, e che deve comunque presentare il carattere della stabilità e rappresentatività della collettività di riferimento; infine, l’organismo deve essere portatore di un interesse localizzato, in altre parole deve esserci un collegamento territoriale tra l’area di afferenza dell’attività dell’ente e la zona in cui è situato il bene a fruizione collettiva che si assume leso[14].
Ne consegue l’inesistenza di qualunque automatismo tra la mancata iscrizione nel registro dei consumatori e l’assenza della legittimazione ad agire. Semplicemente, accanto alla legittimazione straordinaria di matrice legislativa, ve ne è una di carattere generale che si giustifica in ragione delle caratteristiche dell’azione giurisdizionale amministrativa e della funzione di tutela dell’interesse collettivo che, per la loro natura stessa, le associazioni sono chiamate a svolgere[15].
È evidente una chiara preferenza del giudice amministrativo per l’associazionismo come canale legittimante principale per la tutela degli interessi degli utenti e consumatori. Non a caso la Plenaria cui la sentenza in commento espressamente rimanda, opera un’approfondita ricostruzione dell’interesse collettivo inteso come risultato della “cd. collettivizzazione dell’interesse diffuso a mezzo della sua entificazione”.
Tuttavia, la distinzione tra le due espressioni, interesse collettivo e diffuso, non è così agevole, tenuto anche conto del fatto che spesso la stessa dottrina e giurisprudenza fa ricorso indistintamente all’uno o all’altro termine oppure fa ricorso ad espressioni onnicomprensive, quali quelle di “interessi superindividuali” o “sovraindividuali” oppure ancora “metaindividuali”. Se tradizionalmente, e perlomeno in teoria, gli interessi collettivi si distinguono da quelli diffusi, in quanto sono pertinenti ai membri di una collettività definita e sono al contempo interessi propri della collettività per mezzo del gruppo organizzato che ne diviene portatore[16], nella pratica la questione definitoria si fa più complessa; proprio per questa ragione sembra essenziale prevedere il doppio binario di accesso alla tutela, per evitare che vengano a crearsi delle lacune in quei casi, come quelli previsti dal codice del consumo, in cui gli interessi in questione sembrano assumere più la connotazione di interessi diffusi, posto che consumatori ed utenti comprendono al loro interno soggetti legati da un’aggregazione solo occasionale, che formano un gruppo dalla conformazione indefinita e al cui interno si conservano chiaramente le diverse individualità[17].
Non a caso può riconoscersi un vero e proprio percorso di progressivo innalzamento della tutela degli interessi diffusi o “adespoti”, radicata negli artt. 2 e 118 Cost.: in prima battuta con il riconoscimento, operato in via legislativa, della titolarità degli interessi diffusi in materia ambientale in capo alle associazioni ambientaliste, e successivamente per mezzo dell’orientamento consolidatosi in seno alla giurisprudenza. Si tratta, sostanzialmente, di un processo volto a riequilibrare lo squilibrio dei rapporti tra privati ed il potere pubblico, nell’ottica di un innalzamento delle garanzie nei confronti dell’Amministrazione e della piena attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118 Cost. comma 4 quale strumento di resistenza contro il rischio di una regressione in termini di tutela[18] .
È evidente che in base alla nozione stessa di interesse collettivo, la critica alla teoria del doppio binario, imperniata sulla presunta violazione dell’art. 81 c.p.c. perde completamente di consistenza. È lo stesso processo di soggettivizzazione dell’interesse che lo rende imputabile all’ente esponenziale che, di conseguenza, è legittimato all’immediata impugnazione delle disposizioni ritenute lesive di siffatto interesse collettivo. Se si riconosce l’interesse collettivo come “sintesi e sommatoria dell’interesse di tutti gli appartenenti alla collettività o alla categoria” [19], che viene a dotarsi della protezione propria dell’interesse legittimo[20] ai fini dell’azionabilità in giudizio, totalmente inconferente appare di conseguenza la sostituzione processuale.
Quanto, infine, al profilo strettamente consumeristico, altro elemento – letto congiuntamente al principio generale di divieto di sostituzione processuale di cui all’art. 81 c.p.c. – al fine di escludere la legittimazione soggettiva delle ricorrenti, ci viene in soccorso il dato della lettura sistematica della nuova disciplina del titolo VIII bis c.p.c., in cui sono confluiti gli art. 139 e 140 del Codice del consumo. Secondo il Supremo Consesso è la stessa conformazione della nuova class action civilistica, esperibile ex art. 840 bis c.p.c. in generale da tutti coloro che lamentano una violazione di diritti individuali omogenei, a testimoniare una graduale espansione (da inscriversi in quel discorso di percorso progressivo di innalzamento della tutela degli interessi diffusi ut supra) verso la dimensione collettiva di tutte quelle situazioni omogenee e seriali emergenti nell’ambito del consumo[21].
4. Sulla legittimazione (oggettiva) delle associazioni: azioni di accertamento e annullamento.
Appurata la sussistenza della legittimazione soggettiva delle dette associazioni, sorge però, consequenzialmente, il problema di individuare la tipologia di azioni esperibili. Quanto alla legittimazione oggettiva, la Terza sezione conferma quanto statuito dal Tar Lazio, ritenendo inammissibile la proposizione di una domanda risarcitoria, dal momento che il pregiudizio, nel caso di specie, riguarda esclusivamente la lesione delle posizioni giuridiche dei singoli e che verrebbe altrimenti a crearsi, in questo caso sì, un’inammissibile sostituzione processuale. La domanda delle ricorrenti viene, dunque, ritenuta ammissibile, ma solo se riqualificata come domanda di accertamento.
Tale riqualificazione potrebbe destare dei dubbi, ma nel caso di specie non sembra esserci alcun vizio di ultrapetizione del Collegio, che motiva come di fatto vi fosse uno scollamento tra la tutela risarcitoria, formalmente richiesta dalle ricorrenti, e quella di accertamento, sostanzialmente risultante dal tema decisorio introdotto dalle ricorrenti, nonché dalla posizione e dalle eccezioni assunte dalla parte resistente. Quello delle associazioni[22] è di fatto un interesse all’accertamento del mancato esercizio del potere di controllo, “ossia un interesse a verificare che la P.A. ha errato nel non esercitare i doverosi controlli”. Le associazioni avrebbero allora esercitato un’azione volta ad accertare la violazione di doveri istituzionali da parte dei Ministeri. Ed è proprio la dimensione generale della violazione lamentata, per sua attitudine incline a coinvolgere una pluralità di soggetti, a giustificare la legittimazione degli enti esponenziali all’esercizio dell’azione diretta all’accertamento della violazione; accertamento che costituisce il “presupposto (necessario, ancorché non sufficiente) della responsabilità risarcitoria delle amministrazioni convenute”.
Dunque, non domanda risarcitoria, ma domanda di accertamento, che possa costituire la base per l’attivazione di ulteriori iniziative nei riguardi delle amministrazioni da parte dei singoli utenti e consumatori, senza che per questo sia scalfito l’interesse[23] e la legittimazione delle associazioni alla proposizione della domanda di mero accertamento[24].
Se la pronuncia in esame ha definitivamente e ulteriormente chiarito il discorso della legittimazione soggettiva, quanto alla tipologia delle azioni esperibili, la sentenza si arresta però al riconoscimento dell’esperibilità azione di accertamento e, al più, mediante il rinvio alla Plenaria del 2020, di quella di annullamento. È evidente che nel caso di specie, dovendosi verificare l’illegittimità del comportamento omissivo dei Ministeri, non sussiste alcun interesse all’esperimento dell’azione di annullamento, ma è bene tuttavia ricordare che la legittimazione in seno agli enti esponenziali in tal senso è stata pacificamente riconosciuta dal Supremo Consesso consacrando l’intervento del legislatore in materia ambientale che consente alle associazioni ambientaliste di “intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi”[25].
Deve allora necessariamente superarsi quell’orientamento che, argomentando della mancata espressa previsione nell’ambito del codice del consumo dell’azione di annullamento di provvedimenti amministrativi, e postulata la tassatività delle azioni esperibili dalle associazioni a tutela dei consumatori, porta a dubitare della legittimazione generale di queste in ordine alla tutela di interessi collettivi. Una volta “legittimata” l’associazione, sia che la legittimazione scaturisca dalla legge che dal possesso dei cd. indici di selezione menzionati, questa sarà abilitata a esperire tutte le azioni eventualmente indicate nel disposto legislativo e comunque certamente l’azione di annullamento.
Ed anzi, privare gli enti esponenziali di tale tutela, configurando una legittimazione selettivamente limitata quanto al diritto di azione, significherebbe garantire una tutela solo “monca”, privando di conseguenza la situazione soggettiva dell’ordinario diritto di derivazione costituzionale che le è proprio. La naturale conseguenza di una legittimazione solo straordinaria, e soprattutto tipizzata strettamente dal punto di vista delle azioni esperibili, comporterebbe inevitabilmente una frustrazione dell’art. 24 Cost., spezzando quell’irrinunciabile legame tra titolarità della situazione soggettiva sostanziale e accesso al giudice[26].
[1] Culminati, tra tutte, nella pronuncia Cons. Stato, Ad. Plen., 20 febbraio 2020 n. 6. Tale sentenza paradigmatica, baluardo del progresso giurisprudenziale raggiunto, è ben salda nel dimostrare che l’evoluzione del dato normativo positivo non può in alcun modo comportare una diminuzione della tutela (cfr. P.L. Portaluri, La cambiale di Forsthoff. Creazionismo giurisprudenziale e diritto al giudice amministrativo, Napoli, 2021, 136)
[2] Nel solco dell’orientamento giurisprudenziale, il cui caposaldo può rinvenirsi in Cons. stato, Sez. VI, 21 luglio 2016, n. 3303, che contrappone a quello tradizionale la specialità di una legittimazione a ricorrere tassativamente prevista nei soli casi indicati dalla legge.
[3] Che risulterebbe, secondo il Tar, requisito ineludibile affinché vi sia legittimazione a ricorrere e resistere in giudizio per la tutela degli utenti dei servizi.
[4] Per maggiore immediatezza si continuerà a fare riferimento agli articoli 137, 139 e 140 del Codice del consumo di cui al d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206; si tenga però in considerazione che tali articoli sono oggi trasposti nel nuovo titolo VIII bis del libro quarto del codice di procedura civile, in materia di azione di classe, per effetto della legge 12 aprile 2019, n. 31.
[5] I Ministeri convenuti avevano, infatti, sollevato la questione inerente al difetto di giurisdizione con semplice eccezione formulata in memoria e, dunque, irritualmente rispetto a quanto prescritto dall’art. 9 cpa, che pone in capo alle parti l’onere di far valere il difetto di giurisdizione mediante la proposizione di uno specifico motivo di gravame, potendosi rilevare tale difetto d’ufficio solo nel primo grado di giudizio (cfr. ex multis Cons. Stato, Sez. III, sentenza 29 aprile 2019 n. 2697).
Per tale motivo, nella sentenza in esame la Terza Sezione ritiene, in mancanza di tempestivo appello incidentale, di non poter esaminare la questione, chiarendo però poi, tuttavia, che in un caso analogo il Tar Lazio aveva dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo. Tale decisione richiama consolidata giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenze nn. 6324/2020, 15916/2005 e 3134/2001) che ha qualificato come diritto soggettivo la posizione di chi lamenta un danno da omessa vigilanza, poiché non vi è alcuna relazione diretta tra la situazione giuridica vantata e il potere amministrativo dell’Autorità istituzionalmente titolare della relativa funzione. Apparterrebbe, pertanto, “alla giurisdizione ordinaria la cognizione delle controversie riguardanti le pretese risarcitorie correlate all’omessa vigilanza da parte di organismi istituzionalmente preposti a funzioni di controllo e regolazione di particolari settori economici” (Cons. Stato, Sez. III, 28 maggio 2021 n. 4116, p. 6).
[6] Nel dettaglio, i criteri elaborati dalla giurisprudenza impongono di accertare la sussistenza della legittimazione delle associazioni (che non lo siano già ex lege) con riguardo alla sussistenza di tre presupposti: gli organismi devono perseguire statutariamente in modo non occasionale obiettivi di tutela del bene a fruizione collettiva, devono possedere un adeguato grado di rappresentatività e stabilità e devono avere un’area di afferenza ricollegabile alla zona in cui è situato il bene a fruizione collettiva che si assume leso (ex multis, Cons. Stato, sez. IV, sentenza del 16 febbraio 2010 n. 885).
[7] Riferendosi essenzialmente solo al Codacons, avendo ritenuto l’AIDMA carente di legittimazione in sé in quanto non iscritta al registro di cui all’art. 137, come richiesto dall’art. 140 del Codice del consumo.
[8] Deve verificarsi in concreto se il giudicato sia direttamente azionabile dal singolo utente; come si ricava dall’applicazione analogica dell’art. 2909 c.c., la tutela di mero accertamento dispiega la propria efficacia inter partes, per cui, diversamente da quanto accade rispetto alla sentenza di annullamento, efficace erga omnes, chi non sia parte non rimane pregiudicato dalle statuizioni della sentenza, né può giovarsi dei suoi effetti favorevoli.
[9] Cfr. ancora Cons. Stato, Ad. Plen., 20 febbraio 2020 n. 6.
[10] Nel momento in cui un gruppo omogeneo (e non occasionale) si organizza in un ente esponenziale, questo diviene il centro di imputazione di un interesse metaindividuale, il quale “è, per un verso, astrattamente riferibile a ciascuno degli individui facenti parte del gruppo sociale che si riconosce nel soggetto collettivo, mentre, per altro verso, risulta, per così dire, sottratto alla sfera di disponibilità del singolo, in quanto si radica nel soggetto collettivo medesimo che ne diviene l’esclusivo titolare e portatore nel giudizio amministrativo” (R. Ferrara, Interessi collettivi e diffusi – ricorso giurisdizionale amministrativo, in E. d. D., 487).
[11] Si veda Cons. stato, Sez. VI, 21 luglio 2016, n. 3303.
[12] È evidente la differenza, in termini di ricadute applicative, tra quella concezione “iperpositivistica – per cui il diritto di ricorso può derivare solo da una norma che, concernendo un bene della vita, individui in modo intenzionale il destinatario della protezione da essa assicurata nella fruizione del bene stesso” e quella che invece legittima in via giurisprudenziale soggetti “terzi”, che, in base al semplice dato normativo, sarebbero privati dell’accesso alla tutela. Si rinvia sul punto, per una trattazione accurata, a P.L. Portaluri, La cambiale di Forsthoff. Creazionismo giurisprudenziale e diritto al giudice amministrativo, Napoli, 2021, 122 ss.
[13] Espressione adoperata in tal senso da A. Sandulli, Il procedimento, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Diritto amministrativo generale, II, Milano, 2003, 1145.
[14] È evidente la genesi, da far risalire alle fattispecie di tutela ambientale, di quest’ultimo requisito (criterio cd. della vicinitas). È proprio quest’ultimo aspetto, come si legge in P.L.Portaluri, La cambiale di Forsthoff, cit., 123, a risultare paradigmatico come fattore genetico della legittimazione processuale: quello della vicinitas è un dato metanormativo, fattuale, ma che viene ritenuto dal giudice sufficiente per l’ammissibilità del ricorso, purché vi sia anche la prova di un concreto pregiudizio derivante dall’atto gravato.
[15] Sul riequilibrio del rapporto tra “generalità” e “specialità” della legittimazione a ricorrere si legga S. Mirate, La legittimazione a ricorrere delle associazioni di consumatori tra “generalità” e “specialità”, nota a Cons. Stato, Ad. Plen., 20 febbraio 2020 n. 6, in Giornale di diritto amministrativo, 2020, 4, 520 ss.
[16] C. Cudia, Gli interessi plurisoggettivi tra diritto e processo amministrativo, Santarcangelo di Romagna, 2012, 39.
[17] Sul carattere sia collettivo che individuale delle figure giuridiche del consumatore e dell’utente si legga S. Mirate, La figura del cittadino utente/consumatore, in P. Cendon, C. Pongibò, Il risarcimento del danno al consumatore, Milano, 2014, 535 ss.
[18] Sul ruolo che il principio di sussidiarietà orizzontale ha rivestito nella citata pronuncia della Plenaria, quale fonte di accesso al giudizio, nonché sulle sue “potenzialità fortemente innovative”, si rimanda ancora a P.L.Portaluri, La cambiale di Forsthoff, cit., 143 ss.
[19] Ad. Plen. n. 6/2020 punto 6.2.
[20] Sulle criticità scaturenti dall’equiparazione con l’interesse legittimo, dalla ricostruzione a carattere ibrido a metà tra l’interesse pubblico e quello legittimo e dai pericoli della prassi creativa del giudice amministrativo in merito alle posizioni soggettive si legga G. Mannucci, La legittimazione a ricorrere delle associazioni: fuga in avanti o ritorno al passato?, nota a Cons. Stato, Ad. Plen., 20 febbraio 2020 n. 6, in Giornale di diritto amministrativo, 2020, 4, 529 ss.
[21] S. Mirate, La figura del cittadino utente/consumatore: profili pubblicistici, in Resp. civ. prev., 2020, 1, 40 ss.
[22] Si legge nella sentenza in commento alle pagine 9 e 10.
[23] Si legge ancora nella sentenza in commento “Se è vero che le associazioni dei consumatori non possono intentare azioni risarcitorie di classe, né avanzare azioni risarcitorie per se stesse, nulla esclude tuttavia – come del resto può trarsi argomento sistematico dall’art. 34 del c.p.a. – che tali enti possano avere interesse all’accertamento dell’illegittimità degli atti o delle omissioni delle amministrazioni per l’interesse della categoria”.
[24] E al più di annullamento, come sancito dalla già citata Ad. Plen. n. 6/2020.
[25] Art. 18 comma 5 della legge n. 349 del 1986 (comma sopravvissuto all’abrogazione disposta dall’art. 318 d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152), istitutiva del Ministero dell’Ambiente.
[26] Sulla configurazione della legittimazione a ricorrere nel processo amministrativo in rapporto al tema delle azioni giurisdizionali si legga C. Cudia, Legittimazione a ricorrere e pluralità delle azioni nel processo amministrativo (quando la cruna deve adeguarsi al cammello), in Dir. pubbl., 2019, 2, 393 ss.
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