ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Premesse alla lettura della sentenza del Consiglio di Stato, Sez. Terza, 20 ottobre 2021 n. 7045 sull’obbligo vaccinale.
di Stefania Caggegi
Indice: 1.- Premessa; 2.- Le coordinate di riferimento costituzionali: diritto alla salute e dovere di solidarietà; 3.- Le prime pronunce del giudice amministrativo sull’obbligo vaccinale anti covid-19; 3.1. (segue) in particolare: la sentenza Consiglio di Stato Sez. III, 20.10.2021 n. 7045.
1. Premessa.
L’avvenuta introduzione nel nostro ordinamento dell’obbligo di possesso ed esibizione della certificazione verde Covid-19 per accedere ai luoghi pubblici e da ultimo a quelli di lavoro [1] e la prospettata (seppur non attuata) introduzione dell’obbligo vaccinale generalizzato[2], hanno fatto tornare in voga nel nostro paese un dibattito giuridico che sembrava essersi esaurito negli anni ’90, quando la Corte Costituzionale si era occupata di affermare la legittimità dell’obbligo di vaccinazione contro il polio.
Ovviamente le due misure citate (certificazione verde e vaccinazione), seppur finalizzate al medesimo scopo di contrasto e/o contenimento della pandemia da Covid 19, hanno natura diversa.
Il meccanismo del c.d. green pass, prevede l’obbligo di possesso ed esibizione dell’attestazione per accedere ai luoghi pubblici e di lavoro, e si acquisisce alternativamente o tramite la vaccinazione, o tramite la sottoposizione ad un tampone rapido o per periodo limitato a seguito di guarigione da infezione, tutelando così la scelta dell’individuo di non sottoporsi a vaccinazione.
L’introduzione di un obbligo vaccinale generalizzato, per converso, eliminerebbe sotto questo profilo ogni possibilità di scelta.
Entrambe le misure sono state fortemente criticate muovendo dall’assunto che comporterebbero la violazione di diritti costituzionalmente garantiti, quali la libertà personale e il diritto di autodeterminazione dell’individuo; ai quali si oppongono però altri diritti e valori, sempre costituzionalmente garantiti e di non minor rilevanza, quali il diritto alla salute di cui all’art. 34 Cost., considerato nella sua duplice sfera, individuale e collettiva, nonché il generale dovere di solidarietà nei confronti della collettività di cui all’art.2 Cost. [3].
2. Le coordinate di riferimento costituzionali: diritto alla salute e dovere di solidarietà.
L’art. 32 della Costituzione recita, com’è noto, che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”.
Il legislatore costituzionale ha, dunque, da un lato riconosciuto alla salute la qualifica di diritto fondamentale dell’individuo, dall’altro lo ha indissolubilmente legato anche all’interesse della collettività [4].
La sfera individuale del diritto alla salute si sostanzia nel diritto a che nessuno leda la salute psico-fisica del soggetto ed è strettamente ricollegato anche al diritto di autodeterminazione del singolo, mentre la sfera collettiva ricollega il diritto alla salute ad un dovere di solidarietà nei confronti della collettività, che impone di preservare tale diritto anche in una prospettiva che attenga all’insieme dei consociati.
La valutazione del diritto alla salute, considerato nella sua sfera collettiva, non può che essere ancorata, dunque, al generale principio di cui all’art. 2 della nostra Costituzionale, il quale da un lato riconosce e tutela i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo che nelle formazioni sociali, dall’altro richiede ai consociati “l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” [5].
La richiesta di adempimento di tale generale dovere di solidarietà in tutti gli ambiti della vita del singolo, vale come principio cardine, su cui è improntata l’intera carta costituzionale, al punto che la solidarietà deve essere considerata “la base della convivenza sociale normativamente prefigurata dalla Costituzione” [6].
Ed è proprio considerare questo dovere di solidarietà come un qualcosa di inderogabile, al pari del riconoscimento dei vari diritti costituzionalmente tutelati, che consente all’osservatore di scorgere la concreta rilevanza, quasi palpabile, del diritto alla salute collettiva.
In presenza di un eventuale imposizione di un obbligo vaccinale generalizzato, o più in generale di trattamenti sanitari che mirano ad evitare il propagarsi di contagi, l’obbligo imposto è inevitabilmente finalizzato al più alto interesse di tutela dell’intera comunità, cui in adempimento del dovere di solidarietà collettiva ogni consociato deve tendere e che in ragione di ciò giustifica la soccombenza del diritto di scelta del singolo individuo.
Tale ragionamento applicato alla materia oggetto di trattazione porta a concludere che sia proprio su questo dovere di solidarietà che si fonda l’intero impianto giuridico che giustificherebbe l’imposizione dell’obbligo vaccinale anti covid 19, a maggior ragione in una situazione di emergenza pandemica, come quella a cui ancora oggi assistiamo, che mette (e che ha messo) seriamente a rischio la collettività tutta [7].
Qualunque materia tocchi più valori costituzionalmente sanciti e tutelati determina la necessità che gli stessi siano bilanciati e l’inevitabile soccombenza di alcuni in favore di altri.
In materia di obbligo vaccinale [8], come detto, viene in rilievo l’art. 32 Cost. che postula il necessario contemperamento del diritto alla salute del singolo (anche nel suo contenuto negativo di non assoggettabilità a trattamenti sanitari non richiesti od accettati) con il coesistente e reciproco diritto alla salute della collettività.
A tal proposito, come anticipato in premessa, tocca scomodare risalente - ma evidentemente non risolutiva - giurisprudenza costituzionale. Difatti, già nel 1990 la Corte Costituzionale [9], nell’occuparsi dell’equa indennità dovuta dallo Stato per il caso di danno derivante, al di fuori dell'ipotesi di cui all'art. 2043 c.c., da contagio o da altra apprezzabile malattia causalmente riconducibile alla vaccinazione obbligatoria antipoliomielitica, aveva avuto modo di esprimersi in merito al contemperamento dei valori interessati dall’imposizione di un obbligo vaccinale, affermando che “l'imposizione ex lege di un trattamento sanitario non è incompatibile con l'art. 32 Cost. se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, e purché esso non incida negativamente - salvo che in misura temporanea e tollerabile - sullo stato di salute del soggetto”, ciò in quanto è proprio lo scopo di preservare lo stato di salute degli altri che, in quanto attinente alla salute come interesse della collettività, giustifica la compressione di quella autodeterminazione dell'uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale.
Da lì in poi, la giurisprudenza costituzionale è stata sempre ferma nel riconoscere come l’art. 32 esiga l’inevitabile contemperamento degli interessi suddetti e nell’affermare la legittima imposizione dell’obbligo vaccinale, seppur a determinate condizioni, ovvero: se il prescritto trattamento è diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri; se si prevede che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che è obbligato, salvo che per quelle sole conseguenze che appaiano normali e, pertanto, tollerabili; se, nell’ipotesi di danno ulteriore, sia prevista comunque la corresponsione di una equa indennità in favore del danneggiato, e ciò a prescindere dalla parallela tutela risarcitoria. [10]
Da ultimo, la Corte Costituzionale [11], nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, della legge 25 febbraio 1992, n. 210, nella parte in cui non prevedeva l’indennizzo a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa anche di vaccinazioni raccomandate e non obbligatorie, ha ribadito il principio per il quale lo scopo principale deve sempre essere quello di ottenere la migliore salvaguardia della salute come interesse (anche) collettivo e che dunque anche le terapie obbligatorie sono costituzionalmente legittime, ancorché siano quelle raccomandate ad esprimere maggiore attenzione all’autodeterminazione individuale.
Come evidenziato l’imposizione di un determinato trattamento sanitario, in questo caso del vaccino anti covid 19, impatta in maniera diretta la vita del singolo cittadino, ragion per cui il legislatore costituzionale, a chiusura dell’art. 32, specifica che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.
Con questa disposizione viene disposta una chiara riserva di legge in materia sanitaria.
In generale, si ritiene che le materie coperte da riserva di legge possano essere disciplinate non solo dalla legge formale, ma anche da quegli atti normativi dell’esecutivo aventi forza o valore di legge e che quindi un decreto legge possa regolare legittimamente materie coperte da riserva di legge in quanto i contenuti del decreto vengono incorporati, in caso di conversione, in una legge formale del parlamento.[12]
Per la materia sanitaria il discorso è certamente più complesso, in quanto da un lato l’esercizio del potere legislativo deve essere preceduto e sorretto dalle risultanze della scienza [13], dall’altro appare più comprensibile il dubbio che l’imposizione di trattamenti sanitari obbligatori disposta con atti aventi forza di legge non soddisfi a pieno la riserva di legge di cui all’articolo 32 [14].
Rimane il fatto che nell’ipotesi di una imposizione di un obbligo vaccinale anti covid 19, la legittimità della formula legislativa utilizzata, avrebbe fondamento nella natura emergenziale della stessa, in quanto emanata per fronteggiare una pandemia senza precedenti [15].
3. Le prime pronunce del giudice amministrativo sull’obbligo vaccinale anti covid-19. Dall’inizio della pandemia la giurisprudenza amministrativa è stata più volte chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dei provvedimenti afferenti le misure di prevenzione e/o contrasto alla pandemia emanate dal governo nei vari settori, ad esempio la scuola o il sistema sanitario [16].
È interessante notare come in molte occasioni i Tribunali, nel decidere le varie controversie, abbiano colto l’occasione per richiamare i principi fondanti la legittimità dell’imposizione di un obbligo vaccinale – nei termini di cui ai precedenti paragrafi - in una prospettiva mirata a legittimare i c.d. “provvedimenti – covid 19”.
Ad esempio il Tar Lazio [17], chiamato a pronunciarsi sulla competenza statale della scelta tra terapie ammesse e non ammesse, o meglio tra trattamenti obbligatori e non obbligatori (oppure raccomandati, come nel caso dei vaccini), ha colto l’occasione per indicare esattamente l’approccio che deve accompagnare l’analisi di siffatta materia, specificando che questa impatta i principi fondamentali della materia «tutela della salute» e che la scelta in tale ambito costituisce il punto di equilibrio, in termini di bilanciamento tra valori parimenti tutelati dalla Costituzione (nonché sulla base dei dati e delle conoscenze scientifiche disponibili), tra autodeterminazione del singolo da un lato (rispetto della propria integrità psico-fisica) e “tutela della salute (individuale e collettiva)” dall’altro lato.
Sempre il Tar Lazio [18], interpellato questa volta sulla legittimità o meno delle misure introdotte dal legislatore nell’ambito scolastico, compie un ragionamento a contrario, negando il prospettato diritto del personale scolastico “a non essere vaccinato”, affermando con rigore e già nella fase cautelare del giudizio (sintomatico di quanto consideri rilevanti tali argomentazioni), che tale “diritto” - in disparte la questione della dubbia configurazione come diritto alla salute - non ha valenza assoluta né può essere inteso come intangibile, avuto presente che deve essere razionalmente correlato e contemperato con gli altri fondamentali, essenziali e poziori interessi pubblici quali quello attinente alla salute pubblica a circoscrivere l’estendersi della pandemia e a quello di assicurare il regolare svolgimento dell’essenziale servizio pubblico della scuola in presenza.
Anche il Tar Friuli Venezia Giulia [19], chiamato a pronunciarsi sulla legittimità dell’obbligo vaccinale imposto al personale sanitario, richiama a fondamento del provvedimento la giurisprudenza costituzionale ormai cristallizzata nel ritenere legittima l’imposizione di un trattamento preventivo vaccinale, indicando quale elemento rilevante l’obbiettivo di tutela della salute pubblica attraverso il raggiungimento della massima copertura vaccinale. È doveroso aggiungere che tale pronuncia è interessante da segnalare, non solo perché – come del resto le precedenti – è stata ispirata dalle risultanze della giurisprudenza costituzionale in materia di legittima imposizione dell’obbligo vaccinale, ma anche in ragione del fatto che, partendo da tale assunto, il Collegio ha svolto un’approfondita disamina sul rapporto tra l’aspetto scientifico e giuridico della materia, arrivando ad affermare, per primo, che il vaccino anti covid 19 non può più essere considerato sperimentale da quando è stato immesso sul mercato.
Leit motiv delle sentenze in materia di obbligo vaccinale pare dunque essere il bilanciamento tra diritto alla salute inteso nella sua sfera individuale e diritto alla salute della collettività, intesa come intera comunità nazionale, ma si badi non solo nazionale.
Difatti, già nel giugno scorso, il Consiglio di Stato [20] si è pronunciato sulla rilevanza delle misure emanate dal Governo per fronteggiare l’emergenza pandemica, in quanto misure coordinate a livello europeo, allargando il concetto di “salute pubblica” ad una dimensione sovranazionale, affermandone per tale via la natura non eludibile, anche per ciò che attiene la loro decorrenza temporale, in ragione del fatto che tutte mirano “a preservare la salute pubblica in ambito [appunto] sovra-nazionale”.
3.1. – (segue) in particolare: la sentenza Consiglio di Stato Sez. III, 20.10.2021 n. 7045.
Tra le più recenti pronunce si segnala la sentenza della Sezione Terza Consiglio di Stato, n. 7045 dello scorso 20 ottobre [21], resa con riferimento ad altra sentenza del Tar Friuli Venezia Giulia che aveva dichiarato inammissibile il ricorso collettivo e cumulativo proposto contro gli atti con i quali le Aziende Sanitarie friulane avevano dato applicazione all’obbligo vaccinale previsto dall’art. 4 del d.l. n. 44 del 2021, conv. con mod. in l. n. 76 del 2021.
Dopo essersi pronunciato sugli aspetti processuali della causa trattata e aver ripreso e sviluppato più dettagliatamente le considerazioni svolte già dal Tar in merito all’aspetto scientifico della materia trattata, anche la Terza Sezione del Consiglio di Stato conclude che i vaccini anti covid-19 non possono essere considerati sperimentali.
Anche in questo caso, centrale nel ragionamento del giudice amministrativo è il richiamo al generale dovere di solidarietà e alla tutela del diritto alla salute inteso nella sua accezione collettiva: “il potenziale rischio di un evento avverso per un singolo individuo, con l’utilizzo di quel farmaco,”- si legge nella sentenza – “ è di gran lunga inferiore del reale nocumento per una intera società, senza l’utilizzo di quel farmaco. Ciò non perché, come afferma chi enfatizza e assolutizza l’affermazione di un giusto valore concepito però come astratto bene, la persona receda a mezzo rispetto ad un fine o, peggio, ad oggetto di sperimentazione, in contrasto con il fondamentale principio personalista, a fondamento della nostra Costituzione, che vede nella persona sempre un fine e un valore in sé, quale soggetto e giammai oggetto di cura, ma perché si tutelano in questo modo tutti e ciascuno, anzitutto e soprattutto le più vulnerabili ed esposte al rischio di malattia grave e di morte, da un concreto male, nella sua spaventosa e collettiva dinamica di contagio diffuso e letale, in nome dell’altrettanto fondamentale principio di solidarietà, che pure sta a fondamento della nostra Costituzione (art. 2), la quale riconosce libertà, ma nel contempo richiede responsabilità all’individuo”.
L'orientamento sino ad ora emerso in seno alla giurisprudenza amministrativa non sembra dunque mettere in dubbio che la Costituzione possa legittimare l’introduzione nel nostro ordinamento la previsione dell'obbligo vaccinale, rimanendo con ciò escluso che la stessa scelta di introdurre l’obbligo di possesso ed esibizione del green pass covid 19 in luogo di un obbligo vaccinale generalizzato possa esser stata dettata dalla paventata illegittimità costituzionale di un tale obbligo, e non piuttosto da una scelta prettamente politica.
***
[1] Il decreto legge 21 settembre 2021, n. 127 (“Misure urgenti per assicurare lo svolgimento in sicurezza del lavoro pubblico e privato mediante l'estensione dell'ambito applicativo della certificazione verde COVID-19 e il rafforzamento del sistema di screening”- GU n.226 del 21-9-2021) ha integrato il decreto legge 22 aprile 2021, n. 52, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 giugno 2021, n. 87, inserendo dopo l'articolo 9-quater gli articoli: 9-quinques; 9-sexies; 9- septes, ai sensi dei quali è stato disposto l’obbligo di possesso ed esibizione della certificazione verde COVID-19 rispettivamente per tutti i lavoratori del settore pubblico, per tutti i magistrati nello svolgimento della loro attività all’interno degli uffici giudiziari e per i lavoratori del settore privato.
[2] Invero ad oggi disposto solo per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario dall’art. 4 del D.L. 1 aprile 2021, n. 44 (“Misure urgenti per il contenimento dell'epidemia da COVID-19, in materia di vaccinazioni anti SARS-CoV-2, di giustizia e di concorsi pubblici”- GU Serie Generale n.79 del 01-04-2021) convertito con modificazioni dalla L. 28 maggio 2021, n. 76 (in G.U. 31/05/2021, n. 128).
[3] Sull’impronta solidaristica dei doveri costituzionali si veda tra tutti: A. RUGGERI, Eguaglianza, solidarietà e tecniche decisorie nelle più salienti esperienze della giustizia costituzionale, in Rivista AIC, 2017 pp. 1 ss. Sullo specifico tema del vaccino anti covid 19: A. RUGGERI, La vaccinazione contro il Covid-19 tra autodeterminazione e solidarietà, in dirittifondamentali 22 maggio 2021.
[4] Si veda in proposito: M. LUCIANI, A proposito del diritto alla salute, in Dir. soc., 1979, pp. 410 ss.; B. PEZZINI, Il diritto alla salute: profili costituzionali, ivi, 1983, pp. 21 ss.; D. MORANA, La salute nella Costituzione italiana: profili sistematici, Milano, 2002; G. SCACCIA, Commento all’art. 32, in F. Clementi, L. Cuocolo, F. Rosa, G.E. Vigevani (a cura di), La Costituzione italiana. Commento articolo per articolo, I, Bologna 2018 pp. 214 ss.
[5] D. TEGA, Commento all’art. 2, in F. Clementi, L. Cuocolo, F. Rosa, G.E. Vigevani (a cura di), La Costituzione italiana. Commento articolo per articolo, I, Bologna, 2018, p. 27; E. ROSSI, Commento all’art. 2, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti (a cura di), Commentario alla Costituzione, I, Torino 2006, p. 55.
[6] Corte Costituzionale, 28 febbraio 1992, n. 75.
[7] Per un’analisi approfondita del tema in relazione alla pandemia da Covid 19, si rinvia a Q. CAMERLENGO, L. RAMPA, Solidarietà, doveri e obblighi nelle politiche vaccinali anti covid 19, in Rivista AIC n. 3 del 30.06.2021, pp. 199 ss.; R.ROMBOLI, Aspetti costituzionali della vaccinazione contro il Covid-19 come diritto, come obbligo e come onere (certificazione verde Covid-19), in QuestioneGiustizia 2021. Con specifico riferimento al tema della solidarietà costituzionale, si veda, tra gli altri: B. CARAVITA, L’Italia ai tempi del coronavirus: rileggendo la Costituzione italiana, in Federalismi.it 2020, p. 18; L. CUOCOLO, I diritti costituzionali di fronte all’emergenza Covid-19: la reazione italiana, in I diritti costituzionali di fronte all’emergenza Covid-19, in Osservatorio Emergenza Covid-19, Federalismi.it. In tema di vaccinazioni si veda, tra tutti: F. GIUFFRÈ, La solidarietà nell’ordinamento costituzionale, Milano, 2002, pp. 246 ss; F. GIUFFRÈ, La Corte costituzionale in cammino: da un modello casistico all’interpretazione della solidarietà, in Giur. cost., 1998, p. 1978, dove già affermava: «il comportamento volontario del cittadino, che si fa carico dei rischi della vaccinazione pur non essendone legalmente obbligato, non si mostra giuridicamente indifferente di fronte ai princìpi dell’ordinamento costituzionale, in quanto conforme all’atteggiamento di corresponsabilità e di cooperazione civica che scaturisce dal principio di solidarietà>>.
[8] In merito all’obbligo vaccinale in generale si veda, tra i molti: M. PLUTINO, Le vaccinazioni. Una frontiera mobile del concetto di «diritto fondamentale» tra autodeterminazione, dovere di solidarietà ed evidenze scientifiche, in Dirittifondamentali.it, 2017, pp. 1 ss., e M. TOMASI, Vaccini e salute pubblica: per-corsi di comparazione in equilibrio fra diritti individuali e doveri di solidarietà, in Dir. pubbl. comp. eur., 2017, pp. 455 ss.
[9] Corte Costituzionale n. 307 del 14.06.1990, Pubblicata in G. U. 27.06.1990; cfr. anche sentenza n. 258 del 1994, con la quale viene ripreso ed integrato il principio espresso con la sentenza n. 307/1990 cit., a sostegno della dichiarazione di inammissibili le questioni di legittimità costituzionale della l. 27 maggio 1991 n. 165 (sulla vaccinazione obbligatoria contro l'epatite virale B) e delle leggi 4 febbraio 1966 n.51, 6 giugno 1939 n. 891, 5 marzo 1963 n. 292, 20 marzo 1968 n. 419 (sulla vaccinazione obbligatoria antipolio, antidifterica, ed antitetanica) sollevate in riferimento all'art. 32 della Costituzione.
[10] Corte Cost. n. 307/1990 cit.; n. 258/1994 cit.; n. 268/2017 e n. 5/2018, come richiamate in: Q. CAMERLENGO, L. RAMPA, Solidarietà, doveri e obblighi nelle politiche vaccinali anti covid 19, cit.; si veda anche: C. PINELLI, Gli obblighi di vaccinazione fra pretese violazioni di competenze regionali e processi di formazione dell’opinione pubblica, in Giur. Cost., 2018, pp. 38 ss.
[11] Corte Costituzionale 23 giugno 2020 n. 118.
[12] Sulla riserva di legge in generale: cfr. R. Guastini, Legge (riserva di), in Digesto delle discipline pubblicistiche, IX, Torino 1994, pp. 163 ss.; F. Modugno, Le fonti del diritto, in Id. (a cura di), Diritto pubblico, Torino 2012, pp. 109 ss.
[13] Si veda in proposito a commento della sentenza n. 5 del 2018 A. IANNUZZI, L’obbligatorietà delle vaccinazioni a giudizio della Corte costituzionale fra rispetto della discrezionalità del legislatore statale e valutazioni medico-statistiche, in Consulta online, 2018, pp. 87 ss.; C. MAGNANI, I vaccini e la Corte costituzionale: la salute tra interesse della collettività e scienza nelle sentenze 268 del 2017 e 5 del 2018, in Forum di Quaderni costituzionali, Rassegna, 2018, pp. 1 ss. In merito alla rilevanza delle risultanze scientifiche e alla qualifica dei trattamenti come “sperimentali o non sperimentali”, si rinvia anche a Tar Friuli Venezia Giulia, Sez. I, 10.09.2021 n. 261, con la quale il Tribunale ha affermato in merito alla vaccinazione da covid 19 che “la “sperimentazione” dei vaccini si è dunque conclusa con la loro autorizzazione all’immissione in commercio, all’esito di un rigoroso processo di valutazione scientifica e non è corretto affermare che la sperimentazione sia ancora in corso solo perché l’autorizzazione è stata concessa in forma condizionata”(sentenza appellata e confermata nel merito da: Consiglio di Stato, sez. III n. 7045 del 20.10.2021. Per un’analisi critica del tema si veda: A. MANGIA, Si caelum digito tetigeris. Osservazioni sulla legittimità costituzionale degli obblighi vaccinali, in Rivista AIC n. 3, 2021.
[14] In tal senso si veda: A. NEGRONI, Decreto legge sui vaccini, riserva di legge e trattamenti sanitari obbligatori, in ForumCostituzionale.it 26 maggio 2017.
[15] Sulla questione della legge emergenziale si veda, tra gli altri: M. BELLETTI, La “confusione” nel sistema delle fonti ai tempi della gestione dell’emergenza da Covid-19 mette a dura prova gerarchia e legalità, in Osservatorio Costituzionale, n. 3, 2020, cui si rinvia anche in riferimento alle note contenute.
[16] DECRETO-LEGGE 6 agosto 2021, n. 111 Misure urgenti per l'esercizio in sicurezza delle attività scolastiche, universitarie, sociali e in materia di trasporti. (21G00125) (GU Serie Generale n.187 del 06-08-2021).
[17] Tar Lazio – Roma, Sez. III, 02.10.2020 n.10047.
[18] TAR Lazio Decreto Presidenziale del 24.08.2021 n. 4450 e Tar Lazio, Sez. Terza Bis decreto del 02.09.2021 n. 4532.
[19] Tar Friuli Venezia Giulia, Sez. I, 10.09.2021 n. 261.
[20] Consiglio di Stato, Sez. III, n. 3568 del 30 giugno 2021, conferma il disposto del Tar Lazio che aveva respinto un ricorso contro l’obbligo di possesso ed esibizione del green pass come disciplinato dalla normativa al tempo della pronuncia.
[21] Consiglio di Stato, Sez. III, 20.10.2021 n. 7045.
[22] Così testualmente in: G.M. BRAVO, voce Anarchismo, in N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino (a cura di), Dizionario di politica, Torino 2014, p.13.
Il Consiglio superiore della magistratura tra crisi e prospettive di rilancio*
di Francesco Dal Canto
Sommario: 1. La pietra angolare e la sua erosione - 2. La dimensione politico-rappresentativa del CSM: una questione da (ri)mettere a fuoco - 3. Per un rilancio della natura costituzionale del CSM - 4. La crisi attuale e la riforma dell’ordinamento giudiziario del 2005-2007 - 5. Spunti per qualche correttivo, non solo in materia elettorale - 6. Dal 1958 ad oggi, sette discipline elettorali - 7. Verso una nuova legge elettorale - 8. In conclusione.
1. La pietra angolare e la sua erosione
Per discutere in modo equilibrato delle prospettive di riforma del Consiglio superiore della magistratura credo sia opportuno partire da due considerazioni preliminari, in parte ovvie e tuttavia imprescindibili in considerazione del dibattito più recente.
Innanzi tutto, è doveroso ricordare come a partire dal 1958 il CSM abbia svolto una funzione essenziale, ponendosi quale “pietra angolare” dell’ordinamento giudiziario [1], a presidio dell’interesse pubblico all’autonomia e all’indipendenza della magistratura, da intendere non come privilegio corporativo di una particolare categoria professionale bensì quale garanzia strumentale all’eguaglianza dei cittadini dinanzi alla giustizia e dunque presupposto indefettibile dell’esercizio della funzione giurisdizionale.
Al CSM - prima ancora che alla Corte costituzionale e al legislatore, quest’ultimo per molti anni latitante in questo settore - si deve la progressiva affermazione dei principi costituzionali in tema di magistratura e la conseguente definizione del sistema italiano di ordinamento giudiziario, da tempo apprezzato sul piano internazionale, dove spesso è stato considerato un vero e proprio modello di riferimento.
Va poi detto che, nel processo di diffusione della cultura costituzionale sulla magistratura, e all’interno della magistratura, anche l’associazionismo giudiziario - anch’esso al centro del dibattito attuale, insieme al CSM - ha fornito un contributo determinante; ruolo che, per inciso, era stato assai rilevante anche prima del 1948 e in particolare nel corso della fase di elaborazione del Titolo IV della Parte II della Costituzione [2].
In definitiva, è indiscutibile che CSM e associazionismo giudiziario, ciascuno nel proprio ambito, hanno avuto un peso fondamentale nella democratizzazione della magistratura e nell’affermazione conseguente dell’assetto democratico della Repubblica.
Ma, come dicevo, v’è una seconda osservazione che appare necessaria.
È difficile nascondere, infatti, che il CSM stia attraversando oggi la peggiore crisi dal momento della sua istituzione. La pietra angolare corre il rischio di erodersi. Le cronache degli incontri clandestini avvenuti nei mesi scorsi tra alcuni esponenti politici e alcuni magistrati, tra i quali dei componenti del CSM, finalizzati a concordare preventivamente una serie di nomine di competenza di tale organo - per lo più riguardanti incarichi direttivi requirenti ([3]) - non rappresentano soltanto degli specifici episodi di rilevanza penale ed etica; tali vicende sono idonee a insinuare dei dubbi sul grado di autonomia reciproca tra magistratura e politica e sulla stessa credibilità e legittimazione dell’organo di autogoverno. Tali avvenimenti hanno rivelato, per dirla con il Presidente della Repubblica, “un quadro sconcertante e inaccettabile” [4].
Si è aperta dunque una ferita particolarmente profonda nel rapporto di fiducia tra società civile, sistema politico e CSM. Viene rilanciato il tema antico della c.d. politicizzazione dell’organo di autogoverno, i cui lavori sarebbero condizionati, più che da criteri oggettivi e trasparenti, da spinte corporative derivanti dalla suddivisione dei suoi componenti togati in gruppi facenti riferimento alle diverse correnti interne alla magistratura [5]; con la conseguenza che sovente le decisioni non sarebbero adottate nell’interesse generale al buon andamento del sistema giustizia ma in applicazione di un criterio di sostanziale lottizzazione tra le diverse componenti associative. Alla crisi esterna se ne aggiunge poi una interna, nel senso che gli episodi sopra richiamati hanno ampliato la distanza tra il CSM e i singoli magistrati, molti dei quali hanno perso fiducia nelle modalità con cui viene esercitato il governo della magistratura.
La crisi del CSM preoccupa molto anche perché non riguarda soltanto l’istituzione in sé ma immancabilmente rischia di coinvolgere l’intero ordine giudiziario. Del resto, la storia, com’è stato sottolineato, mostra che “le tensioni che si riversano sul CSM sono, in linea generale, il puntuale riflesso sull’organo di autogoverno delle tensioni che investono la nostra società e il ruolo del giudice”; dunque, quando nel dibattito pubblico si ripropone il tema della crisi del Csm, “è il ruolo del giudice ad essere messo in tensione e in discussione” [6].
2. La dimensione politico-rappresentativa del CSM: una questione da (ri)mettere a fuoco
Per inquadrare la fase attuale del CSM è necessario affrontare un equivoco di fondo, presente nel dibattito di questi mesi. La questione, rispetto alla quale si è originato l’equivoco, ruota intorno al quesito su quale sia il corretto rapporto che deve sussistere tra il Consiglio e la politica in senso lato.
Alcune recenti proposte di riforma, infatti, sembrano muovere dall’idea che la ragione di tutti i mali del governo della magistratura abbia a che fare con la sua eccessiva vicinanza alla dimensione politica; in conseguenza di tale assunto, viene prospettata l’idea di riformare il CSM facendo di esso un organo dalla esclusiva natura burocratico-amministrativa, di mera gestione del personale magistratuale.
Si tratta di semplificazioni pericolose, che non tengono conto, tra l’altro, dell’estrema poliedricità del termine “politica”; tali ricostruzioni rischiano di favorire - anzi, in alcuni casi, è proprio questo il loro principale obiettivo - una visione estremamente riduttiva del CSM, assolutamente non conforme al modello delineato dalla Costituzione, plasmato dalla Corte costituzionale e inveratosi nella prassi degli ultimi decenni.
È pertanto quanto mai opportuno tornare a riflettere sull’effettiva natura giuridica del CSM [7]).
La Costituzione e la legge istitutiva del 1958 offrono in proposito numerosi appigli dai quali occorre ripartire: la presidenza dell’organo affidata al Capo dello Stato, la composizione mista laici-togati, la presenza di un terzo di membri eletti dal Parlamento in seduta comune a maggioranza qualificata, la vicepresidenza affidata ad un componente laico, l’attribuzione per legge all’organo di autogoverno del compito di rendere pareri e formulare proposte in materia di giustizia e di presentare annualmente, per il tramite del Ministro della Giustizia, una relazione al Parlamento sullo stato della giustizia.
Non è possibile in questa sede soffermarsi sulle singole previsioni richiamate, peraltro di peso e di tenore diverso. Certo è che dal loro combinato disposto sembra agevole ricavare l’impossibilità di affermare la natura meramente amministrativa del CSM, collocato al centro di un delicato equilibrio tra organi costituzionali e interlocutore del potere politico.
Ma vi è di più. Nell’esercizio delle stesse attribuzioni più tipicamente amministrative (assegnazioni, promozioni, assunzioni, trasferimenti, ecc.), elencate all’art. 105 Cost., il CSM è chiamato ad assumere decisioni che, per non risultare frutto di arbitrio, non possono che essere fondate su criteri predeterminati, ovvero su un insieme di indirizzi, una policy come sottolineava Alessandro Pizzorusso [8]. Le decisioni adottate dal CSM non sono frutto di scelte meramente tecniche e neutrali; assegnazioni e promozioni dei magistrati sono effettuate nel contesto di una “politica” dell’amministrazione della magistratura [9]. Del resto, si tratta di quel potere di indirizzo che prima del 1948 era il Governo ad esercitare e che, con la Costituzione, è stato in gran parte trasferito al CSM a garanzia dell’indipendenza del potere giudiziario [10].
La valenza “politica” del CSM risiede, com’è stato notato, nel complesso delle sue attribuzioni. Tutti i poteri del CSM, “considerati nel loro insieme, non sono la sommatoria di competenze frazionate, generatrici di atti isolati, privi di criteri ordinatori, ma si inseriscono in una policy di settore, i cui confini sono tracciabili a partire dal dettato costituzionale e dalle leggi attuative” [11]. Ci troviamo dunque al cospetto di un organo “di garanzia” chiamato ad esprimere, nei limiti fissati dalla Costituzione e dalla legge sull’ordinamento giudiziario, “indirizzi” in materia di amministrazione della giurisdizione [12].
In questo senso, e solo in questo senso, può dirsi che il CSM è un organo dotato di una “politicità intrinseca” [13]. Com’è ovvio, si tratta di una natura politica del tutto diversa da quella di cui sono espressione gli organi titolari di indirizzo politico. Altrettanto certamente, si tratta di una politicità che non giustifica le sue possibili degenerazioni, quali la pratica delle spartizioni tra le correnti per l’assegnazione degli incarichi direttivi o, a maggior ragione, la soggezione dei processi decisionali a pressioni provenienti da esponenti della politica partitica.
Altro tradizionale problema, all’altro strettamente collegato, è poi quello riguardante la riconducibilità del CSM alla categoria degli organi di tipo rappresentativo. E anche in questo caso, come sulla questione della sua natura politica, occorre intendersi sulle parole.
Sicuramente non può parlarsi di rappresentanza politica, non essendo il CSM un organo di democrazia rappresentativa, né può dirsi che il CSM rappresenti propriamente il corpo giudiziario; opzione, del resto, che sarebbe coerente con la sua eventuale natura corporativa, ipotesi chiaramente scartata dai Padri costituenti, quando, tra l’altro, optarono per la composizione mista laici-togati. E del resto, la stessa Corte costituzionale ha da tempo escluso che il CSM possa essere considerato uno strumento di “rappresentanza in senso tecnico dell’ordine giudiziario” [14].
Ciò che invece può affermarsi è che il CSM deve avere una necessaria composizione rappresentativa [15]. Con ciò va inteso che, tenuto conto del complesso delle funzioni di cui è titolare, esso deve tendere a presentarsi quale specchio del pluralismo ideale e culturale presente nella magistratura (con riguardo ai componenti togati) e nella società civile (con riguardo ai componenti laici). Le decisioni adottate dal plenum costituiscono necessariamente il risultato di bilanciamenti tra visioni e sensibilità diverse in materia di giustizia e la loro autorevolezza sarà tanto maggiore quanto più i componenti risulteranno individuati secondo criteri idonei a garantirne la differente estrazione e la più ampia rappresentatività.
Del resto, il collegamento tra associazionismo giudiziario e designazione dei componenti togati trova la sua esclusiva ragione - ovviamente in linea di principio, vale a dire a prescindere dalla sua resa effettiva, su cui mi soffermerò più avanti - proprio nella garanzia del pluralismo all’interno del collegio. In altre parole, i componenti togati non rappresentano (o non dovrebbero rappresentare) gli interessi delle associazioni alle quali sono eventualmente collegati, ma ciò non esclude che le regole elettorali sulla composizione dell’organo possano (o forse debbano) essere congegnate in modo tale da dare voce, per il tramite di tali associazioni, alla complessità degli orientamenti e delle idee che circolano all’interno del corpo giudiziario. A ciò si aggiunga che l’attuazione del massimo pluralismo possibile nella componente togata si pone quale garanzia anche dell’indipendenza di tutti i magistrati nei confronti dello stesso Consiglio [16].
3. Per un rilancio della natura costituzionale del CSM
Ma è tempo di riprendere in mano anche un’altra annosa questione, da tempo trascurata dalla dottrina malgrado la non particolare linearità degli approdi raggiunti. La crisi attuale deve rappresentare infatti occasione per un “rilancio”, ovvero indurre a tratteggiare “per intero” la dimensione costituzionale di tale organo.
Mi riferisco al tradizionale indirizzo per il quale il CSM deve essere inserito tra gli organi cosiddetti di rilievo costituzionale - previsti e disciplinati dalla Carta e dunque non modificabili, né tanto meno sopprimibili, senza una revisione costituzionale - mentre andrebbe scartata la possibilità di riconoscere allo stesso la natura di vero e proprio organo costituzionale [17]. Si tratta, com’è noto, di una conclusione largamente accolta nel dibattito dottrinale degli ultimi decenni, che molto deve alla fortuna registrata da un fondamentale studio pubblicato negli anni Sessanta [18], e verso la quale, tuttavia, con specifico riguardo al CSM, si è registrata un’acquiescenza forse eccessiva.
Va premesso che ogni indagine su tale questione deve prendere avvio dalla constatazione che le formule di organo “costituzionale” e “di rilievo costituzionale”, malgrado i tentativi profusi dalla dottrina, sono e rimangono assai sfuggenti e controverse in quanto fondate su criteri di identificazione non assoluti, nel tempo variamente individuati.
Del resto, è pure controverso che la circostanza di riconoscere natura costituzionale ad un determinato organo comporti come conseguenza l’attribuzione ad esso di uno specifico e comune regime giuridico, ad esempio in termini di assoggettabilità dei rispettivi atti ad un controllo esterno, essendo per lo più ammesse, salvo quanto si dirà subito dopo, differenziazioni da caso a caso [19]. A ben vedere, vi è un solo carattere tipico che generalmente, ancorché non unanimemente, si tende ad attribuire ai soli organi costituzionali: quello della loro “insopprimibilità” in prospettiva di una revisione costituzionale [20].
Ad ogni modo, anche se la sola affermazione davvero indiscutibile dovesse risultare quella, certo un pò vaga, per cui gli organi costituzionali sono “quelli più importanti dello Stato” [21], risulterebbe comunque davvero anomalo non poter ricomprendere tra questi il CSM. Senza contare, specularmente, che talora, soprattutto in passato, la qualifica di organo di mera rilevanza costituzionale attribuita al CSM ha dato spazio proprio a quelle teorie tese a degradare il suo ruolo a un’attività di carattere esclusivamente amministrativo [22].
Ciò detto, senza voler ripercorrere in questa sede un dibattito sconfinato e non molto appagante, possiamo partire dall’orientamento maggioritario, che individua il principale elemento di differenziazione tra le due categorie di organi nella circostanza che soltanto quelli costituzionali sarebbero “in grado di esercitare, nello svolgimento delle loro funzioni - attive, di controllo e organizzative - un’influenza effettiva sul processo produttivo delle norme primarie” ([23]).
Traducendo in pratica tale definizione, l’orientamento dottrinale qui richiamato riconduce al novero degli organi costituzionali - alcuni di indirizzo politico, altri di garanzia - il corpo elettorale, il Parlamento, il Governo, il Presidente della Repubblica, la Corte costituzionale e il CNEL, quest’ultimo in quanto titolare dell’iniziativa legislativa e compartecipe dell’elaborazione della legislazione economica e sociale; al contrario, sulla base dello stesso ragionamento, vengono invece esclusi la Corte di cassazione, la Corte dei conti, il Consiglio di Stato e, per quanto qui più interessa, il CSM, “perché nessuno di questi organi, per quanto superiorem non recognoscens, appare dotato di poteri politici o di poteri suscettibili di operare allo stesso livello di quelli politici” ed in particolare “è in grado di esercitare una influenza sul contenuto sostanziale delle norme primarie” [24].
Malgrado la raffinatezza del ragionamento seguito, tali conclusioni, con riguardo al CSM, non sembrano del tutto convincenti. Aldilà di ogni altra considerazione, pare davvero piuttosto formalistico riconoscere al CNEL il potere di incidere sulla normazione primaria, e per tale ragione annoverarlo tra gli organi costituzionali, e negare tale attitudine al CSM, estromettendolo da quel catalogo, senza tener conto, da un punto di vista sostanziale, che a tale organo è di fatto riconosciuto un ruolo fondamentale nella “scrittura” delle regole in materia di ordinamento giudiziario; attività, com’è noto, favorita per molti anni dalla sostanziale latitanza del Parlamento [25], ma che, anche all’indomani della riforma dell’ordinamento giudiziario del 2005-2007, non è affatto venuta meno [26].
Ad ogni modo, alla conclusione di inserire il CSM tra gli organi costituzionali è possibile giungere anche seguendo un diverso indirizzo, che a me pare più lineare, avendo esso anche il pregio, se così si può dire, di riconoscere una pari “dignità costituzionale” agli organi di indirizzo politico e a quelli di garanzia, questi ultimi un poco sacrificati seguendo la precedente impostazione.
Tale orientamento è incentrato sul criterio dell’indispensabilità dell’organo costituzionale per il raggiungimento di finalità indicate come fondamentali dalla Costituzione. L’appellativo di “costituzionali”, in altre parole, dovrebbe spettare a quegli organi che devono necessariamente essere previsti, “pena la lesione di quel nucleo essenziale la cui integrità è la vera ragion d’essere della Repubblica democratica e pluralista” [27].
La natura costituzionale del CSM sarebbe desumibile dal suo carattere di indefettibilità in relazione all’obiettivo di “garanzia e immediata attuazione” del principio fondamentale dell’autonomia e indipendenza della magistratura, non potendosi immaginare, per la difesa dello stesso, soluzioni alternative a quelle dell’istituzione di un organo svincolato dal Governo a cui affidare funzioni prima appartenenti al potere esecutivo [28]. In definitiva, al CSM dovrebbe riconoscersi una natura costituzionale in quanto, sebbene la sua disciplina sia certamente modificabile con il procedimento di revisione costituzionale, la sua “esistenza” si configura come un “punto di non ritorno” nel disegno costituzionale [29].
4. La crisi attuale e la riforma dell’ordinamento giudiziario del 2005-2007
Tornando alla crisi che ha investito il CSM, a me pare che essa non sia tanto manifestazione della natura eccessivamente politica dell’organo ma, all’opposto, dell’incapacità di esprimere correttamente tale natura.
Da qui l’equivoco a cui ho fatto prima riferimento. Proprio la difficoltà del CSM a mostrare la sua natura intrinsecamente politica ha favorito il rafforzarsi delle logiche burocratico-amministrative, fondate per lo più sulle appartenenze dei singoli componenti, di pari passo con la torsione delle correnti da motori di pluralismo ideale a centri di interessi particolari [30].
Ma come si è arrivati a questo punto? Le ragioni sono probabilmente molte e alcune hanno radici culturali profonde, che riguardano l’intera magistratura e la società più in generale.
Tuttavia, tra le ragioni della crisi attuale, a me sembra che possano essere annoverate anche alcune scelte compiute dal legislatore della riforma dell’ordinamento giudiziario del 2005-2007. O meglio, quest’ultimo ha inconsapevolmente favorito il riaccendersi di alcune antiche criticità.
La ragione principale può essere individuata nella modifica dei criteri per l’attribuzione delle funzioni ai magistrati, soprattutto con riguardo agli incarichi direttivi, laddove il criterio dell’anzianità, perno del sistema a partire dalla legge Breganze n. 560/1966, è stato sostanzialmente sostituito con modalità di selezione di tipo concorsuale fondate prevalentemente sulla valutazione del merito dei candidati.
A prescindere dagli obiettivi che il legislatore ha inteso perseguire, per certi versi condivisibili, tale riforma ha di fatto innescato una serie di problemi a catena.
In primo luogo, è prepotentemente rientrata nella cultura di una parte della magistratura la logica della carriera, ovvero della rincorsa all’avanzamento di “grado”. Sebbene sia vero che la maggiore attenzione ai temi della dirigenza, anche grazie agli interventi del CSM all’indomani della riforma ([31]), ha contribuito ad innalzare il livello medio dei titolari degli incarichi direttivi e semi-direttivi, tuttavia è altresì incontestabile che si è venuta a creare una più netta separazione tra una sorta di “carriera dirigenziale”, percorsa da alcuni magistrati, che si snoda da un incarico direttivo ad un altro incarico direttivo, senza soluzione di continuità, e il normale avanzamento dei magistrati “normali” ([32]).
La frattura appena richiamata suscita perplessità. Non è inutile ricordare che il descritto fenomeno favorisce inevitabilmente un assetto più gerarchico della magistratura e costituisce il terreno ideale, come più volte evidenziato in passato, nel quale può diffondersi l’atteggiamento di deferenza e di conformismo giudiziario, i quali, a propria volta, mettono a rischio l’indipendenza del giudice [33]. Per tali ragioni l’idea stessa della carriera è incompatibile con l’assetto costituzionale della magistratura, che, com’è ben noto, si fonda sugli assunti per i quali i magistrati sono soggetti “soltanto alla legge” (art. 101, comma 2, Cost.) e si distinguono “soltanto per funzioni” (art. 107, comma 3, Cost.).
Un secondo problema che si è creato con la riforma, al primo strettamente collegato, è quello della grande mole di aspettative, tensioni e pressioni che si sono scaricate sul CSM, organo chiamato a gestire l’applicazione dei nuovi criteri in materia di carriera.
Gli oltre dieci anni dall’entrata in vigore della nuova disciplina hanno confermato, qualora ve ne fosse stato bisogno, che valutare il merito è operazione estremamente complessa. Malgrado i tentativi svolti dallo stesso CSM di rendere più trasparenti le proprie scelte, attraverso l’adozione della richiamata disciplina secondaria, tanto minuziosa quanto fragile, tale obiettivo si è rivelato di ardua realizzazione. Si è rafforzata, in una grande parte della magistratura, la percezione che le scelte discrezionali del CSM, non agganciate a criteri oggettivi e davvero verificabili, siano sovente poco trasparenti, imprevedibili, talora del tutto arbitrarie.
Del resto, non sono stati rari i casi in cui i provvedimenti adottati dall’organo di autogoverno riguardanti gli incarichi direttivi e semidirettivi hanno peccato per insufficiente o incongrua motivazione; ciò che ha innescato un aumento esponenziale del contenzioso dinanzi al giudice amministrativo. Facendo una media dal 2010 al 2018, risulta che circa il 30% delle delibere adottate dal CSM di conferimento di incarichi direttivi è stata impugnata dinanzi al TAR Lazio [34].
Per inciso, proprio allo scopo di ridurre il contenzioso, era stato adottato il d.l n. 90/2014, sulla semplificazione e trasparenza amministrativa, laddove, all’art. 24, si era previsto che “contro i provvedimenti riguardanti il conferimento degli incarichi direttivi e semidirettivi il controllo del giudice amministrativo ha ad oggetto i vizi di violazione di legge e l’eccesso di potere manifesto” (c.vi aggiunti). A prescindere dalle difficoltà che si sarebbero inevitabilmente presentate per distinguere tra vizio manifesto e vizio non manifesto, appariva chiaro l’intento del Governo di venire incontro al CSM, impedendo le impugnazioni degli atti consiliari motivate in ragione dei vizi meno evidenti. Ed è dunque significativo che il Parlamento abbia ritenuto di non convertire, con la legge n. 114/2014, tale disposizione, dando un segnale di sostanziale sfiducia nei confronti dell’organo di governo della magistratura.
Infine, un terzo problema esaltato dalla riforma è stato proprio il rafforzamento delle logiche corporative. Nell’applicazione dei criteri riguardanti la carriera dei magistrati, divenuti meno oggettivi, i componenti del CSM, soprattutto i togati ma non soltanto loro, hanno non raramente assecondato le aspettative derivanti dalle rispettive appartenenze, spogliandosi del ruolo di rappresentanti imparziali di pluralismo culturale per divenire meri terminali delle scelte delle rispettive “associazioni di categoria”, al fine di tutelare gli interessi degli affiliati.
Com’è stato efficacemente sintetizzato, “nell’ambito della selezione dei dirigenti, il difficile esercizio della discrezionalità ha incrociato le più forti resistenze culturali di una magistratura che, di fronte al venir meno delle certezze rappresentate dal criterio dell’anzianità, ha riscoperto il valore della carriera e la dimensione della corporazione” [35].
Va detto che sia il CSM sia la magistratura associata si sono mostrati in più occasioni consapevoli di tali rischi. In una delibera del 20 gennaio 2014, ove si elencano i doveri dei componenti dell’organo, si precisa che la volontà di questi ultimi “deve essere frutto di un personale studio e valutazione” e che il consigliere “non deve essere acritico interprete di posizioni di gruppi dell’associazionismo giudiziario anche solo per ragioni di appartenenza o debito elettorale”. Sono state poi predisposte negli ultimi anni puntuali regole deontologiche tese a sottolineare con forza l’importanza del “disinteresse personale” nella vita professionale e sociale [36].
Ma tale attenzione formale non ha costituito un argine adeguato contro le derive descritte.
5. Spunti per qualche correttivo, non solo in materia elettorale
Numerose sarebbero le riforme utili per aiutare il CSM ad uscire dalla crisi in cui versa attualmente. Non essendo questa la sede per affrontare le questioni in modo puntuale, mi limito ad alcuni cenni, per lo più in continuità con quanto detto in precedenza.
In primo luogo, pare necessario intervenire sulla disciplina della carriera dei magistrati, sia individuando un equilibrio diverso tra il criterio dell’anzianità e quello del merito sia attraverso l’utilizzo di parametri e indicatori più puntuali e oggettivi, maggiormente idonei ad apprezzare le attitudini effettive dei candidati e a contenere, conseguentemente, la “crisi di discrezionalità” che oggi investe il CSM.
Un altro obiettivo da perseguire sembra quello di riformare gli incarichi direttivi rendendoli davvero temporanei. Oggi la normativa prevede che essi abbiano una durata di quattro anni e siano rinnovabili una volta; ciò non esclude, tuttavia, che al termine di un incarico direttivo il magistrato possa passare senza soluzione di continuità ad un altro incarico direttivo, solitamente più prestigioso del precedente. Ma tale circostanza è incompatibile con la ratio più profonda della temporaneità degli incarichi, ovvero l’esigenza di preservare l’orizzontalità nei rapporti tra magistrati.
Dunque, la provvisorietà non dovrebbe riguardare il singolo incarico ma, in generale, la titolarità della funzione direttiva; insomma, al termine di un periodo di “servizio” il magistrato dovrebbe tornare a svolgere, almeno per un certo tempo, la normale funzione giurisdizionale. Come è stato efficacemente precisato, “il ruolo di direzione di un ufficio giudiziario non è uno status, ma un incarico temporaneo, di durata adeguata a garantirne l’incisività, che non istituisce differenze permanenti tra dirigenti e diretti, ma solo una temporanea diversità di funzioni” [37].
Ancora, in stretto collegamento con quanto appena evidenziato, pare opportuno impedire, o quanto meno limitare, con puntuali previsioni, i collegamenti troppo stretti tra la titolarità di incarichi istituzionali (CSM, Scuola della Magistratura, consigli giudiziari, ecc.) o associativi e la carriera professionale. Si tratta, infatti, di potenziali “circoli viziosi” che si prestano a divenire il terreno ideale per il diffondersi delle logiche corporative.
Infine, venendo più da vicino al CSM, nel tempo sono state avanzate proposte e correttivi volti a rendere i suoi processi decisionali più trasparenti e meno soggetti a condizionamenti impropri o a dinamiche spartitorie; per tutte, può richiamarsi l’idea di vietare le cd. nomine a pacchetto, oggi soltanto limitate dall’art. 38 del Regolamento interno del 2016, attraverso la previsione del voto separato per ciascuno dei candidati indicati nella proposta unitaria della commissione competente.
6. Dal 1958 ad oggi, sette discipline elettorali
Ma è sulla legge elettorale per il rinnovo della componente togata del CSM che in questi mesi si sono concentrate le attenzioni maggiori.
Non è la prima volta che accade. Dal 1958 ad oggi si sono avute quindici consiliature del CSM e ben sette discipline elettorali (cfr. leggi nn. 195/1958, 1198/1967, 695/1975, 1/1981, 655/1985, 74/1990 e 44/2002). Senza contare che la legge elettorale è stata oggetto, nel 1986 e nel 2000, anche di due procedimenti referendari promossi senza successo dai radicali. Nessun sistema elettorale, almeno a partire dagli anni Settanta, ha mai retto all’accusa di favorire la politicizzazione del Consiglio superiore [38].
Le correnti della magistratura, vive e vitali fin dall’inizio delle attività del CSM, “entrano” ufficialmente al suo interno con la legge n. 695/1975, con la quale non soltanto i componenti togati elettivi vengono portati da 14 a 20 (8 giudici di legittimità, 8 di tribunale e 4 di appello) ma si introduce per la prima volta il voto per liste concorrenti, con nome e simbolo del gruppo e con possibilità di esprimere preferenze all’interno della lista prescelta. Il sistema introdotto è proporzionale, con collegio unico nazionale e con clausola di sbarramento al 6%.
Il ragionamento che conduce all’approvazione di tale riforma, realizzata con il diffuso consenso della magistratura associata, della classe politica e della prevalente dottrina, è il seguente: poiché il CSM definisce i criteri generali sulla cui base è tenuto ad adottare i singoli provvedimenti riguardanti i magistrati, esso è in grado di incidere con un potere “immenso” sulla politica giudiziaria, ragione per la quale la sua composizione deve necessariamente essere “rappresentativa” delle diverse anime di cui la magistratura si compone [39].
Inoltre, tale assetto viene considerato il più adeguato allo scopo di consentire all’organo di autogoverno di farsi garante dell’indipendenza non soltanto esterna ma anche interna della magistratura [40]. In definitiva, in una fase storica nella quale viene raggiunta la piena consapevolezza del ruolo del giudice e della funzione giudiziaria nell’ordinamento, la componente togata del CSM diviene diretta espressione della vivacità culturale presente nel corpo giudiziario.
Quindici anni più tardi le prospettive sono parzialmente mutate. In un clima caratterizzato da forti tensioni tra politica e magistratura e preso atto, già allora, di alcune evidenti degenerazioni del “correntismo” [41], si giunge all’approvazione della legge n. 74/1990, approvata con la quasi esclusiva finalità di diminuire il peso delle correnti nel CSM. Vengono previsti più collegi nazionali, uno per l’elezione di due magistrati di cassazione e quattro (composti associando una pluralità di distretti di Corte d’Appello scelti mediante sorteggio) per l’elezione di diciotto magistrati di merito; il voto è espresso a favore delle liste e all’assegnazione dei seggi, realizzata con metodo proporzionale, partecipano soltanto i gruppi che hanno conseguito almeno il 9% dei suffragi sul piano nazionale.
Se l’obiettivo è quello di riavvicinare i candidati agli elettori, riducendo il peso della mediazione dei gruppi organizzati, in realtà la non sufficiente ristrettezza dei collegi, unita ad alcuni infelici tecnicismi, sortirà l’effetto esattamente contrario, rendendo ancora più decisivi gli apparati [42].
Si giunge quindi alla legge n. 44/2002, oggi in vigore, anch’essa figlia di una stagione caratterizzata da contrapposizioni tra politica e magistratura e da una malcelata volontà di depotenziare, con l’associazionismo giudiziario, il ruolo e il peso dell’organo di governo della magistratura. I componenti togati vengono ridotti a sedici, eletti col sistema maggioritario in tre collegi unici nazionali: uno per eleggere due magistrati di Cassazione, uno per eleggere dieci magistrati giudicanti, uno per eleggere quattro magistrati requirenti. Il voto non è per lista ma sui singoli candidati, ogni elettore ne ha uno per ciascun collegio, risultano eletti coloro che hanno ottenuto più suffragi fino alla copertura dei posti. Anche in questo caso la finalità perseguita è quella di “ridurre sensibilmente” il peso delle correnti e la logica spartitoria che ne segue [43].
Tale obiettivo non sarà raggiunto. A prescindere dalle critiche tradizionali rivolte ad un siffatto sistema, di tipo maggioritario, da alcuni ritenuto “la negazione del ruolo assegnato al CSM dalla Costituzione” [44], ben presto viene in risalto soprattutto l’incongruenza tra abolizione del voto di lista e introduzione soltanto di tre collegi unici nazionali; la prassi, infatti, mostra fin da subito l’impossibilità per i candidati di fare a meno dell’appoggio di gruppi organizzati su tutto il territorio nazionale.
In definitiva, l’esperienza insegna che nessuna formula elettorale è in grado, di per sé, di risolvere il problema del peso delle correnti all’interno del CSM.
7. Verso una nuova legge elettorale
È ovvio che il vero problema è quello di mettere a fuoco l’obiettivo della riforma elettorale.
Alla luce di quanto prima evidenziato, circa la corretta collocazione del CSM nell’ordinamento e la sua valenza in senso lato politico-rappresentativa, appare chiaro che non si dovrebbe prospettare tanto l’espulsione delle correnti dal meccanismo elettorale ma predisporre un sistema idoneo - ovviamente nei limiti ristretti in cui una formula elettorale può incidere su questo profilo - a contenere le degenerazioni del correntismo senza rinunciare al pluralismo di idee di cui le correnti devono essere espressione anche all’interno del CSM [45].
Insomma, pur nella consapevolezza che i congegni elettorali non sono da soli risolutivi, è opportuno rintracciare una soluzione che vada nel senso di ridurre gli effetti perversi del correntismo senza, allo stesso tempo, frustrare il pluralismo di cui le correnti sono espressione. Come detto, una cosa è il pluralismo culturale, che è un valore da preservare, altro è la lottizzazione, che è una degenerazione da combattere. La circostanza per la quale le correnti si sono dimostrate non sempre all’altezza del ruolo “pubblico” loro affidato, in quanto assorbite dal far prevalere gli interessi particolari dei propri associati, è un fattore di cui si deve tenere conto ma che non incide sulla centralità della loro funzione, che è da apprezzare, per inciso, anche in termini di garanzia di accountability dei componenti togati [46].
Quanto si è venuti dicendo impone innanzi tutto di scartare, tra le diverse ipotesi di riforma prospettate in questi mesi, la non-soluzione del sorteggio dei componenti togati del CSM, peraltro già a suo tempo avanzata nel d.d.l. costituzionale n. 4275/2011 e prima ancora, negli anni Settanta, dal Movimento sociale italiano. A prescindere dalla circostanza che tale prospettiva, anche se preceduta o seguita da una fase elettorale, potrebbe essere percorribile soltanto con una revisione dell’art. 104 Cost., contro di essa depone soprattutto l’evidente incompatibilità con la natura del CSM così come appena tratteggiata: il sorteggio, infatti, presuppone un Consiglio del tutto svilito, ridotto a mero organismo burocratico, in netto contrasto con l’esigenza di valorizzazione del pluralismo interno di cui si è detto. Senza contare che tale modalità di selezione, più che garantire una riduzione del peso delle correnti all’interno dell’organo, è in grado di assicurare soltanto una sua casuale ridistribuzione; né la stessa può offrire uno scudo insuperabile contro le pratiche lottizzatorie, le quali, anzi, potrebbero rinnovarsi secondo logiche diverse e meno trasparenti. Infine, com’è ovvio, il sorteggio non assicura l’individuazione delle persone più adeguate a ricoprire quel peculiare ruolo ([47]).
Sembrano peraltro troppo radicali i recenti progetti di legge C. 226 e C. 227, presentati negli scorsi mesi alla Camera dei deputati per iniziativa dei deputati Stefano Ceccanti e Marco Di Maio (in realtà riproduttivi di proposte analoghe presentate nella XVI legislatura), tesi all’introduzione di un sistema, di tipo maggioritario, caratterizzato dall’articolazione in sedici piccoli collegi uninominali (uno per i magistrati di legittimità, quattro per i pubblici ministeri, undici per i giudici di merito) e dalla circostanza che ogni elettore può votare soltanto per il collegio ad esso relativo. Tale sistema, avvicinando i candidati agli elettori, renderebbe almeno in prima battuta plausibilmente meno essenziale l’intermediazione delle correnti; d’altra parte, il rischio in cui si potrebbe incorrere sarebbe duplice: da un lato favorire la creazione di una rappresentanza fortemente localistica, dove l’interesse generale potrebbe cedere il posto agli interessi particolari, con possibile esaltazione di rapporti clientelari tra elettori ed eletti; dall’altro, il rischio di estromettere le minoranze culturali dal Consiglio.
A mio giudizio sono da preferire sistemi più calibrati. Ne richiamo tre, senza alcuna pretesa di esaustività.
Può innanzi tutto segnalarsi il progetto elaborato dalla Commissione Scotti, che ha ultimato i suoi lavori nel 2016, laddove in esso si è tentato di coniugare il sistema maggioritario con quello proporzionale, prevedendo sia collegi territoriali che un collegio nazionale. Le votazioni sono articolate infatti in due turni, il primo maggioritario, su base territoriale, il secondo, proporzionale per liste concorrenti, su base nazionale.
Appare poi coerente con l’obiettivo indicato anche la proposta avanzata a suo tempo dalla Commissione Balboni, istituita nel 1995. La soluzione del “voto singolo trasferibile”, infatti, ha il vantaggio di “mantenere un elevato grado di proporzionalità” impedendo al contempo di far prevalere la “logica di lista e degli schieramenti”, valorizzando la personalità dei singoli magistrati [48]. I collegi sono plurinominali e l’elettore si esprime votando un singolo candidato di una lista e indicando, in ordine di preferenza, altri candidati, non necessariamente della stessa lista, ai quali il voto potrebbe essere trasferito qualora il primo candidato non possa essere eletto o non abbia bisogno del voto per essere eletto.
Nello stesso senso, ovvero con la finalità di coniugare esigenze di “conservazione del pluralismo ideale e culturale […] e valorizzazione delle capacità e dell’indipendenza dei singoli magistrati”, si muove anche la recente proposta di un sistema proporzionale “temperato” [49]. Essa, in particolare, prevede tanti collegi uninominali quanti sono i magistrati da eleggere (esclusi quelli di legittimità, da concentrare in un collegio apposito), con collegamento di ciascun candidato con candidati in altri collegi facenti parte dello stesso gruppo e con distribuzione dei seggi su scala nazionale con il sistema proporzionale. Una volta ripartiti su scala nazionale i seggi tra i diversi gruppi, risultano eletti i candidati che, nel rispettivo collegio, ottengono la percentuale di voti più alta.
Tale sistema manterrebbe il ruolo delle correnti ma garantirebbe allo stesso tempo un rapporto diretto tra elettore e candidato nel collegio uninominale.
8. In conclusione
I congegni elettorali sono sempre perfettibili e nessuno mai davvero decisivo. Sono in ogni caso da prediligere, come accennavo, soluzioni equilibrate, che tengano conto dell’esigenza di contemperare le diverse istanze coinvolte, tutte di rilievo costituzionale.
Di tutto c’è bisogno meno che di risposte frettolose e scomposte.
In effetti, all’indomani degli scandali che hanno lambito il CSM la classe politica ha mostrato, almeno in una prima fase, una straordinaria reattività, con la messa in cantiere di una serie di proposte di riforma non sempre sufficientemente meditate. Reattività, per inciso, certamente giustificata in ragione della gravità dei fatti, anche se piuttosto inusuale se raffrontata ai tempi di reazione che si registrano di solito in altri settori dell’ordinamento, pur certamente bisognosi di interventi normativi. Mentre si scrive, in realtà, l’entusiasmo iniziale sembra essersi un poco raffreddato e il CSM appare meno al centro del dibattito politico rispetto soltanto a pochi mesi fa. Vedremo nei prossimi mesi se tale rallentamento è sintomo di una maggiore riflessione.
Per quanto molti dei problemi attuali abbiano una matrice culturale, e su quel piano debbano essere affrontati, qualche intervento normativo appare senza dubbio necessario. Ciò che deve essere tuttavia scongiurato è lo “scatto di nervi” del Parlamento, ovvero che si possa varare una riforma che non tenga conto dell’effettiva posta in gioco e risulti diretta a mortificare un organo fondamentale per l’equilibrio dei poteri e per il loro assetto democratico.
*Testo della relazione presentata al Convegno Migliorare il Csm nella cornice istituzionale, Roma, 11 ottobre 2019. * Tratto dal volume Migliorare il CSM nella cornice costituzionale editore CEDAM, collana: Dialoghi di giustizia insiemehttps://www.lafeltrinelli.it/libri/migliorare-csm-nella-cornice-costituzionale/9788813375331?awaid=9507&gclid=CjwKCAjwlID8BRAFEiwAnUoK1bjoo2A6KrpvpTBT-yU5i2WUpXqo7o-R7jlbyFc_rkbudWc8cpmcfBoCmy0QAvD_BwE&awc=9507_1602232055_06e1f697dd85945fae256cfe65201e17 in tema di riforma del CSM pubblicati su questa Rivista: La rappresentanza di genere nel CSM, I sistemi elettorali nella storia del CSM: uno sguardo d’insieme, Migliorare il Csm nella cornice costituzionale
[1] Corte cost., sent. n. 4/1986.
[2] Si noti che nel 1910, pochi mesi dopo la nascita della Associazione nazionale magistrati, l’allora ministro Orlando manifestò alcune perplessità rispetto a tale avvenimento, evidenziando un generico rischio che l’assetto associativo potesse condurre ad una “eccessiva” democratizzazione del corpo giudiziario, allora caratterizzato, come si sa, da una struttura marcatamente gerarchica. In effetti, i dubbi del ministro si dimostrarono fondati e l’associazionismo giudiziario contribuì a preparare il terreno alle novità che sarebbero state successivamente introdotte dalla Carta costituzionale.
[3] Cfr., da ultimo, G. Verde, Il conferimento degli incarichi direttivi fra Consiglio superiore della magistratura e Ministro della giustizia, in Lo Stato, 2019, 105
([4] G. Mattarella, Intervento nel corso del Plenum straordinario del CSM del 21 giugno 2019.
([5]) Per quanto, come giustamente nota L. Pepino, La magistratura e il suo consiglio superiore, in Questione giustizia, 2020, le vicende di cronaca cui si fa riferimento evidenziano in realtà un fatto ancora più grave del (già grave) fenomeno della lottizzazione correntizia; esse, infatti, riguardano una serie di contatti intercorsi tra politici e magistrati finalizzati ad individuare i candidati più idonei per certi incarichi direttivi in relazione non tanto alla loro appartenenza ad una certa associazione quanto alla loro “ritenuta maggiore o minor duttilità nella gestione di indagini eccellenti”.
[6] E. Bruti Liberati, Crisi del Csm, indipendenza della magistratura, modifica del sistema elettorale, in Questione giustizia, n. 1/1990, 18 ss.
[7] Cfr. A. Pizzorusso, Il Consiglio superiore della magistratura nella forma di governo vigente in Italia, ora in Id., L’ordinamento giudiziario, II, Napoli, 2019, 519ss.
[8] A. Pizzorusso, L’organizzazione della giustizia in Italia, ora in Id., L’ordinamento giudiziario, I, Napoli, 2019, 116.
[9] G. Ferri, Magistratura e potere politico, Padova, 2005, 247.
[10] Cfr. A. Pizzorusso, Il CSM nella forma di governo vigente in Italia, in Id., L’ordinamento giudiziario, II, cit., 548.
[11] G. Silvestri, Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, in Questione giustizia, n. 4/2017, 24.
[12] Da ultimo, la Commissione Scotti (cfr. Relazione della Commissione ministeriale per le modifiche alla Costituzione e al funzionamento del Consiglio superiore della magistratura, in www.giustizia.it, 2016, 19) ha ricordato che il CSM “non è un semplice consiglio di amministrazione, è piuttosto un’istituzione di garanzia nonché rappresentativa di idee, di prospettive, di orientamenti su come si effettua il governo della magistratura e su come si organizza il servizio giustizia, anzi su quale sia il ruolo della magistratura e dello stesso Consiglio superiore”.
[13] P. Barile, Il CSM e la Costituzione, in la Repubblica, 9 aprile 1986.
[14] Cfr. Corte cost., sent. n. 142/1973
[15] Nella pronuncia richiamata alla nota precedente, del resto, la stessa Corte costituzionale ha affermato, con riferimento alla componente togata, che il CSM è un “organo a composizione parzialmente rappresentativa”.
[16] A. Pizzorusso, Il CSM nella forma di governo vigente in Italia, ora in Id., L’ordinamento giudiziario, II, cit., 540.
[17] In argomento, da ultimo, M. Luciani, Il consiglio superiore della magistratura nel sistema costituzionale, in www.osservatorioaic.it, 7 gennaio 2020.
[18] Il riferimento è ovviamente a E. Cheli, Organi costituzionali e organi di rilevo costituzionale (appunti per una definizione), in Studi economico-giuridici della Facoltà di Giurisprudenza di Cagliari, XLVI, 1, 1966, 155ss.
[19] S. Franzoni, I giudici del Consiglio superiore della magistratura, Torino, 2014, 117ss.
Nel 2019, peraltro, la Corte dei conti (N. 2/SSRRCO/QMIG/19) ha avuto modo di precisare che il suo controllo contabile deve essere escluso nei confronti dei soli organi costituzionali, pur riconoscendo che anche quelli di rilevanza costituzionale abbiano quale tratto comune riconoscibile “l’estraneità ad una sussunzione del loro operato nell’ambito delle politiche pubbliche governative”.
[20] Di recente M. Luciani, Il Consiglio superiore della magistratura, cit., 8 ha proposto una variante a tale indirizzo tradizionale con specifico riferimento agli organi di rilevanza costituzionale: mentre di essi, a differenza di quanto valga per gli organi costituzionali, il legislatore costituzionale potrebbe certamente disporre, altrettanto non potrebbe fare con riguardo alle prestazioni agli stessi affidate, che comunque dovrebbero essere erogate in quanto connesse a scelte costituzionali fondamentali e non eludibili.
[21] A. Pizzorusso, Problemi definitori e prospettive di riforma del CSM, ora in Id., L’ordinamento giudiziario, II, cit., 1067.
[22] Cfr. L. Geninatti Saté, Il ruolo costituzionale del C.S.M.e i limiti al sindacato giurisdizionale dei suoi atti, Torino, 2012, 85.
[23] E. Cheli, Organi costituzionali e organi di rilevo costituzionale, cit., 100s., ove peraltro si osserva come tale definizione sia il risultato dell’adozione di un criterio inedito fondato, tuttavia, sull’utilizzo sinergico di due caratteri tradizionali, già presenti nel precedente dibattito scientifico, ovvero quello della “posizione” e quello delle “funzioni” riconosciute agli organi.
[24] E. Cheli, Organi costituzionali e organi di rilevo costituzionale, cit., 105 s.
[25]Cfr. A. Pizzorusso, Art. 108, in Commentario della Costituzione, a cura di G.Branca e A.Pizzorusso, Bologna-Roma, 1992, 6.
[26] Sia consentito il rinvio a F. Dal Canto, Lezioni di ordinamento giudiziario, Torino, 2018, 66 ss.
[27] G. Silvestri, Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, cit., 21.
[28] In senso analogo, pur con diverse sfumature, U. De Siervo, A proposito della ricorribilità in Consiglio di Stato delle deliberazioni del CSM, in Giur. cost., 1968, 698, L. Daga, Il Consiglio superiore della magistratura, Napoli, 1973, 269ss., cui appartiene peraltro il virgolettato nel testo, L. G. Saté, Il ruolo costituzionale del CSM, cit., 75ss. e G. Silvestri, Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, cit., 22.
[29] C. Salazar, Il Consiglio superiore della magistratura e gli altri poteri dello Stato: un’indagine attraverso la giurisprudenza costituzionale, in www.forumcostituzionale.it, 2007.
[30] Numerosi esempi di tale degenerazione, che non hanno risparmiato affatto la componente laica del Consiglio, sono contenuti nel saggio di A. Nappi, Quattro anni a Palazzo dei marescialli. Idee eretiche sul Consiglio superiore della magistratura, Roma, 2014, 1ss.
Sulle correnti osserva di recente G. Melis, Le correnti della magistratura. Origini, ragioni ideali, degenerazioni, in Questione giustizia, 2020, come esse abbiano subito negli anni una involuzione; “da ossatura della democrazia interna della magistratura, da arterie, quali erano efficacemente, di una circolazione sanguigna fondamentale per la stessa esistenza della dialettica, da portatrici di idee e di modelli differenti circa la funzione giurisdizionale e il modo di esercitarla, si sono via via trasformate in ambigue articolazioni di potere; dedite, più che non alla realizzazione di un progetto alla propria autoconservazione”.
[31] Mi riferisco, in particolare, al Testo unico sulla dirigenza adottato con delibera del 28 luglio 2015, sul quale si veda G. Campanelli, Nuovo testo unico sulla dirigenza giudiziaria: possibili effetti sui limiti del sindacato giurisdizionale, in Questione giustizia, 2016.
[32] N. Rossi, L’etica professionale dei magistrati: non un’immobile Arcadia, ma un permanente campo di battaglia, in Questione giustizia, n. 3/2019, 44ss.
[33] Cfr. G. Silvestri, I problemi della giustizia italiana tra passato e presente, in Dir.pubbl., 2003, 328ss.
[34] Cfr. Ufficio Statistico del CSM, in www.csm.it.
[35] Cfr. M. Guglielmi, La discrezionalità del Consiglio una prerogativa irrinunciabile dell’autogoverno o un peso insostenibile per la magistratura?, in Questione giustizia, n. 4/2017, 34.
[36] Cfr. N. Rossi, L’etica professionale dei magistrati: non un’immobile Arcadia, cit., 44ss. Il codice etico dei magistrati, modificato da ultimo nel 2010, è consultabile in www.associazionemagistrati.it.
Occorre anche ricordare che l’Associazione nazionale magistrati ha reagito con fermezza agli scandali degli ultimi mesi, in particolare adottando, a conclusione del suo trentaquattresimo Congresso nazionale, svoltosi a Genova alla fine del 2019, una mozione (consultabile in www.associazionemagistrati.it) nella quale si legge che “i diversi gruppi che compongono l’associazione devono recuperare la loro funzione di luoghi di confronto ideale ed elaborazione culturale. Il pluralismo culturale, infatti, rappresenta una ricchezza, costituendo elemento essenziale dell’identità stessa dell’ANM, in seno alla quale le diverse visioni si confrontano e trovano una sintesi sulla base dei valori costituzionali comuni”. E ancora: “Consapevoli del ruolo e dei propri doveri i magistrati italiani ribadiscono, a fronte dei gravi fatti emersi, la centralità dell’etica della funzione giudiziaria e riaffermano come prioritaria esigenza l’adempimento dei doveri di correttezza, trasparenza e decoro nell’esercizio della giurisdizione, in tutti gli organi di governo autonomo e nell’impegno associativo”.
[37] N. Rossi, L’etica professionale dei magistrati: non un’immobile Arcadia, cit., 54.
[38] Cfr. N. Zanon-F. Biondi, Chi abusa dell’autonomia rischia di perderla, in Forum di Quaderni costituzionali, 2019, 2.
[39] M. Ramat, Consiglio superiore della magistratura: false alternative e alternativa reale, in Quale giustizia, 1972, 377.
[40] A. Pizzorusso, Problemi definitori e prospettive di riforma del CSM, cit., 1069.
[41] G. Volpe, Consiglio superiore della magistratura, in Enc.dir., Agg. IV, Milano, 2000, 380.
[42] G. Ferri, Magistratura e potere politico, cit., 36.
[43] S. Panizza, Art. 104, in Commentario alla Costituzione, a cura di R. Bifulco, A. Celotto e M. Olivetti, Torino, 2006, 2014.
[44] G. Silvestri, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale, Torino, 1997, 180.
[45] Cfr., da ultimo, S. Benvenuti, Brevi note sull’affaire CSM: vecchi problemi, ma quali soluzioni?, in osservatorioaic.it, 2020, 10.
[46] Come sottolinea ancora S. Benvenuti, Brevi note sull’affaire CSM, cit., 10, il quale altresì precisa che, tenuto conto del divieto di secondo mandato dei consiglieri, il collegamento tra eletti e correnti rappresenta la sola forma di responsabilizzazione dei primi.
[47] Cfr. V. Savio, Come eleggere il CSM, analisi e proposte: il sorteggio è un rimedio peggiore del male, in Questione giustizia, 2019, 1ss.
[48] Cfr. Relazione conclusiva del Presidente della Commissione Enzo Balboni, in Quad.cost., 1997, 552.
[49] G. Silvestri, Consiglio superiore della magistratura e sistema costituzionale, cit., 27 ss.
Disposizioni “urgenti” in materia di protezione dei dati personali. Brevi note sul trattamento dati per finalità di pubblico interesse.
di Fabio Francario
Sommario : 1.- Il d.l. 8 ottobre 2021 n. 139 e l’urgenza di dettare disposizioni in materia di dati personali; 2.- Il diritto alla protezione dei dati personali non è super diritto fondamentale e può essere sacrificato o compresso dall’azione amministrativa nel rispetto del principio di legalità; 3.- Nel sistema disegnato dal GDPR la disciplina del trattamento dati per finalità di pubblico interesse si differenzia da quella del trattamento dati nei rapporti inter privati ed è irragionevole l’applicazione del principio di minimizzazione allo stesso modo; 4.- Necessità di un chiarimento sostanzialmente (solo) interpretativo; 5. – Le nuove disposizioni in materia di protezione dei dati personali; 6.- Osservazioni conclusive.
1.- Il d.l. 8 ottobre 2021 n. 139 e l’urgenza di dettare disposizioni in materia di dati personali.
Il decreto legge 8 ottobre 2021 n 139, c.d. decreto riaperture, detta disposizioni urgenti per l’accesso alle attività culturali, sportive e ricreative, nonché per l’organizzazione di pubbliche amministrazioni. Fin dalla rubrica precisa però di voler dettare disposizioni urgenti anche “in materia di protezione dei dati personali”.
Viene subito da chiedersi dove sia l’urgenza di dettare disposizioni anche in materia di dati personali, ma la ragione viene ben presto in mente se solo si siano un po’ seguite le vicende che nell’ultimo biennio hanno caratterizzato l’organizzazione e lo svolgimento dell’attività delle amministrazioni chiamate a fronteggiare l’emergenza epidemiologica da Covid – 19, sia attraverso azioni di contrasto e contenimento dell’epidemia, che di sostegno della ripresa delle attività sociali ed economiche.
Nell’articolo già pubblicato su questa Rivista lo scorso mese di settembre[i] si è sottolineato come, in nome dell’esigenza di evitare che l’interesse alla protezione dei dati personali potesse correre non meglio precisati rischi (a causa del trattamento dei dati operato per finalità di pubblico interesse secondo modalità ritenute dal Garante non pienamente conformi ai principi della materia), l’intervento dell’Autorità garante abbia sovente arrestato o ritardato tanto l’erogazione delle misure di sostegno economico, quanto i relativi controlli, quanto ancora l’adozione delle stesse misure di contrasto dell’evento pandemico. Sono state a tal fine esemplificativamente richiamate una serie di vicende nelle quali ciò è sistematicamente avvenuto, mettendo in evidenza come l’interpretazione della normativa vigente propugnata dall’Autorità garante ed affermatasi nella prassi fosse praticamente diventata un fattore di blocco dell’azione amministrativa. Blocco assolutamente irragionevole nel bel mezzo di un’emergenza pandemica e in assoluta controtendenza rispetto allo sforzo complessivamente in atto nel nostro ordinamento negli ultimi anni, volto a recuperare quanto più possibile l’efficienza dell’amministrazione attraverso sempre più diffusi ed incisivi meccanismi di semplificazione dei processi decisionali e di rimozione della paura della firma in capo ai decisori pubblici.
I limiti e la non condivisibilità dell’interpretazione e dell’applicazione date alla normativa sulla protezione dei dati personali sono state più ampiamente illustrate nello scritto già citato, ma torna utile riassumerne sinteticamente le ragioni al fine di comprendere anzitutto il perché dell’urgenza di dettare nuove disposizioni in materia.
2.- Il diritto alla protezione dei dati personali non è super diritto fondamentale e può essere sacrificato o compresso dall’azione amministrativa nel rispetto del principio di legalità.
In linea di principio, la prima cosa da chiarire è che, in un contesto emergenziale come quello dell’evento pandemico, è assolutamente insostenibile ritenere che vi siano diritti o libertà individuali, anche fondamentali, che non possano essere compresse o sacrificate per le superiori esigenze di cura dell’interesse pubblico. Ciò è avvenuto per il diritto alla libertà personale, quando si è imposto il lockdown; per il diritto alla libertà di circolazione, quando si è limitata la circolazione tra comuni o regioni nel territorio nazionale o verso l’estero; quando per la carenza di risorse a disposizione negli ospedali non si è potuto assicurare a tutti il diritto alla vita.
In materia di privacy, si è invece praticamente ritenuto che quello alla protezione dei dati personali dovesse essere considerato come un super diritto fondamentale; che in nessun caso potesse essere sacrificato o compresso da un’azione amministrativa che non avesse un suo specifico fondamento nella normativa sulla protezione dei dati personali e che l’espressa attribuzione del potere di curare un determinato interesse pubblico non fosse pertanto sufficiente[ii] per comprimere o sacrificare, nel rispetto del principio di legalità, tale super diritto. L’Autorità garante ha infatti più volte ritenuto privi di valida base giuridica i trattamenti effettuati senza aver previamente calcolato i possibili rischi per il diritto alla protezione dei dati personali, ovvero senza che le norme rendessero prevedibile in maniera chiara e precisa da parte degli interessati il trattamento operato, ovvero ancora senza che fossero state adottate adeguate misure tecniche e organizzative per attuare in modo efficace la protezione dati; ovvero ha ritenuto i trattamenti sproporzionati rispetto all’interesse pubblico perseguito o privi di valida base giuridica, anche se previsti da una norma avente comunque forza e valore di legge, assumendo che non erano esattamente specificate le finalità del trattamento. In sostanza, ha preteso di applicare la normativa sulla protezione dei dati personali seguendo l’interpretazione più rigida e acritica possibile e senza minimamente tener conto o valorizzare il fatto che il trattamento dati per finalità di cura dell’interesse pubblico, nel sistema disegnato dal Reg. UE 679/2016 (GDPR), ubbidisce a regole e principi profondamente diversi rispetto a quelli che regolano la protezione dei dati personali nei rapporti inter privati. A partire dal fatto che la “esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento” è di per sé considerata base giuridica sufficiente per rendere lecito il trattamento.
3.- Nel sistema disegnato dal GDPR la disciplina del trattamento dati per finalità di pubblico interesse si differenzia da quella del trattamento dati nei rapporti inter privati ed è irragionevole l’applicazione del principio di minimizzazione allo stesso modo.
La seconda cosa da chiarire è proprio l’irragionevolezza, più in generale, di una interpretazione della normativa recata dalla fonte comunitaria che tenda ad appiattirsi acriticamente sulla matrice privatistica che, in assenza del consenso dell’interessato, postula (ovviamente) un generale divieto di trattamento dei dati personali. Nell’impianto del regolamento comunitario, la disciplina del trattamento dati per finalità di pubblico interesse è invece profondamente differenziata rispetto a quella tratteggiata dal medesimo regolamento per la data protection nei rapporti inter privati[iii], e ciò non può rimanere privo di conseguenze al momento di sciogliere le possibili opzioni interpretative.
Premesso che il GDPR non pone un generale divieto di trattamento dei dati personali comuni o ordinari, ma, al contrario, lo prevede unicamente per i dati cd sensibili o particolari espressamente indicati dall’art. 9 (i soli dati che possono rivelare “l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale, … dati genetici, dati biometrici … dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale”), bisogna muovere dalla considerazione che il trattamento è da ritenersi lecito se solo ricorra una delle condizioni indicate dall’art. 6 del Regolamento come possibile base giuridica del trattamento. E l’art. 6 considera a tal fine, accanto alle ipotesi del consenso e dell’adempimento di un obbligo legale e distintamente da queste, quella della “esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento” come una possibile base giuridica del trattamento[iv]. Sul piano sistematico, oltre che letterale, la previsione ha importanza tutt’altro che trascurabile. Essa implica che l’attribuzione da parte di una norma primaria dell’esercizio di un compito d’interesse pubblico o di un pubblico potere è condizione necessaria e sufficiente per consentire all’amministrazione il trattamento dati, senza che sia necessaria un’espressa ulteriore previsione che precisi per quale specifica finalità viene consentito il trattamento. Specificazione che è invece necessaria nel caso la base giuridica del trattamento sia rappresentata dal consenso. Il solo consenso, ove prestato “in bianco”, senza espressa precisazione della finalità per la quale venga prestato, autorizzerebbe qualsivoglia uso o finalità del trattamento con le conseguenti intuibili possibilità di abuso. Ed è per questo che le regole della minimizzazione sono perfettamente congeniali al sistema fondato sulla base giuridica del consenso e vanno rigorosamente applicate in tal caso; laddove s’impone quantomeno una maggiore elasticità nel caso in cui la base giuridica è data dalla “esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento”. Nel primo caso, infatti, impongono al titolare di usarne nei limiti di quanto strettamente necessario per la specifica finalità dichiarata perché questi, diversamente, non sarebbe tenuto a comportarsi in tal modo. Nel secondo caso, invece, il soggetto pubblico agisce istituzionalmente perseguendo finalità predeterminate dalla legge, che sono quindi già perfettamente note all’interessato, e nell’osservanza del principio di proporzionalità, che impone di per sé come regola di condotta quella di arrecare il minor sacrificio possibile al diritto antagonista dell’interesse pubblico nel concreto del caso di specie.
Anche e soprattutto se considerata con riferimento alla fattispecie dell’obbligo legale, quella della “esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento” rende subito evidente la differenza consistente nel fatto che, in un caso, la valutazione del trattamento come necessario e inevitabile è consumata direttamente dalla norma di legge, nell’altro è inevitabilmente rimessa all’amministrazione procedente, alla quale la legge ha attribuito il potere di curare l’interesse pubblico in una data materia o per una determinata funzione. Diversamente interpretata, la disposizione non avrebbe senso, perché la fattispecie sarebbe interamente assorbita nell’ipotesi dell’obbligo legale e non si distinguerebbe più da quest’ultima. Se la norma del GDPR non avesse inteso distinguere le fattispecie, sarebbe stata scritta diversamente, limitandosi a prevedere, molto più semplicemente, che, oltre alle ipotesi di consenso dell’interessato, il trattamento può ritenersi lecito nei soli casi e modi previsti dalla legge; senza distinguere tra le due ipotesi dell’adempimento dell’obbligo legale e del perseguimento di finalità di cura del pubblico interesse.
4.- Necessità di un chiarimento sostanzialmente (solo) interpretativo.
Le osservazioni sopra sinteticamente svolte consentono di concludere che, nel sistema disegnato dal DGPR, la previsione recata dalla lett e) dell’art 6 può e dovrebbe essere ritenuta di per sé sufficiente a fondare la base giuridica del trattamento, almeno dei dati comuni o ordinari, da parte della pubblica amministrazione, senza che si renda necessaria una successiva disposizione che specifichi ulteriormente le finalità e le modalità del trattamento.
Come sopra accennato, la prassi applicativa e l’interpretazione hanno purtroppo fino ad ora seguito la via opposta. L’acritica applicazione del principio di minimizzazione ai soggetti pubblici (come se questi, a differenza dei soggetti privati, non fossero già di per sé tenuti istituzionalmente ad agire per finalità predeterminate e nell’osservanza del principio di proporzionalità) ha avuto la conseguenza di far ritenere necessaria una specifica previsione di legge per ogni singolo trattamento (mezzi e finalità comprese) e di consentire al Garante un sindacato sul merito delle valutazioni discrezionali circa la necessità o meno di un dato intervento pubblico, arrivando così inevitabilmente a produrre quell’effetto di blocco o comunque di pesante condizionamento dell’esercizio della funzione amministrativa.
Questo fattore di blocco o di appesantimento dell’azione amministrativa, derivante, si ripete, da una quantomeno opinabile interpretazione della normativa sulla protezione dei dati personali, in un momento storico come quello attuale, nel quale tutti gli sforzi sono diretti ad assicurare la ripresa post pandemica del Paese, è evidentemente apparso eccessivo ed insostenibile e rimuovibile attraverso un intervento sostanzialmente interpretativo, come del resto espressamente auspicato anche nel precedente già citato scritto.
5. – Le nuove disposizioni in materia di protezione dei dati personali
Le nuove disposizioni in materia di protezione dei dati personali sono recate dall’art 9 del d.l. 139/2021.
Concettualmente, le nuove disposizioni si appuntano su tre distinti oggetti.
Cominciando dalla fine, si osserva subito che il terzo e ultimo comma dell’art. 9 introduce una misura generale di semplificazione che, con specifico riferimento a riforme, misure e progetti del Piano nazionale di ripresa e resilienza, del Piano nazionale per gli investimenti complementari, nonchè del Piano nazionale integrato per l'energia e il clima 2030 prevede che, ove richiesti, i pareri del Garante per la protezione dei dati personali vanno resi nel termine non prorogabile di trenta giorni, decorso il quale può procedersi indipendentemente dall'acquisizione del parere.
Procedendo sempre a ritroso, si osserva poi che le disposizioni sono volte a valorizzare e potenziare il ruolo del Garante nella tutela della privacy più strettamente intesa con specifico riferimento ai rapporti e alle relazioni inter - personali. Viene introdotto nel Codice della privacy l’art 144 - bis che consente all’Autorità d’intervenire con i poteri inibitori, repressivi e sanzionatori di cui all’art 58 del Regolamento al fine di contrastare il fenomeno del cd revenge porn[v].
Si arriva così alle disposizioni che riguardano propriamente il trattamento dei dati personali da parte di un’amministrazione pubblica e soggetti equiparati[vi].
L’art 9, al primo comma, sub lett. b), dispone l’abrogazione dell’art 2 – quinquiesdecies del Codice della privacy e prevede, sub lett. a), l’inserimento del comma 1 bis all’art. 2 – ter del medesimo Codice, con la consequenziale riscrittura in parte qua anche dei commi 2 e 3 sempre dell’art. 2 ter.
L’art 2 – quinquiesdecies era stato introdotto nel testo del Codice dall’art 2, comma 1, lett f) del d lgs 101/2018, che, nel recare le disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del GDPR, aveva contemplato la possibilità che l’Autorità garante potesse adottare d’ufficio provvedimenti di carattere generale per prescrivere misure e accorgimenti a garanzia dell’interessato per i trattamenti svolti per l’esecuzione di un compito d’interesse pubblico ritenuti tali da presentare rischio elevato. Questo incisivo potere di controllo preventivo e regolatorio, esercitato tra gli altri nel caso dell’introduzione dell’obbligo di fatturazione elettronica (cfr. Provvedimento in tema di fatturazione elettronica, 20 dicembre 2018, doc. web n. 9069072) o dell’impiego dell’App Immuni (cfr. Provvedimento di autorizzazione al trattamento dei dati personali effettuato attraverso il Sistema di allerta Covid-19 - App Immuni - 1° giugno 2020, doc. web 9356568), viene adesso soppresso. Le implicazioni sulla ricostruzione anche sistematica dei poteri dell’Autorità garante nei confronti delle altre pubbliche amministrazioni sono di tutta evidenza.
Sub lett. a), il primo comma dell’art. 9 del d.l. 139/2021 prevede poi l’inserimento del comma 1 bis all’art. 2 – ter del vigente Codice della privacy (d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196 e s.m.i.)
L’art 2 – ter apre il Capo II (Principi), del Titolo I (Principi e disposizioni generali) della Parte prima (Disposizioni generali) del Codice e, come da rubrica, è dedicato alla disciplina della “Base giuridica per il trattamento di dati personali effettuato per l'esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all'esercizio di pubblici poteri”. Al primo comma dispone che “La base giuridica prevista dall'articolo 6, paragrafo 3, lettera b), del regolamento è costituita esclusivamente da una norma di legge o, nei casi previsti dalla legge, di regolamento”. Vale quindi a precisare che l’obbligo legale o l’esecuzione di un compito d’interesse pubblico o connesso all’esercizio dei pubblici poteri di cui sia investito il titolare del trattamento (le due ipotesi di cui alla lett. b) del GDPR) rendono lecito il trattamento se hanno (l’obbligo o l’esecuzione del compito / funzione) fondamento in una norma di legge. La disposizione ha consumato in tal modo il rinvio al “diritto dello Stato membro” operato dal citato par 3, lett b) dell’art 6 del GDPR, ma, come detto, ha prestato il fianco a più interpretazioni, palesando l’opportunità di un intervento chiarificatore come quello adesso attuato.
La nuova previsione recata dal comma 1 bis, secondo la quale per le amministrazioni pubbliche e soggetti equiparati il trattamento dei dati personali “è sempre consentito se necessario per l'adempimento di un compito svolto nel pubblico interesse o per l'esercizio di pubblici poteri a essa attribuiti”, all’apparenza potrebbe sembrare del tutto inutile, dal momento la norma, secondo la quale l'adempimento di un compito svolto nel pubblico interesse o per l'esercizio di pubblici poteri a essa attribuiti dalla legge possono rappresentare una valida base giuridica del trattamento, è di per sé già recata dall’art. 6 del GDPR. La chiara valenza interpretativa ben si comprende però alla luce di quanto sopra osservato, in ordine all’interpretazione restrittiva affermatasi proprio con riferimento all’applicazione del citato art. 6.
Anche già solo alla luce della prima parte del disposto del comma 1 bis non può più sussistere dubbio alcuno sul fatto che “l'adempimento di un compito svolto nel pubblico interesse o per l'esercizio di pubblici poteri a essa attribuiti” sia base giuridica sufficiente per il trattamento da parte di una pubblica amministrazione. Già solo il quid novi del testo, rappresentato unicamente dall’avverbio “sempre”, leva ogni possibile dubbio al riguardo: se il trattamento è sempre possibile quando necessario per l'adempimento di un compito svolto nel pubblico interesse o per l'esercizio di pubblici poteri a essa attribuiti, ciò esclude che il trattamento possa avvenire solo nei casi in cui è espressamente previsto da una norma di legge.
Anche l’ulteriore precisazione recata dalla seconda parte del comma 1 bis e le ulteriori conseguenziali disposizioni sul regime della comunicazione e diffusione chiariscono definitivamente che la necessarietà del trattamento, ai fini della cura di un pubblico interesse o dell’esercizio di pubblico funzioni, non deve essere previamente valutata dal legislatore, ma può bene essere valutata dall’amministrazione alla quale la legge abbia attributo quel determinato compito o pubblica funzione.
Il secondo periodo del comma 1 – bis chiarisce espressamente che “la finalità del trattamento, se non espressamente prevista da una norma di legge o, nei casi previsti dalla legge, di regolamento, è indicata dall'amministrazione, dalla società a controllo pubblico in coerenza al compito svolto o al potere esercitato, assicurando adeguata pubblicità all'identità del titolare del trattamento, alle finalità del trattamento e fornendo ogni altra informazione necessaria ad assicurare un trattamento corretto e trasparente con riguardo ai soggetti interessati e ai loro diritti di ottenere conferma e comunicazione di un trattamento di dati personali che li riguardano."
Anche la riscrittura dei commi 2 e 3 dell’art 2 – ter si rivela oltremodo significativa. Il comma 2 disciplina la comunicazione fra titolari dei dati comuni o ordinari e, prima della novella, prevedeva che, per l’esecuzione di un compito d’interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri, la comunicazione fosse possibile solo nei casi espressamente previsti dalla legge e che, in mancanza di una espressa previsione di legge, la comunicazione dovesse essere in ogni caso previamente autorizzata (anche solo in forma tacita) dal Garante. La novella ha completamente eliminato il secondo periodo dell’art 2, che sottoponeva la comunicazione alla previa autorizzazione del Garante, e ha previsto che la comunicazione possa essere effettuata anche se ritenuta necessaria “ai sensi del comma 1 – bis”; ovvero rimettendo la valutazione circa la necessità della comunicazione all’amministrazione medesima. Lo stesso è a dirsi per la diffusione e la comunicazione contemplate al comma 3, per la quali si precisa parimenti che la valutazione di necessità può ben essere effettuata, in assenza di una espressa previsione di legge, “ai sensi del comma 1 – bis”.
6.- Osservazioni conclusive.
Le disposizioni urgenti in materia di protezione dei dati personali dettate dall’art 9 del d.l. 139/2021 chiariscono che il trattamento dei dati personali per finalità di pubblico interesse (necessario per l’adempimento di un compito svolto nel pubblico interesse o per l’esercizio di pubblici poteri) è sempre consentito se ritenuto necessario dall’amministrazione alla quale il compito o potere sia stato attributo dal legislatore, senza che la finalità del trattamento debba essere espressamente specificata dal legislatore medesimo; e sottraggono la comunicazione dei dati (strumentale alla esecuzione di un compito di pubblico interesse o connesso all’esercizio di pubblici poteri) e la valutazione del rischio elevato (di un trattamento necessario per l’esecuzione di un compito d’interesse pubblico) alla potestà regolatoria dell’Autorità Garante.
Tanto l’espressa soppressione dei poteri in precedenza riconosciuti al Garante (per la valutazione dei rischi del trattamento o per la comunicazione e diffusione dei dati strumentali o connesse all’esecuzione di un compito di pubblico interesse o all’esercizio di un funzioni istituzionali), quanto l’inserimento del comma 1 - bis all’art 2 – ter del Codice, valgono indubbiamente a sottrarre il trattamento dati per finalità di pubblico interesse a quello stringente controllo che in precedenza ha consentito al Garante d’ingerirsi in maniera molto penetrante nella valutazione delle stesse finalità concretamente perseguite da una data azione amministrativa, sino al punto di valutarne l’effettiva utilità o l’astratta possibilità.
Sotto questo profilo, le disposizioni hanno una valenza interpretativa particolarmente significativa, che impone una lettura necessariamente più elastica dei principi di minimizzazione allorquando gli stessi non si rivolgono a rapporti tipicamente privatistici, ma devono essere applicati nei confronti del trattamento dati per finalità di pubblico interesse. Non solo la chiara indicazione della finalità di pubblico interesse deve essere ormai ritenuta necessariamente tale da poter di per sé giustificare l’eventuale trattamento anche in assenza di una espressa previsione che specifichi la finalità del trattamento; ma bisogna allo stesso modo tener conto del fatto che anche le valutazioni di pertinenza, adeguatezza e limitazione del trattamento devono per la gran parte ritenersi assorbite nell’applicazione del più generale principio di proporzionalità. In ogni caso, si vuol dire, non è più possibile doppiare le valutazioni discrezionali riservate all’amministrazione procedente per la cura dell’interesse pubblico nel concreto del caso di specie, con valutazioni di merito operate dall’Autorità garante in una maniera che non è consentita nemmeno al giudice amministrativo e che, per gli atti aventi forza e valore di legge, è riservata alla Corte costituzionale.
Queste prime conclusioni possono reputarsi pacifiche per il trattamento dei dati comuni o ordinari.
E’ facile immaginare che il problema rimanga aperto per i dati cd particolari, o perlomeno per alcuni di essi. La soluzione non appare scontata.
Se è vero infatti che le modifiche introdotte non hanno toccato l’art 2 – sexies, che per motivi d’interesse pubblico ammette il trattamento solo nei casi, indicati dal secondo comma dell’articolo medesimo, in cui l’interesse pubblico può essere considerato “rilevante”; è anche vero che il nuovo comma 1 – bis è stato inserito all’interno dell’art 2 – ter, che reca i principi generali della disciplina del trattamento dei dati personali effettuato per l’esecuzione di un compito d’interesse pubblico o connesso all’esercizio dei pubblici poteri, con particolare riferimento alla relativa base giuridica; e che l’art. 2 sexies consente il trattamento di categorie particolari di dati per motivi d’interesse pubblico, indicando al suo secondo comma quali motivi di pubblico interesse possano ritenersi rilevanti a tal fine. Non vi sarebbe quindi ragione per ritenere che, almeno nelle ipotesi contemplate dal citato secondo comma, non debba valere la regola generale dettata per il trattamento dei dati per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri. Lo stesso art. 9 del GDPR, d’altronde, dopo aver posto il divieto di trattamento dei dati personali particolari al primo comma, al secondo comma precisa che il divieto non si applica (e che quindi il trattamento può ritenersi lecito), tra gli altri, nel caso in cui il trattamento “è necessario per motivi d’interesse pubblico rilevante sulla base del diritto dell’Unione o degli Stati membri”.
Sarebbe pertanto opportuno che il permanere di questa ulteriore incertezza interpretativa venisse sciolto con apposita disposizione in sede di conversione del decreto - legge, precisando se e a quali ipotesi, tra quelle contemplate dal secondo comma dell’art 2 – sexies, si applica il comma 1 bis adesso introdotto dal d.l. 139/2021.
[i] F. Francario, Protezione dati personali e pubblica amministrazione in Giustizia Insieme, 1 settembre 2021; v. anche Protezione dei dati personali e PA. Intervista al Prof. Avv. Fabio Francario, in Diritto Mercato Tecnologia, 3 settembre 2021.
[ii] Ciò implica innanzi tutto che, nel sistema disegnato dal DPGR, porta a leggere la norma primaria che attribuisce il potere di trattare i dati personali per finalità di pubblico interesse, recata dall’art. 6, primo comma lett. e) del Reg. UE 2016/679, venga letta come mera norma di rinvio a ulteriori disposizioni che precisino la specifica finalità che il trattamento deve perseguire. A seguire il medesimo canone interpretativo, si dovrebbe allora arrivare ad analoga conclusione anche nel caso in cui il GDPR ritiene il trattamento lecito quando “è necessario all’esecuzione di un contratto di cui l’interessato è parte”; nel senso che, così come non si ritiene di per sé sufficiente l’attribuzione legislativa alla pubblica amministrazione del potere di curare un dato pubblico interesse, non potrebbe ritenersi sufficiente nemmeno il solo fatto dell’esistenza del contratto tra soggetti privati, imponendosi anche in tal caso, come necessaria, l’espressa previsione della possibilità di trattamento per quella determinata finalità in seno alla regolamentazione contrattuale. Il sistema disegnato dal GDPR contempla infatti parimenti, come possibili basi giuridiche del trattamento, tanto l’ipotesi in cui esso “è necessario all’esecuzione di un contratto di cui l’interessato è parte”, quanto quella in cui in cui “il trattamento è necessario per l’esecuzione di un compito interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento”. In entrambi i casi bisognerebbe pertanto chiarire se la norma abbia o meno carattere immediatamente precettivo. Applicata nei confronti del solo trattamento in ambito pubblico, tale lettura produce peraltro il paradosso di raddoppiare l’operatività del principio di legalità nei confronti della pubblica amministrazione. Il che sarebbe un po’ come dire che l’attribuzione del potere di espropriazione per finalità di pubblica utilità non consentirebbe all’amministrazione di valutare essa la sussistenza della pubblica utilità, ma richiederebbe una ulteriore norma che consenta di sacrificare il diritto di proprietà per la finalità specificata da quest’ultima. Ovvero, per fare un altro esempio, che l’attribuzione del potere di regolare gli usi delle strade non consentirebbe all’Amministrazione di provvedere con atti amministrativi alla collocazione di divieti di transito, di sosta o di accesso se non vi sia una ulteriore norma che predetermini le specifiche finalità per le quali può essere consentita la limitazione della libertà di circolazione.
[iii] Esemplare sotto questo profilo è la disciplina di un istituto assolutamente centrale nel sistema disegnato per la tutela del diritto al trattamento dei dati personali, qual è il diritto all’oblio. L’art 17 del GDPR si preoccupa di precisare che il diritto dell’interessato, di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali quando questi “non sono più necessari rispetto alle finalità per le quali sono stati raccolti o trattati”, non sussiste nei casi in cui il trattamento è necessario “per l’esecuzione di un compito svolto nel pubblico interesse oppure nell’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento”. Nel già sopra citato scritto Protezione dati personali e pubblica amministrazione si è precisato di ritenere comunque inaccettabili, sul piano valoriale più generalmente considerato, le interpretazioni che avrebbero l’effetto oggettivo di ridurre l’evoluzione della disciplina in tema di privacy ad una patrimonializzazione del diritto alla riservatezza, finalizzata a consentirne l’uso da parte dei big data ed a conservare e riposizionare il nucleo duro della riservatezza solo laddove ve ne sarebbe minor ragione, e cioè nell’ambito pubblico, nel quale la regola è quella della trasparenza e della conoscibilità.
[iv] Così come lo è, soprattutto rispetto a quella del consenso, come si è già ricordato sub nota 2, l’ipotesi del trattamento “necessario all’esecuzione di un contratto di cui l’interessato è parte”.
[v] "Art. 144-bis (Revenge porn). - 1. Chiunque, compresi i minori ultraquattordicenni, abbia fondato motivo di ritenere che immagini o video a contenuto sessualmente esplicito che lo riguardano, destinati a rimanere privati, possano essere oggetto di invio, consegna, cessione, pubblicazione o diffusione senza il suo consenso in violazione dell'art. 612-ter del codice penale, può rivolgersi, mediante segnalazione o reclamo, al Garante, il quale, entro quarantotto ore dal ricevimento della richiesta, provvede ai sensi dell'articolo 58 del regolamento (UE) 2016/679 e degli articoli 143 e 144.
2. Quando le immagini o i video riguardano minori, la richiesta al Garante può essere effettuata anche dai genitori o dagli esercenti la responsabilità genitoriale o la tutela.
3. Per le finalità di cui al comma 1, l'invio al Garante di immagini o video a contenuto sessualmente esplicito riguardanti soggetti terzi, effettuato dall'interessato, non integra il reato di cui all'articolo 612-ter del codice penale."
[vi] Come meglio precisa il comma 1 – bis che viene inserito nell’art 2 – ter del d. lgs. 30 giugno 2003 n. 196 (Codice della protezione dei dati personali), le previsioni concernono “Il trattamento dei dati personali da parte di un'amministrazione pubblica di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ivi comprese le Autorità indipendenti e le amministrazioni inserite nell'elenco di cui all'articolo 1, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, nonchè da parte di una società a controllo pubblico statale di cui all'articolo 16 del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175,con esclusione per le società pubbliche dei trattamenti correlati ad attività svolte in regime di libero mercato”.
La riemissione del provvedimento amministrativo
di Carlo Emanuele Gallo
Sommario: 1. La ragione della disposizione. – 2. Le criticità del testo normativo. – 3. Proposte per una corretta interpretazione.
1. La ragione della disposizione.
L’individuazione degli effetti della sentenza di annullamento del giudice amministrativo in relazione, da un lato, alla pretesa vantata dal ricorrente risultato vittorioso e, dall’altro, alle esigenze di continuità dell’azione amministrativa, anche tenuto conto degli interessi dei controinteressati, ha provocato da sempre riflessioni in letteratura ed interventi del giudice amministrativo. Rispondono a questa esigenza sia i tentativi di delimitare gli effetti temporali delle pronunzie di annullamento sia le previsioni normative che consentono di provvedere, prima dell’annullamento, vuoi alla convalida dell’atto annullabile vuoi alla individuazione di ostacoli sostanziali alla pronunzia di annullamento.
L’orientamento più risalente anche in giurisprudenza era nel senso che l’annullamento di un provvedimento per vizi del procedimento doveva comportare la ripresa del procedimento a partire dal primo atto annullato o se si vuole dall’ultimo atto ritenuto legittimo; l’annullamento aveva così un effetto da macchina del tempo, cioè un effetto retroattivo anche all’interno del procedimento, che dev’essere necessariamente ripreso dal primo atto annullato o dall’ultimo atto valido e ricondotto innanzi nel rispetto delle regole che ne garantiscono la legittimità. Corollario di questa imposizione era che tutto quanto non era pregiudicato dall’annullamento giurisdizionale doveva essere mantenuto integro, salva la possibilità di intervento in via di autotutela ma, ovviamente, sulla base dei presupposti specifici di esercizio di questo potere. Questa impostazione è stata nel tempo superata dalla giurisprudenza a fronte di specifiche esigenze (rimanendo peraltro inalterata nella gran generalità dei casi)[1]: e così, per esempio, in materia di procedimenti per l’aggiudicazione dei contratti della pubblica amministrazione si è detto, ma con orientamento non consolidato, che, una volta conosciute le offerte da parte della commissione aggiudicatrice, l’annullamento dell’aggiudicazione da parte del giudice amministrativo oppure in autotutela non consentiva un rinnovato esame delle medesime da parte della stessa commissione, essendo venuta meno ormai la segretezza delle offerte. Occorreva perciò procedere con una commissione rinnovata[2]. Più di recente, con riferimento alle procedure concorsuali di assunzione, e segnatamente con riferimento alle procedure relative all’assunzione di professori universitari o alla acquisizione dell’abilitazione scientifica nazionale, la giurisprudenza ha spesso affermato che l’illegittimità nel contenuto del giudizio della commissione esaminatrice comporta la necessità che la nuova valutazione del candidato sia effettuata da un’altra commissione per garantire l’imparzialità di valutazione non più assicurata dal fatto che la commissione aveva già espresso in precedenza il suo giudizio, se non addirittura la rinnovazione della procedura[3].
Queste deviazioni dall’impostazione più classica del procedimento, inteso come sequenza di atti e operazioni articolata in fasi logicamente preordinate e l’una all’altra susseguenti, che non poteva consentire degli effetti rinnovatori dell’annullamento che non tenessero conto di questa sequenza, possono essere giustificate sulla base della considerazione che il procedimento è anche il luogo nel quale si contemperano gli interessi, contemperamento rispetto al quale è servente la sequenza articolata in fasi, cosicché se il contemperamento è meglio raggiungibile attraverso un’articolazione rinnovata anche di fasi diverse e con cadenze temporali nuove tutto ciò può essere accettato purché sia espressione di un prudente apprezzamento discrezionale. In altre parole, anche la sequenza procedimentale risponde a quella valutazione contemperata delle varie esigenze in gioco che è tipica dell’attività dell’amministrazione allorché non debba semplicemente porre in essere degli adempimenti tassativamente prescritti dal legislatore in modo vincolato.
Si inserisce in quest’ottica l’art. 21 decies della legge 7 agosto 1990, n. 241, introdotto dall’art. 12, primo comma, lett. 1 bis del decreto legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito in legge 11 settembre 2020, n. 120 (la disposizione è stata inserita in sede di conversione, durante l’esame in Senato), perché consente all’amministrazione, letteralmente dopo l’annullamento giurisdizionale passato in giudicato di un suo provvedimento, di intervenire adottando nuovamente gli atti dai quali discende l’illegittimità del provvedimento finale, con la salvezza di tutto quanto altrimenti effettuato nel procedimento e cioè attraverso un intervento che, può dirsi, sostituisce soltanto le tesserine del mosaico procedimentale senza richiedere una rinnovazione integrale del percorso.
Il fatto è, come si vedrà, però, che, al solito, la disposizione non è così chiara e perciò insorgono problemi interpretativi che richiedono un’attenta considerazione.
2. Le criticità del testo normativo.
Come si verifica assai spesso soprattutto nella normazione più recente, le criticità del testo normativo sono numerose.
La prima è la stessa terminologia utilizzata, poiché l’espressione “riemissione” riferita a un provvedimento non corrisponde alla terminologia classica e più rigorosa, che allorché fa riferimento a provvedimenti monocratici utilizza il termine emanazione (consacrato anche a livello costituzionale dall’art. 87 Cost. con riferimento al Presidente della Repubblica) e per quanto concerne i provvedimenti degli organi collegiali utilizza il termine approvazione o deliberazione[4]. Emissione è una espressione atecnica che probabilmente è stata utilizzata dal legislatore del 2020, a voler pensare bene, per ricomprendere nella medesima appunto tutti i tipi di provvedimenti, senza impegnarsi in distinzioni terminologiche. In quest’ottica la scelta può essere accettata.
La disposizione, poi, è formulata in termini così articolati e complessi da renderne difficile la stessa lettura: si tratta, infatti, di una possibilità che letteralmente è ammessa soltanto nel caso di annullamento di un provvedimento finale in virtù di una sentenza passata in giudicato, in conseguenza di vizi inerenti ad uno a più atti emessi nel corso di un procedimento e soltanto nel caso di un procedimento di autorizzazione o di valutazione di impatto ambientale. Nella determinazione dei presupposti e dei limiti applicativi della riemissione vi è l’eco delle discussioni che sono state effettuate in passato in letteratura e in giurisprudenza in ordine ai limiti della convalida e alla possibilità di rinnovazione del procedimento con riferimento alla tipologia dei provvedimenti[5]. Si è detto infatti da taluno che la convalida non era possibile nei confronti di provvedimenti già annullati[6] ma soltanto di provvedimenti ancora esistenti ed annullabili e che la convalida non era possibile con riferimento a tutti i vizi ma soltanto ai vizi endoprocedimentali[7]; si è detto anche che l’esercizio del potere di rinnovazione è conseguente alla necessità di riconoscere la pretesa avanzata dal soggetto ricorrente, cosicché è possibile con riferimento a quei provvedimenti che siano adottati ad istanza di parte.
In realtà, così come è scritta, la nuova disposizione sembra creare molti problemi forse più di quanti non ne risolva: sembra infatti da un lato ammettere la convalida anche con riferimento ai provvedimenti annullati, ma dall’altro limitarla a delle ipotesi applicative molto contenute, e cioè al fatto che si tratti di provvedimenti di autorizzazione o di valutazione di impatto ambientale e non di altri provvedimenti anche ampliativi e per di più soltanto con riferimento a vizi esclusivamente procedimentali.
La scelta effettuata da un lato costituisce pertanto una specificazione di altre disposizioni inserite nella legge n. 241 del 1990 che non sono richiamate nel nuovo art. 21 decies, con inevitabili problemi di coordinamento[8], e dall’altro introduce delle distinzioni che sono forse giustificabili ma che comunque costituiscono possibili ipotesi di disparità di trattamento o di illogicità della disposizione.
Se l’esigenza è quella di salvaguardare l’attività amministrativa già svolta e di perseguire il pubblico interesse nel rispetto delle esigenze dei cittadini coinvolti è preferibile effettuare delle scelte di sistema chiare, che abbiano la generalità massima predicabile.
Alle medesime critiche soggiace il modulo procedimentale previsto dalla disposizione in esame, che ha una tempistica generale riconducibile all’art. 2 della legge n. 241 del 1990 laddove richiama il termine di trenta giorni per l’emanazione del provvedimento finale ma ha delle tempistiche diverse laddove individua il termine assegnato all’amministrazione competente per l’adozione del provvedimento finale, che è stabilito in quindici giorni, termine che di per sé non trova riferimento nella legge n. 241 del 1990 se non in modo indiretto in relazione all’intervento sostitutivo disciplinato all’art. 2, comma 9 ter, nel testo inserito dal decreto legge 9 febbraio 2012, n. 5, sul punto non modificato dal d.l. 31 maggio 2021, n. 77, convertito in legge 29 luglio 2021, n. 108.
L’introduzione di termini sempre nuovi e diversi non può che aumentare la complessità del sistema, che negli ultimi tempi sta crescendo a dismisura come è già stato sottolineato con riferimento al settore processuale[9].
3. Proposte per una corretta interpretazione.
Riscontrata la finalità della disposizione introdotta all’art. 21 decies, le regole interpretative da seguire per risolvere le difficoltà e le antinomie risultano evidenti. Dovendosi far prevalere la ragion d’essere della disposizione rispetto alle espressioni letterali, ne discende innanzitutto che non vi è ragione di limitare la possibilità di riemissione del provvedimento soltanto all’ipotesi di annullamento in sede giurisdizionale con pronunzia passata in giudicato; la possibilità di riemissione del provvedimento, infatti, è una possibilità che sussiste anche dopo una pronunzia di annullamento non passata in giudicato ed anche dopo una pronunzia di autotutela della stessa pubblica amministrazione o anche nell’ipotesi in cui l’amministrazione intenda adottare un provvedimento di convalida prima dell’annullamento del provvedimento.
Per quanto concerne la sentenza non passata in giudicato, la conclusione raggiunta è giustificata dalla considerazione che la sentenza non passata in giudicato, a’ sensi del Codice del processo amministrativo, ha comunque una immediata efficacia caducante, cosicché la medesima pone all’amministrazione il problema di un provvedimento che non può più essere eseguito e che può richiedere la necessità di un immediato intervento per ovviare alla stasi dell’attività amministrativa ovvero per ovviare alla interruzione dell’attività del privato destinatario del provvedimento per il medesimo favorevole. La pronunzia del giudice, ancorché non passata in giudicato, legittima un intervento dell’amministrazione, che può far venire meno l’interesse a ricorrere o la materia del contendere, e che dev’essere ovviamente giustificato sulla base delle esigenze che l’amministrazione ritiene di esporre per legittimare il suo intervento. Attendere il passaggio in giudicato della sentenza può avere un senso soltanto se l’amministrazione ritiene di dovere impugnare la sentenza sfavorevole o se la situazione è talmente incerta che l’adeguamento alla pronunzia del giudice non ancora incontestabile può apparire imprudente o inopportuno.
La riemissione del provvedimento è da ritenere possibile anche nel caso in cui il provvedimento originario sia stato eliminato in sede di autotutela, poiché il provvedimento di autotutela, ferma restando la provenienza dell’autorità amministrativa e la differenza di presupposti, ha lo stesso effetto sul provvedimento eliminato della sentenza del giudice amministrativo: anche in questo caso, l’amministrazione dovrà valutare l’opportunità di intervenire salvaguardando il provvedimento finale nonostante i vizi riscontrati. Va considerato peraltro che l’intervento in sede di riemissione del provvedimento, che è sostanzialmente un intervento di convalida, sia pure a posteriori rispetto all’annullamento, è legittimato dalla idoneità del provvedimento finale a soddisfare un pubblico interesse, idoneità che di per sé non è eliminata dal fatto che si siano verificati dei vizi nel corso del procedimento e che detti vizi siano stati considerati esistenti e sufficienti per l’annullamento. Occorrerà infatti considerare se rimangano o meno corrette le valutazioni discrezionali che l’amministrazione ha compiuto allorché ha scelto quel tipo di soluzione per il problema amministrativo che aveva di fronte.
Non vi è poi ragione per escludere che questa speciale possibilità di convalida possa essere adottata anche con riferimento a provvedimenti non ancora annullati, poiché quello che può essere effettuato una volta che l’annullamento sia stato pronunciato a maggior ragione può essere effettuato allorché l’annullamento non vi è ancora, in quanto in questo modo si evita l’effetto caducatorio, che comporta l’interruzione della esecuzione del provvedimento e perciò dell’attività pubblica e privata connessa, e si raggiunge la soluzione del problema di legittimità. Le valutazioni che l’amministrazione deve compiere in questa fattispecie non sono diverse da quelle occorrenti nelle altre in punto pubblico interesse mentre ovviamente lo sono per quanto concerne l’accertamento dell’esistenza della illegittimità, che l’amministrazione deve effettuare autonomamente, come in tutte le ipotesi di autotutela, non potendo fondarsi su una pronunzia del giudice o su un precedente provvedimento di annullamento d’ufficio.
Non è ragionevole ritenere che un potere di questo tipo possa essere esercitato soltanto con riferimento ai provvedimenti di autorizzazione o di valutazione di impatto ambientale. Va premesso che non vi è una particolare somiglianza tra i provvedimenti di autorizzazione e le valutazioni di impatto ambientale: i provvedimenti di autorizzazione sono normalmente espressione di una vera e propria discrezionalità amministrativa, ancorché in parte molto di frequente predeterminata da atti di programmazione o di pianificazione mentre la valutazione di impatto ambientale è normalmente espressione di discrezionalità tecnica, cioè connotata da considerazioni rispetto alle quali le scelte discrezionali in senso proprio sono assenti. Volendo ricondurre la norma alla ragionevolezza, dovrebbe dirsi perciò che la medesima è applicabile a tutte le ipotesi in cui il potere esercitato è un potere amministrativo discrezionale o un potere connotato da discrezionalità tecnica. Se è così, però, evidentemente occorre far riferimento a categorie di carattere generale diverse, per evitare che vi possano essere disparità di trattamento ingiustificate: non si comprende perché sia soltanto l’ambito della discrezionalità a legittimare o meno la riemissione del provvedimento, quasi che vi possa essere una differenza per esempio nella riadozione di una concessione rispetto ad un’autorizzazione o nella riadozione di un provvedimento di valutazione di impatto ambientale rispetto a un provvedimento vincolato; non si comprende perché questa possibilità sussista soltanto con riferimento a determinati provvedimenti ampliativi della sfera del privato e non a tutti o perché non valga anche per tutti i tipi di provvedimento, dal momento che le regole dell’azione amministrativa sono uniformi.
Esigenze di parità di trattamento e di armonia di sistema impongono a questo punto di dire che con riferimento ad ogni tipo di provvedimento adottato al termine di un procedimento può essere utilizzato l’istituto della riemissione, anche perché nella legge n. 241 del 1990 dovrebbero essere disciplinati istituti di carattere generale. Del resto, in giurisprudenza, una conclusione molto simile è stata raggiunta con riferimento all’art. 21 octies e dai poteri amministrativi ivi previsti, oltre che ai poteri attribuiti al giudice amministrativo, per evitare che disposizioni specifiche ed incisive come quelle ivi richiamate possano essere riferite soltanto all’uno o all’altro tipo di provvedimento ingenerando incertezze e disparità non giustificabili.
Il problema che ancora si pone è che cosa significhi l’espressione contenuta nell’art. 21 decies circa i “vizi inerenti ad atti endoprocedimentali”: una lettura restrittiva porterebbe a ritenere che si debba trattare soltanto di vizi di violazione di legge, e cioè di quei vizi di carattere giuridico formale che possono colpire gli atti endoprocedimentali. Una conclusione di questo genere però sarebbe scarsamente giustificabile tenuto conto delle ipotesi alle quali letteralmente l’art. 21 decies fa riferimento, e cioè sia alle autorizzazioni che soprattutto alle valutazioni di impatto ambientale. Con riferimento alle prime, infatti, i vizi che possono verificarsi sono molto spesso più vizi di sostanza, e cioè di interpretazione delle norme legislative, regolamentari o di pianificazioni che vizi meramente di procedura e rispetto alle seconde il riferimento più evidente è a vizi relativi all’intervento di organi tecnici e consultivi o ad accertamenti tecnici, piuttosto che a semplici problemi di conduzione formale del procedimento. Considerazioni in termini di discrezionalità amministrativa o di discrezionalità tecnica sono quelle che di solito conducono alla eliminazione, mediante annullamento, di autorizzazioni o di valutazioni di impatto ambientale: se è possibile una riemissione del provvedimento in questi casi ciò significa che il riferimento non è a vizi meramente giuridico formali ma viceversa a vizi sostanziali. Applicando questo criterio interpretativo ne discende che in generale è ritenuta possibile dal legislatore che ha dettato l’art. 21 decies la riemanazione del provvedimento con l’eliminazione dei vizi anche sostanziali che si sono verificati nel corso del procedimento, sempre che ovviamente detti vizi siano eliminabili a posteriori.
Vi saranno senz’altro dei vizi sostanziali ineliminabili, mentre ve ne saranno degli altri che possono essere superati. Fra i primi, evidentemente, vi sarà il travisamento dei fatti, mentre invece tra i secondi potrebbe esservi l’erronea valutazione dei presupposti se si tratta soltanto di un’erronea valutazione di presupposti incontestabili perché correttamente individuati[10].
La disposizione così interpretata è per l’appunto una disposizione di carattere generale[11], che consente all’amministrazione di porre rimedio a ogni tipo di vizio nel quale sia incorsa durante il procedimento, tanto prima che dopo la sentenza di annullamento del giudice, con l’effetto vantaggioso di evitare di dovere ripercorrere tutto un procedimento anche in quelle tappe che non hanno creato alcun problema né sono affette da alcun vizio e che sono perciò scontate, e la ripetizione delle quali si rivela soltanto una ingiustificata perdita di tempo. L’amministrazione dovrà rinnovare, può dirsi in modo chirurgico, soltanto quegli atti o quelle operazioni nelle quali è incorsa in un vizio. Questi atti rinnovati si inseriranno nel procedimento già celebrato, colmandone le deficienze e le lacune o sanandone in senso proprio i vizi cioè correggendo gli aspetti giuridicamente scorretti, con effetto retroattivo[12]. Il vantaggio dal punto di vista del pubblico interesse è evidente senza che vi sia un danno per cittadino ricorrente vittorioso o per il cittadino beneficiario in senso proprio o anche per i controinteressati, poiché tutti costoro hanno interesse ad un corretto esercizio dell’attività amministrativa non ad un annullamento purchessia in relazione alle conseguenze di fatto o impreviste o eventuali dell’annullamento stesso.
Le considerazioni che si sono svolte conducono a valutare se fra gli atti che possano essere acquisiti successivamente non vi possano essere anche i pareri: come è noto, con riferimento ai pareri l’orientamento della giurisprudenza amministrativa è sempre stato molto restrittivo e anche l’Adunanza plenaria ha ribadito che addirittura l’assenza di un parere obbligatorio significa non esercizio del potere[13]. Secondo quest’orientamento, perciò, l’art. 21 decies non sarebbe utilizzabile nel caso in cui il parere non sia stato acquisito. Va osservato, però che, ferme le criticità della pronunzia dell’Adunanza plenaria con riferimento al problema dell’assorbimento dei motivi in relazione alla mancata acquisizione di un parere, la dizione ampia dell’art. 21 decies non consente di escludere la possibilità di acquisire un parere ora per allora: il parere infatti è un atto procedimentale[14]. In questo caso, però, è ancor più evidente che l’intervento ora per allora del parere che dovrà essere richiesto e non è stato richiesto non è detto affatto che possa condurre alla convalida dell’atto originariamente illegittimo e cioè alla sua riemissione. Se il parere è sfavorevole, non è possibile il suo inserimento nel procedimento perché occorrerà a questo punto che il procedimento successivo al parere venga celebrato tenendo conto del medesimo, il che può comportare un esito finale diverso e che comunque comporta l’adozione di un atto che non è identico all’atto originariamente adottato. Ma si tratta di una conseguenza che può verificarsi con riferimento a tutti i casi in cui viene ipotizzata la riemissione: non è mai detto che, individuati dei vizi procedimentali, il provvedimento finale possa essere lo stesso che è stato adottato in presenza dei vizi stessi. La possibilità di riemanazione non significa inevitabile riemanazione dello stesso atto.
Il vantaggio che ottiene l’attività amministrativa in presenza di questa norma è quello di evitare un rifacimento di fasi procedimentali in termini di atti e operazioni allorché questo rifacimento appare inutile; nel caso in cui invece il rifacimento sia utile il rifacimento dev’essere inevitabilmente effettuato.
Le opinioni qui esposte sono state parzialmente accolte da una recente sentenza del T.A.R. Campania, Napoli, Sez. III, 26 maggio 2021, n. 3496, che ha affermato che la riemissione del provvedimento prevista dall’art. 21 decies, pur letteralmente riferita soltanto all’ipotesi di annullamento dell’atto autorizzatorio in sede giurisdizionale, “può ritenersi espressione di un principio semplificatorio” che consente l’applicazione della disposizione in vista dell’obiettivo della massima efficienza anche nel caso in cui vi sia stato un intervento in sede di autotutela amministrativa, e cioè ogni qualvolta siano stati caducati degli atti endoprocedimentali, con il risultato di ottenere “la salvezza dell’attività antecedente non viziata e la prosecuzione dell’iter teso all’emanazione del provvedimento finale, mediante il rifacimento del solo tratto di azione amministrativa viziato”.
La pronunzia del T.A.R. Campania è stata impugnata avanti il Consiglio di Stato, ma il Consiglio di Stato con l’ordinanza della IV Sezione 16 luglio 2021, n. 3919, pur pronunziandosi in sede cautelare, ha affermato che l’appello, che contrastava questa posizione del T.A.R. Campania, “non appare assistito da sufficiente fumus boni juris in relazione alla puntuale motivazione della sentenza gravata”.
Il che significa che il Consiglio di Stato condivide l’impostazione per dir così estensiva sostenuta dal T.A.R. Campania e che nelle considerazioni sopra svolte l’innovazione legislativa è stata portata ad un corretto completamento argomentativo e funzionale, che ne dimostra l’utilità.
[1] Che la rinnovazione debba interessare soltanto le fasi viziate è ribadito da T.A.R. Veneto, Sez. I, 1° aprile 2019, n. 389, che richiama Cons. Stato, Sez. IV, 17 febbraio 2014, n. 748 ed altre conformi.
[2] Come è noto, quest’orientamento ha dato luogo ad una reazione del legislatore, prima nell’art. 84 del Codice dei Contratti del 2006, poi nell’art. 77 del Codice dei Contratti del 2016, che hanno imposto la riconvocazione della medesima commissione, ai quali si è adeguata l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato nella sentenza 26 luglio 2012, n. 30: in tema, R. COLAGRANDE – C. FANASCA, Commissioni di gara, in Trattato sui contratti pubblici, diretto da M. A. SANDULLI e R. DE NICTOLIS, vol. III, Milano, Giuffrè, 2019, p. 418 ss.. Ma rimangono contrasti in giurisprudenza: cfr. T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. I, 7 giugno 2021, n. 1861, Cons. Stato, Sez. III, 7 aprile 2021, n. 2819.
[3] Per tutte, T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 5 aprile 2019, n. 4500; 5 ottobre 2017, n. 10064.
[4] Di riemissione si parla a proposito dei titoli di spesa: C. Conti, Sez. Controllo, 5 luglio 1996, n. 97.
[5] Un’accurata trattazione è svolta da A. G. PIETROSANTI, La convalida del provvedimento amministrativo, in Principi e regole dell’azione amministrativa, a cura di M. A. SANDULLI, Milano, Giuffè, 2020, p. 501 ss..
[6] T.A.R. Veneto, Sez. II, 24 luglio 2017, n. 735; F. COSTANTINO, Commento all’art. 21 nonies, in L’azione amministrativa, a cura di A. ROMANO, Torino, Giappichelli, 2016, p. 899 e 905.
[7] C. DEODATO, Commento all’art. 21 nonies, in Codice dell’azione amministrativa, a cura di M. A. SNDULLI, Milano, Giuffrè, 2017, p. 1200 ss.
[8] Si consideri, ad esempio, che R. VILLATA – M. RAMAJOLI, Il provvedimento amministrativo, Torino, Giappichelli, 2006, p. 618 – 619 segnalano che dopo l’art. 21 octies la convalida per gli atti vincolati non è più necessaria.
[9] In questi termini, con riferimento al nuovo art. 72 bis del Codice del processo amministrativo, R. DE NICTOLIS, Tra (dis)proporzionalità e (in)efficienza, un nuovo giudizio immediato (art. 72 bis c.p.a.) per la giustizia amministrativa, in Giustizia insieme, 23 settembre 2021.
[10] Questo è l’approdo della giurisprudenza in tema di convalida, essendo ormai ammessa anche la convalida per difetto di motivazione purché gli elementi della medesima emergano dal procedimento, trattandosi perciò di un vizio del discorso giustificativo e non della funzione: Cons. Stato, Sez. VI, 27 aprile 2021, n. 3385; Sez. VI, 9 marzo 2021, n. 2001; T.A.R. Piemonte, Sez. II, 4 febbraio 2021, n. 122; Cons. Stato, Sez. III, 22 ottobre 2020, n. 6377.
[11] Come la convalida è un istituto di carattere generale: Cons. Stato, Sez. VI, 27 aprile 2021, n. 3385.
[12] Così, F. Costantino, op. cit., p. 902 e, in giurisprudenza, T.A.R. Campania, Napoli, Sez. V, 1° settembre 2020, n. 3716.
[13] Il riferimento è alla sentenza 22 aprile 2015, n. 5.
[14] Ammettono l’acquisizione in sanatoria di un parere sia pure in ipotesi specifiche R. VILLATA – M. RAMAJOLI, op. cit., p. 618 – 619.
La partecipazione all’associazione mafiosa nell’impostazione (problematica) delle Sezioni Unite
Commento a Sezioni Unite penali, 27 maggio 2021 (dep. 11 ottobre 2021), n. 36958, ric. Modaffari, rel. Pellegrino
di Andrea Apollonio
La pronuncia in commento, muovendo da condivisibili premesse (relative all’an dell’associazione mafiosa) e con l’apprezzabile intento di rafforzare il corollario di garanzie nella configurazione del reato di cui all’art. 416-bis, giunge a soluzioni non appaganti perché sembrano andare oltre - arricchendolo tipicamente - il dato di legge, che incrimina la mera partecipazione all’associazione mafiosa (concretamente percepibile in quanto tale): e ciò in ragione della natura di un fenomeno totalitario, che pone in serio e costante pericolo, minandole, le basi stesse delle istituzioni democratiche e della civile convivenza.
Sommario: 1. Le ragioni di una pronuncia “storica” - 2. Le modalità di estrinsecazione della mafiosità (l’associazione) - 3. L’adesione al sodalizio (il partecipe) - 4. La contraddizione in cui sembra incorrere la Corte - 5. Fenomeno mafioso e contrasto giudiziario.
1. Le ragioni di una pronuncia "storica"
La Cassazione torna a pronunciarsi sui profili applicativi del reato di associazione mafiosa e questa volta lo fa - per la prima volta e a distanza di quarant’anni dall’introduzione nel nostro ordinamento dell’art. 416-bis c.p. - a Sezioni Unite[1]. D’altronde la tematica mafiosa è divenuta, in specie negli ultimi anni, d’estrema complessità e di non agevole inquadramento pretorio e concettuale[2], atteso il fiorire, in specie presso la giurisprudenza di legittimità, di molteplici e del tutto inediti tipi associativo-mafiosi: mafie straniere impiantate in Italia, mafie del Sud che esportano proprie cellule operative al Nord (mafie "dislocate"), mafie politico-amministrative, mafie "silenti", mafie "inattive", e così via[3].
L’esigenza di pervenire al vaglio dell’alto consesso nomofilattico emergeva da un contrasto giurisprudenziale ormai sistematicamente insostenibile, che andava ben oltre la specifica questione rimessa relativa all’adesione alla struttura mafiosa: su un più generale piano afferente alla natura dell’associazione, tale contrasto vedeva fronteggiarsi - più che due diversi orientamenti esegetici - due diverse concezioni del reato associativo: l’una tesi, che propugna la natura di pericolo astratto del delitto, definendo l’art. 416-bis come una species di un più ampio genus individuato nell’art. 416, in cui elemento peculiare è il metodo mafioso che non necessariamente deve estrinsecarsi (vertendo quindi, la prova, sull’esistenza stessa dell’ente collettivo)[4], con estensione applicativa della fattispecie in virtù degli interessi di rango primario protetti dalla norma (compendiabili nella tenuta dell’ordinamento democratico)[5]; l’altra, che richiede la manifesta concretezza di tale pericolo, fin quasi a definire la norma una fattispecie di danno: un danno che viene individuato proprio nell’utilizzo del metodo mafioso, che deve essere interpretato nella sua dimensione oggettiva, ossia deve essere proiettato fuori la cosca, riconoscibile all’esterno e suscettibile in quanto tale di una concreta e fattuale verifica[6].
«Da qui - evidenzia la Corte - la ricerca di un punto di equilibrio tra l’esigenza di non lasciare impunite forme di reità di particolare allarme sociale e il rispetto dei principi costituzionali in materia penale»: e tale ricerca di soluzioni appaganti e sistematicamente sostenibili non può che riguardare, tenendosi tutto, i due inscindibili aspetti dell’esistenza, rilevabile e punibile, dell’associazione come della partecipazione ad essa (su cui specificamente si sollecitava la risoluzione dei contrasti interpretativi).
Con un tale sfondo, convulso e dibattuto, le Sezioni Unite venivano quindi chiamate a pronunciarsi sul seguente quesito di diritto: "Se la mera affiliazione ad un’associazione a delinquere di stampo mafioso c.d. storica, nella specie ‘ndrangheta, effettuata secondo il rituale previsto dall’associazione stessa, costituisca fatto idoneo a fondare un giudizio di responsabilità in ordine alla condotta di partecipazione, tenuto conto della formulazione dell’art. 416-bis cp. e della struttura del reato dalla norma previsto". Il contesto empirico-criminologico in cui si inquadra la questio iuris è ben diverso da quello delle "nuove" mafie, trattato con specifici statuti esegetici dalla giurisprudenza più recente[7]: la questione involge infatti la partecipazione ad un’associazione mafiosa storica[8]; e per meglio comprendere, molto utile risulta il richiamo al caso concreto.
Due soggetti venivano attinti da misura di custodia cautelare essendo ritenuti gravemente indiziati del reato di cui all’art. 416-bis. Secondo la prospettazione accusatoria, costoro erano partecipi di un’articolazione di ‘ndrangheta operante a Sant’Eufemia d’Aspromonte, funzionalmente dipendente dal "locale" di ‘ndrangheta di Sinopoli capeggiato dalla cosca Alvaro: la cui presenza e mafiosità era stata accertata in plurime sentenze di condanna irrevocabili. La misura cautelare per i due ricorrenti veniva emanata a seguito dell’accertamento della loro rituale affiliazione, dei loro "battesimi" (detti anche "battezzi"), mediante conversazioni captate tra altri soggetti (sodali con posizioni apicali nel gruppo mafioso), da cui si evinceva chiaramente l’avvenuta affiliazione dei due. Il tribunale del Riesame, la cui ordinanza veniva impugnata innanzi la Suprema Corte, proprio sulla base di dette conversazioni riteneva dimostrata l’avvenuta affiliazione e quindi la partecipazione alla consorteria, atteso che - secondo il tribunale - tale delitto si perfeziona già attraverso l’inserimento formale della persona nell’organizzazione criminale (storica), senza che sia necessario il compimento di specifici atti attuativi del disegno criminoso.
2. Le modalità di estrinsecazione della mafiosità (l’associazione)
Sebbene il caso sotteso s’inquadri in una specifica cornice criminologica (quella appunto delle mafie storico-tradizionali), la Corte coglie l’occasione per intraprendere un percorso ricostruttivo che leghi assieme le "vecchie" e le "nuove" mafie[9], individuando incidenter tantum alcuni principi che vanno necessariamente connessi alla struttura della fattispecie di cui all’art. 416-bis. E’ insomma, quella a cui procede la Corte nel suo più autorevole consesso, un’operazione di complessivo riordino ermeneutico della materia, punto d’arrivo delle tante sollecitazioni giurisprudenziali accumulatesi negli ultimi anni.
Come detto, è preliminarmente, sull’an dell’associazione che la Corte si sofferma (soffermandosi nel punto di convergenza più dibattuto in dottrina e giurisprudenza sul terreno delle mafie diverse da quelle tradizionali)[10]: sulla modalità con cui la cosca, per essere ritenuta sussistente, e sanzionarne penalmente l’esistenza, dovrebbe estrinsecare la propria forza di intimidazione, e dunque il metodo mafioso.
Ed infatti, dopo aver ripercorso le varie tesi[11], i giudici ritengono che, per svolgere una corretta ermeneusi della locuzione normativa "si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo" occorre«riscontrare empiricamente che il sodalizio abbia in termini effettivi dato prova di possedere tale "forza" e di essersene avvalso: solo così può attribuirsi rilievo all’oggettività del metodo mafioso», in ossequio ai principi di materialità e offensività. Nondimeno, dalla necessità che la capacità intimidatrice«sia formata, esternata ed obiettivamente percepita va tenuto distinto il profilo relativo alle modalità, del tutto libere, con cui tale capacità si esteriorizza».
Quindi, se da un lato è inequivoco il dato letterale, che non consente di conferire rilievo alla mera intenzione di avvalersi del metodo mafioso e ne necessita, all’opposto, una concreta attivazione, dall’altro - ricorda la Corte - non possono sottacersi le differenze ontologiche, tipologiche ed operative tra i diversi tipi di mafie, ed in specie tra le mafie "vecchie" e "nuove"[12]. I giudici infatti ritengono«necessario che l’associazione abbia conseguito, in concreto, nell’ambiente circostante nel quale essa opera, un’effettiva capacità di intimidazione sino a estendere su di sé un alone permanente di paura diffusa, oggettivamente percepibile, che si mantenga vivo anche a prescindere dai singoli atti di intimidazione concreti».
Come insegna l’esperienza giudiziaria e l’osservazione di taglio socio-criminologico del fenomeno, l’intimidazione e l’assoggettamento nei confronti della popolazione può derivare dalla sola presenza del sodalizio sul territorio e dalla fama criminale che il gruppo ha generato per mezzo di un pregresso e continuato utilizzo della violenza[13]. In un tale contesto di radicamento mafioso[14] la rappresentazione del metodo avviene in ragione di condotte molto meno significative sul piano normativo, dacché il sodalizio mafioso, per il sol fatto di essere tale, già è pervenuto al superamento della soglia minima che consente di utilizzare la forza intimidatrice soltanto sulla base del vincolo e del suo manifestarsi. Il metodo statico presuppone l’accumulo, nel tempo, di un patrimonio di intimidazione spendibile anche, e sopratutto, in assenza di condotte non esplicite: è proprio questa ipotesi ad afferire alle "modalità libere" con cui la capacità mafiosa si esteriorizza.
Si può quindi distinguere il metodo statico dal metodo dinamico[15], a seconda che vi sia o meno il concreto esercizio della condotta intimidatrice (il requisito della violenza o della minaccia esplicita); e dire, altresì, che tra le fila della mafia tradizionale si sfrutta ordinariamente il metodo statico, sebbene non possa escludersi un utilizzo della violenza, ovverosia del metodo dinamico. Quest’ultimo pare invece essere una linea d’azione obbligata per le "nuove" mafie, quelle di nuovo conio ed anche per le mafie storiche ma "dislocate"[16], poiché il territorio di riferimento della cosca non è più quello in cui si è radicata - e su di essa può farsi leva - la "fama criminale" della famiglia mafiosa "madre"[17].
Secondo la Corte, il metodo deve coagularsi attorno ad una comunità di riferimento e va dedotto fattualmente:«ciò che conta è che l’elemento della forza intimidatrice sia desunto da circostanze atte a dimostrare la capacità di incutere timore propria dell’associazione, e ricollegabile ad una generale percezione della sua terribile efficienza nell’esercizio della coercizione fisica e/o morale»[18].
L’associazione insomma in tanto esiste in quanto esprime il suo metodo: che esso sia statico o dinamico, va però sempre«inteso nel suo senso oggettivo: quest’ultimo infatti non può perdere la propria consistenza fino a far degradare la fattispecie a semplice pericolo attraverso mere prospettazioni prognostiche». Il metodo, per la verifica del suo effettivo esercizio, va sempre calato«nel contesto di riferimento», derivandone che l’organizzazione deve essere concretamente in grado di porre in pericolo l’ordine pubblico, l’ordine economico e la libertà di partecipazione alla vita politica; non essendo sufficiente il mero pericolo che i suoi elementi costitutivi possano manifestarsi.
Questo ragionamento, collegato al caso sotteso e decriptato nel cifrario giurisprudenziale, ha un significato preciso: tutti i tipi mafiosi, vecchi e nuovi, proprio perché vanno fattualmente riscontrati, necessitano di essere calati nel loro contesto di riferimento, da cui deve emergere empiricamente l’esercizio ovvero la perduranza degli effetti di un già esercitato metodo mafioso; diversamente, vorrebbe dire presumere l’esistenza (e l’immanenza) di un elemento costitutivo del reato, con relativo pregiudizio dei canoni di materialità e offensività del reato[19].
È indubbio, al tempo stesso, che tale sforzo probatorio è vieppiù semplificato nei casi ordinari di esercizio di un metodo statico: ove cioé si considerino le mafie storiche nei loro contesti territoriali di riferimento, in cui omertà e assoggettamento sono appunto storicamente - e giudiziariamente - riscontrati: ed è certamente il caso della cosca Alvaro nel reggino, che fa da sfondo alla vicenda rimessa alla Corte.
3. L’adesione al sodalizio (il partecipe)
È bene precisare che la Corte non intende riscontrare l’associazione, foss’anche una mafia storico-tradizionale, sulla base di massime di esperienza: anzi, da parte dei giudici si nota una diffidenza epistemologica di fondo nell’utilizzo delle massime di esperienza, affiancato da più d’un richiamo ai rischi di un utilizzo probatoriamente scorretto delle stesse.«Invero, solo la verifica dell’applicabilità della regola prescelta consente, in definitiva, la sostituzione dell’ id quod semper necesse all’ id quod plerumque accidit, criterio che - unico - permette di raggiungere l’alto grado di probabilità logica della spiegazione causale ipotizzata permettendo il superamento del dubbio ragionevole».
E tuttavia, in una materia come quella in trattazione, non può negarsi il patrimonio giudiziario (e d’analisi scientifica) nel frattempo acquisito, e quindi«l’utilità della conoscenza esperienziale delle dinamiche e della struttura delle associazioni mafiose»; che è anzi necessario per comprendere il reale significato di fatti di nattura prettamente sociologica (quali l’affiliazione rituale) che, trattati in astratto, potrebbero non avere alcuna rilevanza giuridica: in questo senso, immancabilmente, le massime di esperienza sono utili strumenti di interpretazione, più che per l’oggetto di giudizio in sé, per il loro contesto.
È dentro questa cornice sistematico-esegetica che la Corte afferma:«Se il presupposto che "lega" l’adepto alla consorteria è il suo stabile inserimento nella stessa, è innegabile come questo vincolo possa realizzarsi o in modo formale, attraverso i classici rituali di adesione e con la comprovata "messa a disposizione" ovvero, in concreto, con il compimento di azioni, preventivamente assegnate, teleologicamente orientate alla realizzazione degli scopi associativi».
È bene chiarire che il modello di riferimento per una meccanica d’ingresso formale nel sodalizio è, sempre, quello delle mafie tradizionali, in cui il "battesimo" è notoriamente il presupposto per lo stabile inserimento nell’organigramma associativo da parte del sodale; ma non l’unico, potendosi dedurre la partecipazione anche in concreto, mediante il compimento di attività causalmente orientate a favore dell’associazione, che ne comprovino, indubitabilmente, la fidelizzazione dei comportamenti e il rispetto delle gerarchie: la "messa a disposizione", appunto. In quest’ultimo caso, l’esercizio in concreto di ciò che è (sul piano soggettivo) l’affectio societatis«non richiede altri indici probatori in ragione della loro indubbia autoevidenza», mentre«l’adesione al sodalizio in forme rituali impone la ricerca di ulteriori elementi che possono comprovare l’effettiva e stabile intraneità e rendere certa e potenzialmente duratura la "messa a disposizione" del soggetto». L’adesione formale al sodalizio, quindi, non sarebbe di per sè sufficiente ad integrare il requisito della partecipazione; neppure nel contesto di una mafia tradizionale, in cui il "battesimo" può avere un solo ed univoco significato.
Conseguentemente la Corte, in uno spirito di«irrinunciabile recupero di una dimensione probatoria», elenca quelle circostanze - recte: indici probatori in ordine alla partecipazione - che sul punto possono venire in rilievo: la "qualità" dell’adesione e il tipo di percorso che l’ha preceduta; la dimostrata affidabilità criminale dell’affiliando; la "serietà" del contesto ambientale in cui la decisione è maturata; il rispetto delle forme rituali anche con riferimento all’accertamento dei "poteri" di chi sceglie, di chi presenta e di chi officia il rito dei nuovi adepti; la tipologia del reciproco impegno preso; la misura della disponibilità pretesa e/o offerta[20].
Quindi:«l’incriminazione del fatto iniziale, non accompagnato da altri indici rivelatori della stabile adesione, significa inevitabilmente punire una mera potenzialità operativa del soggetto, in aperto contrasto con la logica di effettività e proporzione che deve regolare il rapporto tra reato e sanzione». Da qui il corposo principio di diritto[21] e l’annullamento dell’ordinanza cautelare, essendo«rimasto del tutto inesplorato il profilo relativo alle attività eventualmente svolte dai due ricorrenti in favore del sodalizio criminale di ritenuta appartenenza».
4. La contraddizione in cui sembra incorrere la Corte
Al netto del pregevole sforzo ricostruttivo, che consente il riordino esegetico di due profili assolutamente centrali, quali l’an dell’associazione mafiosa (avendo i giudici fissato la soglia di riscontro fattuale oltre la quale può dirsi integrato il reato associativo) e la partecipazione alla stessa (da accertarsi in concreto sulla base di precisi indici probatori[22] o comunque sulla scorta di ogni altro elemento di fatto), e pur dovendosi apprezzare l’ancoraggio saldo dei principi enucleati ai canoni di materialità e offensività, nonché la fuga da ogni forma di responsabilità da posizione o da status[23], si coglie un eccesso di astrazione argomentativa laddove non si ritenga sufficiente l’affiliazione rituale, in quanto tale accertata, a comprovare la partecipazione all’associazione (storica); questa circostanza andrà considerata quale indizio, seppur grave, quindi non sufficiente per sé sola ad integrare il reato, essendo appunto necessario un quid pluris«capace di rendere inequivoco e certo il contributo attuale dell’associato a favore della consorteria mafiosa».
L’astrazione del ragionamento della Corte si ravvisa, invero, nel porre un principio generale del tutto scisso dai contesti socio-criminologici di riferimento dell’associazione mafiosa: perché se lo sforzo probatorio ulteriore - ed oltre la mera affiliazione - non può omettersi nel caso delle "nuove" mafie, a struttura non tradizionale, e che in ogni caso non derivino da associazioni storiche che ritualmente utilizzano ancora il "battesimo", in cui è sempre necessaria (in assenza di dati empirici e d’esperienza storicamente consolidati) una verifica in concreto delle modalità di partecipazione, ontologicamente diversa è la valutazione da svolgere su una mafia storica[24].
Una contraddizione, in altri termini, sembra cogliersi laddove da un lato la Corte, nello sforzo di rendere intellegibile l’esercizio del metodo e la presenza sul territorio di un gruppo rientrante nel fenotipo di cui all’art. 416-bis, correttamente distingue le "vecchie" mafie dalle "nuove", riconoscendone una strutturale diversità, non solo sul piano degli effetti criminosi e dell’infiltrazione sociale ma anche su quello organizzativo-funzionale: giacché una mafia storica (ed in particolare la ‘ndrangheta, certamente quella più tradizionale e più saldamente ancorata a meccanismi di affiliazione e funzionamento che si tramandano da generazioni), proprio per essere tale, ha regole sue proprie, che costituiscono ormai patrimonio conoscitivo della collettività e degli operatori del diritto. Eppure dall’altro lato, dentro un ragionamento che sembra più accorto nel ripercorrere le argomentazioni della sentenza "Pesce" anziché compiersi del tutto, non si esegue alcuna distinzione tipologica sotto il profilo dell’adesione punibile al sodalizio; tanto che viene omesso, nel principio di diritto enucleato, ogni riferimento alla mafia storica, riferimento invece presente - perché dirimente - nel quesito sottoposto all’organo nomofilattico[25].
Di interesse, al riguardo, è la memoria depositata dal procuratore generale che ha chiesto di dichiararsi inammissibili i ricorsi. Secondo il pubblico ministero, il quesito sottoposto alle Sezioni Unite andrebbe declinato diversamente:«Non si tratta, infatti, di attribuire di per sé un significato univoco a una frazione di condotta, ma di ricondurre quella condotta al contesto criminale oggetto di prova»: da qui, l’importanza di ricostruire«in termini probatoriamente certi, la struttura del sodalizio criminoso e di conseguenza il significato che in quel contesto alla cerimonia di rituale iniziazione viene attribuito».
Posto che la giurisprudenza di legittimità è granitica nell’affermare che la partecipazione al sodalizio criminale mafioso è del tutto indipendente dalla commissione di specifici reati o da condotte attuative del progetto criminoso dell’associazione, la manifestazione di volontà deve inserirsi nella struttura dell’organizzazione, venendone riconosciuta e apportandovi un contributo effettivo, anche per la sola "messa a disposizione".«E questo - afferma il procuratore generale - è un tema di prova, solo di prova»[26].
Ora, è di tutta evidenza che nel contesto ‘ndranghetista, ed in particolare nel tradizionale contesto reggino oggetto di indagine prima e di giudizi cautelari poi, l’affiliazione rituale ha una comprovata e ineludibile valenza partecipativa; che trattasi - l’affiliazione rituale - di una chiara e non fraintendibile "messa a disposizione" e che, in questo preciso contesto storico-tradizionale, richiedere la prova di dati di fatto ulteriori vorrebbe dire avventurarsi nell’esplorazione del - diverso - tema probatorio dell’attuazione del programma criminoso, ed eludere per questa via la struttura del reato come formulato dal legislatore del 1982, che richiede la mera partecipazione.
Se tutto in effetti ruota attorno alla prova della partecipazione, e se la prova comporta l’acquisizione di dati di fatto in uno con la loro intepretazione nel concreto contesto di riferimento, non può negarsi che quest’ultimo cambi a seconda del diverso panorama criminologico: che si tratti di una mafia tradizionale, saldamente e storicamente radicata sul territorio, dalla mappatura ben intellegibile e dai chiari meccanismi di funzionamento, perché più volte giudiziariamente accertati (è il caso, appunto e sopratutto, dei locali di ‘ndrangheta), ovvero di mafie di nuovo conio, dalle strutture più diverse e per loro stessa natura inesplorate.
Cosicché, nel contesto esaminato, non può non considerarsi l’affiliazione rituale quale forma di partecipazione punibile, fatta salva, s’intende, l’eventuale emergenza di risultanze processuali idonee a smentire tale regola di esperienza.
D’altro canto anche la Corte ribadisce che«la disponibilità conclamata resa con il prestato giuramento di mafia, che può rendere ipotizzabile il contributo partecipativo del soggetto, può essere probatoriamente contraddetta» da altri dati di fatto. Da tale argomentazione, però, scaturisce una diversa conclusione; essa viene valorizzata e posta a supporto dell’esigenza di riscontrare concretamente, probatoriamente - non l’associazione, bensì - la singola partecipazione; anche al cospetto di regole mafiose interne precise, inequivoche e perpetrate da generazioni[27].
5. Fenomeno mafioso e contrasto giudiziario
La pronuncia in commento, muovendo da condivisibili premesse (relative all’ an dell’associazione mafiosa) e con l’apprezzabile intento di rafforzare il corollario di garanzie nella configurazione del reato di cui all’art. 416-bis, giunge a soluzioni non appaganti perché sembrano andare oltre - arricchendolo tipicamente - il dato di legge, che incrimina la mera partecipazione all’associazione mafiosa (concretamente percepibile in quanto tale): e ciò in ragione della natura di un fenomeno totalitario[28], che pone in serio e costante pericolo le basi stesse delle istituzioni democratiche e della civile convivenza.
Ed invero, il lignaggio di pericolo concreto di cui deve ritenersi portatrice la norma in relazione a beni giuridici di tale rilevanza, va sicuramente ricondotto, per quanto sopra detto, all’esercizio del metodo mafioso da parte dell’associazione (non potendosi punire mere entità associative prive di proiezioni delittuose all’esterno)[29], senza però utilizzare il medesimo schema inferenziale anche - come sembra suggerire la sentenza - per le forme partecipative all’ente[30], che vanno sempre coniugate alla littera legis e poi affianacate all’analisi - non dell’associazione criminale, ma - del tipo di mafia a cui si riconnettono.
Invero, in questa pronuncia solida, che si muove nel solco della giurisprudenza più attenta ai canoni dell’offensività del reato[31] e mostra piena e dettagliata consapevolezza del lungo cammino pretorio in subiecta materia, ma forse non del tutto centrata rispetto al quesito (dal preciso riferimento socio-criminologico) posto dalla sezione remittente, non colgono nel segno i riferimenti normativi sovranazionali e sistematici[32] effettuati dalla Corte, che per assoluta diversità di obiettivi politico-criminali non si attagliano al caso vagliato dell’affiliazione rituale ad un’associazione mafiosa (tradizionale).
Da un lato si richiama la nozione di partecipazione recepita in ambito U.E. dalla Decisione Quadro n. 2008/841/GAI del Consiglio relativa alla lotta alla criminalità organizzata[33], la quale - benché priva di qualsivoglia riferimento alle oggettive peculiarità del fenomeno mafioso - finirebbe per«orientare l’interpretazione del dato normativo interno»; dall’altro si fa riferimento ad una fattispecie recentemente introdotta (quella di cui all’art. 270-quater, rubricato "Arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale") in cui il legislatore«ha ritenuto di dover incriminare il mero reclutamento»[34], introducendo appunto una previsione incriminatrice ad hoc:«il che ulteriormente evidenzia come tale segmento del fatto, qualora non accompagnate da successive condotte di attivazione, non può ritenersi di per sé ricompreso nella nozione tipica di partecipazione».
Anche volendo valorizzare quest’ultimo dato sul piano sistematico, rimane improprio il parallelismo tra mero arruolamento per finalità terroristiche e affiliazione rituale ad una mafia[35]: che è notoriamente, ove beninteso si appuri la serietà dell’affiliazione, una scelta di vita di carattere assoluto, ove l’associato viene ad appartenere alla mafia sotto il profilo della totale soggezione alle sue regole, regole che neppure consentono una facile e agevole dissociazione; nell’affiliazione rituale, nel contesto di una mafia tradizionale, è immanente l’obbligo di prestare ogni propria disponibilità al servizio della cosca, accrescendone così la potenzialità operativa. E ciò, va ribadito, è patrimonio empirico-conoscitivo pressoché granitico[36].
Neanche l’ampio spazio riservato alle argomentazioni delle Sezioni Unite "Mannino" del 2005, che come noto riscattano il paradigma organizzatorio "puro" sviluppandolo nella sua dimensione integrata (o mista)[37] e da cui si evincerebbe un inserimento associativo combinato con un apporto individuale causalmente orientato[38], appare dirimente, atteso che«la proiezione fattuale dell’inserimento organico nella struttura del sodalizio», tale da«implicare, più che uno status di appartenenza, un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l’interessato "prende parte" al fenomeno associativo» (questa la valutazione probatoria sollecitata dai giudici nel 2005), è adeguatamente sussunto, per le ragioni anzidette, in una condotta formalistica di assoluta rilevanza e centralità nella vita di una associazione mafiosa tradizionale. La sentenza "Mannino", che pure si occupa più in generale di distinguere concettualmente la partecipazione associativa dal concorso eventuale[39], ha come parametro di riferimento la mafia siciliana di cosa nostra; e pur astraendo il tema della partecipazione, e dell’idoneità della partecipazione alla cosca, tratteggia un quadro esattamente coincidente con ciò che in un contesto mafioso storico-tradizionale si realizza con l’affiliazione rituale.
L’art. 416-bis, a ben vedere, non è affetto da una "tipicità incompiuta"[40], come sembrano indiziare le molteplici oscillazioni interpretative sulla norma: in ogni caso, la carenza del tipo descrittivo non può ravvisarsi nel dato partecipativo, a cui si collega solo e soltanto un problema di prova dell’inserimento della struttura: che è peraltro, per antonomasia, legato all’affiliazione rituale.
Aggravare e appesantire questo passaggio configurativo di per sé chiaro - perlomeno ove si tratti di affiliazione rituale ad una mafia storica e tradizionale - rendendolo di fatto un (ulteriore) problema causale da risolvere per comprovare l’inserimento nella struttura, con la prova (ulteriore) della idoneità,«per le caratteristiche assunte nel caso concreto, a dare luogo alla "messa a disposizione" del sodalizio stesso, per il perseguimento dei comuni fini criminosi», con tutto ciò che tale locuzione comporta sul piano dell’accertamento nel contesto anzitutto delle complesse indagini sulle associazioni mafiose, vuol dire contraddittoriamente problematizzare sul piano causale un profilo - quello appunto della partecipazione - dopo avere chiarificato, in premessa, quello logicamente precedente dell’ an dell’associazione.
Ed una siffatta impostazione problematica, che innalza processualmente la soglia di perfezionamento del reato associativo in capo al sodale, mero partecipe, richiedendo un’articolata prova - causalmente orientata - in ordine alla partecipazione alla cosca, rischia di generare effetti pratici di notevole portata assieme ad ulteriori incertezze applicative, come nell’esperienza giurisprudenziale accade quando si comincia ad elaborare "indici probatori" volti a rafforzare la prova di un fatto[41]; e in ultima analisi, ed è ciò che più rileva, di rendere più difficoltoso il contrasto giudiziario al fenomeno mafioso che, ancora, stringe e soffoca con i più tradizionali metodi dell’assoggettamento intere aree, specialmente (ma non solo) del Meridione.
[1] Fatte salve le tre note pronunce a Sezioni Unite sul concorso esterno, tutte peraltro richiamate nella sentenza in commento in quanto utili a lumeggiare, in termini generali, il tema della partecipazione: Sez. Un., 5 ottobre 1994 (dep. 1995), n. 16 - rv. 199386 (c.d. "Demitry"); Sez. Un., 30 ottobre 2002 n. 22327 - rv. 224181 (c.d. "Carnevale"); Sez. Un., 12 luglio 2005, n. 33748 (c.d. "Mannino"); tra i contributi sul tema si ricordano Cavaliere, Il concorso eventuale nel reato associativo. Le ipotesi delle associazioni per delinquere e di tipo mafioso, Napoli, 2003, e Visconti, Contiguità alla mafia e responsabilità penale, Torino, 2003.
[2] Ne è riprova l’imprescindibile lavoro monografico di Turone, Il delitto di associazione mafiosa, Giuffrè, 2015, apparso tuttavia una prima volta (con il titolo Le associazioni di tipo mafioso) nel 1984, e via via aggiornato (nel 1995, nel 2008 ed infine, appunto, nel 2015). L’autore, nella Prefazione, così giustifica l’ulteriore edizione dell’opera:«Non prive di rilievo sono, infine, le nuove emergenze circa l’apparato strutturale-strumentale di certi organismi associativi "neo-mafiosi" individuati di recente» (p. V). È indubbio, infatti, che i modelli mafiosi di nuovo conio – quelli cioè recentemente emersi nella giurisprudenza – travolgano le impostazioni teorico-applicative fin qui consolidatesi in materia. Si veda anche Basile, Riflessioni sparse su "Il delitto di associazione mafiosa". A partire dalla terza edizione del libro di Giuliano Turone. Recensione, in Dir. pen. cont. (web), 26 aprile 2016.
[3] Si guardi il ricognitivo lavoro di Santoro (a cura di), Riconoscere le mafie. Cosa sono, come funzionano, come si muovono, Il Mulino, 2015, ed in particolare il contributo di La Spina, Riconoscere le organizzazioni mafiose, oggi: neo-formazione, trasformazione, espansione e repressione in prospettiva comparata, ivi, p. 95 ss.
[4] Un orientamento ben delineabile a partire da Sez. V, 25 giugno 2003, n. 38412 - rv. 227361. Peraltro, come la pronuncia in commento correttamente ricorda, questa tesi si aggancia alla relazione della proposta di legge n. 1581 (presentata il 31 marzo 1980 dai deputati Pio La Torre ed altri), da cui scaturirà la novella di cui all’art. 416-bis:«Non [è] sufficiente la previsione dell’art. 416 del codice penale a comprendere tutte le realtà associative di mafia che talvolta prescindono da un programma criminoso secondo la valenza data a questo elemento tipico dall’art. 416 del codice penale, affidando il raggiungimento degli obiettivi alla forza intimidatrice del vincolo mafioso in quanto tale: forza intimidatrice che in Sicilia e Calabria raggiunge i suoi effetti senza concretarsi in una minaccia o in una violenza negli elementi tipici prefigurati nel codice penale"». In dottrina, tra i primi a delineare una fattispecie di pericolo astratto è Flick, L’associazione a delinquere di tipo mafioso. Interrogativi e riflessioni sui problemi proposti dall’art. 416 bis c.p., in Riv. it. Dir. Proc. Pen., 1988, p. 853.
[5] In dottrina già Patalano, L’associazione per delinquere, Jovene, 1971, p. 178, rilevava come il bene protetto dalla fattispecie associativa (e, dunque, a fortiori dal reato di associazione mafiosa) sia l’ordine pubblico inteso quale "esclusività dell’ordinamento giuridico-penale". Nei medesimi termini, successivamente: Spagnolo, L’associazione di tipo mafioso, Padova, 1993, p. 110 e Cavaliere, Delitti contro l’ordine pubblico, in Moccia (a cura di), Trattato di diritto penale, Parte speciale, V, Napoli, 2007, p. 397.
[6] Una tesi che viene propugnata già a partire da sez. VI, 3 giugno 1993, n. 1793 (1994) - rv. 198577. E’ sicuramente l’impostazione preferita dalla dottrina: cfr. De Francesco, Associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso, in Dig. d. pen., vol. I, Padova, 1987, p. 309 Da ultimo, prospettano la«necessaria idoneità offensiva» Insolera-Guerini, Diritto penale e criminalità organizzata, Torino, 2019, p. 56.
[7] E che ha specularmente aperto un ampio dibattito in dottrina: Serraino, Associazioni ‘ndranghetiste di nuovo insediamento e problemi applicativi dell’art. 416 bis c.p., in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, 264 ss.; Pignatone-Prestipino, Modelli criminali. Mafie di ieri e di oggi, Roma-Bari, 2019; Sparagna, Metodo mafioso e c.d. mafia silente nei più recenti approdi giurisprudenziali, in Dir. pen. cont. (web), 10 novembre 2015; Balsamo-Recchione, Mafie al Nord. L’interpretazione dell’art. 416 bis c.p. e l’efficacia degli strumenti di contrasto, in Dir. pen. cont. (web), 18 ottobre 2013.
[8] Segnala come elemento di novità il fatto che il quesito sollevato dalla sezione remittente non riguardi il caso tipologico definito di "ultima generazione", ma viene al contrario in evidenza come punto controverso l’inquadramento nella partecipazione associativa della più arcaica delle manifestazioni di mafiosità Maiello, L’affiliazione rituale alle mafie storiche al vaglio delle Sezioni Unite, in Sistema penale, 5, 2021, p. 4.
[9] Si evoca l’imprescindibile testo di Sciarrone, Mafie vecchie, mafie nuove. Radicamento ed espansione, Roma, 2009, tra gli studiosi più attenti del fenomeno delle "nuove" mafie.
[10] Sebbene, come rileva Visconti, Mafie straniere e ‘ndrangheta al nord: una sfida alla tenuta dell’art. 416 bis?, in Dir. pen. cont., 1, 2015, p. 367, la questione dell’applicabilità dell’art. 416-bis a realtà associative diverse dalle “mafie storiche” si era presentata già dopo pochi anni di vigenza del delitto di associazione di tipo mafioso.
[11] La pronuncia richiama il dibattito tra chi intende la forza di intimidazione quale un insieme di singoli, determinati, ripetuti e sopratutto attuali atti di minaccia o di violenza, chiaramente riconoscibili, e coloro invece che considerano il fenomeno mafioso come l’ instaurazione di un "clima di terrore" dettato dalla "fama" del gruppo, finendo per valorizzare una componente astratta che non necessariamente deve rivelarsi all’esterno.
[12] Lo ricorda la Corte, per esempio, laddove si sofferma sulle descrizioni delle mafie storiche, del loro funzionamento interno e della loro proiezione esterna, e di come per esse nella prassi giudiziaria siano state impiegate le massime di esperienza (p. 38 ss. della sentenza); oppure nei numerosi passaggi in cui si rammenta che la capacità mafiosa può essere patrimonio storico perpetuato nelle diverse stagioni del radicamento mafioso. Le "nuove" mafie non vengono analizzate dettagliatamente, ma è ben chiaro che si mantiene ferma una linea concettuale insuperabile, tra le une e le altre.
[13] È fondamentale ricalcare il fatto che l’attività intimidatrice si sia effettivamente svolta in precedenza, e per un periodo di tempo sufficiente all’infondere l’omertà nella popolazione. Sottolineava questo elemento De Francesco, Associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso, in Dig. d. pen., vol. I, Padova, 1987, p. 309, secondo cui i requisiti dell’assoggettamento e dell’omertà si«ricollegano ad un’attività precedente, perché l’associazione ha acquistato la sua forza proprio in virtù di reiterati comportamenti di violenza e di minaccia».
[14] Il concetto di area "a tradizionale radicamento mafioso" è di matrice istituzionale: elaborato nei lavori della Commissione parlamentare antimafia, è in particolare cristallizzato in Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno dellamafia e delle altre associazioni criminali similari (XI legislatura), Relazione sulle risultanze dell’attività del gruppo di lavoro incaricato di svolgere accertamenti su insediamenti e infiltrazioni di soggetti ed organizzazioni di tipo mafioso in aree non tradizionali (relatore C. Smuraglia), approvata il 13 gennaio 1994.
[15] Tale distinzione concettuale, utile per chiarire la dinamica di alcuni fenomeni delittuosi quale l’estorsione c.d. "ambientale" di tipo mafioso, è stata richiamata, volendo, in Apollonio, Estorsione ambientale e metodo mafioso, in Cass. Pen, 2018, p. 3482 ss.
[16] Sulle mafie "dislocate", con particolare riguardo alla più diffusa ipotesi delle filiali silenti formatesi nel Nord della Penisola, si veda Varese, Mafie in movimento. Percorsi e geografie del crimine organizzato, Torino, 2011, passim; Alessandri (a cura di), Espansione della criminalità organizzata nell’attività d’impresa al Nord, Torino, 2017; Visconti, Associazione di tipo mafioso e ‘ndrangheta del nord, in Libro dell’anno del diritto 2016, in www.treccani.it.
[17] Per Rubiola, Associazione per delinquere di tipo mafioso, in Enc. giur., I, Roma, 1990, p. 213, pur essendo certamente raro che si verifichi, non si può escludere che una nuova associazione nasca già temibile, in modo da rendere convincente per i terzi la sua temibilità; potrà, ad esempio, rendere noti i nomi dei suoi componenti più potenti, la cui pericolosità individuale si trasfonde nel gruppo e contribuisce a crearne la forza; o potrà vantare le altolocate protezioni di cui gode, i notevoli mezzi finanziari a sua disposizione.
[18] Viene qui citata la pronuncia Sez. Fer., 12 settembre 2013, n. 44315 - rv. 258637.
[19] Una conclusione che recentemente veniva ribadita nella nota sentenza di legittimità sulla vicenda c.d. "Mafia Capitale" (Sez. VI, 22 ottobre 2019 (dep. 12 giugno 2020), n. 18125), su cui, volendo, cfr. Apollonio, Essere o non essere "Mafia Capitale". Commento a Cass., sez. VI, 22 ottobre 2019 (dep. 12 giugno 2020), n. 18125, in Giustizia Insieme (web), 20 giugno 2021.
[20] In questo senso la pronuncia in commento è il completamento - ma anche la pedissequa riproduzione d’itinere - di un filone argomentativo che vede nella sentenza c.d. "Pesce" (sez. I, 17 giugno 2016, n. 55359 - rv. 269040) la capofila, la quale richiede, oltre al dato formale dell’affiliazione rituale ad un’associazione di tipo mafioso,«ulteriori concreti indicatori fattuali rivelatori dello stabile inserimento del soggetto nel sodalizio con un ruolo attivo». Su tale spunto della sentenza "Pesce" si sofferma Maiello, L’affiliazione rituale alle mafie storiche, cit. p. 8 ss.; spunto che pertanto si proietta anche sulla sentenza delle Sezioni Unite.
[21]«La condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso si sostanzia nello stabile inserimento dell’agente nella struttura organizzativa della associazione. Tale inserimento deve dimostrarsi idoneo, per le caratteristiche assunte nel caso concreto, a dare luogo alla “messa a disposizione” del sodalizio stesso, per il perseguimento dei comuni fini criminosi.
Nel rispetto del principio di materialità ed offensività della condotta, l’affiliazione rituale può costituire indizio grave della condotta di partecipazione al sodalizio, ove risulti – sulla base di consolidate e comprovate massime di esperienza – alla luce degli elementi di contesto che ne comprovino la serietà ed effettività, l’espressione non di una mera manifestazione di volontà, bensì di un patto reciprocamente vincolante e produttivo di un’offerta di contribuzione permanente tra affiliato e associazione».
[22] Va soggiunto che i giudici non si limitano ad elaborare indici probatori relativi al concreto inserimento del sodale nella cosca a seguito dell’affiliazione rituale, ma ne elaborano altri in grado, ad es., di avvalorare l’informazione pervenuta da altri soggetti diversi dall’affiliato:«fuori dai casi di intraneità confessata, diversi saranno gli statuti probatori applicabili, a seconda che il dichiarante riferisca quanto appreso da altri oppure rilevi quanto accaduto in sua presenza perché: a) ha preso parte alla cerimonia; b) il soggetto gli è stato presentato come "uomo d’onore"; c) è entrato in contatto con soggetto che si è rapportato a lui come "uomo d’onore"».
[23] Del rischio che in questa materia possano accendersi«i bagliori di un diritto penale d’autore sotto mentite spoglie» parlano Merenda-Visconti, Metodo mafioso e partecipazione associativa nell’art. 416-bis tra teoria e diritto vivente, in Mezzetti-Luparia Donati (diretto da), La legislazione antimafia, Bologna, 2020, p. 42, sulla scia di una dottrina in questo senso univoca: cfr. anche Insolera, Guardando nel caleidoscopio. Antimafia, antipolitica, potere giudiziaria, in Ind. pen., 2015, p. 223.
[24] La Corte richiama la "dote" di ‘ndrangheta non solo perché il caso concreto riguarda una cosca ‘ndranghetista tradizionalmente presente, da decenni, sul territorio, ma anche perché una tale affiliazione - maggiormente qualificata - è stata parametro di giudizio nella sentenza "Pesce": eppure«non è possibile ritenere che il possesso di una "dote" equivalga ad indefinita partecipazione all’associazione, così che, una volta certificato quel possesso, non vi è alcun bisogno di un concreto accertamento in ordine alla partecipazione e al suo protrarsi nel tempo»; occorre insomma, necessariamente, la«prova della correlazione tra affiliato ed associazione [che] si rivela con riferimento al significato da attribuire al possesso della "dote"».
Invero, al netto della medesima struttura argomentativa e dei medesimi richiami, come della valorizzazione dei medesimi principi, l’unico profilo apprezzabile di divergenza dalla sentenza "Pesce" sta proprio nell’avere, quest’ultima, conferito un precipuo rilievo giuridico-probatorio ad un elemento marcatamente organizzativo-sociologico, quale è il conferimento di un "alto" grado di ‘ndrangheta come la "dote", affermando che, a differenza della mera affiliazione, il conferimento di questa implica per massima di esperienza l’avvenuta attivazione del soggetto nell’ambito associativo. Cosicché, le Sezioni Unite, non scendendo più a fondo nell’analisi socio-organizzativa del rituale di ‘ndrangheta ed omettendo per questa via l’implicazione di una chiara responsabilità partecipativa in ragione (perlomeno) della "dote", avrebbero ulteriormente rafforzato, rispetto alla sentenza "Pesce", lo statuto garantistico dell’accertamento della partecipazione alla cosca.
[25] Mentre l’ordinanza di rimessione (Sez. I, 28 gennaio 2021, dep. 9 febbraio 2021, n. 5071, rel. Centonze) muove i propri dubbi esegetici nel quadro specifico del perfezionamento del reato nel contesto delle mafie storiche, financo nominalmente elencate nell’ordinanza: cosa nostra, camorra, ‘ndrangheta e sacra corona unita.
[26] Nell’udienza in camera di consiglio è intervenuto il procuratore generale presso la Corte di Cassazione Giovanni Salvi, depositando le richiamate e citate Note per udienza in camera di consiglio davanti alle Sezioni Unite penali (proc. n. 34566/2020).
[27] Commentando l’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, Fiorucci, L’importante è partecipare?, in Arch. Pen., 1, 2021, p. 16, auspicava una soluzione "intermedia", che parallelamente adottando una prospettiva socio-organizzativa con riferimento al funzionamento interno delle mafie storiche (ampiamente accertato in sede giudiziaria), perlomeno distingua l’attribuzione formale dal conferimento di specifici ruoli (ad es. della "dote"). Come sopra detto, però, la Corte ha ritenuto di non svolgere questa distinzione, più astrattamente preferendo l’elaborazione di "indici probatori" in grado di superare l’indizio grave dell’affiliazione rituale.
[28] Di potere politico "totalitario" parla Violante, Non è la piovra. Dodici tesi sulle mafie italiane, Roma-Bari, 1994, p. 7. Sui caratteri del predicato mafioso si veda, inter alia, Tranfaglia, La mafia come metodo, Milano, 2012 (nuova edizione riveduta), p. 23 ss. V. anche Zincani, La criminalità organizzata. Strutture criminali e controllo sociale, Bologna, 1989, p. 15 ss. Sviluppa un interessante modello organizzativo di crimine organizzato Fiandaca, Criminalità organizzata e controllo penale, in Ind. Pen., 1991, p. 7, sul quale si veda anche, più recentemente, Aleo, Delitti associativi e criminalità organizzata. I contributi della teoria dell’organizzazione, in Rass. pen. crim., 3, 2012, p. 55 ss.
[29] Si condividono al riguardo le impostazioni della dottrina, ben compendiate nei recenti lavori di Amarelli, Mafie delocalizzate all’estero: la difficile individuazione della natura mafiosa tra fatto e diritto, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, p. 105 ss.; Id., Mafie autoctone: senza metodo non si applica l’art. 416 bis c.p., in Giur. it., 2020, p. 2249 ss.
[30] Su questo punto, peraltro, converge parte della dottrina: cfr. ad es. lo spunto di Di Vetta, Tipicità e prova, Un’analisi in tema di partecipazione interna e concorso esterno in associazione di tipo mafioso, in Arch. Pen., 1, 2017.
[31] Canone ermeneutico primario (in specie per i reati associativi di pericolo), rinvenendo un fondamento implicito negli artt. 13, 25 comma 2 e 27, comma 3 Cost., nonché a livello codicistico nell’art. 49, comma 2 c.p. La costituzionalizzazione implicita del principio di offensività nell’attuale assetto ordinamentale è stata evidenziata, come noto, da Bricola, Teoria generale del reato, in Nov. Dig. It., XIX vol., Torino 1973, p. 81 ss. (e in Scritti di diritto penale, I, Dottrine generali, teoria del reato e sistema sanzionatorio, Milano 1997, 539 ss.); Gallo, I reati di pericolo, in Foro pen., 1969, 8 ss.; Marinucci, Politica criminale e riforma del diritto penale, in Jus, 1974, p. 463 ss; più recentemente, si rinvia a Manes, Il principio di offensività nel diritto penale. Canone di politica criminale, criterio ermeneutico, parametro di ragionevolezza, Torino, 2005, passim.
[32] Già effettuati nella sentenza "Pesce", cit., peraltro elogiata dalla dottrina come la«presa di posizione più matura sul tema della partecipazione associativa» (Merenda-Visconti, Metodo mafioso, cit., p. 65, nt. 73).
[33] Che incrimina "il comportamento di una persona che [...] partecipi attivamente alle attività criminali dell’organizzazione, ivi compresi la fornitura di informazioni o mezzi materiali, il reclutamento di nuovi membri, nonché qualsiasi forma di finanziamento delle sue attività, essendo consapevole che la sua partecipazione contribuirà alla realizzazione delle attività criminali di tale organizzazione".
[34] Trattasi di condotta inclusiva - sotto il profilo del rilievo penale - della fase che precede l’accordo (oltre che l’effettivo inserimento nella struttura) ritenuta, in presenza del particolare finalismo, meritevole di sanzione sotto il profilo del reato consumato: Fasani, Le nuove fattispecie antiterrorismo: una prima lettura, in Dir. Pen. Proc., 2015, 936; Presotto, Le modifiche agli artt. 270-quater e quinquies del codice penale per il contrasto al terrorismo, in Dir. Pen. Cont., 1/2017, p. 110.
[35] Sul punto non può condividersi il raffronto effettuato nella sentenza "Pesce" (e per converso nella pronuncia in commento): l’affiliazione rituale non è un«mero accordo di ingresso simile al semplice arruolamento descritto come condotta punibile nell’attuale articolo 270-bis c.p. in tema di finalità di terrorismo anche internazionale»: affiancare l’affiliazione rituale ad un accordo di ingresso, come accade per un qualsiasi ente collettivo, lecito e illecito, ivi comprese le organizzazioni terroristiche, vorrebbe dire negare le specificità criminologiche delle mafie nonché sminuire quei dati di conoscenza granitici travasati dall’esperienza giudiziaria all’analisi scientifica (e viceversa) che mostrano il grado assoluto di "messa a disposizione" del sodale: vds., per un esempio di trasfusione del sapere tra i vari ambiti, Ciconte, Riti criminali. I codici di affiliazione alla ‘ndrangheta, Soveria-Mannelli, 2015, p. 45 ss.
[36] Sul punto, ancora, le analisi sociologiche ci offrono un quadro tranciante: vd. Massari, Sacra corona unita. Potere e segreto, Roma-Bari, 1998, p. 23 ss.; mentre sulla ‘ndrangheta Malafarina, Il Codice della ‘Ndrangheta, Reggio Calabria, 1978, p. 50 ss.; Gratteri-Nicaso, Fratelli di sangue, Cosenza, 2006, passim.
[37] La struttura "mista" del reato associativo è ben illustrata nel recente lavoro di Merenda-Visconti, Metodo mafioso e partecipazione associativa, cit., p. 40 ss.
[38] Su come però la sentenza (Sez. Un., 12 luglio 2005, n. 33748 (c.d. "Mannino") non abbia sopito i dibattiti in ordine alla configurazione dell’istituto, cfr. Fiandaca, Il concorso esterno tra guerre di religione e laicità giuridica. Considerazioni sollecitate dalla requisitoria del p.g. Francesco Iacoviello nel processo Dell’Utri, in Dir. pen. cont., I, 2012, p. 251 ss; vd. anche, utilmente, Macchia, “Concorso esterno”. Storia di una creazione giurisprudenziale, in Dir. e Giust., 2003, 22, 39.
[39] Nel quadro di quella pronuncia i giudici non procedevano ad alcuna distinzione tra i possibili fenotipi di mafia (tra "vecchi" e "nuovi" modelli) oggetto di giudizio, anche perché la distinzione assume nelle sentenze della Cassazione un preciso rilievo probatorio, di fattuale riscontro della condotta tipizzata, solo nell’ultimo decennio: per una ricognizione, sia consentito il rinvio a Apollonio, Rilievi critici su sulle pronunce di "Mafia Capitale": tra l’emersione di nuovi paradigmi e il consolidamento nel sistema di una mafia soltanto giuridica, in Cass. Pen., 2016, p. 118 ss.
[40] E’ noto come la dottrina abbia parlato di "tipicità inafferrabile" della fattispecie associativa: Moccia, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, II, Napoli, 2000, 65; nello stesso senso, Cavaliere, Il concorso eventuale nel reato associativo, Napoli, 2003, 81; invero, potrebbe semmai parlarsi di "tipicità aperta" all’integrazione probatoria (su cui si guardi l’importante spunto di Gargani, Fattispecie sostanziali e dinamiche probatorie. Appunti sulla processualizzazione della tipicità penale, in De Francesco-Marzaduri (a cura di), Il reato lungo gli impervi sentieri del processo, Torino, 2016, p. 89 ss.). Ed in questo senso non può negarsi che la materia dei reati associativi , per le stesse caratteristiche criminologiche del fenomeno da regolare, risulta particolarmente permeabile alle esigenze probatorie che emergono in sede processuale (cfr. Fiandaca, Ermeneutica e applicazione giudiziale del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, p. 361 ss.).
[41] Un rischio messo in evidenza, all’indomani del mero dispositivo delle Sezioni Unite, da Tredici, Rituale di affiliazione e condotta di partecipazione: la decisione delle Sezioni Unite, in Dir. Proc. Pen. (web), 27 luglio 2021, secondo cui«la ricerca garantista di ulteriori indici di colpevolezza verrebbe, infatti, rimessa ad un’attività di creazione pretoria, del tutto sganciata dal tenore della fattispecie, che finirebbe per preludere ad un’inevitabile discrezionalità giudiziaria, incompatibile con il principio di legalità formale».
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