ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
REFERENDUM “CANNABIS LEGALE” – IL QUESITO
È partita la macchina referendaria "Cannabis Legale".
Secondo fonti di stampa, la campagna referendaria ha raccolto 100.000 sottoscrizioni soltanto nelle prime 24 ore per poi superare, in pochi giorni, il numero di 600.000 firme, a ciò facilitata anche grazie all'ampia diffusione degli strumenti di firma da remoto (e rispetto al tema della democrazia diretta "digitale" cfr. Nello Rossi, “Tra Spid e derive plebiscitarie”, La Stampa 18 settembre 2021).
La grande risposta dei sottoscrittori è senz'altro indice che, nella sensibilità in materia di stupefacenti, un’ampia fetta dell'opinione pubblica (a cui la campagna è presentata come referendum per la cannabis legale) non associ alle droghe leggere, quantomeno alla cannabis, alcun disvalore, tale da meritare la persistente soggezione a pena.
Giustizia Insieme apre un momento di riflessione sulla proposta referendaria, muovendo dal quesito.
“Volete voi che sia abrogato il Decreto del Presidente della Repubblica del 9 ottobre 1990, n. 309, avente ad oggetto “Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza“, limitatamente alle seguenti parti:
Articolo 73, comma 1, limitatamente all’inciso “coltiva”;
Articolo 73, comma 4, limitatamente alle parole “la reclusione da due a 6 anni e”;
Articolo 75, limitatamente alle parole “a) sospensione della patente di guida, del certificato di abilitazione professionale per la guida di motoveicoli e del certificato di idoneità alla guida di ciclomotori o divieto di conseguirli per un periodo fino a tre anni;”?”
In disparte ogni considerazione sulla proposta per quanto riguarda l'art. 75: il quesito ne propone un'abrogazione parziale, con esclusivo riferimento alla sanzione amministrativa più avvertita nell’esperienza comune, quella incidente sulla patente di guida, e questa sembra essere una soluzione opportuna onde far fronte alle obiezioni già rese dalla Corte Costituzionale con la nota sentenza n. 27 del 10 febbraio 1997, dichiarativa dell'inammissibilità di una precedente proposta referendaria in materia.
Soffermando l'attenzione sulla parte relativa all'art. 73, in primo luogo il quesito punta ad abrogare la condotta di coltivazione dal comma 1.
È noto che nei più recenti approdi giurisprudenziali, con riferimento alla coltivazione, in concreto ne è comunque esclusa la punibilità nei casi di inoffensività della condotta, quando la coltivazione sia trascurabile, sì da rendere irrilevante l'aumento di disponibilità della sostanza e non prospettabile alcun pericolo di sua diffusione.
Mentre la proposta viene presentata, all'opinione pubblica, come volta alla legalizzazione, ma meglio sarebbe dire a togliere dall'area dell'illecito la piccola coltivazione di cannabis, per uso personale, si può osservare che, invero, con riferimento a tale tipologia di coltivazione il quesito non sia particolarmente utile, trattandosi di coltivazione capace di sfuggire già oggi, in aderenza agli approdi giurisprudenziali sopra richiamati, dall'area del penalmente rilevante.
Per come il quesito è strutturato, piuttosto, la condotta di coltivazione perderebbe rilevanza penale tout court, ciò a prescindere dalle dimensioni della coltivazione e dalla sua offensività in concreto; ciò, inoltre, anche a prescindere dalla specie coltivata, è a dire non soltanto con riferimento alla cannabis, ma anche con riferimento ad ogni tipologia di sostanza stupefacente la cui produzione non sia il frutto esclusivo di una sintesi chimica, e questo, probabilmente, anche ben oltre le intenzioni dei promotori del referendum (o almeno le intenzioni come dichiarate).
Si pensi, ad esempio, a sostanze stupefacenti quali cocaina ed eroina; il complessivo ciclo di produzione ben può essere suddiviso in più segmenti, comprendendo tanto un segmento iniziale di coltivazione quanto un segmento successivo, distinto, di estrazione e/o raffinazione; in quest'ottica ne discenderebbe la liceità di una condotta che si sostanzi nella sola cura del segmento relativo alla coltivazione (salvo il necessario coordinamento interpretativo con l'art. 28 d.p.r. 309/90, che non è fatto oggetto della consultazione).
Suscita, se possibile, ancora più perplessità l'intervento prospettato in relazione al quarto comma dell'art. 73, è a dire l'abrogazione delle parole "la reclusione da due a 6 anni e"; infelice appare l'etichetta di "cannabis legale".
Il quesito propone l'eliminazione della pena detentiva in relazione a qualunque condotta oggi illecita legata alla cannabis, senza operare alcun distinguo in ordine alla concreta offensività delle condotte (piccolo spaccio al dettaglio, grosso spaccio organizzato): limiti dello strumento referendario, potendosi difficilmente ipotizzare un quesito che, in relazione alla disposizione del quarto comma, possa prospettare l’abrogazione di talune condotte sì e di altre no. Il rischio, legato ai limiti dello strumento, è quello di dar vita non ad un mercato disciplinato, ma ad un mercato lasciato in mano alla criminalità.
La “depenalizzazione” di qualsivoglia condotta legata alle droghe leggere, senza distinguo sull’offensività delle condotte, intanto ha senso in quanto sia stata operata, a monte, una valutazione in ordine alla piena inoffensività dell'oggetto della condotta; operata una tale valutazione, tuttavia, appare contraddittoria, frutto di un compromesso al ribasso, l'idea di abrogare la sola pena detentiva, mantenendo comunque la previsione del fatto come reato, seppure punito con la sola pena pecuniaria. Senza considerare, inoltre, il necessario coordinamento interpretativo con il comma quinto, onde evitare il paradosso per cui una condotta riconducibile al quarto comma dell'art. 73, in ipotesi soggetta alla sola pena pecuniaria, ove di lieve entità debba essere più gravemente punita.
Da una parte si evidenziano quindi i limiti dello strumento, attraverso il quale è difficile operare interventi organici in una materia così articolata. Ma lo strumento ha anche in sé il pregio di avere evidenziato, già soltanto in questa prima fase della campagna, una forte sensibilità rispetto alla materia da parte dell'opinione pubblica che, ove si dimostri davvero incalzante, possa far da traino obbligando il legislatore ad una riflessione attenta sulla tematica, che non si limiti a mere strumentalizzazioni elettorali.
La nuova disciplina dell’acquisizione dei tabulati
di Federica Resta*
L’art. 1 del d.l. 132 del 2021 introduce una rilevante riforma della disciplina dell’acquisizione – a fini “di giustizia” – dei tabulati telefonici e telematici. La nuova disciplina si conforma ai principi sanciti dalla Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza del 2 marzo scorso, in linea con un indirizzo giurisprudenziale consolidatosi a partire dal 2014. In sede di conversione del decreto-legge si potrà, peraltro, riflettere su ulteriori profili meritevoli di intervento normativo.
Sommario: 1. L’esigenza di riforma dopo la sentenza del 2 marzo - 2. Il contenuto del decreto-legge - 3. Aspetti ulteriori.
1. L’esigenza di riforma dopo la sentenza del 2 marzo
L’art. 1 del d.l. 132 del 2021 reca un’innovazione importante della disciplina dell’acquisizione – ai fini dell’utilizzo in procedimenti penali – dei tabulati telefonici e telematici.
Come si evince dal preambolo, i presupposti di straordinaria necessità e urgenza ex art. 77 Cost, sottesi al decreto-legge, sono ravvisati nell’esigenza di adeguare la normativa in materia ai principi sanciti dalla sentenza CGUE del 2 marzo scorso, C-746/18. In linea con un filone giurisprudenziale consolidato a partire dalla sentenza Digital Rights dell’8 aprile 2014 (cause riunite C-293/12 e C-594/12),la Corte ha infatti affermato – con l’efficacia generale riconosciutale da Cass., II, sent. n. 28523 del 2021, dal Tribunale di Roma sezione Gip-Gup, decr. 25 aprile 2021 e dal Tribunale di Rieti con l’ordinanza 4 maggio.2021 - che l’acquisibilità processuale dei dati di traffico va da un lato limitata ai soli procedimenti per gravi reati o per gravi minacce per la sicurezza pubblica e, dall’altro, va subordinata all’autorizzazione di un’autorità terza rispetto all’autorità pubblica richiedente.
Il valore conferito dalla disciplina italiana (art. 132 d.lgs. 196 del 2003) alla gravità dei reati (quale requisito idoneo a regolare la distanza cronologica dell’acquisizione e non la sua ammissibilità) non pareva, dunque, del tutto in linea con le affermazioni (non nuove, ma certo più nette) della Corte. E a fortiori, appariva distonica con il contenuto della sentenza la competenza del pubblico ministero all’acquisizione dei tabulati, in assenza del vaglio del giudice.
Tale previsione, infatti – ritenuta sinora legittima dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità - contrastava con la necessità, sottolineata dalla Corte, di un vaglio sulla richiesta di acquisizione da parte di un’autorità terza. L’accento posto dalla Corte nella sentenza del 2 marzo scorso è, infatti, non sulla sola imparzialità o sull’indipendenza ma, in senso proprio, sulla terzietà dell’autorità cui sia demandato il vaglio acquisitivo. Tale rilievo era già stato avanzato dalla Corte con la sentenza Digital Rights e con la Tele2 Sverige (cause riunite C 203/15 e C 698/15) del 21 dicembre 2016, sebbene con riferimento alla nozione lata di “giudice” che la nostra giurisprudenza ha inteso, in parte dequotandolo, come “autorità giudiziaria”. Per questo, è difficile ravvisare nella sentenza del 2 marzo i presupposti per un prospective overruling, dal momento che essa si limita a chiarire, senza però innovare, principi affermati da una giurisprudenza consolidata, che sin dal 2014 aveva affermato come spettasse “al giudice o a un’autorità amministrativa indipendente” l’autorizzazione all’accesso ai dati. La sentenza del 2 marzo si limita a chiarire inequivocabilmente il significato da attribuire alla nozione di “giudice” a questi fini perché sollecitata sullo specifico punto dall’ordinanza di rimessione, ma già la sentenza Digital Rights vi alludeva (§ 62).
Ciò indusse infatti il sen. Casson a presentare, il giorno dopo la sentenza, un’interrogazione al Governo sulle ricadute della pronuncia, in cui si chiedeva “se intendesse proporre o comunque sostenere una rivisitazione della disciplina vigente in tema di data retention, (...) che eventualmente subordinasse anche (magari con la sola eccezione dei "delitti distrettuali" o comunque di criminalità organizzata per i quali può ammettersi la sola richiesta del pubblico ministero) la conservazione dei dati all'autorizzazione del gip, ferma restando, ovviamente, nei casi d'urgenza, la possibilità per il pubblico ministero di disporre la conservazione con proprio decreto, soggetto a convalida solo in fase successiva, sul modello dell'art. 267, c.2, cpp”.
Analogo principio sarebbe stato poi espresso dalla CGUE nel caso Tele2 Sverige (cause riunite C 203/15 e C 698/15) del 21 dicembre 2016, con cui la Corte di giustizia ha dichiarato incompatibile con la direttiva 2002/58 (riespansa a seguito dell’invalidazione della 2006/24 ad opera della sentenza Digital Rights) ogni previsione interna che, per fini di contrasto dei reati, tra l’altro, legittimasse l’accesso delle autorità nazionali competenti ai dati in assenza di un previo vaglio “del giduice o comunque di un’entità amministrativa indipendente” (punto 2 del dispositivo; § 120), chiarendo che: è essenziale che l’accesso delle autorità nazionali competenti ai dati conservati sia subordinato, in linea di principio, salvo casi di urgenza debitamente giustificati, ad un controllo preventivo effettuato o da un giudice o da un’entità amministrativa indipendente e che la decisione di tale giudice o di tale entità intervenga a seguito di una richiesta motivata delle autorità suddette presentata, in particolare, nell’ambito di procedure di prevenzione, di accertamento o di esercizio dell’azione penale. Qui, l’alterità tra il “giudice” e l’autorità richiedente chiarisce bene come per “giudice” vada preferibilmente intesa l’autorità terza chiamata a valutare le richieste della parte pubblica .
Benché, dunque, l’esigenza di giurisdizionalizzazione del procedimento acquisitivo dei tabulati fosse già chiara dal 2014, la sentenza del 2 marzo ha sgombrato il campo da ogni possibile dubbio, superando l’indirizzo della giurisprudenza interna volto a ritenere il pubblico ministero autorità legittimamente deputata al vaglio acquisitivo dei tabulati in ragione della sua indipendenza, con “sopravvenuto contrasto tra l’art. 132, c.3, d.lgs. 196 del 2003 e la normativa dell’Unione europea, così interpretata dal giudice europeo, nella parte in cui attribuisce la competenza ad emettere il decreto motivato di acquisizione al pubblico ministero anziché al giudice”.
I principi affermati dalla Corte hanno determinato, in questi pochi mesi, già esiti contrastanti. In un caso, ad esempio, è stata sollevata questione pregiudiziale interpretativa della disciplina europea (Trib. Rieti, ord. 4.5.2021) non ritenendosi esperibile la disapplicazione della normativa interna, disposta invece da altro giudice che ha direttamente autorizzato l’acquisizione dei tabulati, ritenuta indispensabile ai fini probatori e ravvisando la concreta gravità dei reati per cui si procedeva in quanto, a fortiori, riconducibili a quelli che legittimano le intercettazioni ex artt. 266 e 266-bis c.p.p. (Trib. Roma, sez. Gip-Gup, decr.25.4.2021). La Corte di Cassazione (sez. II, sent. 28523/21) ha invece sottolineato l’esigenza di un intervento legislativo che sciolga i nodi non risolti dalla CGUE, la cui sentenza «sembra incapace di produrre effetti applicativi immediati e diretti a causa dell'indeterminatezza delle espressioni ivi utilizzate al fine di legittimare l'ingerenza dell'autorità pubblica nella vita privata dei cittadini».
Condividendo l’esigenza di un intervento legislativo, la segnalazione del Garante per la protezione dei dati personali del 22 luglio invitava il legislatore a “differenziare condizioni, limiti e termini di conservazione dei dati di traffico telefonico e telematico in ragione della particolare gravità del reato per cui si proceda, comunque entro periodi massimi compatibili con il su richiamato principio di proporzionalità”, subordinandone l’acquisizione “all'autorizzazione del giudice, ferma restando, nei casi d'urgenza, la possibilità per il pubblico ministero di provvedervi con proprio decreto, soggetto a convalida solo in fase successiva, sul modello dell'articolo 267, comma 2, c.p.p”. Analoghe indicazioni erano state espresse anche dall’o.d.g. 9/2670-A/10 a prima firma Costa, accolto dal Governo, nella seduta del primo aprile dell’Assemblea della Camera in sede di esame del disegno di legge europea 2019-2020.
2. Il contenuto del decreto-legge
In linea con tali indicazioni, il decreto-legge dispone, all’articolo 1, la piena giurisdizionalizzazione della procedura di acquisizione e la selezione dell’ambito oggettivo di applicazione della procedura stessa, esperibile solo nell’ambito dei procedimenti per reati connotati da una determinata gravità, in presenza di sufficienti indizi e della rilevanza dell’acquisizione ai fini della prosecuzione delle indagini.
Le differenze riscontrabili con la disciplina delle intercettazioni, che pure si mutua nelle coordinate essenziali (attinenti alla sufficienza e non alla gravità indiziaria; alla categoria dei delitti per i quali si ammettono le operazioni; alla rilevanza, anziché l’assoluta indispensabilità investigativa dei dati stessi; ai termini per la convalida nei casi d’urgenza) possono ritenersi del tutto condivisibili, in ragione della minore invasività del mezzo rispetto a quello intercettivo.
In particolare, ai fini della definizione della gravità dei reati per i quali si ammette l’acquisizione dei tabulati, pare ragionevole la previsione della comminatoria edittale massima di tre anni (considerata ad esempio ai fini della emissione del mandato d’arresto europeo dalla decisione quadro 2202/548/GAI), combinata con i parametri, da apprezzare in concreto, della sufficienza indiziaria e della rilevanza investigativa del dato da acquisire e con la previsione ad hoc dei reati di minaccia e molestie telefoniche..
Anche la disciplina della procedura d’urgenza salvaguarda, pur nella peculiarità che ne caratterizza l’oggetto, l’esigenza della giurisdizionalizzazione piena della procedura acquisitiva e della sua limitazione ai soli reati connotati da sufficiente gravità.
Il decreto-legge replica inoltre la previsione (prima presente al comma 3 dell’art. 132) dell’applicabilità della disciplina di cui all’articolo 2-undecies, comma 3, periodi da terzo a quinto del Codice, nei casi di esercizio dei diritti di cui agli articoli da 12 a 22 del Regolamento; esercizio in questi particolari casi demandato al Garante per la protezione dei dati personali in vece dell’interessato in presenza di esigenze (anche) pubblicistiche prevalenti.
3. Aspetti ulteriori
Gli aspetti ulteriori meritevoli di riflessione, anche ai fini dell’esame parlamentare del d.d.l. di conversione, riguardano, in primo luogo, l’adeguamento della disciplina della durata della conservazione dei tabulati alle indicazioni fornite dalla Corte di giustizia e, in particolare, al principio di proporzionalità enunciato in via generale dall’art. 52, p.1, CDFUE per le limitazioni dei diritti fondamentali.
Va, infatti, considerato che la direttiva CE 2006/24 (la quale prevedeva un termine massimo di conservazione di ventiquattro mesi) è stata invalidata dalla Corte per violazione, in particolare, del canone di proporzionalità (riferibile dunque anche alla durata della conservazione), secondo cui “le deroghe e le restrizioni alla tutela dei dati personali” devono intervenire “entro i limiti dello stretto necessario (sentenze del 16 dicembre 2008, Satakunnan Markkinapörssi e Satamedia, C‑73/07, EU:C:2008:727, punto 56; del 9 novembre 2010, Volker und Markus Schecke e Eifert, C‑92/09 e C‑93/09, EU:C:2010:662, punto 77; Digital Rights, punto 52, nonché del 6 ottobre 2015, Schrems, C‑362/14, EU:C:2015:650, punto 92)”.
Il termine di conservazione dei tabulati di settantadue mesi, previsto dalla disciplina vigente, andrebbe dunque ripensato alla luce di tale criterio, richiamato anche dalla più recente sentenza CGUE Privacy International del 6 ottobre 2020, C‑623/17.
Si potrebbe, inoltre, valutare l’opportunità di una giurisdizionalizzazione piena del procedimento acquisitivo dei tabulati anche a fini di prevenzione (art. 226 disp.att. c.p.p.;. 4 d.l. 144/2005, convertito con mod. dalla l. 155/2005 e s.m.i.) per il quale, forse, la competenza del Procuratore generale presso la Corte d’appello di Roma o dei procuratori distrettuali potrebbe non ritenersi del tutto in linea con la pronuncia della CGUE. E questo, anche considerando che con la citata sentenza CGUE Privacy International è stato chiarito che la disciplina privacy si applica anche alla data retention effettuata a fini di sicurezza nazionale.
Ma, soprattutto, sarebbe opportuno introdurre una disciplina transitoria che individui le modalità più corrette per condizionare l’utilizzabilità processuale dei tabulati, benché già acquisiti prima della data di entrata in vigore della novella, alla ricorrenza dei presupposti delineati dal decreto-legge, con il vaglio del giudice in sede di convalida.
Se è, infatti, necessario – come riconoscono anche buona parte delle sentenze sinora pronunciatesi – che i principi sanciti dalla Corte (e, dunque, l’attuazione propostane con il decreto-legge) trovino applicazione anche ai procedimenti in corso, spetterebbe al legislatore stabilire, senza rimetterne la soluzione ad oscillanti scelte pretorie, i riflessi della nuova disciplina sul momento valutativo della prova già acquisita secondo la previgente normativa, viziata da incompatibilità pur sopravvenuta con la giurisprudenza europea.
*dirigente del Garante per la protezione dei dati personali.
Le opinioni sono espresse a titolo personale e non impegnano l’Autorità
Il “dopo Cilfit”. Una sentenza morbida della Corte di Giustizia sul rinvio pregiudiziale del giudice di ultima istanza-Corte giust. 6 ottobre 2021,C‑561/19-.
Con sentenza pubblicata il 6 ottobre 2021 la Grande Sezione della Corte di Giustizia ha affrontato l’attesa questione della persistenza dei criteri fissati dalla sentenza Cilfit per il rinvio pregiudiziale del giudice nazionale di ultima istanza, prendendo lo spunto da un rinvio pregiudiziale sollevato dal Consiglio di Stato italiano.
Giova ricordare che la ratio principale dell’obbligo di rinvio pregiudiziale disciplinato dall’art.267, 3^ par.TFUE, è quella di impedire il formarsi o il consolidarsi di una giurisprudenza nazionale che rechi errori di interpretazione o un’erronea applicazione del diritto UE- Corte giust. 15 settembre 2005, causa C495/03, Intermodal Transports, punto 29; Corte giust.24 maggio 1977, causa C-107/76, Hoffman-La Roche, p.5-.
Tale obbligo è commisurato alla posizione strategica di cui godono le corti supreme negli ordinamenti giuridici nazionali. Infatti, nel rispetto del loro tradizionale ruolo di unificazione del diritto, dette corti sono tenute ad assicurare il rispetto, da parte degli altri giudici nazionali, della corretta ed effettiva applicazione del diritto eurounitario. Inoltre, esse si occupano degli ultimi ricorsi destinati a garantire la tutela dei diritti che il diritto UE conferisce ai singoli- Concl. Avv. Gen Yves Bot presentate il 24 aprile 2007 nella Causa C2/06-.
In questa prospettiva la risalente sentenza della Corte di Giustizia 6 ottobre 1982, Cilfit - ebbe a chiarire che i giudici nazionali le cui decisioni non possono costituire oggetto di ricorso giurisdizionale di diritto interno «sono tenuti, qualora una questione di diritto comunitario si ponga dinanzi ad essi, ad adempiere il loro obbligo di rinvio, salvo che abbiano constatato che la questione non è pertinente, o che la disposizione comunitaria di cui è causa ha già costituito oggetto di interpretazione da parte della Corte, ovvero che la corretta applicazione del diritto comunitario si impone con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi».
È dunque questo il contesto nel quale matura la decisione del 6 ottobre 2021, affidata alla Grande Sezione per l'importanza del tema trattato.
Tale sentenza, preceduta dalle conclusioni dell’Avvocato generale Bobek, alla quali la Rivista ha dedicato un approfondimento – cfr.G. Martinico-L. Pierdominici, Rivedere CILFIT? Riflessioni giuscomparatistiche sulle conclusioni dell’avvocato generale Bobek nella causa Consorzio Italian management di Giuseppe Martinico e Leonardo Pierdominici – ha affermato i seguenti principi:
L’articolo 267 TFUE deve essere interpretato nel senso che un giudice nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi ricorso giurisdizionale di diritto interno deve adempiere il proprio obbligo di sottoporre alla Corte una questione relativa all’interpretazione del diritto dell’Unione sollevata dinanzi ad esso, a meno che constati che tale questione non è rilevante o che la disposizione di diritto dell’Unione di cui trattasi è già stata oggetto d’interpretazione da parte della Corte o che la corretta interpretazione del diritto dell’Unione s’impone con tale evidenza da non lasciare adito a ragionevoli dubbi.
La configurabilità di siffatta eventualità deve essere valutata in funzione delle caratteristiche proprie del diritto dell’Unione, delle particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e del rischio di divergenze giurisprudenziali in seno all’Unione.
Tale giudice non può essere esonerato da detto obbligo per il solo motivo che ha già adito la Corte in via pregiudiziale nell’ambito del medesimo procedimento nazionale. Tuttavia, esso può astenersi dal sottoporre una questione pregiudiziale alla Corte per motivi d’irricevibilità inerenti al procedimento dinanzi a detto giudice, fatto salvo il rispetto dei principi di equivalenza e di effettività.
Riservando a successivi interventi l’analisi approfondita della pronunzia si coglie, a prima lettura, una prospettiva di apparente continuità della Corte di giustizia rispetto ai sedimentati criteri fissati per stabilire quando il giudice nazionale di ultima istanza ha l’obbligo di rimettere la decisione interpretativa alla Corte di Lussemburgo.
Rimangono, infatti, inalterati i criteri che il giudice nazionale di ultima istanza deve considerare per astenersi dal sollevare il rinvio pregiudiziale – a) quando la questione sollevata sia materialmente identica ad altra questione, sollevata in relazione ad analoga fattispecie già decisa in via pregiudiziale o nell’ambito del medesimo procedimento nazionale; b) qualora una giurisprudenza consolidata della Corte risolva il punto di diritto di cui trattasi, quale che sia la natura dei procedimenti che hanno dato luogo a tale giurisprudenza, anche in mancanza di una stretta identità delle questioni controverse; c) qualora l’interpretazione corretta del diritto dell’Unione s’imponga con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi -.
La Corte di giustizia, tuttavia, compie un evidente passo in avanti, nel tentativo di circoscrivere meglio il compito del giudice nazionale, al fine di evitare che un ricorso massiccio alla Corte di Lusseburgo possa in definitiva pregiudicare la funzione ed il ruolo della Corte di Giustizia. E lo fa sviluppando in modo articolato alcune riflessioni sul “ruolo” del giudice nazionale nel sistema di protezione offerto dalla giurisdizione nazionale UE.
In questa prospettiva la Corte UE non manca di sottolineare che per verificare se l’interpretazione del diritto UE s’imponga senza lasciare adito a ragionevoli dubbi il giudice nazionale di ultima istanza “…prima di concludere nel senso dell’esistenza di una situazione di tal genere deve maturare il convincimento che la stessa evidenza si imporrebbe altresì ai giudici di ultima istanza degli altri Stati membri e alla Corte”.
Irrompe, così, sulla scena una dimensione transanazionale della giurisdizione nazionale quando essa si occupa del diritto UE, la quale dovrà indossare un cappello che va ben oltre il suo ruolo di giudice interno per assumere davvero le vesti del giudice UE. Compito improbo, potrebbe sembrare, che tuttavia la Corte di giustizia prova a circoscrivere.
Dunque, il giudice dovrà valutare le caratteristiche proprie del diritto dell’Unione, le particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e il rischio di divergenze giurisprudenziali in seno all’Unione, senza nemmeno tralasciare le difficoltà che possono derivare dall’esistenza di divergenze linguistiche fra le disposizioni del diritto dell’Unione.
Ma la Grande Sezione si premura anche di chiarire che se un giudice nazionale di ultima istanza non può certamente essere tenuto a effettuare un esame di ciascuna delle versioni linguistiche della disposizione dell’Unione, lo stesso dovrà comunque tener conto delle divergenze tra le versioni di cui è a conoscenza, segnatamente quando tali divergenze sono esposte dalle parti e sono comprovate, senza nemmeno tralasciare di verificare se entrano in gioco nozioni autonome - regolate dal diritto UE- come anche i criteri ermeneutici proprio del diritto UE.
Solo all’esito di tali verifiche il giudice potrà ritenere l’assenza di elementi atti a far sorgere un dubbio ragionevole quanto all’interpretazione corretta del diritto dell’Unione e così astenersi dal sottoporre alla Corte di Giustizia una questione di interpretazione del diritto UE e risolverla sotto la propria responsabilità.
La Corte di giustizia non manca poi di aggiungere che la mera possibilità di effettuare una o diverse altre letture di una disposizione del diritto dell’Unione, nei limiti in cui nessuna di esse - alla luce del contesto e della finalità di detta disposizione, nonché del sistema normativo in cui essa si inserisce - appaia sufficientemente plausibile al giudice nazionale interessato, non può essere sufficiente per considerare che sussista un dubbio ragionevole quanto all’interpretazione corretta di tale disposizione.
Particolare valore assumeranno, ancora, eventuali contrasti giurisprudenziali interni al giudice di ultima istanza nazionali o tra organi giurisdizionali di Stati membri diversi relativi all’interpretazione di una disposizione del diritto dell’Unione applicabile alla controversia di cui al procedimento principale.
In definitiva, chiarisce la Corte, se l’obiettivo della procedura pregiudiziale è quello di perseguire l’unità di interpretazione del diritto dell’Unione una particolare attenzione alle caratteristiche proprio del diritto UE e delle sue ricadute in altri Paesi diversi da quello in cui sorge il dubbio sul rinvio non potrà essere trascurata.
All’individuazione dei canoni da verificare per disporre o meno il rinvio pregiudiziale la Corte UE aggiunge, in chiusura, forse quello maggiormente caratterizzante, rivolto a richiedere ai giudici di ultima istanza un’ulteriore responsabilizzazione in ordine al loro ruolo di raccordo con la Corte di giustizia. Ciò si realizza richiedendo al giudice nazionale un particolare onere motivazionale sulle ragioni che lo hanno indotto a non sollevare il rinvio pregiudiziale.
Rileva infatti la Corte che “allorché un giudice nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi ricorso giurisdizionale di diritto interno ritenga, per il fatto di trovarsi in presenza di una delle tre situazioni menzionate al punto 33 della presente sentenza, di essere esonerato dall’obbligo di effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte, previsto dall’articolo 267, terzo comma, TFUE, la motivazione della sua decisione deve far emergere o che la questione di diritto dell’Unione sollevata non è rilevante ai fini della soluzione della controversia, o che l’interpretazione della disposizione considerata del diritto dell’Unione è fondata sulla giurisprudenza della Corte, o, in mancanza di tale giurisprudenza, che l’interpretazione del diritto dell’Unione si è imposta al giudice nazionale di ultima istanza con un’evidenza tale da non lasciar adito a ragionevoli dubbi.”
In chiusura, la Corte di giustizia non manca poi di fornire risposta ai dubbi espressi dal Consiglio di Stato in ordine alla possibilità/obbligo del giudice nazionale di disporre il rinvio sulla base di motivi esposti dalle parti in violazione delle regole procedurali interne, senza che il giudice di Lussemburgo abbia sul punto fornito elementi di particolare novità rispetto alla propria sedimentata giurisprudenza. Ciò che dimostra ancora di più come il rinvio pregiudiziale deciso dalla Grande Sezione abbia costituito davvero l’occasione per modificare, senza particolari scossoni e movimenti tellurici, il sistema sedimentato attorni ai criteri Cilfit, alla ricerca di un delicato punto di equilibrio fra contrapposte esigenze dei giudici di diritti UE - nazionali e della Corte di Giustizia - coinvolti a vario titolo nel dialogo fra le Corti.
Il processo amministrativo dopo l’estate del 2021 di Francesco Volpe
Sommario: 1. Lo scopo dell’intervento. – 2. Le nuove Regole Tecniche sul processo telematico e l’istituzionalizzazione delle udienze da remoto. – 3. Il procedimento seguito per l’emanazione delle nuove Regole Tecniche, tra terzietà del giudice e partecipazione dei soggetti interessati. – 4. Inattitudine del rito da remoto a soddisfare allo scopo di smaltire l’arretrato. – 5. Il nuovo ruolo paragiurisdizionale del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa. – 6. La complicazione dei riti. - 7. Conclusioni.
1. Lo scopo dell’intervento.
La consistentissima produzione normativa che ha caratterizzato l’estate del 2021 ha toccato anche il processo amministrativo, con provvedimenti apparentemente minori e disorganici, ma che - se considerati nel loro insieme – possono produrre qualche ripercussione sull’impianto generale oltre a ispirare riflessioni più ampie sulla attuale efficacia complessiva del rito.
Cercherò di passarli in rassegna ugualmente senza pretese di organicità, salvo aggiungere qualche considerazione generale a mo’ di chiusura.
2. Le nuove Regole Tecniche sul processo telematico e l’istituzionalizzazione delle udienze da remoto.
Innanzi tutto, va segnalato che, con proprio decreto del 28 luglio 2021, il Presidente del Consiglio di Stato è tornato – per la terza volta da quando ne ha assunto la competenza – a esercitare la funzione di disciplina del processo telematico, sostituendo tutta la disciplina precedentemente in vigore.
Le differenze tra le vecchie e le nuove Regole Tecniche non sembrano sostanziali, se non per il fatto che viene data una disciplina organica delle c.d. udienze da remoto.
Ci si potrebbe stupire della cosa, posto che con il 31 luglio è cessato il regime che prevedeva tali forme di udienze, che erano state istituite in occasione dell’emergenza legata all’epidemia da Covid.
In realtà, non è così.
In ragione dell’art. 17, comma 6, d.l. 9 giugno 2021, n. 80, le udienze da remoto sono state recepite in via ordinaria, nel processo amministrativo, per quanto riguarda lo speciale rito, che lo stesso art. 17 introduce, relativo alle udienze destinate allo smaltimento dell’arretrato.
Si tratta di un processo alle cui udienze i magistrati partecipano su base volontaria, con la conseguenza che è difficile prevedere cosa possa avvenire nel caso in cui non si reperiscano adesioni in tal senso.
Ugualmente è poco chiaro, nel silenzio della legge, se la partecipazione a tali udienze sarà fatta oggetto di una particolare remunerazione e, soprattutto, se sia consentito, ai magistrati che vi prendono parte, di istruire e relazionare su controversie in eccedenza ai c.d. carichi di lavoro che, come è noto, determinano il numero massimo di questioni che il singolo magistrato può contemporaneamente seguire.
In effetti, l’art. 17 altro non dice se non che “la partecipazione dei magistrati alle udienze straordinarie di cui al comma 5 costituisce criterio preferenziale, da parte del Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa, nell’assegnazione degli incarichi conferiti d’ufficio”.
3. Il procedimento seguito per l’emanazione delle nuove Regole Tecniche, tra terzietà del giudice e partecipazione dei soggetti interessati.
Anche senza considerarne i contenuti, vi sono altri aspetti della nuova disciplina del processo telematico che meritano di essere messi in evidenza.
In effetti, il decreto in parola è stato assunto dal Presidente del Consiglio di Stato dopo aver sentito il Consiglio di Presidenza della Giustizia ammnistrativa, ma senza che siano state interpellate le “associazioni specialistiche maggiormente rappresentative”, come invece era stato previsto dall’art. 4, d.l. 30 aprile 2020, n. 28, con il quale era stato disposto il trasferimento della competenza regolatrice in materia dal Presidente del Consiglio dei Ministri al Presidente del Consiglio di Stato stesso.
L’omesso passaggio procedimentale, da un punto di vista formale, è del tutto corretto.
Infatti, il successivo art. 25, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137 ha previsto che la nuova disciplina delle regole tecniche sul p.a.t. potesse, fino al 31 luglio 2021, prescindere dai pareri previsti dal citato art. 4. In tal senso, dunque, si è proceduto, con l’emanazione delle nuove Regole Tecniche avvenuta qualche giorno prima della scadenza di detto termine.
Sul punto, tuttavia, mi sembra di cogliere una sostanziale incoerenza di fondo. Tanto il d.l. n. 28/2020 quanto il d.l. n. 137/2020 appartengono alla normativa emergenziale, collegata alla vicenda epidemica. È dunque difficile comprendere perché un parere che, nell’aprile 2020 (d.l. n. 28), non era considerato pregiudizievole tenendo conto delle necessità di quel momento sia diventato tale a ottobre dello stesso anno (d.l. n. 137/2020) e in circostanze storiche pressoché invariate.
Tanto più che, quando il trasferimento delle competenze venne attuato, vi fu chi criticò la misura (e riconosco di essere stato tra quelli). Si era sostenuto, infatti, che il giudice deve essere terzo sia rispetto alle parti sia rispetto alla normativa, sostanziale e processuale, che è chiamato ad applicare, a pena di sbilanciare la posizione delle parti nel processo.
I dubbi che allora emersero vennero tuttavia tacitati proprio in ragione della maggiore incisività che avrebbero avuto le associazioni professionali di categoria, per il mezzo dell’indicato parere. I rischi collegati alla minore terzietà del giudice venivano, in un certo senso, compensati da una maggiore partecipazione del ceto forense nel processo decisionale, che avrebbe dovuto in un certo senso evitare l’introduzione di una disciplina troppo sbilanciata.
Constatare che, sia pure in una fase transitoria (ma che poi ha concretamene condotto a una disciplina - quella dettata dal decreto del 28 luglio 2021 - destinata a rimanere permanentemente), tale partecipazione sia stata superata porta a concludere che anche quella sorta di compensazione sia venuta meno e che, con il passaggio di funzioni di cui ho fatto cenno, siano rimasti solo gli aspetti potenzialmente pregiudizievoli.
4. Inattitudine del rito da remoto a soddisfare allo scopo di smaltire l’arretrato.
Proprio con riguardo alle udienze da remoto, il processo amministrativo è l’unico rito che, dal 31 luglio 2021, le ha abbandonate (nella qual cosa io ravviso un elemento del tutto positivo).
Questo, però, per quanto sopra detto, non vale per le future udienze di smaltimento, le quali, invece, si dovranno svolgere necessariamente da remoto. Se, dunque, sono state perse le udienze da remoto emergenziali, per altro aspetto, il processo amministrativo è finora l’unico rito che ha introdotto le medesime udienze da remoto in via ordinaria.
È mia opinione, tuttavia, che tale novità – in disparte ogni dubbio sulle udienze da remoto in sé e sulle conseguenze che le stesse possono potenzialmente causa sulla effettiva collegialità delle decisioni – possa servire ben poco a ridurre l’arretrato.
Da un lato, infatti, non è la forma dell’udienza quel che rallenta i processi.
Per altro verso, non è chiaro, appunto, se la previsione di dette udienze da remoto e di smaltimento consentirà di superare i tetti ai carichi di lavoro dei magistrati, che, se invece permanessero, costituirebbero il vero collo di bottiglia, preclusivo di ogni possibilità di eliminare l’arretrato accumulato.
Sullo sfondo, peraltro, vi è anche il tema dell’Ufficio del processo, per il quale si stanno impegnando tante risorse, volte al reclutamento di molti assistenti di curia. A questi dovrebbe essere preclusa una diretta partecipazione alle decisioni giudiziarie e anche alla semplice stesura dei testi di sentenza, sia pure in conformità a quanto stabilito nelle collegiali camere di consiglio.
È da augurarsi che detto Ufficio conservi tale sua ristretta funzione. Perché, se è vero che una più ampia partecipazione degli assistenti di curia all’attività giurisdizionale potrebbe, effettivamente, contribuire a smaltire l’arretrato (tanto più se ciò avvenisse insieme allo svolgimento di ampie udienze di smaltimento, preliminari a sentenze la cui stesura fosse così risolta), per altro verso esporrebbe a rischi non preventivabili sia in termini di qualità delle pronunce assunte sia, soprattutto, perché l’esercizio della funzione giurisdizionale è collegata a garanzie di un certo rilievo che così verrebbero omesse.
5. Il nuovo ruolo paragiurisdizionale del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa.
Merita, ancora, di essere messo in rilievo (perché anch’esso collegato con le udienze di smaltimento), quanto è previsto dall’art. 17, d.l. 9 giugno 2021, secondo il quale “ferme restando le udienze straordinarie annualmente individuate dal Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa ai sensi dell’articolo 16, comma 1, delle norme di attuazione del codice del processo amministrativo, di cui all’allegato 2 al decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104, al fine della trattazione dei procedimenti di cui all’articolo 11, comma 1, del presente decreto, sono programmate dal Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa ulteriori udienze straordinarie, in un numero necessario e sufficiente al fine di assicurare il raggiungimento degli obiettivi stabiliti, per la Giustizia amministrativa, dal PNRR. A tal fine, il Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa aggiorna il numero di affari da assegnare al presidente del collegio e ai magistrati componenti dei collegi”.
La disposizione si segnala per la partecipazione diretta del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa alla programmazione delle udienze dei giudici amministrativi e addirittura alla determinazione del numero di affari da assegnare ai singoli magistrati.
Premesso che il richiamo all’art. 16 delle disposizioni di attuazione del codice di rito appare, quanto meno, improprio (l’art. 16 non prevede, infatti, nessuna preesistente competenza del Consiglio di Presidenza in tal senso), la disposizione pare inopportuna perché, per ragioni di indipendenza dei giudicanti, l’organo di autogoverno della magistratura amministrativa – anche perché esso è in gran parte elettivo ed è composto da laici designati dalle Camere – non dovrebbe poter partecipare, neppure indirettamente, allo svolgimento delle funzioni giurisdizionali e alle competenze che, altrimenti, sarebbero proprie dei Presidenti dei singoli collegi.
Come per gli assistenti di curia, vale anche qui ripetere che è necessario tenere distinti i ruoli e le funzioni, perché su tale distinzione riposano ben precise garanzie.
6. La complicazione dei riti.
L’introduzione di uno speciale rito da remoto, destinato allo smaltimento dell’arretrato porta in ogni caso a formulare alcune riflessioni di carattere più generale e a constatare che si è ulteriormente diversificato e complicato il modo con cui il processo ammnistrativo può giungere a sentenza.
Rispetto al tradizionale schema, oggi si può giungere a sentenza in molti altri modi, con termini e specificità diversi da caso a caso.
Vediamo qui di trattarli in rassegna.
a) Vi è innanzi tutto il sistema ordinario.
È quello tradizionale, a cui fa riferimento l’art. 71 c.p.a.
Il Presidente della Sezione, decorso il termine dilatorio di sessanta giorni dalla ricevuta notificazione del ricorso per la costituzione delle parti intimate, fissa l’udienza pubblica, dandone comunicazione alle parti costituite almeno sessanta giorni prima. Seguono termini, calcolati a ritroso dall’udienza, di quaranta giorni liberi per la produzione di documenti, di trenta per le memorie e di venti per le repliche.
b) Vi è poi il sistema ordinario accelerato.
È disciplinato anch’esso dall’art. 71 e differisce dal primo perché il termine di comunicazione dell’udienza di trattazione può essere ridotto fino a quarantacinque giorni, per il caso in cui, su accordo delle parti, l’udienza di merito sia stata fissata a seguito di rinuncia alla definizione autonoma della domanda cautelare.
Tutti gli altri termini rimangono invariati.
c) Sussiste quindi la definizione in sede di trattazione della domanda cautelare.
L’istituto – infelice erede del rito veneziano - è previsto dall’art. 60 c.p.a. e implica che siano trascorsi almeno venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso; che sussista la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria e che siano sentite sul punto le parti costituite.
La decisione è assunta in forma semplificata e in Camera di consiglio (ma la forma dell’udienza pubblica non costituisce ragione di nullità della sentenza: art. 87, comma 4, c.p.a.).
Il giudice, nel procedere in tal senso, non è vincolato alle domande delle parti, alle quali è consentito di opporsi con conseguenze vincolanti per il collegio solo quando esse dichiarino che intendono proporre motivi aggiunti, ricorso incidentale, regolamento di competenza, ovvero regolamento di giurisdizione. In tal caso, il collegio fissa la data per il prosieguo della trattazione in altra Camera di consiglio, fissata all’esito di tali incombenti (come pure all’esito dell’eventuale integrazione del contraddittorio).
d) Ancora, va ricordata la definizione a seguito di istanza di prelievo.
L’istituto è disciplinato dall’art. 71 – bis c.p.a., introdotto dall’art. 1, comma 781, lett. b), l. 28 dicembre 2015, n. 208.
Esso presuppone, appunto, la presentazione di detta istanza, in conseguenza della quale il giudice, accertata la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria e sentite sul punto le parti costituite, fissa udienza di Camera di consiglio per decidere la controversia.
Trattandosi, appunto, di rito in Camera di consiglio, si applica l’art. 87 c.p.a. Perciò i termini per il deposito delle memorie e dei documenti sono dimezzati.
e) Oggi esiste anche la definizione a seguito di udienza di smaltimento.
Costituisce appunto una delle novità introdotte dall’art. 17, d.l. n. 80/2021 e di cui ho già fatto cenno.
Il rito non si può applicare alle controversie disciplinate dagli artt. da 112 a 117 c.p.a. e, pertanto, non può riguardare le liti per l’ottemperanza, quelle per l’accesso e quelle contro il silenzio inadempimento.
Le udienze si svolgono da remoto e in camera di consiglio.
Nonostante il rito consiliare, a queste liti non si applica l’art. 87, comma 3, c.p.a., salvo che per l’ultimo periodo di tale disposizione.
Pertanto, se le parti possono chiedere di essere sentite in udienza (art. 87, comma 3, ultimo periodo, cit.), non vale invece la dimidiazione dei termini per i depositi.
Ovviamente, trattandosi di liti giacenti in arretrato e, quindi, pendenti da tempo, non trova applicazione neppure l’art. 87, comma 3, c.p.a., nella parte in cui esso stabilisce che il giudice è tenuto a fissare la lite nella prima Camera di consiglio utile, decorsi trenta giorni dal termine di costituzione di tutte le parti.
f) Ancora, vi è il rito per la definizione dei ricorsi suscettibili di immediata definizione.
Anche questa è una novità introdotta dall’art. 17, d.l. n. 80/2021, che ha inserito un art. 72 – bis nel codice di rito, secondo il quale, “il presidente, quando i ricorsi siano suscettibili di immediata definizione, anche a seguito della segnalazione dell’ufficio per il processo, fissa la trattazione alla prima camera di consiglio successiva al ventesimo giorno dal perfezionamento, anche per il destinatario, dell’ultima notificazione e, altresì, al decimo giorno dal deposito del ricorso. Le parti possono depositare memorie e documenti fino a due giorni liberi prima della camera di consiglio. Salvi eccezionali motivi, non è possibile chiedere il rinvio della trattazione della causa. Se è concesso il rinvio, la trattazione del ricorso è fissata alla prima camera di consiglio utile successiva. Se è possibile definire la causa in rito, in mancanza di eccezioni delle parti, il collegio sottopone la relativa questione alle parti presenti. Nei casi di particolare complessità della questione sollevata, il collegio, con ordinanza, assegna un termine non superiore a venti giorni per il deposito di memorie. La causa è decisa alla scadenza del termine, senza che sia necessario convocare un’ulteriore camera di consiglio. Se la causa non è definibile in rito, il collegio con ordinanza fissa la data dell’udienza pubblica. In ogni caso la decisione è adottata con sentenza in forma semplificata”.
Si tratta, come sembra evidente, di un rito destinato a colpire quelle controversie afflitte da ragioni riconducibili all’art. 35 c.p.a., come tali insuscettibili di portare a qualunque decisione di merito, dal momento che, ove si pongano questioni di detto ultimo tipo, il rito si converte nel rito ordinario.
g) Tra i vari modi con cui la lite può giungere a sentenza, si segnala anche quello che procedere dalla esecuzione dell’accoglimento della domanda cautelare.
L’istituto trova fondamento nell’art. 55, comma 10, c.p.a, secondo il quale “il tribunale amministrativo regionale, in sede cautelare, se ritiene che le esigenze del ricorrente siano apprezzabili favorevolmente e tutelabili adeguatamente con la sollecita definizione del giudizio nel merito, fissa con ordinanza collegiale la data della discussione del ricorso nel merito. Nello stesso senso può provvedere il Consiglio di Stato, motivando sulle ragioni per cui ritiene di riformare l'ordinanza cautelare di primo grado; in tal caso, la pronuncia di appello è trasmessa al tribunale amministrativo regionale per la sollecita fissazione dell'udienza di merito”.
Quello così pronunciato è un vero e proprio provvedimento di accoglimento della domanda cautelare, il cui contenuto consiste, paradossalmente, proprio nella fissazione dell’udienza di merito. All’udienza così fissata si applicano i termini previsti dall’art. 71 c.p.a.
h) Vi sono, infine, i riti non codificati.
Non è infrequente, infatti, che, presso i diversi organi giurisdizionali, si applichino schemi che non trovano un formale recepimento esplicito nel codice.
Tra questi si segnalano quelli che procedono dalle udienze di verifica dell’interesse a proseguire nel processo (talora informalmente definite anch’esse “udienze di smaltimento”). Queste sono una specie di udienze filtro o di smistamento, alle quali le parti sono invitate a dichiarare se permane l’interesse processuale. Per il caso in cui la dichiarazione sia negativa, la lite viene immediatamente definita in rito; altrimenti viene fissata nuova e ulteriore udienza.
Sono noti anche riti non codificati che procedono da decreti di verifica dell’interesse, assunti dal Presidente della Sezione o da un magistrato delegato, in applicazione (esplicita o implicita, ma in ogni caso piuttosto estensiva) dell’art. 68, comma 2, in materia di istruttoria. Essi, in ragione delle risposte che al decreto vengono date, portano talora a decreti di estinzione del giudizio o alla fissazione di udienze di smaltimento o ancora alla fissazione di normali udienze pubbliche di trattazione.
Da ultimo, è noto l’istituto del rinvio al merito, che trae spunto da un’udienza di trattazione della domanda cautelare, ma che non sembra potersi identificare né con un provvedimento pronunciato ex art. 55, comma 10, c.p.a., né con una sorta di rinuncia alla sospensiva in cambio dell’udienza di merito (ipotesi a cui, per quanto si è già detto, fa riferimento l’art. 71 c.p.a. per il caso in cui il Presidente anticipi fino a quarantacinque giorni la comunicazione della fissazione dell’Udienza).
A tutti questi diversi riti, che riguardano le controversie ordinarie, si aggiungono poi gli istituti relativi ai riti speciali e quindi:
a) alle controversie sul silenzio (31 e 117 c.p.a.),
b) a quelle sull’ottemperanza (112-114 c.p.a),
c) a quelle sull’accesso (116 c.p.a.),
d) a quelle con termini dimezzati (119 c.p.a.),
e) a quelle sui contratti pubblici (120 e s. c.p.a.) e,
f) a quelle sul contenzioso elettorale (126 e s. c.p.a.), a loro volta distinte secondo che,
f1) riguardino le operazioni elettorali o
f2) gli atti preparatori delle elezioni.
Infine, in ragione della domanda specificamente fatta valere e quindi secondo che si tratti di una domanda relativa:
a) all’ annullamento,
b) alla nullità,
c) al silenzio inadempimento
d) alla condanna al risarcimento del danno, d1), in via autonoma o,
d2), contestuale all’azione di annullamento o all’azione sul silenzio,
e) all’appello nelle controversie ex artt. 119 e 120 c.p.a.,
f) alle cause di primo grado nelle controversie ex art. 120 c.p.a.
e) alle controversie sull’ottemperanza,
f) alle controversie per l’accesso ai documenti amministrativi,
g) alle controversie sulle operazioni elettorali,
h) alle controversie sugli atti preparatori alle elezioni,
variano anche i termini di notificazione del ricorso introduttivo della lite o del grado di giudizio.
Come si comprende, anche in ragione degli interventi legislativi recenti, che hanno aggravato una situazione già pesantemente compromessa, il processo amministrativo oggi è un vero e proprio dedalo, ben diverso dal sistema con il quale era stato originariamente ideato.
Quello attuale, invece, è un sistema intriso di decadenze che possono risultare pregiudizievoli per le parti.
Esso, inoltre, può condurre a sentenze nate vecchie, perché formatesi su pericolose preclusioni (si consideri anche l’art. 104, comma 2, c.p.a.) che impediscono di fotografare la fattispecie sostanziale qual è sussistente al momento della pronuncia della sentenza, con la costituzione di vincoli conformativi essi stessi inattuali.
Né sembra del tutto persuasivo sostenere che questa varietà di riti sia compensata dalla necessità di portare a compimento, entro un ragionevole tempo, i processi, perché, infine, tutto ciò dipende da quando il giudice fissa l’udienza di trattazione della causa, tanto più che, entro certi limiti, spetta a questi decidere il rito più opportuno.
L’esperienza, tuttavia, sembra suggerire che proprio in questi non infrequenti ritardi vada ravvisata la principale causa dell’intempestività del processo amministrativo, vieppiù acuita dal fatto che talune controversie (quelle in materie di appalti) - viaggiando su binari che, per volontà di legge, sono assai più veloci - finiscono per rallentare lo svolgimento di tutte le restanti.
7. Conclusioni
La nuova disciplina delle Regole Tecniche sul processo telematico, peraltro, ha contribuito a mettere in luce anche ulteriori riforme di questi mesi, alle quali, forse, è il caso di prestare una certa attenzione. - Che conclusioni trarre dal panorama che emerge e su cui si innestano le riforme dell’estate del 2021?
In primo luogo, a me pare che si debba osservare che, attraverso misure apparentemente di dettaglio, la stagione covidica stia consegnando interventi sul processo amministrativo che potrebbero sortire conseguenze piuttosto preoccupanti quanto all’indipendenza e alla terzietà del giudice. Questo vale sostenere soprattutto con riguardo al modo con cui viene attuata la disciplina del processo telematico e al modo con cui il Consiglio di Presidenza è chiamato a partecipare alla programmazione delle udienze e delle attività dei magistrati.
Né deve rassicurare l’onestà intellettuale di è concretamente chiamato a dare esecuzione a queste nuove norme, perché le istituzioni non possono reggersi sulla contingente probità degli individui e perché, infine, vale anche a questo proposito quello fu detto della moglie di Cesare.
In secondo luogo – con riferimento al variegato panorama di riti che stanno cumulandosi – viene a rafforzarsi ulteriormente la convinzione che è sempre più necessario affrontare una radicale e generale riforma del processo, volta a semplificarne lo svolgimento e a introdurre strumenti di sua accelerazione effettivi e non puramente formalistici.
LE TABELLE DEGLI UFFICI GIUDIZIARI – Quarta parte -Le tabelle della Corte di Cassazione e il benessere organizzativo
di Gianfranco Gilardi
Sommario: 1. Le tabelle della Corte di Cassazione. – 2. Le disposizioni sul “benessere organizzativo”.
1. Le tabelle della Corte di Cassazione
Come si è ricordato (supra, par. 3) a partire dalla circolare n. 6308/1987 le regole tabellari sono state gradualmente estese – non senza resistenze da parte dei “vertici” dell’Ufficio - anche alla Corte di cassazione, fatti salvi gli adattamenti imposti dalle peculiarità delle funzioni svolte dal giudice di legittimità.
Alla formazione delle tabelle della Corte di cassazione è dedicato l’intero Titolo III (artt. 220 -255) della circolare vigente, che contiene tra l’altro analitiche indicazioni in ordine all’Ufficio del Massimario e del ruolo, ai suoi compiti istituzionali ed alla relativa organizzazione[1].
Le direttive dettate per la Corte di cassazione sono conseguenti anche alle modifiche processuali introdotte dal decreto-legge n. 168/2016 sull’”efficientamento della giustizia”, convertito dalla legge n. 197/2016 e contengono alcune tra le principali novità della nuova circolare con la quale il CSM ha inteso delineare, nei limiti delle proprie competenze istituzionali, alcuni percorsi organizzativi idonei a far fronte al grave stato di crisi della Suprema Corte.
In particolare:
* negli artt. 221-222 si specifica che, ai fini della designazione dei presidenti titolari delle sezioni, dovrà tenersi conto della capacità organizzativa dei candidati valutata sulla base della pregressa attività e dei risultati ottenuti nell’esercizio delle funzioni giudiziarie, della capacità professionale, desunta anche dalla qualità dei provvedimenti redatti e della dimostrata disponibilità alle esigenze dell’ufficio[2], e che nella proposta vanno indicati gli incarichi conferiti, nell'ambito di ciascuna sezione, ai Presidenti di sezione, nonché le modalità con cui essi collaborano con il Presidente titolare all’organizzazione della Sezione, anche al fine di evitare l’insorgere di contrasti inconsapevoli tra le decisioni e di determinare criteri omogenei ed efficaci con cui individuare i processi destinati alla pubblica udienza e quelli assoggettati al rito camerale.
* negli artt. 223 - 226 vengono regolate la ripartizione delle materie tra le diverse sezioni[3], quella degli affari relativi ad una stessa materia che sia attribuita a più sezioni, l’assegnazione alle c.d. “sezioni filtro”[4] e la proposta di organizzazione relativa al periodo feriale;
* negli artt. 229 - 232 sono contenute le disposizioni relative ai calendari di udienza, alla costituzione dei collegi ed all’assegnazione degli affari, tutte ispirate all’esigenza di rispetto di criteri oggettivi, predeterminati e verificabili[5] ed a quella dell’equilibrata assegnazione dei magistrati sia alla pubblica udienza sia alla camera di consiglio[6]. I procedimenti penali concernenti reati di criminalità organizzata debbono essere distribuiti tra le diverse sezioni e, nell’ambito della stessa sezione, tra i diversi collegi, secondo criteri predeterminati che garantiscano una periodica rotazione sia delle sezioni, sia dei presidenti e componenti dei singoli collegi della sezione.
* negli artt. 233-237 sono indicate le regole tabellari relative alla composizione delle sezioni unite civili e penali; ai criteri di assegnazione ad esse ed al numero massimo di permanenza di ciascun componente[7]; alla formazione dei collegi ed all’assegnazione degli affari; ai coordinatori delle sezioni unite;
* negli artt. 238-255 è analiticamente disciplinata la materia concernente l’Ufficio del Massimario e del ruolo, con l’indicazione dei relativi compiti istituzionali[8]; della composizione[9]; degli incarichi apicali e di collaborazione interna; dei criteri di assegnazione degli affari, che debbono in ogni caso assicurare la turnazione nello svolgimento dei compiti dell'ufficio; dei magistrati con compiti di assistente di studio[10]; dei criteri di valutazione per la loro scelta o per la destinazione d’ufficio; l’applicazione alle sezioni per lo svolgimento delle funzioni giurisdizionali di legittimità[11] e le disposizioni inerenti alla procedura relativa.
Le funzioni consultive tabellari svolte per i distretti di Corte d’appello dai Consigli giudiziari, sono devolute - per quanto concerne la Corte di cassazione - al Consiglio direttivo (le cui prime elezioni si tennero nella primavera del 2008), anteriormente alla cui istituzione sulla proposta organizzativa dell’Ufficio veniva acquisito il parere di un “Gruppo consultivo” istituito con decreto del Primo Presidente a seguito dell’assemblea generale della Corte del 23 aprile 1999.
Rispetto al “gruppo consultivo”, il nuovo organo si è posto, in qualche modo, in relazione di continuità; ma nello stesso tempo ne ha segnato anche la discontinuità in quanto alla legittimazione ufficiosa e quasi incerta del primo, si è contrapposta la legittimazione piena derivante dall’esplicito riconoscimento legislativo, con una immediata collocazione del consiglio direttivo nel solco dell’esperienza dei consigli giudiziari, cui il legislatore li ha accomunati anche nell’iter di riforma dell’ord. giud. che portò a modificarne composizione e competenze ed a limitarne, con la legge 111/2007, l’originaria configurazione di organo decentrato della giurisdizione.
Il Consiglio direttivo (che è nato tra l’altro nel segno dell’importante novità costituita dalla presenza al suo interno di “componenti” laici per l’esercizio di alcune competenze - ed anzi, per quanto riguarda il presidente del Consiglio nazionale forense, per tutte le competenze - e si è dotato di un proprio Regolamento, in attuazione dell’art. 3, 1° co. del d.lgs. 25/2006, come modificato dalla legge 111/2007) deve essere pertanto collocato a pieno titolo nel novero degli organi cui sono affidati compiti amministrativi strumentali all’esercizio della giurisdizione, la cui caratteristica essenziale non è solo quella del “bilanciamento” o del “controllo”, quanto insieme di concorrere, anche mediante l’esercizio di tali funzioni, alla realizzazione del governo autonomo responsabile, efficace, effettivo e trasparente.
I pareri per le valutazioni di professionalità dei magistrati ai sensi dell'articolo 11 del d.lg. 160/2006 e successive modificazioni e, soprattutto, quelli relativi alla tabella della Corte di cassazione[12], ai criteri per l'assegnazione degli affari ed alla sostituzione dei giudici assenti o impediti[13], costituiscono lo snodo attraverso il quale si è radicata la funzione del consiglio direttivo non solo come organo di garanzia rispetto al principio del giudice naturale, ma anche come interlocutore qualificato dal punto di vista della razionalità organizzativa dell’Ufficio, della funzionalità del servizio e del rilievo delle cause di eventuali carenze e disfunzioni; di talché il Consiglio direttivo si è posto quale fattore dinamico dei processi di autoorganizzazione e quale tramite per utilizzare al meglio le pur scarse risorse esistenti. La coesistenza, nell’attuale assetto normativo, di un duplicità di funzioni della Cassazione riconducibili, da un lato, alla garanzia di corretta applicazione del diritto all’interno nel singolo processo e, dall’altro, a quella di corretta applicazione del diritto obiettivo, costituisce la premessa per scelte conseguenziali sul piano organizzativo, indirizzando verso un’opera di selezione dei ricorsi e delle forme decisorie non limitata alla individuazione dei casi di inammissibilità e di manifesta fondatezza o infondatezza ma, più in generale, all’individuazione dei casi che (per quanto simili distinzioni presentino sempre margini di opinabilità) non si caratterizzano per profili di particolare novità e di quelli che, viceversa, richiedono maggiori approfondimenti e comportano scelte più impegnative sul piano interpretativo o perché relative ad aspetti mai prima esaminati, o per la necessità di prevenire o superare contrasti[14]: con effetti positivi, tra l’altro, quanto alla riduzione della forbice relativa alla durata media dei processi; alla realizzazione di “economie di scala” connesse al risparmio di inutili duplicazioni di lavoro e di incombenti; alla possibilità di svolgere in modo più efficace (con la decisione anticipata di ricorsi di carattere seriale, in relazione ai quali una sollecita risposta della Corte potrebbe agire da argine al loro moltiplicarsi) una funzione di orientamento destinata ad esplicarsi anche verso il futuro anziché limitarsi – come oggi continua troppo spesso ad accadere – ad una “nomofilachia rivolta solo al passato”.
L’obiettivo di coniugare maggiore celerità nella decisione e qualità della risposta, contrastando la tendenza a ricercarla unicamente sul piano dei numeri e dei tempi, o a spostarla direttamente sul terreno improprio dei “carichi massimi esigibili” (che pure esprime un problema reale, dovendosi riconoscere con onestà e chiarezza che esiste un limite fisiologico alla capacità della Corte di esaminare seriamente le questioni che le vengono sottoposte) deve essere affidato, in primo luogo, ad una più idoneo impiego delle risorse. In relazione a ciò, sottolineando come l’istituzione della “Struttura” per lo spoglio centralizzato dei ricorsi e la definizione di quelli indirizzati verso la procedura camerale per manifesta inammissibilità infondatezza o fondatezza, costituisse un’importante innovazione che aveva contribuito alla definizione di una significativa percentuale di ricorsi, all’elaborazione di proficui metodi di lavoro collegiale ed all’elaborazione di forme di motivazione semplici ed essenziali, nella prima edizione di quest’opera formulavamo l’auspicio che la “struttura” si trasformasse in un’articolazione organizzativa, opportunamente dotata sul piano dell’informatizzazione ed adeguatamente potenziata quanto a personale di supporto, idonea a procedere ad una "schedatura“ dei ricorsi sin dal momento del loro deposito, ad identificare le questioni seriali o comunque già risolte, ad individuare questioni (o filoni di questioni) per favorire la formazione di collegi secondo criteri di concentrazione ed incanalare i ricorsi - senza necessità di successive classificazioni - verso il relativo percorso decisorio.
Com’è noto (e per concludere su questo argomento), con l’art. 47 comma 1 lett. b) della legge n. 69/2009 il primo comma dell’art. 376 c.p.c. (“i ricorsi sono assegnati alle sezioni unite o alle sezioni semplici dal primo presidente”) è stato sostituito con la previsione secondo cui “il primo presidente, tranne quando ricorrano le condizioni previste dall’articolo 374, assegna i ricorsi ad apposita sezione [15], la quale verifica la sussistenza dei presupposti per la pronuncia in camera di consiglio ai sensi dell’articolo 375, primo comma, numeri 1) e 5)”. Se poi, “ad un sommario esame del ricorso, la suddetta sezione non ravvisa tali presupposti, il presidente, omessa ogni formalità, rimette gli atti alla sezione semplice” [16]. E’ peraltro da rilevare che, in base alle proposte per la riforma della giustizia richiamate alla nota 103, i riti camerali, attualmente disciplinati dagli articoli 380-bis (“Procedimento per la decisione in camera di consiglio sull’inammissibilità o sulla manifesta fondatezza o infondatezza del ricorso”) e 380-bis.1 cpc (“Procedimento per la decisione in camera di consiglio dinanzi alla sezione semplice”), verrebbero unificati, con conseguente soppressione (non si sa quanto opportunamente) della sezione di cui all’articolo 376 cpc e concentrazione della relativa competenza dinanzi alle sezioni semplici.
2. Le disposizioni sul “benessere organizzativo”
Nel Titolo IV, artt. 256 -270 della circolare, vengono dettate le disposizioni relative al “benessere organizzativo” alla “tutela della genitorialità” ed alla tutela della salute, dando una sistemazione più organica a materie che prima erano disciplinate in modo sparso ed incompleto all’interno delle circolari relative all’organizzazione degli uffici[17].
Premesso che l'organizzazione dell'ufficio deve garantire “il benessere fisico, psicologico e sociale dei magistrati”; che a protezione del nucleo familiare le misure organizzative debbono tener conto “dello stato di gravidanza, maternità, paternità e malattia dei magistrati”; che esse debbono tutelare i magistrati genitori di prole con handicap o che comunque assistano un familiare con handicap nonché tutelare i magistrati che abbiano documentati motivi di salute tali da poter impedire lo svolgimento di alcune specifiche attività di ufficio, nella circolare è previsto che il dirigente dell'ufficio:
* debba attivarsi, oltre che per raggiungere obiettivi di efficacia e di produttività, anche per mantenere il benessere fisico e psicologico dei magistrati, attraverso la costruzione di ambienti e relazioni di lavoro che contribuiscano al miglioramento della qualità della loro vita professionale;
* valorizzi le competenze e gli apporti dei magistrati all'organizzazione, coinvolgendoli nelle scelte organizzative dell'ufficio incidenti sulla loro attività lavorativa e mettendo a disposizione le informazioni pertinenti il loro lavoro;
* si adoperi per mantenere un clima relazionale sereno, valorizzando le competenze e gli apporti dei magistrati all'organizzazione, coinvolgendoli nelle scelte organizzative dell'ufficio incidenti sulla loro attività lavorativa e nei progetti di innovazione, risolvendo la presenza di situazioni conflittuali con l’ausilio dei presidenti di sezione ed assicurando l'equa distribuzione dei carichi di lavoro;
* nell’organizzazione dell’ufficio tenga conto delle esigenze connesse a situazioni di gravidanza e maternità e, più in generale, della compatibilità del lavoro con le necessità personali, familiari ed i doveri di assistenza gravanti sui magistrati, con particolare riferimento alle condizioni di coloro che provvedano alla cura di figli minori, anche non in via esclusiva o prevalente e fino a sei anni di età degli stessi. Tali condizioni soggettive non devono costituire occasione di pregiudizio nel concreto atteggiarsi delle modalità di svolgimento della vita professionale.
Le diverse modalità organizzative (da adottare previo asciolto dei magistrati interessati) non potranno comportare una riduzione del lavoro, ed eventuali esoneri saranno compensati da attività maggiormente compatibili con la condizione del magistrato.
In assenza del consenso degli interessati, non può essere disposto il mutamento delle funzioni tabellari, né della sede di esercizio delle funzioni per i magistrati in maternità o che provvedano alla cura di figli minori, in via esclusiva o prevalente e fino a sei anni di età degli stessi.
I magistrati con prole di età inferiore a sei anni debbono essere esentati da ogni attività o incombenza ulteriore rispetto all’ordinaria attività giudiziaria, salva la disponibilità da essi manifestata.
Analoghe misure sono assunte anche a favore dei magistrati che abbiano documentati motivi di salute tali da impedire loro lo svolgimento di alcune attività di ufficio, nonché a favore dei magistrati genitori di prole con situazione di handicap accertata ai sensi della legge 5 febbraio 1992, n. 104.
Le previsioni per la tutela della genitorialità dei figli minori fino a sei anni possono essere derogate se il dirigente, con provvedimento che dia conto di esigenze non altrimenti garantite, rilevi motivatamente l’insostenibilità della misura organizzativa prevista per la piena tutela della genitorialità. In tali casi resta comunque salva la piena applicabilità delle menzionate previsioni a tutela della genitorialità di figli sino a tre anni.
Nell’organizzazione degli uffici si deve tener conto, altresì, delle esigenze del magistrato connesse alla assistenza dei prossimi congiunti affetti da gravi patologie, quando non vi siano altri familiari che possano provvedervi.
Nell'individuare le specifiche modalità con cui dare concreta attuazione alle disposizioni poste a tutela della genitorialità, i dirigenti si ispirano a criteri di flessibilità organizzativa; e negli artt.266 e 267 della circolare sono indicate esemplificativamente le modalità con cui dare concreta attuazione alla tutela della genitorialità nel settore civile ed in quello penale.
Nel periodo di congedo di maternità, paternità o parentale di cui agli articoli 16, 17, 28 e 32 del d.lgs. n. 151/2001, al magistrato non possono essere assegnati affari, anche di immediata e urgente trattazione, salvo che si provveda alla sua sostituzione[18].
Il periodo di astensione obbligatoria per congedo parentale e quello per congedo di paternità o parentale di durata superiore a tre mesi determinano la sospensione dei termini di permanenza massima nell'ufficio di appartenenza.
Qualora il settore di servizio in cui opera il magistrato non consenta una organizzazione compatibile con le esigenze di famiglia questi, a sua domanda, può essere assegnato, in via temporanea ed eventualmente anche in soprannumero rispetto alla pianta organica della sezione, ad altro settore nell'ambito del medesimo ufficio, mantenendo il diritto a rientrare nel settore di provenienza.
Le disposizioni relative alla tutela della genitorialità si applicano anche a favore dei magistrati che abbiano documentati motivi di salute tali da impedire loro lo svolgimento di alcune attività di ufficio, nonché a favore dei magistrati genitori di prole con handicap o che comunque assistano un familiare con handicap, accertato ai sensi della legge 5 febbraio 1992, n. 104.
In caso di gravi patologie del magistrato o dei suoi figli, e di conseguente riconoscimento di eventuali esoneri, l’assegnazione di attività compensative potrà essere differita, entro il termine massimo di sei mesi, al fine di renderla effettivamente compatibile con le condizioni di salute del magistrato o con la sua situazione familiare rilevante nei termini di cui sopra.
[1] Dal 1941 il numero di magistrati addetti all’Ufficio del Massimario e del Ruolo è progressivamente aumentato. Con il d.l. n. 69 del 2013 convertito in legge n. 98 del 2013, l’Ufficio è stato interessato da un incisivo incremento di organico (da 37 a 67 unità) perché in esso è stata inserita la nuova figura degli “assistenti di studio” che, inquadrati presso l’Ufficio del Massimario, svolgono funzioni di assistenza presso le sezioni della Corte, collaborando alla formazione dei ruoli d’udienza, alla redazione di progetti di provvedimenti su singoli ricorsi e di relazioni sugli orientamenti della giurisprudenza, nonché all’attività di “spoglio” e formazione dei ruoli di udienza. Ancora più recentemente, il d.l. n. 168 del 2016, convertito in legge n. 197 del 2016, oltre a prevedere rilevanti modifiche del rito civile in cassazione ed a rivedere i tirocini formativi presso la Corte e la Procura generale, ha aggiunto all’art. 15, r.d. n. 12 del 1941 altri due commi, riguardanti l’applicazione dei magistrati del Massimario ai collegi per lo svolgimento delle funzioni giurisdizionali di legittimità.
Con l’art. 6 del disegno di legge “Bonafede” l’organico dell’Ufficio del Massimario verrebbe notevolmente ridimensionato, dal momento che a fronte dell’ampliamento del numero della pianta organica della Suprema Corte, non è più necessario attingere dal bacino dell’Ufficio del Massimario per comporre i collegi giudicanti.
[2] A parità di valutazione, prevale l’aspirante più anziano nell’ufficio quale Presidente di Sezione.
[3] Specificando tra l’altro la sezione incaricata della trattazione dei ricorsi di cui all’articolo 5 ter, comma 5, della legge n. 89/2001 (“Legge Pinto”).
[4] Si tratta della sezione prevista dall’articolo 376, comma 1, c.p.c. (sesta sezione civile) e di quella incaricata della trattazione dei ricorsi di cui all’articolo 610, comma 1, c.p.p. (settima sezione penale).
[5] A detti criteri è possibile esclusivamente per motivate esigenze di servizio, tra le quali può eccezionalmente ricorrere quella derivante dalla necessità di risolvere particolari questioni di diritto, che induca a tenere conto della specifica esperienza professionale di determinati magistrati, la quale deve essere espressamente indicata. Peraltro i criteri di assegnazione degli affari prevedono meccanismi di attribuzione a un unico collegio dei ricorsi relativi ai provvedimenti emessi nel medesimo processo.
[6] All’interno di ciascuna sezione possono essere individuate aree omogenee di competenza specifica, per le quali ciascun relatore può fornire indicazione di preferenza da utilizzare nel periodo di vigenza della tabella. Nel caso in cui siano individuate aree omogenee di competenza, debbono essere altresì previsti congrui limiti temporali alla permanenza dello stesso consigliere nella medesima area omogenea. Va escluso che la medesima materia possa essere trattata, in via esclusiva, da un unico consigliere
[7] La permanenza non può superare gli otto anni, anche non continuativi.
[8] L’attività dell’Ufficio del Massimario e del ruolo si articola, esemplificativamente, nelle seguenti forme: a) massimazione delle decisioni civili e penali; b) segnalazione dei contrasti; relazioni preliminari per le sezioni unite; c) attività attinenti al ruolo; d) relazioni informative sullo stato della dottrina e della giurisprudenza per specifici temi; e) attività di assistenza di studio alle sezioni della Corte di cassazione; f) applicazione alle sezioni della Corte per lo svolgimento di funzioni giurisdizionali di legittimità.
La massimazione, la segnalazione dei contrasti e le relazioni per le Sezioni Unite, l’attività di assistenza di studio alle sezioni civili della Corte di cassazione sino alla scadenza del termine quinquennale di cui al comma secondo dell’articolo 74 del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito in legge 9 agosto 2013 n. 98 e l’applicazione alle sezioni della Corte per lo svolgimento di funzioni giurisdizionali costituiscono attività prioritaria dei magistrati addetti al Massimario.
Ogni altra attività cui possono essere addetti i magistrati dell’ufficio del Massimario è comunque diretta a favorire la funzione nomofilattica della Corte di cassazione attraverso lo studio e l’analisi della giurisprudenza di legittimità (art. 238 della circolare).
[9] La tabella organica del Massimario comprende, oltre ai componenti previsti per legge, un Direttore, due Vicedirettori, uno per il settore penale e uno per il settore civile, e due Coordinatori, egualmente destinati uno al settore penale e uno al settore civile.
L’incarico di Direttore e di Vice Direttore ha durata pari a tre anni, tendenzialmente coincidenti con la durata della tabella, ed è rinnovabile per una sola volta per ulteriori tre anni. Nel caso in cui lo stesso magistrato è nominato Vicedirettore e poi Direttore, la durata complessiva dei relativi incarichi non può essere superiore a sei anni, fermo restando che la nomina a Direttore ha durata di tre anni, anche se ciò comporta una durata complessiva superiore a quella dell’indicato termine.
L’incarico di coordinatore ha la durata di un anno, rinnovabile alla scadenza per due volte sino a un massimo di tre anni.
Dal 1941 il numero di magistrati addetti all’Ufficio del Massimario e del Ruolo è progressivamente aumentato e da ultimo, con il d.l. n. 69 del 2013 convertito in legge n. 98 del 2013, è stato portato a 67 unità, essendovi stata inseriti magistrati che, inquadrati presso l’Ufficio del Massimario, svolgono le menzionate funzioni di assistenza presso le sezioni della Corte e possono essere applicati ai collegi per lo svolgimento delle funzioni giurisdizionali. Con il ddl “Bonafede” di riforma dell’ordinamento giudiziario (cfr., infra, il par. 13), a fronte dell’ampliamento del numero della pianta organica della Suprema Corte, si propone di ridurre a 37 il numero dei magistrati facenti parte della pianta organica dell’Ufficio in questione.
[10] In caso di applicazione alle sezioni della Corte per lo svolgimento delle funzioni giurisdizionali di legittimità, il magistrato con compiti di assistente di studio, accanto alle funzioni dell’Ufficio del Massimario di cui all’articolo 238, comma 2, lettere da a) ad e) della circolare, può svolgere l’attività di spoglio funzionale alla formazione dei ruoli di udienza.
L’incarico di magistrato con compiti di assistente di studio ha di regola durata annuale, salva motivata esigenza di deroga prospettata dai Presidenti di sezione e disposta dal Primo Presidente sentito il Direttore del Massimario.
Il magistrato, il cui incarico di assistente di studio è scaduto, è destinato a svolgere le ulteriori funzioni dell’Ufficio del Massimario, tenendo conto delle attitudini e delle competenze acquisite.
[11] L’assegnazione alle sezioni della Corte per lo svolgimento delle funzioni giurisdizionali di legittimità ha durata annuale. In ogni caso, non può essere superiore a tre anni.
Il magistrato, cessata l’assegnazione alle sezioni, è destinato a svolgere le ulteriori funzioni dell’Ufficio del Massimario.
[12] Di cui all'articolo 7-bis, 3° co. r.d. 12/1941 e successive modificazioni.
[13] Di cui all'articolo 7-ter, 1° e 2° co. R.d. 1271941 e succ. mod.
[14] In base alle proposte per la riforma della giustizia civile elaborate dalla Commissione ministeriale nominata dalla Ministra Marta Cartabia in forma di emendamenti al ddl ddl 1662/S/XVIII (“Delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie”: d’ora in avanti, ddl “Bonafede) presentato al Senato il 9 gennaio 2020, verrebbe introdotta per il giudice di merito - quando deve decidere una questione di diritto su cui ha preventivamente provocato il contraddittorio tra le parti - la possibilità di sottoporre direttamente la questione alla Corte di cassazione per la risoluzione del quesito, sempre che la questione sia esclusivamente di diritto, nuova, non ancora affrontata dalla Corte di cassazione e di particolare importanza; presenti gravi difficoltà interpretative; sia suscettibile di porsi in numerose controversie. Ricevuta l’ordinanza di rimessione (da cui consegue la sospensione del giudizio di merito), il primo presidente, entro i novanta giorni successivi, potrebbe dichiarare inammissibile la richiesta qualora risultassero insussistenti i relativi presupposti, mentre nel caso in cui non provvedesse dichiarare la inammissibilità, assegnerebbe la questione alle sezioni unite o alla sezione semplice tabellarmente competente. La Corte di cassazione, in esito ad un procedimento da svolgersi mediante pubblica udienza, deciderebbe enunciando il principio di diritto con un provvedimento vincolante (solo) nel procedimento nel cui ambito è stata rimessa la questione e destinato a conserverà tale effetto, in caso di estinzione del processo, anche nel nuovo giudizio eventualmente instaurato con la riproposizione della domanda.
Si tratterebbe di una innovazione indubbiamente significativa, teoricamente sucettibile di coinvolgere anche il giudice di merito nell’opera di costruzione della nomofilachia, entrando a far parte dell’insieme degli strumenti - tra cui quello relativo al principio di diritto nell’interesse della legge di cui all’art. 363 cpc.- che in vario modo convergono in questa direzione. Ma essa si presta, nel contempo, ad alcune critiche già manifestate in dottrina, a partire da quella che l’innovazione - anziché contribuire al recupero di efficienza e funzionalità del processo - potrebbe avere effetti deresponsabilizzanti per il giudice remittente e produrre il rischio di ingolfare ulteriormente la Corte, che deve assolvere non solo alla funzione di nomofilachia ma anche a quella attinente alla tutela dello ius litigatoris e che è già gravata da carichi enormi a ridurre i quali sono mirate nel complessivo disegno riformatore anche le coeve proposte di riforma relative alla giustizia tributaria.
[15] Si tratta, nell’organizzazione attuale della Corte, della Sesta sezione.
[16] Quest’ultima parte è stata inserita con l’art. 1-bis, comma 1, lett. b), del d.l. n. 168/2016 convertito, con modificazioni, dalla legge n. 197/2016. In precedenza l’art. 376 recitava: “Se la sezione non definisce il giudizio, gli atti sono rimessi al primo presidente, che procede all'assegnazione alle sezioni semplici".
[17] Le norme di principio dirette a garantire il benessere fisico, psicologico e sociale dei magistrati sono state introdotte per la prima volta con la circolare sulla formazione delle tabelle di organizzazione degli uffici giudiziari per il triennio 2017/2019, approvata dal Csm il 25 gennaio 2017
[18] L’ingiustificata violazione del divieto di assegnazione di affari nei periodi di cui agli articoli 16, 17 e 28 del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151 è valutato ai fini della conferma del dirigente o del conferimento di ulteriori incarichi.
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