ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Primissime considerazioni sulla “nuova” disciplina delle concessioni balneari nella lettura dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato
di Francesco Paolo Bello
Sommario: 1. Premessa. 2. L’attendismo del legislatore e l’interventismo del Consiglio di Stato. Tra interpretazione e creazionismo. 3. L’applicabilità delle regole pro-concorrenziali alle concessioni balneari. 3.1. La sussistenza dell’interesse transfrontaliero. 3.2. La direttiva Bolkestein quale misura di liberalizzazione e la non incidenza sulle prerogative nazionali in materia di turismo. 3.3. Il lido del mare quale “asset aziendale”. 3.4. La natura auto-esecutiva della direttiva Bolkestein e obbligo di disapplicazione della disciplina nazionale da parte della p.A. 4. Le “linee guida” del Consiglio di Stato. 4.1. Disapplicazione della legge anti-comunitaria e insussistenza della responsabilità penale. 4.2. Disapplicazione della legge anti-comunitaria e tutela dell’affidamento del concessionario. 4.3. Insussistenza di un legittimo affidamento dei concessionari. 5. Rimozione degli effetti dell’atto di proroga e autotutela. 5.1. Proroga della concessione e assenza di potere autoritativo. 5.2. Attività vincolata, potere autoritativo e giurisdizione 5.3. Atto di “rimozione degli effetti della proroga”, principio di legalità e (a)tipicità degli atti amministrativi. 6. Disapplicazione della norma anti-comunitaria e giudicato. 7. Sulla modulazione degli effetti temporali della sentenza. 7.1. Il termine del 31 dicembre 2023 e le prerogative del legislatore.
1. Premessa.
Con la sentenza n. 17 dello scorso 9 novembre 2021 (e con la “gemella” n. 18, rese rispettivamente nell’ambito di giudizi di appello alle sentenze pronunciate da Tar Sicilia – Catania, n. 504/2021 e da Tar Puglia – Lecce, n. 73/2021) l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato è intervenuta sulla notissima questione del regime giuridico delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative (c.d. “concessioni balneari”).
Si tratta di una decisione ricca di spunti e che si offre come oggetto di studio per i numerosi profili di carattere processuale e sostanziale che vengono in rilievo.
Il presente scritto si propone di accompagnare il lettore in una prima analisi ragionata dei passaggi più rilevanti della sentenza, rinunciando ad approfondimenti di carattere teorico e giurisprudenziale che richiederebbero tempi più distesi e che saranno certamente oggetto di prossime riflessioni della dottrina.
2. L’attendismo del legislatore e l’interventismo del Consiglio di Stato. Tra interpretazione e creazionismo.
È il presidente del Consiglio di Stato che, esercitando il potere officioso previsto dall’art. 99, comma 2, c.p.a., ha deferito l’affare alla plenaria in ragione della “particolare rilevanza economico-sociale” della questione ed al fine di “assicurare certezza e uniformità di applicazione del diritto da parte delle amministrazioni interessate nonché uniformità di orientamenti giurisprudenziali”.
La decisione dell’Adunanza plenaria, dunque, è dichiaratamente rivolta non solo al Giudice amministrativo – chiamato evidentemente a tenerne conto onde garantire pro futuro un’uniformità di orientamenti giurisprudenziali – ma anche a tutte le pubbliche amministrazioni (diverse, ovviamente, dall’appellata) interessate da procedimenti relativi a concessioni balneari.
Sin dal procedimento che ha dato luogo alla pronuncia, caratterizzato da un inusuale atto d’impulso del Presidente del Consiglio di Stato, emerge la volontà del supremo organo di giustizia amministrativa di intervenire in maniera risolutiva in una materia sulla quale il legislatore – nonostante le sollecitazioni derivanti dal diritto dell’Unione, dalla Corte di Giustizia e dalla Commissione europea ‒ ha troppo a lungo serbato una condotta attendista, volta a non modificare nella sostanza il regime giuridico previsto tradizionalmente dall’ordinamento interno.
Il diritto europeo, tuttavia, specie quando si occupa di mercato e di tutela della concorrenza (molto meno, per vero, quando si occupa di diritti fondamentali) possiede una straordinaria capacità di penetrazione negli ordinamenti nazionali e riesce a vincere le resistenze opposte, volta a volta, dai legislatori, dalla giurisprudenza, dalle amministrazioni degli Stati membri.
Nella vicenda che ci occupa i principi pro-concorrenziali propri del diritto europeo ‒ che in maniera quasi carsica hanno tracciato lentamente il proprio percorso nella “materia dura” delle concessioni demaniali ‒ riaffiorano attraverso l’iniziativa del Presidente del Consiglio di Stato e la voce dell’Adunanza plenaria.
Come meglio diremo nel prosieguo, siamo innanzi ad una pronunzia nella quale il Giudice esercita una funzione di supplenza rispetto ad un legislatore neghittoso e crea una regula juris che dovrebbe condizionare l’operato futuro delle Amministrazioni e, addirittura, del legislatore.
Si tratta di un ruolo di supplenza non certo nuovo per la giurisprudenza (ed in particolare per il Consiglio di Stato), ma che dovrebbe comunque rivestire il carattere dell’eccezionalità. Nel caso di specie, i Giudici di Palazzo Spada hanno affrontato in maniera innovativa delicati profili problematici di carattere sostanziale e processuale ‒ attinenti, ad esempio, alla natura self executing delle direttive, al rapporto tra sentenze della Corte di Giustizia e giudicato nazionale, alla natura degli atti di proroga delle concessioni ‒ sconfinando talvolta nel creazionismo e spingendosi sino ai confini del potere giurisdizionale.
Tali confini, tracciati dalla Costituzione per garantire un ovvio equilibrio tra i poteri dello Stato, paiono, anzi, esser stati superati nella parte in cui l’Adunanza plenaria: a) ha individuato, secondo il proprio apprezzamento degli interessi in gioco, un termine futuro (31.12.2023) a partire dal quale le concessioni cesseranno di produrre effetto (§ 48); b) ha preannunciato i criteri che dovranno essere seguiti nelle gare pubbliche per l’attribuzione delle concessioni (§ 49); c) ha addirittura anticipato un giudizio di “non applicabilità” di eventuali leggi di proroga che il legislatore, nell’esercizio della propria funzione, dovesse ritenere di introdurre.
3. L’applicabilità delle regole pro-concorrenziali alle concessioni balneari.
La questione di fondo attiene alla sussistenza di eventuali profili di contrasto tra la normativa europea e la disciplina nazionale che dispone la proroga automatica e generalizzata fino al 31 dicembre 2033 delle concessioni demaniali in essere (art. 1, commi 682 e 683, legge n. 145 del 2018, nonché art. 182, comma 2, d.l. 19 n. 34/2020).
Il Consiglio di Stato (§ 12) ricorda che la questione è stata già affrontata dalla Corte di Giustizia con la sentenza 14 luglio 2016, in cause riunite C-458/14 e C-67/15 (Promoimpresa).
Nell’occasione la Corte ha affermato che: a) l’articolo 12, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2006/123/CE (c.d. direttiva Bolkestein) osta a una misura nazionale che preveda la proroga automatica delle autorizzazioni demaniali marittime e lacuali in essere per attività turistico‑ricreative, in assenza di qualsiasi procedura di selezione tra i potenziali candidati; b) l’articolo 49 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale che consenta una proroga automatica delle concessioni demaniali pubbliche in essere per attività turistico‑ricreative, nei limiti in cui tali concessioni presentino un interesse transfrontaliero certo.
I principi dettati dalla Corte in Promoimpresa sono stati recepiti dalla giurisprudenza nazionale ma, non di meno, sono stati messi in discussione dalla dottrina sotto il profilo della insussistenza dell’ “interesse transfrontaliero certo”, nonché in relazione alla asserita non riconducibilità delle concessioni demaniali alla nozione di “autorizzazione di servizi” e quindi all’ambito di applicazione dell’art. 12 della direttiva.
3.1. La sussistenza dell’interesse transfrontaliero.
In riferimento alla sussistenza dell’ “interesse transfrontaliero certo” la plenaria svolge un’analisi sul “mercato delle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreative” (§ 16), ritenendo che i beni demaniali debbano, nella materia in questione, essere “valutati unitariamente e complessivamente” senza potersi ammettere un “artificioso frazionamento” del patrimonio costiero nazionale.
Da tale premessa discende che la procedura per l’affidamento di una singola concessione demaniale non possa esser considerata in maniera isolata e, pertanto, non sfugge alle regole pro-concorrenziali di derivazione europea.
In altri termini, è proprio la considerazione unitaria dei beni demaniali in questione, che consente al Giudice di ritenere sussistente l ’“interesse transfrontaliero”.
Ma anche sul punto sembra quasi che il Consiglio di Stato si sia sentito investito del “dovere” di intervenire in un settore nel quale il sistema-paese ‒ per effetto della combinazione di norme primarie e decisioni delle singole amministrazioni ‒ si è reso responsabile di una gestione gravemente inefficiente di una rilevante risorsa pubblica.
Osserva il Collegio che “il giro d’affari stimato del settore si aggira intorno ai quindici miliardi di euro all’anno, a fronte dei quali l’ammontare dei canoni di concessione supera di poco i cento milioni di euro, il che rende evidente il potenziale maggior introito per le casse pubbliche a seguito di una gestione maggiormente efficiente delle medesime”; e soggiunge: “pensare che questo settore, così nevralgico per l’economia del Paese, possa essere tenuto al riparo dalle regole della concorrenza e dell’evidenza pubblica, sottraendo al mercato e alla libera competizione economica risorse naturali in grado di occasionare profitti ragguardevoli in capo ai singoli operatori economici, rappresenta una posizione insostenibile, non solo sul piano costituzionale nazionale (…), ma, soprattutto e ancor prima, per quello che più ci interessa ai fini del presente giudizio, rispetto ai principi europei a tutela della concorrenza e della libera circolazione” (§ 16).
L’inefficienza del sistema assume rilievo per l’Ad. plenaria non sotto il profilo dei minori introiti per l’erario, quanto piuttosto per il pregiudizio per la libertà di stabilimento e per la libera circolazione dei servizi.
3.2. La direttiva Bolkestein quale misura di liberalizzazione e la non incidenza sulle prerogative nazionali in materia di turismo.
Ponendosi in dichiarata continuità con quanto affermato dalla Corte di Giustizia in Promoimpresa, il Consiglio di Stato analizza gli argomenti dell’appellante, volti a superare le conclusioni cui era pervenuto il Giudice europeo.
Si afferma così che “la direttiva 2006/123 deve essere considerata una direttiva di liberalizzazione, nel senso che è tesa ad eliminare gli ostacoli alla libertà di stabilimento e di servizio” (§ 21) escludendo, dunque, la necessità di una preventiva armonizzazione delle normative nazionali applicabili al settore delle concessioni demaniali.
Inoltre, l’applicazione della direttiva 2006/123 anche alle concessioni demaniali con finalità turistico-ricreativa è ritenuta non in contrasto con l’art. 195 TFUE, in forza del quale, in materia di turismo, l’Unione europea si limita soltanto ad una politica di accompagnamento, con esclusione di “qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri”. Sotto tale profilo, l’introduzione di regole pro-concorrenziali anche per le concessioni demaniali con finalità turistico-ricreative, non inciderebbe sulle prerogative nazionali in materia di turismo: “il rilascio della concessione rappresenta, infatti, solo una precondizione per l’esercizio dell’impresa turistica (nella specie lo stabilimento balneare), la cui attività, successivamente al rilascio, non è certo governata dalla normativa contenuta nella direttiva” (§ 23).
3.3. Il lido del mare quale “asset aziendale”.
L’Adunanza plenaria, poi, ritiene non condivisibile la tesi secondo la quale le concessioni balneari non potrebbero essere qualificate in termini di autorizzazione di servizi ai sensi dell’art. 12 della direttiva. Muovendo dall’ “ottica funzionale e pragmatica che caratterizza il diritto dell’Unione” (§ 24), il Giudice nazionale affronta la distinzione, propria del nostro diritto interno, tra concessione (del bene) ed autorizzazione (dell’attività che detto bene include nel processo produttivo).
Osserva, così, che nella prospettiva europea, alla quale la plenaria dichiaratamente aderisce, il provvedimento di concessione “nella misura in cui si traduce nell’attribuzione del diritto di sfruttare in via esclusiva una risorsa naturale contingentata al fine di svolgere un’attività economica, diventa una fattispecie che, a prescindere dalla qualificazione giuridica che riceve nell’ambito dell’ordinamento nazionale, procura al titolare vantaggi economicamente rilevanti in grado di incidere sensibilmente sull’assetto concorrenziale del mercato e sulla libera circolazione dei servizi”.
Logica conseguenza di siffatta impostazione è che “il provvedimento che riserva in via esclusiva un’area demaniale (marittima, lacuale o fluviale) ad un operatore economico, consentendo a quest’ultimo di utilizzarlo come asset aziendale e di svolgere, grazie ad esso, un’attività d’impresa erogando servizi turistico-ricreativi va considerato, nell’ottica della direttiva 2006/123, un’autorizzazione di servizi contingentata e, come tale, da sottoporre alla procedura di gara”.
Si tratta di una prospettiva che certamente mette in crisi la costruzione teorica dello stesso istituto della concessione di beni pubblici: il bene assume rilievo solo in quanto inserito nel processo produttivo aziendale non in quanto oggetto funzionalmente destinato, in una prospettiva di doverosità, ad assolvere un interesse pubblico legato all’utilitas ritraibile dal bene da parte della generalità dei consociati.
Tuttavia, il Consiglio di Stato si mostra attento alle dinamiche proprie di una società in costante evoluzione ed alla realtà degli assetti di rapporti e di interessi inevitabilmente condizionati dalle regole economiche. È innegabile, infatti, che nel reale e concreto atteggiarsi delle concessioni che interessano il lido del mare, le finalità di interesse pubblico sembrano rimanere sullo sfondo o, tuttalpiù, sono richiamate come doveroso ossequio alla natura ed alla funzione che la concessione assolve nell’ordinamento.
Solo così si spiegano le situazioni diffuse di interi tratti di spiaggia di fatto “privatizzati” e sottratti (in concreto) alla pubblica e gratuita fruizione; la frequente assenza, nelle convenzioni accessorie al provvedimento ampliativo, di obblighi particolarmente stringenti di tutela del bene pur a fronte dei gravi fenomeni di erosione che affliggono sempre più il litorale; gli importi irrisori dei canoni concessori, con grave pregiudizio per l’interesse pubblico riguardato sotto il profilo economico. Se, in altri termini, le concessioni balneari non assolvono più (e da tempo) a quell’interesse pubblico che costituisce il fondamento teorico dell’istituto concessorio, sembra corretto, anche in una logica sostanzialista, assoggettare lo sfruttamento economico del bene alle regole della concorrenza (e, dunque, alla liberalizzazione dei servizi), eliminando situazioni di vantaggio o addirittura di privilegio per taluni operatori economici, che si sono cristallizzate nel tempo ma che non hanno ragione di persistere.
3.4. La natura auto-esecutiva della direttiva Bolkestein e obbligo di disapplicazione della disciplina nazionale da parte della p.A..
La sentenza afferma la natura auto-esecutiva dell’art. 12 della direttiva Bolkestein e da tale presupposto fa discendere l’illegittimità della disciplina nazionale (che prevede la proroga ex legefino al 2033) e l’obbligo di disapplicazione della stessa.
La natura self executing della disposizione è data quasi per scontata e non è oggetto di approfondimento nell’argomentare del Consiglio di Stato (§ 26-27) che, al contrario, si sofferma sull’obbligo di disapplicazione della norma da parte dell’autorità amministrativa.
Il principio di primazia del diritto dell’Unione, come è noto, è stato esplicitato per la prima volta dalla Corte di giustizia nella sentenza Costa (15 luglio 1964, in causa 6/64, Costa c. Enel), per poi essere declinato nell’obbligo di disapplicazione delle norme interne in contrasto con il diritto Ue (13 luglio 1972, in causa 48/71, Commissione c. Italia), quindi espressamente riferito all’autorità giudiziaria (9 marzo 1978, in causa 106/77, Simmenthal) ed agli organi dell’Amministrazione (22 giugno 1989, in causa C-103/88, Fratelli Costanzo). Evidentemente non è in discussione l’astratta applicabilità di siffatto principio, sulla quale esistono “orientamenti giurisprudenziali (elaborati dai giudici europei e nazionali) (…) consolidati e granitici”. La questione che presenta profili più problematici attiene all’obbligo di disapplicazione da parte della p.A. delle disposizioni nazionali in contrasto non già con i regolamenti Ue, ma con le direttive self executing.
Il Tar Puglia – Lecce, con sentenza n. 1341/2020 (richiamata nella sentenza resa dal Tar Sicilia – Catania, n. 504/2021 ed impugnata innanzi al Consiglio di Stato nel giudizio che ha occasionato la pronuncia in commento), attraverso un ragionamento articolato e non privo di suggestioni, aveva negato la sussistenza di un obbligo di disapplicazione da parte della p.A. della legge italiana in contrasto con la direttiva.
In particolare, il Tribunale leccese ha evidenziato che la disapplicazione della legge presuppone un’attività di esegesi della norma, da svolgersi secondo le note regole dell’interpretazione. Si tratta di regole, osserva il Giudice, che possono condurre anche ad un’interpretazione abrogativa che, tuttavia, presenta profili di particolare criticità in quanto “può condurre ad una violazione delle regole, dei ruoli e delle competenze attribuiti dall’ordinamento rispettivamente al Giudice e al Legislatore”.
Ma “proprio in ragione della delicatezza e complessità della interpretazione abrogativa” ‒ nel nostro caso finalizzata alla disapplicazione della norma ‒ l’ordinamento nazionale, laddove il contrasto ricorra con riferimento ad una norma della Costituzione, attribuisce al Giudice la facoltà di sospendere il giudizio e rimettere gli atti alla Corte Costituzionale; simmetricamente, osserva il Tar Lecce, “l’ordinamento euro-unionale, proprio in vista dell’eventuale disapplicazione da parte del giudice della norma nazionale in conflitto con la norma comunitaria, attribuisce allo stesso il potere di sospensione del giudizio e di rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte di Giustizia”.
Dall’assenza di qualsivoglia potere per l’Amministrazione pubblica di rimettere alla Corte costituzionale (o alla Corte di Giustizia) la questione di legittimità (costituzionale o “comunitaria”) di una norma di legge, il Tar Lecce desume l’obbligo per la p.A. di applicare la legge nazionale e di adottare provvedimenti coerenti con la stessa. Di contro, ammettendo il potere/dovere delle p.A. di disapplicare la norma interna anti-comunitaria si determinerebbe “una situazione caotica ed eterogenea, nonché caratterizzata in ipotesi da disparità di trattamento tra gli operatori a seconda del comune di riferimento”.
La tesi pone in evidenza come l’obbligo di disapplicazione in capo alla p.A. della norma nazionale in (presunto) contrasto con una norma Ue anche non direttamente ed immediatamente applicabile finisca per costituire un rilevante fattore di incertezza. In nome dell’esigenza di garantire l’uniforme applicazione del diritto europeo da parte di tutti gli organi degli Stati membri si rimette una complessa attività di esegesi a soggetti che, per la stessa funzione che assolvono nell’ordinamento, potrebbero non avere le competenze necessarie a garantire una lettura uniforme e giuridicamente corretta delle disposizioni.
L’Adunanza plenaria, in proposito, ritiene che la tesi della non disapplicabilità da parte della p.A. della legge in contrasto con una direttiva self-executing cada in una contraddizione logica (§ 34.3): se pure si ammettesse “che la legge in contrasto con la direttiva self-executing non sia disapplicabile dalla p.A. ma solo dal giudice, rimarrebbe fermo che l’atto amministrativo emanato in base ad una legge poi riconosciuta anti-comunitaria in sede giurisdizionale sarebbe comunque illegittimo e, come tale, andrebbe annullato (…) immaginare un’Amministrazione ‘costretta’ ad adottare atti comunitariamente illegittimi e a farlo in nome di una esigenza di certezza del diritto (legata all’asserita difficoltà di individuare le direttive self-executing) appare una contraddizione in termini”.
La tesi non pare del tutto persuasiva.
Ed in vero è il legislatore che, in prima battuta, deve evitare situazioni di possibile contrasto tra norma interna anti-comunitaria e direttiva self executing, recependo tempestivamente e puntualmente la direttiva attraverso una norma interna. Qualora per effetto dell’inerzia del legislatore, si verifichi una situazione di (ipotetico) contrasto tra il diritto nazionale e la disposizione di una direttiva auto-esecutiva, pare ragionevole che la soluzione sia rimessa alla Giurisdizione nel suo complesso (“che - attraverso il ricorso ai mezzi di impugnazione ordinaria e straordinaria - garantisce uniformità di applicazione della norma sul territorio nazionale”, Tar Lecce, n. 1341/2020) e non già alle singole amministrazioni.
L’inerzia e l’inottemperanza del legislatore agli obblighi di recepimento rischierebbero di divenire “croniche” ‒ specie in materie, come quella in esame, che involgono interessi economici rilevanti e quindi scelte politiche potenzialmente impopolari ‒ se si delegasse alle Amministrazioni (prima ancora che al giudice) il compito di risolvere le aporie determinate dalla neghittosità del Parlamento.
Ritenere sussistente in capo alla p.A. l’obbligo di disapplicazione della norma interna in contrasto con la direttiva auto-esecutiva, significa indirettamente chiamare le Amministrazioni a svolgere un compito (di uniformare il diritto interno a quello dell’Unione) che è proprio del legislatore e che questi dovrebbe esercitare difendendo le proprie prerogative.
La crisi del sistema rischia così di scaricarsi sul potere esecutivo non meno che su quello giurisdizionale (chiamato da tempo ad un ruolo di supplenza) e di minare alcuni pilastri dell’assetto ordinamentale.
D’altra parte, non è privo di significato che il Consiglio di Stato, pur affermando la diretta disapplicabilità da parte della p.A. delle norme nazionali in contrasto con la direttiva Bolkestein, abbia sentito comunque il bisogno di fornire, con la sentenza in commento, delle “linee guida” per le Amministrazioni, onde scongiurare il rischio derivante da un’atomizzata applicazione del diritto europeo rimessa all’apprezzamento ed all’autonomia dei singoli enti.
4. Le “linee guida” del Consiglio di Stato.
Chiarito che “la legge nazionale in contrasto con una norma europea dotata di efficacia diretta, ancorché contenuta in una direttiva self-executing, non può essere applicata né dal giudice né dalla pubblica amministrazione” (§ 36) ‒ e che, quindi, la normativa italiana sulla proroga delle concessioni balneari deve essere disapplicata siccome in contrasto con l’art. 12 della direttiva ‒ il Consiglio di Stato si fa carico di attenuare l’impatto della propria decisione sugli operatori economici e sulle Amministrazioni attraverso una serie di considerazioni che esulano dal thema decidendum.
Alcuni passaggi della sentenza, infatti, non rispondono in alcun modo ai quesiti posti dal decreto di deferimento all’Adunanza plenaria e riflettono un evidente intento didascalico del Collegio.
4.1. Disapplicazione della legge anti-comunitaria e insussistenza della responsabilità penale.
A tal proposito, sembra che il Consiglio di Stato abbia quasi voluto rassicurare gli operatori economici titolari di concessioni prorogate ‒ i cui interessi sono pesantemente incisi dai principi enunciati nella sentenza in commento ‒ allorquando ha affermato che la disapplicazione della legge, sebbene faccia venir meno il titolo che legittima l’occupazione del suolo demaniale, “non può in alcun modo avere conseguenze in punto di responsabilità penale, per la semplice ragione che il diritto dell’Unione non può mai produrre effetti penali diretti in malam partem” (§ 37).
4.2. Disapplicazione della legge anti-comunitaria e tutela dell’affidamento del concessionario.
Secondo l’Adunanza plenaria, alla disapplicazione della legge nazionale da parte della p.A. non osta neanche l’esigenza di tutelare l’affidamento del concessionario.
Sotto il profilo teorico la questione attiene alla possibilità di contemperamento tra il principio di “legalità comunitaria” e le esigenze di stabilità degli effetti del provvedimento, in particolare in relazione alla necessità di garantire l’affidamento generato in capo all’operatore economico.
Il Collegio chiarisce, anzitutto, che l’eventuale affidamento (ove legittimamente sorto in capo al concessionario) non potrebbe mai determinare il perdurare degli effetti della proroga automatica anti-comunitaria, ma, tutt’al più potrebbe trovare tutela attraverso la previsione di regole adeguate nell’ambito della gara da indire dopo la declaratoria di inefficacia della concessione prorogata.
Infatti, ai sensi dell’art. 12, comma 3, della direttiva, nello stabilire le regole della procedura di selezione, gli Stati membri possono tener conto di “motivi imperativi d’interesse generale conformi al diritto comunitario”, tra i quali rientra, secondo la Corte di Giustizia, anche la tutela del legittimo affidamento. In Promoimpresa, infatti, la Corte aveva sottolineato che “una giustificazione fondata sul principio della tutela del legittimo affidamento richiede una valutazione caso per caso che consenta di dimostrare che il titolare dell’autorizzazione poteva legittimamente aspettarsi il rinnovo della propria autorizzazione e ha effettuato i relativi investimenti. Una siffatta giustificazione non può pertanto essere invocata validamente a sostegno di una proroga automatica istituita dal legislatore nazionale e applicata indiscriminatamente a tutte le autorizzazioni in questione” (§ 56).
E così l’Adunanza plenaria, dopo aver circoscritto la rilevanza (in astratto) dell’affidamento al solo ambito delle regole di una gara che andrà comunque indetta, lascia intravvedere, ancorché in filigrana, come nella vicenda della proroga ex lege delle concessioni balneari, in realtà, gli operatori economici difficilmente potranno invocare un affidamento meritevole di tutela.
Osserva infatti il Collegio che “qualora un operatore economico prudente e accorto sia in grado di prevedere l’adozione di un provvedimento idoneo a ledere i suoi interessi, egli non può invocare il beneficio della tutela del legittimo affidamento nel caso in cui detto provvedimento venga adottato” (Corte di giustizia, 14 ottobre 2010, C-67/09)” (§ 38).
4.3. Insussistenza di un legittimo affidamento dei concessionari.
Secondo il Consiglio di Stato l’affidamento “legittimo” - e dunque idoneo a paralizzare l’effetto della direttiva Bolkestein o almeno suscettibile di esser ponderato nell’esercizio dell’autotutela – non sussisterebbe “nella materia in esame” (non “nel caso specifico” portato alla cognizione del Collegio, ma nell’intera “materia”!) e tanto per molteplici ragioni (§ 38.1, 38.2):
1) già prima della direttiva parte della giurisprudenza aveva rilevato criticamente l’assenza di una procedura competitiva per l’assegnazione di tali concessioni;
2) a partire dal 2008 era stata avviata una prima procedura di infrazione, su segnalazione dell’AGCM;
3) con numerose pronunce rese a partire dal 2010 la Consulta aveva dichiarato costituzionalmente illegittime (per violazione dei principi nazionali ed europei attinenti alla concorrenzialità del mercato ed alla libertà di stabilimento) le leggi regionali che ammettevano la proroga delle concessioni.
In altri termini le plurime procedure di infrazione, l’adozione della direttiva Bolkestein, la giurisprudenza della Corte di Giustizia, della Corte costituzionale, del Giudice amministrativo, non potevano consentire all’operatore economico di confidare sulla stabilità degli assetti determinati dal provvedimento ampliativo e dall’atto di proroga.
D’altro canto, anche la Corte costituzionale ci ricorda che “il valore del legittimo affidamento riposto nella sicurezza giuridica trova sì copertura costituzionale nell’art. 3 Cost., ma non già in termini assoluti e inderogabili (…) La posizione giuridica che dà luogo a un ragionevole affidamento nella permanenza nel tempo di un determinato assetto regolatorio deve risultare adeguatamente consolidata, sia per essersi protratta per un periodo sufficientemente lungo, sia per essere sorta in un contesto giuridico sostanziale atto a far sorgere nel destinatario una ragionevole fiducia nel suo mantenimento” (31 marzo 2015, n. 56, punto 4.1. in diritto).
Nel caso del rinnovo delle concessioni balneari il quadro ordinamentale era tale per cui un operatore economico diligente avrebbe probabilmente potuto prevedere l’introduzione di un assetto regolatorio che rendesse inefficace le concessioni adottate (e le relative proroghe) in assenza di procedure comparative.
Ma se, come pare, il Consiglio di Stato non ritiene sussistente un affidamento “legittimo” in capo ai concessionari uscenti, l’affermazione secondo la quale “l’indizione di procedure competitive per l’assegnazione delle concessioni dovrà (…) essere supportata dal riconoscimento di un indennizzo” (§ 49) sembra inserita più per mitigare lo scontento dei concessionari che per dettare una regola in concreto applicabile; una “promessa” dell’indennizzo aleggia senza essere destinata a concretizzarsi.
È lo stesso Giudice, infatti, a ribadire che l’indennizzo dovrà essere riconosciuto “ove ne ricorrano i presupposti”, presupposti che, tuttavia nella tormentata e risalente vicenda delle proroghe delle concessioni balneari non possono in concreto ritenersi sussistenti proprio perché era chiaro da tempo che le “soluzioni tampone” perseguite dal legislatore italiano erano fortemente sospettate di essere illegittime.
Non è un caso che il Collegio ricordi come proprio in virtù del principio di certezza del diritto (cui la tutela dell’affidamento si correla) la Corte di Giustizia abbia sì ammesso un “periodo transitorio” nella risoluzione di una concessione, ma in relazione ad una concessione attribuita nel 1984, “quando non era ancora stato dichiarato che i contratti aventi un interesse transfrontaliero certo avrebbero potuto essere soggetti a obblighi di trasparenza”.
5. Rimozione degli effetti dell’atto di proroga e autotutela.
Con il decreto presidenziale di deferimento, l’Adunanza plenaria era stata chiamata anche a chiarire se, in adempimento dell’obbligo di disapplicazione, “l’amministrazione dello Stato membro sia tenuta all’annullamento d’ufficio del provvedimento emanato in contrasto con la normativa dell’Unione europea o, comunque, al suo riesame ai sensi e per gli effetti dell’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990, nonché se, e in quali casi, la circostanza che sul provvedimento sia intervenuto un giudicato favorevole costituisca ostacolo all’annullamento d’ufficio”.
5.1. Proroga della concessione e assenza di potere autoritativo.
Per rispondere al quesito, il Collegio muove dalla natura giuridica dell’atto di proroga adottato e sul quale l’Amministrazione sarebbe chiamata a pronunciarsi per effetto della sentenza oggi in commento.
Sul punto l’Adunanza plenaria ritiene che l’atto di proroga “sia un atto meramente ricognitivo di un effetto prodotto automaticamente dalla legge e quindi alla stessa direttamente riconducibile”: sarebbe la legge e non l’atto amministrativo ad aver determinato l’effetto di posticipare la cessazione degli effetti della concessione al 31 dicembre 2033.
L’eventuale atto amministrativo di proroga, pertanto, non costituirebbe la fonte della modificazione della sfera giuridica del destinatario, ma si limiterebbe a dichiarare un effetto voluto e prodotto ex se dalla legge.
L’atto ricognitivo, peraltro, non sarebbe espressione “del potere autoritativo riconosciuto alla soggettività pubblica, pur essendo comunque riconducibile alla posizione dell’Amministrazione all’interno dell’ordinamento giuridico generale” (§ 43). L’atto di proroga, nell’accennata prospettazione, sarebbe funzionale “a rappresentare il verificarsi di un fatto (la proroga) con un grado di certezza che consente alla collettività di fare affidamento su di esso”.
Le ragioni di speditezza dei traffici ‒ che sottendono all’esercizio di una funzione volta ad immettere certezza nell’ordinamento attraverso l’atto (non provvedimentale) di proroga ‒ fonderebbero la doverosità di un atto con il quale si attesti che la concessione è soggetta ad un diverso termine di scadenza quale effetto della disapplicazione della legge che tale proroga aveva disposto.
In altri termini l’atto emanato in seconda battuta non sarebbe espressione di un potere di autotutela: “il potere di autotutela quale potere di regolamentare una seconda (rectius “ulteriore”) volta, in aderenza al principio di buon andamento e continuità dell’azione amministrativa, il rapporto di diritto pubblico (e l’interesse pubblico ad esso sotteso) presuppone detto potere di regolamentazione che, come sopra evidenziato, è stato invece avocato a sé dal legislatore. In altre parole, il provvedimento di secondo grado in cui si esprime l’autotutela non può avere ad oggetto una disciplina contenuta nella legge” (§ 43).
5.2. Attività vincolata, potere autoritativo e giurisdizione.
Le argomentazioni del Consiglio di Stato si muovono sul terreno (per vero alquanto impervio) del rapporto tra potere autoritativo e attività vincolata.
Il terreno appare impervio perché secondo una parte della giurisprudenza, la natura vincolata dell’atto e l’assenza di discrezionalità (sia tecnica che amministrativa), comporterebbero l’assenza di un potere autoritativo in capo all’Amministrazione e, dunque, la sussistenza della giurisdizione del Giudice ordinario. Di recente, ad esempio, si è affermato (in relazione ad un’attività di certificazione di un credito) che se “all’amministrazione non compete alcuna discrezionalità né amministrativa, né tecnica, bensì soltanto il compito di verificare la sussistenza dei requisiti prescritti per la certificazione”, l’attività posta in essere dall’amministrazione non è di tipo autoritativo ma meramente ricognitiva e certificativa (non costitutiva), sicché rispetto all’atto di “annullamento d’ufficio” del relativo certificato, non sussisterebbe la giurisdizione del g.a. (Tar Sicilia – Palermo, sez. I, n. 1763/2021).
Nel giudizio d’appello, il C.G.A.R.S. ha ritenuto, al contrario, sussistente la giurisdizione amministrativa: “la circostanza che il potere amministrativo sia vincolato - e cioè che il suo esercizio sia predeterminato dalla legge nell’an e nel quomodo - non trasforma il potere medesimo in una categoria civilistica, assimilabile ad un diritto potestativo, ove l’Amministrazione eserciti una funzione di verifica, controllo, accertamento tecnico dei presupposti previsti dalla legge, quale soggetto incaricato della cura di interessi pubblici generali, esulanti dalla propria sfera patrimoniale: il potere vincolato, dunque, resta comunque espressione di ‘supremazia’ o di ‘funzione’, con il corollario che dalla sua natura vincolata derivano conseguenze non sul piano della giurisdizione, ma su quello delle tecniche di tutela” (13 settembre 2021, n. 802).
La dottrina si sta già interrogando sull’impatto della decisione dell’Adunanza plenaria sul dibattuto tema dei limiti della giurisdizione del g.a. in relazione all’atto vincolato (sul quale, cfr., tra le tante, Ad. plen. n. 8/2007) adombrando la possibilità che la sentenza in commento sia affetta da “eccesso di potere giurisdizionale”.
Ma tale approdo teorico non è privo di conseguenze pratiche: la sentenza in commento potrebbe, sotto tale profilo, essere suscettibile di sindacato innanzi alla Corte di Cassazione, aprendo così un possibile varco nel muro eretto dal Consiglio di Stato intorno alla propria decisione.
5.3. Atto di “rimozione degli effetti della proroga”, principio di legalità e (a)tipicità degli atti amministrativi.
Una possibile spiegazione dell’impostazione seguita dalla Plenaria può rinvenirsi nella volontà di sottrarre l’azione amministrativa, nella materia che ci occupa, al potere di autotutela decisoria con i suoi limiti legali di recente introduzione. Ed infatti, negando che l’atto di proroga abbia natura provvedimentale (negando, dunque, che alla base della proroga vi sia un potere autoritativo suscettibile di una riedizione per effetto della disapplicazione della legge anti-comunitaria) si arriva ad escludere che lo stesso possa essere oggetto di annullamento d’ufficio o di revoca.
Qualora alla proroga si riconoscesse natura provvedimentale, infatti, due sarebbero le strade astrattamente configurabili per pervenire alla eliminazione degli effetti durevoli della stessa: 1) i provvedimenti di proroga adottati prima di Promoimpresa potrebbero essere oggetto di una revoca fondata sulla sopravvenienza normativa (rappresentata dalla sentenza della Corte) e sull’interesse pubblico all’uniforme applicazione del diritto europeo sopravvenuto; 2) i provvedimenti successivi a Promoimpresa potrebbero esser annullati d’ufficio per violazione del diritto europeo siccome interpretato dalla Corte.
In entrambi i casi il potere di autotutela decisoria dell’Amministrazione incontrerebbe i limiti stringenti dettati dall’ordinamento.
In caso di revoca l’Amministrazione dovrebbe anzitutto fornire adeguata motivazione (in ordine alla prevalenza dell’interesse pubblico all’eliminazione degli effetti del provvedimento sull’interesse del concessionario alla conservazione degli stessi) ma, soprattutto, dovrebbe indennizzare il pregiudizio patito dai concessionari.
Per altra via, il provvedimento di annullamento d’ufficio non solo dovrebbe dar conto dell’interesse pubblico in concreto (differente rispetto all’interesse al mero ripristino della legalità euro-unitaria violata), ma dovrebbe essere adottato nel termine di 12 mesi, schiudendo comunque la strada al risarcimento del danno ingiusto patito dal concessionario.
Quale che sia la ragione, dobbiamo registrare come a fronte di un quesito puntuale formulato (nel decreto di deferimento) in ordine all’applicabilità dell’art. 21 octies l. n. 241/1990 all’atto di “riesame”, l’Adunanza plenaria sia rimasta sfuggente allorché ha affermato che “non vengono al riguardo in rilievo i poteri di autotutela decisoria della p.A. in quanto l’effetto di cui si discute è direttamente disposto dalla legge, che ha nella sostanza legificato i provvedimenti di concessione prorogandone i termini di durata”, tradendo il suo intento allorquando precisa che “l’Amministrazione non esercita alcun potere di autotutela (con i vincoli che la caratterizzano)”.
Per altra via resta oscura la natura giuridica dell’atto “successivo” che l’Amministrazione dovrebbe adottare per “rendere pubblica l’inconsistenza oggettiva dell’atto ricognitivo eventualmente già adottato e di comunicarla al soggetto cui è stato rilasciato detto atto” (§ 43). Ma questa “oscurità” non è priva di conseguenze sul piano giuridico se si pone mente al principio di tipicità degli atti amministrativi.
Appare, infatti, in contrasto con il principio di tipicità e nominatività la previsione giurisprudenziale di un atto che “attesta” il mutamento del diritto applicabile e “dichiara” che un atto precedente ha cessato ex lege di produrre effetti ad una certa data.
6. Disapplicazione della norma anti-comunitaria e giudicato.
In ordine agli effetti della disapplicazione della legge nazionale sulle sentenze aventi ad oggetto la proroga delle concessioni, il ragionamento del Consiglio di Stato si apre con un richiamo ai “principi di certezza e stabilità del diritto e dei rapporti giuridici di cui è espressione la res iudicata”. Ricorda, infatti, il Collegio che “il diritto europeo non impone a un giudice nazionale di non applicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di porre rimedio ad una violazione del diritto dell’Unione da parte di tale decisione”.
Tuttavia nella notissima sentenza Kühne&Heitz (13 gennaio 2004, in causa C-453/00) la Corte ha individuato precise condizioni in presenza delle quali il principio di leale collaborazione di cui all’art. 10 TCE (oggi art. 4 del Trattato sull’Unione) impone all’autorità amministrativa, investita di un’istanza, di riesaminare il provvedimento definitivo, alla luce dell’interpretazione del diritto europeo accolta dalla Corte di giustizia dopo l’acquisizione del carattere della definitività della statuizione amministrativa a seguito della formazione del giudicato.
In quella giurisprudenza europea il declamato principio di “certezza del diritto” ‒ che fonda il principio dell’intangibilità del giudicato ‒ cede il passo all’addotta esigenza di uniforme applicazione del diritto europeo (siccome riveniente dall’interpretazione della Corte di giustizia).
La “certezza del diritto” sembra cadere, in tal modo, sotto i colpi del principio della “leale collaborazione”, piegata ‒ come può forse apparire scontato, in considerazione dell’origine storica e della ancor attuale inclinazione della politica generale dell’Unione ‒ agli interessi tipici del mercato.
Nella sentenza in commento il Consiglio di Stato sancisce la prevalenza del diritto europeo non solo nella vicenda portata alla cognizione del g.a. nel caso specifico, ma anche in tutti i casi in cui sia già intervenuto un giudicato favorevole al concessionario demaniale.
Secondo il Collegio “in seguito al rinnovo della concessione demaniale nasce (o prosegue) un rapporto di durata” sicché vi sarebbe una parte di tale rapporto (quella successiva all’adozione della sentenza favorevole per il concessionario), che non sarebbe coperta dal giudicato e rispetto alla quale dovrebbe trovare applicazione la sopravvenienza normativa “cui è equiparabile, appunto, la sentenza interpretativa della Corte di giustizia”.
Ma anche volendo equiparare tout court (ai fini dell’incidenza dello jus superveniens su un rapporto di durata) la sentenza della Corte all’atto normativo, appaiono non adeguatamente esplorate le ricadute di tale opzione ermeneutica.
L’assetto delineato dal provvedimento (recte “atto ricognitivo”) di proroga, infatti, appare rafforzato dal giudicato formatosi in ordine alla legittimità dello stesso.
Resta da chiedersi quale atto dovrebbe adottare l’Amministrazione competente qualora volesse privare di effetti il provvedimento di durata così formatosi (e confermato dalla statuizione del Giudice intervenuta prima di Promoimpresa). Il che ci riporta alle considerazioni svolte in punto di autotutela nel paragrafo che precede.
Ma la tesi del Consiglio di Stato appare ancor meno convincente in relazione alle sorti dei rapporti di durata sui quali si sia formato un giudicato non già prima della “sopravvenienza normativa”, ma dopo la sentenza della Corte di Giustizia (Promoimpresa del 14 luglio 2016).
In altri termini se il Giudice amministrativo ha deciso una controversia dopo il 14 luglio 2016 in senso difforme dagli insegnamenti di Promoimpresa, non può certo sostenersi che i principi enunciati dalla Corte costituiscono jus superveniens idoneo a travolgere il giudicato.
Almeno in questi casi, dunque, il giudicato favorevole alle proroghe concesse non dovrebbe essere travolto dal diritto europeo (pre-esistente, ma evidentemente non applicato dal giudicante).
Ma l’Adunanza plenaria ritiene sic et simpliciter che anche in questo caso si produrranno gli effetti della non applicazione della normativa in esame.
La soluzione delineata è giustificata attraverso il richiamo al “ruolo che svolge la presente pronuncia in punto di certezza del diritto relativo alle concessioni balneari sul territorio italiano, ruolo reso evidente, da un lato, dal deferimento d’ufficio della questione da parte del Presidente del Consiglio di Stato di cui al decreto n. 160 del 2021, dato il notevole impatto sistemico della questione e la rilevanza del rapporto tra il diritto nazionale e il diritto dell’Unione, e considerata la particolare rilevanza economico-sociale che rende opportuna una pronuncia della Adunanza plenaria “onde assicurare certezza e uniformità di applicazione del diritto da parte delle amministrazioni interessate nonché uniformità di orientamenti giurisprudenziali”; e, dall’altro lato, dalla graduazione temporale degli effetti della presente pronuncia” (§ 50).
Il Giudice in questo caso non ricerca la regola nella disposizione, ma “crea” una regola che pone in tensione principi angolari dell’ordinamento, quali l’intangibilità del giudicato e la soggezione del giudice, nell’esercizio della propria funzione, “soltanto” alla legge.
7. Sulla modulazione degli effetti temporali della sentenza.
Il Consiglio di Stato si è, evidentemente, sentito investito del compito di disciplinare la materia a fronte di un “riordino” sempre preannunciato dal legislatore ma mai attuato.
Consapevole degli effetti dirompenti che la propria decisione è destinata a produrre nel settore, la Ad. plenaria decide di modularli nel tempo. E così, muovendosi lungo il crinale che corre tra “situazione di sicura incertezza, che sarebbe ulteriormente alimentata dall’improvvisa cessazione di tutti i rapporti concessori in atto” in “un quadro di incertezza normativa” e “principio di certezza del diritto”, si dispone che gli effetti della sentenza si producano dopo il 31 dicembre 2023.
Volendo fornire certezza si deroga al principio in forza del quale gli effetti della sentenza di annullamento si producono ex tunc.
Si ribadisce, così, la vigenza di un ulteriore elemento di incertezza rappresentato dalla modulabilità da parte del giudice degli effetti temporali della sentenza, ammessa dalla giurisprudenza allorquando vi sia “il rischio di ripercussioni economiche o sociali gravi, dovute, in particolare, all’elevato numero di rapporti giuridici costituiti in buona fede sulla base di una diversa interpretazione normativa sempre che risulti che i destinatari del precetto erano stati indotti ad un comportamento non conforme alla normativa in ragione di una obiettiva e rilevante incertezza circa la portata delle disposizioni” (Ad. plen. n. 13/2017, che richiama Corte di Giustizia, 15 marzo 2005, in C-209/03).
La prospective overruling costituisce una risposta giurisprudenziale ad esigenze di tutela anche dell’affidamento ingeneratosi per effetto di un quadro di incertezza giuridica.
Nel caso che ci occupa, tuttavia, il Consiglio di Stato ha ritenuto non sussistente un affidamento meritevole e idoneo a paralizzare gli effetti dell’applicazione della direttiva (§ 38), ma, in modo contraddittorio, dispone l’applicabilità solo pro futuro del principio di diritto, fondandola proprio sull’esigenza di mitigare gli effetti della decisione su rapporti pregressi “costituiti in buona fede”.
7.1. Il termine del 31 dicembre 2023 e le prerogative del legislatore.
A proposito dello slancio creazionista che sembra emergere in alcuni passaggi della sentenza in commento, occorre sottolineare che l’individuazione del termine del 31 dicembre 2023 è frutto di una valutazione degli interessi in gioco del tutto disancorata dal dato normativo.
È il Consiglio di Stato a ritenere che il lasso temporale di circa due anni sia: a) “congruo rispetto all’esigenza funzionale di espletare le gare e di evitare il significativo impatto economico e sociale che altrimenti deriverebbe dall’improvvisa decadenza dei rapporti concessori in essere”; b) non “elusivo dell’obbligo di adeguamento della realtà nazionale all’ordinamento comunitario”; c) adeguato rispetto al fine di “consentire a Governo e Parlamento di approvare doverosamente una normativa che possa finalmente riordinare la materia e disciplinare in conformità con l’ordinamento comunitario il sistema di rilascio delle concessioni demaniali” (§ 47).
Il Giudice seleziona gli interessi rilevanti e li pondera approdando ad una soluzione che, tuttavia, dovrebbe esser propria del decisore politico chiamato ad assumersi la responsabilità – in sede politico elettorale – delle proprie scelte.
Ed invece un Parlamento inerte ed incapace di andare oltre l’annuncio di un riordino della materia, apre la strada alla decisione del giudice-legislatore che proietta un’ombra finanche sull’esercizio futuro della funzione legislativa.
Non può che destare preoccupazione, infatti, l’affermazione ‒ senza dubbio mossa dal condivisibile intento di allineare l’ordinamento nazionale ai principi europei ‒ secondo la quale “eventuali proroghe legislative del termine così individuato (…) dovranno naturalmente considerarsi in contrasto con il diritto dell’Unione e, pertanto, immediatamente non applicabili ad opera non solo del giudice, ma di qualsiasi organo amministrativo”.
Considerazioni analoghe possono esser svolte in relazione all’esortazione rivolta al legislatore di “farsi carico di una disciplina che, nel rispetto dei principi dell’ordinamento dell’Unione e degli opposti interessi, sia in grado di contemperare le ormai ineludibili istanze di tutela della concorrenza e del mercato con l’altrettanto importante esigenza di tutela dei concessionari uscenti” (§ 47), accompagnata dall’invito ad apprezzare e valorizzare “in sede di gara profili di politica sociale e del lavoro e di tutela ambientale” nonché “il legittimo affidamento dei titolari di tali autorizzazioni, funzionale ad ammortizzare gli investimenti da loro effettuati” (§ 49). La discrezionalità del legislatore e delle stazioni appaltanti sembra in qualche modo limitata ex ante dall’Adunanza plenaria allorquando “suggerisce” di “evitate ipotesi di preferenza ‘automatica’ per i gestori uscenti, in quanto idonei a tradursi in un’asimmetria a favore dei soggetti che già operano sul mercato” e di prediligere “criteri che, nel rispetto della par condicio, consentano anche di valorizzare l’esperienza professionale e il know-how acquisito da chi ha già svolto attività di gestione di beni analoghi (e, quindi, anche del concessionario uscente, ma a parità di condizioni con gli altri), anche tenendo conto della capacità di interazione del progetto con il complessivo sistema turistico-ricettivo del territorio locale” (§ 49). Il legislatore è esortato ad individuare un limite alla durata delle concessioni che possa poi, in concreto, essere determinata dall’amministrazione aggiudicatrice tenendo conto del valore della concessione, della sua complessità organizzativa, del tempo necessario a garantire il recupero degli investimenti e la remunerazione del capitale investito.
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La sensazione è che nel dichiarato tentativo di garantire “certezza del diritto” e di colmare un vuoto lasciato da un decisore politico troppo debole, il Consiglio di Stato abbia fornito soluzioni interpretative (talvolta “creative”) che introducono rilevanti fattori di incertezza sistemica i cui effetti rischiano di riverberarsi ben al di là del settore delle concessioni balneari andando a toccare gli stessi equilibri costituzionali dell’ordinamento.
L’auspicio è che sui profili problematici lambiti in questo scritto ‒ così come su altri di sicuro interesse che rivengono dalla sentenza ‒ la dottrina avvii un’approfondita riflessione ed un dialogo proficuo e critico con la giurisprudenza, esercitando, così, il ruolo che le è proprio nell’ordinamento.
Al fisco servono spiegazioni, non deleghe
di Raffaello Lupi
Sommario: 1. Le deleghe fiscali come diversivo davanti alla confusione - 2. Diversa determinabilità dei presupposti d’imposta e progressività - 3. L'inspiegabile favore per i redditi di fonte patrimoniale e altre idee estemporanee.
1. Le deleghe fiscali come diversivo davanti alla confusione
Sul fisco sembra riaffacciarsi un déjà vu già andato in onda con la delega del 2015, avviata sotto il governo Letta, e rispondente a un cliché abituale davanti al malessere diffuso verso quale settore della socialità, nel nostro caso le imposte. Nelle società articolate e fortunatamente pluraliste, come la nostra, il malessere dell’opinione pubblica sul fisco innesca nella politica il dovere di rispondere in qualche modo, anche se neppure lei sa come, in quanto mancano nella società spiegazioni soddisfacenti del fenomeno da regolare. Tuttavia l’odierna sopravvalutazione della politica e della legislazione, latenti nei nostri meccanismi culturali, le spingono a fare comunque qualcosa. Il loro intervento, con tutta la buona volontà, è però destinato all’insuccesso se nella pubblica opinione, generale e di settore, mancano spiegazioni sociali di quanto si vuole riformare, com’è evidente sul fisco. E’ quanto accaduto puntualmente coi decreti delegati emanati nel 2015 a seguito della delega del 2013, intervenuti su una serie di questioni spicciole, tecnico-casistiche, di irrilevante respiro generale, come il raddoppio dei termini di accertamento in presenza di reati, i dividendi di artigiani e piccoli commercianti a sé stessi, l'esecutorietà della sentenza di rimborso, la lite temeraria, la sanzionabilità l’abuso del diritto, il ravvedimento operoso. Insomma, un tripudio di questioncine estranee ai problemi di fondo della determinazione giuridica dei presupposti economici d’imposta, cui sono riconducibili i problemi dell’evasione, il malessere dell’adempimento e le sperequazioni tributarie che turbano l’opinione pubblica italiana. A questo vero convitato di pietra del nostro fisco semplicemente non si sa cosa rispondere, in assenza delle spiegazioni sociali suddette e si blatera confusamente di grandi evasori, aliquote troppo alte, cashback [1]e lotterie degli scontrini. Nessuno capisce, né pare abbia voglia di capire, la necessità di coordinare la determinazione documentale-ragionieristica di redditi e consumi, attraverso le organizzazioni amministrative, con quella valutativa, dove queste organizzazioni non arrivano. Si tratta di far avvertire la presenza valutativa degli uffici tributari sul territorio, anche rispetto ai milioni di piccoli operatori al dettaglio dove mancano le condizioni per la determinazione documentale delle imposte. Rispetto a questo tema di fondo, cui è riconducibile il malessere sul fisco, con le sue polemiche, complicazioni, sperequazioni e via enumerando, la delega del 2013 era del tutto carente, come quella appena presentata. Speriamo non si ripeta l’esperienza della delega come grande diversivo-palliativo, che ha tenuto buona l’opinione pubblica per un biennio dicendo "ci sarà la delega", prendendo poi tempo per "studiare la delega"; l’epilogo è capire che la delega del 2015 è stata una perdita di tempo, quando ormai i politici che l’avevano sponsorizzata saranno impegnati su altri fronti, l’opinione pubblica, con la memoria di un pesce rosso, ormai presa da altri problemi. A questo punto la giostra quindi può ripartire con una nuova delega fiscale, senza spiegazioni del fenomeno da regolare. I malesseri tributari che avevamo davanti nel 2013 sono ancora lì, e il circuito mediatico farà giustamente il suo mestiere; si riproporranno cioè i titoli di dieci anni fa riempiendo il posto nel dibattito pubblico lasciato vuoto dall’accademia. Si autoproduce così una specie di oggettivo "oppio del popolo" di cui la politica non ha colpe, ma è lei stessa vittima. Sono i riflessi di un ambiente culturale, soprattutto accademico giuridico, che non riesce a coordinare le spiegazioni divisive, e spesso politicamente strumentali, intrecciate nella pubblica opinione sulla funzione impositiva. Questo coordinamento non passa per la legislazione, la politica che la redige e le commissioni parlamentari che ne sono espressione. Questo sia perché la politica non ha compiti di formazione sociale, sia perché è normale che ogni forza politica cavalchi la confusione sociale sul fisco nel modo più orecchiabile per l’elettorato di riferimento e il consenso in generale.
2. Diversa determinabilità dei presupposti d’imposta e progressività
L’assenza propositiva dell’accademia del diritto tributario, incapace di spiegare socialmente la funzione impositiva, lascia uno spazio vuoto, che a livello di discussione pubblica è occupato, come detto al punto precedente, dai mass media. A livello di decisioni legislative, invece, si inseriscono in tale vuoto personaggi variegati, economisti d’area e fiduciari di tendenze politiche, che cercano di realizzare al meglio alcune istanze diffuse nella pubblica opinione. Tra esse rientrano gli interventi per correggere l’attuale progressività elevata (38%) a soli 27 mila euro, su cui peraltro non si giustifica una legge delega, ma che presuppongono, come vedremo subito, le spiegazioni sociali di cui al punto precedente. Quest’elevata progressività a livelli modesti di reddito è figlia di una riserva mentale collegata all’adempimento e all’evasione, cioè al sospetto che per molti contribuenti Irpef il reddito dichiarato sia solo una parte di quello effettivo. E’ una riflessione collegata alla tendenza dei piccoli operatori al dettaglio in sede fissa ad evadere i ricavi eccedenti rispetto a quelli coerenti rispetto alle caratteristiche esteriori della propria attività; lo confermano le frequenti proposte, inverse alla progressività, di diminuire le aliquote oltre certi livelli di imponibile, detassando il c.d. reddito incrementale. Qui c’è una risposta, chiara e forte, che si percepisce all’interno della delega, e fortunatamente anche negli ambienti politici e mediatici. Sembra infatti si stia prendendo atto dell’assurdità logica di alterare il regime del reddito dichiarato per la sospetta esistenza, in parallelo, di un reddito non dichiarato. Eppure il razzismo sociale verso il lavoro autonomo e il favor rispetto a quello dipendente continua a pervadere il sistema fiscale, attribuendo ad esempio ai soli lavoratori dipendenti la detrazione d’imposta per i redditi bassi, introdotta nel 2014 e denominata bonus Renzi. Invece la strada per risolvere il problema dell’aliquota del 38 percento è proprio quella di estendere la detrazione a tutti i redditi da lavoro, prendendo atto che esso è sempre lavoro, dipendente, autonomo o artigianale, ad esempio facendo l’elettricista o guidando un taxi. Il problema del reddito evaso va gestito insomma per conto proprio, e non può essere intrecciato col regime del reddito dichiarato. Questo anche perché la suddetta evasione del reddito incrementale riguarda anche molti lavoratori dipendenti, coi fuori busta di quelli addetti a piccole organizzazioni, e la detassazione degli straordinari o dei premi di risultato, che sostanzialmente lo legittima. L’estensione agli autonomi delle detrazioni per i redditi da lavoro potrebbe essere l’occasione per rivedere il regime forfettario, cioè l’imposta sostitutiva applicabile per imprese e professionisti entro 65 mila euro di ricavi. Presentata politicamente come un’introduzione anticipata della c.d. flat tax, essa rappresenta infatti un incentivo all’evasione, in quanto nei limiti suddetti riescono ad inserirsi anche operatori con ricavi molto più alti. L’istituto incentiva anche la frammentazione delle attività economiche, anziché la loro aggregazione e la concorrenza sleale in punto di non applicazione dell’IVA. Come si vede anche questo è un regime fortemente collegato al problema centrale della funzione impositiva, di cui dicevamo al punto 1, cioè la diversa determinabilità dei presupposti economici d’imposta. Sarebbe questo il tema da discutere invece di esorcizzarlo o peggio ancora utilizzarlo in modo politicamente strumentale, quindi divisivo. Purtroppo manca una categoria di studiosi sociali in grado di coordinare le varie riflessioni sul tema, e questa mancanza di risorse intellettuali consiglia ulteriormente che, sulla delega, sarebbe meglio lasciar stare, evitando di perdere tempo.
3. L’inspiegabile favore per i redditi di fonte patrimoniale e altre idee estemporanee
La conclusione di “lasciar stare”, di cui al termine del paragrafo precedente, è confermata da alcune indicazioni presenti nella delega, che ripropongono interventi privi di senso della realtà, sia sociale sia di presentabilità politico mediatica. Uno riguarda la limitazione della progressività ai redditi da lavoro, a vantaggio di quelli da patrimonio, con la proposta di tassazione duale. E’ una discriminazione alla rovescia di cui non si riesce a capire la logica e che è frutto di una confusione, da parte del circuito di economisti di cui al punto precedente, tra difficile determinabilità del reddito delle imprese e degli imprenditori. La globalizzazione innesca in effetti una corsa al ribasso delle aliquote sui redditi societari, che oggi si cerca di frenare con la proposta di tassazione minima mondiale. La globalizzazione riguarda però le aziende, non gli imprenditori quando percepiscono dividendi, o gli investitori quando percepiscono frutti di reddito di capitale. Dividendi e redditi di capitale sono infatti determinabili attraverso gli intermediari e ben pochi sono i relativi titolari che si espongono alle sanzioni per omessa presentazione del quadro RW della dichiarazione dei redditi per gli investimenti effettuati all’estero, allo scopo di evaderne i redditi. Lo stesso per le locazioni immobiliari, dove c’è interesse alla formalizzazione del rapporto locatizio, ed è quindi del tutto ingiustificata l’imposizione sostitutiva, per di più agevolata a poco più del 10 percento, dei canoni di locazione. Se si vogliono incentivare le locazioni abitative, anche sul piano impositivo, sono ben altri gli interventi da porre in essere, sul piano della deduzione di oneri e spese (oltre che di certezza della proprietà dell’immobile, ma questo è un discorso non tributario). All’assurdità di questa flat tax delle rendite si accompagna quella della tassazione di piccoli commercianti e artigiani come fossero società, con la cosiddetta IRI; essa dimostra l'incapacità culturale di distinguere tra organizzazioni pluripersonali, cui si addice la determinazione documentale dei presupposti d’imposta, e attività coincidenti col lavoro del titolare. Si riproporrebbero per parrucchieri, tassisti e pasticcieri tematiche come quelle dell'accantonamento per imposte, delle riserve di bilancio e della distribuzione dei dividendi. Anche queste follie confermano l’opportunità di sostituire all’enfasi sulla delega, che poi partorisce il topolino come nel 2015, con una discussione permanente sulla determinazione amministrativa dei presupposti economici d’imposta, aggiustando le cose man mano che le mettiamo a fuoco nella comprensione sociale. Altrimenti si passerà da una delega all’altra, peggiorando ogni volta un po', nell’illusione di poter codificare quello che ancora dobbiamo capire.
[1] Sulla cui inutilità vedi retro il mio articolo del luglio 2021, Immagine politica e sostanza concettuale nella tassazione minima dei gruppi multinazionali
Magistratura onoraria e Ufficio per il Processo: (ulteriori) spunti per un sistema
di Carlo Sabatini*
Con questo breve scritto si intendono proseguire le riflessioni già pubblicate su questa rivista (Magistratura onoraria e Ufficio per il processo: spunti per un sistema - Giustizia Insieme) tenendo conto delle linee di intervento preannunciate dal legislatore e del vivace dibattito che ne è seguito: proponendo possibili soluzioni concrete, che valorizzino il preannunciato concorso di strumenti, normativi e finanziari, dedicati al settore giustizia.
Deve allora subito nuovamente sottolinearsi come il dichiarato intento del legislatore, di realizzare un salto di qualità nell’esercizio della giurisdizione, non può non passare dall’assicurare una dignitosa soluzione alla questione del ruolo cui è chiamata la magistratura onoraria e, in particolare, alla regolazione dello status degli onorari attualmente in servizio: le cui condizioni di riconosciuta (e non più protraibile) precarietà sono state più volte denunciate – oltre che con forza dalle associazioni di categoria, che hanno adìto anche gli organismi dell’UE (pronuncia del 16/7/20 della CGUE[1], con la quale è stata riconosciuta la qualifica di lavoratore a tempo determinato ai magistrati onorari; il 15/7/21 è stato poi preannunciato l’avvio di procedura di infrazione dalla Commissione Europea) - da ultimo anche dall’ANM, in un comunicato del 20/11.[2]
Si ritiene però che la normativa primaria e secondaria, ancora in larga parte in fieri, debba considerare attentamente alcuni caratteri, per evitare che questi fattori di potenziale innovazione vengano vanificati.
Il primo e centrale argomento è dato indubbiamente dalla peculiare condizione di chi si è trovato per anni ad assicurare, in un quadro normativo confuso e contraddittorio, un apporto essenziale alla giurisdizione: che è stata dai magistrati onorari reso in prima persona, svolgendo cioè essi direttamente alcune funzioni giudiziarie (giudicanti e requirenti) con la piena autonomia che ad ogni magistrato deve essere riconosciuta.
Non può allora non rilevarsi che qualunque forma di interruzione di tale apporto si risolverebbe in un grave danno soprattutto al servizio giustizia che – in un momento in cui viceversa si mira a ridurre arretrati e tempi di definizione - si troverebbe privato di tali suoi attori; e che eventuali ‘demansionamenti’ potrebbero trovare censure (oltre che nella giustizia dell’UE) anche nelle corti lavoristiche nazionali.
Dunque, impregiudicato ogni ruolo (anche diverso e vicario) che certamente potrebbe essere disegnato per la futura magistratura onoraria, si ritiene debba essere garantito a chi attualmente svolge tale servizio la possibilità di proseguirlo con le stesse caratteristiche.
A tale forma di essenziale apporto si ritiene rispondano bene alcune delle proposte (in parte già rese note) che la ‘Commissione Castelli’ ha offerto alla Ministra Cartabia.
La previsione per cui ‘A ciascun magistrato onorario non può essere richiesto di svolgere attività in favore dell’ufficio giudiziario per un tempo superiore rispettivamente alle tredici, nove o cinque giornate mensili’ sembra cioè individuare un minimum di apporto (cinque giornate mensili) che potrebbe corrispondere appunto allo svolgimento dell’attività giudiziaria in senso proprio, in continuità con quanto svolto sinora, allineando su tale modalità ‘di base’ le eventuali prassi diverse vigenti nei diversi Uffici. Verrebbe così garantita ai magistrati onorari già in servizio la possibilità di proseguire l’attività giudiziaria ‘tout court’, da svolgere con le medesime garanzie di indipendenza ed autonomia ora riconosciute: garanzie che – va debitamente sottolineato, a fronte di alcune opinioni espresse anche su questa Rivista[3] - non possono ritenersi incise dall’attribuzione di poteri di direzione e coordinamento da parte dei giudici professionali, che sono già noti nel sistema, contenuti ad esempio negli artt. 8 e 10 del D.Lgs 116/17, quali espressioni delle più generali e sovraordinate esigenze di efficienza e funzionalità dell'ufficio richiamate dall’art. 2 della stessa norma [4]. Con la ulteriore precisazione che tale opzione di base – che dunque escluderebbe la possibilità di assegnazione all’UPP – dovrebbe essere consentita appunto a tutte le categorie di magistrati onorari in servizio, non essendo ragionevole nella prospettiva di unificazione delle figure in quella unica del giudice onorario di pace la distinzione tra GOT e GDP operata dall’art. 30 co. 1 lett. a) del D.Lvo 116/17.
Proprio la previsione di un (facoltativo) impiego più ampio, di nove o tredici giornate, potrebbe invece essere correlato all’impiego nell’UPP: nel senso che alla dichiarata disponibilità a tale maggiore coinvolgimento, dunque su base volontaria, potrebbero corrispondere – secondo le necessità dei singoli Tribunali, disegnate per ogni triennio nei DOG - modalità di impiego diverse dall’esercizio della giurisdizione, anche con forme di vicariato e ausilio che sarebbero liberamente scelte dai magistrati onorari: variabilità di impegno sulla quale potrebbe essere modulata anche la disciplina delle incompatibilità con altre attività lavorative.
Proprio perché è necessario assicurare ragionevole certezza sulla formazione degli organici, non appare viceversa rispondente a tali esigenze la previsione – che sembrerebbe contenuta nell’art. 196 della legge di bilancio – di ingresso in ruolo degli onorari già in servizio attraverso concorsi: sistema che penalizzerebbe irragionevolmente operatori di giustizia che da tempo svolgono le loro funzioni, per i quali dunque sembrerebbe più congruo prevedere il meccanismo della conferma. Tra l’altro, la prevista protrazione di tali procedure concorsuali fino al 2024, ove accompagnata da incompatibilità assolute con altre forme di impiego e da livelli retributivi non congrui all’impegno richiesto, rischierebbe per un verso di sottrarre i magistrati onorari dallo svolgimento della loro funzione, dovendosi dedicare alla preparazione di tale concorso; per altro di allontanarli definitivamente da tali ruoli, trattandosi di persone che anche per ragioni anagrafiche potrebbero non trovare conveniente attendere che venga consolidato tale assetto. In parallelo al previsto percorso concorsuale (che assorbirebbe peraltro di per se stesso non poche risorse) potrebbe in definitiva assistersi a un progressivo impoverimento e svuotamento dei ruoli onorari, abbandono che rischierebbe di essere accompagnato comunque da azioni giudiziarie volte a riconoscere la pregressa attività svolta: meccanismo dunque che non risolverebbe i citati contenziosi.
La forma flessibile e variabile di impiego dei magistrati onorari già in servizio, proposta dalla Commissione Castelli, sembra a chi scrive invece molto più in linea con gli scenari futuri: a cominciare dalla previsione, per il quadriennio 2022-2025, dell’ingresso delle figure previste (a tempo determinato) dalla legge 113/21. Esclusa per tali neo assunti ogni forma di esercizio diretto della giurisdizione agli stessi potrebbero essere assegnati compiti che appaiono pienamente compatibili, e anzi complementari, con tutti quelli che potrebbero svolgere i magistrati onorari.
Provando a concretizzare quella che, per troppo tempo, è stata una mera formula, per l’UPP si potrebbe infatti immaginare[5] un catalogo di funzioni (di complessità crescente in relazione alla graduale acquisizione di competenze specifiche che potrebbero non esserci in partenza) che siano di ausilio all’intero ufficio - dunque ai magistrati onorari e togati ma anche di ‘trait d’union’ con le strutture amministrative che forse sono l’anello più debole della catena - passando progressivamente da attività materiali ad attività più propriamente concettuali e di elaborazione: dunque (pensando soprattutto al penale, che ancora vede una gestione prevalentemente cartacea di atti: e anzi, sfruttando tale momento proprio per avviarne a sua volta la dematerializzazione, il PPT più volte annunciato ma in larga misura inattuato) si potrebbe partire da una collaborazione nella materiale tenuta del fascicolo (con creazione ad esempio per i fascicoli più complessi di cartelle tematiche: notifiche, documenti allegati dalle parti ecc.), con una sua sempre maggiore informatizzazione; nella formazione dei ruoli di udienza (verificando per ciascun fascicolo quali adempimenti erano stati previsti e segnalando al giudice eventuali criticità); nella verifica delle attività prevista in udienza.
Si potrebbe poi passare ad un maggiore apporto alla fase di preparazione della decisione, ad esempio la redazione di schede che sintetizzino lo svolgimento dei processi e le relative risultanze istruttorie, affiancando tale attività anche ad attività di ricerca, inclusa la creazione di massimari tematici che consentano il consolidarsi di orientamenti dell’ufficio: con istituzione, ad esempio, di cartelle condivise tra i vari operatori. Potrebbero inoltre essere affidati la redazione della intestazione e il controllo del fascicolo per l’invio in appello, fase di transizione che spesso impegna le cancellerie giudicanti.
Soprattutto con la presenza a tempo pieno nell’UPP di magistrati onorari (che recupererebbero così la vocazione ‘conciliativa’ che era uno dei tratti iniziali di tale ruolo) se ne potrebbero poi potenziare le attività deflattive: dunque lo svolgimento di attività di verifica preventiva di definizioni anche stragiudiziali (nel penale remissioni di querele¸ condotte riparative, riti premiali, MAP; nel civile le conciliazioni ante causa).
Il meccanismo sopra descritto a parere di chi scrive è pienamente compatibile non solo con le funzioni giudicanti, civili (che già vedono, proprio in ragione della maggiore informatizzazione, una migliore interazione tra i vari attori del processo) e penali: ma può trovare piena applicazione anche nelle funzioni requirenti. Anche per gli attuali VPO l’adesione alla ‘formula base’ potrebbe corrispondere alla mera partecipazione in udienza, mentre le opzioni di maggiore impiego consentirebbero di rendere oggettive e ‘numerabili’ tutte quelle ulteriori forme di collaborazione – la predisposizione di provvedimenti seriali o degli strumenti deflattivi più propriamente demandati ai P.M., come i decreti penali; il controllo preventivo del fascicolo, prima della trasmissione al dibattimento - che finora stentavano a trovare una esatta collocazione.
L’esperienza così maturata potrebbe infine essere proiettata sui nuovi ruoli della magistratura onoraria: il meccanismo dell’affiancamento tra magistrati togati e magistrati onorari di maggiore esperienza, con figure che approdano all’esercizio diretto della giurisdizione solo dopo un congruo periodo di collaborazione nel sistema giustizia, appare infatti del tutto in linea con il sistema disegnato dall’art. 9 co. 4 del D.Lgs 116[6], in definitiva con l’acquisita consapevolezza del legislatore per cui lo sforzo individuale non è ormai più in grado di migliorare in maniera apprezzabile la risposta rispetto a carichi di lavoro che – oltre ad una auspicabile migliore delimitazione di ciò che deve trovare risposta giurisdizionale - una volta inseriti nel sistema giustizia devono essere gestiti in maniera collettiva, come recita la menzionata circolare del CSM, con uno staff dotato anche di competenze non strettamente giuridiche, che sia al servizio del magistrato e dell’ufficio.
E, ci si permette di aggiungere, del cittadino.
*Tribunale di Rieti
[1] Corte di Giustizia, caso UX iC-658/18, in CURIA - Documenti (europa.eu)
[2] “…Le preoccupazioni dei magistrati onorari vanno tenute in seria considerazione, sia perché le loro istanze, come lo stesso Ministero ha più volte affermato, hanno solido fondamento, sia perché inevitabilmente si ripercuotono in termini negativi sulle già difficili condizioni organizzative degli uffici giudiziari, che saranno aggravate da una settimana di astensione dalle udienze dei magistrati onorari.
Il forte auspicio è che il Ministero della giustizia apra ad un confronto anche con l’Associazione nazionale magistrati sulle soluzioni allo studio, ivi comprese quelle prospettate dalla commissione ministeriale incaricata di elaborare proposte di interventi in materia di magistratura onoraria, e che sappia assicurare le giuste tutele ai magistrati onorari in servizio da molti e molti anni, senza trascurare lo statuto costituzionale di onorarietà del loro prezioso impegno….”
[3] Sandra Leo, Ufficio per il Processo. Criticità costituzionali - Giustizia Insieme
[4] D.LVo 116/17 art. 1 co. 4 “Il magistrato onorario esercita le funzioni giudiziarie secondo principi di autoorganizzazione dell'attività, nel rispetto dei termini e delle modalità imposti dalla legge e dalle esigenze di efficienza e funzionalità dell'ufficio”.
[5] Le indicazioni che seguono tengono conto anche di quanto previsto nella circolare del CSM n. 19094 del 20/10/21
[6] “Nel corso dei primi due anni dal conferimento dell'incarico i giudici onorari di pace devono essere assegnati all'ufficio per il processo e possono svolgere esclusivamente i compiti e le attività allo stesso inerenti”.
Irretroattività e regime transitorio della declaratoria di improcedibilità (l. n. 134 del 2021)
di Giorgio Spangher
La Corte d’Appello di Napoli, Sez. I, con l’ordinanza 18.11.2021, proc. pen. n. 14045/2019, R.G. App. ha dichiarato irrilevante e manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 344 bis c.p.p. e della norma transitoria di cui all’art. 2, comma 3, l. n. 134/2021 per violazione degli artt. 3, 24, 25, 27 Cost. e 6 Cedu nella parte in cui non è prevista l’applicazione ai procedimenti in corso per reati commessi in epoca antecedente il 1° gennaio 2020.
Si tratta, verosimilmente, della prima decisione in punto di operatività dell’art. 344 bis c.p.p., introdotto dalla l. n. 134 del 2021, all’art. 2, lett. a e b, con il quale è stata prevista la declaratoria di improcedibilità per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione, come delineati dai commi 1-9 del citato art. 344 bis c.p.p. (operativo dal 19 ottobre del 2021).
Con i commi 3, 4 e 5 del citato art. 2 della l. n. 134 del 2021 è previsto il regime transitorio della citata decisione di improcedibilità.
In particolare, il comma 3 prevede che le citate disposizioni di cui all’art. 344 bis c.p.p., si applichino ai reati commessi successivamente al 1° gennaio 2020; il comma 4 fissa i termini per la declaratoria di improcedibilità dall’entrata in vigore della legge, qualora gli atti siano già pervenuti al giudice delle impugnazioni; il comma 5 disciplina la tempistica dell’improcedibilità nel caso in cui l’impugnazione sia proposta entro il 31 dicembre 2024.
Il nodo interpretativo sotteso alle citate previsioni riguarda la possibilità o meno di ritenere che esse disciplinino due situazioni separate ovvero che debba essere proposta una loro lettura coordinata, di cui la più ampia (comma 5) comprende la prima (comma 4) differenziandosi solo per il termine iniziale di decorrenza.
Dovendosi riconoscere – quanto meno – che le due previsioni siano frutto di un difetto di coordinamento, la Corte d’Appello di Napoli aderisce alla interpretazione sistematica delle stesse, contenuta nella relazione dell’Ufficio del Massimario della Corte di Cassazione del 3.11.2021 che al capo 19 suggerisce una lettura ritenuta maggiormente rispondente “alla logica ed alla ragionevolezza”. Le due previsioni saldandosi logicamente dovrebbero disciplinare il diverso termine di durata per tutti i giudizi da trattare fino al 31 dicembre 2024, siano essi o meno pendenti alla data di entrata in vigore della legge (fermo restando per quelli pendenti, la diversa decorrenza di detto termine stabilito dal comma 4).
Se si comprendono le ragioni pratiche-operative che sono sottese a questa ricostruzione, queste tuttavia non sono condivisibili.
Le due situazioni disciplinano situazioni diverse, decorrenze diverse, ma anche termini diversi, tempi diversi che sarebbe stato del tutto superfluo indicare nel comma 4 se regolati dal comma 5.
E’ possibile che nella concitazione delle mediazioni sia mancata “la lucidità” ma ciò non può indurre a stravolgere i dati normativi.
Per le indicate sottese ragioni, ci si potrebbe chiedere se i termini di cui al comma 4 siano suscettibili delle proroghe generali di cui all’art. 344 bis c.p.p. Anche in questo caso, tuttavia, la risposta dovrebbe essere negativa.
Il secondo profilo affrontato dalla Corte d’Appello di Napoli, che si sarebbe prefigurato già di per sé risolutivo, riguarda la questione della legittimità costituzionale dello sbarramento di operatività della nuova disciplina ai reati commessi antecedentemente al 1.01.2020.
Anche in questo caso il Collegio napoletano si rifà a quanto “affrontato approfonditamente” nella relazione dell’Ufficio del Massimario, aderendo alla ritenuta natura processuale e non mista (o ibrida) della declaratoria di improcedibilità e traendo indicazioni dalle sentenze della Corte costituzionale C. cost. n. 278/2020 e n. 140/2021 che proprio per i loro diversi esiti evidenziano come la disciplina di cui all’art 344 bis c.p.p. risponda ai canoni di legalità per i quali l’autore del reato deve essere posto nella condizione di conoscere la dimensione temporale del suo processo.
L’elemento “forte” del rispetto della dedotta questione di costituzionalità, risiederebbe altresì nella qualità “compensativa e riequilibratrice” della previsione, nella misura in cui intende assicurare una continuità tra l’applicazione della disciplina sostanziale e quella c.d. processuale, garantendo a tutti i processi pendenti in appello e in cassazione, per i reati commessi dal 1° gennaio 2020, un termine oltre il quale l’azione penale non può essere proseguita. Diversamente considerando, si determinerebbe una commistione tra termine di prescrizione e di improcedibilità, con conseguenti problemi di compatibilità e prevalenza dell’uno sull’altro.
Si tratta di opinione condivisibile nella misura in cui il nuovo regime imperniato sul sistema prescrizione-improcedibilità scardina l’attuale impianto processuale imperniato anche sul meccanismo dell’art. 129 c.p.p.
La decisione, naturalmente, lascia, allo stato, sullo sfondo tutte le altre questioni che la nuova previsione prospetta: dalla sua stessa costituzionalità in relazione non tanto con l’art. 112 Cost. (Ferrua), ma piuttosto con l’art. 101 Cost. e con l’effettività dell’attività giurisdizionale, sia con riferimento alla ragionevolezza, sia alla proporzionalità della declaratoria di improcedibilità; alle varie situazioni di operatività che non appaiono definite; al rapporto tra inammissibilità dell’impugnazione e improcedibilità; all’operatività in relazione alla responsabilità degli enti ex l. n. 231 del 2001, e solo per citare alcune questioni controverse.
Corte di giustizia, primato del diritto Ue e giudici onorari
di Roberta Calvano
Sommario: 1. Il primato del diritto Ue, tra Corti e diritti - 2. Stati membri riottosi e strumenti Ue di tutela - 3. I giudici onorari, lavoratori e magistrati secondo il diritto Ue, ma non nell’ordinamento italiano - 4. In mancanza di risposte, la Corte di giustizia rischia di arrivare prima.
1. Il primato del diritto Ue, tra Corti e diritti
Nel mese di ottobre 2021 il tema dei confini del primato del diritto Ue in relazione al diritto degli Stati membri è tornato ancora una volta alla ribalta con riferimento ad una sentenza della Corte costituzionale polacca in aperto contrasto con una importante decisione della Corte di giustizia, della quale metteva in discussione la prevalenza sul diritto interno. Lo scontro tra la Corte di giustizia ed una Corte costituzionale, non inedito per vero, se si pensa soprattutto a recenti accesi dialoghi a distanza con il BundesVerfassungsgericht e la Corte costituzionale italiana, è stato all’origine di un ampio dibattito[1]. La sentenza della Corte di giustizia tuttavia, che ad alcuni è parsa superare la lettera del Trattato Ue[2], si colloca nel solco di un contenzioso circa le garanzie di indipendenza dei giudici polacchi che prosegue da anni davanti alla Corte di giustizia[3], ma più in generale si inserisce in un risalente filone giurisprudenziale con il quale la Corte Ue ha inteso svolgere sin dai primi anni del processo di integrazione un ruolo paragonabile a quello di un giudice costituzionale, interpretando in modo ampio i propri compiti in due direzioni: verso l’ordinamento Ue, con riferimento all’equilibrio istituzionale interno della Comunità e poi dell’Ue, e verso gli Stati membri, sottolineando la rilevanza delle tradizioni costituzionali comuni e la necessità di tutelare i diritti fondamentali ben prima dell’avvento della Carta di Nizza. Nel fare ciò, il giudice Ue ha impiegato un criterio interpretativo dichiaratamente teleologico nella propria lettura del Trattato, criterio che è stato funzionale a guidare un’evoluzione dell’Ue compatibile con i paradigmi del costituzionalismo, o quantomeno atta a valorizzare i principi e le norme del trattato che a ciò si prestassero. Non va tuttavia idealizzato l’operato del giudice Ue, arrestandosi tali orientamenti sempre sulla soglia del possibile contrasto con la costruzione del mercato unico, le quattro libertà economiche fondamentali o, più in generale, “gli interessi finanziari dell’Unione”. Va poi ricordato, al fine di evitare una eccessiva enfasi ed una lettura illusoria del rapporto con le Corti nazionali come un irenico “dialogo”, come l’interpretazione teleologica si sia spinta talvolta fino a perseguire, anticipando il noto tema del whatever it takes, una pervasiva forza del diritto Ue anche oltre la lettera del Trattato, motivata con l’obiettivo della costruzione di una ever closer Union.
A seguito della sentenza polacca è quindi intervenuto il presidente del Parlamento europeo sottolineando che “Il primato del diritto UE deve essere indiscusso. Violarlo significa sfidare uno dei principi fondanti della nostra Unione. Chiediamo alla Commissione europea di intraprendere l’azione necessaria”. L’intervento del presidente Sassoli, che ha riaffermato l’indiscutibilità del primato del diritto Ue era probabilmente orientato dall’apprezzabile intento di continuare a promuovere il processo di integrazione e la costruzione costituzionale dell’Ue, che nel suo lungo percorso sembra attraversare oggi uno dei momenti più cruciali e difficili. Dal punto di vista giuridico costituzionale non parrebbe possibile concordare tuttavia con una lettura del principio del primato inteso quasi quale un “dogma indiscutibile” del processo di integrazione, a fronte di un’Unione tuttora fondata sul principio di attribuzione, nella quale l’ambito di applicazione del diritto Ue derivante dal Trattato è pur sempre ancorato ai confini delle materie rispetto alle quali gli Stati hanno acconsentito a limitare la propria sovranità.
Fatto sta, che il ruolo creativo e di law making della Corte di giustizia, e gli orientamenti giurisprudenziali finalizzati a garantire il rule of law, lo Stato di diritto e insomma il perdurante rispetto delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri torna ad apparire oggi vitale. Il giudice Ue è stato, come si sa, promotore della costruzione dell’Unione come “Comunità di diritto”. Se oggi continua ad esserlo con l’obiettivo di tenere agganciati ai cosiddetti “criteri di Copenaghen” gli Stati che aderiscono al modello delle “democrazie illiberali”, e più in generale quelli più di recente recuperati al novero delle democrazie liberali, a fronte della debolezza degli altri strumenti previsti dal Trattato (art. 7), resta fermo tuttavia il limite che tali interventi non possono che trovare nell’identità costituzionale degli Stati membri ai sensi dell’art. 4 del Tue[4].
2. Stati membri riottosi e strumenti Ue di tutela
Lo svolgimento da parte del giudice Ue di un ruolo di “motore” della tutela dei diritti fondamentali in alcuni settori, anche nell’ambito dei Paesi fondatori, come ad esempio l’Italia, rappresenta una vicenda più inattesa, sovente collegata ad una vigorosa difesa dei diritti sociali di cui talvolta la Corte di giustizia si è fatta promotrice. Ciò si è verificato nell’ordinamento italiano, dopo che in esso si sono in qualche misura cavalcate le indicazioni provenienti dalle politiche di bilancio imposte dall’Unione quale viatico per un indebolimento ed una perdita di prescrittività dei principi costituzionali relativi al lavoro, in particolare con riferimento al lavoro a tempo determinato nei diversi comparti del pubblico impiego. È avvenuto così ad esempio che la Corte di giustizia si sia trovata a richiamare il legislatore italiano e la Corte costituzionale al rispetto non solo delle direttive lavoristiche sull’abuso dei contratti a tempo determinato, ma delle stesse norme costituzionali interne sul diritto all’istruzione nel caso Mascolo, relativo ai docenti a tempo determinato nella scuola pubblica[5].
Ed è avvenuto più di recente nel caso UX, a luglio 2021, con riferimento allo status dei giudici onorari, su cui ci si soffermerà nel seguito del discorso. Sono orientamenti forieri di un innalzamento dei livelli di tutela garantiti dal legislatore che inducono a sottolineare l’importanza dell’impatto del diritto Ue per la tutela dei diritti, e la natura di pilastro del principio del primato del diritto Ue per la costruzione del processo di integrazione. In essi, le questioni pregiudiziali spesso si mostrano strumento più agevolmente percorribile rispetto alle procedure di infrazione, che nella fase precontenziosa possono finire col trovare una sede proficua di trattativa con i governi degli Stati membri, che spesso però promettono e non mantengono. Simili questioni sembrano dunque avere più di frequente uno sbocco risolutivo non grazie al ricorso per inadempimento da parte della Commissione, ma nelle questioni pregiudiziali, nel rispondere alle quali il giudice Ue censura la normativa nazionale incriminata.
Il diritto Ue andrebbe allora preso sul serio dagli Stati, ma anche dal giudice Ue, che nel suo orientarsi al mantenimento della legalità non deve smettere di garantire la puntuale applicazione del disposto del trattato, onde evitare un inasprirsi del conflitto politico con gli Stati membri, come dimostrano gli orientamenti relativi all’indipendenza del giudice. Tale fedeltà al diritto Ue va poi pretesa anche con riferimento alla normativa lavoristica, nella quale si realizzano i principi di un’Europa sociale e sostenibile, di cui pure il Trattato Ue prefigura un’immagine, anche se ad oggi essa appare alquanto sbiadita.
3. I giudici onorari, lavoratori e magistrati secondo il diritto Ue, ma non nell’ordinamento italiano
La Corte di giustizia, nel luglio 2020 ha dunque pronunciato una prima sentenza interpretativa[6] relativa allo status dei magistrati onorari italiani - giudici onorari di Tribunale, giudici di pace e vice procuratori onorari e giudici di pace -, tuttora ritenuti nell’ordinamento italiano soggetti che prestano un’attività a titolo di “volontari”, pur essendo incardinati nell’ordinamento giudiziario. Tali giudici, grazie alla cui attività viene gestito larga parte del contenzioso (non solo) civile, spesso sono in servizio da decenni, venendo i loro incarichi reiteratamente prorogati sin dai primi interventi legislativi istitutivi di tali figure. Simili a “figli di un Dio minore”, lavorando com’è noto “a cottimo”, con un’indennità simbolica, privi di tutele previdenziali, di maternità, di ferie retribuite, sono secondo la pronuncia UX, organi giurisdizionali secondo il diritto Ue, ai quali deve essere senz’altro riconosciuto lo status di lavoratori e la conseguente applicazione delle direttive Ue.[7]
A seguito della sentenza UX, e a cinque anni dall’archiviazione di un primo caso EU-Pilot[8] relativo allo status dei giudici onorari, la Commissione è ora tornata sulla questione, inviando, ai sensi dell’art. 258 TFUE, una lettera di costituzione in mora molto dura al Governo italiano, con la quale si preannuncia l’avvio di una procedura d’infrazione,[9] chiedendo di uniformare la legislazione nazionale a quella dell’Ue, in quanto il mancato riconoscimento dello status di lavoratori impedisce ai magistrati onorari di beneficiare della protezione offerta nelle direttive 1999/70/CE sul lavoro a tempo determinato; 97/81/CE sul lavoro a tempo parziale; 2003/88/CE sull’orario di lavoro; 92/85/CEE sulle lavoratrici gestanti.
A dirla tutta, anche sul versante interno non mancherebbe la normativa rilevante, ma una riflessione sulla perdita di effettività degli artt. 36 e seguenti della Costituzione e sulle ampie sacche di inattuazione degli stessi nella normativa sul pubblico impiego a tempo determinato esulerebbe dallo spazio e dalle ambizioni di questo intervento.
Come chiarito in passato dalla Corte di giustizia in relazione agli insegnanti a tempo determinato, anche per i magistrati onorari si pone il problema della tutela contro gli abusi derivanti da una successione di contratti a tempo determinato, non avendo i giudici onorari la possibilità di ottenere un adeguato risarcimento per tali abusi. Infine la Commissione non ha mancato di rilevare come la normativa posta nel decreto legislativo n. 116 del 2017, che avrebbe dovuto riordinare la materia, non abbia fornito risposte ai ricordati problemi.
4. In mancanza di risposte, la Corte di giustizia rischia di arrivare prima
Contemporaneamente all’esplodere della questione dei giudici onorari, all’ordine del giorno del Governo giungeva la questione dell’impiego delle importanti risorse destinate nel PNRR al capitolo della giustizia. Sarebbe superfluo ricordare in questa sede come tra le più importanti condizionalità poste nel Recovery fund nel capitolo destinato all’Italia vi sia la riforma della giustizia, i cui problemi hanno un impatto sul PIL ormai ben noto.[10]
Nonostante ciò, la richiamata lettera della Commissione concernente lo status dei giudici onorari non sembra essere entrata nella discussione sull’impiego delle risorse in arrivo, né aver prodotto ad oggi una reazione da parte del legislatore, ed in particolare del Governo italiano, se non quella di ritardare al 31 dicembre 2021 l’andata a regime del richiamato decreto legislativo n. 116, prendendo tempo per sciogliere la spinosa questione[11]. Parallelamente, si assiste ad un palleggiarsi la questione della giurisdizione sui ricorsi dei giudici onorari che rivendicano l’applicazione del dictum della sentenza UX tra Corte di Cassazione e TAR del Lazio, con la conseguenza che, privi di tutela, i giudici onorari non potranno che continuare ad attenderla da parte del giudice Ue. Ed in effetti è pendente davanti alla Corte di giustizia una questione pregiudiziale promossa dal Tar dell’Emilia Romagna[12] che abbraccia (e denuncia) tutte le violazioni rispetto alle già richiamate direttive Ue, derivanti dalla disciplina dello status giuridico ed economico dei nostri giudici onorari. Si prospetta allora la possibilità che, anche qualora le promesse del nostro legislatore di sanare le violazioni delle direttive riuscissero nuovamente a blandire la Commissione Ue, come già avvenuto su questa materia (e come avvenne prima del caso Mascolo su di una procedura di infrazione concernente l’abuso dei contratti a tempo determinato nella scuola), il giudice Ue si trovi oggi a dover nuovamente bacchettare il legislatore italiano. Nel farlo non dovrebbe lamentare solo la violazione della normativa Ue, ma potrebbe trovarsi a ricordare all’Italia il necessario rispetto degli artt. 24, 35, 36, 37 113, 101 c. 2, 107, 108, 111, nonché 11 e 117 c.1 Cost. E, come allora ricordò che il diritto all’istruzione richiedeva un organico di insegnanti a tempo indeterminato adeguato alla consistenza numerica (statisticamente nota e prevedibile nel tempo) della platea dei discenti, potrebbe oggi istituire analogo nesso a garanzia del diritto alla tutela giurisdizionale, con riferimento alla necessità di un organico del personale requirente e giudicante a tempo indeterminato – togato ed onorario - adeguato, almeno in linea tendenziale, rispetto alla mole del contenzioso pendente e prevedibile.
[1] Sentenza del 7 ottobre 2021, n. K 3/21, su ricorso del capo del governo Mateusz Morawiecki. La Corte tedesca aveva dichiarato ultra vires il quantitative easing con sentenza 2 BvR 859/15 - 2 BvR 1651/15 - 2 BvR 2006/15 - 2 BvR 980/16, del 5 maggio 2020; la Corte costituzionale ha dialogato con la Cgue nella nota saga “Taricco”.
[2] A. Mangia, L’Ue viola i Trattati pur di punire la Polonia, in La Verità, 10 ottobre 2021.[3] G. Repetto, Incroci (davvero) pericolosi. Il conflitto giurisdizionale sull’indipendenza dei giudici tra Lussemburgo e Varsavia, in Diritti comparati, 2018.
[4] “1. In conformità dell'articolo 5, qualsiasi competenza non attribuita all'Unione nei trattati appartiene agli Stati membri. 2. L'Unione rispetta l'uguaglianza degli Stati membri davanti ai trattati e la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali. Rispetta le funzioni essenziali dello Stato, in particolare le funzioni di salvaguardia dell'integrità territoriale, di mantenimento dell'ordine pubblico e di tutela della sicurezza nazionale. In particolare, la sicurezza nazionale resta di esclusiva competenza di ciascuno Stato membro.”
[5] Corte di giustizia, sentenza in C-22/13 del 26 novembre 2014.
[6] Corte di giustizia, caso “UX”, in C-658/18, sentenza del 16 luglio 2020.
[7]La violazione della Carta Sociale Europea è stata accertata dal CEDS (Comitato dei Diritti Sociali) con decisione del 5.07.2016 sul ricorso n. 102/2013. ll Collegio ha affermato che la normativa e i comportamenti concreti posti in essere dalla Repubblica italiana nei confronti dei magistrati onorari violano l’art. E in combinato disposto con l’art. 12§1 della Carta sociale europea e dei suoi Protocolli,
[8] Procedura Eu Pilot 7779/15/EMPL – DPE 0007062 P-4 22.17.4.5 del 10.6.2016.
[9] Procedura n. 2016/4081.
[10] Un’ultima stima in una ricerca dello studio Ambrosetti, i cui parla il Corriere della sera del 7 settembre 2020 (I ritardi della giustizia civile costano 40 miliardi di Pil) parla di una percentuale tra il 1,3% e il 2,5%.
[11]Sebbene sia sopraggiunto nel ddl di bilancio lo stanziamento di cifre destinate ad affrontare almeno parzialmente il problema (art. 196, ddl 2448 AS).
[12] Incardinata dinanzi alla Corte di giustizia come C-236/20.
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