ISSN: 2974-9999
Registrazione: 5 maggio 2023 n. 68 presso il Tribunale di Roma
Brevi osservazioni su una pronuncia cautelare della Supreme Court of the United States in tema di effetti della pandemia da Covid 19
di Mario Serio
Sommario: 1. Comparazione giuridica e formante giurisprudenziale - 2. La corte Suprema USA di fronte agli effetti della pandemia nei rapporti tra proprietari ed inquilini - 3. Gli elementi della fattispecie in esame - 4. La decisione della corte distrettuale della Columbia - 5. La ratio decidendi di primo grado - 6. La sospensione degli effetti della sentenza di primo grado - 7. La conferma della sospensione degli effetti della sentenza di primo grado da parte della stessa corte distrettuale - 8. Il ricorso alla Supreme Court federale - 9. L'opinione di maggioranza della Supreme Court - 10. L'opinione di minoranza della Supreme Court - 11. Spunti finali.
1. Comparazione giuridica e formante giurisprudenziale
La comparazione giuridica, intesa nella sua più schietta declinazione di criterio di osservazione di realtà distinte e talvolta distanti da quelle cui lo studioso è “iure loci” aduso e di conseguente selettrice di affinità e divergenze tra le stesse, ben può essere impiegata per scorgere, nelle pieghe degli ordinamenti stranieri, elementi sintomatici di concezioni profonde della vita sociale e di quelle individuali e del sistema di valori che le ispirano. A fungere da strumento rivelatore di questi, talvolta nascosti, caratteri spesso valgono, per la vastità delle implicazioni che ne derivano e per il necessario dispiegamento di un apparato argomentativo che attinge a livelli meta od extra giuridici, le fonti giurisprudenziali. In esse, infatti, più esattamente nelle menti e nelle parole delle persone-giudici che le incarnano, si annida quel complesso sostrato di idee, principii, sentimenti, visioni ideologiche di cui è necessariamente intessuta una società organizzata in forme e secondo strutture giuridiche. Perché i soggetti costitutivi dell'ordinamento che si esprime attraverso le rispettive pronunce mai e per nessuna ragione possono o debbono, nel momento di svolgimento dell'ufficio istituzionale, dissociarsi dalla propria concreta identità culturale, morale, politica che, espressamente o tacitamente, beneficamente traluce dai loro atti. E così la lettura in senso critico di un documento giudiziario contribuisce a schiarire il contesto territoriale ed ideale nel quale esso si colloca, donando al lettore il vantaggio della penetrazione per la via del diritto in un territorio conoscitivo che può abbracciare l'intero complesso di relazioni sociali ed umane che vi si svolge. E se a questo ricco risultato si giunge quando lo sguardo è rivolto verso mondi stranieri è giocoforza chiamare la comparazione giuridica a testimone ed artefice della conquista culturale così ottenuta.
2. La corte Suprema USA di fronte agli effetti della pandemia nei rapporti tra proprietari ed inquilini
Il preambolo appena enunciato, di larga ed essenziale applicazione ad ogni seria ricerca comparatistica, in special modo se incentrata sul versante giurisprudenziale, trova una propria specifica legittimazione metodologica con riguardo ad una recente pronuncia interlocutoria e con fini cautelari della Supreme Court of the United States resa il 26 agosto 2021 nel caso Alabama Association of realtors et al. v Department of health and human services et al. ( 594 U.S. 2021).
Se si cercasse, più o meno fruttuosamente, di condensare i termini della controversia, ravvisati nella sfera di interessi, collettivi ed individuali, implicati si potrebbe indicare gli antagonisti rispettivamente nella difesa della proprietà immobiliare privata e delle correlate utilità e nella protezione ordinamentale dell'ampia schiera dei non proprietari affetti da circostanze economiche e sanitarie di intensissima avversità. Si potrà vedere nel corso di queste notazioni sparse che le due categorie contrapposte sono perfettamente in grado di contemplare al proprio interno ulteriori profili di contrasto, o meglio ancora, di ospitare concezioni della complessità sociale più articolate e taglienti.
3. Gli elementi della fattispecie in esame
La fattispecie sottoposta all'esame della Supreme Court in via di urgenza, che portò ad una decisione adottata con il voto favorevole di 6 giudici e quello contrario degli altri 3 (Sotomayor e Kagan che dichiararono di convergere nell'opinione dissenziente redatta dal loro collega Breyer) ,onusta di passaggi procedurali di cui in questa sede vanno colti e descritti solo i salienti, si inscrive drammaticamente tra i gravi effetti collaterali globalmente causati dalla diffusione pandemica negli Stati Uniti d'America del virus induttivo del Covid 19.
È dato di comune esperienza mondiale che all'incontrollabile dominio assunto dalla malattia abbia in misura corrispondente fatto riscontro una pari flessione della circolazione e produzione di ricchezza e l'inevitabile raggiungimento di alte vette di impoverimento generatrici di drammatici mutamenti deteriori nelle generali condizioni di vita.
In questo scenario non poteva non irrompere con tempestività il ramo congressuale del Parlamento statunitense che, nel marzo 2020,approvò il Coronavirus Aid,Relief and Economic Security Act diretto ad allevia re i gravi pesi determinati dalla patologia. Tra le varie ed estese misure adottate con lo scopo di mitigare gli effetti sociali ed economici del coronavirus fu introdotta quella, di carattere temporaneo, con cui fu sospese per 120 giorni l'esecuzione degli sfratti riferiti ad immobili aventi particolari caratteristiche, quali l'inclusione in programmi federali di assistenza o il godimento di mutui agevolati di origine anch'essa federale. Tale misura non fu rinnovata né prorogata alla sua scadenza dal Congresso. A colmare la lacuna, prolungando fino all'ultimo giorno del 2020 l'efficacia delle disposizioni agevolative ormai scadute, intervenne un'agenzia governativa il Center for Disease Control and Prevention (d'ora in poi CDC) nella persona del suo direttore che impose una moratoria in quell'ambito temporale agli sfratti nei confronti di inquilini abitanti in contee nelle quali fosse particolarmente elevato il rischio di propagazione del virus e che versassero in gravi situazioni di difficoltà economica. Allo spirare del nuovo termine il Congresso votò per una proroga di un mese del provvedimento del CDC. Quest'ultimo, in assenza di nuovi provvedimenti legislativi, adottò due successive proroghe trimestrali, seguite da altra estensione fino al luglio 2021.Le progressive deliberazioni del CDC assunsero come base giustificativa dell'esercizio del relativo potere il paragrafo 361 (a) del Public Health Service Act del 1944 e delle successive modifiche ed integrazioni che attribuisce al Surgeon General (autorità federale in posizione apicale in materia di igiene e salute pubblica, le cui funzioni sono state nel 2020 delegate proprio al CDC) il potere di emanare i provvedimenti più opportuni (sanificazioni, disinfestazioni, divieti di importazione, abbattimento di animali infetti, etc.) al fine di prevenire la trasmissione o la diffusione di malattie contagiose di origine straniera. Le ultime due proroghe della sospensione dell'esecuzione degli sfratti immobiliari ricadenti nelle aree prima indicate sono state in tempi diversi impugnate davanti la corte distrettuale della Columbia da più associazioni di proprietari che ne hanno chiesto la dichiarazione di illegittimità in via di urgenza con connessa concessione dell'inibitoria alla sua protratta vigenza. La ragione addotta per il promuovimento dell'azione fu quella dell'assoluta carenza di potere da parte del CDC di disciplinare materia ,quella della regolamentazione degli sfratti quali strumenti volti ad assicurare il pieno godimento della proprietà immobiliare, rientrante esclusivamente nelle attribuzioni del Congresso.
4. La decisione della corte distrettuale della Columbia
La tesi fu accolta dalla corte, che in tal senso emise una pronuncia di natura sommaria legata alla urgenza dedotta dagli attori. Tuttavia, la stessa Corte, resa edotta dell'intendimento dell'agenzia resistente di proporre impugnazione, sospese gli effetti della propria pronuncia.
5. La ratio decidendi di primo grado
Di particolare interesse si dimostra il ragionamento compiuto dalla District Court for the District of Columbia nel maggio 2021 a sostegno della propria. decisione soprassessoria. Essa non fu, infatti, dettata dalla ragionevole previsione di successo dell'appello della CDC, quanto, piuttosto, dal vincolo da cui i Giudici si sentirono avvinti di rispettare il tradizionale ,quadruplice ordine di fattori destinati ad assicurare il successo alla domanda inibitoria degli effetti di una decisione di merito di per sé esecutiva. Ed invero, attorno alla loro ricorrenza nel caso in esame sarebbe poi ruotato il dissenso registratosi nel collegio della Supreme Court. La quadripartizione trova da ultimo una chiara illustrazione nel caso Nken v. Holder del 2009 ed è così riassumibile: la delibazione sull'istanza di sospensione dell'esecuzione della sentenza deve tener conto dei seguenti elementi: a) della dichiarata volontà della parte soccombente di impugnarla; b) della sussistenza di un pregiudizio irreparabile per la parte richiedente in caso di diniego della tutela cautelare; c) delle eventuali conseguenze dannose per le altre parti del giudizio discendenti dall'accoglimento della domanda; d) dell'individuazione del pubblico interesse riconducibile alla pronuncia. Sulla base del soppesamento di questi elementi la corte distrettuale di primo grado ha ritenuto che militassero ragioni prevalenti per l'accoglimento della domanda cautelare di sospensione degli effetti di una pronuncia sfavorevole all'agenzia istante.
6. La sospensione degli effetti della sentenza di primo grado
La stessa corte distrettuale fu di nuovo chiamata a pronunciarsi sulla possibilità di revoca della propria ordinanza di sospensione dell'efficacia della precedente sentenza agli inizi di agosto 2021 a seguito di apposita richiesta formulata dalle associazioni di proprietari immobiliari che avevano originariamente reagito ai precedenti provvedimenti della CDC. Quest'ultima, infatti, sopraggiunto il termine del 31 luglio 2021 dell'ultima proroga della sospensione degli sfratti, ribadì ultrattivamente il proprio provvedimento.
7. La conferma della sospensione degli effetti della sentenza di primo grado da parte della stessa corte distrettuale
La Corte distrettuale nuovamente adita in via cautelare ha mantenuto fermo il proprio anteriore provvedimento moratorio dell'esecuzione della sentenza favorevole agli attori per non contraddire l'orientamento prima citato in tema di condizioni per la concessione della tutela cautelare: ma questa volta la Corte non si è trattenuta dal manifestare il proprio rammarico per questo esito, sottolineando che la situazione rispetto alla previa occasione era mutata nel senso che, accanto alla mantenuta prognosi sfavorevole all'accoglimento dell'impugnazione della CDC, si aggiungeva la considerazione equitativa secondo cui mentre la categoria degli inquilini era più prospera in conseguenza di cospicui aiuti governativi in termini di contributi economici e di incremento del numero dei vaccini somministrati che preservava da contagi incontrollati, la situazione dei proprietari era rimasta immutata, al pari della loro impossibilità di ottenere alternativamente la corresponsione dei canoni arretrati o la disponibilità dell'immobile.
8. Il ricorso alla Supreme Court federale
Contro questo provvedimento di rigetto della domanda tendente alla dichiarazione di immediata ed incondizionata esecutività della sentenza favorevole hanno proposto ricorso in via d'urgenza le associazioni di proprietari davanti la Supreme Court, riunitasi in camera di consiglio e non in udienza pubblica.
Il tema essenzialmente controverso in quella sede discusso dalle parti con semplice trattazione scritta fu congiunto, essendosi nell'opinione “per curiam” (fermamente contestata da quella dissenziente) sostanzialmente cumulato l'aspetto di merito dell'azione e, quindi, della legittimità dei provvedimenti della CDC e quello riguardante la effettiva presenza delle condizioni giustificative dell'inibitoria. Proprio in questo reticolo motivazionale risiede, come si potrà in seguito constatare, la divergente impostazione, non solo tecnico-giuridica ma di forte connotazione socio-economico-culturale, che ha diviso e visto contrapposte le due anime, conservatrice e progressista (tali anche in relazione alle rispettive provenienze politiche delle nomine),della Supreme Court, rendendo in certo modo esemplare la sentenza.
9. L'opinione di maggioranza della Supreme Court
La Corte a maggioranza ha ritenuto fondata ed ha accolto la domanda delle associazioni proprietarie ,revocando l'ordine di sospensione dell'esecuzione della sentenza di primo grado.
A differenza della corte distrettuale quella suprema ha accordato ampio e decisivo credito alla prognosi circa l'esito dell'impugnazione eventualmente proposta dall'amministrazione soccombente, giudicando molto esigue le probabilità di successo, sotto il profilo che l'ambito delle misure che in periodi di contagio di malattie infettive la legge del 1944 come successivamente modificata ,molto esteso per quel che attiene a disposizioni di genuina natura sanitaria, non sembrava comprenderne altre ramificate in settori del tutto diversi, quali quello degli sfratti. A tal proposito la Supreme Court ha enunciato un principio interpretativo di portata costituzionale secondo il quale è auspicabile che il Congresso si esprima con chiarezza allorché autorizzi un'agenzia governativa ad esercitare poteri di grande significato economico e politico (“We expect Congress to speak clearly when authorising an agency to exercise powers of vast economic and political significance”). Il ragionamento ha preso un'ulteriore piega sul piano inclinato dei rapporti tra legislazione federale e legislazione statale, tracciando una netta linea di confine, all'esterno della quale ha collocato la sola competenza di quest'ultima a regolare i rapporti tra proprietari immobiliari ed inquilini. A questa stregua, particolare rigore va posto nella delimitazione delle attribuzioni dell'agenzia per il controllo e la prevenzione delle malattie infettive (la CDC, appunto),insuscettibili di indebita espansione oltre gli stretti sentieri legislativamente fissati.
La Corte suprema non si è accontentata però di mantenersi lungo la strada del controllo di legittimità costituzionale dei provvedimenti devoluti al suo esame: essa ha inteso inerpicarsi nell'aspro sentiero delle considerazioni puramente equitative (per stare al suo linguaggio),in sostanza occupando l'area del dibattito in ordine alla qualificazione del contenuto delle posizioni soggettive, proprietarie e locatarie, in conflitto tra loro. Ed in quel momento traspare - come specularmente è accaduto nell'opinione minoritaria - l'anima di politica giudiziaria della pronuncia. Essa si è manifestata sotto una doppia luce, di accecante caratura ideologica. In primo luogo, la maggioranza della Corte ha svelato il proprio orientamento, espresso secondo il parametro della giustizia del caso concreto che comunque obbedisce a principii generali, in termini di scelta di campo tra posizioni e pretese contrapposte, dichiarando l'insussistenza di ragioni appunto equitative che giustificassero la privazione in danno dei proprietari dei benefici scaturenti dalla pronuncia di primo grado che li aveva visti vittoriosi. Ben più sintomatico del generale atteggiamento della Corte si palesa lo sviluppo del precedente discorso condotto alle sue conseguenze ultime, quelle per le quali la categoria proprietaria, potendo contare nel proprio seno anche persone di modesti mezzi finanziari, non doveva essere tenuta a sopportare un significativo onere economico collegato alla pandemia e consistente nella privazione della più basilare delle facoltà connesse al diritto di proprietà, ossia l'esclusione di chiunque altro dal godimento della cosa propria, in ciò in pratica risolvendosi l'esercizio dell'azione di sfratto. All'argomento socio-economico la Supreme Court ha, tuttavia, avuto cura di far seguire quello nomofilattico in senso costituzionale: solo il potere legislativo, nella fattispecie il Congresso, può dirsi dotato della legittima scelta di assecondare l'interesse pubblico a scongiurare gli effetti perniciosi della pandemia anche sacrificando temporaneamente alcune della facoltà proprietarie ed incidendo sull'assetto dei rapporti locativi. E tale compito il Congresso aveva assolto solo parzialmente, circoscrivendolo ad un periodo determinato e non rinnovandolo nel tempo successivo. Non poteva, pertanto, identificarsi in un'agenzia governativa l'organo titolare di una così incisiva potestà, non rientrante tra quelle tipicamente riconosciute per far fronte a situazioni di emergenza sanitaria dal Public Health Service Act. E tale carenza di competenza non poteva trovare utile spiegazione legittimante nemmeno nell' (insindacabile, tanto più se si fosse prestata al dubbio, concepibile nella fattispecie, della piena consapevolezza degli effetti nascentine) inerzia legislativa. Alla luce di questa articolata riflessione la Supreme Court ha ritenuto improseguibile, in difetto di un' espressa autorizzazione Congressuale, la moratoria all'esecuzione degli sfratti imposta dalla CDC.
Prima di guardare all'altra faccia della medaglia decisoria, costituita dall'opinione di minoranza del giudice Breyer, confortata, come già ricordato, dall'adesione dei giudici Sotomayor e Kagan, una concisa osservazione su quella “per curiam” avvalora l'impressione che nel suo impianto possa riscontrarsi un'equa ripartizione tra argomenti riferibili alla predicata preservazione della demarcazione delle attribuzioni tra poteri dello Stato e concezione rigida ed invalicabile del contenuto delle facoltà in cui si articola il diritto di proprietà, prima tra esse lo “ius excludendi omnes alios”.L'impressione stessa si accresce di un tratto constatativo che induce a credere che non di argomenti parallelamente e cumulativamente spesi si sia in effetti trattato ,quanto di una meditata e conforme al pensiero della maggioranza preordinazione dei primi, di indiscutibile persuasività e robustezza giuridica, a conforto della affermata preminenza, in una logica di opzione bilanciata tra situazioni antagoniste, di quella dominicale.
10. L'opinione di minoranza della Supreme Court
Solo all'apparenza distinta può valutarsi la tecnica redazionale e logica cui ha aderito l'opinione di minoranza, nel preciso senso che l'opposta scelta valoriale-tendente a mantenere l'ago della bilancia saldamente puntato verso il binomio tutela della salute pubblica in combinazione con la protezione delle categorie contrattuali più esposte ai negativi precipitati economici della crisi sanitaria- è stata sostanzialmente scandita all'insegna di altrettanto recise posizioni collocabili nel perimetro propriamente tecnico-giuridico. Più in particolare, la minoranza ha indirizzato le proprie attente considerazioni sul terreno-evidentemente reputato come l'unico esplorabile data la natura sommaria ed interlocutoria del procedimento- della presenza delle condizioni concretamente ravvisabili allo scopo di rimuovere l'originaria sospensione degli effetti della decisione di primo grado, attraendo in esse l'analisi circa la gamma di prerogative legislativamente riservate alla CDC in fattispecie del tipo di quella in esame, così tacitamente aggirando il tema di decisione riflettente la lamentata violazione della sovranità parlamentare.
In sintesi, l'opinione del giudice Breyer, ha preso le mosse dalla ferma e dichiarata convinzione, difficilmente contestabile, che in via di principio la revoca, da parte di una corte superiore, in questo caso posta addirittura al vertice dell'organizzazione giurisdizionale federale, possa solo trovare adeguato fondamento nel chiaro e dimostrabile errore nell'applicazione dei criteri comunemente accettati per giungere a tale risultato. Il suffragio di questa premessa è stato opportunamente scorso nel precedente della Supreme Court nel caso del 2013 Planned Parenthood of Greater Tex. Surgical Health Servs v Abbott (con una punta di malizia vien fatto notare che la decisione fu adottata con l'opinione concorrente del giudice Scalia ,che fu in vita l'epitome del conservatorismo circolante nella corte di vertice, favorevole al diniego della revoca dell'ordine di sospensione dell'efficacia della pronuncia di grado inferiore). L'orientamento stabile della giurisprudenza federale si innesta nella salvaguardia del quadruplice criterio di cui si è detto nei paragrafi precedenti (intenzione della parte soccombente di impugnare la pronuncia a sé sfavorevole, esistenza di un pregiudizio irreparabile per essa nel caso di mancata concessione dell'inibitoria, comparazione dell'interesse del soccombente con quello delle altre parti processuali, soppesamento dell'interesse pubblico ad una pronuncia in un senso o nell'altro tra quelli a confronto). I giudici dissenzienti hanno espresso, sulla base di una triplice ragione, il punto di vista che nessun apprezzabile errore fosse imputabile alla corte distrettuale che aveva mantenuto fermo l'ordine di sospensione degli effetti della propria sentenza. Sommariamente esposte le ragioni, esse possono condensarsi nei termini che seguono. La prima di esse, la più direttamente implicante una risposta di stampo costituzionale alle contrarie conclusioni della maggioranza, risiede nella confutazione della tesi che all'agenzia potesse chiaramente rimproverarsi una chiara mancanza di potere di emanare i provvedimenti di moratoria degli sfratti successivi al primo, in quanto limitati alle sole zone nelle quali ancora alto ed insuperato apparisse il pericolo pandemico e sottoposti a severe restrizioni che ,tenendo conto di una serie di parametri attuativi sia soggettivi sia oggettivi, sensibilmente attenuavano e diminuivano quantità e qualità degli interventi ricadenti nella sfera dei proprietari immobiliari. Del resto, tali interventi trovavano la loro sufficiente base giustificativa primaria nelle disposizioni della legge del 1944 e delle sue sopravvenute modificazioni prevedente un cospicuo ventaglio di misure affidate alla CDC nell'adempimento dei propri compiti di governo e controllo delle malattie infettive diffusibili. Né sarebbero stati offerti elementi utili a smentire l'affermazione secondo cui la lettera della legge debba ritenersi ostativa al varo delle misure in questione ,anche in ragione della mancata censura da parte del Congresso delle politiche utilizzate dalla CDC nel campo degli sfratti. Il secondo ordine di ragioni illustrato nell'opinione di minoranza per discostarsi da quella di maggioranza acquista un sapore più rimarchevole dal punto di vista della costruzione socialmente orientata del sistema dei rapporti nel mercato delle locazioni immobiliari. In particolare, è stato respinta la tesi della preponderanza dell'esigenza di porre un freno alla perdita di somme cospicue da parte dei proprietari immobiliari a causa della mancata percezione dei canoni locativi da parte di incolpevoli inquilini rimasti privi per la crisi sanitaria di idonei mezzi economici rispetto alla necessità, nascente dal perseguimento di obiettivi igienico-sanitari ,di evitare nelle aree ad accertata, elevata densità di morbilità gli spostamenti di massa conseguenti all'esecuzione degli sfratti. Anche la terza delle ragioni cui la minoranza ha prestato adesione esibisce una affatto celata propensione all'accoglimento nell'orbita decisoria e di opzioni accreditabili alla Supreme Court di valutazioni di netta caratterizzazione in termini di politica giudiziaria ispirata ad un particolare e ben contrassegnato ordine valoriale. Ed infatti, è forte ed alta l'affermazione dei dissenzienti nell'affrontare la questioni riguardante l'impatto del fattore descritto come quello dell'interesse pubblico “al fine di dirimere la “res litigiosa”. Essi senza reticenze hanno, da un canto, ribadito l'ovvio concetto che mai ed in nessun caso l'interesse pubblico può dirsi essere favorito dall'accrescimento del numero dei contagi e che, d'altra parte ed analogamente, a questa causa non potrebbe giovare la caducazione dei provvedimenti della CDC, tenuto conto dell'ancora altissima percentuale della malattia virale nelle varie contee dell'intera federazione: dato statistico del tutto atto a controbattere ottimistiche previsioni circa l'acquisito dominio sull'infezione, in passato rivelatesi tragicamente inveritiere. Tirando le somme del nugolo di osservazioni compiute la minoranza ha concluso nel senso che allo stato del giudizio i vari profili in esso dibattuti non fossero stati ancora, a causa del carattere sommario della fase procedimentale, sufficientemente esplorati e non consentissero la formazione di una incontrovertibile e certa opinione circa l'insostenibilità della pronuncia inibitoria dell'esecuzione della propria sentenza di merito emessa dalla medesima corte distrettuale: l'obbligata conclusione è stata, pertanto, secondo il parere della minoranza, che tale pronuncia non fosse meritevole di riforma.
11. Spunti finali
Come il titolo di questo scritto preannuncia, la decisione oggetto di commento si presta ad alcune, brevi e sparse considerazioni più orientate verso i criteri e gli stili argomentativi circolanti in ordinamenti di common law, e nella fattispecie in quello nord-americano, che verso il merito della fattispecie, in cui è appariscente la plausibile convivenza di posizioni diverse, tutte egualmente sostenibili ed opinabili a seconda del punto di osservazione ideale e socio-economico, oltre che strettamente giuridico, nel quale ci si voglia collocare.
Si può convenientemente partire dal giusto credito che va tributato all'ammissibilità dell'esternazione di tutte le opinioni manifestate dai giudici del collegio decidente ed alla sublimazione della rispettiva raccolta nel salutare manicheismo della formula maggioranza-minoranza - dissenziente ,appena temperata dalla riconosciuta presenza di quelle concorrenti con la posizione “per curiam” del diritto statunitense. E ciò si dice non solo per sposare il dato tecnico, particolarmente esaltato nel sistema delle fonti del common law inglese, del possibile affievolimento del grado di vincolatività (addirittura capace di sfumare al rango della semplice “persuasività”) del precedente non unanime ma, soprattutto, per far risaltare il benefico apporto che sul piano del democratico controllo esterno dell'affidabilità delle decisioni giudiziarie può dare la conoscenza del dibattito interno all'organo giurisdizionale. La positività dell'apporto non va solo calcolata sul terreno della chiara identificabilità delle personalità dei singoli giudici e del correlato bagaglio ideale, ma va piuttosto colta nell'arricchimento della piattaforma critica alla cui stregua porsi per valutare in modo informato e maturo un dato provvedimento giurisdizionale, eventualmente scavando le radici per un suo possibile, evoluto superamento o emendamento. Auspicabili evenienze, queste, precluse dalla pubblicazione di una monolitica pronuncia che non lasci in alcun modo sprigionare l'aria salubre della serrata discussione che non può non circondare il momento dell'effettuazione della camera di consiglio. In questa sede non si può che tornare ,per percorrerli nuovamente, sui passi, finora battuti senza apprezzabili successi, diretti alla formulazione della finora inedita regola della divulgabilità anche nell'ordinamento italiano di tutte le opinioni espresse dai componenti tutti gli organi giurisdizionali di vertice. E travolgere il fascinoso quanto pericoloso mito dell'esigenza di non indebolire la portata nomofilattica ed esemplare delle relative pronunce non può né deve apparire eversivo o velleitario ma strumento di crescita della conoscenza diffusa e di affinamento del rispettoso senso critico verso la giurisprudenza, così sbarrando la strada alla scorciatoia che si invera attraverso il dileggio e la generica delegittimazione.
Un altro livello di osservazioni appare facilitato dall'esame della fattispecie qui trattata: esso attiene allo scottante, ma ineludibile, problema della legittimità, o quanto meno della opportunità, del disvelamento, attraverso la propria opinione, dell'identità culturale, sociale, in senso lato politica del relativo autore. È materia quotidianamente ricorrente nel dibattito giudiziario italiano, sovente contaminato dall'incursione, non di rado maldestra, della dimensione soggettivamente ed oggettivamente politica, quella che con crescenti gradi di malignità tende ad identificare ipostaticamente nei tratti in senso lato biografici dell'autore del provvedimento il suo movente o la recondita chiave di spiegazione, additiva se non alternativa rispetto a quella risultante dal testo della motivazione. Il più grave rischio rinvenibile in siffatta maniera di venire in contatto con i frutti dell'attività giurisdizionale sta forse ,ancor prima che nello spesso e non irragionevolmente paventato discredito dell'intero ordine, nel diniego assoluto di accreditare al singolo giudice la libertà di esercizio dell'alto compito sociale di non segregare da sé nell'atto di amministrazione della giustizia la propria complessa umanità, mai scomponibile o valutabile solo nei suoi singoli atomi (etici, socio-economici, di sentire politico-istituzionale) costitutivi. La diversa visione si rivelerebbe incompatibile con l'aspirazione che tutti i cittadini hanno il diritto di fondamento costituzionale di coltivare di trovarsi di fronte ad una/o donna-uomo giudice meritevole di fiducia, in virtù della sua competenza, solerzia, insensibilità alle sirene dell'ambizione professionale e politica, dirittura morale, solida formazione valoriale: presidi, tutti, dell'autonomia e della ripulsa dei condizionamenti di qualsiasi, perniciosa provenienza.
Brevi riflessioni sulla ‘riforma Cartabia’ in materia di prescrizione e di improcedibilità (legge 27 settembre 2021, n.134)
di Ercole Aprile
Sommario: 1. Premessa. - 2. I principi contenuti nelle norme di legge delega. - 3. Le novità normative di immediata efficacia: quelle in materia di prescrizione dei reati. - 4. (segue): e quelle in materia di improcedibilità. - 5. (segue): le ulteriori novità in materia di identificazione dell’imputato, garanzie di difesa e tutela delle vittime del reato.
1. Premessa.
La legge 27 settembre 2021 n. 134 (detta ‘riforma Cartabia’) – pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 237 del 4 ottobre 2021, che entrerà in vigore il 19 ottobre 2021 – nasce da una duplice esigenza ed è espressione, soprattutto con riferimento alla disciplina degli istituti della prescrizione del reato e della improcedibilità, di contingenti scelte frutto di un compromesso, operate per cercare di superare l’impasse dovuto alla contrapposizione tra forze politiche e per varare in tempi rapidi questo provvedimento legislativo.
Bisogna, infatti, ricordare come fosse pendente in Parlamento un disegno di legge governativo (d.d.l. A.C. 2435: c.d. ‘Bonafede’), di ‘accompagnamento’ della riforma delle norme sulla prescrizione attuata con la legge n. 3/19 (c.d. legge ‘spazzacorrotti’), dal contenuto molto ‘divisivo’, nella misura in cui dava concretezza alla regola della definitiva interruzione della decorrenza del termine di prescrizione dei reati dopo la sentenza di primo grado: vi era, dunque, l’esigenza di superare questa situazione di stallo con una disciplina definitiva.
D’altro canto, alla necessità di definire il contesto normativo nella materia della prescrizione del reato, si è unito il bisogno di adottare un provvedimento legislativo che, attraverso ‘ritocchi’ mirati del codice di rito, potesse assicurare una riduzione dei tempi di durata del processo penale (analoga iniziativa è stata adottata per il processo civile e per quello tributario): e ciò perché tra i progetti da realizzare con il finanziamento dei fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (P.N.R.R.), licenziato dal Parlamento con risoluzioni del 13 ottobre 2020, e del connesso Recovery Fund (Next Generation EU, varato, come noto, dalle istituzioni dell’Unione europea per favorire il rilancio dell’economia degli Stati membri colpita dalla crisi sanitaria dovuta alla diffusione epidemiologica da Covid-19), vi era anche quello di riforma della giustizia penale per assicurare una migliore efficacia della risposta statuale in questo settore: in particolare con la previsione della riduzione in cinque anni del 25% della durata media dei giudizi penali.
In tale contesto, nel quale un significativo apporto di riflessioni e di proposte è stato fornito dalla Commissione ministeriale di studio presieduta da Giorgio Lattanzi, che il 24 maggio 2021 aveva licenziato una relazione finale contenente una serie di ipotesi di possibile riforma in materia di processo e sistema sanzionatorio penale (proposte finalizzate anche a dare attuazione a talune direttive dell’Unione europea rimaste ancora senza seguito, come per quella 2012/29/UE relativa ai diritti, assistenza e protezione della vittima da reato o per la raccomandazione del Consiglio d’Europa CM/REC(2018)8 relativa alla giustizia riparativa in materia penale; oppure finalizzate a codificare soluzioni interpretative proposte dalla giurisprudenza di legittimità o accreditate da pronunce della Corte costituzionale o della Corte di Strasburgo), nonché in materia di prescrizione del reato. Buona parte di tali proposte sono state trasfuse in emendamenti governativi al disegno di legge A.C. 2435, recante Delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti d’appello.
2. I principi contenuti nelle norme di legge delega.
La legge n. 134/21 è composta da due articoli.
Nell’art. 1 sono contenuti i principi della legge delega ai quali il Governo, in sede di esercizio del potere legislativo delegato, dovrà uniformarsi con l’adozione di uno o più decreti legislativi da emanare entro un anno. Tali decreti riguarderanno varie materie e ‘spazieranno’ dalle modifiche del codice di procedura penale, delle norme di attuazione del codice di procedura penale, del codice penale e della collegata legislazione speciale, a quelle di disposizioni dell’ordinamento giudiziario in materia di progetti organizzativi delle procure della Repubblica, alla revisione del regime sanzionatorio dei reati e all’introduzione di una disciplina organica della giustizia riparativa e dell’ufficio per il processo penale.
Gli scopi dichiarati da realizzare sono quelli della semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo penale, dell’incremento delle garanzie difensive. In attesa di conoscere il testo specifico di tali decreti, va qui rammentato come i principi della legge delega, che delineano in maniera molto netta le linee della futura riforma del codice di procedura penale e delle relative disposizioni di coordinamento, riguardano l’attuazione del processo penale telematico; una riscrittura della disciplina codicistica in materia di notificazioni, di processo in absentia, di atti del procedimento, di indagini preliminari e di udienza preliminare, di procedimenti speciali, di giudizio, di procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica, di appello, di ricorso per cassazione e di impugnazioni straordinarie; una rivisitazione delle norme di attuazione in tema di amministrazione dei beni sottoposti a sequestro e di esecuzione della confisca; una nuova modulazione delle norme del codice penale, di quello di procedura penale o di leggi speciali in materia di condizioni di procedibilità, di pena pecuniaria, di sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, di giustizia riparativa, di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, di sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato, di disciplina sanzionatoria delle contravvenzioni, di controllo giurisdizionale della legittimità della perquisizione, nonché di comunicazione della sentenza.
Trattandosi di tematiche di cui sono state fissate in maniera molto precisa le linee di tendenza della riforma, ma che necessitano di una concreta traduzione in nuove disposizioni, si fa rinvio al commento che verrà riservato in futuro a quei decreti legislativi.
3. Le novità normative di immediata efficacia: quelle in materia di prescrizione dei reati.
Nell’art. 2 della legge n. 134/21 sono contenute le norme di immediata applicazione riguardanti modifiche alla disciplina della prescrizione, dell’arresto in flagranza, delle garanzie difensive e ad altre norme riferibile all’imputato apolide o appartenente a Stati diversi da quelli aderenti all’Unione europea; e, soprattutto, quelle con le quali è stata introdotta la disciplina del nuovo istituto della improcedibilità per superamento dei termini di svolgimento del giudizio di impugnazione. Con l’art. 2 si è inoltre prevista la costituzione di due appositi organismi ministeriali: il Comitato tecnico-scientifico per il monitoraggio sull’efficienza della giustizia penale, sulla ragionevole durata del procedimento e sulla statistica giudiziaria, con l’incarico di valutare periodicamente il raggiungimento degli obiettivi della riforma; e il Comitato tecnico-scientifico per la digitalizzazione del processo, con funzioni di consulenza e supporto per le decisioni tecniche connesse alla digitalizzazione del processo.
Modificando l’impostazione dell’originario disegno di legge in materia di prescrizione, la ratio della legge n. 134/21 è stata quella di mantenere ferma la previsione della cessazione della decorrenza del termine di prescrizione del reato dopo la pronuncia della sentenza di primo grado e, nel contempo, di introdurre un nuovo ‘meccanismo’ finalizzato a favorire l’accelerazione della definizione dei processi nei successivi gradi di impugnazione mediante la previsione di termini entro i quali, a pena di declaratoria di una improcedibilità definitiva, va adottata la decisione del grado successivo.
Restano dei dubbi sulla compatibilità di tale impianto normativo con i parametri degli artt. 24 e 101 Cost, tenuto conto che, pur in presenza di una sentenza penale di primo grado e in assenza del decorso della prescrizione del reato (altrimenti giustificativo del venir meno della pretesa punitiva statuale), il mero decorso del tempo determina una sorta di estinzione del processo: così potendo finire per frustrare le esigenze connesse all’avvenuto esercizio dell’azione penale e alla tutela della vittima (in special modo se la sentenza gravata con l’impugnazione è di assoluzione), meno le esigenze connesse al diritto di difesa dell’imputato, che potrebbe avere un interesse concreto ad una pronuncia sull’impugnazione avverso ad una sentenza di condanna, potendo questi (come si avrà modo di evidenziare) rinunciare alla operatività dell’istituto della improcedibilità.
Più in dettaglio, l’art. 2, comma 1, della legge n. 134/21 elimina i commi 2 e 4 dell’art. 159; inserisce il riferimento al decreto di condanna nel comma 1 dell’art. 160 a proposito delle cause di sospensione della prescrizione, e introduce nel codice penale il nuovo art. 161-bis relativo alla cessazione del corso della prescrizione. In pratica, la sentenza di primo grado, che in precedenza costituiva una causa di sospensione del corso della prescrizione, ora determina la cessazione di tale corso; è escluso tale effetto nel caso di emissione di decreto penale di condanna, trattandosi di decisione a contraddittorio eventuale, che ora rappresenta una causa di interruzione del corso della prescrizione. Inoltre, a mente del citato art. 161-bis, il corso della prescrizione riprende il suo corso laddove la sentenza di primo grado venga annullata e il procedimento regredisca alla fase del giudizio o ad una fase anteriore: nel senso che il periodo che va dalla data della sentenza annullata alla data della sentenza rescindente vale come sospensione della prescrizione.
È appena il caso di sottolineare che l’annullamento può essere pronunciato dalla corte di appello ai sensi dell’art. 604 c.p.p. o dalla Corte di cassazione ai sensi dell’art. 623, comma 1, lett. d), c.p.p.; l’effetto ‘ripristinatorio’ del decorso del termine di prescrizione, dunque, non si determina laddove la Cassazione si limiti ad annullare la sentenza di secondo grado, poiché in questo caso resta ferma la cessazione del corso della prescrizione ed opera, invece, il meccanismo della improcedibilità, di cui si dirà in seguito.
4. (segue): e quelle in materia di improcedibilità.
Dopo la sentenza di primo grado, sia essa di condanna che di proscioglimento, laddove venga presentata una impugnazione tanto dalla parte pubblica quanto da una delle parti private, inizia a decorrere un termine entro il quale il relativo giudizio di impugnazione deve concludersi, a pena di improcedibilità dell’azione penale: in pratica, come si legge nella relazione finale della già richiamata Commissione Lattanzi, “se il processo non si definisce entro il termine di fase, si determina una improcedibilità dell’azione penale. La definizione del giudizio entro il termine di fase è cioè una condizione di procedibilità”. È questo il nuovo istituto che caratterizza la riforma ‘Cartabia’, con il quale si è inteso conciliare la previsione dell’originario disegno di legge governativo, che stabiliva tucur la cessazione del corso della prescrizione nel caso di sentenza di primo grado di condanna, con l’esigenza di evitare una pendenza sine die dei giudizi di impugnazione che avrebbe finito per entrare in insanabile contrasto con il principio della ragionevole durata del processo.
In generale, e a regime, i termini sono di due anni per il giudizio di appello e di un anno per il giudizio di cassazione (art. 344-bis, commi 1 e 2, c.p.p.). In via transitoria, l’art. 2, comma 5, della legge n. 134/21, stabilisce che nei procedimenti nei quali l’impugnazione venga proposta entro la data del 31 dicembre 2024 (nel caso di più impugnazioni, si tiene conto della data di presentazione del primo atto di impugnazione) o nei quali l’annullamento con rinvio venga pronunciato prima di tale data, i termini anzidetti sono, rispettivamente, di tre anni per il giudizio di appello e di un anno e sei mesi per il giudizio di cassazione. Tali termini operano in tutti i procedimenti, ad esclusione di quelli aventi ad oggetto “i delitti puniti con l’ergastolo, anche come effetto dell’applicazione di circostanze aggravanti” (art. 344-bis, comma 9).
Quanto alla decorrenza dei già menzionati termini, l’art. 344-bis, comma 3, c.p.p., stabilisce che essi decorrano “dal novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine previsto dall’articolo 544, come eventualmente prorogato ai sensi dell’articolo 154 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del presente codice, per il deposito della motivazione della sentenza.” In buona sostanza, il ‘meccanismo’ di decorrenza opera in maniera fissa e predeterminata, prescindendo dal fatto che la motivazione della sentenza sia stata depositata nel termine, in anticipo o in ritardo; che la gestione dei tempi di presentazione delle impugnazioni subisca un qualche slittamento; e, soprattutto, che la cancelleria del giudice a quo tardi la materiale trasmissione del fascicolo al giudice dell’impugnazione.
Benché la norma in esame usi il singolare (“termine previsto dall’art. 544”), è ragionevole ritenere che il legislatore abbia inteso fa riferimento a tutti i termini previsti da tale articolo del codice per il deposito della motivazione della sentenza: quindi, sia a quello di quindici e a quello di trenta indicati dalla legge, sia a quello più lungo, fino a novanta giorni, indicato dal giudice nel dispositivo della sentenza, che può essere raddoppiato fino a 180 giorni nel caso di pronuncia relativa a reati di particolare gravità, che sia suscettibile di separazione a mente del comma 3-bis dello stesso art. 544.
Il richiamo espresso dell’art. 154 disp. att. c.p.p., impone di tenere conto anche del ‘meccanismo’ ivi disciplinato, non cumulabile con quello del predetto art. 544, comma 3-bis, che regola l’ipotesi del maggiore termine prorogato dal presidente della corte di appello su richiesta motivata del giudice interessato alla redazione della motivazione. Per il giudizio di rinvio a seguito di annullamento da parte della Cassazione, fermi restando gli effetti della formazione del giudicato parziale ex art. 624 c.p.p., il termine di improcedibilità ricomincia a decorrere “dal novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine previsto dall’articolo 617”, dunque dopo 120 giorni dalla deliberazione della sentenza del Supremo Collegio.
A norma dell’art. 344-bis, comma 4, c.p.p., il termine di due anni per il giudizio di appello e quello di un anno per il giudizio di cassazione possono essere prorogati laddove il giudizio sia “particolarmente complesso, in ragione del numero delle parti o delle imputazioni o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare” (i parametri di riferimento paiono in parte analoghi, ma invero più precisi e stringenti, a quelli elaborati dalla giurisprudenza per l’applicazione dell’art. 304, comma 2, c.p.p. per la sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare). L’ordinanza di proroga va adottata dal “giudice che procede”, formula ambigua che, tuttavia, è fondato ritenere sia riferibile al giudice dell’impugnazione e non anche a quello che ha emesso la sentenza impugnata, che potrebbe non disporre di tutti i dati necessari per poter esprimere una valutazione sulla complessità del giudizio di impugnazione. Non è indicata la necessità di una richiesta di parte, sicché parrebbe che il provvedimento possa essere adottato anche ex officio.
In generale è possibile l’emissione di una ordinanza di proroga per una sola volta e per un periodo non superiore a un anno per l’appello (che, dunque, può durare fino a tre anni) o a sei mesi per la cassazione (con termine massimo di un anno e sei mesi): i termini massimi sono di quattro anni per l’appello e di due anni per la cassazione per i soli procedimenti per i quali si applica la già esaminata disciplina transitoria dell’art. 2, comma 5, della legge n. 134/21.
La norma in esame permette, però, l’adozione di ulteriori provvedimenti di proroga del termine “quando si procede per i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni, per i delitti di cui agli articoli 270, terzo comma, 306, secondo comma, 416-bis, 416-ter, 609- bis, nelle ipotesi aggravate di cui all’articolo 609-ter, 609-quater e 609-octies del codice penale, nonché per i delitti aggravati ai sensi dell’articolo 416-bis.1, primo comma, del codice penale e per il delitto di cui all’articolo 74 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309.” In buona sostanza, per i procedimenti riguardanti tali gravi delitti, non è stabilito un limite numerico ovvero un tetto cronologico alle proroghe che possono essere adottate dal giudice. Ciò fatta eccezione per i delitti aggravati ai sensi dell’articolo 416-bis.1, primo comma, c.p., per i quali sono possibili più proroghe, ma con il tetto massimo di tre anni per l’appello e di sei mesi per la legittimità: sicché per i procedimenti relativi a tali delitti, il termine massimo di durata del giudizio di appello è di cinque anni (due + tre), mentre quello del giudizio di cassazione è di due anni (uno + uno). Nei procedimenti per i quali si applica la già considerata disciplina transitoria dell’art. 2, comma 5, della legge n. 134/21, il termine massimo può essere, dunque, di sei anni per il giudizio di appello e di due anni e sei mesi per il giudizio di cassazione.
L’ordinanza che dispone la proroga è impugnabile con ricorso per cassazione dall’imputato o dal difensore (sempre nel rispetto della prescrizione generale dell’art. 613, comma 1, c.p.p.) che va presentato, “a pena di inammissibilità, entro cinque giorni dalla lettura dell’ordinanza o, in mancanza, dalla sua notificazione” e che non ha effetti sospensivi. Stranamente non è prevista la legittimazione ad impugnare del pubblico ministero e delle altre parti private. “La Corte di cassazione decide entro trenta giorni dalla ricezione degli atti osservando le forme previste dall’articolo 611”, dunque nelle forme della camera di consiglio non partecipata. “Quando la Corte di cassazione rigetta o dichiara inammissibile il ricorso, la questione non può essere riproposta con l’impugnazione della sentenza”: il che significa che in assenza di una siffatta iniziativa, le questioni sulla legittimità della o delle proroghe possono essere eventualmente poste con l’impugnazione avverso la sentenza emessa dalla corte di appello.
A norma dell’art. 344-bis, comma 6, c.p.p., “I termini di cui ai commi 1 e 2 sono sospesi, con effetto per tutti gli imputati nei cui confronti si sta procedendo, nei casi previsti dall’articolo 159, primo comma, del codice penale” (vale a dire laddove si verifichi una situazione processuale che, nel giudizio di primo grado, avrebbe comportato la sospensione del decorso del termine di prescrizione del reato”); “e, nel giudizio di appello, anche per il tempo occorrente per la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, con la puntualizzazione che, in tale seconda ipotesi, il periodo di sospensione tra un’udienza e quella successiva non può comunque eccedere sessanta giorni.
I termini di improcedibilità sono, altresì, sospesi nel caso di irreperibilità di un imputato, “quando è necessario procedere a nuove ricerche dell’imputato, ai sensi dell’articolo 159 del presente codice, per la notificazione del decreto di citazione per il giudizio di appello o degli avvisi di cui all’articolo 613, comma 4, (…) con effetto per tutti gli imputati nei cui confronti si sta procedendo, tra la data in cui l’autorità giudiziaria dispone le nuove ricerche e la data in cui la notificazione è effettuata.”
Come già accennato, ai sensi dell’art. 344-bis, comma 7, c.p.p. “La declaratoria di improcedibilità non ha luogo quando l’imputato chiede la prosecuzione del processo.” Si tratta di un diritto personale esercitabile dall’imputato o da un suo procuratore speciale. Applicando i criteri interpretativi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità in materia di rinuncia alla prescrizione (Cass., sez. un., n. 18953/16, Piergotti), è ragionevole ritenere che la rinuncia alla operatività dell’istituto della improcedibilità debba essere espressa, formulata prima che il termine sia spirato e che il giudice abbia adottato la sentenza di improcedibilità, e non sia revocabile dall’imputato con una successiva dichiarazione di segno contrario.
Quanto ai rapporti tra improcedibilità e azione civile esercitata nel processo penale, l’art. 2, comma 2, lett. b), della legge n. 134/21 ha modificato l’art. 578 c.p.p., con la riscrittura della rubrica e l’introduzione del comma 1-bis. Così oggi, in presenza di una già pronunciata sentenza di condanna alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati da reato, mentre la corte di appello o la Corte di cassazione che accerti che il reato si sia estinto per amnistia o per prescrizione (a regime, stante la previsione del nuovo art. 161-bis c.p., la prescrizione che potrà essere rilevata sarà solo quella già verificatasi nel corso del giudizio di primo grado) deve decidere sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili (secondo i canoni operativi indicati dalla Corte cost. nella sentenza n. 182 del 2021), la stessa corte, “nel dichiarare improcedibile l’azione penale per il superamento dei termini di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 344-bis, rinviano per la prosecuzione al giudice civile competente per valore in grado di appello, che decide valutando le prove acquisite nel processo penale”. Norma, questa, con la quale si è inteso precludere del tutto la possibilità che il procedimento possa proseguire dinanzi al giudice penale anche solo per decidere sulle statuizioni civili. È appena il caso di osservare che qualche problema potrà porre il riferimento alla decisione che il giudice civile deve adottare “valutando le prove acquisite nel processo penale”, considerato che nella prassi applicativa dell’art. 622 c.p.p. i giudici civili assumono le prove e le valutano secondo le regole proprie del rito civile.
Peraltro, va notato che la modifica dell’art. 578 c.p.p. avrà immediata efficacia, a differenza di quanto accadrà per la complementare disposizione dell’art. 578-bis c.p.p. che, come noto, stabilisce ora i rapporti tra la dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione o amnistia e la decisione sulla confisca: norma che in futuro dovrà essere ‘riscritta’, con una apposita disciplina dei rapporti tra confisca e declaratoria di improcedibilità, con uno dei decreti legislativi che saranno adottati in attuazione dei principi fissati dall’art. 1, comma 13, lett. d), della stessa legge delega n. 134/21.
Resta quale dubbio in ordine ai rapporti tra l’ammissibilità dell’impugnazione e la nuova forma di improcedibilità ex art. 344-bis c.p.p. In generale, sembrerebbe opinabile la possibilità per il giudice dell’impugnazione di dichiarare la improcedibilità laddove il relativo giudizio sia stato instaurato con un atto di impugnazione originariamente inammissibile: tuttavia, si potrebbe replicare che il giudice dell’impugnazione che dovesse tardare a definire il proprio giudizio con una declaratoria di quella causa di inammissibilità del gravame, sarebbe tenuto a far prevalere la intervenuta causa di improcedibilità, che determina l’immediata estinzione del rapporto processuale ed osta al compimento di qualsiasi altra attività processuale. Diverso è il discorso nel caso in cui la causa di improcedibilità per decorso del termine, verificatasi nel giudizio di appello, non sia stata rilevata dal giudice di secondo grado e venga proposto ricorso per cassazione: in tale ipotesi, ben potrebbero essere applicati i principi della sentenza delle Sezioni Unite del 2016 in materia di rapporti tra prescrizione del reato e inammissibilità (Cass., sez. un., n. 12602/16, Ricci): per cui l’inammissibilità del ricorso per cassazione dovrebbe precludere la possibilità di rilevare d'ufficio, ai sensi degli artt. 129 e 609, comma 2, c.p.p., la improcedibilità maturata in data anteriore alla pronuncia della sentenza di appello, ma non rilevata né eccepita in quella sede e neppure dedotta con i motivi di ricorso; al contrario, il ricorso per cassazione sarebbe ammissibile laddove con lo stesso dovesse dedursi, anche con un unico motivo, l'intervenuta improcedibilità maturata prima della sentenza impugnata ed erroneamente non dichiarata dal giudice di merito, integrando tale doglianza un motivo consentito ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p.
I commi 3 e 4 dell’art. 2 della legge n. 134/21 contengono la disciplina transitoria, stabilendo, per un verso, che le disposizioni in materia di improcedibilità “si applicano ai soli procedimenti di impugnazione che hanno a oggetto reati commessi a far data dal 1° gennaio 2020”; per altro verso, che per i procedimenti che, alla data del 19 ottobre 2021 “di entrata in vigore della presente legge, siano già pervenuti al giudice dell’appello o alla Corte di cassazione gli atti trasmessi ai sensi dell’articolo 590 del codice di procedura penale, i termini di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 344-bis del codice di procedura penale decorrono dalla quella stessa data di entrata in vigore della… legge”. Resta qualche perplessità sulla compatibilità con il principio dell’art. 25 Cost. della norma che limita l’applicabilità della disciplina della improcedibilità solo ai procedimenti aventi ad oggetto i reati commessi a far data dal 1° gennaio 2020, in quanto la dottrina e la giurisprudenza (v., ad esempio, Cass., sez. II, n. 40399/08) sono orientate nel senso di sostenere che rientrino nel concetto di legge più favorevole al reato, ai sensi dell’art. 2, quarto comma, c.p., tutti gli elementi in grado di incidere sulla posizione processuale dell’imputato, comprese le condizioni di procedibilità. D’altro canto, nell’applicare l’art. 129 c.p.p. che impone l’immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità, tra le quali viene indicata anche la mancanza di una condizione di procedibilità, la Cassazione ha sostenuto che la natura mista, sostanziale e processuale, della procedibilità a querela, impone la necessità di applicare la sopravvenuta disciplina più favorevole nei procedimenti pendenti (Cass., sez. V, n. 22143/19).
5. (segue): le ulteriori novità in materia di identificazione dell’imputato, garanzie di difesa e tutela delle vittime del reato.
Nell’ambito delle procedure amministrative di polizia finalizzate alla identificazione degli stranieri, in particolare materia di contrasto dei fenomeni di immigrazione irregolare e di protezione internazionale, la pubblica amministrazione ha adottato il sistema CUI, codice identificativo unico della persona basato sull’acquisizione di dati biometrici (impronte digitali, foto, segni particolari e dati anagrafici: elementi che, attraverso appositi sistemi informatici, vengono raccolti in banche dati delle forze di polizia; di tale sistema vi è cenno normativo negli artt. 4 e 43 del d.P.R. 313/02, contenente il testo unico del casellario giudiziario). In tale ottica, allo scopo di garantire una maggiore tutela e, nel contempo, di favorire la corretta identificazione dell’indagato o dell’imputato apolide o di cui sia ignota la cittadinanza, oppure che sia cittadino di uno Stato non appartenente all’Unione europea ovvero cittadino di uno Stato membro dell’Unione europea privo del codice fiscale o che è attualmente, o è stato in passato, titolare anche della cittadinanza di uno Stato non appartenente all’Unione europea, l’art. 2, commi 7, 8, 9 e 10, della legge n. 134/21, modificano taluni articoli del codice di rito e del d.lgs. n. 271/89.
In particolare, risultano modificati l’art. 66 c.p.p., con la previsione che nei confronti di tali soggetti “nei provvedimenti destinati a essere iscritti nel casellario giudiziale è riportato il codice univoco identificativo della persona nei cui confronti il provvedimento è emesso”; l’art. 349, relativo al compimento da parte della polizia giudiziaria di atti finalizzati alla identificazione dell’indagato o di altre persone, con l’aggiunta nel comma 2 del periodo per cui “la polizia giudiziaria trasmette al pubblico ministero copia del cartellino fotodattiloscopico e comunica il codice univoco identificativo della persona nei cui confronti sono svolte le indagini”; l’art. 431, comma 1, in materia di formazione del fascicolo per il dibattimento, con l’inserimento di una aggiunta nella lett. g), per cui in quel fascicolo viene aggiunta anche “una copia del cartellino fotodattiloscopico con indicazione del codice univoco identificativo”; e l’art. 10, comma 1, disp. att. c.p.p., con l’aggiunta del comma 1-bis, per cui nei confronti dell’indagato rientrante in una delle indicate categorie la segreteria della procura della Repubblica debba acquisire “ove necessario, una copia del cartellino fotodattiloscopico e provvede(re), in ogni caso, ad annotare il codice univoco identificativo della persona nel registro di cui all’articolo 335 del codice”.
Allo scopo superare il dubbio sull’applicazione di una serie di disposizioni del codice di rito finalizzate ad assicurare una più efficace tutela delle vittime di specifici gravi delitti commessi con violenza alla persona, con l’art. 2, comma 11, della legge n. 134/21, sono stati modificati alcuni articoli con la sostituzione delle parole “per i delitti” con quelle “per il delitto previsto dall’articolo 575 del codice penale, nella forma tentata, o per i delitti, consumati o tentati”. In tal modo si è chiarito che tali disposizioni sono applicabili anche in favore delle vittime di tentato omicidio ovvero di qualsiasi altro dei delitti commessi con violenza alla persona ivi elencati, siano essi stati consumati o rimasti allo stadio del tentativo (in precedenza, per la mancata applicazione ad un reato tentato di una norma prevista solo per il reato consumato, v. Cass., sez. un., n. 40985/18, Di Maro). Tale modifica ha riguardato l’art. 90-ter, comma 1-bis, in tema di comunicazione obbligatoria dell’evasione o della scarcerazione dell’indagato o dell’imputato; l’art. 362, comma 1-ter, c.p.p., in materia di tempestività delle assunzioni di informazioni dalle persone offese o dai denuncianti (secondo le regole del c.d. ‘codice rosso’, di cui alla legge n. 69/19 in materia di tutela delle vittime di violenza domestica o di genere; l’art. 370, comma 2-bis, c.p.p., relativamente al compimento senza ritardo da parte della polizia giudiziaria degli atti delegati dal pubblico ministero; l’art. 659, comma 1-bis, c.p.p. in materia di comunicazione dei provvedimenti di scarcerazione dei condannati; l’art. 64-bis, comma 1, disp. att., in tema di trasmissione obbligatoria di provvedimenti al giudice civile; ed ancora, l’art. 165, quinto comma, c.p., in materia di sospensione condizionale della pena.
Sempre allo scopo di garantire una più efficace tutela dei diritti di difesa dell’imputato detenuto, allo scopo di superare le incertezze dovute al silenzio normativo (v., da ultimo, Cass., sez. VI, n. 27711/21, che ha escluso che la direzione del carcere, dove l’imputato si trovi detenuto, sia obbligata a dare comunicazione al difensore di fiducia dell’avvenuta presentazione di dichiarazione di nomina da parte del recluso), con l’art. 2, comma 14, della legge n. 134/21 è stato inserito nell’art. 123 c.p.p. il comma 2-bis, secondo il quale “Le impugnazioni, le dichiarazioni, compresa quella relativa alla nomina del difensore, e le richieste, di cui ai commi 1 e 2, sono contestualmente comunicate anche al difensore nominato”.
Infine, nell’ottica di assicurare una più ampia protezione alle vittime vulnerabili, con l’art. 2, comma 15, della legge n. 134/21, è stata inserita nel comma 2 dell’art. 380 c.p.p. una nuova lett. l-ter), per cui l’arresto obbligatorio in flagranza è oggi previsto anche l’autore dei “delitti di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, di maltrattamenti contro familiari e conviventi e di atti persecutori, previsti dagli articoli 387-bis, 572 e 612-bis del codice penale”. È bene rammentare che la lett. l-ter), introdotta dal decreto-legge n. 93/13, conv. dalla legge n. 119/13, già prevedeva il riferimento ai reati di cui agli artt. 572 e 612-bis c.p.: dunque, la novità è costituita dall’inserimento nel novero dei delitti per i quali è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza, anche del delitto di cui all’art. 387-bis c.p., introdotto dalla legge n. 69/19 in materia di tutela delle vittime di violenza domestica o di genere (c.d. legge del ‘codice rosso’).
La nomina dei giudici maltesi e il principio di non regressione nella tutela dello Stato di diritto: l’“onda lunga” del caso Repubblika
Nota a Corte di Giustizia dell’Unione europea (Grande Sezione), sentenza del 20 aprile 2021, Repubblika contro Il-Prim Ministru, causa C-896/19.
di Giulia Battaglia
Sommario: 1. Introduzione. - 2. Il giudizio a quo: l’actio popularis promossa da Repubblika. – 3. La decisione della Corte di Giustizia. – 3.1. La ricevibilità delle questioni. – 3.2. La prima questione: la portata «apparently limitless» dell’art. 19, paragrafo 1, secondo comma TUE. – 3.3. La seconda questione: il principio dell’obbligo di non regressione nella tutela della rule of law. – 3.3.1. La giurisprudenza eurounitaria in tema di modalità di nomina dei giudici. – 3.3.2. La “digressione” argomentativa della Corte nel caso Repubblika. – 4. Alcune osservazioni conclusive. Dubbi e prospettive del caso maltese.
1. Introduzione.
La sentenza in commento[i] si inserisce nel solco di un recente indirizzo giurisprudenziale, sviluppato dalla Corte di Lussemburgo in tema di indipendenza dei giudici. In particolare, a partire dalla pronuncia Associação Sindical dos Juízes Portugueses[ii], i giudici eurounitari hanno valorizzato il principio di tutela giurisdizionale effettiva sancito nell’art. 19, paragrafo 1, secondo comma TUE[iii], estendendone significativamente la sfera di operatività; sia nell’ambito della procedura di infrazione, sia – per ciò che maggiormente rileva in questa sede – nell’ambito del procedimento pregiudiziale. È evidente il tentativo della Corte di fronteggiare la deriva della rule of law nelle cc.dd. “democrazie illiberali”, attraverso il sistema integrato composto da tale giudice e dagli organi giurisdizionali degli Stati nazionali[iv].
Una siffatta elaborazione fa perno su alcuni postulati esplicitati nella decisione poc’anzi rammentata e successivamente ulteriormente sviluppati in alcune note sentenze rese nei confronti dell’ordinamento polacco[v], che conviene di seguito sinteticamente ripercorrere.
In primo luogo, la Corte di Giustizia ha sottolineato che l’articolo 19 TUE «concretizza il valore dello Stato di diritto affermato all’articolo 2 TUE», rendendolo “azionabile”[vi], e «affida l’onere di garantire il controllo giurisdizionale nell’ordinamento giuridico dell’Unione non soltanto alla Corte, ma anche agli organi giurisdizionali nazionali»[vii]. Sulla base di questa premessa si è sostenuto che, sebbene l’organizzazione della giustizia negli Stati membri rientri nella competenza di questi ultimi, nell’esercitare tale attribuzione essi sono comunque tenuti a rispettare gli obblighi derivanti dal diritto eurounitario[viii] e, quindi, ad assicurare che i propri giudici, in quanto parte del sistema di rimedi giurisdizionali nei settori disciplinati da tale diritto, soddisfino i requisiti necessari a garantire un controllo giurisdizionale effettivo. In questo senso, può apparire perfino superfluo sottolineare come nel novero di tali presupposti figuri quello dell’indipendenza, «intrinsecamente connesso al compito di giudicare»[ix], che rappresenta invero uno dei corollari al diritto fondamentale a un ricorso effettivo sancito dall’articolo 47, secondo comma CDFUE.
Nell’evidenziare l’interdipendenza tra quest’ultima disposizione e l’art. 19, primo paragrafo, secondo comma TUE [x], la Corte ha chiarito, nondimeno, che, diversamente dalla norma contenuta nella Carta di Nizza, l’art. 19 «riguarda “i settori disciplinati dal diritto dell’Unione”, indipendentemente dalla situazione in cui gli Stati membri attuano tale diritto, ai sensi dell’articolo 51, paragrafo 1, della Carta»[xi]. Pertanto, come puntualizzato nelle successive pronunce, svincolato dai più severi margini applicativi posti dall’art. 51 della Carta, e nella prospettiva della nuova e significativa connessione con l’art. 2 TUE, l’art. 19 può essere invocato, quale «stand-alone provision»[xii], nei confronti di misure nazionali che incidono negativamente sull’organizzazione della magistratura, a prescindere dall’esistenza di una specifica correlazione tra dette misure e l’attuazione del diritto eurounitario.
È in questo contesto che – come detto – si colloca e deve essere letta la pronuncia dello scorso 20 aprile.
2. Il giudizio a quo: l’actio popularis promossa da Repubblika.
Le questioni pregiudiziali sottoposte all’esame della Corte di Giustizia dalla Prima sezione del Tribunale civile di Malta, in veste di giudice costituzionale (Prim’Awla tal-Qorti Ċivili – Ġurisdizzjoni Kostituzzjonali), sono sorte nell’ambito di una controversia avente ad oggetto la asserita non conformità al diritto eurounitario, per violazione del principio di separazione dei poteri e di indipendenza della magistratura, della procedura di nomina dei giudici maltesi vigente tra il 2016 e il 2020 delineata dagli artt. 96, 96 A e 100 della Costituzione dello Stato; sulla quale, pertanto, occorre brevemente soffermarsi.
Fino alla più recente revisione costituzionale intervenuta nel 2020[xiii], che ha estromesso l’esecutivo dalla procedura in parola, l’art. 96, primo comma Cost. disponeva che i giudici fossero nominati dal Presidente della Repubblica, su parere del Primo Ministro.
Il ruolo del Presidente era, dunque, di tipo «puramente formale»[xiv], risiedendo l’effettivo potere di scelta nelle mani del Primo Ministro, il quale, fino all’introduzione dell’art. 96 A Cost., a seguito della precedente modifica costituzionale del 2016, era vincolato al rispetto dei soli requisiti professionali[xv] fissati dagli artt. 96 e 100 Cost. Con tale novella, infatti, è stato disposto che le candidature delle persone interessate a svolgere la funzione di giudice, sia presso le corti inferiori, sia presso quelle superiori, devono essere ricevute e preliminarmente esaminate dal Comitato per le nomine in magistratura appositamente costituito, che cura il registro delle manifestazioni di interesse da cui il Primo Ministro poteva attingere allorché un posto si fosse reso vacante. Nondimeno, anche all’indomani della modifica testè rammentata, il capo dell’esecutivo aveva conservato un considerevole margine di discrezionalità: egli aveva, infatti, la possibilità di non conformarsi al giudizio espresso dal Comitato, sia pure a condizione di rendere pubbliche le ragioni della decisione esponendole entro cinque giorni dinanzi alla Camera dei Deputati.
Non stupisce, quindi, che nel 2018 la procedura descritta fosse stata oggetto di valutazione, sul versante della grande Europa, da parte della Commissione di Venezia, chiamata a esprimere un parere sull’indipendenza della magistratura maltese e, più in generale, sullo “stato di salute” delle istituzioni della Repubblica, in ragione degli allarmanti segnali di deterioramento della rule of law, venuti alla luce soprattutto a seguito dell’omicidio della giornalista d’inchiesta Daphne Caruana Galizia[xvi]. L’organo consultivo del Consiglio d’Europa aveva concluso che l’introduzione del filtro del Comitato nel 2016, pur rappresentando «a step in the right direction»[xvii], non costituiva ancora una garanzia sufficiente di indipendenza del sistema giudiziario maltese. In particolare, la Commissione aveva sottolineato l’inadeguatezza, per un verso, della composizione del Comitato, posto che la quasi totalità dei membri era di designazione parlamentare[xviii]; per l’altro, del ruolo comunque preponderante del Primo Ministro, lesivo del principio di separazione dei poteri[xix].
È proprio sulla base di tali rilievi che, nel 2019 – un anno prima che il legislatore maltese procedesse nuovamente alla revisione della Costituzione[xx] – l’associazione Repubblika, attiva nella difesa dei valori della giustizia e dello Stato di diritto a Malta, ha promosso, ai sensi dell’art. 116 della Carta fondamentale[xxi], l’azione popolare da cui ha avuto origine la domanda di pronuncia pregiudiziale.
Segnatamente, l’associazione chiedeva al giudice nazionale, in primo luogo, di dichiarare che Malta, in ragione dell’assetto costituzionale vigente relativamente alle modalità di nomina dei giudici, aveva infranto gli obblighi sanciti dall’art. 19, paragrafo 1, secondo comma TUE e dall’art. 47 CDFUE, poiché il potere discrezionale del Primo Ministro sollevava dubbi circa l’indipendenza dei designati. In secondo luogo, e conseguentemente, Repubblika chiedeva che fossero dichiarate nulle le nomine effettuate in base a tale sistema, in particolare, quelle formalizzate il 25 aprile 2019, nonché ogni altra nomina che fosse eventualmente intervenuta nelle more della causa, e di disporre che non ne fossero effettuate ulteriori, se non conformemente alle raccomandazioni contenute nel parere della Commissione di Venezia.
Nell’ambito di tale controversia, quindi, il giudice del rinvio si è rivolto alla Corte di Giustizia interrogandola, anzitutto, in ordine all’applicabilità dell’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma TUE e dell’articolo 47 della Carta, letti separatamente o in combinato disposto, con riferimento alla validità giuridica degli articoli 96, 96A e 100 della Costituzione di Malta. In caso di risposta affermativa alla prima questione, veniva poi chiesto se il potere del Primo Ministro fosse conforme alle disposizioni eurounitarie poc’anzi evocate, considerandolo, altresì, alla luce dell’articolo 96A della Costituzione entrato in vigore nel 2016 e, infine, quali fossero le ricadute della eventuale rilevata non conformità.
3. La decisione della Corte di Giustizia.
3.1. La ricevibilità.
Rigettata la domanda di procedimento accelerato e applicato, invece, il trattamento prioritario ai sensi dell’art. 53, par. 3 del regolamento di procedura, la Corte di Giustizia affronta in via preliminare il profilo della ricevibilità, replicando alle eccezioni sollevate dal governo polacco. Le censure di quest’ultimo si appuntavano, in particolare, sul sostanziale aggiramento della procedura per infrazione posto che, stante il petitum dell’azione promossa da Repubblika, attraverso la domanda di pronuncia pregiudiziale il giudice nazionale avrebbe sostanzialmente sollecitato la Corte a esprimersi sulla conformità del diritto nazionale al diritto dell’Unione.
Nel respingere tali obiezioni, il Giudice di Lussemburgo, per un verso, ribadisce come nell’ambito della procedura ex art. 267 TFUE, fondata su una netta separazione di funzioni tra i giudici nazionali e la Corte, spetti esclusivamente ai primi valutare tanto la necessità di una pronuncia pregiudiziale, quanto la rilevanza delle questioni da sottoporle alla luce delle peculiarità del giudizio a quo. Per l’altro, la Corte di Giustizia puntualizza, sia pure implicitamente, che l’oggetto dell’actio popularis intrapresa da Repubblika – ovvero, come si è detto, l’accertamento in ordine alla (in)compatibilità di una disciplina nazionale con il diritto eurounitario – non comporta alcuna elusione degli artt. 258 e 259 TFUE: nell’ambito della competenza pregiudiziale, infatti, al Giudice dell’Unione spetta unicamente fornire a quello del rinvio gli elementi interpretativi per risolvere la controversia e non dichiarare esso stesso la conformità o meno del diritto costituzionale maltese al diritto eurounitario.
Del resto, come argomenta in modo più esplicito l’avvocato generale Hogan[xxii], in altre occasioni i giudici eurounitari avevano avuto modo di chiarire che «la circostanza che l’azione esperita nel caso di specie abbia carattere declaratorio non osta a che la Corte statuisca su una questione pregiudiziale se tale azione è consentita dal diritto nazionale e detta questione corrisponde ad un bisogno oggettivo ai fini della soluzione della controversia con cui esso è ritualmente adito»[xxiii]. Tanto più, prosegue Hogan, che nel sistema maltese «le decisioni di nomina non sarebbero considerate […] soggette a controllo giurisdizionale» e che, pertanto, «è attualmente esperibile solo il rimedio dell’actio popularis» per quanto tale strumento «rappresent[i] semplicemente un mezzo per contestare la costituzionalità di una legge e non si tratta di una procedura in cui può essere esaminata la validità di una nomina giudiziaria individuale»[xxiv].
3.2. La prima questione: la portata «apparently limitless» dell’art. 19, paragrafo 1, secondo comma TUE.
Ribaditi, dunque, gli ampi margini della propria competenza pregiudiziale, altrove definita «chiave di volta del sistema giurisdizionale istituito dai Trattati»[xxv], la Corte di Giustizia passa ad esaminare il primo quesito concernente l’applicabilità al caso de quo dell’art. 19, paragrafo 1, secondo comma TUE e dell’art. 47 CDFUE.
A tal fine, la Corte richiama gli approdi ermeneutici poc’anzi rievocati. Secondo l’indirizzo giurisprudenziale inaugurato dalla pronuncia sul trattamento economico dei giudici portoghesi, l’art. 19, paragrafo 1, secondo comma TUE deve essere interpretato nel senso che esso impone a «ogni Stato membro [di] garantire che gli organi che fanno parte […], del suo sistema di rimedi giurisdizionali nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione e che, pertanto, possono trovarsi a dover statuire […] sull’applicazione o sull’interpretazione [di tale] diritto, soddisfino i requisiti di una tutela giurisdizionale effettiva»[xxvi]. In questa prospettiva, per stabilire l’applicabilità dell’art. 19 TUE alla causa de qua, è sufficiente determinare se «l’organo nazionale al centro di [essa]» sia, «fatte salve le verifiche spettanti al giudice del rinvio», «idoneo a pronunciarsi, in qualità di organo giurisdizionale, su questioni riguardanti l’applicazione o l’interpretazione del diritto [eurounitario] e rientranti dunque in settori [da esso] disciplinati»[xxvii].
Così, nel caso di specie, non vi è dubbio che i giudici maltesi, della cui procedura di nomina si discute nel procedimento principale, possano essere chiamati a pronunciarsi su questioni relative all’interpretazione o all’applicazione del diritto dell’Unione e ciò, come evidenziato dall’avvocato generale, «è di per sé […] sufficiente a garantire che [essi], nominati secondo la procedura prevista dalla Costituzione, [debbano] godere di sufficienti gradi di indipendenza giudiziaria per soddisfare i requisiti dell’articolo 19 TUE»[xxviii].
Se, come si è già avuto modo di osservare, l’ambito di applicazione ratione materiae dell’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma TUE trascende i margini definiti dall’articolo 51, paragrafo 1, CDFUE; l’applicabilità dell’art. 47 CDFUE presuppone, invece, che la persona che lo invoca «si avvalga di diritti o di libertà garantiti dal diritto dell’Unione»[xxix]. Circostanza, quest’ultima, che non sussiste nel caso di Repubblika, la quale ha promosso dinanzi al giudice interno un’actio popularis concernente unicamente la non conformità al diritto dell’Unione della procedura di nomina dei giudici e il conseguente annullamento di quelle effettuate secondo tale protocollo.
Nondimeno, in virtù della stretta correlazione sussistente tra le due norme, già evidenziata nelle precedenti occasioni, la Corte sottolinea come «quest’ultima disposizione [debba] essere debitamente presa in considerazione ai fini dell’interpretazione dell’art. 19, par. 1»[xxx]. Invero, il diritto riconosciuto dall’art. 47 della Carta non può che essere garantito tramite l’imposizione dell’obbligo di cui all’art. 19 TUE, il quale, per contro, è riempito di contenuto dalle enunciazioni del primo, che, nel suo secondo comma, specifica il significato del diritto a un ricorso effettivo, disponendo che «[o]gni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge». In altre parole, tra le due previsioni vi è una “passerella costituzionale”[xxxi], di talché «l’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma TUE impone a tutti gli Stati membri di stabilire i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva, segnatamente ai sensi dell’articolo 47 della Carta, nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione»[xxxii].
3.3. La seconda questione: il principio dell’obbligo di non regressione nella tutela della rule of law.
3.3.1. La giurisprudenza eurounitaria in tema di modalità di nomina dei giudici.
Ciò posto, la Corte si concentra sulla seconda questione – il “cuore” del petitum pregiudiziale – prendendo, anche a questo riguardo, le mosse dai propri precedenti in merito alla verifica dell’indipendenza degli organi giurisdizionali, sotto lo specifico profilo delle modalità di nomina.
Nelle pregresse decisioni, la Corte di Giustizia, in assonanza, peraltro, con la giurisprudenza sviluppata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo sull’art. 6 della Convenzione[xxxiii], aveva specificato che il fatto che le nomine dei magistrati siano operate dall’esecutivo «non è, di per sé, idone[o] a creare una dipendenza dei designati nei confronti [di quest’ultimo], né a generare dubbi quanto alla loro imparzialità, se, una volta nominati, gli interessati non sono soggetti ad alcuna pressione e non ricevono istruzioni nell’esercizio delle loro funzioni»[xxxiv]. A questo proposito, ad avviso dei giudici eurounitari, occorre infatti verificare, secondo un «contextual approach»[xxxv], se «i requisiti sostanziali e le modalità procedurali che presiedono all’adozione delle decisioni di nomina siano tali da non poter suscitare nei singoli dubbi legittimi in merito all’impermeabilità dei giudici interessati rispetto a elementi esterni e alla loro neutralità rispetto agli interessi contrapposti, una volta avvenuta la nomina degli interessati»[xxxvi].
In questo senso, la Corte di Giustizia aveva ulteriormente puntualizzato che la previsione, nell’ambito della procedura di nomina dei giudici, di un parere (rectius: di una proposta), formulato da parte di un organo asseritamente indipendente – quale, ad esempio, un Consiglio di Giustizia – è certamente idonea a rendere meno arbitrario il potere dell’esecutivo e, dunque, più obiettivo il sistema nel suo complesso; purché, ovviamente, «detto organo sia a sua volta sufficientemente» – ed effettivamente – «indipendente dai poteri legislativo ed esecutivo e dall’autorità alla quale è chiamato a presentare una tale proposta di nomina»[xxxvii].
Anche rispetto a quest’ultimo profilo, non si può fare a meno di evidenziare come il Giudice lussemburghese si astenga dal definire precisi requisiti istituzionali o, quantomeno, delineare degli standard minimi; preferendo, invece, calare gli indicatori “neutri”, di volta in volta enucleati o ripresi dalle precedenti pronunce, nel complessivo contesto ordinamentale di riferimento[xxxviii]. Così, ad esempio, in relazione alla composizione di un siffatto organo, in un caso si è affermato che «la preponderanza dei membri scelti dal potere legislativo» «non può, di per sé sola, indurre a dubitar[ne] dell’indipendenza»[xxxix]; in un altro, che la medesima circostanza, «valutata alla luce dell’insieme [di altri] fattori pertinenti» evidenziati dal giudice del rinvio, «può invece indurre a dubitare dell’indipendenza di un organo chiamato a partecipare al procedimento di nomina di giudici, e ciò quand’anche, considerando detti elementi separatamente, una conclusione del genere non si imponga»[xl].
3.3.2. La “digressione” argomentativa della Corte nel caso Repubblika.
Dopo aver richiamato tali assunti, la sentenza in esame opera una sorta di “biforcazione” argomentativa; offrendo al giudice a quo – e, prima di tutto, a se medesima, pro futuro – una prospettiva ulteriore, forse non del tutto inedita, ma quanto meno enunciata in modo esplicito[xli], per valutare la conformità della misura ordinamentale in questione agli obblighi eurounitari[xlii].
In particolare, la Corte di Giustizia integra il combinato disposto degli artt. 2 e 19 TUE, con l’art. 49 TUE, ricavandone il principio dell’obbligo di non regressione nella tutela dei valori dello Stato di diritto.
A tal fine, la Corte osserva che gli Stati membri, sulla base dell’art. 49 TUE, hanno liberamente e volontariamente aderito ai valori comuni consacrati nell’articolo 2 TUE sui quali si fonda l’Unione e sui quali riposa, inoltre, la fiducia reciproca tra i Paesi dell’Unione. Da ciò consegue che il rispetto da parte di uno Stato membro dei suddetti valori «costituisce una condizione per il godimento di tutti i diritti derivanti dall’applicazione dei trattati a tale Stato membro»[xliii] che, pertanto, non può modificare la propria normativa, in modo da comportare una regressione dello Stato di diritto e, in special modo, della garanzia di indipendenza dei giudici, che ne costituisce uno degli elementi più qualificanti.
Ciò che non può trascurarsi, peraltro, è che nella sentenza si individua altresì chiaramente il “punto di non regressione”, costituito, nel caso di specie, dall’assetto ordinamentale vigente al momento dell’adesione di Malta all’Unione europea nel 2004. Vale a dire, dalle disposizioni costituzionali vigenti dal 1964 al 2016[xliv], a mente delle quali, come si è potuto osservare nel paragrafo 1, il potere di nomina dei giudici del Primo Ministro era limitato dai soli requisiti professionali previsti dagli artt. 96 e 100.
Da questo angolo visuale, la Corte non può far altro che rilevare che l’istituzione del Comitato per le nomine in magistratura ad opera della revisione costituzionale del 2016 sia stata tale da rafforzare l’indipendenza dei giudici potendo, «in linea di principio, contribuire a rendere obiettivo [il processo di nomina], delimitando il margine di manovra di cui dispone il primo ministro»[xlv] e, pertanto, che, diversamente da quanto occorso nella vicenda polacca[xlvi], non vi è stata alcuna regressione.
Solo a questo punto, la Corte riprende l’analisi interrotta al punto 57 e passa sbrigativamente in rassegna, anzitutto, «una serie di regole menzionate dal giudice del rinvio», ritenute «idonee a garantire l’indipendenza del Comitato per le nomine in magistratura nei confronti dei poteri legislativo ed esecutivo»[xlvii]: quali, la «composizione», il «divieto per i politici di parteciparvi, l’obbligo imposto ai membri di agire in piena autonomia e senza essere assoggettati a una direzione o a un controllo di qualsiasi altra persona o autorità», così come «l’obbligo per lo stesso Comitato di pubblicare, con l’accordo del Ministro della giustizia, i criteri su cui basa le proprie valutazioni». Nonché altri indici[xlviii] alla luce dei quali «non risulta», ad avviso della Corte, «che le disposizioni nazionali […] siano, in quanto tali, idonee a suscitare nei singoli dubbi legittimi relativamente all’impermeabilità dei giudici nominati rispetto ad elementi esterni, in particolare, ad influenze dirette o indirette dei poteri legislativo ed esecutivo, e quanto alla loro neutralità rispetto agli interessi contrapposti, né che esse siano quindi atte a condurre ad una mancanza di apparenza di indipendenza o di imparzialità di detti giudici tale da ledere la fiducia che la giustizia deve ispirare ai singoli in una società democratica e in uno Stato di diritto»[xlix].
Sulla base di questi elementi, la Corte di Giustizia conclude che «l’art. 19, paragrafo 1, secondo comma TUE, deve essere interpretato nel senso che non osta a disposizioni nazionali che conferiscono al Primo Ministro dello Stato membro interessato un potere decisivo nel processo di nomina dei giudici, prevedendo al contempo l’intervento, in tale processo, di un organo indipendente incaricato, segnatamente, di valutare i candidati ad un posto di giudice e di fornire un parere al primo ministro».
4. Alcune osservazioni conclusive. Dubbi e prospettive del caso maltese.
L’esito cui è pervenuto il Giudice di Lussemburgo con riguardo al caso maltese non appare del tutto appagante, soprattutto se si considera il diverso tenore dei rilievi formulati dalla Commissione di Venezia sulla riforma del 2016[l], che, peraltro, hanno trovato puntuale riscontro nelle modifiche medio tempore intervenute, cui la sentenza fa appena incidentalmente cenno[li].
La pronuncia, per vero, risulta coerente con il case-law della Corte di Giustizia, per quanto concerne sia la posizione in merito all’origine governativa delle nomine, sia il tema del coinvolgimento di organi asseritamente indipendenti nella procedura di designazione dei giudici. Ciononostante, l’analisi di contesto risulta piuttosto sintetica e non pare inverosimile che la riforma del 2020, pur non avendo inciso sull’oggetto del procedimento dinanzi al giudice del rinvio né sulla domanda di pronuncia pregiudiziale, abbia, di fatto, abbassato la soglia di guardia dei giudici eurounitari rispetto all’assetto dell’ordinamento giudiziario maltese ratione temporis sub iudice. In particolare, preme segnalare come nella motivazione, per un verso, sia stata frettolosamente avallata la natura non necessariamente vincolante del parere rilasciato dal Comitato per le nomine in magistratura. Per l’altro, sia stato schivato un profilo lasciato per c.d. “in sospeso” nelle precedenti sentenze[lii], vale a dire la mancata previsione di uno strumento di controllo giurisdizionale sulle decisioni di nomina dei giudici[liii].
Ulteriori dubbi, poi, sorgono relativamente alla portata del vero novum della decisione, vale a dire l’esplicitazione del principio dell’obbligo di non regressione nella tutela dello Stato di diritto.
Come è stato sottolineato dai primi commentatori[liv], si tratta, all’evidenza, di un surplus motivazionale. Invero, la Corte avrebbe potuto sciogliere il dubbio posto dal giudice del rinvio, semplicemente attingendo alla giurisprudenza pregressa.
Secondo alcuni autori, tale principio potrebbe essere stato introdotto con un intento per c.d. “limitativo”; ovverosia quello di «opporre dei chiari limiti ratione temporis» alla «forza espansiva virtualmente illimitata» dell’art. 19 TUE, che, in tale prospettiva, «arretrerebbe e non sarebbe applicabile dinanzi a norme rimaste inalterate dopo l’adesione dello Stato membro»[lv].
In effetti, la formulazione del divieto di regressione nel caso Repubblika è legata a un presupposto piuttosto chiaro, tale per cui, «in assenza di modifiche che determinino un arretramento nella tutela, la normativa costituzionale vigente in uno Stato membro al momento della sua adesione all’Unione [sarebbe] assistita da una presunzione di conformità ai valori tutelati dall’art. 2 e quindi all’art. 19 TUE»[lvi].
Tuttavia, anche assumendo che la Corte voglia arginare possibili “derive” interpretative dell’art. 19, come sembra suggerirle l’avvocato generale Bobek in un caso di poco successivo[lvii]; appare assai inverosimile che il Giudice dell’Unione intenda perseguire tale scopo attraverso un “appiattimento” della valutazione sulle possibili violazioni dello Stato di diritto, “cristallizzandone” il parametro nell’assetto ordinamentale vigente al momento dell’adesione di ciascuno Stato membro.
Così operando, infatti, la Corte finirebbe per introdurre un criterio non soltanto discriminatorio tra i Paesi dell’Unione[lviii], ma anche fortemente riduttivo di un concetto, per l’appunto quello di Stato di diritto, che non può che giovarsi e assimilare le evoluzioni in senso maggiormente garantista delle istituzioni. Paradossalmente, una riforma che annullasse le modifiche apportate alla Costituzione maltese nel 2020, che hanno rafforzato le garanzie di indipendenza della magistratura rispetto alle regole del 2016, potrebbe, in questo senso, non essere considerata una “regressione” in materia di organizzazione della giustizia.
Occorre, allora, collocare il principio in parola in una cornice più ampia.
La scelta di utilizzare un ragionamento nuovo, fondato sugli artt. 2, 19 e 49 TUE deve, invero, essere letta come una chiara intenzione della Corte di aprirsi, in prospettiva, ulteriori spazi argomentativi per dare il proprio apporto al tentativo di superamento del c.d. “dilemma di Copenaghen”[lix]; ovvero l’incapacità delle istituzioni eurounitarie, soprattutto sul versante politico, di preservare il nucleo della rule of law, una volta che gli Stati abbiano fatto ingresso nell’Unione.
Confermano tale lettura due decisioni immediatamente successive a Repubblika, entrambe rese dalla Grande Sezione.
Il riferimento corre, in primis, alla sentenza pronunciata il 18 maggio[lx] all’esito di un procedimento pregiudiziale avente ad oggetto una serie di modifiche – peggiorative – apportate tra il 2017 e il 2018 dalla Romania alle cc.dd. “leggi sulla giustizia”. In particolare, si tratta di tre leggi che lo Stato aveva approvato nel 2004, con l’obiettivo di migliorare l’indipendenza e l’efficienza della giustizia, divenute oggetto di monitoraggio da parte della Commissione europea in forza del meccanismo di cooperazione e di verifica (MCV) istituito dalla decisione n. 2006/928, entrato in vigore in concomitanza dell’ingresso della Romania nell’Unione europea. In questo caso, il principio di non regressione viene evocato nella parte in cui si stabilisce che tale decisione, e così pure le relazioni redatte dalla Commissione sulla base di essa, costituiscono atti adottati da un’istituzione dell’Unione, suscettibili, quindi, di interpretazione ai sensi dell’articolo 267 TFUE, nonché tuttora vincolanti per la Romania. In altri termini, esso viene correlato alla perdurante vigenza di strumenti introdotti dalle istituzioni eurounitarie allo scopo di monitorare i progressi di un (allora) aspirante e, poi, nuovo, Stato membro, ancora “fragile” sul versante delle garanzie del sistema giudiziario al momento dell’adesione.
Inoltre, la Corte ha applicato il principio nell’ultima vicenda della “saga” polacca. Il 15 luglio, nell’ambito di una procedura per infrazione[lxi], si è statuita la non conformità, rispetto agli articoli 19 TUE e 267 TFUE, di vari profili della riforma che nel 2017 ha pesantemente inciso, tra l’altro, il regime disciplinare della magistratura in Polonia. In questo secondo caso, pronunciandosi sulla mancanza di indipendenza e di imparzialità della Sezione disciplinare della Corte suprema, competente a riesaminare le decisioni emesse nei procedimenti disciplinari nei confronti dei giudici, la Corte di Giustizia ha concluso che «tale evoluzione [rectius, involuzione] costituisce una riduzione della tutela del valore dello Stato di diritto ai sensi della giurisprudenza della Corte» e che, per tale motivo, «la Repubblica di Polonia è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi del secondo comma dell’art. 19, paragrafo 1, TUE»[lxii]. In questa evenienza, è appena il caso di notare che il parametro di cui all’art. 49 TUE non viene menzionato: la regressione, dunque, viene “misurata” all’esito di una ricostruzione giurisprudenziale e fattuale ben più complessa e articolata di quella prospettata in Repubblika; se non altro, per la particolare gravità delle infrazioni contestate e poi accertate.
In conclusione, è possibile affermare che il principio enunciato nella sentenza sul caso maltese è destinato a trovare – ed in effetti ha già trovato – ulteriori applicazioni e significativi sviluppi nella giurisprudenza della Corte di Lussemburgo.
Come è stato osservato, per di più, la sua portata potrebbe estendersi ben al di là dell’art. 19 TUE e, attraverso di esso, il Giudice dell’Unione potrebbe aver trovato «a way to build a potential bridge [to the] many values deserving protection – including of course not only the most obvious candidates, such as democracy and fundamental rights, but also all the other aspects of the rule of law beyond the margins of judicial independence»[lxiii].
Dietro l’angolo, non è un caso, si prospettano i ricorsi promossi da Polonia e Ungheria [lxiv] per l’annullamento del regolamento 2020/2092 contenente il c.d. “regime generale di condizionalità per la protezione del bilancio dell’Unione”[lxv], al momento, di fatto, bloccato dal “combinato disposto” dei suddetti ricorsi e dalle criticate conclusioni del Consiglio europeo del 10 e 11 dicembre 2021[lxvi]; nonché le procedure di infrazione promosse dalla Commissione nei confronti di detti Stati in ragione della violazione dei diritti LGBT.
[i] Corte di Giustizia dell’Unione europea (Grande Sezione), sentenza del 20 aprile 2021, Repubblika contro Il-Prim Ministru, causa C-896/19.
[ii] Corte di Giustizia dell’Unione europea (Grande Sezione), sentenza del 27 febbraio 2018, Associação Sindical dos Juízes Portugueses contro Tribunal de Contas, causa C-64/16, commentata, ex multis, da M. Krajewski, Associação Sindical dos Juízes Portugueses: The Court of Justice and Athena’s Dilemma, in European Papers, vol. 3, 2018, n. 1, 395; M. Parodi, Il controllo della Corte di giustizia sul rispetto del principio dello Stato di diritto da parte degli Stati membri: alcune riflessioni in margine alla sentenza Associação Sindical dos Juízes Portugueses, in European Papers, vol. 3, 2018, n. 2, 985; N. Lazzerini, Le recenti iniziative delle istituzioni europee nel contesto della crisi dello Stato di diritto in Polonia: prove di potenziamento degli “anticorpi” dei Trattati?, in Osservatorio sulle fonti, 2018, spec. 17 ss.
[iii] A mente del quale «[g]li Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione».
[iv] M. Parodi, Il controllo della Corte di giustizia sul rispetto del principio dello Stato di diritto, cit., la quale osserva, a commento della sentenza Associação Sindical dos Juízes Portugueses, che «la Corte di giustizia coinvolge attivamente i giudici nazionali nella protezione dello Stato di diritto come valore comune tutelato dall’art. 2 TUE. Così facendo, peraltro, […] offre loro, almeno indirettamente, la possibilità di reagire di fronte a eventuali misure nazionali idonee a ledere la funzione giudiziaria di cui sono titolari. Non di meno, il ruolo stesso della Corte di giustizia nel controllo del rispetto dello Stato di diritto da parte degli Stati membri risulta sensibilmente rafforzato atteso che, attraverso lo strumento del rinvio pregiudiziale, essa potrà pronunciarsi sulla compatibilità o meno di misure nazionali con il valore dello Stato di diritto, come declinato all’art. 19 TUE, a prescindere dall’esistenza di altri collegamenti con il diritto dell’UE».
[v] Il riferimento corre alle sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione europea (Grande Sezione) del 24 giugno 2019, Commissione contro Polonia (Indipendenza della Corte suprema), causa C‑619/18; nonché del 19 novembre 2019, A.K. contro Krajowa Rada Sądownictwa e CP e DO contro Sąd Najwyższy (Indipendenza della Sezione disciplinare della Corte suprema), causa C-585/18 e del 2 marzo 2021, A.B. contro Krajowa Rada Sądownictwa e a. (Nomina dei giudici della Corte suprema), causa C-824/18. A commento di queste pronunce, v., ex multis, N. Lazzerini, Le recenti iniziative delle istituzioni europee nel contesto della crisi dello Stato di diritto in Polonia, cit., passim; E. Ceccherini, L’indipendenza del potere giudiziario come elemento essenziale dello stato di diritto. La Corte di giustizia dell’Unione europea esprime un severo monito alla Polonia, in DPCEonline, n. 3, 2019; A. Angeli, Il principio di indipendenza e imparzialità degli organi del potere giudiziario nelle recenti evoluzioni della giurisprudenza europea e polacca, in federalismi.it, 21 febbraio 2021.
[vi] In questo senso, cfr. A. von Bogdandy, P. Bogdanowicz, I. Canor, G. Rugge, M. Schmidt, M. Taborowski, Un possibile «momento costituzionale» per lo Stato di diritto europeo: i confini invalicabili, in Quaderni costituzionali, 2018, n. 4, 857.
[vii] Associação Sindical dos Juízes Portugueses, cit., punto 32. Sull’impiego dell’art. 2 TUE, A. Angeli, Il principio di indipendenza e imparzialità degli organi del potere giudiziario, cit., 8, evidenzia come la Corte abbia «dunque tradotto una diposizione “programmatica”, l’art. 2 TUE, nella quale si elencano i valori sui quali si fonda l’Unione, in una norma “prescrittiva” e giustiziabile ancorandola all’art. 19 TUE».
[viii] V. sul punto, V. Zagrebelsky, L’Unione Europea e lo Stato di diritto. Fondamento, problemi, crisi, in questa rivista, 28 maggio 2021.
[ix] V., ex multis, A.K., cit., punto 120.
[x] Per cogliere la portata di questo profilo, si noti il diverso tenore delle conclusioni dell’avvocato generale Henrik Saugmandsgaard Øe, in relazione alla causa Associação Sindical dos Juízes Portugueses, secondo il quale «la nozione di “tutela giurisdizionale effettiva” ai sensi dell’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE non [può] essere confusa con il “principio dell’indipendenza dei giudici”, il quale è menzionato nella questione pregiudiziale come risultante, asseritamente, da tale disposizione».
[xi] Associação Sindical dos Juízes Portugueses, cit., punto 29.
[xii] M. Coli, The Associação Sindical dos Juízes Portugueses judgment: what role for the Court of Justice in the protection of EU values?, in www.diritticomparati.it, 1° novembre 2018 e, in senso analogo, L. Pech, S. Platon, Rule of Law backsliding in the EU: The Court of Justice to the rescue? Some thoughts on the ECJ ruling in Associação Sindical dos Juízes Portugueses, in EU Law Analysis, 13 marzo 2018.
[xiii] Constitution of Malta (Amendment) Act n. XLIII of 2020, to amend the Constitution of Malta relative to the appointment of judges and magistrates, accessibile tramite il link: https://legislation.mt/eli/act/2020/43/eng/pdf.
[xiv] Commissione di Venezia, opinione n. 940/2018, 17 dicembre 2018, 9.
[xv] Vale a dire, l’esercizio, per un periodo continuativo o per periodi cumulati di almeno dodici anni, della professione di avvocato o la funzione di Maġistrat (giudice delle Corti inferiori), per i giudici delle giurisdizioni superiori (Imħallfin); e l’esercizio, per un periodo continuativo o per periodi cumulati di almeno sette anni, della professione di avvocato per i Maġistrat.
[xvi] La preoccupazione è stata avvertita e manifestata, a livello politico, sia sul versante del Consiglio d’Europa, sia su quello eurounitario. A quest’ultimo riguardo, si ricorda, da ultima, la Risoluzione del Parlamento europeo del 29 aprile 2021 sull’assassinio di Daphne Caruana Galizia e lo Stato di diritto a Malta (2021/2611(RSP).
[xvii] Commissione di Venezia, opinione n. 940/2018, cit., 10.
[xviii] Cfr. ivi, 9-10: «The JAC is composed of the Chief Justice, the Attorney General, the Auditor General, the Ombudsman, and the President of the Chamber of Advocates. The delegation of the Venice Commission was informed about the rationale behind the current composition of the JAC. Two out of five members are chosen and dismissed by a two thirds majority in Parliament (The Ombudsman and the Auditor General), two members can only be dismissed by a two thirds majority in Parliament (the Chief Justice and the Attorney General), and one member is not appointed at all by politicians (the President of the Chamber of Advocates) […] In order to improve the system of judicial appointments, the Venice Commission therefore recommends: […] 2. The JAC should have a composition of at least half of judges elected by their peers from all levels of the judiciary».
[xix]A p. 10 dell’opinione, la Commissione raccomanda che il Comitato «should propose a candidate or candidates directly to the President of Malta for appointment [and] [t]he proposal should be binding on the President».
[xx] Segnatamente, la legge di revisione costituzionale poc’anzi citata ha modificato gli artt. 96, 96 A e 100 Cost., incidendo significativamente sulla procedura di nomina dei giudici, sia delle corti inferiori (Maġistrat), sia delle corti superiori (Imħallfin). Invero, allorché un posto si rende vacante, il Comitato per le nomine in magistratura propone i tre candidati ritenuti più idonei direttamente al Presidente della Repubblica, il quale sceglierà i giudici o i magistrati da tale novero, secondo i criteri di valutazione inseriti nella Costituzione (art. 96 A, comma 6, lett. d). È inoltre opportuno sottolineare che la riforma ha integrato la composizione del Comitato con componenti provenienti ed eletti dalla magistratura e riformato l’art. 85 Cost., rubricato «Esercizio delle funzioni del Presidente», aggiungendo alle ipotesi in cui egli non deve agire in conformità con il parere dell’esecutivo, «l’esercizio del potere conferito dalla presente Costituzione di nominare qualsiasi ufficio previsto dalla presente Costituzione» (art. 85, comma 1, secondo periodo, lettera d Cost.). Sulla bontà della riforma del 2020, si vedano le osservazioni della Commissione di Venezia, opinione n. 993/2020, 8-9 ottobre 2020, spec. 8. Sul fronte dell’Unione europea, cfr., invece, Commissione europea, Capitolo sulla situazione dello Stato di diritto a Malta che accompagna il documento Relazione sullo Stato di diritto 2020. La situazione dello Stato di diritto nell’Unione europea, {COM(2020) 580 final} - {SWD(2020) 300 final} - {SWD(2020) 301 final}, 30.09.2020.
[xxi] Art. 116 Cost. Malta: «A right of action for a declaration that any law is invalid on any grounds other than inconsistency with the provisions of articles 33 to 45 of this Constitution shall appertain to all persons withoutdistinction and a person bringing such an action shall not berequired to show any personal interest in support of his action».
[xxii] Opinione dell’Avvocato generale Hogan, Repubblika, C-896/19, ECLI:EU:2020:1055, 17 dicembre 2020, punto 28 ss.
[xxiii] Corte di Giustizia dell’Unione europea, sentenza del 10 dicembre 2018, Whigthman e a. contro Secretary of State for Exiting the European Union, causa C-621/18, punto 31.
[xxiv] Opinione dell’Avvocato generale Hogan, cit. punto 90.
[xxv] A.B. e a., cit., punto 90. In proposito, riflette sulla “flessione” per c.d. costituzionale del rinvio pregiudiziale S. Gianello, Il rinvio pregiudiziale e l’indipendenza dei giudici:alcune riflessioni a margine di due recenti vicende, in Nuovi Autoritarismi e Democrazie: Diritto, Istituzioni, Società, 2021, n. 1.
[xxvi] A.B. e a., cit., punti 111-114 e, prima ancora, A.K., cit., punti 82-84 e Commissione/Polonia (Indipendenza della Corte suprema), cit., punto 51 (corsivi dell’A.).
[xxvii] Particolarmente esaustivo, a questo proposito, risulta essere un passaggio della sentenza A.K., cit., punto 83: «Contrariamente a quanto sostenuto dal procuratore generale a tale riguardo, la circostanza che le misure nazionali di riduzione salariale discusse nella causa che ha dato luogo alla sentenza del 27 febbraio 2018, Associação Sindical dos Juízes Portugueses, siano state adottate a causa di esigenze imperative connesse all’eliminazione del disavanzo eccessivo del bilancio dello Stato membro interessato e nel contesto di un programma di assistenza finanziaria dell’Unione a tale Stato membro, come emerge dai punti da 29 a 40 di tale sentenza, non ha giocato alcun ruolo nell’interpretazione che ha portato la Corte a concludere per l’applicabilità dell’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE alla causa di cui trattasi. Tale conclusione è stata, infatti, fondata sulla circostanza che l’organo nazionale al centro di tale causa, vale a dire il Tribunal de Contas (Corte dei conti, Portogallo), era, fatte salve le verifiche spettanti al giudice del rinvio in detta causa, idoneo a pronunciarsi, in qualità di organo giurisdizionale, su questioni riguardanti l’applicazione o l’interpretazione del diritto dell’Unione e rientranti dunque in settori disciplinati da tale diritto» (corsivi dell’A.).
[xxviii] Opinione dell’Avvocato generale Hogan, Repubblika, cit., punto 41.
[xxix] Repubblika, cit., punto 41.
[xxx] Ivi, punto 45 e, prima ancora, A.B. e a., cit., punto 143.
[xxxi] Opinione dell’Avvocato generale Hogan, cit., punto 46.
[xxxii] Corte di Giusitizia, sentenza del 14 giugno 2017, Online Games e a. contro Landespolizeidirektion Oberösterreich, causa C‑685/15, punto 54.
[xxxiii] V. ex multis, Corte europea dei diritti dell’Uomo, Guðmundur Andri Ástráðsson c. Islanda, ric. n. 26374/18, 1° dicembre 2020, par. 207: «As pointed out by the Venice Commission and the CCJE (see paragraphs 122 and 126 above), there are a variety of different systems in Europe for the selection and appointment of judges, rather than a single model that would apply to all countries. The Court reiterates in this connection that although the notion of the separation of powers between the political organs of government and the judiciary has assumed growing importance in its case-law, appointment of judges by the executive or the legislature is permissible under the Convention, provided that appointees are free from influence or pressure when carrying out their adjudicatory role».
[xxxiv] Repubblika, cit., punto 56.
[xxxv] Parlano di «contextual approach» M. Leloup, D. Kochenov, A. Dimitrovs, Non-Regression: Opening the Door to Solving the ‘Copenhagen Dilemma’? All the Eyes on Case C-896/19 Repubblika v Il-Prim Ministru, in RECONNECT Working Paper (Leuven), n. 15, 2021, 18 giugno 2021, spec. 13.
[xxxvi] Repubblika, cit., punto 57.
[xxxvii]A.K., cit., punto 137.
[xxxviii] Parlano di «contextual approach» M. Leloup, D. Kochenov, A. Dimitrovs, Non-Regression: Opening the Door to Solving the ‘Copenhagen Dilemma’? All the Eyes on Case C-896/19 Repubblika v Il-Prim Ministru, in RECONNECT Working Paper (Leuven), n. 15, 2021, 18 giugno 2021, spec. 13.
[xxxix] Corte di Giustizia dell’Unione europea, sentenza del 9 luglio 2020, Land Hessen, C-272/19, punti 55-58.
[xl] A.K., cit., punti 143-144 e, in senso analogo, A.B e a., punto 131.
[xli] Si veda, in questo senso, il richiamo alle sentenze A.K., cit., e A.B. e a. ., cit., al punto 65.
[xlii] Repubblika, cit., punti 59-66.
[xliii] Ivi, punto 63.
[xliv] Secondo M. E. Bartoloni, Limiti ratione temporis all’applicazione del principio della tutela giurisdizionale effettiva: riflessioni in margine alla sentenza Repubblika c. Il-Prim Ministru, in Osservatorio europeo, maggio 2021, 11, «la Corte, nel collegare l’art. 19 TUE rispettivamente agli articoli 2 e 49 TUE, sembrerebbe prospettare una automatica presunzione di conformità della Costituzione del 1964 ai requisiti imposti dal principio della tutela giurisdizionale effettiva». In proposito, v., infra, par. 4.
[xlv] Repubbika, cit., punto 66.
[xlvi] Ivi, punti 65 e 66.
[xlvii] Ivi, punto 67.
[xlviii] Ivi, punti 70-71. Il riferimento corre, nello specifico, ad alcuni elementi che la Corte ritiene idonei a delimitare la discrezionalità del Primo ministro: quali, i requisiti professionali dei giudici posti dagli artt. 96 e 100 Cost. e, inoltre, l’obbligo motivazionale previsto nel caso in cui lo stesso avesse deciso di presentare al Presidente un candidato non proposto dal Comitato.
[xlix] Ivi, punto 72.
[l] Si vedano, in proposito, le osservazioni dell’avvocato generale Hogan, cit., secondo il quale «[a]i sensi del diritto dell’Unione», tali relazioni costituiscono sì «un’utile fonte di informazione», ma l’analisi della Commissione di Venezia «anche se è basata su una raffinata analisi giuridica e politica» «ha carattere essenzialmente politico» e il suo parere «mira al raggiungimento di un sistema ideale» (punto 88). In proposito, cfr. altresì M. Leloup, D. Kochenov, A. Dimitrovs, Non-Regression: Opening the Door to Solving the ‘Copenhagen Dilemma’?, cit., spec. 13.
[li] Repubbika, cit., punto 24.
[lii] Su questo aspetto, infatti, l’incedere della Corte di Giustizia si mostra assai incerto. V. A.K., cit., punto 145: «tenuto conto del fatto che, come emerge dagli atti a disposizione della Corte, le decisioni del presidente della Repubblica recanti nomina di giudici al Sąd Najwyższy (Corte suprema) non possono essere oggetto di sindacato giurisdizionale, spetta al giudice del rinvio verificare se il modo in cui è definita, all’articolo 44, paragrafi 1 e 1 bis, della legge sulla KRS, la portata del ricorso esperibile contro una risoluzione della KRS contenente le sue decisioni relative alla presentazione di una proposta di nomina alla posizione di giudice presso tale organo giurisdizionale consenta di assicurare un controllo giurisdizionale effettivo nei confronti di tali risoluzioni, controllo vertente, quantomeno, sulla verifica dell’assenza di eccesso o di sviamento di potere, di errori di diritto o di errori manifesti di valutazione» e, di seguito, A.B. e a., punto 129: «mentre l’eventuale assenza della possibilità di proporre un ricorso giurisdizionale nel contesto di un processo di nomina a posti di giudice di un organo giurisdizionale supremo nazionale può, in taluni casi, non rivelarsi problematica alla luce dei requisiti derivanti dal diritto dell’Unione, in particolare dall’articolo 19, paragrafo 1, secondo comma, TUE, la situazione è diversa in circostanze nelle quali l’insieme degli elementi pertinenti che caratterizzano un siffatto processo in un dato contesto giuridico-fattuale nazionale, e, in particolare, le condizioni in cui improvvisamente interviene la soppressione delle possibilità di ricorso giurisdizionale fino ad allora esistenti, siano tali da suscitare, nei singoli, dubbi di natura sistemica quanto all’indipendenza e all’imparzialità dei giudici nominati al termine di tale processo».
[liii] V. supra, par. 3.1., a proposito delle sia pur brevi considerazioni dell’avvocato generale sul tema.
[liv] M. Leloup, D. Kochenov, A. Dimitrovs, Non-Regression: Opening the Door to Solving the ‘Copenhagen Dilemma’?, cit., passim.
[lv] M. E. Bartoloni, Limiti ratione temporis all’applicazione del principio della tutela giurisdizionale effettiva, cit., 13.
[lvi] Ibidem.
[lvii] In merito alla lettura estensiva dell’art. 19 TUE, vale la pena quantomeno accennare alle perplessità espresse dall’avvocato generale Bobek nell’opinione resa il 23 settembre 2020, nell’ambito della più recente causa Asociaţia “Forumul Judecătorilor din România” (v. infra, nota lx). Il giurista rileva, infatti, che la portata «apparently limitless» della disposizione «both institutionally (with regard to all courts, or even bodies, which potentially apply EU law), as well as substantively» potrebbe rappresentare, in prospettiva, sia un punto di forza, sia un punto di debolezza: «Will the Court in the future be ready to review whichever issues or elements brought to its attention by its national counterparts, alleging that this or that element of national judicial structure or procedure might pose, certainly in their subjective view, issues in terms of the degree of judicial independence they consider appropriate?» (punto 211).
[lviii] Cfr., in proposito, M. Leloup, D. Kochenov, A. Dimitrovs, Non-Regression: Opening the Door to Solving the ‘Copenhagen Dilemma’?, cit., 18 e N. Canzian, Indipendenza dei giudici e divieto di regressione della tutela nella sentenza Repubblika, in Quaderni costituzionali, 2021, n. 3, spec. 717. Quest’ultimo, in particolare, sottolinea come una «sua applicazione generalizzata potrebbe anche rivelarsi per certi aspetti discriminatoria, perché non è affatto detto che ogni Stato membro sia stato ammesso presentando lo stesso grado di tutela rispetto ai valori comuni [...] Il principio potrebbe così tradursi in una serie di parametri mutevoli da Stato a Stato, rivelandosi meno efficace proprio laddove al momento dell’adesione la garanzia offerta dal diritto nazionale fosse meno intensa di quella di altri Paesi membri».
[lix] Cfr. Parlamento europeo, Discussione plenaria sulla situazione politica in Romania, dichiarazione di Viviane Reding, 12 settembre 2012: «Once this Member State has joined the European Union, we appear not to have any instrument to see whether the rule of law and the independence of the judiciary still command respect». In senso analogo, e, Id., The EU and the Rule of Law: What Next?, discorso tenuto presso il Centre for European Policy Studies, 4 settembre 2013.
[lx] Corte di Giustizia dell’Unione europea (Grande Sezione), sentenza del 18 maggio 2021, Asociaţia “Forumul Judecătorilor din România”, causa C-83/19.
[lxi] Corte di Giustizia dell’Unione europea (Grande Sezione) del 15 luglio 2021, Commissione europea / Repubblica di Polonia, Causa C-791/19.
[lxii] Ivi, punti 112-113.
[lxiii] M. Leloup, D. Kochenov, A. Dimitrovs, Non-Regression: Opening the Door to Solving the ‘Copenhagen Dilemma’?, cit., 16.
[lxiv] Cause C-156/21, Ungheria c. Parlamento e Consiglio e C-157/21, Polonia c. Parlamento e Consiglio.
[lxv] In argomento, cfr. B. Nascimbene, Il rispetto della rule of law e lo strumento finanziario. La “condizionalità”, in rivista.eurojus.it, 2021, n. 3, 182. È interessante notare, a questo proposito, il considerando n. 12 del regolamento: «L’articolo 19 TUE, che concretizza il valore dello Stato di diritto di cui all’articolo 2 TUE, impone agli Stati membri di prevedere una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione, compresi quelli relativi all’esecuzione del bilancio dell’Unione. L’esistenza stessa di un effettivo controllo giurisdizionale destinato ad assicurare il rispetto del diritto dell’Unione è intrinseca a uno Stato di diritto e presuppone l’esistenza di organi giurisdizionali indipendenti. Preservare l’indipendenza di detti organi è di primaria importanza, come confermato dall’articolo 47, secondo comma, della Carta. Ciò vale segnatamente per il controllo giurisdizionale della regolarità degli atti, dei contratti o di altri strumenti che generano spese o debiti pubblici, in particolare nell’ambito di procedure di appalto pubblico ove è parimenti possibile adire detti organi».
[lxvi] Conclusioni della riunione del Consiglio europeo (10 e 11 dicembre 2020), doc. EUCO 22/20, CO EUR 17-CONCL, 2: «Al fine di garantire che tali principi siano rispettati, la Commissione intende elaborare e adottare linee guida sulle modalità con cui applicherà il regolamento, compresa una metodologia per effettuare la propria valutazione. Tali linee guida saranno elaborate in stretta consultazione con gli Stati membri. Qualora venga introdotto un ricorso di annullamento in relazione al regolamento, le linee guida saranno messe a punto successivamente alla sentenza della Corte di giustizia, in modo da incorporarvi eventuali elementi pertinenti derivanti da detta sentenza. Il presidente della Commissione informerà il Consiglio europeo in modo esaustivo. Fino alla messa a punto di tali linee guida la Commissione non proporrà misure a norma del regolamento».
Il green pass (per i soli magistrati) negli uffici giudiziari
di Federica Resta*
Il d.l. 127 del 2021 ha introdotto un obbligo generalizzato di possesso del green pass ai fini dell’accesso dei lavoratori (dei settori pubblico e privato) al luogo di lavoro. Analogo obbligo è stato previsto ai magistrati, ai fini dell’accesso agli uffici giudiziari. Tale estensione a un ambito del tutto peculiare, quale quello giudiziario, determina, tuttavia, implicazioni particolarmente rilevanti e alcuni dubbi applicativi, che la conversione in legge del decreto-legge o, per aspetti diversi, la circolare del Ministero della giustizia potranno chiarire.
Sommario: 1. Il green-pass - 2. Il d.l. 127 del 2021 - 3. Il green pass quale requisito per l’accesso dei magistrati agli uffici giudiziari.
1. Il green-pass
Tra le varie problematiche connesse al governo dell’emergenza (pandemica), quella relativa all’uso della tecnologia a fini di prevenzione sanitaria si è rivelata una delle più complesse.
La definizione dei limiti da porre alla tecnica, per favorirne un uso “sostenibile” tale da non degenerare in forme di sorveglianza massiva ha, infatti, rappresentato uno degli elementi discretivi dell’approccio europeo al contrasto della pandemia, rispetto ad altri modelli fondati su di un ampio ricorso al digitale, ma anche sul controllo capillare dei cittadini.
La “differenza europea”, su questo terreno, è emersa con particolare nettezza rispetto a due importanti misure di contenimento dei contagi: il contact tracing digitale e il green pass.
Già dai primi mesi di pandemia, infatti, con la scelta di un sistema di contact tracing che tracciasse i contatti, non le persone e il rifiuto della georeferenziazione costante dei cittadini, l’Europa ha delineato un equilibrio democraticamente sostenibile tra salute (nella sua duplice componente di diritto fondamentale e interesse collettivo), tecnica e libertà.
Lo stesso bilanciamento è, del resto, sotteso alla disciplina europea delle certificazioni verdi, che con il Regolamento 2021/953 ha promosso uno strumento (temporaneo) di prevenzione dei contagi profondamente diverso dai “passaporti sanitari” o dalle altre misure di biosorveglianza proprie, ad esempio, del sistema cinese. Le componenti essenziali del green pass europeo rappresentano, anche in questo caso, il frutto di un ricorso lungimirante alla tecnica, tale da realizzare uno strumento di contenimento dei contagi efficace, ma anche idoneo a minimizzare l’impatto sulla privacy. Garantendo riservatezza sul suo presupposto (vaccino, guarigione, negatività al tampone), il green pass ha anche impedito forme, dirette o indirette, di discriminazione nei confronti di quanti non possano o non vogliano vaccinarsi, pur rappresentando indubbiamente, esso stesso, una forma di “nudging”, di promozione della vaccinazione.
La previsione di presupposti, alternativi alla vaccinazione, suscettibili di determinare il conseguimento del green pass ne esclude, tuttavia, la configurabilità alla stregua di obbligo surrettizio di vaccinazione, assimilandolo invece alla figura giuridica dell’onere[1]. Tale, infatti, è stata la qualificazione fornita dalla Corte costituzionale (sent. 137 del 2019) della previsione di una legge regionale relativa alla subordinazione dell’accesso, da parte del personale sanitario, a determinati reparti ospedalieri, alla sottoposizione a vaccinazioni solo raccomandate dal Piano nazionale di prevenzione vaccinale.
E anche sulla base di tali garanzie che, sia in Italia che in Francia, sono state respinte le principali eccezioni d’illegittimità di tale istituto. Con pronuncia n. 824 del 5 agosto, infatti, il Conseil Constitutionnel ha escluso profili di illegittimità della disciplina francese delle certificazioni verdi, in quanto di carattere temporaneo, conforme al canone di ragionevolezza e proporzionalità perché efficace in termini di prevenzione sanitaria e non tale da imporre un obbligo terapeutico coercitivo, non essendo il vaccino l’unico presupposto per il rilascio del titolo.
Argomentando, poi, proprio sulle garanzie di privacy offerte in particolare dalla disciplina attuativa (d.P.C. M. 17 giugno 2021), l’ordinanza n. 5130 della Terza Sezione del Consiglio di Stato ha potuto escludere la sussistenza di “lesioni della riservatezza sanitaria” in relazione all’obbligo di esibizione del green pass ex art. 9, c.10. d.l. 52 del 2021, convertito, con modificazioni, dalla l. 87 del 2021 - v. su questa Rivista Green pass e protezione dei dati personali (nota a Cons. Stato, Sezione Terza, 17 09 2021 n. 5130)-.
Sono state (anche) le garanzie di riservatezza assicurate dal green pass ad averne favorito la graduale estensione, anche in Italia, a partire dal d.l. 52 del 2021 e con i successivi dd.ll. 105, 111, 121, che ne hanno interpolato il testo con l’effetto di ampliare l’ambito applicativo dell’istituto dapprima agli spostamenti tra regioni di colore diverso (d.l. 52 stesso), poi alla partecipazione ad eventi o attività suscettibili di determinare una significativa concentrazione di persone o, comunque, condizione di potenziale circolazione virale (d.l. 105), quindi al settore dell’istruzione e dei trasporti (d.l. 111), al personale esterno di scuole e r.s.a. (d.l. 121, rifluito in emendamento al d.d.l. di conversione del d.l. n. 111).
2. Il d.l. 127 del 2021
L’estensione più significativa dell’ambito applicativo del green pass si è determinata, indubbiamente, con il d.l. 127 del 2021 (il cui disegno di legge di conversione è attualmente all’esame della 1^ Commissione del Senato, in prima lettura). Con tale provvedimento, infatti, il possesso (e l’esibizione, su richiesta) di una certificazione verde in corso di validità è stato previsto come requisito necessario per l’accesso ai luoghi di lavoro per il settore pubblico (in regime contrattualizzato o meno, ivi inclusi gli organi a rilievo costituzionale), il settore privato e, per i soli magistrati (ma di ogni giurisdizione) agli uffici giudiziari. L’obbligo di possesso del green pass si estende anche ai titolari di cariche elettive o istituzionali di vertice, nonché - sulla base delle previsioni autonomamente emanate- agli organi costituzionali.
Il principale elemento innovativo del d.l. 127 concerne il suo riferire il possesso di una certificazione verde valida non già a un settore o a un’attività ma, unilateralmente, ai lavoratori.
Nei provvedimenti precedenti, infatti, la titolarità del green pass è stata concepita, essenzialmente, quale condizione per l’accesso a determinati luoghi o lo svolgimento di determinate attività e, anche quando ha riguardato i lavoratori è stata generalmente prevista anche per i soggetti fruitori della prestazione lavorativa (come per gli studenti universitari, soggetti a controlli pur a campione: art. 9-ter, c.4, ultimo periodo, d.l. 52).
Con il d.l. 127, invece, il possesso di una certificazione verde valida assurge ad onere da soddisfare per l’accesso al luogo di lavoro e, dunque, requisito necessario per lo svolgimento, in presenza, dell’attività lavorativa, pena la qualificazione come ingiustificata dell’assenza e la sospensione della retribuzione, pur con diritto alla conservazione del posto di lavoro e l’esclusione di conseguenze disciplinari (previste invece in caso di accesso in violazione degli obblighi).
Lo schema-tipo su cui si modella, nelle parti comuni ai vari settori, la disciplina di cui al d.l. 127, prevede in linea generale l’effettuazione dei controlli “prioritariamente, ove possibile” al momento dell’accesso al luogo di lavoro, “anche a campione” (commi 5 degli articoli 9-quinquies e 9-septies, rispettivamente per il settore pubblico e per quello privato, nonché, per gli uffici giudiziari, c. 5 dell’articolo 9-sexies, che a sua volta rinvia al comma 5 dell’articolo 9-quinquies), nonché con le modalità di cui al d.P.C.M. adottato ai sensi dell’articolo 9, comma 10, del d.l. 52 del 2021.
Sulla base di quanto previsto dal d.P.C.M. 17 giugno 2021, attuativo del citato art. 9, c.10, che dunque rappresenta al momento la disciplina di riferimento delle modalità di svolgimento dei controlli, oggetto della verifica – mediante l’app ufficiale Covid-19 - è (oltre al nome, al cognome e alla data di nascita dell’intestatario) il solo qr code attestante il possesso di una certificazione in corso di validità, senza alcun riferimento al presupposto del certificato (vaccinazione, guarigione, tampone). Questa previsione consente di evitare la conoscenza, da parte dei terzi, della condizione sanitaria o, comunque, delle scelte vaccinali del soggetto.
Per minimizzare l’impatto delle verifiche sulla riservatezza individuale, si è poi espressamente esclusa la registrazione, da parte dei soggetti verificatori, dei dati dell'intestatario della certificazione (art. 13, c.5, d.P.C.M. 17 giugno 2021). La circolare del Ministero dell’interno del 10 agosto 2021 ha, peraltro, chiarito che l’identificazione dell’intestatario del green pass, attraverso il raffronto con il documento identificativo, ai sensi dell’art. 13, c.4, del d.P.C.M. 17 giugno, non deve intendersi come sistematica ma va svolta su base discrezionale e, in particolare, nei casi di manifesta incongruenza con i dati anagrafici contenuti nella certificazione.
Un ulteriore elemento comune ai vari settori (e, in linea generale, a tutti gli ambiti applicativi delle certificazioni verdi) è l’esclusione dell’obbligo di possesso del pass per i soggetti esenti dalla campagna vaccinale in ragione di controindicazioni cliniche rispetto alla somministrazione del vaccino (art. 9-bis, c.3; 9-quinquies, c.3; 9-sexies, c. 7, 9-septies, c. 3, d.l. 52).
Non è stata, tuttavia, ancora attuata (con dPCM) la disciplina di carattere tecnico per la gestione digitale delle certificazioni di esenzione. Tale lacuna determina la proroga dell’utilizzo (concepito come transitorio) delle attestazioni cartacee, per le quali la circolare del 4 agosto 2021 del Ministero della salute esclude, doverosamente, la possibilità d’indicazione della motivazione clinica dell’esenzione. Tuttavia, anche questo accorgimento non rende le certificazioni cartacee di esenzione del tutto equivalenti, in termini di garanzie, a quelle digitali e soprattutto al green pass, dal momento che presuppone comunque la rivelazione a terzi di un dato sanitario quale quello dell’incompatibilità con il vaccino, per ragioni cliniche.
Il certificato digitale dovrebbe, invece, essere concepito come l’equivalente del green pass, dunque con un qr code che, senza rivelare la condizione di esenzione del soggetto, semplicemente ne “documenti” il diritto all’accesso ai luoghi soggetti a restrizione. Questo, almeno nella misura in cui per i soggetti esenti non è previsto l’obbligo di tampone, come rileva l’audizione del prof. Boscati dinanzi alla 1^ Commissione del Senato.
3. Il green pass quale requisito per l’accesso dei magistrati agli uffici giudiziari
L’articolo 9-sexies del d.l. 52 del 2021, introdotto dall’articolo e d.l. 127 del 2021, dispone che dal 15 ottobre fino al 31 dicembre 2021 (termine di cessazione dello stato di emergenza), i magistrati ordinari, amministrativi, contabili, militari e onorari[2], nonché i componenti delle commissioni tributarie non possono accedere agli uffici giudiziari, ove svolgono la loro attività lavorativa se non possiedono e, su richiesta, non esibiscono la certificazione verde COVID-19. Rispetto alla formulazione utilizzata dagli articoli 9-quinquies e 9-septies, quella in esame si differenzia per la previsione “in negativo”, non già di un obbligo di possesso (della certificazione verde), quale condizione per l’accesso al luogo di lavoro, ma di divieto di accesso in assenza del green pass.
L’obbligo di possesso ed esibizione del green pass non si applica ai soggetti esenti dalla campagna vaccinale sulla base della certificazione medica di cui si è detto.
Il comma 2 dispone le medesime conseguenze già illustrate per le altre categorie di lavoratori, in caso di carenza o mancata esibizione della certificazione, ovvero la qualificazione dell’assenza come ingiustificata, con diritto alla conservazione del rapporto di lavoro e sospensione della retribuzione (o altro compenso o emolumento, comunque denominati).
Diversamente da quanto previsto per il lavoro pubblico e privato, per i magistrati non è previsto che l’assenza dovuta a carenza di green pass non comporti sanzioni disciplinari. La ragione di tale mancata previsione potrebbe ricondursi alla tipicità degli illeciti disciplinari dei magistrati (segnatamente, degli ordinari), che non contemplano l’ipotesi (prevista invece dagli altri codici disciplinari) dell’assenza ingiustificata. Ma anche non volendo accedere a tale interpretazione, ritenere che tale mancata previsione comporti, di per sé sola, l’applicabilità di sanzioni disciplinari nei confronti dei magistrati impossibilitati ad accedere agli uffici giudiziari per carenza di green pass sarebbe del tutto irragionevole e, peraltro, contrastante con l’espressa qualificazione (art. 9-sexies, c.3) dell’accesso senza green pass come illecito disciplinare. Tale disparità di trattamento rispetto agli altri lavoratori non avrebbe, infatti, giustificazione alcuna, considerando anche che l’esclusione di conseguenze disciplinari in caso di assenza da carenza di green pass è motivata dall’esigenza di non penalizzare, ulteriormente, la posizione di quanti abbiano scelto di non vaccinarsi.
In ogni caso, in sede di conversione del decreto-legge questo aspetto potrebbe essere ulteriormente precisato, al fine di escludere ogni possibile dubbio interpretativo.
La verifica del rispetto di tali obblighi spetta ai responsabili della sicurezza interna degli uffici (il Procuratore generale presso la Corte d'appello[3] per la giustizia ordinaria), con possibilità di delega (a soggetti che peraltro, sotto il profilo privacy, dovranno essere designati come specificamente autorizzati ai sensi degli articoli 29 del Regolamento 2016/679 (UE) e 2-quaterdecies del d.lgs. 196 del 2003 e s.m.i.).
Le verifiche delle certificazioni verdi COVID-19 sono effettuate con le modalità di cui al comma 5 dell’articolo 9-quinquies ovvero con le già illustrate garanzie previste dal d.P.C.M. 17 giugno 2021 (mediante lettura del solo qr-code con l’app ufficiale, senza registrazione dei dati). Ulteriori modalità di verifica potranno, tuttavia, essere stabilite con circolare del Ministero della giustizia. Sul punto, va osservato come tali modalità ulteriori non potranno determinare una regressione in termini di garanzie (anche) sotto il profilo privacy[4]: presupposto necessario anche per evitare un’indebita rivelazione a terzi della condizione sanitaria o, comunque, delle scelte di profilassi vaccinale del soggetto e, quindi, anche per contrastare il rischio di discriminazioni.
La circolare ben potrà determinare, invece, le modalità organizzative di effettuazione dei controlli, che potranno essere anche a campione (art. 9-sexies, c.5, penultimo periodo, nella parte in cui rinvia al comma 5 dell’articolo 9-quinquies) individuando, dunque, anche i criteri in base ai quali formare i campioni stessi.
L’accesso dei magistrati agli uffici giudiziari in assenza di green pass è qualificato come illecito disciplinare, sanzionato per i magistrati ordinari ai sensi dell’articolo 12, comma 1, del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109 e per quelli appartenenti alle altre giurisdizioni secondo i rispettivi ordinamenti di appartenenza. Si prevede, inoltre, che il verbale di accertamento della violazione sia trasmesso senza ritardo al titolare dell’azione disciplinare.
L'accesso agli uffici giudiziari in violazione dell’obbligo di possesso del green pass e la violazione degli obblighi di controllo integrano gli estremi di un illecito amministrativo, sanzionato con sanzione amministrativa pecuniaria, irrogata dal Prefetto.
Una soluzione, questa, che potrebbe presentare aspetti delicati, se si considera che proprio l’attribuzione al Procuratore generale presso la Corte d'appello delle funzioni di controllo del rispetto della sicurezza interna degli uffici e, per quanto qui interessa, dei poteri di verifica sull’assenza di green pass risponde allo scopo di garantire l’autonomia della magistratura rispetto ad ingerenze di autorità esterne.
Il comma 8 dell’articolo 9-sexies esclude espressamente l’obbligo di green pass per l’accesso agli uffici giudiziari da parte dei soggetti diversi dai magistrati, anche onorari, ivi inclusi gli avvocati e gli altri difensori, i consulenti, i periti e gli altri ausiliari del magistrato estranei alle amministrazioni della giustizia, i testimoni e le parti del processo.
Come rileva la relazione illustrativa, tale esclusione muove "dall’esigenza di chiarire che l’intervento intende regolare solo il rapporto tra l’amministrazione e i suoi dipendenti, al più con estensione per chi in favore della stessa svolge un’attività analoga a titolo onorario". L’esclusione potrebbe, prima facie, apparire irragionevole, nella misura in cui, imponendo l’obbligo di possesso del green pass soltanto a una parte di coloro che frequentano abitualmente gli uffici giudiziari senza alcun tipo di restrizione ad ogni altro (eccezion fatta per il personale amministrativo, soggetto agli obblighi di cui all’articolo 9-quinquies), è idonea a depotenziare la finalità di contenimento dei contagi perseguita dalla misura.
Tale esclusione (probabilmente fondata anche sulla caratterizzazione della normativa in esame come volta a disciplinare in via principale la posizione dei dipendenti delle diverse strutture e non dei fruitori del servizio) ha, tuttavia, una sua ragione tutt’altro che trascurabile, legata all’esigenza di evitare che l’eventuale impossibilità di accesso per testimoni, consulenti, difensori e persino per le stesse parti processuali determini conseguenze processuali pregiudizievoli, con il rischio di una vera e propria paralisi dell’attività giudiziaria.
Meno ragionevole, tuttavia, appare la mancata ricomprensione, tra i soggetti obbligati, dei giudici popolari, i quali pure partecipano, come recita l’art. 102 Cost., all’amministrazione della giustizia, ma che non possono rientrare nella categoria dei magistrati come definita al comma 1 dell’art. 9-sexies, né nella categoria della magistratura onoraria. Su questo aspetto il legislatore, in sede di conversione, potrà probabilmente fornire qualche precisazione.
Per altro verso, essendo il possesso del green pass configurato quale condizione per l’accesso, da parte dei magistrati, agli uffici giudiziari, esso non potrà estendersi in via interpretativa a fattispecie diverse quali, ad esempio, l’accesso ad altri luoghi ove essi svolgano, sia pur temporaneamente, le proprie funzioni (si pensi, ad esempio, al carcere per le convalide di arresti o fermi o per le attività proprie del magistrato di sorveglianza). In quanto obbligo straordinario, di carattere eccezionale (oltre che temporaneo) esso non può, infatti, che essere di stretta interpretazione.
Per quanto ragionevole in un contesto di perdurante emergenza pandemica, infatti, il divieto di accesso dei magistrati privi di green pass agli uffici giudiziari configura sostanzialmente una sia pur peculiare sospensione dal servizio, che come noto l’art. 107 Cost. subordina alla previa deliberazione dell’Organo di governo autonomo, “per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dall’ordinamento giudiziario”.
La previsione, con norma di legge ordinaria, di quella che in effetti appare una specifica ipotesi di sospensione dal servizio (seppure conseguente al mancato adempimento dell’obbligo del magistrato di dotarsi del certificato abilitativo conseguibile agevolmente da chiunque), senza il coinvolgimento del CSM, si fonda sulla cogenza delle esigenze di sanità pubblica tuttora sussistenti. Esigenze che hanno legittimato, del resto, analoga previsione anche per i titolari di cariche elettive negli organi costituzionali, sulla base di disposizioni dagli stessi adottate nell’esercizio della loro autonomia. Se si considera che, per i parlamentari, l’assenza di green pass potrebbe determinare- ove le delibere camerali confermassero le anticipazioni- l’impossibilità d’ingresso in Aula, con conseguente mancato esercizio del diritto di voto e delle altre prerogative connesse alla funzione, si comprende dunque quanto il fine di contenimento dei contagi, perseguito con misure quali, appunto, il green pass in primo luogo, assuma nel contesto attuale un ruolo davvero preminente.
*dirigente del Garante per la protezione dei dati personali. Le opinioni contenute in questo contributo sono espresse a titolo esclusivamente personale e non impegnano, in alcun modo, l’Autorità
[1] I. MASSA PINTO, Volete la libertà? Eccola, pubblicato il 3 agosto 2021 sulla Rivista on line di Questione giustizia; v. anche N. ROSSI, Venerdì 6 agosto 2021. Esordisce la certificazione verde, in Questione giustizia, 6.8.21. Circa l’onerosità economica della sottoposizione a tampone per i soggetti non vaccinati cfr. audizione del prof. Boscati dinanzi alla 1^ Commissione del Senato in data 6 ottobre 2021, che si chiede se non si tratti, in tal caso, di monetizzazione dell’esercizio di una libertà.
[2] Ai quali le norme sulle sanzioni da irrogarsi in caso di accesso in violazione degli obblighi e sulle conseguenze del mancato possesso del green pass si applicano “in quanto compatibili”.
[3] Individuato dal decreto del Ministero di grazia e giustizia del 28 ottobre 1993 quale autorità competente ad adottare i provvedimenti per la sicurezza interna delle strutture in cui si svolge l'attività giudiziaria
[4] Cfr. memoria del Presidente del Garante per la protezione dei dati personali depositata in 1^ Commissione del Senato il 5 ottobre 2021, nell’ambito delle audizioni sul ddl AS 2394.
Ancora in tema di obbligatorietà del vaccino contro il Covid-19 e della responsabilità per la sua mancata introduzione
di Antonio Ruggeri
Sommario: 1. Perché è necessario ed urgente prevedere il carattere obbligatorio della vaccinazione contro il Covid-19 - 2. Perché lo Stato può essere chiamato a responsabilità per risarcimento dei danni conseguenti alla omessa adozione di una legge che, imponendo il carattere doveroso della vaccinazione, possa efficacemente arginare la diffusione del virus e con essa fugare il rischio di porre limiti stringenti per i diritti costituzionali, quali quelli che conseguirebbero alla qualificazione come “rossa” di una determinata porzione del territorio nazionale.
1. Perché è necessario ed urgente prevedere il carattere obbligatorio della vaccinazione contro il Covid-19
Avverto subito che la succinta riflessione che mi accingo a svolgere potrebbe, ad una prima (ma erronea) impressione, apparire viziata da un certo astrattismo o, diciamo pure, da palese ingenuità. Mi auguro, tuttavia, che così non sia; ed è con quest’animo che ora la rendo pubblica, precisando di considerarla una sorta di aggiunta, a mo’ di post scriptum, fatta ad altra riflessione svolta di recente in cui ho provato ad argomentare la tesi favorevole alla obbligatorietà del vaccino contro la pandemia ad oggi in corso ed alla necessità di stabilire siffatto carattere con la massima urgenza, non foss’altro che per il fatto che la misura qui nuovamente patrocinata produrrebbe l’effetto sicuro di abbattere in significativa misura i contagi e, per ciò stesso, di circoscrivere i danni anche permanenti alla salute ad esso conseguenti e – ciò che più importa – di evitare il sacrificio di non poche vite umane[1].
Che la questione ora nuovamente discussa possa presentare carattere teorico-astratto appare avvalorato dalla circostanza che la stessa non risulta iscritta tra quelle presenti nell’agenda del Governo, sulle quali il dibattito politico è animato non soltanto tra maggioranza ed opposizione ma anche tra i partiti componenti la prima[2]. Dal mio canto, confesso di non farmi soverchie illusioni che la misura qui caldeggiata possa farsi largo, traducendosi quindi in un testo di legge che la faccia propria, connotata da un pugno di indicazioni essenziali concernenti, per un verso, le sanzioni (a mia opinione, severe, anche di natura penale) per coloro che si sottraggono all’obbligo in parola e, per un altro verso, le categorie di persone che, per motivi acclarati di salute o di età, non possono andarvi soggette. È pur vero, poi, che, portandosi viepiù in avanti la campagna vaccinale, la misura suddetta, che a mia opinione avrebbe dovuto già da tempo essere stabilita, parrebbe perdere viepiù di significato. Un argomento, questo, però inconsistente, sol che si consideri la velocità con cui il virus si riproduce, dando vita a varianti sempre più insidiose ed invasive, nonché la circostanza per cui il vaccino costituisce la più efficace risorsa di cui disponiamo per contenere l’avanzata, altrimenti inarrestabile, della pandemia, con ciò che ne consegue in termini di vite umane spezzate a causa della malattia.
Basterebbe già solo quest’ultimo rilievo per avvalorare – a me pare – la tesi nella quale fermamente mi riconosco; basterebbe, insomma, far salva anche una sola vita umana in più di quelle che altrimenti andrebbero perse a causa della mancata adozione della misura qui caldeggiata per chiudere una buona volta la discussione sul punto, superando ogni residua esitazione che pure potrebbe legarsi, per un verso, ad una malintesa ed esasperata accezione del principio di autodeterminazione della persona umana[3] e, per un altro verso, ai rischi ai quali si va incontro per effetto della sottoposizione al vaccino. Rischi che, poi, come si sa, pur sempre sussistono in relazione non soltanto ad ogni vaccinazione[4] ma, in generale, ad ogni assunzione di farmaci, anche di quelli di uso comune (basterebbe rammentare cosa sta scritto nei “bugiardini” presenti in ogni confezione di medicinali…). Ad ogni buon conto, la mera eventualità che si abbiano effetti negativi conseguenti alla somministrazione del vaccino e suscettibili di manifestarsi anche a distanza di anni non regge di certo il confronto con i sicuri benefici per la salute e la vita di innumerevoli persone discendenti dalla somministrazione stessa; ed è perciò singolare che pur non sprovveduti autori seguitino stancamente a prospettare il primo argomento, quasi che meriti maggiore considerazione del secondo[5].
2. Perché lo Stato può essere chiamato a responsabilità per risarcimento dei danni conseguenti alla omessa adozione di una legge che, imponendo il carattere doveroso della vaccinazione, possa efficacemente arginare la diffusione del virus e con essa fugare il rischio di porre limiti stringenti per i diritti costituzionali, quali quelli che conseguirebbero alla qualificazione come “rossa” di una determinata porzione del territorio nazionale
Desidero ora dire da dove nasce la sollecitazione che mi è venuta a tornare a discorrere di un tema che per vero mi ero ripromesso di non riprendere più, dopo averne trattato a più riprese. Ebbene, l’idea mi è balzata subito in mente ascoltando lo sfogo, misto di rabbia e di amarezza, di un piccolo operatore nel campo della ristorazione che, incontrandomi pochi giorni addietro e conoscendomi quale studioso di diritto costituzionale, mi ha fatto una domanda a bruciapelo che mi ha lasciato francamente interdetto. Mi ha chiesto, infatti, se è rispettosa dei principi di eguaglianza e di giustizia sociale, riconosciuti dalla Carta, la circostanza per cui lui, la sua famiglia e la cerchia dei suoi parenti si erano tutti sottoposti al vaccino, in adempimento – parole sue – di un “obbligo morale”, secondo l’insegnamento del Presidente Mattarella, e, ciononostante, il paese nel quale vive ed opera rischia di essere qualificato come “rosso” a causa della colpevole negligenza di molti abitanti (non vaccinatisi), nonché dei comportamenti scorretti diffusamente adottati (per il mancato o l’improprio utilizzo della mascherina e la inosservanza del canone relativo al distanziamento interpersonale). Di qui, poi, la domanda cruciale, che mi ha indotto a stendere le brevi note che vado ora rappresentando: “ma se io resto sul lastrico, perché obbligato nuovamente a chiudere il mio esercizio commerciale, o, peggio, se vengo ugualmente contagiato da chi posso pretendere di essere risarcito per il danno subìto?”.
Qui è, dunque, il cuore della questione ora discussa.
Di certo, non è possibile, a mia opinione, avanzare la richiesta in parola nei riguardi della persona responsabile del contagio, salvo ovviamente il caso che essa sia nota e che, sapendo di essere affetta dal virus, non abbia rispettato le regole relative al proprio isolamento. Il più delle volte, però, non si ha la certezza circa il modo con cui il virus stesso è stato trasmesso, specie se si considera che, anche grazie all’avanzata della campagna vaccinale, non pochi sono i soggetti totalmente asintomatici. D’altronde, tranne che per alcuni ambienti, come quelli di lavoro, non c’è ad oggi alcun obbligo di sottoporsi a controlli periodici al fine di verificare se si è, o no, portatori del virus; lo stesso certificato vaccinale, seppur richiesto in casi progressivamente crescenti, non va di necessità esibito in alcuni ambienti sociali, difettando ad oggi un obbligo di vaccinazione a tappeto per l’intera popolazione, con le sole eccezioni dei soggetti che non possono soggiacervi per motivi di salute o di età (ma la soglia per quest’ultima, verosimilmente, sarà via via abbassata, prevedibilmente anche in tempi brevi).
Ebbene, a mio modo di vedere, l’istanza di risarcimento può essere avanzata nei riguardi dello Stato, proprio per aver omesso di stabilire la obbligatorietà del vaccino (con le sole eccezioni appena indicate), una volta che si assuma in partenza che, nel presente contesto, la Costituzione (non semplicemente facultizza ma di più) impone l’adozione della misura in parola[6].
So bene qual è il modo con cui la dottrina ad oggi pressoché unanime qualifica le omissioni del legislatore, non a caso distinte in assolute e relative, facendosi notare che avverso le prime non vi sarebbe rimedio che valga, non potendosi di certo obbligare manu militari i rappresentanti in Parlamento a varare una legge ed a dotarla di certi contenuti (e non altri) laddove restino totalmente inerti e manifestino una irresistibile vocazione a non risvegliarsi dal loro letargo[7]. Diverso discorso – come si sa – è da fare per le seconde, a riguardo delle quali mi limito qui solo a far notare che il limite delle classiche “rime obbligate” di crisafulliana memoria, ancora fino a poco tempo addietro giudicato invalicabile[8], è stato più volte messo disinvoltamente da canto dallo stesso massimo garante della legalità costituzionale, preoccupato di dare una qualche tutela – costi quel che costi[9] – ai diritti costituzionali negletti a causa delle gravi carenze esibite dai testi di legge. Com’è stato efficacemente rilevato da una sensibile studiosa[10], si è ormai trapassati dalle “rime obbligate” ai “versi sciolti”, mentre dal suo canto un autorevole studioso e giudice costituzionale[11] ha discorso di un “progressivo commiato dal teorema delle ‘rime obbligate’”. Insomma, stabilire cosa resta tanto teoricamente quanto praticamente dell’antica discrezionalità del legislatore, pure fatta oggetto di oscillanti e non di rado discordanti applicazioni giurisprudenziali[12], è cosa – temo – impossibile, sia pure in modo largamente approssimativo.
Ora, a me pare difficile argomentare l’idea che la mancata prescrizione a tappeto dell’obbligo vaccinale rientrerebbe tra le omissioni relative, sì da poter coltivare la speranza che la disciplina in atto vigente, nella parte in cui contiene la prescrizione stessa limitatamente ad alcune categorie di persone, possa un domani essere caducata nella parte in cui non prevede il carattere erga omnes dell’obbligo in parola[13]. Malgrado la più recente giurisprudenza costituzionale (specie da Cappato in avanti) offra numerose testimonianze di una viepiù ardita (o, forse meglio, temeraria) intraprendenza della Consulta, la manipolazione qui astrattamente ipotizzata sarebbe francamente eccessiva; e non credo, d’altronde, che la stessa Corte possa rendersi disponibile a gravarsi di una responsabilità, morale e politica allo stesso tempo, di sì elevata portata, specie davanti ad una pubblica opinione in seno alla quale è assai agguerrito il fronte dei c.d. “no vax”, tanto da abbandonarsi – com’è noto – a manifestazioni, anche recentissime, inqualificabili (se non penalmente) pur di far valere a forza il proprio punto di vista. Si aggiunga che vi è poi una porzione ad oggi alquanto consistente di persone che non sanno decidersi se vaccinarsi, o no[14], come pure si hanno non poche persone che hanno perseguito a freddo il disegno di lasciare ad altri il compito di esporsi per raggiungere la c.d. immunità di gregge, ricevendone quindi in un momento successivo i conseguenti benefici[15], in applicazione della “logica” perversa mirabilmente racchiusa nel noto detto “armiamoci e partite” reso famoso da un accreditato poeta ravennate[16].
Il vero è che la responsabilità in parola devono assumersela i decisori politici, nelle sedi e con le forme allo scopo costituzionalmente stabilite.
Ora, è noto che da noi i meccanismi previsti per far valere la responsabilità in parola sul piano politico-istituzionale si sono inceppati da tempo o, diciamo pure, non hanno mai funzionato a dovere: indice eloquente, particolarmente attendibile, della felice intuizione di un’accreditata dottrina[17] che, già da tempo, ha messo in chiaro con puntuali argomenti come nella “crisi del rappresentante” si specchi fedelmente una ben più grave ed inquietante “crisi del rappresentato” per il cui superamento temo che la ricetta giusta non sia ancora stata inventata[18].
Si dà, tuttavia, un modo – a me pare – efficace per smuovere il legislatore dal suo annoso letargo; ed è quello di obbligare lo Stato a mettere mano al portafoglio per risarcire il danno causato dalla mancata adozione di testi di legge, laddove sia ormai acclarata la loro doverosa approvazione, come pure sia provato che il danno stesso consegue in modo immediato e diretto alla colpevole inerzia del legislatore. È questa una proposta affacciata da qualche anno a questa parte da una sensibile e coraggiosa dottrina[19], che in tempi non sospetti (perché non ancora gravati dalla cappa soffocante del Covid-19) ho qualificato meritevole di considerazione[20] e che ha quindi ricevuto ulteriori adesioni[21], senza che nondimeno ad oggi abbia trovato terreno fertile per crescere e farsi valere.
Ora, è pur vero che lo Stato potrebbe un domani essere citato in giudizio pur dopo aver introdotto l’obbligo vaccinale in parola, ed anzi proprio per il fatto di averlo stabilito. D’altronde, circola da tempo l’idea, seppur non sempre esplicitata, che una delle ragioni che hanno finora trattenuto lo Stato dall’imporre (con le sole eccezioni poc’anzi accennate) la vaccinazione a tappeto si leghi proprio al timore di essere chiamato a risarcire i danni conseguenti a vaccinazioni legislativamente imposte[22]. Francamente, mi parrebbe un argomento frutto di un calcolo cinico che non mi parrebbe meritevole di alcuna considerazione. A stare però all’ordine di idee nel quale questa riflessione si dispone, assai più oneroso per lo Stato è dover far fronte alle richieste di risarcimento per danni che possono venire da tutti coloro che, pur essendosi diligentemente sottoposti alla vaccinazione, dimostrando così non solo attenzione per la propria salute e quella altrui ma anche spiccato senso civico, vadano poi ugualmente incontro a seri problemi di salute o si trovino sul lastrico a causa della negligenza di coloro che non rispettano le regole anti-Covid e – ciò che più importa – della omessa imposizione della obbligatorietà del vaccino cui pure si deve – come si è venuti dicendo – la qualificazione come “rosso” del territorio in cui vivono ed operano.
Insomma, calcolo per calcolo – ad usare un linguaggio franco e duro – non so se convenga di più allo Stato correre il rischio di una class action esercitata da migliaia di operatori ed avente come sua causa efficiente la indebita omissione legislativa di cui qui si è discorso o l’altro di poter essere citato in giudizio da un numero estremamente esiguo di persone che abbiano patito un danno per essersi sottoposti al vaccino, sempre che – come si diceva – siano in grado di dimostrare la sussistenza di un rapporto di causa-effetto tra questo e quello.
Ma, il vero è che la questione qui nuovamente trattata non può essere di certo impostata e risolta in modo adeguato sul terreno economico, alla luce di un mero, meschino calcolo di spesa conseguente all’una ovvero all’altra scelta. Quando è in ballo la salute e la vita stessa delle persone, è questo il punto obbligato, primario, di riferimento, davanti al quale ogni altro ha da essere posposto, così come d’altronde si è fatto quando si è presa la scelta sofferta di chiudere tutte le attività produttive impossibilitate a svolgersi via remoto, imponendo il distanziamento interpersonale e le altre misure rese necessarie dalla diffusione inarrestabile della epidemia.
Il vero è che finora si è preferito stare alla finestra e confidare sulla spontanea sottoposizione al vaccino di una larga fascia del corpo sociale[23], senza introdurre una misura che avrebbe ulteriormente esasperato gli animi e causato una grave frattura in seno al corpo stesso. Una soluzione pilatesca, questa, che purtroppo ha avuto un suo costo sicuro, anche se non puntualmente calcolabile, in termini di vite umane perdute. E però se vogliamo coltivare una pur pallida speranza che il virus non diventi endemico e, comunque, che sia efficacemente contrastato nella sua rapida ed incontrollata diffusione, una sola è la via maestra da battere senza esitazione alcuna: quella di obbligare anche gli incerti o i riottosi a vaccinarsi, sì da mettere così al riparo se stessi e gli altri, arginando allo stesso tempo uno sfilacciamento del tessuto produttivo del Paese già messo a dura prova sin da quando la pandemia ha iniziato a manifestarsi in tutta la sua formidabile virulenza.
[1] Maggiori ragguagli sul punto nel mio Perché la Costituzione impone, nella presente congiuntura, di introdurre l’obbligo della vaccinazione a tappeto contro il Covid-19, in Giust. ins. (www.giustiziainsieme.it), 15 settembre 2021. Avevo, peraltro, già trattato della questione nel mio La vaccinazione contro il Covid-19 tra autodeterminazione e solidarietà, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 2/2021, 22 maggio 2021, 170 ss.
[2] … specie in conseguenza dell’andamento non lineare ma a zig zag della politica della Lega, in relazione a non poche questioni di cruciale rilievo schieratasi più dalla parte di chi sta all’opposizione che di chi sorregge con lealtà il Governo.
[3] … a riguardo del quale, oltre al mio scritto sopra cit. che espressamente lo evoca già nel titolo, v., in termini generali, la mia voce Autodeterminazione (principio di), in Digesto/Disc. Pubbl., VIII Agg. (2021), 1 ss.
[4] … stranamente lasciate tutte miracolosamente esenti da polemiche e contestazioni, tranne appunto questa.
[5] V. quanto ne dicono al riguardo A. Mangia, Si caelum digito tetigeris. Osservazioni sulla legittimità costituzionale degli obblighi vaccinali, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 3/2021, 9 settembre 2021, spec. 443 ss., e A.R. Vitale, Del green pass, delle reazioni avverse ai vaccini e di altre cianfrusaglie pandemiche come problemi biogiuridici: elementi per una riflessione, in Giust. ins. (www.giustiziainsieme.it), 15 settembre 2021, spec. § 2.
[6] È questa, appunto, la tesi che mi sono sforzato di argomentare nel primo dei miei scritti sopra già richiamati.
[7] Degli sforzi, da noi come altrove, prodotti al fine di porre riparo alle omissioni in parola riferiscono, di recente, AA.VV., I giudici costituzionali e le omissioni del legislatore. Le tradizioni europee e l’esperienza latino-americana, a cura di L. Cassetti e A.S. Bruno, Giappichelli, Torino 2019.
[8] … per quanto, poi, a conti fatti soggetto ad imprevedibili e non di rado incoerenti apprezzamenti politico-discrezionali del giudice delle leggi, al quale è pur sempre rimasto in ultima istanza demandato di stabilire se esso sussista, o no, nei singoli casi.
[9] … pur, dunque, laddove dovesse aversene il sacrificio del principio della separazione dei poteri e, per ciò, lo smarrimento della tipicità dei ruoli istituzionali, la cui salvaguardia fa però, a mia opinione, tutt’uno con la garanzia dei diritti fondamentali, nei cui riguardi il principio suddetto è disposto in funzione servente.
[10] D. Tega, La Corte nel contesto. Percorsi di ri-accentramento della giustizia costituzionale in Italia, Bononia University Press, Bologna 2020, spec. 101 ss.
[11] F. Modugno, Le novità della giurisprudenza costituzionale, in Lo Stato, 14/2020, 101 ss., spec. 115.
[12] I non lineari sviluppi della giurisprudenza sul tema possono vedersi puntualmente rilevati in A. Spadaro, I limiti “strutturali” del sindacato di costituzionalità: le principali cause di inammissibilità della q.l.c., in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 4/2019, 26 novembre 2019, 154 ss.; v., inoltre, utilmente, C. Panzera, Esercizio sussidiario dei poteri processuali e discrezionalità legislativa nella recente giurisprudenza costituzionale, in Foro it., 3/2020, V, 127 ss., e T. Giovannetti, La Corte costituzionale e la discrezionalità del legislatore, in AA.VV., Rileggendo gli Aggiornamenti in tema di processo costituzionale (1987-2019). A Roberto Romboli dai suoi allievi, Giappichelli, Torino 2020, 19 ss. Più di recente, v., poi, L. Pace, L’adeguatezza della legge e gli automatismi. Il giudice delle leggi fra norma “astratta” e caso “concreto”, Editoriale Scientifica, Napoli 2020, 114 ss.
[13] L’esperienza complessivamente maturata in occasione dei giudizi sulle leggi, d’altronde, conferma che la estensione di una previsione legislativa riguardante una data categoria di persone si ha nei riguardi di un’altra dalla prima non dissimile ma non verso l’intera collettività.
[14] … persone pure difficilmente intercettabili, non disponendo di strumenti sicuri per indagini in interiore hominis; e così è pure per la categoria di cui si parla subito appresso nel testo.
[15] Si è, nondimeno, fatto opportunamente notare che dell’immunità in parola “tutti egualmente ne beneficiano se tutti vi contribuiscono” [Q. Camerlengo - L. Rampa, Solidarietà, doveri e obblighi nelle politiche vaccinali anti Covid-19, in Riv. AIC (www.rivistaaic.it), 3/2021, 30 giugno 2021, 210].
[16] Il riferimento – com’è chiaro – è ad O. Guerrini, che l’adoperò nella poesia Agli Eroissimi, inclusa nelle Rime di Argia Sbolenfi, opera data alla luce nel 1897 per i tipi del Premiato stabilimento successori Monti editore di Bologna, con lo pseudonimo di L. Stecchetti, rendendola quindi famosa. L’espressione appare, però, già nel 1891 del Nòvo dizionàrio universale della Lingua Italiana di P. Petrocchi (Fratelli Treves Editori di Milano) sotto il lemma “partire”.
[17] Ovvio il riferimento a M. Luciani, Il paradigma della rappresentanza di fronte alla crisi del rappresentato, in AA.VV., Percorsi e vicende attuali della rappresentanza e della responsabilità politica, a cura di N. Zanon - F. Biondi, Giuffrè, Milano 2001, 109 ss.
[18] Il vero è che – come si tentato di mostrare nel mio La democrazia: una risorsa preziosa e imperdibile ma anche un problema di ardua ed impegnativa soluzione, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 1/2021, 6 marzo 2021, 325 ss. – si rende necessaria allo scopo un’autentica palingenesi culturale riguardante la struttura stessa del corpo sociale, della quale nondimeno non si vede a tutt’oggi neppure l’inizio.
[19] R. Conti, Il rilievo della CEDU nel “diritto vivente”: in particolare il segno lasciato dalla giurisprudenza “convenzionale” nella giurisprudenza dei giudici comuni, in AA.VV., Crisi dello Stato nazionale, dialogo intergiurisprudenziale, tutela dei diritti fondamentali, a cura di L. D’Andrea - G. Moschella - A. Ruggeri - A. Saitta, Giappichelli, Torino 2015, 87 ss.
[20] … in Omissioni del legislatore e tutela giudiziaria dei diritti fondamentali, in Dir. fond. (www.dirittifondamentali.it), 1/2020, 24 gennaio 2020, 207 e ivi, in nt. 25, altri riferimenti.
[21] V., part., C. Masciotta, Costituzione e CEDU nell’evoluzione giurisprudenziale della sfera familiare, Firenze University Press, Firenze 2019, spec. 156 ss.
[22] Un’articolata riflessione sulle ragioni che hanno, verosimilmente, sconsigliato dal rendere obbligatoria la vaccinazione nel caso nostro può, di recente, vedersi in R. Romboli, Aspetti costituzionali della vaccinazione contro il Covid-19 come diritto, come obbligo e come onere (certificazione verde Covid-19), in Quest. giust. (www.questionegiustizia.it), 6 settembre 2021. V., inoltre, utilmente S. Curreri, Sulla costituzionalità dell’obbligo di vaccinazione contro il COVID-19, in La Cost.info (www.laCostituzione.info), 28 agosto 2021, nonché i contributi al forum Sulla vaccinazione in tempo di Covid-19, in Riv. Gruppo di Pisa (www.gruppodipisa.it), 2/2021, 257 ss.
[23] A quanto riferiscono i grandi mezzi di comunicazione di massa, da noi si sarebbe già raggiunta la soglia dell’80% dei vaccinati, ma non ancora appunto quella della immunità di gregge (che anzi, per alcuni, non sarebbe matematicamente raggiungibile).
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